dossier CAMBIO
DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere edilizie) - DEFINIZIONE |
art. 23-ter D.P.R. 06.06.2001 n. 380
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artt. 51, 51-bis, 52, 53 L.R. 11.03.2005 n. 12 |
anno 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: Sul
cambio di destinazione d’uso di un garage in locale abitativo.
a) il mutamento di destinazione d’uso
risulta sempre rilevante quando esso determini un incremento del carico
urbanistico, con la creazione di volumi e superfici abitabili, i quali,
ovviamente, incidono sugli standard, in quanto determinano un aggravio della
potenziale o effettiva presenza residenziale nel territorio;
b) la giurisprudenza, infatti, ha affermato che tutte le volte che
le modificazioni configurino un mutamento della destinazione d'uso, con
appesantimento, rilevabile e documentabile, dei carichi urbanistici o con
manifesto contrasto con i vigenti assetti urbanistici di zona, è necessaria
l'autorizzazione dell'Amministrazione, per l'elementare e basilare esigenza
collettiva di consentire all’ente locale di gestire in modo ordinato, equo e
proporzionato i carichi urbanistici complessivamente considerati;
c) come affermato dalla giurisprudenza appena richiamata, il cambio
di destinazione d’uso con aggravio del carico urbanistico è soggetto a
permesso di costruire, sicché l’adozione dell’ordine di demolizione
risultava nel caso di specie doverosa;
d) il generale potere di vigilanza del Comune sulle attività che
presentano rilievo urbanistico ed edilizio comprende anche l’accertamento
relativo all’acquisizione dei pareri, assensi o nulla-osta di competenza di
altre Amministrazioni (mentre resta ovviamente di competenza di tali
Amministrazioni la concreta decisione in ordine alla specifica richiesta
dell’interessato);
e) il carattere vincolato dei provvedimenti sanzionatori in materia
di abusi edilizi rende superflua la comunicazione di avvio del procedimento,
dal momento che -salvo ipotesi del tutto residuali- non è possibile alcun
utile apporto partecipativo dell’interessato, come pure risulta inutile una
specifica motivazione, risultando sufficiente l'individuazione degli abusi
commessi.
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In relazione all’ordinanza dirigenziale n. 60 in data 20.12.2018, con cui il
Comune ha contestato il cambio di destinazione d’uso di un garage in locale
abitativo -con modifica del prospetto e realizzazione di gradini in luogo di
una rampa- completo di impiantistica e rifiniture di tipo al civile,
ordinando la demolizione delle opere abusive, valgono, a giudizio della
Sezione, i seguenti rilievi:
a) la trasformazione di un locale non destinato a fini abitativi
può essere ben desunta dall’intervenuta effettuazione di interventi che
dimostrino in modo conducente la nuova destinazione, come dimostrato dal
fatto che è persino possibile il mutamento di destinazione in assenza di
opere;
b) nel caso di specie, le circostanze indicate dall’Amministrazione
e che risultano dalla documentazione fotografica versata in atti -presenza
di intonaci e pavimenti per civile abitazione, impianto elettrico per civile
abitazione (con prese, lampadari, applique, etc.), impianto di
climatizzazione, accesso tramite scalini da una strada non più carrabile e
realizzazione di un ingresso attraverso una porta ubicati in apposito
infisso di alluminio e vetri- appaiono del tutto risolutive e testimoniano
che il locale aveva perduto la sua originaria destinazione per essere
impiegato a fini abitativi;
c) ad ogni buon conto, a differenza di quanto era stato
autorizzato, il “garage” non è seminterrato, ma risulta
sostanzialmente al piano terreno, con creazione, quindi, di volumi e
superfici mai assentite dall’Amministrazione;
d) il mutamento di destinazione d’uso risulta sempre rilevante
quando esso determini un incremento del carico urbanistico, con la creazione
di volumi e superfici abitabili, i quali, ovviamente, incidono sugli
standard, in quanto determinano un aggravio della potenziale o effettiva
presenza residenziale nel territorio;
e) la giurisprudenza, infatti, ha affermato che tutte le volte che
le modificazioni configurino un mutamento della destinazione d'uso, con
appesantimento, rilevabile e documentabile, dei carichi urbanistici o con
manifesto contrasto con i vigenti assetti urbanistici di zona, è necessaria
l'autorizzazione dell'Amministrazione, per l'elementare e basilare esigenza
collettiva di consentire all’ente locale di gestire in modo ordinato, equo e
proporzionato i carichi urbanistici complessivamente considerati (Consiglio
di Stato, II, n. 3546/2003; TAR Campania, Napoli, Sezione III, 06.04.2021,
n. 2250; TAR Campania, Salerno, Sezione II, 15.03.2021, n. 658; TAR
Campania, Napoli, VII, n. 1496/2020; Consiglio di Stato, Sezione II, n.
6948/2020; TAR Campania, Napoli, Sezione VI, sentenza n. 4999/2021, con
specifico riferimento al cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a
civile abitazione: sul punto, cfr. anche TAR Campania, Napoli, Sezione III,
03.01.2020, n. 31; TAR Liguria, Genova, Sezione I, 26.07.2017, n. 682;
Cassazione Penale, Sezione III, 05.04.2016, n. 26455; TAR Calabria,
Catanzaro, Sezione II, n. 1780/2019; TAR Lombardia, Milano, Sezione II, n.
1040/2021);
f) come affermato dalla giurisprudenza appena richiamata, il cambio
di destinazione d’uso con aggravio del carico urbanistico è soggetto a
permesso di costruire, sicché l’adozione dell’ordine di demolizione
risultava nel caso di specie doverosa;
g) il generale potere di vigilanza del Comune sulle attività che
presentano rilievo urbanistico ed edilizio comprende anche l’accertamento
relativo all’acquisizione dei pareri, assensi o nulla-osta di competenza di
altre Amministrazioni (mentre resta ovviamente di competenza di tali
Amministrazioni la concreta decisione in ordine alla specifica richiesta
dell’interessato);
h) il carattere vincolato dei provvedimenti sanzionatori in materia
di abusi edilizi rende superflua la comunicazione di avvio del procedimento,
dal momento che -salvo ipotesi del tutto residuali- non è possibile alcun
utile apporto partecipativo dell’interessato, come pure risulta inutile una
specifica motivazione, risultando sufficiente l'individuazione degli abusi
commessi (sul punto, cfr., fra le più recenti, TAR Campania, Napoli, II, n.
2842/2020; TAR Campania, Napoli, III, n. 78/2020; TAR Campania, Napoli, VIII,
n. 4765/2020; TAR Liguria, Genova, I, n. 723/2019)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 10.11.2021 n. 3343 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
mutamento da cantina a civile abitazione.
In merito al cambio di destinazione d’uso la
giurisprudenza ha stabilito che il mutamento da cantina a civile abitazione
comportando il passaggio da una categoria urbanistica ad un’altra, rientra
tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso
di costruire.
Ancora si aggiunge che l’esecuzione di opere edilizie che incidano sulla
struttura di un edificio preesistente e ne comportino il mutamento di
destinazione d’uso va qualificata come ristrutturazione edilizia non già
come manutenzione straordinaria o risanamento conservativo.
Invero, ai sensi dell’art. 10 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, lett. c), le opere
di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se
consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente, e che comportino modifiche del volume, dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (ristrutturazione
edilizia).
È stato osservato, inoltre, che la trasformazione di una cantina in
abitazione sia una ristrutturazione edilizia, poiché la cantina e
l’abitazione hanno natura differente: pertinenziale la prima e di
unità immobiliare autonoma la seconda; la predetta trasformazione,
invero, comporta l’aumento un aumento delle unità immobiliari dell’edificio
e un conseguente aumento del carico urbanistico.
Sul punto, ai fini della distinzione tra ristrutturazione e manutenzione, è
determinante più che l’aspetto quantitativo quello qualitativo e, pertanto,
a prescindere dalla vastità delle opere, il cambiamento della destinazione
d’uso comporta ex se una ristrutturazione.
Si evidenzia peraltro che dal verbale della Polizia locale l’abitazione
risulta munita di cucina e servizi igienici. Sul punto è costante la
giurisprudenza amministrativa, per la quale l'esecuzione di opere, quali la
realizzazione di una cucina o di un bagno, idonee a mutare la destinazione
d'uso di un immobile, da cantina ad immobile adibito ad abitazione, comporta
l'obbligo del titolo edilizio abilitativo.
Di qui la legittimità dell'ordine di demolizione emanato a carico
dell'autore del cambio di destinazione d'uso realizzato con opere, in
assenza di titolo edilizio.
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Il ricorso è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti
considerazioni in fatto e in diritto.
Non è condivisibile la tesi del ricorrente sulla possibile abitabilità
dell’immobile: l’unità, per ricevere destinazione abitativa, non
risponderebbe in alcun modo ai requisiti minimi di altezza utile, fissata in
metri 2,70 come indicato in via inderogabile dal D.M. del 05.07.1975,
contenente le “Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20.06.1896
relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari
principali dei locali d'abitazione”.
In merito al cambio di destinazione d’uso la giurisprudenza ha stabilito che
il mutamento da cantina a civile abitazione comportando il passaggio da una
categoria urbanistica ad un’altra, rientra tra gli interventi edilizi per i
quali è necessario il rilascio del permesso di costruire (cfr. Tar Campania,
Napoli, sez. VI, 19.07.2021, n. 4999, sez. III, 03.01.2020, n. 3, Tar
Liguria-Genova, sez. I, 26/07/2017, n. 682; Cassazione penale, sez. III,
24/06/2016, n. 26455).
Ancora si aggiunge che l’esecuzione di opere edilizie che incidano sulla
struttura di un edificio preesistente e ne comportino il mutamento di
destinazione d’uso va qualificata come ristrutturazione edilizia non già
come manutenzione straordinaria o risanamento conservativo (v. TAR Liguria,
Sez. I, 08.02.2006 n. 103).
Invero, ai sensi dell’art. 10 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, lett. c), le opere
di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se
consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente, e che comportino modifiche del volume, dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (ristrutturazione
edilizia).
È stato osservato, inoltre, che la trasformazione di una cantina in
abitazione sia una ristrutturazione edilizia, poiché la cantina e
l’abitazione hanno natura differente: pertinenziale la prima e di
unità immobiliare autonoma la seconda; la predetta trasformazione,
invero, comporta l’aumento un aumento delle unità immobiliari dell’edificio
e un conseguente aumento del carico urbanistico.
Sul punto, ai fini della distinzione tra ristrutturazione e manutenzione, è
determinante più che l’aspetto quantitativo quello qualitativo e, pertanto,
a prescindere dalla vastità delle opere, il cambiamento della destinazione
d’uso comporta ex se una ristrutturazione (C.d.S sez. II, 24.03.2021,
n. 2493).
Si evidenzia peraltro che dal verbale della Polizia locale l’abitazione
risulta munita di cucina e servizi igienici. Sul punto è costante la
giurisprudenza amministrativa, per la quale l'esecuzione di opere, quali la
realizzazione di una cucina o di un bagno, idonee a mutare la destinazione
d'uso di un immobile, da cantina ad immobile adibito ad abitazione, comporta
l'obbligo del titolo edilizio abilitativo (cfr. C.d.S., sez. IV, 14.04.2006,
n. 2163; TAR Lazio, Roma, sez. I, 16.07.2009, n. 7030).
Di qui la legittimità dell'ordine di demolizione emanato a carico
dell'autore del cambio di destinazione d'uso realizzato con opere, in
assenza di titolo edilizio.
Alla luce delle argomentazioni esposte il ricorso va respinto siccome
infondato
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 09.11.2021 n. 268 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
«Ed invero, "l'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 individua i mutamenti
nella destinazione d'uso di un immobile da ritenere urbanisticamente
rilevanti e che pertanto necessitano di uno specifico titolo abilitativo
edilizio", sul presupposto
che "il mutamento di destinazione d'uso, anche solo funzionale, comporta un
aggravio di carico urbanistico (con la consequenziale necessità per
l'interessato di munirsi del titolo edilizio), quando implica un passaggio
tra categorie urbanisticamente differenti".
Peraltro, "In materia edilizia, l'aumento del
carico urbanistico di un immobile si verifica anche laddove, pur senza
mutare la sua destinazione, l'opera si presti a rendere la struttura un polo
di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di
più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti"».
«Ora, "La semplificazione delle attività, voluta dal legislatore, non si è
spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie
funzionali, le quali rimangono sostanzialmente non assimilabili anche in
caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della
scelta già operata con il D.M. n. 1444/1968... Da tale disciplina si desume
che,
- mentre il mutamento di destinazione d'uso senza opere non assume
rilevanza giuridica laddove non si verifichi un passaggio tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
- il mutamento di
destinazione d'uso (con o senza opere) è sottoposto al regime della denuncia
di inizio attività alla duplice condizione che:
i) non comporti alcuna
trasformazione dell'aspetto esteriore dell'edificio o un aumento dei volumi
e delle superfici esistenti;
ii) non determini un passaggio tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il
profilo della differenza del regime contributivo in ragione dei diversi
carichi urbanistici ai sensi degli artt. 3 e 5 del D.M. n. 1444/1968"».
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Il
caso in esame riguarda il cambio di destinazione d'uso rilevante tra
categorie diverse, per il quale (cfr. TAR Napoli, sez. III, 13/05/2020, n.
1750) «occorre fare riferimento al combinato disposto di cui all'art.
23-ter, comma 1, D.P.R. 380/2001 (aggiunto con D.L. 133/2014 conv. in L. n.
164/2014), e all'art. 32, comma 1, lettera a), del D.P.R. 380/2001 (TUE);
tale cambio d'uso incide, infatti, sul carico urbanistico senza ulteriori
accertamenti da compiere (D.M. 1444/1968)».
«Ed invero, "l'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 individua i mutamenti
nella destinazione d'uso di un immobile da ritenere urbanisticamente
rilevanti e che pertanto necessitano di uno specifico titolo abilitativo
edilizio" (TAR Puglia, Bari, sez. III, 02/03/2020, n. 345), sul presupposto
che "il mutamento di destinazione d'uso, anche solo funzionale, comporta un
aggravio di carico urbanistico (con la consequenziale necessità per
l'interessato di munirsi del titolo edilizio), quando implica un passaggio
tra categorie urbanisticamente differenti" (TAR, Toscana, Firenze, sez. III,
23/08/2019, n. 1210). Peraltro, "In materia edilizia, l'aumento del
carico urbanistico di un immobile si verifica anche laddove, pur senza
mutare la sua destinazione, l'opera si presti a rendere la struttura un polo
di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di
più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti" (Cons. di St., sez.
IV, 13/11/2018, n. 6388)».
«Ora, "La semplificazione delle attività, voluta dal legislatore, non si è
spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie
funzionali, le quali rimangono sostanzialmente non assimilabili anche in
caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della
scelta già operata con il D.M. n. 1444/1968... Da tale disciplina si desume
che, mentre il mutamento di destinazione d'uso senza opere non assume
rilevanza giuridica laddove non si verifichi un passaggio tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, il mutamento di
destinazione d'uso (con o senza opere) è sottoposto al regime della denuncia
di inizio attività alla duplice condizione che: i) non comporti alcuna
trasformazione dell'aspetto esteriore dell'edificio o un aumento dei volumi
e delle superfici esistenti; ii) non determini un passaggio tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il
profilo della differenza del regime contributivo in ragione dei diversi
carichi urbanistici ai sensi degli artt. 3 e 5 del D.M. n. 1444/1968" (TAR
Campania Napoli Sez. II, 15/10/2018, n. 5964; TAR, Campania, Napoli, sez.
VII, 06/11/2017, n. 5152)».
Appare evidente, ed è questo l’elemento che il Collegio ritiene dirimente,
che nel caso in esame l’utilizzo del capannone per l’uso produttivo di
autocarrozzeria serva ad alterare il carico urbanistico e, come tale,
richieda il titolo più garantista (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 11.10.2021 n. 3060 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile
abitazione, poiché comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad
un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il
rilascio del permesso di costruire.
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Attesa la necessità del rilascio del permesso di costruire e non già di una
mera SCIA, per il mutamento di destinazione di un locale da cantina-garage a
civile abitazione, deve ritenersi legittimo l’operato della P.A., cui si imponeva l’applicazione dell’art. 31 d.P.R. 380/2001, che, per
gli “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale
difformità o con variazioni essenziali”, si impone all’Amministrazione
di ingiungere al responsabile dell’abuso la relativa demolizione e il
ripristino dello status quo ante.
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La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in Pozzuoli, alla via ...,
n. 25, distinto al Catasto al Foglio n. 17, p.lla 873, sub 2, 3 e 4.
Il Comando VV.UU. del Comune di Pozzuoli trasmetteva al Dirigente della
Direzione 5 Protezione – Tutela e Sicurezza del Territorio Urbanistica ed
Edilizia la denuncia dell’11.04.2016 a carico della ricorrente, per aver
eseguito presso l’immobile opere abusive, consistenti nella trasformazione
del piano seminterrato della palazzina in civile abitazione, in assenza dei
necessari titoli abilitativi.
...
In merito al tipo di opere contestate, poi, va considerato come da costante
e condivisa giurisprudenza, "che il cambio di destinazione d'uso da
cantina-garage a civile abitazione, poiché comporta il passaggio da una
categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i
quali è necessario il rilascio del permesso di costruire” (TAR
Campania-Napoli, sez. III, 03/01/2020, n. 31; cfr. Tar Liguria-Genova, sez.
I, 26/07/2017, n. 682; Cassazione penale, sez. III, 24/06/2016, n. 26455).
...
Ancora la ricorrente si duole dell’applicazione da parte del Comune della
sanzione di cui all’art. 31 d.P.R. 380/2001, in luogo della più mite
sanzione di cui all’art. 37 del medesimo T.U., assumendo che le opere
abusivamente realizzate sarebbero assoggettate al regime edilizio della
SCIA.
Come detto sopra, attesa la necessità del rilascio del permesso di costruire
e non già di una mera SCIA, per il mutamento di destinazione di un locale da
cantina-garage a civile abitazione, deve ritenersi legittimo l’operato della
P.A., cui si imponeva l’applicazione dell’art. 31 d.P.R. 380/2001, che, per
gli “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale
difformità o con variazioni essenziali”, si impone all’Amministrazione
di ingiungere al responsabile dell’abuso la relativa demolizione e il
ripristino dello status quo ante
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 19.07.2021 n. 4999 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sull'illegittimità
della pretesa comunale del pagamento degli oo.uu. per cambio
della destinazione d'uso di una villa, senza opere, da
edificio scolastico a residenza (originaria).
Dalla disamina della documentazione versata in atti,
emerge che la villa, pur originariamente destinata a uso
residenziale dalle previsioni del P.R.G. comunale, è stata
in seguito adibita a edificio scolastico (i.e. scuola
materna statale), destinazione che è poi perdurata fino
all’anno 1995.
Ciò posto, occorre rammentare che il cambio destinazione
uso, anche se attuato senza la realizzazione di opere
edilizie, comporta l'obbligo di corrispondere al Comune il
contributo di costruzione di cui all'art. 16, D.P.R.
06.06.2001, n. 380, per la quota-parte commisurata agli
oneri di urbanizzazione ed in misura rapportata alla
differenza tra quanto dovuto per la nuova destinazione
rispetto a quella già in atto, allorquando la nuova
destinazione sia idonea a determinare un aumento
quantitativo e/o qualitativo del carico urbanistico della
zona, inteso come rapporto tra insediamenti e servizi.
In termini:
- “Gli oneri concessori, con particolare riguardo alla parte
correlata agli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria, hanno la chiara funzione di contribuire alle
spese da sostenere dalla collettività in riferimento alla
realizzazione delle relative opere, sicché l’unico criterio
per determinare se essi siano dovuti o meno e in che misura
consiste nel valutare il carico urbanistico derivante
dall’attività edilizia, con la precisazione che per aumento
del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di
dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto
l’esigenza di utilizzare più intensamente quelli esistenti;
- In linea di diritto, cioè, mentre la quota del contributo di
costruzione commisurata al costo di costruzione risulta
ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità
(superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve
alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il
recupero delle spese sostenute dalla collettività di
riferimento alla trasformazione del territorio consentita al
privato istante (ossia, a compensare la c.d.
compartecipazione comunale all’incremento di valore della
proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova
edificazione), la quota del contributo di costruzione
commisurata agli oneri di urbanizzazione «assolve alla
prioritaria funzione di compensare la collettività per il
nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla
zona, con la precisazione che per aumento del carico
urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare
l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza
di utilizzare più intensamente quelle già esistenti».
Il Collegio ritiene che, nel caso di specie, risulti
indimostrato che in dipendenza del mutamento della
destinazione d’uso impressa all’immobile, si sia determinato
a carico della zona di riferimento un aumento del carico
urbanistico, dovendosi, piuttosto, ritenere il contrario: ed
infatti, l’edificio, in precedenza adibito dapprima a scuola
materna e quindi a scuola superiore, è stato in seguito
convertito a uso residenziale di un unico nucleo familiare
di tre componenti.
E’ ragionevole ritenere che, nel mutamento, si sia
determinato un utilizzo di minore intensità delle opere di
urbanizzazione e delle infrastrutture a servizio della
collettività; in senso conforme è possibile richiamare un
precedente arresto di giurisprudenza reso in relazione a
fattispecie analoga:
- “Il passaggio dalla precedente destinazione direzionale a quella
residenziale non può che aver condotto a una consistente
diminuzione del carico urbanistico dell’immobile di
proprietà (..), inteso come peso sul tessuto urbano e sui
servizi di zona, a partire dal traffico veicolare e dalla
connessa necessità di disporre di parcheggi nelle aree
antistanti o prossime all'immobile: per questo profilo, è
infatti innegabile che la presenza nell’edificio di una
scuola privata che faceva registrare un afflusso giornaliero
di circa cento persone abbia un impatto superiore rispetto a
quella di due nuclei familiari. A fronte del sicuro
decremento di carico urbanistico determinato dal mutamento
di destinazione, non vi sono invece elementi obiettivi per
sostenere che l’asserita, contestuale divisione
dell’immobile stesso in due abitazioni giustifichi comunque
l’onerosità dell’intervento a causa delle sue ricadute sulle
dotazioni di standard urbanistici”.
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... per l'annullamento del provvedimento del Comune di San
Donà di Piave e ricavato dal così detto "Riepilogo del
Contributo di Costruzione" estratto in internet e di cui
alla nota 11.10.2010 n. 37034 e alla successiva nota
29.10.2010 n. 41509 con le quali il Comune di san Donà di
Piave ha quantificato, richiesto (e poi rateizzato)
l'importo complessivo di curo 32.355,36 al ricorrente a
titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria;
nonché di ogni atto annesso, connesso o presupposto.
...
FATTO
Con il ricorso introduttivo del
giudizio il Sig. Ci. ha dedotto di essere proprietario di
una villa nel territorio del Comune di San Donà di Piave
dichiarata di interesse storico-artistico con decreto del
18.11.2008.
Il ricorrente ha, inoltre, rappresentato di aver effettuato
un intervento di ripristino dell’edificio senza aumenti di
volume, in relazione al quale il Comune resistente gli ha
richiesto il pagamento di euro 32.355,36 a titolo di oneri
di urbanizzazione.
Avverso tale provvedimento il ricorrente ha articolato un
unico motivo di gravame: con esso si lamenta che il P.R.G.
comunale prevedrebbe la destinazione dell’immobile a uso
residenziale, di talché l’imposizione di oneri di
urbanizzazione per il cambio di destinazione d’uso sarebbe
sfornita di presupposto; il ripristino dell’originaria
destinazione d’uso effettuato dal Sig. Ci. non avrebbe,
peraltro, neppure implicato alcun aumento del carico
urbanistico rispetto alla destinazione che all’edificio era
stata impressa, in via di fatto, in epoca precedente.
Si è costituito in giudizio il Comune di San Donà di Piave,
deducendo che la villa del ricorrente sarebbe stata
utilizzata come edificio scolastico dal 1978 al 1995, tanto
che il ricorrente, dopo averla acquistata, aveva presentato
all’Amministrazione un progetto di restauro e risanamento
con cambio di destinazione d’uso: di conseguenza, l’ente
resistente ha chiesto il rigetto del ricorso.
All’udienza in data 27.05.2021, svoltasi da remoto con
modalità di video-collegamento, la causa è stata trattenuta
in decisione.
DIRITTO
Con il ricorso in disamina il Sig. Ci. lamenta che il Comune
resistente gli avrebbe illegittimamente imposto il pagamento
degli oneri di urbanizzazione in relazione a un preteso
cambio di destinazione d’uso dell’immobile da questi
acquistato.
Il ricorrente deduce, in particolare, di essersi limitato a
ripristinare l’originaria destinazione a uso residenziale
prevista per l’edificio dalle previsioni urbanistiche:
sarebbe, dunque, irrilevante il temporaneo diverso uso della
villa in commento a fini diversi dalla residenza.
Si aggiunge che il ripristino di tale destinazione non
avrebbe implicato alcun aumento del carico urbanistico,
aumento che costituisce il presupposto necessario per
imporre il pagamento di somme a titolo di oneri di
urbanizzazione.
Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, sia stata
senz’altro operata una modifica di destinazione d’uso
dell’edificio nella titolarità del ricorrente
urbanisticamente rilevante.
Dalla disamina della documentazione versata in atti, emerge
infatti che la villa del Sig. Ci., pur originariamente
destinata a uso residenziale dalle previsioni del P.R.G.
comunale, è stata in seguito adibita a edificio scolastico,
in forza di delibera comunale nr. 382 del 15.11.1977 con cui
veniva approvato il progetto dei lavori di ristrutturazione
e adattamento della “Villa ...” ad uso di scuola
materna statale (cfr. doc. 4) della produzione dell’ente
resistente), destinazione che è poi perdurata fino all’anno
1995 (cfr. doc. 4) della produzione del ricorrente).
Del resto, la DIA presentata dal ricorrente in data
22.09.2010 ha, appunto, ad oggetto un intervento di “restauro
conservativo con cambio di destinazione d’uso da scolastico
a residenziale” (cfr. docc. 7 e 8 della produzione del
Comune).
Ciò posto, occorre rammentare che il cambio destinazione
uso, anche se attuato senza la realizzazione di opere
edilizie, comporta l'obbligo di corrispondere al Comune il
contributo di costruzione di cui all'art. 16, D.P.R.
06.06.2001, n. 380, per la quota-parte commisurata agli
oneri di urbanizzazione ed in misura rapportata alla
differenza tra quanto dovuto per la nuova destinazione
rispetto a quella già in atto, allorquando la nuova
destinazione sia idonea a determinare un aumento
quantitativo e/o qualitativo del carico urbanistico della
zona, inteso come rapporto tra insediamenti e servizi.
In termini: “Gli oneri concessori, con particolare
riguardo alla parte correlata agli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria, hanno la chiara funzione di
contribuire alle spese da sostenere dalla collettività in
riferimento alla realizzazione delle relative opere, sicché
l’unico criterio per determinare se essi siano dovuti o meno
e in che misura consiste nel valutare il carico urbanistico
derivante dall’attività edilizia, con la precisazione che
per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la
necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione,
quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelli
esistenti (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2018,
n. 2694).
In linea di diritto, cioè, mentre la quota del contributo di
costruzione commisurata al costo di costruzione risulta
ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità
(superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve
alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il
recupero delle spese sostenute dalla collettività di
riferimento alla trasformazione del territorio consentita al
privato istante (ossia, a compensare la c.d.
compartecipazione comunale all’incremento di valore della
proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova
edificazione), la quota del contributo di costruzione
commisurata agli oneri di urbanizzazione «assolve alla
prioritaria funzione di compensare la collettività per il
nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla
zona, con la precisazione che per aumento del carico
urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare
l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza
di utilizzare più intensamente quelle già esistenti» (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n. 2294)” (cfr., di
recente, Cons. St., Sez. II, 27.04.2021, nr. 4633).
Il Collegio ritiene che, nel caso di specie, risulti
indimostrato che in dipendenza del mutamento della
destinazione d’uso impressa all’immobile, si sia determinato
a carico della zona di riferimento un aumento del carico
urbanistico, dovendosi, piuttosto, ritenere il contrario: ed
infatti, l’edificio, in precedenza adibito dapprima a scuola
materna e quindi a scuola superiore, è stato in seguito
convertito a uso residenziale di un unico nucleo familiare
di tre componenti (cfr. doc. 8 della produzione di parte
ricorrente).
E’ ragionevole ritenere che, nel mutamento, si sia
determinato un utilizzo di minore intensità delle opere di
urbanizzazione e delle infrastrutture a servizio della
collettività; in senso conforme è possibile richiamare un
precedente arresto di giurisprudenza reso in relazione a
fattispecie analoga: “Il passaggio dalla precedente
destinazione direzionale a quella residenziale non può che
aver condotto a una consistente diminuzione del carico
urbanistico dell’immobile di proprietà (..), inteso come
peso sul tessuto urbano e sui servizi di zona, a partire dal
traffico veicolare e dalla connessa necessità di disporre di
parcheggi nelle aree antistanti o prossime all'immobile: per
questo profilo, è infatti innegabile che la presenza
nell’edificio di una scuola privata che faceva registrare un
afflusso giornaliero di circa cento persone abbia un impatto
superiore rispetto a quella di due nuclei familiari. A
fronte del sicuro decremento di carico urbanistico
determinato dal mutamento di destinazione, non vi sono
invece elementi obiettivi per sostenere che l’asserita,
contestuale divisione dell’immobile stesso in due abitazioni
giustifichi comunque l’onerosità dell’intervento a causa
delle sue ricadute sulle dotazioni di standard urbanistici”
(cfr. Tar Toscana, Sez. III, 17.10.2019, nr. 1587).
2. Alla luce di quanto precede il ricorso deve essere
accolto, con conseguente annullamento del provvedimento
impugnato e condanna dell’Amministrazione resistente alla
restituzione di quanto versato dal ricorrente a titolo di
oneri di urbanizzazione per il mutamento di destinazione
d’uso dell’immobile “Villa ...” in San Donà di Piave
alla via ... n. ... (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 09.07.2021 n. 914 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
ricordarsi che le disposizioni in materia di commercio implicano uno stretto
collegamento tra la programmazione commerciale e la pianificazione
urbanistica, con la conseguenza che l’apertura di esercizi commerciali
presuppone la conformità dei relativi locali alle prescrizioni urbanistiche.
Più precisamente, la normativa commerciale (D.lgs 114/1998, Legge
287/1991 e D.lgs n. 59/2010) prescrive, quanto ai requisiti oggettivi che
devono sussistere per il rilascio delle relative autorizzazioni, che le
attività devono essere esercitate, tra l’altro, nel rispetto delle vigenti
norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia e urbanistica,
nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici.
Gli assunti che precedono non possono in alcun modo giustificare la
conclusione che l’assentimento dell’attività commerciale implichi anche
l’assentimento alla modifica dei locali dal punto di vista edilizio.
Nonostante la stretta relazione tra i due ambiti, deve ritenersi che il
titolo commerciale non può assorbire le valutazioni strettamente connesse al
rispetto della disciplina urbanistica, che, viceversa, devono essere
vagliate secondo le specifiche procedure a tal fine previste dalla legge,
per sfociare, se del caso, in specifici titoli corrispondenti ai diversi
interventi, così come prestabiliti dall’ordinamento.
---------------
Il mutamento di destinazione d’uso di un fabbricato
ha per effetto il passaggio da una categoria funzionalmente autonoma dal
punto di vista urbanistico ad un’altra e si traduce in un differente carico
urbanistico, con la precisazione che lo stesso a volte avviene senza
la realizzazione di opere a seguito del mero mutamento d’uso dell’immobile,
altre volte si caratterizza per la realizzazione di quelle opere in
assenza delle quali l’immobile non può soddisfare quella diversa
funzionalità che comporta il trapasso da una categoria funzionalmente
autonoma dal punto di vista urbanistico ad un’altra; di conseguenza, il
mutamento di destinazione d’uso riguarda, quindi, un immobile individuato e
può avere corso solo nel rispetto della disciplina urbanistica vigente.
Il presupposto del mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante
ai fini dell’eventuale adozione della sanzione è che l’uso diverso comporti
un maggior peso urbanistico effettivamente incidente sul tessuto urbano.
L'aggravio di servizi -quali, ad esempio, il pregiudizio alla viabilità ed
al traffico ordinario nella zona, il maggior numero di parcheggi nelle aree
antistanti o prossime l’immobile- è l’ubi consistam del mutamento di
destinazione che giustifica la repressione dell’alterazione del territorio
in conseguenza dell’incremento del carico urbanistico come originariamente
divisato, nella pianificazione del tessuto urbano, dall’Amministrazione
locale e su queste basi, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente
rilevante è soltanto quello intervenuto tra categorie funzionalmente
autonome sotto il profilo urbanistico, come accade nel passaggio dalla
destinazione industriale a quella commerciale.
---------------
7 – L’appello avverso tale pronuncia deve trovare
accoglimento nei limiti di seguito precisati.
Preliminarmente, è utile richiamare il contenuto dell’atto impugnato. Nella
nota del 24.10.2018 n. 15572, si legge: “Da sopralluogo effettuato in data
10.10.2018, da personale del settore tecnico e della Polizia Locale, si è
riscontrato che le opere edilizie sono conformi a quelle autorizzate. Nel
contempo si è accertato che l’attività svolta consistente in un caseificio
artigianale con vendita del prodotto che, pur se non conforme a quanto
autorizzato con i titoli sopra richiamati, è conforme alle previsioni
urbanistiche della zona. Alla luce di quanto sopra evidenziato si ritiene
che tale difformità non si configura come abuso – non comporta una
variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale 1444/1968 ossia
dei carichi urbanistici relativi alla zona omogenea in questione; - che non
essendo state eseguite opere in difformità ai titoli edilizi sopra citati il
mutamento della destinazione d’uso costituisce espressione della facoltà di
godimento quale concreta proiezione dello jus utenti spettante al
proprietario che, diversamente dallo jus aedificandi, non rientra nella
disciplina urbanistico-edilizia generale”.
E’ la stessa amministrazione a confermare inconfutabilmente la
prospettazione dell’appellante, e cioè che i titoli edilizi relativi
all’immobili non contemplano un utilizzo produttivo dei locali.
7.1 – La riscontrata difformità, contrariamente all’assunto del Giudice di
primo grado, che ha escluso la natura abusiva del cambio di destinazione
d’uso valorizzando la SCIA del 31/07/2017, non può essere superata da quest’ultimo
atto. Invero, la SCIA è stata presentata ad altri fini, ovvero per
intraprendere l’attività dal punto di vista commerciale.
E’ pacifico che tale atto non si riferisce all’aspetto urbanistico-edilizio,
presupponendo, come è tipico di ogni titolo legittimante l’attività
commerciale, la regolarità edilizia dei locali rispetto all’attività che il
richiedente si propone di svolgere (trasformazione del latte in prodotti
caseari e vendita di prodotti caseari).
Deve ricordarsi che le disposizioni in materia di commercio implicano uno
stretto collegamento tra la programmazione commerciale e la pianificazione
urbanistica, con la conseguenza che l’apertura di esercizi commerciali
presuppone la conformità dei relativi locali alle prescrizioni urbanistiche
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 23.01.2001; Cons. Stato, sez. IV, 27.04.2004).
Più precisamente, la normativa commerciale (D.lgs 114/1998, Legge
287/1991 e D.lgs n. 59/2010) prescrive, quanto ai requisiti oggettivi che
devono sussistere per il rilascio delle relative autorizzazioni, che le
attività devono essere esercitate, tra l’altro, nel rispetto delle vigenti
norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia e urbanistica,
nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici.
Gli assunti che precedono non possono in alcun modo giustificare la
conclusione che l’assentimento dell’attività commerciale implichi anche
l’assentimento alla modifica dei locali dal punto di vista edilizio.
Nonostante la stretta relazione tra i due ambiti, deve ritenersi che il
titolo commerciale non può assorbire le valutazioni strettamente connesse al
rispetto della disciplina urbanistica, che, viceversa, devono essere
vagliate secondo le specifiche procedure a tal fine previste dalla legge,
per sfociare, se del caso, in specifici titoli corrispondenti ai diversi
interventi, così come prestabiliti dall’ordinamento.
Per scrupolo, deve precisarsi che, nel caso di specie, non è neppure
possibile configurare una sorta di titolo edilizio implicito, dovendosi al
riguardo osservare che si è al cospetto di una SCIA, ovvero di un atto del
privato, e non di un provvedimento amministrativo, da cui l’impossibilità di
desumere una sopposta volontà dell’amministrazione circa l’assentimento al
mutamento della destinazione d’uso dal punto di vista edilizio.
Così circoscritta la valenza e l’efficacia della SCIA del 31/07/2017 ed
escluso che la stessa possa svolgere la funzione di titolo edilizio
legittimante il cambio di destinazione d’uso dei locali da commerciali a
produttivi, perdono di ogni consistenza gli argomenti del TAR con i quali
si prospetta la necessità di intervenire in autotutela sulla predetta SCIA,
nei modi e nei limiti a tal fini previsti dalla legge, sicché il cambio di
destinazione non potrebbe considerarsi abusivo fino a che permangono gli
effetti della SCIA.
7.2 – Per indagare la natura illegittima del cambio di destinazione d’uso
denunciato deve invece aversi riguardo ai relativi titoli edilizi, dai
quali, per quanto ammesso dalla stessa amministrazione, non emerge
l’assentimento dello svolgimento dell’attività di produzione nei locali in
questione.
In proposito, l’art. 23-ter del DPR n. 380/2001, aggiunto dall’art. 17,
comma 1, lett. n), D.L. n. 133/2014 conv. nella L. n. 164/2014, al comma 1
qualifica come “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante, ancorché non
accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie”, quello dalla categoria
“commerciale” a quella “produttiva”, ed al comma 2 puntualizza che “la
destinazione d’uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella
prevalente in termini di superficie utile”.
Anche la giurisprudenza ha chiarito che il mutamento di destinazione d’uso
di un fabbricato ha per effetto il passaggio da una categoria funzionalmente
autonoma dal punto di vista urbanistico ad un’altra e si traduce in un
differente carico urbanistico, con la precisazione che lo stesso a volte
avviene senza la realizzazione di opere a seguito del mero mutamento d’uso
dell’immobile, altre volte si caratterizza per la realizzazione di quelle
opere in assenza delle quali l’immobile non può soddisfare quella diversa
funzionalità che comporta il trapasso da una categoria funzionalmente
autonoma dal punto di vista urbanistico ad un’altra; di conseguenza, il
mutamento di destinazione d’uso riguarda, quindi, un immobile individuato e
può avere corso solo nel rispetto della disciplina urbanistica vigente (ex
multis Consiglio di Stato, sez. V, 30/06/2014, n. 3279).
Il presupposto del mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante
ai fini dell’eventuale adozione della sanzione è che l’uso diverso comporti
un maggior peso urbanistico effettivamente incidente sul tessuto urbano; -
l’aggravio di servizi -quali, ad esempio, il pregiudizio alla viabilità ed
al traffico ordinario nella zona, il maggior numero di parcheggi nelle aree
antistanti o prossime l’immobile- è l’ubi consistam del mutamento di
destinazione che giustifica la repressione dell’alterazione del territorio
in conseguenza dell’incremento del carico urbanistico come originariamente
divisato, nella pianificazione del tessuto urbano, dall’Amministrazione
locale e su queste basi, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente
rilevante è soltanto quello intervenuto tra categorie funzionalmente
autonome sotto il profilo urbanistico, come accade nel passaggio dalla
destinazione industriale a quella commerciale (cfr. ad es. Consiglio di
Stato sez. VI, 25/09/2017, n. 4469).
Alla luce delle considerazioni che precedono, deve concludersi che il cambio
di destinazione d’uso in questione –da commerciale a produttivo-
richiedeva uno specifico titolo edilizio, che nel caso di specie non
sussiste, con la conseguenza che la modifica di destinazione d’uso è abusiva
e, in quanto tale, deve essere sanzionata nelle forme di legge da parte del
Comune.
7.3 – Non può portare ad un diverso esito l’inciso contenuto nel
provvedimento impugnato, ove si legge che “pur se non conforme a quanto
autorizzato con i titoli sopra richiamati, è conforme alle previsioni
urbanistiche della zona”, posto che all’assenza del titolo edilizio consegue
l’illegittimità dell’intervento, indipendentemente dalla sua conformità alla
disciplina sostanziale.
Tale aspetto, se del caso, ben può costituire il presupposto per la
sanatoria dell’intervento, ma non legittima di per sé il cambio di
destinazione privo della necessaria autorizzazione.
Deve infatti ricordarsi che l’eventuale (allo stato indimostrata)
legittimità sostanziale della modifica posta in essere, in rapporto al
regime dell’area, deve necessariamente essere valutata nell’ambito di un
procedimento di sanatoria. Tanto si evince dall’art. 31 e dall’art. 27 del
DPR n. 380/2001, che impongono all’amministrazione comunale di reprimere
l’abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dall’art. 36, che
rimette all’esclusiva iniziativa del privato l’attivazione del procedimento
di accertamento di conformità urbanistica.
Sarà in quella sede che, se del caso, il Comune valuterà l’esatta portata
degli artt. 13, comma 2, e 16, comma 1, del vigente Regolamento Urbanistico
-che in base alla prospettazione di parte appellante precluderebbero, anche
dal punto di vista sostanziale, l’assentimento del cambio di destinazione
d’uso- non potendosi pertanto esaminare in questa sede la questione prima
che sulla stessa si sia espressa l’amministrazione, pena il rischio di
violare il disposto di cui all’art. 34, comma 2, del c.p.a.
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.06.2021 n. 4940 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mutamento
di destinazione d’uso.
Il TAR Brescia osserva
che gli articoli 51 e 52 della legge
regionale della Lombardia n. 12 del 2005
hanno previsto un regime di sostanziale
liberalizzazione delle destinazioni d’uso,
per il quale il passaggio a un diverso tipo
di utilizzazione deve ritenersi sempre
ammissibile, in mancanza di espressi divieti
contenuti nello strumento urbanistico.
La liberalizzazione delle destinazioni d’uso
non assicura peraltro che il passaggio
dall’una all’altra avvenga a titolo
gratuito.
In base alla normativa regionale perché si
possa avere un mutamento di destinazione
d’uso senza costi per il privato sono
necessarie tre condizioni: che il cambio sia
senza opere, che la nuova destinazione d'uso
non alteri il fabbisogno di standard, che
siano decorsi almeno 10 anni
dell'ultimazione dei lavori
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.06.2021 n. 578 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3. Il ricorso assunto al N.R.G. 1286/2014
censura i provvedimenti con i quali
l’amministrazione comunale ha diffidato i
proprietari delle tre indicate unità a
mutarne la destinazione d’uso da produttiva
a direzionale/servizi, allegando che in
virtù della convenzione urbanistica
originaria gli standard sono stati versati
solo nella misura del 20% della s.l.p.,
dovuta per gli immobili a destinazione
produttiva, che la nuova funzionalizzazione
richiede standard nella misura del 100%
della s.l.p. (ai sensi degli articoli 23, 44
e 46 delle Nta del piano delle regole) e che
quindi è dovuto il versamento del
differenziale.
4. Va anzitutto dichiarata l’inammissibilità
del gravame con riferimento al sub 701,
atteso che il proprietario Gi.Sp. non ha proposto impugnativa.
5. Con riferimento ai restanti subalterni il
ricorso è ammissibile limitatamente ai
profili di interesse dei rispettivi
proprietari.
6. L’amministrazione resistente ha precisato
che non è mai stata in contestazione la
possibilità di mutare la destinazione dei
subalterni, risultando il nuovo utilizzo
compatibile con le norme urbanistiche.
7. La nuova destinazione risulta pertanto
legittima, atteso tra l’altro che gli
articoli 51 e 52 della legge regionale della
Lombardia n. 12 del 2005 hanno previsto un
regime di sostanziale liberalizzazione delle
destinazioni d’uso, per il quale il
passaggio a un diverso tipo di utilizzazione
deve ritenersi sempre ammissibile, in
mancanza di espressi divieti contenuti nello
strumento urbanistico.
L’articolo 51, in particolare, prevede al
comma 1 che “Costituisce destinazione
d'uso urbanistica di un'area la funzione o
il complesso di funzioni ammesse dagli
strumenti di pianificazione. Ferma restando,
per i profili edilizi, la destinazione d'uso
prevalente ai sensi dell'articolo 23-ter,
comma 2, del D.P.R. 380/2001, è principale
la destinazione d'uso qualificante l'area; è
complementare o accessoria o compatibile
qualsiasi ulteriore destinazione d'uso che
integri o renda possibile la destinazione
d'uso principale o sia prevista dallo
strumento urbanistico generale a titolo di
pertinenza o custodia. In particolare, sono
sempre considerate tra loro urbanisticamente
compatibili, anche in deroga a eventuali
prescrizioni o limitazioni poste dal PGT, le
destinazioni residenziale, commerciale di
vicinato e artigianale di servizio, nonché
le destinazioni direzionale e per strutture
ricettive fino a 500 mq di superficie lorda.
Le destinazioni principali, complementari,
accessorie o compatibili, come sopra
definite, possono coesistere senza
limitazioni percentuali ed è sempre ammesso
il passaggio dall'una all'altra, nel
rispetto del presente articolo, salvo quelle
eventualmente escluse dal PGT. (…)”.
8. La liberalizzazione delle destinazioni
d’uso non assicura peraltro che il passaggio
dall’una all’altra avvenga a titolo
gratuito. In base alla normativa regionale
perché si possa avere un mutamento di
destinazione d’uso senza costi per il
privato sono necessarie tre condizioni: che
il cambio sia senza opere, che la nuova
destinazione d'uso non alteri il fabbisogno
di standard, che siano decorsi almeno 10
anni dell'ultimazione dei lavori (TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 02.03.2021, n.
206; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 17.06.2015, n. 855).
9. La modifica del fabbisogno di standard e
quindi il carico urbanistico della nuova
destinazione e l’eventuale incremento
rispetto a quella precedente vanno
verificati non già in base a principi
generali, bensì in ragione delle specifiche
previsioni urbanistiche comunali. |
EDILIZIA PRIVATA:
È assodato in giurisprudenza che “nel caso in cui un intervento
edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale
abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere
computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai
fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza”.
---------------
Come riferito dal CTU, il Comune ha ravvisato nel 2016 un cambio di
destinazione d’uso dei locali “soffitta” in chiave abitativa, con
predisposizione dell’impianto di riscaldamento, dell’area condizionata e
degli impianti per i bagni. I “solai” risultano anche essere stati rifiniti
con pavimenti e intonaci.
Ciò detto, si deve concludere che tale conformazione del solaio ne impone il
computo, ai fini dell’altezza, in relazione all’art. 9.3 delle NTA già
citato, atteso che questi ultimi costituiscono “ultimo piano abitabile” ai
sensi di tale normativa, laddove l’abitabilità va considerata non con
riferimento all’osservanza di tutti i parametri edilizi pertinenti, ma alla
fruibilità e alla vocazione abitativa del sottotetto, posto che “a seconda
dell'altezza, della praticabilità del solaio, delle modalità di accesso e
dell'esistenza o meno di finestre” “la realizzazione di un locale sottotetto
con vani (distinti e) comunicanti con il piano sottostante mediante una
scala interna è indice rivelatore dell'intento di rendere abitabile detto
locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati”.
Difatti, “quando una costruzione abbia raggiunto o sia poco al di sotto
dell'altezza massima consentita a un edificio, non è consentita una
qualificazione negativa (nel senso che non si computa a fini di altezza) del
sottotetto, che, per le caratteristiche di sostanziale identità con quelle
delle abitazioni sottostanti, si traduca in un sostanziale innalzamento
dell'edificio assentito in elusione della stessa normativa invocata
sull'utilizzazione dei sottotetti per finalità abitative non stabili”.
---------------
8. Fondato è altresì il
terzo motivo di ricorso, concernente la violazione
del regime delle altezze degli edifici.
La ricorrente deduce, per tale profilo, l’inosservanza sia dell’art. 8 del
DM 1444/1968, sia dell’art. 54.4 del PRG del Comune di Fiumicino.
Quest’ultime disposizioni stabiliscono che l’altezza massima dei nuovi
edifici non possa essere superiore a quella degli edifici preesistenti e
circostanti (cfr. art. 8, quanto alla zona B), mentre la ricorrente deduce
che questi ultimi hanno un’altezza di soli 4 mt, contro i circa 11 mt del
nuovo palazzo.
Nel caso di specie, la prima CTU, senza soffermarsi sull’altezza degli
edifici circostanti, ha accertato che il permesso di costruire impugnato non
ha calcolato, ai fini dell’altezza, i locali adibiti in progetto a “solaio”,
le cui caratteristiche costruttive avrebbero dovuto invece imporre che essi
fossero computati. Ciò ha comportato che il nuovo edificio abbia superato
anche l’altezza degli immobili demoliti e ricostruiti.
Quest’ultima è stata determinata in mt. 11,00, mentre l’altezza della nuova
palazzina è pari a mt 11,60, incluse le soffitte al colmo.
8.1 Con riferimento a queste ultime, la controinteressata ha sostenuto che
esse non debbano venire computate, quanto all’altezza dell’edificio, in
forza dell’art. 9.3 delle NTA vigenti, secondo il quale, nei casi in cui le
falde del tetto abbiano una pendenza non superiore al 35% e la linea di
colmo sia posta non oltre m 2,80 sopra l’estradosso del solaio di copertura
dell’ultimo piano abitabile, l’altezza si misura dalla quota del marciapiede
latistante la fronte medesima alla linea di gronda dell’edificio.
Tuttavia, in linea di diritto, e come sostenuto dalla ricorrente, nel caso
di specie i solai vanno calcolati ai fini di determinare l’altezza
raggiunta.
Sono perciò da disattendere i calcoli offerti con il supplemento di CTU,
che, ancora una volta ribaltando le conclusioni ben più motivate alle quali
il consulente era pervenuto in prima istanza, hanno ritenuto di escludere i
solai dal calcolo dell’altezza.
È infatti assodato in giurisprudenza che “nel caso in cui un intervento
edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale
abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere
computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai
fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza” (ex plurimis, Cons. Stato, sez. II, n. 8835 del 2019).
È quanto si è verificato nel caso di specie: lo stesso CTU ha verificato che
i cd solai solai rivestono, viceversa, il carattere di ambiente nella
sostanza abitabile, al punto che essi sono collegati con scale interne agli
appartamenti sottostanti (elemento che il CTU, a pag. 22 della prima
consulenza, ha accertato essere già indicato nel progetto originario,
cosicché l’omessa considerazione di esso rende illegittimo il conseguente
titolo abilitativo) e sono dotati di finestre “idonee a garantire un
sufficiente apporto di luce e aria”, con una non trascurabile altezza,
indicata dalla ricorrente in mt 2,20 (il CTU ha altresì rilevato che la
controinteressata ha “inizialmente” accatastato i locali soffitta a
categoria C/2, uso abitativo, sicché l’accatastamento a superficie
accessoria non abitabile dell’ottobre 2016, di cui si dà conto nel
supplemento di istruttoria, deve reputarsi posteriore).
Fermo, quindi, che le caratteristiche strutturali dei cd. solai depongono
per l’utilizzabilità abitativa della relativa superficie, va poi rimarcato
che, nei fatti, tali caratteristiche sono state appunto sfruttate in tali
termini, posto che (come riferito dal CTU) il Comune di Fiumicino ha
ravvisato nel 2016 un cambio di destinazione d’uso dei locali “soffitta” in
chiave abitativa, con predisposizione dell’impianto di riscaldamento,
dell’area condizionata e degli impianti per i bagni. I “solai” risultano
anche essere stati rifiniti con pavimenti e intonaci.
8.2 Ciò detto, si deve concludere che tale conformazione del solaio ne
avrebbe imposto il computo, ai fini dell’altezza, in relazione all’art. 9.3
delle NTA già citato, atteso che questi ultimi costituiscono “ultimo piano
abitabile” ai sensi di tale normativa, laddove l’abitabilità va considerata
non con riferimento all’osservanza di tutti i parametri edilizi pertinenti,
ma alla fruibilità e alla vocazione abitativa del sottotetto, posto che “a
seconda dell'altezza, della praticabilità del solaio, delle modalità di
accesso e dell'esistenza o meno di finestre” (tutti elementi già valutati supra) “la realizzazione di un locale sottotetto con vani (distinti e)
comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna è indice
rivelatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi
considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati” (ex plurimis, Cons.
Stato, sez. IV. n. 812 del 2011).
Difatti, “quando una costruzione abbia raggiunto o sia poco al di sotto
dell'altezza massima consentita a un edificio, non è consentita una
qualificazione negativa (nel senso che non si computa a fini di altezza) del
sottotetto, che, per le caratteristiche di sostanziale identità con quelle
delle abitazioni sottostanti, si traduca in un sostanziale innalzamento
dell'edificio assentito in elusione della stessa normativa invocata
sull'utilizzazione dei sottotetti per finalità abitative non stabili” (Cons.
Stato, sez. VI, n. 2826 del 2014).
In definitiva, il permesso di costruire è illegittimo, anche perché è stato
assentito un edificio più alto di quanto consentito dalla legge.
8.3 L’atto impugnato va perciò annullato, non residuando alcun interesse
all’annullamento del diniego comunale di agire in autotutela, anch’esso qui
censurato (TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 05.03.2021 n. 2763 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio, richiamando i principi giurisprudenziali consolidatisi nella
materia, intende premettere che:
a) ai sensi dell’art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito
dall’art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di
destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di
conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle
attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere
tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non
assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del
1968;
b) l’aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di
modifica della destinazione funzionale dell’immobile, ma anche nel caso in
cui, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a
rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone
con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni
esistenti;
c) pertanto il mutamento di destinazione d’uso, sia con che senza
opere, giuridicamente rilevante, ossia quello tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, influisce in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti
in concreto, carico da intendersi come rapporto di proporzione
quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una
determinata zona territoriale.
---------------
6. Con il primo motivo l’appellante lamenta l’erroneità
dell’impugnata pronuncia nell’aver confutato la posizione
dell’Amministrazione comunale che aveva subordinato il cambio di
destinazione dell’immobile da “terziario direzionale” a “residenziale”,
chiedendo la cessione “dell’integrale dotazione di standard” a
servizio della destinazione residenziale, così non considerando le superfici
a standard, che in fase di realizzazione dell’edificio come terziario, erano
già state asservite con l’imposizione di un vincolo di destinazione, stante
la differenza e la non assimilabilità tra le due tipologie di standard.
Ad avviso del Comune l’intervento de quo sarebbe sottoposto alla
disciplina di cui alla delibera c.c. n. 31/2015, che, in attuazione della
legge regionale della Puglia n. 16 del 07.04.2014, ha definito le zone di
attuazione per tali mutamenti di destinazione d’uso ed ha, al contempo,
definito le condizioni di applicabilità.
A tal ultimo riguardo, si fa notare che l’art. 39 delle NTA del PRG di Bari
dispone che “A norma dell’art. 5, comma 1°, n. 2 del D.M. 02.04.1968
devono essere “previsti” spazi, escluse le sedi viarie, in misura non
inferiore a 80 mq. per 100 mq. di superficie lorda di pavimento con
destinazione terziario-direzionale; inoltre, devono essere “reperiti” i
servizi di quartiere per gli abitanti insediati, nella misura di 20 mq. per
abitante, se la zona è parzialmente utilizzata per destinazioni
residenziali….”.
Ne consegue che gli standard “residenziali” e quelli del “terziario
direzionale” non potrebbero essere assimilati essendo di fatto legati a
concetti completamente differenti e pertanto non si potrebbe procedere tra
di essi allo scomputo.
6.1. La censura non è fondata.
6.2. Il Collegio, al riguardo, richiamando i principi giurisprudenziali
consolidatisi nella materia (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2018, n.
6388), intende premettere che:
a) ai sensi dell’art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito
dall’art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di
destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di
conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle
attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere
tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non
assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del
1968;
b) l’aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di
modifica della destinazione funzionale dell’immobile, ma anche nel caso in
cui, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a
rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone
con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni
esistenti;
c) pertanto il mutamento di destinazione d’uso, sia con che senza
opere, giuridicamente rilevante, ossia quello tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, influisce in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti
in concreto, carico da intendersi come rapporto di proporzione
quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una
determinata zona territoriale.
Del resto, in maniera sostanzialmente conforme è disciplinato il mutamento
di destinazione d’uso dalla legge regionale Puglia n. 16/2014, recante “Modifiche
e integrazioni alla legge regionale 15.11.2007, n. 33 (Recupero dei
sottotetti, dei porticati, di locali seminterrati e interventi esistenti e
di aree pubbliche non autorizzate)”, dalla delibera del Consiglio
comunale del Comune di Bari n. 31/2015, che ha recepito detta legge
regionale, e dalla legge regionale Puglia n. 48/2017 (art. 4)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in
esame (“terziario
direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il
mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo
su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato
arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella
quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già
garantiti.
Invero, a tali fini, si osserva che:
a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli
“insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti
produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di
carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene
esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata
di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo
riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le
destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive,
a verde pubblico o a parcheggi”;
b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto
decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle
diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del
rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale
etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime
fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi
pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito
dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in
questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo
essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando
fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui
tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio
delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo
tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle
a uso terziario;
c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la
differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento
urbanistico generale del Comune tra “previsti” e “reperiti”,
essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse
agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con
destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale
omogeneità concettuale esistente tra essi;
d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della
originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva
prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un
vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica
modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico
al privato;
e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata
sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la
disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari
rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una
distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale”
e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori
della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la
richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a
standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già
concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”,
che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione
dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di
destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve
rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è
ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a
standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre,
solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero.
---------------
6.3. Ciò premesso, in ordine alla specifica questione oggetto della
controversia, è corretto rilevare, come fatto dal primo giudice, che,
sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in esame (“terziario
direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il
mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo
su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato
arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella
quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già
garantiti.
6.3.1. Invero, a tali fini, si osserva che:
a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli
“insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti
produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di
carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene
esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata
di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo
riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le
destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive,
a verde pubblico o a parcheggi”;
b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto
decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle
diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del
rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale
etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime
fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi
pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito
dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in
questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo
essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando
fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui
tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio
delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo
tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle
a uso terziario;
c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la
differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento
urbanistico generale del Comune di Bari tra “previsti” e “reperiti”,
essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse
agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con
destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale
omogeneità concettuale esistente tra essi;
d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della
originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva
prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un
vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica
modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico
al privato;
e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata
sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la
disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari
rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
6.3.2. In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una
distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale”
e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori
della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la
richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a
standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già
concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”,
che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione
dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di
destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve
rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è
ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a
standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre,
solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero. E,
nel caso che qui occupa, non è in contestazione che l’edificio preesistente
già disponesse della quota di standard richiesta per la sua originaria
destinazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
E' pervenuta al Comune una proposta progettuale concernente il
cambio di destinazione d'uso da deposito a distribuzione commerciale
all'ingrosso.
L'edificio oggetto della richiesta, avendo destinazione d'uso "deposito"
usufruisce dell'esenzione dal pagamento del costo di costruzione (art. 19,
comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) per le attività produttive/artigianali.
Si chiede se, ai sensi dell'art. 23-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e
dell'art. 4, L.R. Puglia 16.04.2015, n. 24, l'attività di commercio
all'ingrosso sia da considerarsi produttiva di un mutamento della categoria
funzionale di appartenenza (nella specie, da produttiva/artigianale a
commerciale, precisando, tra l'altro, che l'intervento proposto non sarebbe
urbanisticamente rilevante in quanto la superficie oggetto del cambio d'uso
è nettamente inferiore al 50% della superficie totale del capannone, che
resta ad uso deposito/logistica e quindi produttiva).
Al fine di dare adeguata risposta al quesito giova precisare quanto segue.
Preliminarmente occorre affrontare la questione di principio sottesa al
concetto di cambio di destinazione e per farlo pare opportuno richiamare
alcuni chiarimenti forniti dalla Giurisprudenza in materia.
Il cambio destinazione uso, anche se attuato senza la realizzazione di opere
edilizie, comporta l'obbligo di corrispondere al Comune il contributo di
costruzione di cui all'art. 16, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per la
quota-parte commisurata agli oneri di urbanizzazione ed in misura rapportata
alla differenza tra quanto dovuto per la nuova destinazione rispetto a
quella già in atto, allorquando la nuova destinazione sia idonea a
determinare un aumento quantitativo e/o qualitativo del carico urbanistico
della zona, inteso come rapporto tra insediamenti e servizi.
Il mutamento di destinazione uso comporta di per sé che la quota parte
relativa al costo di costruzione è comunque dovuta "...anche in presenza
di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica
di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi,
situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per
ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons.
Stato, Sez. IV, 03.09.2014, n. 4483).
Pertanto, alla luce di quanto sopra, nel caso di specie è indubbio che il
cambio di destinazione d'uso da deposito a distribuzione commerciale
all'ingrosso "si rivela produttivo di vantaggi economici connessi"
(per usare l'espressione giurisprudenziale sopra citata) e quindi ad avviso
di chi scrive comporta l'obbligo di pagare il relativo importo afferente al
contributo di costruzione.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 16
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato, Sez. IV, 03.09.2014, n. 4483 (27.07.2020 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA:
Laddove il cambio di categoria edilizia determina un ulteriore
carico urbanistico, risulta irrilevante verificare se tale modifica sia
avvenuta con l’effettuazione di opere edilizie.
In materia edilizia, l’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001,
qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente
art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento
di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che
implichi una variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n.
1444; “il mutamento di destinazione d’uso di un fabbricato che determini,
dal punto di vista urbanistico, il passaggio tra diverse categorie in
rapporto di reciproca autonomia funzionale, comporta inevitabilmente un
differente carico ed un maggiore impatto urbanistico, anche se nell’ambito
di zone territoriali omogenee, da valutare in relazione ai servizi e agli
standard ivi esistenti”.
---------------
6. A questo punto, per ragioni di economia processuale, appare opportuno
procedere allo scrutinio della terza censura di tutti i ricorsi,
attraverso la quale si contesta l’applicabilità dell’art. 31 del D.P.R. n.
380 del 2001, considerata l’assenza dei suoi presupposti applicativi –(i)
interventi in assenza del permesso di costruire, (ii) opere in difformità
rispetto al permesso e (iii) opere eseguite con variazioni essenziali al
titolo edilizio– e avuto riguardo, in ogni caso, all’inapplicabilità
dell’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale non essendo i
ricorrenti responsabili dell’abuso.
6.1. La doglianza è infondata.
Come è stato evidenziato in precedenza, i ricorrenti (o il loro dante causa)
hanno destinato abusivamente a locali abitabili i sottotetti della Palazzina
C che erano destinati a locali sgombero, senza permanenza di persone. Un
tale mutamento di destinazione d’uso, a prescindere dalla circostanza che
sia stato accompagnato da opere edilizie, ha certamente modificato i
parametri edilizi della costruzione (aumento di altezze e della volumetria),
comportando un non indifferente aggravio del carico urbanistico, e quindi
avrebbe dovuto essere assistito da idoneo titolo abilitativo. Difatti,
laddove il cambio di categoria edilizia determina un ulteriore carico
urbanistico, risulta irrilevante verificare se tale modifica sia avvenuta
con l’effettuazione di opere edilizie (TAR Campania, Salerno, II,
08.03.2013, n. 580).
In materia edilizia, l’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001,
qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del
precedente art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere
edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal D.M.
02.04.1968, n. 1444 (TAR Lombardia, Milano, II, 04.07.2019, n. 1529;
27.07.2012, n. 2146; TAR Valle d’Aosta, 16.11.2016, n. 55; TAR Veneto, II,
21.08.2013, n. 1078); “il mutamento di destinazione d’uso di un
fabbricato che determini, dal punto di vista urbanistico, il passaggio tra
diverse categorie in rapporto di reciproca autonomia funzionale, comporta
inevitabilmente un differente carico ed un maggiore impatto urbanistico,
anche se nell’ambito di zone territoriali omogenee, da valutare in relazione
ai servizi e agli standard ivi esistenti” (Consiglio di Stato, VI,
20.11.2018, n. 6562).
Va specificato che contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso R.G. n.
1859/2019, la predetta abusiva trasformazione non può nemmeno essere
ricondotta nello spettro applicativo della ristrutturazione edilizia –con le
connesse sanzioni ai sensi dell’art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001– di cui
all’art. 64 della legge regionale n. 12 del 2005, relativo al recupero dei
sottotetti, in quanto non è stata verificata la sussistenza dei suoi
presupposti applicativi, compreso l’avvenuto decorso del periodo minimo
–oggi triennale– che deve intercorrere dalla data di conseguimento
dell’agibilità del fabbricato al recupero del sottotetto (cfr. art. 63,
commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005).
Ne consegue la legittima applicazione dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del
2001, che tuttavia non esclude la possibilità per i ricorrenti di richiedere
l’accertamento di conformità, ove dovessero sussistere i presupposti di cui
al successivo art. 36
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.06.2020 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cambio di destinazione d’uso funzionale alla realizzazione
di un centro di accoglienza per migranti – Conformità alla
normativa urbanistica di riferimento – Necessità – Art. 11
d.lgs. n. 142/2015.
La modificazione della destinazione
d’uso presuppone la sua conformità alla normativa
urbanistica di riferimento, a cui non è consentito derogare
nemmeno se il cambio di destinazione d’uso è funzionale a
realizzare nel fabbricato un centro di accoglienza per
migranti richiedenti asilo.
La normativa di cui al D.Lgs. n. 142/2015 (e in particolare
l’art. 11) e quella urbanistico-edilizia, operano infatti su
piani distinti senza interferire tra loro, posto che la
prima regola i profili dell’accoglienza dei migranti
richiedenti asilo e la seconda quelli concernenti il governo
del territorio attraverso prescrizioni idonee a consentirne
la corretta e ordinata utilizzazione.
Ne consegue che l’art. 11, laddove prevede che in caso di
necessità i migranti possano essere accolti “in strutture
temporanee appositamente allestite”, non presenta alcun
elemento ermeneutico che consenta di ritenere che
l’allestimento ivi contemplato possa avvenire in contrasto
con la disciplina urbanistico-edilizia di riferimento (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.03.2020 n. 1753 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul mutamento di destinazione
d’uso senza opere dal settore terziario a quello residenziale.
Il mutamento di destinazione d’uso richiesto da parte
ricorrente comporta il passaggio a una tipologia costruttiva più gravosa in
termini di carico urbanistico, dal settore terziario a quello residenziale.
Tale mutamento, cioè, si sostanzia in un cambio di destinazione d’uso tra
categorie autonome, comportante un aumento quantitativo e qualitativo degli
“standards”.
In via generale, l’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 (Testo unico
dell’edilizia) –introdotto dal D.L. n. 123/2014 (c.d. decreto “Sblocca
Italia”)– individua i mutamenti nella destinazione d’uso di un immobile da
ritenere urbanisticamente rilevanti e che pertanto necessitano di uno
specifico titolo abilitativo edilizio.
Di modo che, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali,
costituisce mutamento rilevante ogni forma di utilizzo dell’immobile o della
singola unità immobiliare diversa da quella originaria, “ancorché non
accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie”, purché tale da comportare
l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati a una
diversa categoria funzionale tra quelle “residenziale”, “turistico-ricettiva”,
“produttiva e direzionale”, “commerciale” e “rurale”.
---------------
In linea di principio deve osservarsi che ove non si autorizzi ex novo una
costruzione a uso residenziale ma si realizzi un mutamento di destinazione
d’uso senza opere, cioè meramente funzionale, dovrà tenersi conto -nella
quantificazione degli oneri- degli stardards già garantiti; giacché,
diversamente opinando, si determinerebbe un ingiustificato aggravio a carico
dei richiedenti e un indebito arricchimento a vantaggio del Comune, dovendo
individuarsi la finalità degli obblighi di cessione nell’esigenza di un
corretto e ordinato svolgimento del tessuto edificato nei limiti prescritti
dallo stesso Ente comunale in sede di pianificazione urbanistica.
È significativo rammentare in proposito che –per unanime giurisprudenza- gli
Enti locali hanno l’obbligo di motivare l’imposizione di standards in misura
superiore al minimo garantito dal D.M. n. 1444/1968.
---------------
Dal combinato disposto degli
artt. 16, commi 1, 3 e 10, 19, comma 2, e 23 del D.P.R. n. 380/2001, emerge
con chiarezza che il costo di costruzione, nel caso di interventi su edifici
esistenti, è determinato in relazione agli interventi stessi, come
individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il
permesso di costruire.
Nel caso di specie, siamo in presenza di un cambio di destinazione d’uso
funzionale (senza opere edilizie) dell’unità immobiliare in discussione,
senza che ricorrano interventi di ristrutturazione, di nuova costruzione o
di ristrutturazione urbanistica; sicché –alla stregua del combinato disposto
delle norme su richiamate- il costo di costruzione non è dovuto, poiché, in
effetti, non vi è alcuna costruzione.
---------------
1 - Con ricorso notificato in data 22.07.2016, la dott.ssa -OMISSIS-
-OMISSIS- ha impugnato la nota a firma del Direttore del Settore S.U.E. -in
epigrafe meglio specificata- recante divieto di prosecuzione delle attività
di cui alla S.C.I.A. in data 02.05.2016, per asserita omissione degli
adempimenti indicati nella deliberazione di C.C. n. 31/2015 (di recepimento
della L.R. n. 16/2014).
Trattasi di intervento di mutamento di destinazione d’uso senza opere, in
relazione all’unità immobiliare sita in Bari, al corso -OMISSIS-, realizzata
in attuazione di un piano di lottizzazione in area tipizzata come “Zona
per attività terziaria”. L’Amministrazione comunale subordina la
prosecuzione dell’intervento in questione al reperimento della totalità
degli standards prescritti dall’art. 3 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la
destinazione a uso residenziale.
Più precisamente, si legge nella citata nota comunale che “detta delibera
di Consiglio Comunale (n.d.r. la n. 31/15) prevede:
a) il reperimento delle superfici destinate a standard per la
residenza come previsti, per la nuova destinazione, dal D.M. n. 1444 del
1968, dallo strumento urbanistico vigente o l’importo dovuto per la loro
monetizzazione ove non sia possibile reperirli nelle immediate vicinanze;
b) il versamento del contributo di costruzione di cui all’art. 16
del T.U.E. – D.P.R. 380/2001, come fissato dalla Determina Dirigenziale n.
5493 del 03.08.2012 (contributo del costo di costruzione) e dalla Determina
Dirigenziale n. 8915 del 21.12.2012 (oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria)”.
Parte ricorrente affida il gravame a un unico motivo di ricorso col quale
contesta, per un verso, l’erroneità dei criteri adottati nella nota
gravata, nella parte in cui non è stato previsto un meccanismo compensativo
tra gli standards richiesti per la nuova destinazione (residenziale) e
quelli già versati per la destinazione originaria (terziario), salvo l’onere
di provvedere alla cessione di eventuali maggiori superfici in relazione
alla nuova destinazione d’uso; per altro verso, contesta la richiesta
di versamento del costo di costruzione, essendo stato richiesto un mutamento
meramente funzionale e difettandone, pertanto, il presupposto.
Il Comune di Bari, costituitosi in giudizio per resistere all’impugnativa,
essenzialmente oppone alla ricostruzione del ricorrente la mancata cessione
di aree a standards all’atto di realizzazione del fabbricato destinato a
terziario.
Questa Sezione, con ordinanza n. 913/2019, ha disposto incombenti istruttori
per accertare eventuali cessioni e per verificare, conseguentemente, il
saldo delle aree da destinarsi a standards, in considerazione della
disomogeneità dei criteri di calcolo, a seconda che le aree stesse vengano
rapportate alla destinazione a uso residenziale (artt. 3 e 4 del D.M. n.
1444/1968) ovvero alla destinazione a uso produttivo o assimilabile (art. 5
dello stesso D.M.).
L’Amministrazione comunale, con nota della Ripartizione urbanistica ed
edilizia privata prot. n. 223008 del 07.08.2019, prodotta in pari data, ha
reso i chiarimenti richiesti.
All’udienza dell’11.12.2019, la causa è stata riservata per la decisione.
2 – Il ricorso è fondato.
3 - Deve rimarcarsi in via preliminare che il mutamento di destinazione
d’uso richiesto da parte ricorrente –e inibito dal Comune di Bari- comporta
il passaggio a una tipologia costruttiva più gravosa in termini di carico
urbanistico, dal settore terziario a quello residenziale, come parte
ricorrente stessa riconosce. Tale mutamento, cioè, si sostanzia in un cambio
di destinazione d’uso tra categorie autonome, comportante un aumento
quantitativo e qualitativo degli “standards”.
In via generale, l’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 (Testo unico
dell’edilizia) –introdotto dal D.L. n. 123/2014 (c.d. decreto “Sblocca
Italia”)– individua i mutamenti nella destinazione d’uso di un immobile
da ritenere urbanisticamente rilevanti e che pertanto necessitano di uno
specifico titolo abilitativo edilizio.
Di modo che, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali,
costituisce mutamento rilevante ogni forma di utilizzo dell’immobile o della
singola unità immobiliare diversa da quella originaria, “ancorché non
accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie”, purché tale da
comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati
a una diversa categoria funzionale tra quelle “residenziale”, “turistico-ricettiva”,
“produttiva e direzionale”, “commerciale” e “rurale” (cfr.:
Cons. Stato V, n. 6562 del 20/11/2018; Cass. civile n. 6366
dell’11/02/2019).
Nel caso di specie, non vi è questione sulla forma del titolo edilizio,
bensì sulla quantificazione delle aree da vincolare a servizio e del
contributo di costruzione.
4 - Le contestazioni di parte ricorrente si appuntano non già sulla
configurabilità dell’obbligo di cessione ma sui criteri di calcolo
utilizzati (dunque, sul dato quantitativo), non avendo il Comune considerato
le aree già vincolate a standard all’atto della realizzazione del fabbricato
originario.
La censura è, invero, da ritenersi attendibile.
In linea di principio deve osservarsi che ove non si autorizzi ex novo
una costruzione a uso residenziale ma si realizzi un mutamento di
destinazione d’uso senza opere, cioè meramente funzionale, dovrà tenersi
conto -nella quantificazione degli oneri- degli stardards già garantiti;
giacché, diversamente opinando, si determinerebbe un ingiustificato aggravio
a carico dei richiedenti e un indebito arricchimento a vantaggio del Comune,
dovendo individuarsi la finalità degli obblighi di cessione nell’esigenza di
un corretto e ordinato svolgimento del tessuto edificato nei limiti
prescritti dallo stesso Ente comunale in sede di pianificazione urbanistica.
È significativo rammentare in proposito che –per unanime giurisprudenza- gli
Enti locali hanno l’obbligo di motivare l’imposizione di standards in misura
superiore al minimo garantito dal D.M. n. 1444/1968 (cfr., da ultimo, Cons.
Stato, Sez. IV, 19/02/2019, n. 1151).
Nella fattispecie, è incontroverso che di mutamento funzionale si tratti;
l’Amministrazione comunale ha, infatti, ritenuto di imporre la cessione
dell’integrale dotazione di standards a servizio della destinazione
residenziale sul diverso presupposto dell’assenza di cessione di aree a
standards all’atto di realizzazione dell’intervento costruttivo originario.
Orbene, tale assenza di cessioni è stata, in effetti, confermata in sede
istruttoria; ma, nella stessa sede, è emersa la destinazione di una certa
quantità di superfici a standards pubblicistici attraverso l’imposizione di
servitù (cfr. la tabella riepilogativa allegata all’istruttoria stessa;
nonché l’atto per notaio Er.Fo. rep. n. 114464 del 14.05.1996, agli atti di
causa).
Nell’interpretazione seguita dall’Amministrazione, tuttavia, tali superfici
non sarebbero suscettibili di scomputo in considerazione del dato testuale
dell’art. 39 delle N.T.A. dello strumento urbanistico generale che utilizza
il termine “reperire” con riferimento agli standards destinati alla
residenza e il termine “prevedere” con riferimento agli standards
destinati al terziario; sicché sussisterebbe il vincolo della cessione vera
e propria degli standards per la realizzazione degli interventi residenziali
e, conseguentemente, non sarebbero all’uopo utili le aree meramente
vincolate a finalità pubblicistiche rimaste nella proprietà degli
interessati.
In disparte il rilievo che di tali aree si sarebbe potuta prevedere la
cessione all’Ente comunale quale condizione dello scomputo, in ogni caso
–stante la ratio dell’obbligo di reperimento degli standards come su
riportata- non può ritenersi dirimente lo strumento giuridico utilizzato per
assicurarne la fruizione da parte della collettività insediata su una certa
porzione di territorio (cessione in proprietà, costituzione di servitù o
vincolo di destinazione).
Pertanto, a fronte dell’indiscussa messa a disposizione di aree che -sebbene
non trasferite in proprietà all’Ente locale- risultano gravate da vincolo di
destinazione, appare infondata la pretesa dell’Amministrazione comunale di
ricalcolare l’intero fabbisogno come se si trattasse di prima costruzione;
fatta salva la diversa opzione di trasformare il vincolo di destinazione
pregresso in vera e propria cessione della proprietà in favore
dell’Amministrazione stessa.
5 - Con un’ulteriore residuale censura, parte ricorrente domanda
l’accertamento dell’insussistenza dell’obbligo di pagamento del contributo
di costruzione per ciò che attiene al costo di costruzione, pure richiesto
dal Comune di Bari in relazione al mutamento di destinazione d’uso (si
ribadisce: da ufficio a residenziale) dell’appartamento in questione, sul
presupposto che, nel caso de quo, trattandosi di cambio di
destinazione d’uso senza opere, realizzato mediante segnalazione certificata
di inizio attività, non sussiste l’obbligo del versamento del costo di
costruzione, difettandone in radice il presupposto.
La pretesa è legittima, essendo fondato il motivo dedotto.
Dal combinato disposto degli artt. 16, commi 1, 3 e 10, 19, comma 2, e 23
del D.P.R. n. 380/2001, emerge con chiarezza che il costo di costruzione,
nel caso di interventi su edifici esistenti, è determinato in relazione agli
interventi stessi, come individuati dal Comune in base ai progetti
presentati per ottenere il permesso di costruire.
Nel caso di cui si tratta, siamo in presenza –si ribadisce ancora una volta-
di un cambio di destinazione d’uso funzionale dell’unità immobiliare in
discussione, senza che ricorrano interventi di ristrutturazione, di nuova
costruzione o di ristrutturazione urbanistica; sicché –alla stregua del
combinato disposto delle norme su richiamate- il costo di costruzione non è
dovuto, poiché, in effetti, non vi è alcuna costruzione.
6 – In conclusione, in ragione di quanto su esposto, il ricorso deve essere
interamente accolto
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 02.03.2020 n. 348 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alle procedure urbanistiche
necessarie per il mutamento di destinazione d'uso di un
edificio ex scolastico a laboratorio artigianale/produttivo
per prodotti tipici locali - Comune di Borbona (Regione
Lazio,
nota 23.01.2020 n. 62032 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
cambio della destinazione d'uso (con opere) da chiesa sconsacrata ad
immobile direzionale-bancario sostanzia un intervento di ristrutturazione
edilizia.
In via generale <<ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett.
c), T.U. Edilizia, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di
permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino modifiche del volume, dei prospetti ovvero che, limitatamente
agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della
destinazione d'uso (ristrutturazione edilizia), anche se di dimensioni
modeste. In via residuale, la SCIA assiste, invece, i restanti interventi di
ristrutturazione c.d. leggera (compresi gli interventi di demolizione e
ricostruzione che non rispettino la sagoma dell'edificio preesistente)>>.
Più precisamente, <<gli interventi edilizi che alterino l'originaria
consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi
impianti o la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono
configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o
risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione
edilizia. Non può essere ascritto, pertanto, al restauro o risanamento
conservativo un intervento edilizio implicante un incremento di superficie o
un mutamento di sagome o di destinazione d'uso che devono essere, in ogni
caso, preceduti dall'acquisizione del relativo titolo edilizio, ravvisabile
nel c.d. permesso di costruire>>.
In questo stesso senso, <<per la normativa edilizia [art. 3 comma 1, lettere
a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art. 10, comma
1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere interne e gli
interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del
preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta comportino
mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome>>.
---------------
La modificazione della destinazione d'uso e la trasformazione di una chiesa
sconsacrata in una banca, con l'esecuzione di lavori edilizi, necessita del
permesso di costruire poiché trattasi non di restauro o risanamento
conservativo ma di ristrutturazione edilizia.
---------------
In via generale <<ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U.
Edilizia, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di
costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio
in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche del
volume, dei prospetti ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle
zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso
(ristrutturazione edilizia), anche se di dimensioni modeste. In via
residuale, la SCIA assiste, invece, i restanti interventi di
ristrutturazione c.d. leggera (compresi gli interventi di demolizione e
ricostruzione che non rispettino la sagoma dell'edificio preesistente)>>
(TAR Campania, sez. IV, 05/02/2019, n. 6209).
Più precisamente, <<gli interventi edilizi che alterino l'originaria
consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi
impianti o la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono
configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o
risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione
edilizia. Non può essere ascritto, pertanto, al restauro o risanamento
conservativo un intervento edilizio implicante un incremento di superficie o
un mutamento di sagome o di destinazione d'uso che devono essere, in ogni
caso, preceduti dall'acquisizione del relativo titolo edilizio, ravvisabile
nel c.d. permesso di costruire>> (TAR Campania, sez. III, 03/04/2018, n.
2141).
In questo stesso senso, <<per la normativa edilizia [art. 3 comma 1,
lettere a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art.
10, comma 1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere
interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli
di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta
comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente
autonome>> (TAR Lazio, sez. II, 04/04/2017, n. 4225).
Applicando i principi giurisprudenziali predetti alla fattispecie in esame,
quindi, l’intervento edilizio per il quale è causa rientra certamente tra le
ipotesi di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), trattandosi di modificazione
di destinazione dell’immobile sito in zona A (centro storico di Verona),
attuata mediante opere che, per vero, non possono nemmeno qualificarsi “minime”,
non essendo tali né la realizzazione di un servizio igienico per disabili
prima inesistente, né l’installazione degli impianti, opere queste
assolutamente necessarie per consentire l’utile modificazione della
destinazione dell’immobile che in tal modo è venuto ad assumere una “struttura
funzionale” del tutto diversa, determinando, peraltro, come si dirà più
avanti, un evidente aumento del carico urbanistico.
Con riferimento, in particolare, alla modificazione della destinazione
d’uso, nel caso di specie tale presupposto di fatto è evidente se solo si
considera che l’immobile in esame era un edificio di culto e che solo in
seguito alla “sconsacrazione” è divenuto suscettibile di diverso
utilizzo: si tratta di un caso estremo di passaggio di categoria funzionale,
ricorrendo l’ipotesi di un edificio che, prima della sconsacrazione, aveva
una funzione “pubblica”, quale luogo di culto, divenuto, ora, sede di
un’attività privata con funzione direzionale-bancaria.
Ulteriore argomento ostativo alla qualificazione dell’opera in termini di “restauro
conservativo” come asserito in giudizio da parte ricorrente è dato dal
fatto che solo a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 65-bis, d.l. n. 50
del 2017, convertito in l. 21.06.2017, n. 96, l’art. 3, comma 1, lettera c),
d.p.r. 06.06.2001, n. 380, è stato modificato nel senso che all’espressione
<<ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili>> è stata
sostituita quella secondo la quale <<ne consentano anche il mutamento
delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché
conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai
relativi piani attuativi>>.
In tal senso, solo con la predetta modifica legislativa è possibile porsi il
problema se il mutamento di destinazione d’uso con opere non integri
un’ipotesi di ristrutturazione edilizia ex art. 10, comma 1, lett. c),
laddove siano rispettati i presupposti indicati dalla norma così “novellata”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.01.2020 n. 40 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in
quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra,
rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del
permesso di costruire.
In giurisprudenza si ritiene che <<Il cambio di destinazione d'uso da
cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una
categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i
quali è necessario il rilascio del permesso di costruire>>.
Anche la Cassazione penale ha stabilito che per il mutamento di destinazione
d'uso da cantina ad abitazione è necessario il permesso di costruire: <<In
tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa
categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le
modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il
cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una
stessa categoria omogenea. (Fattispecie relativa a sequestro preventivo di
locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione,
con conseguente passaggio dalla categoria d'uso non residenziale alla
diversa categoria residenziale>>.
---------------
La censura è complessivamente infondata.
Premette il Collegio che le due contestazioni mosse con l’impugnata
ordinanza, sì come inerenti alle opere interne al fabbricato di proprietà
dei ricorrenti, destinato a loro residenza - unitamente ai corrispondenti
profili di censura, vanno lette ed esaminate congiuntamente.
In particolare con il rilievo n. 1 si contesta la “trasformazione
dell’intero piano terra da cantinato a residenziale”, mentre con quello
n. 2 “il frazionamento dell’unità abitativa posta al piano primo, in n. 3
unità residenziali”.
Parte ricorrente deduce che entrambi gli interventi non necessitavano del
previo rilascio del permesso di costruire, ma di una segnalazione
certificata di attività la cui mancanza è sanzionabile (non con la sanzione
demolitoria ex art. 31, d.P.R. 380/2001, ma) con la mera sanzione
pecuniaria.
A supportare la loro tesi sostengono che “la destinazione prevalente del
fabbricato di proprietà dei ricorrenti, è quella residenziale, ovvero la
destinazione sub a) del comma 1 dell’art. 23-ter d.P.R. 380/2001",
atteso che “il fabbricato in questione si compone di un piano
seminterrato e di un piano rialzato ed i ricorrente hanno provveduto a
destinare a residenza anche il piano seminterrato”.
Ma tale presupposto -quanto meno con specifico riferimento alle unità
immobiliari oggetto di contestazione- non è affatto pacifico tra le parti,
né dimostrato dai ricorrenti.
Invero, quanto al rilievo n. 1 inerente alla “trasformazione dell’intero
piano terra”, ciò che si contesta è proprio il mutamento di destinazione
fra categorie funzionalmente autonome e non omogenee (“da cantinato a
residenziale”), mentre il richiamo alla “categoria prevalente”
può valere unicamente con riferimento ad una variazione che si mantenga
nell’ambito della medesima categoria urbanistica.
In giurisprudenza si ritiene che <<Il cambio di destinazione d'uso da
cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una
categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i
quali è necessario il rilascio del permesso di costruire>> (TAR Genova,
(Liguria) sez. I, 26/07/2017, n. 682).
Anche la Cassazione penale ha stabilito che per il mutamento di destinazione
d'uso da cantina ad abitazione è necessario il permesso di costruire: <<In
tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa
categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le
modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il
cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una
stessa categoria omogenea. (Fattispecie relativa a sequestro preventivo di
locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione,
con conseguente passaggio dalla categoria d'uso non residenziale alla
diversa categoria residenziale>> (Cassazione penale sez. III,
05/04/2016, n. 26455).
Per quanto attiene alla contestazione di cui al n. 2 (“frazionamento
dell’unità abitativa posta al piano prima, in n. 3 unità residenziali”),
per la quale i ricorrenti riferiscono di un <<frazionamento del piano
rialzato “già destinato a residenza” in tre unità residenziali>>, va
rilevato quanto segue.
Lo stesso provvedimento impugnato dà atto del pregresso uso abitativo del
piano rialzato, come da permesso di costruire, per cui è fondato il richiamo
alla nuova formulazione dell’articolo 3, lettera b), del D.P.R. 380/2001,
come integrato con le aggiunte di cui al d.l. 12.09.2014, convertito in L.
11.11.2014 n. 164 -dal cui contenuto testuale si evince che è stata ampliata
la nozione di manutenzione straordinaria, comprendendovi tutti quegli
interventi di conservazione dell'edilizia esistente, ivi compresi anche
quegli interventi che portano all'accorpamento o al frazionamento interni
alle unità immobiliari- presuppone che alle operazioni da ultimo indicate
non si accompagni alcun cambio di destinazione.
Invero la suddetta modifica normativa, entrata in vigore il 13.09.2014, ha
esteso la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria
ricomprendendovi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento
delle unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportanti la
variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico
urbanistico, ma a condizione che non sia modificata la volumetria
complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione d'uso.
Il
disposto del nuovo art. 3-ter d.P.R. n. 380 del 2001 (introdotto dalla legge
di conversione del predetto d.l., ossia dalla l. 11.11.2014, n. 164), che,
sul punto, chiarisce come «costituisce mutamento rilevante della
destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola
unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata
dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione,
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati, ad una diversa categoria
funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis)
turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale) commerciale) rurale».
Ne consegue che nella fattispecie in esame in cui lo stesso provvedimento
impugnato assume la destinazione abitativa dell’unità immobiliare
interessata dal frazionamento, devono ritenersi sussistenti i presupposti
necessari per l’applicazione della normativa invocata dai ricorrenti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in
quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra,
rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del
permesso di costruire.
La circostanza che, nella licenza edilizia, il piano
cantinato non abbia alcuna indicazione in ordine alla destinazione d’uso non
può fare presumere, proprio per le caratteristiche intrinseche del relativo
locale, un uso abitativo dello stesso.
Sul punto si osserva che, laddove il cantinato assuma un carattere di
pertinenza rispetto all’unità principale ad uso abitativo la sua funzione
non può che essere servente dell’appartamento, giammai autonoma quale unità
abitativa del tutto distinta da quella principale.
Non a caso, nella classificazione a fini di rendita fiscale, i cantinati –a
differenza delle abitazioni– rientrano nella categoria catastale C,
sottocategoria C/2, quali locali di deposito, proprio in considerazione
della loro funzione servente dell’unità abitativa e quindi fondamentalmente
diversa da quest’ultima.
Da ciò consegue anche che non è applicabile l’invocato art. 23-ter d.p.r.
380/2001, in quanto il passaggio da cantinato a locale abitabile rientra
nell’ambito del cambiamento della destinazione d’uso urbanisticamente
rilevante, considerata la totale diversità delle modalità di utilizzo di una
cantina rispetto ad un appartamento e l’evidente aggravio del carico
urbanistico complessivo sul territorio comunale.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il cambio di
destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta
il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli
interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di
costruire.
---------------
2.3.- Circa il cambio di destinazione d’uso non sono condivisibili le tesi
di parte ricorrente.
La circostanza che nella licenza edilizia, il piano cantinato non abbia
alcuna indicazione in ordine alla destinazione d’uso non può fare presumere,
proprio per le caratteristiche intrinseche del relativo locale, un uso
abitativo dello stesso.
Tra l’altro, è la stessa parte ricorrente a riconoscerlo nel punto in cui
sostiene, benché incidentalmente, che il cantinato riveste una funzione
pertinenziale dell’appartamento.
Sul punto si osserva che, laddove il cantinato assuma un carattere di
pertinenza rispetto all’unità principale ad uso abitativo –aspetto che il
Collegio non nega ma anzi sul quale conviene- la sua funzione non può che
essere servente dell’appartamento, giammai autonoma quale unità abitativa
del tutto distinta da quella principale.
Non a caso, nella classificazione a fini di rendita fiscale, i cantinati –a
differenza delle abitazioni– rientrano nella categoria catastale C,
sottocategoria C/2, quali locali di deposito, proprio in considerazione
della loro funzione servente dell’unità abitativa e quindi fondamentalmente
diversa da quest’ultima.
2.4.- Da ciò consegue anche che non è applicabile l’invocato art. 23-ter
d.p.r. 380/2001, in quanto il passaggio da cantinato a locale abitabile
rientra nell’ambito del cambiamento della destinazione d’uso
urbanisticamente rilevante, considerata la totale diversità delle modalità
di utilizzo di una cantina rispetto ad un appartamento e l’evidente aggravio
del carico urbanistico complessivo sul territorio comunale.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il cambio di
destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta
il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli
interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di
costruire (cfr. Tar Genova, sez. I, 26.07.2017, n. 682).
2.5.- L’elemento dell’altezza non appare rilevante, almeno nei termini
invocati dai ricorrenti.
Ed invero, costoro non contestano che l’altezza effettiva del piano
interrato sia difforme da quella indicata nel grafico di prospetto, pari a
metri 3,00, ma che questa, sin dall’origine, sia sempre stata pari a metri
2,10.
Ebbene, anche laddove l’altezza non sia mai variata e quella riportata nel
grafico sia frutto di errore (materiale) e quindi fuorviante, è del tutto
evidente che, a questo punto, l’unità, per ricevere destinazione abitativa,
non risponderebbe in alcun modo ai requisiti minimi di altezza utile,
fissata in metri 2,70 -riducibili a m 2.40 per i corridoi, i disimpegni in
genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli- come indicato in via
inderogabile dal D.M. del 05.07.1975, contenente le “Modificazioni alle
istruzioni ministeriali 20.06.1896 relativamente all'altezza minima ed ai
requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione”
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 31 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
anno 2019 |
|
EDILIZIA PRIVATA: La trasformazione dei locali adibiti ad uso industriale in locali adibiti ad
attività di culto -attraverso la realizzazione di
opere interne con le quali sono state create, tra le altre, una cucina, due
locali wc, etc.- ha implicato una modifica funzionale dei locali interessati
con conseguente incidenza sul carico urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa è pacifica nel ritenere che la
trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico
rappresenti una ristrutturazione edilizia subordinata al rilascio di
apposito permesso di costruire.
---------------
5. Il ricorso non merita accoglimento.
La trasformazione dei locali adibiti ad uso industriale in locali adibiti ad
attività di culto, compiuta dai ricorrenti attraverso la realizzazione di
opere interne con le quali sono state create, tra le altre, una cucina, due
locali wc, etc. ha implicato una modifica funzionale dei locali interessati
con conseguente incidenza sul carico urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa è pacifica nel ritenere che la
trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico
rappresenti una ristrutturazione edilizia subordinata al rilascio di
apposito permesso di costruire.
Ai sensi dell’art. 3, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, infatti, per
“interventi di ristrutturazione edilizia" si intendono: gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico
di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Per tali
interventi e per l’insieme sistematico di opere che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, il successivo art. 10
richiede che il privato sia preventivamente in possesso di apposito permesso
di costruire.
Nel caso di specie, invece, vi è assenza del titolo edilizio richiesto per
il mutamento della destinazione d’uso originariamente assentita e la
contestuale realizzazione di opere interne idonee ad incidere sul carico
urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 21.11.2019 n. 2918 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
variazione di destinazione d’uso, senza opere, da scuola a due unità
abitative.
Il passaggio dalla precedente destinazione direzionale a quella residenziale
non può che aver condotto a una consistente diminuzione del carico
urbanistico dell’immobile, inteso come peso sul tessuto
urbano e sui servizi di zona, a partire dal traffico veicolare e dalla
connessa necessità di disporre di parcheggi nelle aree antistanti o prossime
all'immobile: per questo profilo, è infatti innegabile che la presenza
nell’edificio di una scuola privata che faceva registrare un afflusso
giornaliero di circa cento persone abbia un impatto superiore rispetto a
quella di due nuclei familiari.
A fronte del sicuro decremento di carico urbanistico determinato dal
mutamento di destinazione, non vi sono invece elementi obiettivi per
sostenere che l’asserita, contestuale divisione dell’immobile stesso in due
abitazioni giustifichi comunque l’onerosità dell’intervento a causa delle
sue ricadute sulle dotazioni di standard urbanistici.
Manca, in definitiva,
la prova che il criterio adoperato –fra quelli stabiliti dall’art. 120 l.r.
n. 1/2005, cit., per identificare gli interventi onerosi– rifletta
adeguatamente le peculiarità della vicenda, essendosi il Comune
attenuto a un’applicazione rigida e automatica della norma di legge, che, al
contrario, fornisce dei parametri indiziari da valutarsi caso per caso
secondo ragionevolezza.
---------------
1. La signora M.Or. è proprietaria di una palazzina situata in Piombino e
composta da due appartamenti, l’uno al primo piano con ingresso dalla via
Ge. 10, l’altro al pianterreno con accesso dalla via Be. 41, entrambi
adibiti a scuola privata dal dicembre del 1995 (in precedenza,
l’appartamento al pianterreno era adibito ad abitazione).
Con due separati ricorsi, la signora Or. impugna rispettivamente:
- la richiesta, di cui alla nota del Comune di Piombino in data
18.09.2006, di regolarizzazione della D.I.A. presentata da essa ricorrente
il 30.03.2005 per la variazione di destinazione d’uso senza opere, da scuola
a due unità abitative, dell’immobile sopra descritto (ricorso n. 2007/2006
R.G.);
- la richiesta, di cui alla nota comunale del 01.02.2007, di
conguaglio del contributo per oneri di urbanizzazione relativi alla predetta
D.I.A., nella misura di euro 9.552,61.
...
2. Come riferito in narrativa, la ricorrente signora Or. ha presentato il
30.03.2005 una D.I.A. avente a oggetto la variazione di destinazione d’uso,
senza opere, del fabbricato di sua proprietà sito in via Ge. 10/via
Be. 41.
Il Comune di Piombino, a riscontro della D.I.A., ha dapprima chiesto alla
ricorrente di regolarizzare la documentazione a corredo della pratica,
producendo, in particolare, gli schemi grafici esemplificativi dei volumi
e/o delle superfici con i rispettivi calcoli dei contributi dovuti, nonché
copia della ricevuta di versamento degli oneri concessori.
La richiesta, comunicata con nota del 18.09.2006, è stata impugnata con il
ricorso iscritto al n. 2007/2006 R.G..
È seguita la nota del 01.02.2007, recante la pretesa del Comune al pagamento
degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria asseritamente dovuti
dalla signora Or. con riferimento al cambio di destinazione d’uso
dell’immobile di sua proprietà. La debenza o meno degli oneri in questione è
materia della controversia promossa con il ricorso n. 442/2007 R.G..
2.1. Evidenti ragioni di connessione oggettiva e soggettiva rendono
opportuna la trattazione congiunta dei ricorsi, che vanno riuniti.
In via pregiudiziale, deve peraltro osservarsi come alla nota del 18.09.2006
non possa riconoscersi un’immediata capacità lesiva, atteso che un
pregiudizio concreto ed attuale sarebbe potuto derivare all’interessata
soltanto dalla successiva adozione, da parte del Comune, di iniziative
sanzionatorie nei confronti dell’attività intrapresa in virtù della D.I.A. “irregolare”
(non regolarizzata); ovvero dalla successiva richiesta, poi effettivamente
pervenuta, di versare il contributo per oneri di urbanizzazione dipendenti
dalla D.I.A..
Si tratta, in altre parole, di un atto interlocutorio dal quale non
scaturiscono esigenze di tutela né di interessi legittimi, né di diritti
soggettivi, da ciò derivando l’inammissibilità della domanda proposta con il
ricorso più risalente.
2.2. Certamente ammissibile è, di contro, la domanda proposta con il ricorso
n. 442/2007 R.G., volto a contrastare la pretesa del Comune di Piombino di
vedersi corrispondere gli oneri di urbanizzazione relativi all’intervento
oggetto della D.I.A. presentata dalla ricorrente nel 2005 per il cambio di
destinazione d’uso dell’immobile di sua proprietà.
Presupposto della pretesa è che il mutamento di destinazione da direzionale
(scuola privata) a residenziale abbia comportato altresì un aumento del
numero di unità immobiliari. In particolare, la nota comunale di
accompagnamento ai documenti trasmessi al TAR evidenzia la variazione
catastale che avrebbe dato luogo, presso la palazzina di via Ge./via Ce.,
a due nuovi subalterni (602 e 603) previa soppressione della preesistente
unità immobiliare (sub 601).
Tanto premesso, con il primo motivo di ricorso, la signora Or. nega
che il cambio di destinazione d’uso sia stato accompagnato dall’aumento
delle unità immobiliari, o anche delle superfici utili dell’edificio.
Dal 1930 il fabbricato sarebbe sempre stato diviso in due appartamenti
indipendenti, con accessi autonomi, entrambi utilizzati quali sede di scuola
privata a partire dal 1995, anno in cui sarebbe stata realizzata una porta
interna di collegamento fra l’appartamento al pianterreno e un corridoio
comune.
Con il ritorno alla destinazione residenziale dell’intero edificio, nel
2005, il carico urbanistico sarebbe considerevolmente diminuito e nulla
sarebbe pertanto dovuto al Comune per oneri di urbanizzazione connessi alla
presentazione della D.I.A..
La ricorrente lamenta, per altro verso, che la verifica eseguita dal Comune
sul pagamento degli oneri sarebbe tardiva rispetto al termine perentorio
stabilito per la verifica della D.I.A. dall’art. 82, co. 3, l.r. n. 1/2005,
nonché dell’art. 8, co. 8, l.r. n. 39/1994. La richiesta di pagamento,
inoltre, non sarebbe stata preceduta dalla necessaria comunicazione di avvio
del procedimento, né sarebbe adeguatamente motivata.
Il difetto della motivazione dell’atto impugnato è ribadito con il secondo
motivo, anche in relazione alla disciplina comunale che prevede la gratuità
dei mutamenti di destinazione d’uso nella zona omogenea “A” di P.R.G..
2.2.1. Le censure, da esaminarsi congiuntamente, sono fondate.
L’amministrazione intimata –lo si è detto– ritiene che l’intervento di cui
alla D.I.A. presentata dalla ricorrente nel 2005 sia oneroso in ragione non
del mutamento della destinazione d’uso dell’immobile, bensì dell’aumento del
numero di unità immobiliari, e tanto in dichiarata applicazione dell’art.
120 l.r. n. 1/2005 (oltre all’atto impugnato, si veda la nota comunale del
12.03.2007, in atti).
La disposizione, applicabile ratione temporis alla fattispecie nel
testo anteriore alle modifiche introdotte dalla legge regionale n. 40/2011,
prevede(va) al comma 1 che:
“1. Gli oneri di urbanizzazione sono dovuti in relazione agli
interventi, soggetti a permesso di costruire o a denuncia di inizio
dell'attività, che comportano nuova edificazione o determinano un incremento
dei carichi urbanistici in funzione di:
a) aumento delle superfici utili degli edifici;
b) mutamento delle destinazioni d'uso degli immobili;
c) aumento del numero di unità immobiliari”.
Il legislatore regionale, come si vede, ha individuato alcuni indici
rivelatori del maggior carico urbanistico dal quale dipende l’onerosità o
meno dell’intervento. Se, pertanto, è lecito presumere che in presenza di
uno di tali indici la corresponsione degli oneri sia dovuta, non per questo
si è però in presenza di una presunzione assoluta, a maggior ragione laddove
il concorso, in concreto, di due degli indici individuati dalla legge
fornisca indicazioni non collimanti.
È quel che accade nel caso in esame, caratterizzato dalla compresenza di un
cambio di destinazione d’uso e di un incremento del numero delle unità
immobiliari. Il secondo dato è contestato dalla ricorrente, ma il tema non
richiede di essere approfondito in fatto, risultando assorbito dalle
considerazioni che seguono.
Il passaggio dalla precedente destinazione direzionale a quella residenziale
non può che aver condotto a una consistente diminuzione del carico
urbanistico dell’immobile di proprietà Or., inteso come peso sul tessuto
urbano e sui servizi di zona, a partire dal traffico veicolare e dalla
connessa necessità di disporre di parcheggi nelle aree antistanti o prossime
all'immobile: per questo profilo, è infatti innegabile che la presenza
nell’edificio di una scuola privata che faceva registrare un afflusso
giornaliero di circa cento persone abbia un impatto superiore rispetto a
quella di due nuclei familiari.
A fronte del sicuro decremento di carico urbanistico determinato dal
mutamento di destinazione, non vi sono invece elementi obiettivi per
sostenere che l’asserita, contestuale divisione dell’immobile stesso in due
abitazioni giustifichi comunque l’onerosità dell’intervento a causa delle
sue ricadute sulle dotazioni di standard urbanistici. Manca, in definitiva,
la prova che il criterio adoperato –fra quelli stabiliti dall’art. 120 l.r.
n. 1/2005, cit., per identificare gli interventi onerosi– rifletta
adeguatamente le peculiarità della vicenda, essendosi il Comune di Piombino
attenuto a un’applicazione rigida e automatica della norma di legge, che, al
contrario, fornisce dei parametri indiziari da valutarsi caso per caso
secondo ragionevolezza.
2.2.2. Alla luce di quanto precede, la pretesa esercitata dal Comune di
Piombino non ha fondamento.
Ne discende l’accoglimento del ricorso non tanto ai fini della richiesta
pronuncia di annullamento, quanto, trattandosi di rapporto paritetico
ricadente nella giurisdizione esclusiva del G.A. (per tutte, cfr. Cons.
Stato, A.P., 30.08.2018, n. 12), dell’accertamento dell’insussistenza del
credito rivendicato dall’amministrazione nei confronti della signora Or.,
con assorbimento di ogni residua doglianza
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.11.2019 n. 1587 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Codice
del terzo settore (d.lgs. n. 117/2017) – Sedi di enti del terzo settore e
locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali – Compatibilità
con tutte le destinazioni d’uso urbanistico – Fattispecie: gestione di
attività turistiche di interesse sociale.
E'
illegittimo il provvedimento con il quale il comune inibisce ad una
associazione del terzo settore la prosecuzione dell’attività di sosta camper
su di un’area.
Invero, sussiste la violazione e falsa applicazione degli
articoli 2 e 32 della legge n. 383 del 2000.
Ai sensi di tale normativa, confermata dall’art.
71 del codice del terzo settore (D.Lgs.
03.07.2017 n. 117), le associazioni di promozione
sociale, che svolgono attività senza fini di lucro, possono svolgere la
propria attività in qualsiasi immobile, area o zona del territorio comunale,
a prescindere dalla destinazione urbanistica impressa all’area stessa e
senza che ciò determini un mutamento della destinazione d’uso dell’immobile
o dell’area utilizzati.
Ne consegue che il Comune non può imporre, così come avvenuto con il
provvedimento gravato, la formazione di un piano di lottizzazione
convenzionato con la determinazione di aree per parcheggi e spazi pubblici.
Peraltro, il provvedimento gravato risulta irragionevole, atteso che
l’ospitalità dei camper dura solo per circa cinque mesi l’anno, al termine
dei quali l’area torna libera da ogni mezzo, senza che si realizzi alcuna
modifica permanente dei luoghi o la realizzazione di una struttura ricettiva
permanente necessitante di titoli edilizi.
---------------
1.- Oggetto di impugnativa è il provvedimento con il quale il Comune di
Roseto degli Abruzzi inibisce all’Associazione ricorrente la prosecuzione
dell’attività di sosta camper sull’area distinta in catasto al foglio 55,
particella n. 33
2.- I motivi di ricorso rispondono alla medesima direttrice logica e possono
essere, pertanto, trattati congiuntamente.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente lamenta la violazione
e falsa applicazione degli articoli 2 e 32 della legge n. 383 del 2000.
Ai sensi di tale normativa, confermata dall’art. 71 del codice del terzo
settore, le associazioni di promozione sociale, che svolgono attività senza
fini di lucro, possono svolgere la propria attività in qualsiasi immobile,
area o zona del territorio comunale, a prescindere dalla destinazione
urbanistica impressa all’area stessa e senza che ciò determini un mutamento
della destinazione d’uso dell’immobile o dell’area utilizzati.
Ne consegue che il Comune non può imporre, così come avvenuto con il
provvedimento gravato, la formazione di un piano di lottizzazione
convenzionato con la determinazione di aree per parcheggi e spazi pubblici.
Peraltro, il provvedimento gravato sarebbe irragionevole, atteso che
l’ospitalità dei camper dura solo per circa cinque mesi l’anno, al termine
dei quali l’area torna libera da ogni mezzo, senza che si realizzi alcuna
modifica permanente dei luoghi o la realizzazione di una struttura ricettiva
permanente necessitante di titoli edilizi.
Parte ricorrente lamenta -secondo motivo- l’incompetenza del Comune
ad inibire un’attività di promozione sociale regolarmente affiliata alla
Federazione nazionale liberi circoli, a sua volta iscritta ex art. 7 L.
383/2000 al registro delle associazioni di promozione sociale, tenuto presso
la Presidenza del consiglio dei Ministri.
Inoltre, il provvedimento muove da un erroneo presupposto di fatto -terzo
motivo- ovvero che l’area in cui sorge il camping, in quanto trasformata
in un’area turistica e ricettiva, necessiterebbe della dotazione di
parcheggi e di altri spazi pubblici da destinare al verde. Il Comune omette
di considerare che la ricorrente si limita a mettere a disposizione degli
utenti del campeggio un’area di terreno ove vanno a sostare massimo trenta
camper per un periodo limitato della stazione estiva.
Infine -quarto motivo- è dedotta la violazione degli articoli 2, 3, 9
e 18, perché il provvedimento determina l’inibizione dell’attività
esercitata in precedenza autorizzata.
3.- Il ricorso è fondato.
L’art. 2, recante l’individuazione delle associazioni di promozione sociale,
e l’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000- il quale prevedeva che la
sede delle associazioni di promozione sociale ed i locali nei quali si
svolgono le relative attività sono compatibili con tutte le destinazioni
d'uso omogenee (previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici
02.04.1968) indipendentemente dalla destinazione urbanistica- sono stati
abrogati dall'art. 102, comma 1, lett. a), D.Lgs. 03.07.2017, n. 117, a
decorrere dal 03.08.2017, ai sensi di quanto disposto dall'art. 104, comma
3, del medesimo D.Lgs. n. 117/2017.
Il disposto normativo recato dal sopra citato articolo 2 è stato riprodotto
nell’art. 71, comma 1, del D.Lgs. 03/07/2017, n. 117, recante il codice del
terzo settore, laddove prevede che: <<le sedi degli enti del Terzo
settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali,
purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni
d'uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici
02.04.1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione
urbanistica>>.
L’art. 5 del d.lgs. 117/2017, dopo aver qualificato come enti del terzo
settore quelli che “esercitano in via esclusiva o principale una o più
attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro,
di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” elenca in modo
tassativo una serie di attività che si considerano di interesse generale,
purché svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano
l'esercizio.
Orbene, tra le attività incluse nell’elenco, che sono considerate di
interesse generale, vi è la “gestione di attività turistiche di interesse
sociale” (art. 5, comma 1, lett. k) ovvero quelle attività perseguite da
enti privati “costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di
finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”.
Tali attività, in considerazione della meritevolezza delle finalità
perseguite dalle associazioni di promozione sociale, possono essere
localizzabili in tutte le parti del territorio urbano, essendo compatibile
con ogni destinazione d'uso urbanistico, e a prescindere dalla destinazione
d'uso edilizio impresso specificamente e funzionalmente all’area (in senso
conforme: Cons. Stato Sez. V Sent., 15/01/2013, n. 181).
Ciò in virtù delle previsioni dell’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del
2000 e dell’art. 71 del d.lgs. 117/2017, disposizioni che, in attuazione del
principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 della Costituzione), "intendono
promuovere e favorire le associazioni private che realizzano attività di
interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di
mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi” (art. 1 della L.
06/06/2016, n. 106, recante la delega al Governo per la riforma del terzo
settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile
universale).
Illustrato il quadro normativo di riferimento, occorre allora verificare se
l’Associazione ricorrente si occupi di “gestione di attività turistiche
di interesse sociale” senza scopo di lucro ovvero persegua “attività
di utilità sociale”, mediante lo svolgimento, in via esclusiva o
principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione
volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di
mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi.
Come emerge dallo Statuto dell’Associazione Ca.cl.Ro.Ma.Bl. (allegato 10 del
fascicolo di parte ricorrente), si tratta di ente senza fini di lucro, che
ha una finalità di promozione del turismo in campeggio.
Ciò emerge dall’art. 2 dello Statuto ove, tra gli scopi perseguiti
dall’associazione, ci sono, tra gli altri, quelli di: “promuovere,
coordinare e tutelare l’attività campeggistica, il turismo itinerante,
l’associazionismo ricreativo e culturale tra quanti esercitano il turismo
all’aria aperta, con particolare riferimento all’assistenza ed alla
propaganda turistica”; “sollecitare la collaborazione degli operatori
pubblici e privati, degli enti pubblici e privati, degli organi di
informazione interessati al turismo campeggistico ed itinerante, per
l’integrazione di tale attività nel turismo in generale, anche con accordi
commerciali a favore dei soci”.
E’ pertanto da escludere l’esercizio, da parte della ricorrente, di un
attività diretta a ricavare introiti commerciali con carattere di stabilità.
Né si evince dallo Statuto un nesso diretto tra la concessione del diritto a
stazionare nel parcheggio e il versamento di un corrispettivo, atteso che
all’associazione sono ammessi tutti i cittadini di qualsiasi età che ne
accettino lo Statuto.
Il camping non è quindi una struttura ricettiva propriamente detta, non
riservata ai soci e aperta al pubblico, ma si tratta di un’area messa a
disposizione dei soli soci, il che consente di configurare l’attività svolta
come attività di promozione sociale ovvero di attività turistica di
interesse sociale.
Al riguardo, il Comune non ha contestato che il Ca.Ro.Ma.bl. non avesse i
requisiti per essere considerato come associazione di promozione sociale o
che li avesse persi per non aver ottenuto l’iscrizione nel registro unico
nazionale del Terzo settore (art. 4, comma 1, del d.lgs. 117/2017).
Né ha allegato concreti elementi dai quali desumere che la situazione di
fatto non fosse in realtà conforme a quella di diritto, ovvero che il
campeggio nominalmente associazione senza fini di lucro destinata ai soli
soci, operasse in realtà come struttura aperta al pubblico. Non consta
documentazione fiscale o di altro tipo, da cui risulti appunto un’attività
di tipo commerciale, né esistono agli atti, sotto forma di verbali di
ispezione o simili, esiti di accertamenti o verifiche in tal senso.
Al contrario, non risulta che il Comune abbia mai mosso rilievi al camping,
né quando si è trattato di emettere un avviso di accertamento per il
pagamento della TARI per gli anni 2015 e 2018 (all. 14 e 15 al fascicolo di
parte ricorrente), né quando a mezzo della società in house Ru.Re.
s.p.a. è stato autorizzato l’allaccio al collettore comunale delle acque
reflue domestiche provenienti da wc, lavandini e docce a servizio dell’area
adibita a parcheggio per camper (all. 16 ricorrente).
In definitiva, non avendo il Comune contestato che la ricorrente svolgesse
attività di interesse generale ovvero attività turistica di interesse
sociale, il provvedimento gravato è illegittimo, per violazione della fonte
normativa gerarchicamente superiore (art. 32, comma 4, della legge n. 383
del 2000 e art. 71 del d.lgs. 117/2017), laddove pretende, per l’utilizzo
dell’area in questione, di applicare la norma di natura regolamentare (art.
17 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G.), che impone il piano di
lottizzazione privato di cui all’art. 23 della legge 18/1983, con il
rispetto della viabilità e dei parcheggi e degli altri spazi pubblici
previsti all’interno delle singole perimetrazioni.
Il Comune avrebbe dovuto considerare l’area sede del camping, come
compatibile con tutte le destinazioni d'uso omogenee.
In proposito, non coglie nel segno l’interpretazione della legge statale
fornita dall’ente locale secondo la quale solo i “locali” e non le “aree”
beneficerebbero del regime agevolativo e derogatorio alla disciplina
urbanistica in materia di destinazioni d’uso.
Invero, osserva il Collegio, l’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000
e l’ art. 71 del d.lgs. 117/2017 si riferiscono non solo ai “locali”,
ma anche alle “sedi”. Quest’ultime, per le attività come quella di
sosta dei camper, che può essere ontologicamente svolta solo all’aperto, non
possono che farsi coincidere con le aree scoperte.
Appare, peraltro, irragionevole subordinare l’attività di camping al piano
di lottizzazione convenzionata, non risultando contestata la circostanza che
l’attività esercitata non implica l’installazione di costruzioni o di altri
manufatti inamovibili. La ricorrente, infatti, si limita a metter a
disposizione ai propri associati l’area per lo stazionamento temporaneo (nel
solo periodo estivo) dei camper (strutturati in modo da servire come
abitazioni durante la sosta).
L’attività svolta dalla ricorrente sembra dunque compatibile con quella dei
campeggi temporanei disciplinata dall’art. 8 della legge regionale
23.10.2003, n. 16, secondo la quale: <<1. le associazioni senza scopo di
lucro che operano per finalità ricreative, culturali, religiose o sociali
possono usufruire, esclusivamente per i propri associati, di aree
appositamente messe a disposizione dal Comune o da privati per periodi di
sosta di non più di trenta giorni, purché forniti di mezzi autonomi di
pernottamento e le presenze non superino le cento unità giornaliere.
2. L'autorizzazione viene concessa dal Comune purché siano assicurate le
attrezzature indispensabili per garantire il rispetto delle norme
igienico-sanitarie e, comunque, nel rispetto di tutte le altre prescrizioni
contenute nell'autorizzazione stessa, volte alla salvaguardia dei valori
naturali ed ambientali>>.
Contrariamente a quanto affermato dal Comune la norma regionale appena
citata non può essere interpretata nel senso di non consentire
l’utilizzazione di aree a prescindere dalla loro destinazione urbanistica,
perché la legge regionale n. 16/2003, recante la disciplina delle strutture
ricettive all’aria aperta, prevede che l’autorizzazione comunale debba
verificare la sussistenza delle seguenti due condizioni:
a) il rispetto delle norme igienico sanitarie (art. 8, comma 2,
L.R. cit.), quali ad esempio l’allaccio alla rete fognaria comunale
(requisito comprovato dalla ricorrente);
b) la salvaguardia dei valori naturali e ambientali.
4.- In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, assorbita ogni
altra doglianza, il provvedimento impugnato che inibisce alla ricorrente la
prosecuzione dell’attività di sosta camper per mancanza del piano di
lottizzazione convenzionata, è illegittimo e deve essere, pertanto,
annullato
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 25.10.2019 n. 519 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mutamento
di destinazione d’uso di un magazzino.
La gestione di un magazzino è assimilabile
all’attività produttiva quando ha a oggetto
le materie prime o i semilavorati destinati
a essere impiegati nel ciclo produttivo,
mentre, di contro, si inserisce nella fase
della commercializzazione quando finge da
deposito di prodotti finiti pronti per
essere immessi nel mercato; ne consegue che
l’attività di stoccaggio di prodotti finiti
(alimenti) in attesa della loro spedizione
ai destinatari finali (i.e. coloro che
acquistano i prodotti via web o telefono)
deve essere qualificata come commerciale.
Non essendo in
contestazione che l’immobile ove venivano
stoccati detti prodotti avesse
originariamente destinazione produttiva,
nella fattispecie è verificato un cambio di
destinazione d’uso urbanisticamente
rilevante ai sensi dell’articolo 52, comma
3, L.R. Lombardia n. 12/2005 che determina
un aumento del carico urbanistico, come si
ricava dall’articolo 5 D.M. 1444/1968, e
giustifica la debenza di un maggior
contributo di costruzione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.09.2019 n. 2055 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è infondato e non merita
accoglimento.
Dalla documentazione in atti si evince
incontrovertibilmente che l’attività svolta
da Eu. S.r.l. nell’immobile di
proprietà della società In. S.p.A. sia di
vendita all’ingrosso di alimenti: si vedano,
in particolare, il contratto di locazione
stipulato da Eu.Im. S.r.l. e Eu. S.r.l. in cui si dà esplicitamente
atto che l’immobile locato sarà destinato a
deposito e magazzino per il commercio
all’ingrosso, e alla dichiarazione di inizio
attività presentata da Eu. S.r.l. per
vendita all’ingrosso di alimentari (docc. 6
e 7 fascicolo di In. S.p.A.).
Né può negarsi che l’attività ivi svolta non
sia commerciale, limitandosi la società
Eu. S.r.l. a stoccare gli alimenti in
attesa della loro spedizione ai destinatari
finali (i.e. coloro che acquistano i
prodotti via web o telefono). Infatti, come
la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire,
la gestione di un magazzino è assimilabile
all’attività produttiva quando ha a oggetto
le materie prime o i semilavorati destinati
a essere impiegati nel ciclo produttivo,
mentre, di contro, si inserisce nella fase
della commercializzazione quando finge da
deposito di prodotti finiti pronti per
essere immessi nel mercato (cfr., C.d.S.,
Sez. IV, sentenza n. 6388/2018).
Dunque, poiché Eu. S.r.l. stoccava
nell’immobile per cui è causa prodotti
finiti (alimenti) l’attività da essa svolta
deve essere qualificata come commerciale.
Ora, non essendo in contestazione che
l’immobile di via ... avesse
originariamente destinazione produttiva, ne
consegue che si è verificato un cambio di
destinazione d’uso urbanisticamente
rilevante ai sensi dell’articolo 52, comma
3, L.R. Lombardia n. 12/2005 (cfr., sentenza
n. 1536/2015 della Sezione). Il mutamento da
artigianale/produttivo a commerciale
determina, infatti, un aumento del carico
urbanistico come si ricava dall’articolo 5
D.M. 1444/1968 (cfr., TAR Toscana, Sez.
III, sentenza n. 309/2018) e giustifica la
debenza di un maggior contributo di
costruzione.
Peraltro, ai fini del calcolo dell’aumento
del contributo di costruzione dovuti da
proprietario e utilizzatore del bene,
correttamente l’Amministrazione ha tenuto
conto, oltre che della parte destinata a
magazzino, anche della superficie lorda
occupata dalla celle frigorifere, dagli
uffici e dai locali accessori, in quanto
vani tutti strettamente funzionali
all’attività commerciale medesima, e ha
applicato le tabelle per l’attività
commerciale, quale è quella svolta da
Eu. S.r.l.. Sicché, non vi è stato
alcun errore di quantificazione del dovuto.
Infine, la pendenza del ricorso promosso da
Eu. S.r.l. avverso analoga ingiunzione
di pagamento emessa nei suoi confronti dal
Comune non incide in alcun modo sulla
legittimità dell’atto qui impugnato.
Peraltro, quel giudizio risulta estinto per
perenzione.
Né è causa di illegittimità il fatto che
l’ingiunzione di pagamento ordini alla
società In. S.p.A. il versamento di €uro
303.103,01 a titolo di oneri di
urbanizzazione e costi di costruzione,
mentre nella nota del 21.07.2001 la stessa
somma capitale è richiesta solamente a
titolo di oneri di urbanizzazione, facendo
salvo il successivo calcolo del costo di
costruzione.
Invero, la suddetta nota è un
mero atto endoprocedimentale e non l’atto
conclusivo del procedimento; peraltro,
l’ingiunzione di pagamento, proprio perché
qualifica la somma ivi indicata come
definitiva e non più come parziale, è più
favorevole alla ricorrente, che dunque non
ha interesse a dolersene.
In conclusione, il ricorso è infondato e per
questo viene respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il cambio di destinazione d'uso.
DOMANDA:
Si chiede di conoscere se per il cambio di destinazione d'uso di un locale
dalla categoria catastale C1 (locali commerciali ed artigianali) alla
categoria C2 (deposito), siano dovuti gli oneri di urbanizzazione a favore
del Comune. Il fabbricato in questione è stato costruito nel 1967.
RISPOSTA:
Con riferimento al quesito posto, si osserva quanto segue.
Preliminarmente, si rileva che la giurisprudenza è costante nell'affermare
che il fondamento degli oneri di urbanizzazione (Legge n. 10/1977) non
consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i
costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti
beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo
modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di
modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico
urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del
pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la
destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova
destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante quando sussiste
un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime
contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici (tra le tante,
Consiglio di Stato, Sez. V, 30.08.2013, n. 4326; Tar Campania, Napoli, Sez.
VIII, 07.04.2016, n. 1769).
La giurisprudenza, inoltre, nel ribadire che la funzione e la causa
giuridica degli oneri di urbanizzazione sono quelle di contribuire alle
spese da sostenere dalla collettività in riferimento alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione, sicché l'unico criterio per determinare se
gli oneri siano dovuti o meno consiste nel carico urbanistico derivante
dall'attività edilizia, ha precisato che per aumento del carico urbanistico
deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove opere di
urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente quelli
esistenti (Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2018, n. 2694).
È stato altresì precisato che poiché l'assoggettamento agli oneri di
urbanizzazione trova fondamento nel maggior carico urbanistico generato da
un intervento edilizio, deve escludersi la suddetta imposizione quando
l'intervento consista in un mutamento di destinazione d'uso che avvenga
all'interno della stessa categoria funzionale mentre il pagamento è dovuto
quando il mutamento di destinazione d'uso determini il passaggio ad una
categoria funzionale autonoma avente maggiore carico urbanistico rispetto a
quella pregressa (Tar Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 30.04.2018, n. 368).
Per quanto riguarda l'individuazione delle categorie funzionali, preme
rilevare che il legislatore, con l’art. 17, comma 1, lett. n), D.L.
12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n.
164, ha introdotto nel Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia (D.P.R. n. 380/2001) l’art. 23-ter,
rubricato “Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante”, che dispone
quanto segue: “1. Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni
forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa,
da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere
edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o
dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra
quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b)
produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
2. La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è
quella prevalente in termini di superficie utile.
3. Le regioni adeguano la propria legislazione ai princìpi di cui al
presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in
vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni
del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della
destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito”.
L'Allegato A della Deliberazione G.R. Molise 25.03.2019, n. 92 contiene la
seguente definizione di carico urbanistico: “Fabbisogno di dotazioni
territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua
entità e destinazione d'uso. Costituiscono variazione del carico urbanistico
l'aumento o la riduzione di tale fabbisogno conseguenti all'attuazione di
interventi urbanistico-edilizi ovvero a mutamenti di destinazione d'uso”.
Tutto ciò premesso, venendo all'esame del caso di specie, si osserva che,
per poter rispondere al quesito posto occorre verificare se il cambio di
destinazione d’uso di un locale dalla categoria catastale C1 (locali
commerciali ed artigianali) alla categoria C2 (deposito) costituisca un
cambio di destinazione d’uso operato tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico e, in caso affermativo, se tale
passaggio avvenga ad una categoria funzionale autonoma avente maggiore
carico urbanistico di quella originaria, oppure costituisca un cambio di
destinazione d'uso operato all'interno della stessa categoria funzionale.
Tra le categorie funzionali previste dal vigente art. 23-ter del D.P.R. n.
380/2001 (che, ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, trova
applicazione diretta qualora la Regione interessata –nel caso di specie, la
Regione Molise– non abbia adeguato la propria legislazione ai principi di
cui al suddetto articolo entro il termine di 90 giorni dalla sua entrata in
vigore e che dunque costituisce la norma di riferimento ai fini della
risposta al quesito in oggetto) non si rinviene in maniera espressa la
destinazione a deposito di cui alla categoria catastale C2.
Pertanto, occorre cercare di ricondurre la predetta destinazione a deposito
in una delle categorie previste dalla predetta norma. A tal fine, potrebbe
essere di aiuto la verifica dell’effettiva destinazione urbanistica
dell’area in cui è situato l’immobile da assoggettare al cambio di
destinazione d'uso, che si ritiene dunque opportuno che venga compiuta da
parte di chi ha posto il quesito e che deve essere effettuata, in
particolare, prendendo in esame le previsioni dello strumento urbanistico
comunale vigente, alle quali non viene fatto alcun riferimento nel testo del
quesito.
Considerato che, in linea generale, l'attività di deposito e/o di magazzino
produce ricchezza sul ricovero e sullo spostamento di oggetti/merci e non
sulla loro creazione o produzione, si ritiene che la destinazione a deposito
possa essere ricondotta alla categoria funzionale “commerciale” di
cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001.
Occorrerà poi indagare a quale categoria funzionale corrisponda la
destinazione d'uso “originaria” dell’immobile in questione.
Al riguardo, considerato che il locale presenta una categoria catastale C1
(che corrisponde a “negozi e botteghe”), ferma restando la necessità,
già sopra evidenziata, di verificare la destinazione urbanistica effettiva
dell’area in cui l'immobile ricade, si ritiene che tale destinazione rientri
anch'essa nella categoria funzionale “commerciale” di cui alla
lettera c) del comma 1 dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001.
Pertanto, considerato che, alla luce delle suddette considerazioni, il
cambio di destinazione d'uso prospettato nel quesito, fermi restando gli
opportuni approfondimenti da effettuare in base alle previsioni dello
strumento urbanistico comunale vigente, pare suscettibile di essere
qualificato come cambio di destinazione d'uso all'interno della stessa
categoria funzionale (commerciale), si ritiene di poter affermare, anche
alla luce della giurisprudenza sopra citata, che non siano dovuti gli oneri
di urbanizzazione.
Ad ulteriore sostegno di quanto sopra, si osserva, inoltre, che peraltro il
mutamento di destinazione d'uso da negozio a deposito (o magazzino) non pare
comportare un incremento del carico urbanistico rispetto alla destinazione
originaria
(novembre 2019 - tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito all'applicazione dell'art.
23-ter, comma 2, del d.P.R. 380/2001 in tema di cambio di
destinazione d'uso – Comune di Velletri (Regione Lazio,
nota 06.03.2019 n. 175831 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul cambio abusivo di destinazione d’uso dell’immobile da negozio a luogo di
culto, senza opere, da parte di una associazione di promozione sociale.
La compatibilità urbanistica, con tutte le destinazioni
d’uso omogenee previste dal D.M. n. 1444 del 1968, della sede delle
associazioni di promozione sociale e dei locali nei quali si svolgono le
relative attività (ex art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000), nonché
secondo Cass. 449/1985, 24852/2015, 34812/2017 delle attività di culto, non
esonera dall’obbligo di richiedere e ottenere un conforme titolo edilizio,
non rilevando nel vigente ordinamento giuridico, ai fini della valutazione
del regime autorizzatorio applicabile, la qualificazione soggettiva del
privato proponente.
Difatti, il citato art. 32 della legge n. 383 del 2000 pone una
compatibilità ex lege della sede e dei locali dell’associazione di
promozione sociale con qualsiasi zona omogenea di PRG, ma poi la concreta
modificabilità del precedente uso, ancorché senza opere, quando non sia tra
categorie funzionali omogenee, deve essere assentita in un apposito titolo
edilizio, mediante il quale l’Amministrazione possa, oltre che verificare i
presupposti allegati dal richiedente circa la riconducibilità della
situazione proprio al paradigma del citato art. 32, o ad altre ipotesi di
astratta compatibilità, anche verificare l’eventuale maggiore incidenza
sotto il profilo urbanistico-edilizio del nuovo uso, ai fini del calcolo
della differenza dei relativi oneri, unitamente alla necessità di procedere
all’accertamento del rispetto di tutte le prescrizioni sia di natura
edilizia che urbanistica che rendano idoneo l’immobile in relazione al nuovo
utilizzo.
Pertanto, in mancanza del necessario titolo edilizio, appare assolutamente
giustificata l’applicazione della sanzione ripristinatoria prevista dal
D.P.R. n. 380 del 2001, laddove, come nella fattispecie oggetto del presente
contenzioso, sia stata abusivamente mutata la destinazione d’uso
originariamente assentita.
---------------
La parte ricorrente si qualifica associazione di promozione sociale che dal
2004 svolge le sue attività nell’immobile, ottenuto in locazione dalla
proprietaria, sito in Mestre, P.le Madonna Pellegrina, in zona residenziale
di completamento B1, avente destinazione d’uso commerciale;
Con l’ordinanza 06.11.2018 il Comune di Venezia contestava alla predetta
Associazione l’avvenuto cambio abusivo di destinazione d’uso dell’immobile
da negozio a luogo di culto, senza opere, disponendo di conseguenza il
rispristino dell’uso legittimo o la conformazione mediante idoneo titolo.
Con il ricorso, si assume l’illegittimità dell’ordinanza, in quanto il
contestato mutamento abusivo –da esercizio commerciale ad attività culturale
ed esercizio del culto islamico– non potrebbe dirsi sussistente, tenuto
conto che la natura di associazione di promozione sociale della ricorrente
le consentirebbe di localizzare la propria sede e i locali ove si svolgono
le sue attività in qualsiasi zona del territorio comunale e
indipendentemente dalla destinazione legittima impressa «ab origine»
all’immobile.
Al riguardo il Collegio osserva che la compatibilità urbanistica, con tutte
le destinazioni d’uso omogenee previste dal D.M. n. 1444 del 1968, della
sede delle associazioni di promozione sociale e dei locali nei quali si
svolgono le relative attività (ex art. 32, comma 4, della legge n. 383 del
2000), nonché secondo Cass. 449/1985, 24852/2015, 34812/2017 delle attività
di culto, non esonera dall’obbligo di richiedere e ottenere un conforme
titolo edilizio, non rilevando nel vigente ordinamento giuridico, ai fini
della valutazione del regime autorizzatorio applicabile, la qualificazione
soggettiva del privato proponente (cfr. TAR Toscana, III, 20.12.2012, n.
2105); difatti, il citato art. 32 della legge n. 383 del 2000 pone una
compatibilità ex lege della sede e dei locali dell’associazione di
promozione sociale con qualsiasi zona omogenea di PRG, ma poi la concreta
modificabilità del precedente uso, ancorché senza opere, quando non sia tra
categorie funzionali omogenee, deve essere assentita in un apposito titolo
edilizio, mediante il quale l’Amministrazione possa, oltre che verificare i
presupposti allegati dal richiedente circa la riconducibilità della
situazione proprio al paradigma del citato art. 32, o ad altre ipotesi di
astratta compatibilità, anche verificare l’eventuale maggiore incidenza
sotto il profilo urbanistico-edilizio del nuovo uso, ai fini del calcolo
della differenza dei relativi oneri, unitamente alla necessità di procedere
all’accertamento del rispetto di tutte le prescrizioni sia di natura
edilizia che urbanistica che rendano idoneo l’immobile in relazione al nuovo
utilizzo (cfr. TAR Campania, Napoli, VIII, 24.05.2016, n. 2635; altresì, TAR
Puglia, Bari, III, 20.05.2016, n. 691, nonché la stessa giurisprudenza
invocata sulla compatibilità della attività di culto con ogni destinazione).
Pertanto, in mancanza del necessario titolo edilizio, appare assolutamente
giustificata l’applicazione della sanzione ripristinatoria prevista dal
D.P.R. n. 380 del 2001, laddove, come nella fattispecie oggetto del presente
contenzioso, sia stata abusivamente mutata la destinazione d’uso
originariamente assentita
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 286 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Il cambio di destinazione d’uso posto in essere,
con passaggio dalla categoria residenziale a quella
produttiva, è giuridicamente rilevante e non può essere
eseguito liberamente ma necessita del rilascio del permesso di
costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, alla cui stregua deve essere letto anche
il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di
variazioni essenziali al permesso di costruire, così
dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali, costituisce mutamento rilevante della
destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o
della singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione
dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a)
residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il
mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante,
assentibile solo mediante permesso di costruire sia in
presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico senza necessità di
ulteriori accertamenti in concreto, poiché la
semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si
è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le
categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente
non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli
standard urbanistici, a conferma della scelta già operata
con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la
trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari
da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale,
configurando un passaggio tra categorie funzionali autonome,
costituisce per espressa qualificazione di legge un
mutamento giuridicamente rilevante della destinazione d’uso.
---------------
In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della
destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di
categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto)
ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato
dalla trasformazione edilizia posta in essere.
---------------
L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale consegue
automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza all’ordine
di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art. 31 del
d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale
istituto connesse al mancato incremento degli standard
urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso.
---------------
4. Perimetrato l’ambito del giudizio al su indicato
provvedimento di ripristino, si può dare corso allo
scrutinio di un primo gruppo di censure articolate avverso
quest’ultimo, le quali sono così riassumibili:
a) l’effettuato cambio di destinazione d’uso era
“liberamente eseguibile” e non assoggettabile a permesso di
costruire, in virtù del combinato disposto degli artt.
23-ter e 32, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, non
avendo giuridica rilevanza per mancato apporto di aggravio
urbanistico in termini di ulteriori standard. L’inesistenza
del maggior peso urbanistico è comprovata dai seguenti
indici:
i) “prima di avere una destinazione residenziale, la
porzione di immobile della sig.ra Storno aveva già una
destinazione produttiva, sicché l’odierna ricorrente non ha
fatto altro che ripristinare l’originaria destinazione d’uso
produttiva impressa ad una parte dell’immobile fin dalla sua
costruzione”;
ii) “proprio la destinazione d’uso produttiva
dell’immobile era stata presa in considerazione dal Comune
al momento dell’adozione del P.R.G., sicché lo strumento
urbanistico già tiene conto dell’impatto della destinazione
produttiva (originaria) dell’immobile della sig.ra Storno ed
ha previsto degli standard urbanistici adeguati e correlati
direttamente all’utilizzo produttivo dell’immobile”;
iii)
“il mutamento di destinazione d’uso concerne una porzione di
un edificio che è inserito in un contesto già ampiamente
urbanizzato (strade, illuminazione) e dotato altresì di
allacci idrici e fognari”;
b) il cambio di destinazione d’uso in questione “oltre a non
avere alcun impatto urbanistico, è anche funzionale
all’esercizio di un’attività artigianale, sicché non può
omettersi di rilevare che ai sensi dell’art. 6, comma 2,
lett. e-bis), del D.P.R. n. 380/2001 rientrano tra
l’attività di edilizia libera anche “le modifiche interne di
carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati
adibiti ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le
parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione
d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa””;
c) la legittimità del cambio di destinazione d’uso era
comunque asseverata dalla CILA dell’11.07.2016 e dalla
SCIA commerciale del 02.09.2016, con la conseguenza
che l’amministrazione non avrebbe potuto adottare l’ordine
di ripristino senza prima annullare in autotutela i suddetti
titoli abilitativi;
d) l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale
prospettata nell’ordinanza di ripristino in caso di
inottemperanza non può trovare applicazione a casi, come
quello di specie, in cui il cambio di destinazione d’uso da
residenziale a produttivo non comporti incremento degli
standard urbanistici.
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le
ragioni di seguito esplicitate.
5. Il cambio di destinazione d’uso posto in essere dalla
ricorrente, con passaggio dalla categoria residenziale a
quella produttiva, era giuridicamente rilevante e non poteva
essere eseguito liberamente, anche previa CILA come nello
specifico, ma necessitava del rilascio del permesso di
costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001
(introdotto dal decreto legge n. 133/2014, convertito nella
legge n. 164/2014), alla cui stregua deve essere letto anche
il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di
variazioni essenziali al permesso di costruire, così
dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali, costituisce mutamento rilevante della
destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o
della singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione
dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a)
residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il
mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante,
assentibile solo mediante permesso di costruire sia in
presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico senza necessità di
ulteriori accertamenti in concreto, poiché la
semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si
è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le
categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente
non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli
standard urbanistici, a conferma della scelta già operata
con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la
trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari
da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale, configurando un passaggio tra
categorie funzionali autonome, costituisce per espressa
qualificazione di legge un mutamento giuridicamente
rilevante della destinazione d’uso (cfr. Cass. Pen., Sez.
III, 22.09.2017 n. 5770; Consiglio di Stato, Sez. VI,
13.05.2016 n. 1951; Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.02.2015 n. 974; Cass. Pen., Sez. III,
03.12.2015
n. 12904; TAR Campania Napoli, Sez. III, 05.09.2017 n.
4249; TAR Lombardia Milano, Sez. II, 17.02.2016 n.
344).
5.1 Né può ritenersi, come sostiene parte ricorrente
richiamando un orientamento giurisprudenziale ormai
minoritario (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 03.05.2016 n. 1684), che per aversi mutamento di
destinazione d’uso giuridicamente rilevante occorrerebbe
appurare, in aggiunta al passaggio tra categorie funzionali
diverse, l’effettivo aggravio urbanistico incidente sul
tessuto edilizio in termini di incremento degli standard
urbanistici (nella specie, parte ricorrente rimarca per
l’appunto l’inesistenza di tale maggior peso urbanistico).
Tale tesi merita di essere disattesa perché contrastante sia
con la lettera sia con la ratio dell’art. 23-ter del d.P.R.
n. 380/2001.
Infatti, nell’enunciato della disposizione in parola non si
rinviene alcun riferimento all’accertamento in concreto
dell’aggravio urbanistico, ma semplicemente si ricollega il
concetto di rilevanza del mutamento di destinazione d’uso ad
una diversa assegnazione della categoria funzionale di
appartenenza, la quale di per sé impatterebbe sul carico
urbanistico, inteso come rapporto di proporzione
quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi
di una determinata zona territoriale.
Inoltre, inserendosi l’intervento di trasformazione
funzionale nell’ambito di un preesistente piano urbanistico,
è evidente, in considerazione della differenziazione
infrastrutturale tra le singole zone, che la ratio
perseguita dalla norma riposa sulla salvaguardia del
corretto ed ordinato assetto del territorio piuttosto che
sul mero contrasto di eventuali aggravi urbanistici, avendo
la finalità di mantenere inalterato il carico urbanistico di
ogni zona e di impedire lo stravolgimento degli equilibri
prefigurati dalla strumentazione urbanistica mediante
appositi standard (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 5770/2017
cit.).
In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della
destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di
categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto)
ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato
dalla trasformazione edilizia posta in essere.
...
8. Infine, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale
consegue automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza
all’ordine di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art.
31 del d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale
istituto connesse al mancato incremento degli standard
urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Mutamento di destinazione d'uso senza opere
- SCIA o permesso di costruire - Presupposti - Stessa
categoria urbanistica - Categoria omogenea - Centri storici
- Art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, il mutamento
di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a SCIA,
purché intervenga nell'ambito della stessa categoria
urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per
le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di
categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri
storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea
(Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016 - dep. 24/06/2016, P.M. in
proc. Stellato).
...
Destinazione d'uso - Funzione - Organizzazione e gestione
del territorio comunale - Mutamento della destinazione d'uso
- Aggravamento del carico urbanistico - Regimi
urbanistico-contributivi diversi.
La destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione. Essa individua il bene
sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di
zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione
della differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a seconda della
diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le
loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di
queste incidono negativamente sull'organizzazione dei
servizi, alterando appunto il complessivo assetto
territoriale.
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della
destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere
edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della
destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel
senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche
omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie
urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina un
aggravamento del carico urbanistico esistente.
Pertanto, è giuridicamente rilevante solo il mutamento di
destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle
stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non
diversi regimi urbanistico-contributivi stante le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.09.2018 n. 40678 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione. Essa individua il bene
sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di
zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione
della differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a seconda della
diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e
la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate
attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso
in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non
consentite di queste incidono negativamente
sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il
complessivo assetto territoriale.
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che
il mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in
assenza di opere edilizie interne, ma occorre dimostrare che
il cambio della destinazione presenti il requisito
dell'omogeneità, nel senso che sia intervenuto tra categorie
urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe
categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione,
determina, come nella specie, un aggravamento del carico
urbanistico esistente.
Pertanto, è giuridicamente rilevante solo
il mutamento di destinazione d'uso tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi
mutamenti di fatto, ma non diversi regimi
urbanistico-contributivi stanti le sostanziali equivalenze
dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima
categoria.
Va, quindi, conclusivamente ribadito che,
in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso
senza opere è assoggettato a SCIA, purché intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è
richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se
il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea.
---------------
2. Il primo motivo è infondato, essendo
prevalentemente articolato in fatto.
Questa Corte ha chiarito che la destinazione d'uso è un
elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e
risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di
pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa
individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando
le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici
in considerazione della differenziazione infrastrutturale
del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa
sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a
seconda della diversa destinazione di zona (Sez. 3, n. 9894
del 20/01/2009, Tarallo).
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le
loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di
queste incidono negativamente sull'organizzazione dei
servizi, alterando appunto il complessivo assetto
territoriale (Sez. 3, n. 24096 del 07/03/2008, Desimine;
Sez. 3, Sentenza n. 35177 del 12/07/2001, dep. 21/10/2002,
Cinquegrani Rv. 222740).
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della
destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere
edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della
destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel
senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche
omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie
urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, come
nella specie, un aggravamento del carico urbanistico
esistente.
Pertanto, è giuridicamente rilevante solo il mutamento di
destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle
stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non
diversi regimi urbanistico-contributivi stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
Va, quindi, conclusivamente ribadito che, in tema di reati
edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a SCIA, purché intervenga nell'ambito della
stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso
di costruire per le modifiche di destinazione che comportino
il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito
nei centri storici, anche all'interno di una stessa
categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016 - dep.
24/06/2016, P.M. in proc. Stellato, Rv. 267106) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.09.2018 n. 40678). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cambio di destinazione d’uso senza permesso, demolizione
solo in caso di lavori «pesanti». Sulla necessità del
permesso di costruire in caso di mutamento di destinazione
d'uso di rilevanza urbanistica.
Sulla demolizione di opere edilizie abusive che hanno
comportato il mutamento della destinazione d'uso di una
soffitta-lavatoio–stenditoio ad uso abitativo residenziale.
Non
è controversa l’avvenuta destinazione del complesso
soffitta-lavatoio-stenditoio ad uso abitativo, Si tratta,
con ogni evidenza, di un mutamento di destinazione d’uso con
opere, in quanto anche la semplice realizzazione degli
impianti tecnologici e sanitari è sufficiente, per costante
giurisprudenza, a tal fine.
---------------
La disposta demolizione presuppone la classificazione del
mutamento di destinazione d’uso con opere nell’ambito della
ristrutturazione edilizia cd. “pesante” o “maggiore”,
alla quale fanno riferimento l’art. 33 del D.P.R. n.
380/2001 e l’art. 16 della L.R. n. 15/2008.
Tale classificazione è stata adottata dalla giurisprudenza
della Corte di cassazione in numerose sentenze.
Invero, la Suprema Corte ha avuto modo di
precisare, per quanto qui interessa, quanto segue:
- “la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la
connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di
interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della
pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione
dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento
delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale”;
- “quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza…. si
configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione
edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380
del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre
alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del
contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione”;
- “un delicato problema di coordinamento interpretativo si
correla alla disposizione del D.P.R. n. 380 del 2001, art.
10, comma 1, lett. c), secondo la quale sono subordinati a
permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione
edilizia che ..., limitatamente agli immobili compresi nelle
zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione
d'uso". Il che potrebbe portare ad affermare che, fuori
delle zone omogenee A), la ristrutturazione edilizia (purché
non comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici)
sarebbe sottratta al regime del permesso di costruire e
realizzabile mediante denuncia di inizio dell'attività anche
se si accompagni alla modifica della destinazione d'uso.
Una conclusione siffatta, però, si porrebbe in contrasto con
l'assoggettamento al permesso di costruire, anche fuori dei
centri storici, delle opere di manutenzione straordinaria e
di restauro e risanamento conservativo (interventi di minore
portata rispetto alla ristrutturazione edilizia) qualora
comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
Un'interpretazione coerente della disposizione […],
conseguentemente, può aversi soltanto allorché si ritenga
che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni
d'uso compatibili" già considerate dallo stesso D.P.R., art.
3, comma 1, lett. c) (nella descrizione della tipologia del
restauro e risanamento conservativo).
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, in sostanza,
alla stessa stregua degli interventi di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo:
- necessitano sempre di permesso di costruire, qualora comportino
mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico;
- fuori dei centri storici sono realizzabili mediante denunzia di
attività qualora comportino il mutamento della destinazione
d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea;
- nei centri storici non possono essere realizzati mediante
denunzia di attività neppure qualora comportino il mero
mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa
categoria omogenea”.
Tale linea interpretativa è stata confermata dalla
successiva giurisprudenza.
In particolare, ha precisato che la “imprescindibile
necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso
caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione
straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in
conseguenza delle modifiche introdotte dal D.L. 12.09.2014,
n. 133, art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, convertito,
con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, sia oggi
consentito nell'ambito di detti interventi procedere al
frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con
esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle
superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico
urbanistico”.
---------------
Nel caso di trasformazione di vani accessori in vani
abitabili in un edificio residenziale, è da ritenersi
-in generale- che non vi sia il rispetto degli elementi
formali/strutturali dell’organismo edilizio.
La Corte di cassazione ritiene che gli "elementi
formali" attengono alla disposizione dei volumi,
elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il
manufatto, configurando la sua immagine caratteristica;
mentre gli "elementi strutturali"
sono quelli che materialmente compongono la struttura
dell'organismo edilizio.
Ad avviso del Collegio, detti requisiti non vanno
giustapposti, bensì considerati sinteticamente come
espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è
connotato non solo tipologicamente, ma anche come
individualità che include una determinata proporzione di
elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito
della mera conservazione, sia pur intesa dinamicamente.
Inoltre, il Collegio ritiene decisivo osservare che la
qualificazione dell’intervento in questione quale restauro e
risanamento conservativo è radicalmente preclusa dal testo
dell’art. 16, comma 1, della L.R. 11.08.2008, n. 15
(applicato nella fattispecie dall’Amministrazione), il quale
accomuna espressamente agli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n.
380/2001 i “cambi di destinazione d’uso da una categoria
generale ad un’altra…in assenza di permesso di costruire o
di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’art.
22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001”, senza
limitarne la portata applicativa alle Zone A.
---------------
La questione è connessa a quella del carattere
urbanisticamente rilevante di questo tipo di mutamento (da
locale accessorio o pertinenza a vano abitabile).
Si tratta, in realtà, di un mutamento del tutto assimilabile
a un cambio di categoria rilevante ai sensi dell’art.
23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 e come tale avente
rilevanza urbanistica ai sensi del
punto 38 della
Tabella A
- Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (D.Lgs. 222/2016).
Questo Tribunale ha affermato al riguardo che “nell’ambito
di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto
dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che,
secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore
di superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e
locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire”.
---------------
1. La società ricorrente impugna l'ordinanza prot. n. 1954
n. 9/2017 del 01.02.2017 del Comune di Rignano Flaminio
avente ad oggetto la demolizione opere edilizie abusive ai
sensi dell’art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, unitamente
al presupposto verbale di sopralluogo della Polizia Locale.
Le opere in questione riguardano una unità immobiliare
collocata nell'immobile censito nel N.C.E.U. al Foglio 4,
Particella 1014, Subalterno 568, edificato sul terreno in
Catasto al Foglio 4, Particella 1014 (edificio B) e situato
in Zona B di P.R.G., in area non vincolata
paesaggisticamente.
Esse hanno comportato il mutamento della destinazione d'uso
a soffitta-lavatoio-stenditoio, risultante dagli elaborati
progettuali dei Permessi di Costruire, in destinazione
residenziale, a seguito di un insieme sistematico di opere
accessorie realizzate per rendere i vari ambienti dell'unità
immobiliare adatti ad un uso abitativo, le quali sono così
descritte:
- Installazione di un termosifone e fornitura del gas nel vano
denominato "soffitta C1" adibito a cucina con gli appositi
arredi.
- Installazione di due termosifoni, realizzazione di una presa TV e
telefono nonché di prese della corrente nel vano principale
denominato "soffitta C" ora adibito a soggiorno.
- Installazione di un termosifone, realizzazione di una presa TV
nonché di prese della corrente, nel vano denominato
"Soffitta C2" ora adibito a camera da letto matrimoniale con
armadio.
- Installazione di un termosifone, realizzazione di un wc, doccia e
prese della corrente nel vano denominato “lavatoio” ora
adibito a bagno.
- Realizzazione di una presa TV e della corrente nello stenditoio
scoperto lato sud.
- Realizzazione di un vano caldaia nello stenditoio scoperto lato
est.
...
6. Il terzo motivo di ricorso attiene alla disciplina
del mutamento di destinazione d'uso, che necessita di
permesso di costruire soltanto in caso di rilevanza
urbanistica.
Secondo il ricorrrente, ove non si verifichi il passaggio da
una categoria all’altra, di cui all’art. 23-bis del T.U. Ed.,
è sufficiente una semplice DIA (ora SCIA), la cui omissione
non è passibile di ordinanza di demolizione, ma solamente
della sanzione pecuniaria di cui all’art. 37 T.U. cit., che
fa salve le ipotesi, qui non ricorrenti, degli interventi
eseguiti su beni culturali ovvero in zona tipizzata come “A”
dallo strumento urbanistico.
6.1 Il motivo è infondato.
6.1.1 In punto di fatto, non è controversa l’avvenuta
destinazione del complesso soffitta-lavatoio-stenditoio ad
uso abitativo, come risulta anche dai rilievi fotografici
acquisiti agli atti del giudizio.
Si tratta inoltre, con ogni evidenza, di un mutamento di
destinazione d’uso con opere, in quanto anche la semplice
realizzazione degli impianti tecnologici e sanitari è
sufficiente, per costante giurisprudenza, a tal fine.
6.1.2 In punto di diritto, va anzitutto osservato che la
disposta demolizione presuppone la classificazione del
mutamento di destinazione d’uso con opere nell’ambito della
ristrutturazione edilizia cd. “pesante” o “maggiore”,
alla quale fanno riferimento l’art. 33 del D.P.R. n.
380/2001 e l’art. 16 della L.R. n. 15/2008.
Tale classificazione è stata adottata dalla giurisprudenza
della Corte di cassazione in numerose sentenze.
Già con la
sentenza
05.03.2009 n. 9894
della III sezione penale, la Suprema Corte ha avuto modo di
precisare, per quanto qui interessa, quanto segue:
- “la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la
connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di
interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della
pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione
dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento
delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale”;
- “quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza…. si
configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione
edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380
del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre
alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del
contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione”;
- “un delicato problema di coordinamento interpretativo si
correla alla disposizione del D.P.R. n. 380 del 2001, art.
10, comma 1, lett. c), secondo la quale sono subordinati a
permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione
edilizia che ..., limitatamente agli immobili compresi nelle
zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione
d'uso". Il che potrebbe portare ad affermare che, fuori
delle zone omogenee A), la ristrutturazione edilizia (purché
non comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici)
sarebbe sottratta al regime del permesso di costruire e
realizzabile mediante denuncia di inizio dell'attività anche
se si accompagni alla modifica della destinazione d'uso.
Una conclusione siffatta, però, si porrebbe in contrasto con
l'assoggettamento al permesso di costruire, anche fuori dei
centri storici, delle opere di manutenzione straordinaria e
di restauro e risanamento conservativo (interventi di minore
portata rispetto alla ristrutturazione edilizia) qualora
comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
Un'interpretazione coerente della disposizione […],
conseguentemente, può aversi soltanto allorché si ritenga
che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni
d'uso compatibili" già considerate dallo stesso D.P.R., art.
3, comma 1, lett. c) (nella descrizione della tipologia del
restauro e risanamento conservativo).
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, in sostanza,
alla stessa stregua degli interventi di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo:
- necessitano sempre di permesso di costruire, qualora comportino
mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico;
- fuori dei centri storici sono realizzabili mediante denunzia di
attività qualora comportino il mutamento della destinazione
d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea;
- nei centri storici non possono essere realizzati mediante
denunzia di attività neppure qualora comportino il mero
mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa
categoria omogenea”.
Tale linea interpretativa è stata confermata dalla
successiva giurisprudenza (cfr. ex multis
Cass. pen, sez. III, 28.01.2015, n. 3953).
In particolare,
Cass. pen, sez. III,
14.02.2017, n. 6873, ha precisato che la “imprescindibile
necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso
caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione
straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in
conseguenza delle modifiche introdotte dal D.L. 12.09.2014,
n. 133, art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, convertito,
con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, sia oggi
consentito nell'ambito di detti interventi procedere al
frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con
esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle
superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico
urbanistico”.
Dalla ricostruzione della disciplina normativa successiva
alle riforme del 2014-2017 potrebbe trarsi, secondo una
diversa ipotesi, anche l'interpretazione per cui il
mutamento di destinazione d’uso potrebbe essere ricompreso
-almeno in alcuni casi- nella definizione di restauro e
risanamento conservativo (secondo la linea interpretativa
adottata da TAR Toscana, sez. III, 28.07.2017, n. 1009).
Ad avviso del Collegio, tuttavia, questa classificazione (la
quale comporterebbe un diverso regime sanzionatorio
edilizio, conformemente alla prospettazione della parte
ricorrente) non può essere recepita.
In realtà la sentenza della Cassazione da ultimo menzionata,
richiamando la giurisprudenza anteriore, ha anche precisato
sul punto che nella categoria del restauro e risanamento
conservativo “possono essere annoverate soltanto le opere
di recupero abitativo, che mantengono in essere le
preesistenti strutture, alle quali apportano un
consolidamento, un rinnovo o l'inserimento di nuovi elementi
costitutivi, a condizione che siano complessivamente
rispettate tipologia, forma e struttura dell'edificio”.
La diversa opinione fa leva, oggi, sulla nuova definizione
di restauro e risanamento conservativo introdotta nell’art.
3, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, ad opera
dell’art. 65-bis della L. n. 96/2017: “gli interventi
edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad
assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico
di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici,
formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali
elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste
dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani
attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il
ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e
degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso,
l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo
edilizio”.
Pur tuttavia, anche questa versione della norma prevede
sempre il requisito della compatibilità con gli elementi
tipologici, formali e strutturali dell'organismo edilizio
(su cui cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2013, n. 4851).
Ora, nel caso di trasformazione di vani accessori in vani
abitabili in un edificio residenziale, è da ritenersi -in
generale- che non vi sia il rispetto degli elementi
formali/strutturali dell’organismo edilizio.
La Corte di cassazione ritiene che gli "elementi
formali" attengono alla disposizione dei volumi,
elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il
manufatto, configurando la sua immagine caratteristica;
mentre gli "elementi strutturali" sono quelli
che materialmente compongono la struttura dell'organismo
edilizio (Cass.
pen., sez. III, 26.11.2014, n. 49221).
Ad avviso del Collegio, detti requisiti non vanno
giustapposti, bensì considerati sinteticamente come
espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è
connotato non solo tipologicamente, ma anche come
individualità che include una determinata proporzione di
elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito
della mera conservazione, sia pur intesa dinamicamente.
Inoltre, il Collegio ritiene decisivo osservare che la
qualificazione dell’intervento in questione quale restauro e
risanamento conservativo è radicalmente preclusa dal testo
dell’art. 16, comma 1, della L.R. 11.08.2008, n. 15
(applicato nella fattispecie dall’Amministrazione), il quale
accomuna espressamente agli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n.
380/2001 i “cambi di destinazione d’uso da una categoria
generale ad un’altra…in assenza di permesso di costruire o
di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’art.
22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001”, senza
limitarne la portata applicativa alle Zone A.
In piena continuità con questa impostazione si colloca, da
ultimo, la recente L.R. 18.07.2017, n. 7 (“Disposizioni
per la rigenerazione urbana e il recupero edilizio”), la
quale così dispone all’art. 4, comma 1: “I comuni, con
apposita deliberazione di consiglio comunale da approvare
mediante le procedure di cui all'articolo 1, comma 3, della
L.R. n. 36/1987, possono prevedere nei propri strumenti
urbanistici generali, previa acquisizione di idoneo titolo
abilitativo di cui al D.P.R. n. 380/2001, l'ammissibilità di
interventi di ristrutturazione edilizia, compresa la
demolizione e ricostruzione, di singoli edifici aventi una
superficie lorda complessiva fino ad un massimo di 10.000
mq, con mutamento della destinazione d'uso tra le categorie
funzionali individuate all'articolo 23-ter del D.P.R.
380/2001 con esclusione di quella rurale”.
La questione è connessa a quella del carattere
urbanisticamente rilevante di questo tipo di mutamento (da
locale accessorio o pertinenza a vano abitabile).
Si tratta, in realtà, di un mutamento del tutto assimilabile
a un cambio di categoria rilevante ai sensi dell’art.
23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 e come tale avente
rilevanza urbanistica ai sensi del
punto 38 della
Tabella A
- Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (D.Lgs. 222/2016).
Questo Tribunale ha affermato al riguardo che “nell’ambito
di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto
dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che,
secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore
di superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e
locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire” (cfr.
TAR Lazio, sez. II-bis, 11.07.2018, n. 7739; cfr.
altresì
sez. II-bis, 04.04.2017, n. 4225;
sez. II-bis, 30.01.2017, n. 1439; nonché
Cass. pen., sez. fer., 05.10.2015, n.
39907).
Per mera completezza va anche osservato che nessun rilievo
riveste, nella specie, il profilo di cui all’art. 23-ter,
comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 (“La destinazione d'uso
di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella
prevalente in termini di superficie utile”): secondo la
Cassazione penale, sez. III, 29.11.2016, n. 50503,
l’accertamento sulla prevalenza della destinazione d'uso del
fondo riguarda solamente il caso di una destinazione mista,
allo scopo di stabilire quale sia la destinazione d'uso da
considerare prevalente, per verificare se vi sia stato un
mutamento rispetto ad essa; mentre nel caso dei locali
accessori non si discute della destinazione residenziale
complessiva dell’opera, che è certa ed è unitaria, ma della
diversa questione della ripartizione dei volumi principali e
accessori, secondo le considerazioni poc’anzi esposte.
...
9. Conclusivamente il ricorso va respinto (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-quater,
sentenza 30.08.2018 n. 9074 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Esposizione di auto smantellata.
Il comune che accerta l'occupazione abusiva di un'area da parte di un
concessionario di autoveicoli deve ordinare l'immediata cessazione
dell'esposizione a cielo aperto. Anche se si tratta di una porzione di
terreno posizionata in una zona periferica degradata che è stata curata
negli anni grazie all'intervento del commerciante di automobili.
Lo ha
chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, con la
sentenza 09.08.2018 n. 8949.
Un concessionario della periferia romana si è allargato recintando un'area
confinante con la sua e posizionando negli anni in questo spazio una vera e
propria esposizione di veicoli a cielo aperto.
A seguito di un controllo della polizia municipale di Roma capitale il
dirigente capitolino ha ordinato l'immediata cessazione dell'occupazione
abusiva e l'interessato ha proposto ricorso contro questa determinazione. Ma
senza successo.
Non interessa tanto il fatto che i veicoli in questione siano solo in
esposizione e non in vendita, specifica il collegio. Quello che rileva è il
fatto che senza alcun titolo il commerciante abbia posizionato dei veicoli
su una porzione di terreno per esercitare la sua attività commerciale (articolo
ItaliaOggi del 25.08.2018).
---------------
MASSIMA
Rileva il Collegio che il presupposto in fatto delle censure dedotte
–secondo il quale la ricorrente avrebbe ottenuto l’area in questione in
affidamento in custodia a seguito di eventi di rilievo per l’ordine pubblico
puntualmente descritti in ricorso– è del tutto recessivo rispetto
all’oggetto del provvedimento impugnato, che è rivolto a determinare la
cessazione dell’attività di deposito a cielo aperto di autoveicoli,
questione che attiene all’utilizzazione in atto dell’area, non alla sua
titolarità in capo alla ricorrente stessa.
Quest’ultima trascura di considerare che la collocazione di
autoveicoli in area a cielo aperto in uso all’azienda comporta la
qualificazione dell’attività come di deposito, senza che rilevi lo specifico
scopo commerciale (che può variare a seconda della natura dell’attività di
impresa) ai fini del quale l’esposizione degli automezzi è rivolta e
finalizzata (in ordine al rapporto
tra il deposito a cielo aperto, l’attività di tipo imprenditoriale cui è
riferita e la necessità della SCIA, si veda TAR Lazio, II-ter, 18.01.2018 nr.
651; per il rapporto tra l’attività in parola ed il regime del titolo
edilizio, si veda, della stessa Sezione, sentenza nr. 11090 del 07.11.2017),
con la conseguenza che, ai fini dell’odierno giudizio, l’asserita
locazione finanziaria degli autoveicoli medesimi non implica la
qualificazione del relativo esercizio in termini di attività finanziaria
sottratta all’applicazione dell’art. 19 della l. 241/1990 (quanto al regime
delle attività semplificate, però, non nei termini della possibilità di
esercitare senza alcun titolo).
In ogni caso, non sussiste dimostrazione alcuna né della titolarità
dell’affidamento dell’area in custodia che parte ricorrente afferma, ma non
comprova, di avere ricevuto (peraltro da funzionari di altra
amministrazione, non proprietaria dell’area, né titolare di poteri di
amministrazione attiva di tipo territoriale); né della circostanza, del pari
meramente affermata, secondo la quale sarebbe stata comunicata l’attività di
collocazione della recinzione (ciò rileva sia ai fini della decorrenza dei
termini di cui alla seconda censura, sia al fine di
valutare la regolarità edilizia della recinzione, che, pertanto, allo stato
va ritenuta insussistente, dal momento che il relativo regime dipende dalle
caratteristiche tipologiche e rimane esclusa la necessità di un titolo solo
in caso di modesta consistenza senza opere murarie di alcun genere,
vedasi da ultimo Consiglio di Stato, IV 15.12.2017, n. 5908).
Nessuna delle censure dedotte può quindi trovare accoglimento, stante
l’irrilevanza della natura finanziaria o meno dell’attività, nonché essendo
palese l’insussistenza di qualsiasi legittimo affidamento (difettando un
provvedimento di assegnazione dell’area come pure un titolo per la sua
trasformazione), ed avendo riguardo alla completezza dell’istruttoria
condotta dall’ufficio (che aveva richiesto di dimostrare il titolo
dell’assegnazione dell’area).
Quanto agli ulteriori profili inerenti le spese eseguite dalla ricorrente
sull’area, deve affermarsi che l’espletamento di fatto dell’attività
sull’area ed il relativo possesso, ancorché prolungato, non costituiscono
titolo per il permanere dell’occupazione dell’area pubblica ai fini del
deposito a cielo aperto; ogni questione inerente il rapporto economico tra
il valore e l’utilità dell’occupazione, anche sotto il profilo della tutela
di ordine pubblico della zona, si colloca in fase esecutiva della
determinazione impugnata ed attiene allo stato a poteri non ancora
esercitati (non risultando avanzata dalla ricorrente alcuna richiesta di
indennizzo o di risarcimento, né, di converso, adottata alcuna
determinazione in merito da parte dell’Amministrazione), con conseguente
impossibilità per il giudice di pronunciarsi al riguardo.
Resta salva, naturalmente, l’azione della PA cui compete di valutare, nel
procedimento amministrativo, ogni eventuale istanza che il privato riterrà
di proporre ai fini della valutazione del valore delle opere eseguite.
Il ricorso è quindi infondato e come tale va respinto, con ogni conseguenza
in ordine alle spese di lite che si liquidano come in dispositivo. |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini del mutamento di destinazione d’uso è necessario che
la destinazione assunta dall’immobile non sia in contrasto
con la destinazione di zona prevista dal PRG.
La zona in cui insiste l'immobile in questione è
classificata zona omogenea D7 dal PRG, riservata alla
costruzione di insediamenti per servizi logistici e di
supporto alle attività industriali.
In tale area non è, quindi, possibile l'insediamento di
locali per pubblico spettacolo, come quello per il quale è
stato chiesto il cambio di destinazione d’uso. Né la
possibilità di insediamento può essere tratta dalla
specificazione degli insediamenti installabili in zona D7
riportata nello stesso provvedimento gravato (“aziende di
trasporto pubbliche e private, servizi telematici ed
informatici, centralizzati, magazzini di stoccaggio merci,
mense, locande e pensioni per non più di 20 posti letto,
aziende di pulizie, manutenzione, realizzazione impianti”),
in quanto si tratta di attività diverse e incompatibili con
la destinazione di locale per pubblico spettacolo.
---------------
Circa l'impugnato diniego
sull’istanza di rilascio
del permesso di costruire per mutamento di destinazione,
con preceduto dalla comunicazione degli elementi ostativi ex
art. 10-bis l. 241/1990 può,
farsi applicazione di
quanto disposto dell’art. 21-octies, comma 2, della
medesima legge poiché trattasi di ambito provvedimentale a carattere vincolato e, in ogni caso,
risulta che il provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
---------------
Parte ricorrente ha impugnato il provvedimento n. 13031 del
18/06/2013 del Comune di Marcianise, di diniego sull’istanza
di rilascio del permesso di costruire per mutamento di
destinazione, senza opere edili strutturali, dell'unità
immobiliare sita in località S. Ippolito, in catasto al f.
17, p.lla 5326, nonché ogni altro atto presupposto, connesso
o conseguente.
In particolare, la medesima parte ricorrente è proprietaria
di un immobile insistente in una zona omogenea classificata
D7 dallo strumento urbanistico, riservata a insediamenti per
servizi logistici e di supporto alle attività industriali.
Ha presentato un’istanza al Comune per il rilascio del
permesso di costruire finalizzato al cambio di destinazione
d’uso, dall’attuale destinazione commerciale dell’immobile,
a “locale per pubblico spettacolo”.
...
1) Il ricorso si palesa infondato.
Il cambio destinazione d'uso richiesto da parte ricorrente
non era assentibile, in quanto la destinazione desiderata è
contraria alle prescrizioni dello strumento urbanistico
comunale e, in particolare, alla destinazione di zona.
Ai fini del mutamento di destinazione d’uso è necessario che
la destinazione assunta dall’immobile non sia in contrasto
con la destinazione di zona prevista dal PRG.
La zona in cui insiste l'immobile in questione è
classificata zona omogenea D7 dal PRG, riservata alla
costruzione di insediamenti per servizi logistici e di
supporto alle attività industriali.
In tale area non è, quindi, possibile l'insediamento di
locali per pubblico spettacolo, come quello per il quale è
stato chiesto il cambio di destinazione d’uso. Né la
possibilità di insediamento può essere tratta dalla
specificazione degli insediamenti installabili in zona D7
riportata nello stesso provvedimento gravato (“aziende di
trasporto pubbliche e private, servizi telematici ed
informatici, centralizzati, magazzini di stoccaggio merci,
mense, locande e pensioni per non più di 20 posti letto,
aziende di pulizie, manutenzione, realizzazione impianti”),
in quanto si tratta di attività diverse e incompatibili con
la destinazione di locale per pubblico spettacolo.
Né in senso contrario può far concludere la circostanza che
l'immobile di proprietà di parte ricorrente, del quale si è
chiesto il cambio di destinazione, abbia attualmente
destinazione commerciale.
Il fatto che un locale abbia, per qualsiasi motivazione, una
destinazione difforme a quella di zona non autorizza il
proprietario ad adibirlo ad altre destinazioni che, seppure
sono affini a quella posseduta, non sono consentite dallo
strumento urbanistico vigente.
Allo stesso modo non ha rilievo la deduzione che il PRG
avrebbe perso rilevanza nella zona in questione perché vi
sarebbero di fatto ubicate attività (commerciali) diverse da
quelle consentite dalla destinazione di zona omogenea D7.
In primo luogo, infatti, tale circostanza appare
indimostrata e, in secondo luogo, l’eventuale violazione di
fatto delle prescrizioni del PRG inerenti alla destinazione
di zona, non ha alcun effetto ai fini di legittimare
l’installazione di ulteriori attività non consentite, con la
conseguenza di compromettere ulteriormente la pianificazione
urbanistica.
Quanto alla doglianza inerente alla non necessarietà del
permesso di costruire, l’istanza di permesso di costruire è
stata presentata dalla stessa parte ricorrente, e, in ogni
caso, vale anche qui la considerazione che in ogni caso la
destinazione desiderata è incompatibile con quella di zona.
2) Da rigettare è anche la censura relativa alla violazione
dell’art. 10-bis legge n. 241/1990, per omissione del preavviso
di rigetto.
Ritiene al riguardo il Collegio che, per i motivi indicati
nel punto che precede, possa farsi applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990, trattandosi di ambito provvedimentale a carattere vincolato e, in ogni caso,
risultando che il provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato, considerata
l’applicabilità di quest’ultima norma anche alle violazioni
dell’art. dall’art. 10-bis legge n. 241/1990 (TAR Sicilia
Palermo, sez. I, 23.03.2011, n. 541; Consiglio Stato,
sez. VI, 18.03.2011, n. 1673; TAR Puglia Lecce, sez. II, 12.09.2006, n. 4412; TAR Piemonte, sez. I, 14.06.2006 , n. 2487; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 06.11.2006 , n. 2875).
In tal senso si rivela, infatti, corretta l’indicazione
contenuta nello stesso provvedimento gravato secondo cui la
previa comunicazione di avvio del procedimento era stata
omessa in considerazione dell’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.07.2018 n. 5126 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Al riguardo si legga anche il commento:
●
M. Tomaello e C. Perin,
Mutamento di destinazione
d’uso di un immobile in contrasto con le previsioni di zona
(09.08.2018 - link a regione.veneto.it/web/ambiente-e-territorio/news-urbjus). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulle
opere realizzate volte a trasformare i locali adibiti a servizi (soffitta,
lavatoio, stenditoio ed essiccatoio) in abitazione.
Le opere realizzate dalla ricorrente, volte a trasformare
i locali adibiti a servizi (soffitta, lavatoio, stenditoio ed essiccatoio)
in abitazione, con la modifica dei prospetti, sono, in verità, idonee a
mutare radicalmente la destinazione d’uso dell’immobile in questione in
locale residenziale, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico e
non appaiono legittimate dalla presentata DIA.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. a) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1,
lett. c), e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano, infatti, del preventivo rilascio del permesso di costruire, e
non di semplice DIA, ogni qual volta comportino mutamento di destinazione
d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo
interna e “neutra” della modificazione dell’uso del terzo piano del
fabbricato -originariamente destinato a soffitta- che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non poteva considerarsi semplicemente già tutto a
destinazione abitativa.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o
adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno
valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come
superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire:
autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in
questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale
abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del
vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario
permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, deve ritenersi che “solo il
cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita
di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico)
mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente
autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso
residenziale, ciò integra una modificazione edilizia con effetti incidenti
sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del
permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere che,
comunque, nel caso in esame sono presenti”.
---------------
Il provvedimento di demolizione delle
opere abusive si rivela frutto di una sufficiente istruttoria e congruamente
motivato con il richiamo alle risultanze dell’accertamento del 27.11.2017,
nonché del tutto vincolato, senza che la partecipazione della ricorrente,
volta a rappresentare elementi, in realtà, ininfluenti sui fatti di causa,
potesse apportare alcun elemento utile ad una diversa determinazione
dell’Amministrazione.
Come evidenziato, del resto, dalla giurisprudenza amministrativa prevalente,
“è legittima l'ordinanza di demolizione che non sia stata preceduta dalla
comunicazione di avvio del procedimento, sia per la natura vincolata
dell'attività amministrativa volta alla repressione degli abusi edilizi, sia
per l'operatività dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241 atteso che,
in base a tale ultima disposizione, l'omissione non comporta comunque
conseguenze sul piano della legittimità dei provvedimenti adottati, qualora
il contenuto dispositivo di essi non avrebbe potuto essere diverso, anche a
fronte della partecipazione degli interessati".
---------------
Con il ricorso in epigrafe la Ed.Pe. s.r.l. ha chiesto al Tribunale
di annullare, previa sospensione dell’efficacia, la determinazione
dirigenziale di Roma Capitale dell’11.01.2018, avente ad oggetto
“Ingiunzione a rimuovere o demolire gli interventi di ristrutturazione
edilizia abusivamente realizzati in via del Pergolato n. 84 (art. 16 Legge
Regione Lazio n. 15/2008 e s.m.i.) fasc. UDE 117/17” e qualsiasi altro atto
presupposto e/o conseguente del procedimento.
...
Il ricorso non è fondato e deve essere respinto.
Le opere realizzate dalla ricorrente, volte, come anticipato, a trasformare
i locali adibiti a servizi (soffitta, lavatoio, stenditoio ed essiccatoio)
in abitazione, con la modifica dei prospetti, sono, in verità, idonee a
mutare radicalmente la destinazione d’uso dell’immobile in questione in
locale residenziale, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico e
non appaiono legittimate dalla DIA del 16.05.2006.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1,
lettera c), e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano, infatti, del preventivo rilascio del permesso di costruire, e
non di semplice DIA, ogni qual volta comportino mutamento di destinazione
d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo
interna e “neutra” della modificazione dell’uso del terzo piano del
fabbricato -originariamente destinato a soffitta- che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non poteva considerarsi semplicemente già tutto a
destinazione abitativa.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o
adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno
valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come
superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire:
autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in
questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale
abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del
vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario
permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, di recente
ribadito da questa stessa Sezione (cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis,
04.04.2017 n. 4225 e 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il
cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita
di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico)
mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente
autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso
residenziale, ciò integra una modificazione edilizia con effetti incidenti
sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del
permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere che,
comunque, nel caso in esame sono presenti”.
Alla luce di tali argomentazioni, il provvedimento di demolizione delle
opere abusive si rivela frutto di una sufficiente istruttoria e congruamente
motivato con il richiamo alle risultanze dell’accertamento del 27.11.2017,
nonché del tutto vincolato, senza che la partecipazione della ricorrente,
volta a rappresentare elementi, in realtà, ininfluenti sui fatti di causa,
potesse apportare alcun elemento utile ad una diversa determinazione
dell’Amministrazione.
Come evidenziato, del resto, dalla giurisprudenza amministrativa prevalente,
“è legittima l'ordinanza di demolizione che non sia stata preceduta dalla
comunicazione di avvio del procedimento, sia per la natura vincolata
dell'attività amministrativa volta alla repressione degli abusi edilizi, sia
per l'operatività dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241 atteso che,
in base a tale ultima disposizione, l'omissione non comporta comunque
conseguenze sul piano della legittimità dei provvedimenti adottati, qualora
il contenuto dispositivo di essi non avrebbe potuto essere diverso, anche a
fronte della partecipazione degli interessati” (cfr. ex multis, TAR
Marche, Sez. I, 28.09.2017 n. 750 TAR Campania, Napoli, Sez. III, 12.02.2018 n. 898).
In conclusione, il ricorso non può, come detto, che essere integralmente
rigettato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 11.07.2018 n. 7739 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla
trasformazione di una porzione -autorimessa o deposito- di
immobile, nel suo complesso a destinazione abitativa, con
l’effetto di incidere in modo determinate sul relativo
carico urbanistico.
Questo Tribunale ha considerato
«l’aggiunta di un vano, ricavato da parte di superficie del
deposito adiacente al piano terra» alla stregua di «una
difformità rilevante rispetto al progetto approvato», atteso
che «in luogo di uno spazio destinato a deposito sono stati
realizzati un volume ed una superficie residenziali … Di
conseguenza, non si tratta di una mera opera interna,
derivandone, in conseguenza del peculiare uso
sostanzialmente diverso rispetto a quello assentito … un
superamento dei parametri edilizi consentiti».
A conclusioni analoghe giunge anche il TAR Lazio, secondo
cui «nell’ambito di una unità immobiliare ad uso
residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in
senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo
strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di
servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della
giurisprudenza, … deve ritenersi che … allorché lo stesso
[cambio di destinazione d’uso] intervenga … tra locali
accessori e vani ad uso residenziale, integra una
modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico
urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del
permesso di costruire e ciò indipendentemente
dall’esecuzione di opere…».
---------------
Sul primo aspetto, con comunicazione n. 15795 del
24.10.2016, di «riscontro alle controdeduzioni del
27/09/2016 prot. n. 14046», il Comune di Roccapiemonte
aveva rappresentato che «agli atti d’ufficio non risulta
alcuna comunicazione, SCIA o altra pratica edilizia dalla
quale riscontrare l’avvenuta legittimazione della variazione
effettivamente operata».
Al riguardo, non può essere condiviso quanto affermato da
parte ricorrente, secondo cui «in assenza di opere, non
contestate nel provvedimento, il mutamento di destinazione
fra categorie omogenee è libero» (pag. 7 del ricorso).
È vero infatti che l’invocato art. 2, co. 5, L.R. n.
19/2001, ha reso «libero il mutamento di destinazione
d’uso senza opere purché nell’ambito di categorie
compatibili alle singole zone territoriali omogenee (co. 5,
art. 2 cit.)», sul presupposto che «nell’ambito delle
stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non
diversi regimi urbanistico-contributivi stante le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito
della medesima categoria» (Cons. di Stato, I, sent. n.
3586/2006).
Nel caso in esame, tuttavia, viene in rilievo la diversa
questione della trasformazione di una porzione -autorimessa
o deposito- di immobile, nel suo complesso a destinazione
abitativa, con l’effetto di incidere in modo determinate sul
relativo carico urbanistico.
In fattispecie analoga, questo Tribunale ha considerato «l’aggiunta
di un vano, ricavato da parte di superficie del deposito
adiacente al piano terra» alla stregua di «una
difformità rilevante rispetto al progetto approvato»,
atteso che «in luogo di uno spazio destinato a deposito
sono stati realizzati un volume ed una superficie
residenziali … Di conseguenza, non si tratta di una mera
opera interna, derivandone, in conseguenza del peculiare uso
sostanzialmente diverso rispetto a quello assentito … un
superamento dei parametri edilizi consentiti» (sez. I,
sent. n. 1016/2013, confermata dal Consiglio di Stato, VI,
sent. n. 216/2015).
A conclusioni analoghe giunge anche il TAR Lazio, secondo
cui «nell’ambito di una unità immobiliare ad uso
residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in
senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo
strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di
servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della
giurisprudenza, … deve ritenersi che … allorché lo stesso
[cambio di destinazione d’uso] intervenga … tra locali
accessori e vani ad uso residenziale, integra una
modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico
urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del
permesso di costruire e ciò indipendentemente
dall’esecuzione di opere…» (sez. II-bis, sent. n.
4577/2017) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.05.2018 n. 742 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO TRA CATEGORIE NON
OMOGENEE (DA CATEGORIA COMMERCIALE A RESIDENZIALE) RICHIEDE
IL P.D.C.
In materia di reati edilizi, il
passaggio dalla destinazione di un immobile da spogliatoio
annesso ad una sala da ballo (categoria commerciale),
utilizzato in via funzionale ad altro fabbricato, a due mini
appartamenti (categoria residenziale) determina non solo un
cambio tra categorie non omogenee, ma è anche idoneo a
incidere sul carico urbanistico sul semplice rilievo che la
destinazione precedente prevede una presenza saltuaria di
persone, in luogo della presenza continua di chi dimora in
una abitazione, né rileva la circostanza che solo con la L.
n. 164 del 2014 è stato introdotto nel d.P.R. n. 380 del
2001, l’art. 23-ter (mutamento d’uso urbanisticamente
rilevante), atteso che con esso il legislatore ha inteso
normativizzare principi già affermati dalla giurisprudenza
ordinaria e amministrativa, non potendosi quindi farsi
discendere la conclusione secondo cui l’intervento
realizzato in epoca antecedente sia comunque consentito in
assenza di titolo abilitativo.
Il tema
affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in
esame attiene alla questione, annosa e ricorrente nella
prassi
delle aule giudiziarie, della individuazione del titolo abilitativo
necessario in presenza di un mutamento di destinazione
d’uso.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il
Tribunale aveva condannato un imputato per il reato di cui
all’art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, per
avere
effettuato, senza permesso di costruire, un mutamento di
destinazione d’uso, senza opere, “funzionale” tra categorie
non omogenee, passando dalla classe D alla classe A così
rendendo l’immobile, di cui era proprietario, in origine
destinato
a spogliatoio a servizio della sala da ballo, in due unità
abitative (mini appartamenti) con variazione degli standard
urbanistici, che cedeva in locazione a terzi.
Avverso la
detta
sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in
particolare
sostenendo non essere stato realizzato un mutamento
di destinazione d’uso incompatibile con le previsioni
contenute nello strumento urbanistico, in quanto la
trasformazione
da spogliatoio annesso a locale sala da ballo in due unità
abitative non avrebbe comportato alcun aumento del carico
urbanistico, giacché erano previsti tutti gli allacci alla
rete
elettrica, idrica e fognaria, ma al contrario per la
presenza di
un singolo occupante il medesimo sarebbe stato anche meno
grave. Inoltre, non poteva trovare applicazione, in quanto
norma intervenuta successivamente ai fatti, la L. n. 164 del
2014, art. 23-ter rubricato “mutamento d’uso urbanisticamente
rilevante”.
La tesi difensiva è stata ritenuta infondata dagli Ermellini
che,
sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima,
hanno
ricordato che costituisce ius receptum il principio secondo
cui
in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d’uso
senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché
intervenga nell’ambito della stessa categoria urbanistica,
mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche
di destinazione che comportino il passaggio di categoria o,
se il
cambio d’uso sia eseguito nei centri storici, anche
all’interno di
una stessa categoria omogenea (Cass. pen., Sez. III, 05.04.2016, n. 26455, P.M. in proc. S., CED, 267106; Id., Sez. III,
03.12.2015, n. 12904, P., CED, 266483; Id., Sez. III, 24.06.2014, n. 39897, F., CED, 260422; Id., Sez. III, 13.12.2013 n. 5712, T., CED, 258686).
La destinazione
d’uso è infatti un elemento che qualifica la connotazione
dell’immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico
perseguiti
dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto
l’aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona
fissate
dagli strumenti urbanistici in considerazione della
differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità
proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
In
tale
ambito solo gli strumenti di pianificazione,
generali ed attuativi,
possono decidere, fra tutte quelle possibili, la
destinazione
d’uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse
destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono
essere
assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate
qualità
e quantità di servizi. Da cui l’ovvia conseguenza che le
modifiche
non consentite della singola destinazione, incidendo
sull’assetto
del territorio comunale come pianificato, incidono
negativamente sull’organizzazione dei servizi, alterando
appunto la possibilità di una gestione ottimale del
territorio.
Dunque, come è stato costantemente osservato, il mutamento
di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è solo
quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di
vista urbanistico che influisce sul carico urbanistico
(TAR
Campania, Sez. VII, 06.11.2017 n. 5152) tenuto conto
che nell’ambito delle stesse categorie possono aversi
mutamenti
di fatto, ma non diversi regimi urbanistici stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito
della medesima categoria.
Per individuare in concreto il
mutamento
della precedente destinazione d’uso si dovrà tenere
conto, come indicato dalla giurisprudenza amministrativa
(Cons. Stato, Sez. V, 24.10.1996, n. 3) della
destinazione
indicata nell’ultimo provvedimento abilitativo (licenza o
concessione
edilizia), della tipologia dell’immobile e della attitudine
funzionale che il bene viene ad assumere.
Ed allora,
concludono i Supremi Giudici, è evidente che il passaggio
dalla destinazione dell’immobile da spogliatoio annesso ad
una sala da ballo (categoria commerciale), utilizzato in via
funzionale ad altro fabbricato, a due mini appartamenti
(categoria
residenziale) determina senza ombra di dubbio non solo
un cambio tra categorie non omogenee, ma anche idoneo a
incidere sul carico urbanistico sul semplice rilievo che la
destinazione
precedente prevedeva una presenza saltuaria di persone,
in luogo della presenza continua di chi dimora in una
abitazione (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
15.02.2018 n. 7271 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO INTERVENUTO TRA CATEGORIE
URBANISTICHE DISOMOGENEE DI UTILIZZAZIONE NECESSITA DI
P.D.C.
In materia edilizia, poiché
l’organizzazione e la gestione del territorio comunale
vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie
destinazioni d’uso in tutte le loro possibili relazioni,
sulle quali vanno ad incidere negativamente le modifiche non
consentite alterando il rapporto con i servizi in dotazione
rispetto alle singole zone, non è sufficiente dimostrare che
il mutamento della destinazione d’uso sia stato eseguito in
assenza di opere edilizie interne, ma occorre, per contro,
provare che il cambio della destinazione presenti il
requisito dell’omogeneità nel senso che sia intervenuto tra
categorie urbanistiche omogenee.
Interessante
la questione esaminata dalla Corte di cassazione
con la sentenza qui commentata, in cui i giudici di
legittimità si pronunciano nuovamente a distanza di pochi
giorni (cfr. Sez.
III, 15.02.2018, n. 7271, supra commentata) sul tema
della individuazione del titolo abilitativo necessario al
fine di
eseguire interventi edilizi comportanti un mutamento
dell’originaria
destinazione d’uso.
La vicenda processuale segue alla
sentenza con cui la Corte di Appello aveva confermato la
pronuncia di primo grado che aveva condannato l’imputato
per plurime violazioni del d.P.R. n. 380 del 2001 in materia
di
edilizia avendo, in assenza del permesso di costruire
previsto
dall’art. 44, lett. b), mutato la destinazione d’uso,
all’interno di
un fabbricato ubicato in zona B2 del PRG, dell’unità al
piano
rialzato da artigiana ad abitativa e del seminterrato da
deposito
ad uso anch’esso abitativo e per aver omesso di adempiere
alle prescrizioni previste dagli artt. 64, 65, 71 e 72 in
relazione
all’utilizzo di cemento armato, nonché dagli artt. 93 e 95
trattandosi di manufatto in zona sismica.
Contro la sentenza
proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare
sostenendo la mancanza di prove e di indizi a fondamento
del mutamento di destinazione d’uso contestatogli, il quale,
secondo l’univoca interpretazione della giurisprudenza
amministrativa,
in tanto ricorre in quanto le opere edilizie realizzate
comportino un aumento volumetrico o di superficie o una
trasformazione rilevante, altrimenti risolvendosi in una
mera
espressione della facoltà di godimento liberamente esercitabile
dal proprietario dell’unità immobiliare interessata. Poiché
invece nella specie non era stato dimostrato che fossero
stati
eseguiti nel fabbricato interventi tali da determinare
modifiche
della sua sagoma, superficie o volumetria, doveva escludersi
il
fondamento della condanna pronunciata, ben potendo la
trasformazione
essere effettuata con d.i.a., titolo di cui l’imputato
era munito.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha
respinto il ricorso.
In particolare, i Supremi Giudici hanno
ritenuto che la sentenza avesse correttamente disatteso le
contestazioni svolte dalla difesa in ordine all’irrilevanza
penale
degli interventi edilizi in difetto aumenti volumetrici o di
superficie
del fabbricato. Non essendo in contestazione l’intervenuto
mutamento di destinazione dell’unità posta al piano
rialzato del fabbricato e di parte del piano seminterrato da
uso artigianale ovvero di deposito, al medesimo connesso,
ad uso residenziale, doveva escludersi per gli Ermellini che
le
attività edilizie a tal fine eseguite fossero realizzabili
mediante
semplice denuncia di inizio attività indipendentemente dalla
loro consistenza specifica.
Nella vigente disciplina la
rilevanza
penale del mutamento di destinazione c.d. “senza opere”,
allorquando comporti il passaggio dall’una all’altra
categoria
funzionale, che connota cioè il bene in relazione alla sua
funzione nell’assetto urbanistico, emerge inconfutabilmente
dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23-ter, introdotto dalla
Legge di
conversione n. 164 del 2014 del D.L. n. 133 del 2014.
Dunque,
la trasformazione da destinazione artigianale così come da
deposito ad uso residenziale, come nel caso di specie,
costituisce
oggi ex lege, un mutamento rilevante della destinazione
d’uso.
Alle medesime conclusioni si perviene, comunque, osserva la
S.C., anche in applicazione della previgente normativa. Il
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 10, comma 2, ribadendo le
previsioni
contenute nella L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 60,
dispone che le Regioni stabiliscono con legge quali
mutamenti,
connessi o meno a trasformazioni fisiche, dell’uso di
immobili o di loro parti sono subordinati a permesso di
costruire o a denuncia di attività.
In particolare, con
riferimento
al caso esaminato, la Regione Campania, con la L. 28.11.2001, n. 19, art. 2, modificata dalla L.R. 22.12.2004,
n. 16, ha stabilito che possono essere realizzati in base a
semplice denunzia d’inizio attività (oggi SCIA) “i mutamenti
di destinazione d’uso d’immobili o loro parti, che non
comportino
interventi di trasformazione dell’aspetto esteriore, e di
volumi e superfici”, aggiungendo che “la nuova destinazione
d’uso deve essere compatibile con le categorie consentite
dalla strumentazione urbanistica per le singole zone
territoriali
omogenee” (comma 1, lett. f).
Ha inoltre stabilito che “il
mutamento di destinazione d’uso senza opere, nell’ambito
di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee,
è libero” (comma 5). Secondo la citata normativa, pertanto,
il
mutamento di destinazione d’uso senza opere in tanto
fuoriesce
dall’orbita penale in quanto avvenga nell’ambito di
categorie
tra loro compatibili nell’ambito di una zona che, secondo
gli strumenti urbanistici, possa definirsi territorialmente
omogenea,
dove il concetto di compatibilità passa necessariamente
attraverso quello di categoria funzionale di cui al
vigente d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23-ter: secondo la
normativa
della Regione Campania il mutamento di destinazione è
quindi giuridicamente irrilevante solo allorquando non
determini
un passaggio tra categorie funzionalmente autonome,
mentre rientra nella fattispecie incriminatrice di cui al
d.P.R. n.
380 del 2001, art. 44 quando, in assenza del permesso di
costruire, si verifichi, invece, il passaggio dall’una
all’altra
categoria funzionale, salvo che nei centri storici dove il
mutamento
della destinazione d’uso rileva anche all’interno di una
stessa categoria omogenea (Cass. pen., Sez. III, 20.01.2009 n. 9894, T., CED, 243102).
Inserendosi infatti il
suddetto
intervento edilizio nell’ambito di un preesistente piano
urbanistico,
è evidente la ratio perseguita attraverso la suddetta
disposizione, volta a tutelare, in considerazione della
differenziazione
infrastrutturale tra le singole zone, il corretto ed
ordinato
assetto del territorio, così da mantenere inalterato il
carico urbanistico, inteso come rapporto tra insediamenti e
servizi in un determinato territorio, e, conseguentemente da
scongiurare il pericolo di sconvolgimento degli equilibri
prefigurati
dalla strumentazione urbanistica (Cons. Stato 25.05.2012 n. 759), cui si aggiunge anche quello della tutela
dell’interesse patrimoniale dell’ente territoriale che si
vedrebbe altrimenti privato del contributo economico
correlato
all’effettivo carico urbanistico conseguente alla
pianificazione
dell’assetto territoriale.
In tal senso si è costantemente
orientata l’interpretazione della Corte di cassazione,
affermando
che ai fini della configurabilità del reato di cui al d.P.
R. n. 380 del 2001, art. 44, nel caso di interventi eseguiti
in
difetto o in difformità del permesso di costruire,
costituisce
“mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” ogni forma di
utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare
diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata da
opere edilizie, purché tale da comportare il passaggio
dall’una
all’altra categoria urbanistica, essendo invece sufficiente
la
D.I.A. (ora SCIA) per le modifiche di destinazione che
intervengano
nell’ambito della stessa categoria omogenea
(Cass. pen., Sez. III, 31.03.2016 n. 12904, P., CED,
266483; Id., Sez. III, 24.06.2016 n. 26455, P.M. in proc.
S., CED, 267106 in fattispecie relativa a sequestro
preventivo
di locali trasformati mediante opere edilizie da cantina
garage
ad abitazione, con conseguente passaggio dalla categoria
d’uso non residenziale alla diversa categoria residenziale;
Cass. pen., Sez. III, 05.02.2014, n. 5712, T., CED,
258686 in fattispecie relativa a sequestro preventivo dei
locali
di un albergo, originariamente adibiti a deposito e
lavanderia,
trasformati in camere per gli ospiti in assenza del permesso
di
costruire e del nulla osta paesaggistico).
Essendo, nel caso
di
specie, il mutamento intervenuto tra categorie urbanistiche
disomogenee di utilizzazione, quali si configurano le
destinazioni artigianale e di deposito rispetto a quella
residenziale,
le conclusioni raggiunte dalla Corte d’appello dovevano
per la S.C. ritenersi esatte (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.02.2018 n. 5770 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
In
ordine al rapporto tra il deposito a cielo aperto di
veicoli, l’attività di tipo imprenditoriale cui è riferita e
la necessità della SCIA.
Ai
fini del decidere appaiono rilevanti i presupposti di fatto
e le determinazioni assunti con l’ordinanza impugnata e,
quindi, gli aspetti qualificanti la specifica attività
svolta sul terreno, consistente in un deposito a cielo
aperto di veicoli che “non
può essere esercitata senza la prescritta autorizzazione
amministrativa, o senza aver presentato la relativa Scia ai
sensi dell’art. 19 della L. 241/1990” .
Orbene, partendo dalla qualificazione dell’attività come
descritta da parte ricorrente -stazionamento temporaneo di
automezzi di proprietà da destinare all’attività del
servizio di raccolta e trasporto rifiuti in adempimento del
contratto di appalto in essere con il Comune e non
deposito di veicoli quali merce per l’esercizio tipico
dell’attività svolta– occorre rilevare che dall’esame delle
modalità di esecuzione del servizio, come indicate
nell’allegato contratto di appalto, e dalla descrizione del
servizio e delle modalità di svolgimento dello stesso, come
indicata nel capitolato d’appalto, l’attività di
deposito-stazionamento degli automezzi adibiti al servizio
(con caratteristiche di impiego indicate nell’art. 8 del
capitolato) costituisce componente necessaria per
l’esercizio dell’attività del servizio di raccolta e
trasporto dei rifiuti in questione svolta dalla società ed è
attività ad essa strettamente funzionale, anche se autonoma
(trattandosi di mezzi propri o di cui abbia la
disponibilità).
Sicché, non è possibile equiparare l’attività della
ricorrente riguardo il deposito-stazionamento degli
automezzi da adibire per il predetto servizio a quella del
soggetto privato che parcheggia la propria vettura nel
garage di casa o su un terreno in locazione per tale scopo,
come sostenuto, ipotesi non necessarie di autorizzazione.
Nella specie, va rilevato
che la società ricorrente agisce quale esercente un’attività
imprenditoriale ossia quella oggetto del servizio espletato
di raccolta e trasporto dei rifiuti realizzata con automezzi
(che dovranno riportare in evidenza, su ciascun lato, un
pannello o adesivo con la scritta “Raccolta differenziata
per conto AMA Spa – Roma Capitale”) e il
deposito-stazionamento di tali mezzi rientra nella
articolazione del servizio svolto e dunque nel complesso dei
beni organizzati per l’esercizio dell’attività di impresa,
come tale soggetto ad autorizzazione amministrativa ovvero a
Scia, per effetto della deprovvedimentalizzazione
dell'attività amministrativa a seguito delle norme di c.d.
Liberalizzazioni.
La Scia, com'è oramai da ritenersi acquisito, rappresenta un
atto soggettivamente e oggettivamente privato ossia uno
strumento di massima semplificazione quale manifestazione di
autonomia privata con cui l’interessato certifica la
sussistenza dei presupposti in fatto e in diritto allegati a
presupposto del legittimo esercizio dell’attività segnalata
ammessa dalla legge e, come tale, libera, ancorché
assoggettata a un regime amministrativo di controllo ex post.
Riguardo a ciò non sono condivisibili le censure relative
alla violazione della normativa in materia di c.d.
Liberalizzazioni e disapplicazione delle norme regolamentari
comunali, attesa la posizione costante della giurisprudenza
in materia secondo cui il principio della liberalizzazione
prelude a una razionalizzazione della regolazione, che
elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio
dell'attività economica che si rivelino inutili o
sproporzionati e, dall'altro, però mantenga “le normative
necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si
svolgano in contrasto con l'utilità sociale” tenuto
conto altresì delle espresse deroghe contemplate nella
relativa legislazione a tutela del bene “salute” e
della “sicurezza dei lavoratori”.
E d’altro canto è indubbio che nella specie si tratta di
attività che necessita di un pubblico controllo ed involge
la cura di interessi pubblici (in disparte comunque che
dagli atti di causa non risulta in modo evidente che
nell’area adibita a deposito si svolga anche lo stoccaggio
temporaneo dei rifiuti essendo in tal caso indiscutibile la
necessità di apposito titolo e di autorizzazione sanitaria).
---------------
2. La controversa vicenda è volta all’annullamento
dell’ordinanza n. 9 del 29.07.2016 emessa dal Comune di
Fiumicino nei confronti della società ricorrente nonché
della successiva nota prot. n. 21802 del 12.08.2016 di
rigetto dell’istanza di riesame proposta dalla società.
In particolare con l’ordinanza il Comune ha disposto a
carico della società ricorrente la cessazione dell’attività
abusivamente intrapresa di deposito a cielo aperto di
veicoli (mezzi Ama) su terreno in locazione, in quanto
attività sprovvista della prescritta autorizzazione
amministrativa o segnalazione certificata di inizio attività
Scia ex art. 19 della legge n. 241 del 1990, previa
contestazione con nota n. 28020/16 della violazione
dell’art. 33 del Reg. di P.U.
2.1. Osserva il Collegio che la contestazione di fondo della
ricorrente, come sopra riportato, verte sul profilo della
carenza di motivazione, sul travisamento dei fatti e la
carenza di istruttoria e sulla erronea valutazione del
Comune riguardo la pretesa Scia per il deposito dei veicoli,
in quanto non si tratterebbe di attività abusiva di deposito
di veicoli da considerare “merce” per l’esercizio
dell’attività, come tale soggetta a Scia, ma di uno
stazionamento temporaneo di automezzi di proprietà da
destinare all’attività del servizio di raccolta e trasporto
rifiuti in adempimento del contratto di appalto in essere
con il Comune di Roma.
Preliminarmente occorre perimetrare l’oggetto del contendere
che non attiene ai profili urbanistico-edilizi del terreno,
abusivamente modificato da lavori eseguiti sullo stesso,
risultando ininfluenti i riportati tratti del parallelo
contenzioso presso il g.o., puntualmente svolti in fatto
dalla ricorrente, in quanto ai fini del decidere appaiono
rilevanti i presupposti di fatto e le determinazioni assunti
con l’ordinanza impugnata e, quindi, gli aspetti
qualificanti la specifica attività svolta sul terreno,
consistente in un deposito a cielo aperto di veicoli che “non
può essere esercitata senza la prescritta autorizzazione
amministrativa, o senza aver presentato la relativa Scia ai
sensi dell’art. 19 della L. 241/1990” .
Orbene partendo dalla qualificazione dell’attività come
descritta da parte ricorrente -stazionamento temporaneo di
automezzi di proprietà da destinare all’attività del
servizio di raccolta e trasporto rifiuti in adempimento del
contratto di appalto in essere con il Comune di Roma e non
deposito di veicoli quali merce per l’esercizio tipico
dell’attività svolta– occorre rilevare che dall’esame delle
modalità di esecuzione del servizio, come indicate
nell’allegato contratto di appalto, e dalla descrizione del
servizio e delle modalità di svolgimento dello stesso, come
indicata nel capitolato d’appalto, l’attività di
deposito-stazionamento degli automezzi adibiti al servizio
(con caratteristiche di impiego indicate nell’art. 8 del
capitolato) costituisce componente necessaria per
l’esercizio dell’attività del servizio di raccolta e
trasporto dei rifiuti in questione svolta dalla società ed è
attività ad essa strettamente funzionale, anche se autonoma
(trattandosi di mezzi propri o di cui abbia la
disponibilità).
Diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente non è
possibile equiparare l’attività della ricorrente riguardo il
deposito-stazionamento degli automezzi da adibire per il
predetto servizio a quella del soggetto privato che
parcheggia la propria vettura nel garage di casa o su un
terreno in locazione per tale scopo, come sostenuto, ipotesi
non necessarie di autorizzazione; nella specie, va rilevato
che la società ricorrente agisce quale esercente un’attività
imprenditoriale ossia quella oggetto del servizio espletato
di raccolta e trasporto dei rifiuti realizzata con automezzi
(che dovranno riportare in evidenza, su ciascun lato, un
pannello o adesivo con la scritta “Raccolta differenziata
per conto AMA Spa – Roma Capitale”) e il
deposito-stazionamento di tali mezzi rientra nella
articolazione del servizio svolto e dunque nel complesso dei
beni organizzati per l’esercizio dell’attività di impresa,
come tale soggetto ad autorizzazione amministrativa ovvero a
Scia, per effetto della deprovvedimentalizzazione
dell'attività amministrativa a seguito delle norme di c.d.
Liberalizzazioni.
La Scia, com'è oramai da ritenersi acquisito, rappresenta un
atto soggettivamente e oggettivamente privato ossia uno
strumento di massima semplificazione quale manifestazione di
autonomia privata con cui l’interessato certifica la
sussistenza dei presupposti in fatto e in diritto allegati a
presupposto del legittimo esercizio dell’attività segnalata
ammessa dalla legge e, come tale, libera, ancorché
assoggettata a un regime amministrativo di controllo ex post
(cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II, 05.07.2016, n. 7707; idem,
02.11.2016, n. 10809; Tar Campania, Napoli, sez. II,
25.07.2016, n. 3869; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 09.02.2017,
n. 203).
Riguardo a ciò non sono condivisibili le censure relative
alla violazione della normativa in materia di c.d.
Liberalizzazioni e disapplicazione delle norme regolamentari
comunali, attesa la posizione costante della giurisprudenza
in materia secondo cui il principio della liberalizzazione
prelude a una razionalizzazione della regolazione, che
elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio
dell'attività economica che si rivelino inutili o
sproporzionati e, dall'altro, però mantenga “le normative
necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si
svolgano in contrasto con l'utilità sociale” tenuto
conto altresì delle espresse deroghe contemplate nella
relativa legislazione a tutela del bene “salute” e
della “sicurezza dei lavoratori” (cfr. Corte Cost.
23.01.2013, n. 8).
E d’altro canto è indubbio che nella specie si tratta di
attività che necessita di un pubblico controllo ed involge
la cura di interessi pubblici (in disparte comunque che
dagli atti di causa non risulta in modo evidente che
nell’area adibita a deposito si svolga anche lo stoccaggio
temporaneo dei rifiuti essendo in tal caso indiscutibile la
necessità di apposito titolo e di autorizzazione sanitaria).
Per quanto riguarda, infine, il difetto di motivazione
dell’impugnato provvedimento il Collegio osserva che l’atto
de quo non presenta deficit motivazionale in ragione
dell’indicato presupposto di fatto accertato (attivazione di
attività con deposito senza autorizzazione o Scia) nonché
dei richiami normativi contenuti; inoltre la natura
vincolata del provvedimento fa sì che lo stesso sconti in
sede procedimentale la sola verifica di conformità al
paradigma normativo di riferimento; sicché, ogni vizio di
carattere formale e/o procedimentale non assume nella
fattispecie valore viziante (art. 21-octies, L. n. 241 del
1990).
In definitiva, il ricorso è infondato e va, dunque, respinto (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 18.01.2018 n. 651 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
In
ordine al rapporto tra il deposito a cielo aperto,
l’attività di tipo imprenditoriale cui è riferita ed il
regime del titolo edilizio.
La
regolarità urbanistica ed edilizia dell’immobile che ospita
l’attività commerciale è una delle condizioni oggettive di quest’ultima,
in assenza della quale l’Amministrazione esercita i propri
poteri di intervento conseguenti alla mancanza dei requisiti
dell’attività privata.
---------------
La trasformazione di un manufatto ai fini
dell’individuazione della corretta disciplina edilizia ed
urbanistica, va apprezzata nella sua globalità e
nell’assetto finale della sua consistenza, senza che sia
possibile scindere il risultato unitario nelle singole
operazioni che lo compongono (così da sostituire il permesso
a costruire con la somma di singole operazioni edilizie da
assoggettarsi a DIA o SCIA), con conseguente insufficienza
della DIA relativa alla sola recinzione a consentire l’uso
dell’intera area come deposito.
---------------
Pacifica, secondo la giurisprudenza, è la circostanza che la
realizzazione di un deposito-merci, che, a norma dell'art.
3, comma primo, lett. e, 5) e 7), d.P.R. n. 380/2001, sia
diretto a soddisfare esigenze non meramente temporanee e
comporti la trasformazione permanente dello stato dei
luoghi, necessita del permesso di costruire, non essendo
riconducibile al regime delle pertinenze.
Irrilevante è la circostanza che le trasformazioni dell’area
siano o meno imputabili a gestioni precedenti dell’immobile:
le condizioni di conformità urbanistica ed edilizia del
manufatto che ospita l’attività commerciale vanno riferite
al momento della presentazione della SCIA di avvio e se
queste difettano perché –in tesi– sono state operate
trasformazioni del bene senza il prescritto titolo dalla
precedente proprietà dell’immobile, la SCIA va egualmente
dichiarata priva di efficacia perché ciò consegue alla
condizione dell’immobile e non si verte intorno a
provvedimenti sanzionatori che presuppongono l’accertamento
della responsabilità del soggetto agente.
---------------
Nell’odierno giudizio, parte ricorrente agisce per
l’annullamento degli atti impugnati con i quali
l’Amministrazione intimata ha dichiarato l’inefficacia della
SCIA di avviamento dell’attività commerciale della
ricorrente stessa, nel presupposto della mancanza di
conformità urbanistica dell’immobile nel quale è condotta.
Prima di procedere all’esame delle ragioni di censura, è
bene premettere che la regolarità urbanistica ed edilizia
dell’immobile che ospita l’attività commerciale è una delle
condizioni oggettive di quest’ultima, in assenza della quale
l’Amministrazione esercita i propri poteri di intervento
conseguenti alla mancanza dei requisiti dell’attività
privata (da ultimo, vedasi TAR Lazio, II-ter, 16.06.2017, nr.
07097 e 19.09.2017, nr. 9820/2017, nonché richiami ivi
contenuti).
Nel caso di specie, secondo l’Amministrazione l’uso
dell’area utilizzata dalla ricorrente per l’esposizione a
cielo aperto di veicoli destinati alla vendita avrebbe
necessitato di un permesso a costruire, a mente del
combinato disposto di cui all’art. 3, punto 1- lett. 7 del
DPR 380/2001 (applicabile ratione temporis),
sussistendo trasformazione del suolo.
L’effettiva sussistenza di tale ultima condizione è stata
l’oggetto dell’indagine svolta a seguito della fase
cautelare.
Alla luce delle risultanze di giudizio, il ricorso si rivela
infondato e come tale va respinto.
Dagli atti depositati da parte di Roma Capitale, emerge che,
con DD del 17.01.2005, a seguito di sopralluogo
dell’08.11.2004 e con DD n. 53 del 13.01.2006 era stata
riscontrata la realizzazione abusiva di un manufatto
prefabbricato in legno di circa mq 30 (uso ufficio); un
secondo manufatto, sempre prefabbricato, di circa 16,00 mq,
con antistante veranda (uso ufficio); una tettoia in legno e
pilastri infissi a terra per circa 72 mq, adibita a
lavorazione del legno; un box prefabbricato in legno,
adibito a magazzino, per circa 15,0 mq.
Sull’area di interesse sussisteva, dunque, una pregressa
situazione di abusivismo che ha comportato l’emanazione
della DD di demolizione e ripristino nr. 53 del 13.01.2006,
di cui però non si conosce l’esito.
Dal sopralluogo effettuato il 26.10.2016 emerge la
presenza di un primo manufatto di circa 28,00 mq, che la
parte ricorrente dichiara di aver chiesto di sanare,
producendo poi, da ultimo, il relativo provvedimento nr.
383540 del 23.06.2017.
Quanto a tale aspetto, deve convenirsi con Roma Capitale
circa l’irrilevanza della sanatoria del fabbricato, posto
che si tratta di un elemento della fattispecie sopravvenuto
rispetto agli atti impugnati (e dunque dovrà eventualmente
tenersene conto in esito all’eventuale riproposizione di una
istanza da parte della ricorrente, in quella sede
verificando la pertinenza o meno del manufatto rispetto
all’area di interesse); in ogni caso, dal confronto tra la
descrizione degli abusi edilizi oggetto dei provvedimenti di
demolizione sopra indicati e la descrizione degli abusi
oggetto del provvedimento di sanatoria da ultimo
intervenuto, non si evince una perfetta corrispondenza, e
dalle risultanze del sopralluogo emerge la presenza di un
secondo manufatto (di mt. 1,50 x 1,50), del quale non
risultano i titoli edilizi. Altresì risulta, sempre dal
sopralluogo, la realizzazione di un impianto di
illuminazione e l’adeguamento del selciato con collocazione
di materiale inerte, opere che implicano, di per sé,
trasformazione del suolo.
Si aggiunga che –differenza di quanto dichiarato dalla
ricorrente nell’apposita asseverazione– l’area è gravata dal
vincolo paesaggistico ed archeologico (nota prot.
194799/2015 del 10.11.2015), circostanza in ordine alla
quale non risultano efficaci controdeduzioni sostanziali.
Pertanto, anche ad attenersi alla sola situazione descritta
nel sopralluogo da ultimo svolto in contraddittorio (dal
momento che, per quanto sopra indicato, non è chiaro se i
manufatti oggetto degli accertamenti operati nel 2004 sono
stati demoliti a seguito della DD nr. 53/2006 e, laddove
persistano, siano inclusi nell’area oggetto della SCIA), è
infondata la principale censura di gravame secondo cui non
sarebbe stato necessario il permesso di costruire ai fini
della regolarità urbanistica dell’immobile, rendendosi
invece necessario quest’ultimo.
Secondo la giurisprudenza della Sezione, peraltro, la
trasformazione di un manufatto ai fini dell’individuazione
della corretta disciplina edilizia ed urbanistica, va
apprezzata nella sua globalità e nell’assetto finale della
sua consistenza, senza che sia possibile scindere il
risultato unitario nelle singole operazioni che lo
compongono (così da sostituire il permesso a costruire con
la somma di singole operazioni edilizie da assoggettarsi a
DIA o SCIA; vedasi TAR Lazio, II-ter, 13.07.2016, nr. 8058 e
16.06.2017, nr. 7092; v. anche TAR Napoli, VIII 08.11.2012
n. 4496), con conseguente insufficienza della DIA relativa
alla sola recinzione a consentire l’uso dell’intera area
come deposito.
Nessuna delle censure o degli argomenti dedotti a sostegno,
può quindi trovare condivisione.
Pacifica, secondo la giurisprudenza, è la circostanza che la
realizzazione di un deposito-merci, che, a norma dell'art.
3, comma primo, lett. e, 5) e 7), d.P.R. n. 380/2001, sia
diretto a soddisfare esigenze non meramente temporanee e
comporti la trasformazione permanente dello stato dei luoghi
necessita del permesso di costruire, non essendo
riconducibile al regime delle pertinenze (vedasi, tra le
tante, Cass. pen. Sez. III, sent. n. 6593 del 24.11.2011;
Sez. III, n. 8064 del 02.12.2008; Tar Piemonte, Torino,
18.01.2017, n. 134).
Irrilevante è la circostanza che le trasformazioni dell’area
siano o meno imputabili a gestioni precedenti dell’immobile:
le condizioni di conformità urbanistica ed edilizia del
manufatto che ospita l’attività commerciale vanno riferite
al momento della presentazione della SCIA di avvio e se
queste difettano perché –in tesi– sono state operate
trasformazioni del bene senza il prescritto titolo dalla
precedente proprietà dell’immobile, la SCIA va egualmente
dichiarata priva di efficacia perché ciò consegue alla
condizione dell’immobile e non si verte intorno a
provvedimenti sanzionatori che presuppongono l’accertamento
della responsabilità del soggetto agente (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 07.11.2017 n. 11090 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
base al combinato disposto degli artt. 2 e 32 della L.
383/2000, le associazioni di promozione sociale possono
localizzare la loro sede in tutte le parti del territorio
urbano, essendo la stessa compatibile con ogni destinazione
d’uso urbanistico, a prescindere dalla destinazione d’uso
edilizio impressa funzionalmente e specificamente al singolo
fabbricato, sulla base del permesso di costruire.
---------------
L’Associazione ricorrente, associazione di promozione
sociale iscritta nel registro regionale ai sensi della L.
383/2000, nonché della L.R. 39/2007, impugna l’epigrafata
ordinanza con la quale il Comune di Lecce, dopo aver
contestato il “cambio di destinazione d’uso dell’unità
immobiliare censita in catasto al fg. 213, part. 142, sub 2,
p.t., da abitazione a ufficio privato, in assenza di titoli
abilitativi legittimanti”, le ha intimato di
ripristinare l’originaria destinazione d’uso abitativa.
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Il Collegio ritiene di condividere quanto già espresso da
questo tribunale con ordinanza n. 6/2017, con la quale si è
rilevato il deficit istruttorio e motivazionale del
provvedimento impugnato, atteso che lo stesso non risulta
aver tenuto in debita considerazione che, in base al
combinato disposto degli artt. 2 e 32 della L. 383/2000, le
associazioni di promozione sociale possono localizzare la
loro sede in tutte le parti del territorio urbano, essendo
la stessa compatibile con ogni destinazione d’uso
urbanistico, a prescindere dalla destinazione d’uso edilizio
impressa funzionalmente e specificamente al singolo
fabbricato, sulla base del permesso di costruire (in tal
senso C.d.S. 181/2013).
Il provvedimento impugnato infatti omette di considerare le
caratteristiche dell’attività in concreto esercitata nei
locali predetti, nonché la compatibilità della stessa con la
destinazione d’uso ivi precedentemente impressa, non
esprimendo sufficienti argomentazioni sul punto.
In tal senso, pertanto, il ricorso merita accoglimento con
assorbimento delle censure non esaminate
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 13.09.2017 n. 1447 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza anche penale è ferma nel ritenere che il
cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile
abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria
urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi
per i quali è necessario il rilascio del permesso di
costruire.
---------------
- rilevato che, in linea di fatto è pacifica la sussistenza
del vincolo nonché la consistenza dell’intervento in termini
di trasformazione di un porticato aperto destinato a garage
in nuova unità abitativa tramite chiusura perimetrale;
- considerato che, in proposito, se la giurisprudenza anche
penale è ferma nel ritenere che il cambio di destinazione
d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto
comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad
un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è
necessario il rilascio del permesso di costruire (cfr. ad
es. Cass. pen. sez. III, 05/04/2016, n. 26455), nel caso di
specie è evidente il consistente mutamento di destinazione
d’uso accompagnato da opere (chiusura perimetrale di spazio
prima aperto);
- atteso che tale rilevante modifica dello stato
preesistente (sia in termini urbanistici di aumento del
carico che in termini edilizi) non può certo qualificarsi
alla stregua degli interventi minori (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 26.07.2017 n. 682 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul mutamento di
destinazione d'uso (senza esecuzione di opere o aumento di
volumi) del fabbricato posto in zona classificata come D2,
ricomprendente aree commerciali e terziarie di
completamento, in attività di preghiera o di culto.
La destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione. Essa individua il bene
sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di
zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione
della differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a seconda della
diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle
varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito
delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma
non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
Il Consiglio di Stato ha affermato, al riguardo, che "la
richiesta di cambio della destinazione d'uso di un
fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle
modificazioni astrattamente possibili in una determinata
zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto
difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto
con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si
tratta non di una mera modificazione formale destinata a
muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal
piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere
significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal
piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri
prefigurati in quella sede".
---------------
Quanto al mutamento di destinazione d'uso realizzato, come
nel caso in esame, senza l'esecuzione di opere edilizie, è
stato chiarito che il mutamento di destinazione d'uso senza
opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché
intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica,
mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche
di destinazione che comportino il passaggio di categoria
o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici,
anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione
d'uso funzionale che non comporti una oggettiva
modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del
territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che
non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico,
inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti
secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a
parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di
rifiuti e viabilità, derivante dalla diversa destinazione
impressa al bene.
---------------
Per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la
stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie
funzionali di cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e
cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella
produttiva e direzionale, quella commerciale e quella
rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a
condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a
una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non
comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata
dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico
urbanistico nel senso anzidetto.
L'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette
categorie funzionali, sicché il suo svolgimento, di per sé,
non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse
diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in
concreto accertato, unitamente, ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a),
d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico.
---------------
1. Il ricorso, come peraltro sottolineato anche dal
Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta, è
fondato in relazione al primo e al terzo motivo,
essendo del tutto mancante la motivazione riguardo
all'aggravio del carico urbanistico conseguente alla diversa
destinazione d'uso impressa all'immobile senza esecuzione di
opere o aumento di volumi.
2. Il sequestro oggetto delle censure proposte dal
ricorrente è stato disposto in relazione al mutamento di
destinazione d'uso del fabbricato condotto in locazione
dallo stesso Da., nella sua veste di Presidente di una
associazione culturale, posto in zona classificata come D2,
ricomprendente aree commerciali e terziarie di
completamento, sulla base del rilievo che all'interno di
tale fabbricato sarebbe stata svolta attività di preghiera o
di culto, determinante mutamento della destinazione d'uso
del bene.
Al riguardo va dunque ricordato che questa Corte ha già
chiarito (cfr. Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv.
243102; conf. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, Tortora, Rv.
258686; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv.
260422; Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, Stellato, Rv.
267106) che la destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione. Essa individua il bene
sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di
zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione
della differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a seconda della
diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle
varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito
delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma
non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
Il Consiglio di Stato (Sez. 5, n. 24 del 03/01/1998, Comune
di Ostuni c. Mo. S.r.l.) ha affermato, al riguardo, che "la
richiesta di cambio della destinazione d'uso di un
fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle
modificazioni astrattamente possibili in una determinata
zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto
difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto
con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si
tratta non di una mera modificazione formale destinata a
muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal
piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere
significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal
piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri
prefigurati in quella sede".
Quanto al mutamento di destinazione d'uso realizzato, come
nel caso in esame, senza l'esecuzione di opere edilizie, è
stato chiarito (cfr. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, cit., e
successive conformi, tra cui Sez. 3, n. 39897 del
24/06/2014, e Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, citate) che
il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente
assoggettato a S.C.I.A., purché intervenga nell'ambito della
stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso
di costruire per le modifiche di destinazione che comportino
il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito
nei centri storici, anche all'interno di una stessa
categoria omogenea. Dunque deve ritenersi consentita la
modifica di destinazione d'uso funzionale che non comporti
una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed
edilizio del territorio e non incida sugli indici di
edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del
carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di
servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi
pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto,
smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852
del 08/05/2013, Pace, non massimata), derivante dalla
diversa destinazione impressa al bene.
3. Per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la
stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie
funzionali di cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e
cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella
produttiva e direzionale, quella commerciale e quella
rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a
condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a
una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non
comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata
dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico
urbanistico nel senso anzidetto.
L'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette
categorie funzionali, sicché il suo svolgimento, di per sé,
non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse
diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in
concreto accertato, unitamente, ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a),
d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico
(cfr., in proposito, Sez. 3, n. 4943 del 17/01/2012,
Bittesini, Rv. 251984; Sez. 3, n. 19378 del 15/03/2002,
Catalano, Rv. 221951; Sez. 3, n. 26209 del 30/04/2003,
Censullo, Rv. 225515).
4. Ora, nella vicenda in esame, il Tribunale ha fondato il
rigetto della richiesta di riesame sulle dichiarazioni rese
a una dipendente del Comune di Coccaglio dalla figlia di uno
dei partecipanti alla associazione culturale di cui il
ricorrente è il presidente, che avrebbe riferito che
nell'immobile condotto in locazione da detta associazione i
fedeli si trovano quotidianamente a pregare; il Tribunale
ha, però, omesso, oltre a qualsiasi riferimento alla
imputazione di cui all'art. 681 cod. pen. (essendo stato
disposto il sequestro anche in relazione a essa, che il
Tribunale non ha, tuttavia, considerato), anche di accertare
l'entità e l'incidenza di tale attività di culto, il suo
riflesso sulla destinazione del bene e, soprattutto, sul
carico urbanistico nel senso anzidetto: non è stato, in
particolare, analizzato in alcun modo, nonostante la
formulazione di una espressa censura sul punto da parte del
richiedente, il mutamento, conseguente allo svolgimento di
tale attività, dell'insieme delle esigenze urbanistiche
valutate in sede di pianificazione, con particolare
riferimento agli standard fissati dal D.M. 1444/1968 (cfr.
Sez. 3, n. 36104 del 22/09/2011, Armelaní, Rv. 251251; Sez.
3, n. 6599 del 24/11/2011 (dep. 2012), Susinno, Rv. 252016),
né accertato se tale eventuale mutamento abbia determinato
anche un aggravio del carico urbanistico, inteso come
maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad
esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le
esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr.,
Sez. 3, n. 24852 del 08/05/2013, Pace, non massimata).
Ne consegue la sussistenza del vizio di violazione di legge
denunciato dal ricorrente con il primo e il terzo motivo,
risultando del tutto mancante l'accertamento in fatto e la
relativa motivazione a proposito della entità della attività
svolta nell'immobile condotto in locazione e oggetto del
provvedimento di sequestro (se tale, cioè, da determinare un
mutamento di destinazione da una categoria funzionale
all'altra tra quelle indicate nell'art. 23-ter d.P.R. n. 380
del 2001), e riguardo alla incidenza della stessa sugli
standard urbanistici (in misura tale da determinare un
aggravio del carico urbanistico e quindi da consentire di
ritenere configurabile il reato di cui all'art. 44 d.P.R.
380 del 2001): a tale ultimo riguardo la motivazione
dell'ordinanza impugnata risulta priva di riferimenti
concreti, in quanto è sganciata da qualsiasi riferimento
alla attività svolta nell'immobile, a quella precedente, al
raffronto tra esse, e alla incidenza di quella da ultimo
svolta sui servizi cosiddetti secondari, in guisa tale da
determinare un aggravio del carico urbanistico.
5. L'ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata,
con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Brescia,
rimanendo con ciò assorbiti gli altri motivi di ricorso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2017 n. 34812). |
EDILIZIA PRIVATA:
La dichiarazione di inizio attività (segnalazione
certificata di inizio attività) costituisce un atto
soggettivamente e oggettivamente privato con cui
l'interessato esercita la sua legittimazione ex lege
all'esercizio di attività liberalizzate.
Tale strumento di semplificazione dei rapporti tra cittadino
e PP.AA. può essere utilizzato anche ai fini del mutamento
di destinazione d’uso degli immobili, ove ricorrano talune
condizioni: “il mutamento di destinazione d'uso è
assoggettato solo a Dia (ora Scia), purché però intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica.
Di recente, anche il Consiglio di Stato ha affermato che “Se
è vero che un mutamento di destinazione d’uso è sempre
consentito, a condizione che, prima e dopo il mutamento, si
rimanga all’interno della stessa categoria funzionale,
ulteriormente coordinando sul piano ermeneutico la portata
dei segmenti dispositivi degli artt. 22 e 23-ter D.P.R. n.
380/2001 (T.U. Edilizia) si giunge alla conclusione che,
purché si rimanga nella stessa categoria funzionale, è
possibile il cambio di destinazione d’uso attraverso una
SCIA”.
---------------
...
per l'annullamento della nota prot. 22195 del 09.08.2016 con la quale è
stata comunicata l'inefficacia della SCIA inerente il cambio
di destinazione d'uso da “artigianale” a “commerciale”,
senza esecuzione di opere, dell'immobile sito a Scicli in C.da C..., da destinare a MSV (Media Struttura di
Vendita) assieme al contiguo locale commerciale;
...
Il ricorrente Lo.An. espone di aver presentato in data
03.05.2016 al Comune di Scicli una segnalazione
certificata di inizio attività (SCIA) con la quale segnalava
l’avvio del cambio di destinazione d’uso -da “artigianale”
a “commerciale”- senza realizzazione di opere, di un
immobile sito in Scicli, C.da ..., da destinare a
Media Struttura di Vendita.
Dopo il completamento dei lavori, con nota del 09.08.2016
(comunicata all’interessato il successivo giorno 16 agosto),
lo Sportello unico per le attività produttive del Comune di
Scicli ha rilevato che l’intervento proposto non sarebbe
ammissibile dal punto di vista della conformità urbanistica,
in quanto la destinazione d’uso “commerciale” richiesta confligge con la condizione riportata nella concessione
edilizia in sanatoria n. 79/S022182 N del 21/06/2002
rilasciata per l’immobile in questione, che imponeva il
mantenimento della destinazione d’uso specificata nel
progetto allegato.
In conclusione, l’amministrazione comunale ha ritenuto che
la SCIA non abbia prodotto effetti abilitativi e che la
destinazione dell’immobile è da intendersi “artigianale”.
...
Il Collegio ritiene di dover confermare la valutazione di
fondatezza del ricorso già resa, sulla scorta di un primo
esame, nella fase cautelare del giudizio.
In particolare,
risulta in via documentale che la nota adottata dal SUAP del
Comune di Scicli in data 09.08.2016 -della cui natura provvedimentale deve peraltro dubitarsi, alla luce del fatto
che essa contiene l’invito rivolto al destinatario a
presentare osservazioni/controdeduzioni, e fissa altresì un
termine di conclusione del procedimento decorrente dalla
data di notifica della nota stessa; anche se poi,
contraddittoriamente, dichiara impugnabile il
“provvedimento” innanzi al Tar- sia intervenuta oltre 90
giorni dalla presentazione della SCIA effettuata dal
ricorrente.
Risulta, quindi, violato il termine di trenta giorni –quale
emerge dal combinato disposto dei commi 3 e 6-bis dell’art.
19 della L. 241/1990 (cd. SCIA in materia edilizia)- entro il
quale l’amministrazione può “in caso di accertata carenza
dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, (…),
adotta[re] motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi
di essa” (art. 19, co. 3, cit.).
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che “La
dichiarazione di inizio attività (segnalazione certificata
di inizio attività) costituisce un atto soggettivamente e
oggettivamente privato con cui l'interessato esercita la sua
legittimazione ex lege all'esercizio di attività
liberalizzate” (Cons. Stato, A.P. n. 15/2011). Tale
strumento di semplificazione dei rapporti tra cittadino e PP.AA. può essere utilizzato anche ai fini del mutamento di
destinazione d’uso degli immobili, ove ricorrano talune
condizioni: “il mutamento di destinazione d'uso è
assoggettato solo a Dia (ora Scia), purché però intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica” (ex multis,
Cass. Pen., III, 26455/2016, Id. 31465/2014).
Di recente,
anche il Consiglio di Stato ha affermato che “Se è vero che
un mutamento di destinazione d’uso è sempre consentito, a
condizione che, prima e dopo il mutamento, si rimanga
all’interno della stessa categoria funzionale, ulteriormente
coordinando sul piano ermeneutico la portata dei segmenti
dispositivi degli artt. 22 e 23-ter D.P.R. n. 380/2001 (T.U.
Edilizia) si giunge alla conclusione che, purché si rimanga
nella stessa categoria funzionale, è possibile il cambio di
destinazione d’uso attraverso una SCIA” (Cons. Stato, VI,
2295/2017).
In conclusione, assorbite le ulteriori censure dedotte, il
ricorso va accolto in ragione del ritardo con il quale
l’amministrazione comunale è intervenuta per modificare gli
effetti prodotti dalla SCIA. Rimane comunque salva, come già
indicato nell’ordinanza cautelare, la facoltà per
l’amministrazione di esercitare i poteri di vigilanza e di
autotutela previsti nell’art. 19, commi 4 e 6-bis, della L.
241/1990
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 12.07.2017 n. 1773 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I ricorrenti hanno realizzato un cambio di
destinazione d’uso (con opere) da deposito/cantina/garage ad
abitativo, che avrebbe necessitato del previo rilascio del
permesso di costruire, anche in ragione dell’aumento del
carico urbanistico che ne deriva.
Sicché, in mancanza del permesso, ovvero in difformità dai
titoli già rilasciati, la sanzione della demolizione di cui
all’art. 31 del DPR n. 380 del 2001 è del tutto
giustificata.
---------------
II. Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
- Come si evince dal verbale di sopralluogo n. 1 del 25.05.2007
redatto dalla Polizia Municipale e dagli elaborati grafici e
fotografici allegati allo stesso, il locali posti ai
rispettivi piani seminterrati dei due appartamenti situati
al piano terra dell’abitazione bifamiliare di che trattasi,
assentiti ad uso ripostiglio, garage, cantina, lavanderia,
stenditoio e stireria (come da concessione edilizia n. 8 del
1994 e da autorizzazione in variante conseguita con DIA
presentata in data 09.09.1995), sono stati parzialmente
trasformati (in epoca imprecisata, sebbene i ricorrenti
asseriscano che le modifiche siano state apportate già prima
che fosse rilasciato il certificato di abitabilità, ma la
circostanza non è dimostrata), anche con la realizzazione di
opere edilizie, sino alla completa modifica della
destinazione d’uso dell’intero piano ad abitativa.
- In particolare, nel seminterrato contraddistinto nel verbale di
sopralluogo come A1, si riscontra la trasformazione del
locale lavanderia in una cucina abitabile piastrellata,
dotata di mobilio funzionale allo scopo, con
elettrodomestici allacciati alla rete idrica, elettrica e
del gas; i locali stenditoio e cantina, anch’essi
pavimentati e arredati in maniera funzionale al nuovo
utilizzo, sono stati adibiti, rispettivamente, a tinello e
camere da letto.
Nel seminterrato contraddistinto nel verbale di sopralluogo
come B1, inoltre, completamente pavimentato, il ripostiglio
collocato nel locale garage è stato trasformato in un bagno
e nel locale lavanderia/stenditoio/stireria sono stati
ricavati un ripostiglio e una cucina abitabile interamente
arredata e funzionale allo scopo, con gli elettrodomestici
allacciati alla rete idrica, elettrica e del gas. In
entrambi i seminterrati sono stati realizzati ex novo dei
camini in corrispondenza degli ex locali lavanderia.
- Le suddette modifiche sono state dettagliatamente illustrate nel
citato verbale di sopralluogo e in esso sufficientemente
indicate anche mediante il rinvio agli elaborati grafici e
fotografici allegati, sicché, contrariamente a quanto
sostenuto dai ricorrenti, alcun difetto di motivazione è
riscontrabile nel provvedimento impugnato, che rinvia per
relationem al predetto verbale.
- Per quanto riguarda, invece, il cambio di destinazione d’uso
contestato dall’Amministrazione, è noto che esso sussiste
se, a prescindere dalla realizzazione di opere, l’intervento
determini una modificazione edilizia con effetti incidenti
sul carico urbanistico o sia idoneo a consentire un uso più
intenso dell’edificio, per effetto della moltiplicazione
delle unità immobiliari.
Nel caso in esame, non può escludersi che tale incremento si
sia verificato, atteso che detto mutamento ha dato luogo ad
un piano abitabile in più rispetto a quelli esistenti ed i
lavori in questione hanno effettivamente conferito ai locali
una destinazione residenziale, essendo essi univocamente
volti a rendere gli stessi abitabili e destinati alla
stabile permanenza di persone.
- Ed invero, il piano seminterrato delle due unità abitative è
stato interamente dotato di servizi e trasformato in modo da
essere suscettibile di un utilizzo anche autonomo rispetto
all’abitazione principale (dal che si esclude la sua natura
pertinenziale).
In particolare, i locali in parola sono stati interamente
arredati e dotati di ogni confort e, come si evince dai
rilievi fotografici versati in atti, i mobili e gli oggetti
ivi presenti non sono stati meramente depositati (come
invece asserito dai ricorrenti), ma organizzati in maniera
tale da essere destinati ad un utilizzo quotidiano,
contribuendo ad imprimere all’immobile un’oggettiva
attitudine funzionale coincidente con quella di una civile
abitazione (che non è la stessa attitudine che il bene aveva
in precedenza).
Peraltro, dalla nota di trasmissione del verbale di
accertamento delle violazioni urbanistiche alla competente
Procura della Repubblica da parte dell’Ufficio tecnico
comunale (prot. n. 2849 dell’01.06.2007), prodotta in
allegato al ricorso, emerge che detti locali sono stati
dotati di impianto termo-idraulico, non previsto nel
progetto assentito; tale tipologia di intervento costituisce
elemento idoneo a confermare ulteriormente la destinazione
abitativa dell’immobile.
- E’ innegabile, quindi, che, nella fattispecie, i ricorrenti
abbiano realizzato un cambio di destinazione d’uso (con
opere) da deposito/cantina/garage ad abitativo, che avrebbe
necessitato del previo rilascio del permesso di costruire,
anche in ragione dell’aumento del carico urbanistico che ne
deriva (TAR Campania Napoli, sez. IV, 03.02.2015, n. 731;
sez. VIII, 16.04.2014, n. 2174; TAR Lazio Roma, sez. I,
09.12.2011, n. 9646). In mancanza del permesso, ovvero in
difformità dai titoli già rilasciati, la sanzione della
demolizione di cui all’art. 31 del DPR n. 380 del 2001 è del
tutto giustificata.
III. Per le suesposte ragioni, il ricorso va respinto (TAR
Marche,
sentenza 07.06.2017 n. 445 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla trasformare da autorimessa e magazzino in abitazione.
Sono errate le deduzioni circa la
valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso
del piano terra - originariamente destinato ad autorimessa e
a magazzino, che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non
può considerarsi semplicemente già tutto a destinazione
abitativa in quanto “pertinenza” di un edificio
residenziale.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso
residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in
senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo
strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di
servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire.
Sicché, deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione
d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di
permesso di costruire (in quanto non incide sul carico
urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra
categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee,
così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale,
integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul
carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al
regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente
dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame
sono presenti”.
---------------
Il ricorso non è fondato e deve essere respinto.
Le opere di cui alla DIA del 19.07.2016, volte, come
anticipato, a trasformare autorimessa e magazzino in
abitazione con la modifica dei prospetti e la realizzazione
di “n. 4 U.I. di SUL maggiore di mq 45” sono, in
verità, idonee a mutare radicalmente la destinazione d’uso
degli immobili in questione in locali residenziali,
incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e
c) del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato
disposto con l’articolo 10, comma 1, lettera c e con
l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure
quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di
risanamento conservativo, necessitano del preventivo
rilascio del permesso di costruire, e non di semplice DIA,
ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso
tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni del ricorrente circa la
valenza solo interna e “neutra” della modificazione
dell’uso del piano terra - originariamente destinato ad
autorimessa e a magazzino, che, ai fini dell’art. 23-ter
T.U. Edilizia non può considerarsi semplicemente già tutto a
destinazione abitativa in quanto “pertinenza” di un
edificio residenziale.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso
residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in
senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo
strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di
servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della
giurisprudenza, di recente ribadito da questa stessa Sezione
(cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 4.04.2017 n.
4225 e 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il
cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee
non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide
sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso
intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e
non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso
residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti
incidenti sul carico urbanistico, con conseguente
assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò
indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque,
nel caso in esame sono presenti” (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-bis,
sentenza 13.04.2017 n. 4577 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulle
opere eseguite idonee a trasformare il piano interrato originariamente
costituito da cantina e garage, in un locale abitabile, con cucina, sala
studio e bagno.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. a) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1,
lett. c) e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano
risultate idonee a trasformare il piano interrato (peraltro oggetto di
ampliamento senza titolo) originariamente costituito da cantina e garage, in
un locale abitabile, con cucina, sala studio e bagno, incidendo, in misura
lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo
interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano seminterrato, che,
potendosi considerare tutta ricompresa nelle categorie funzionali omogenee
di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia finirebbe per risultare
“urbanisticamente irrilevante”.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori”
che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie
residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse,
cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza
considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni
caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e
della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di
costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, deve ritenersi che “solo il cambio di
destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso
di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché
lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non
omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra
una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con
conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò
indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame
sono presenti”.
----------------
Con il ricorso in epigrafe la sig.ra Zu.El. ha chiesto al Tribunale di
annullare la determinazione dirigenziale di Roma Capitale n. 551 del
19.09.2013 con cui era stata respinta la sua domanda di condono del
09.12.2004 per l’avvenuta realizzazione al piano seminterrato dell’immobile
di via ... n. 70 di un locale non residenziale (cantina) annesso al
fabbricato principale per una superficie complessiva di mq 30, nonché tutti
gli atti presupposti, conseguenti o comunque connessi e, in particolare, la
circolare della Regione Lazio n. 65993/2S/02 del 19.04.2006, il parere della
Regione Lazio n. 5224 del 30.04.2010 in merito al condono nelle aree
vincolate e la d.d. di Roma Capitale n. 14 del 29.03.2012, richiamate nel
provvedimento n. 551/2013.
...
Con i motivi aggiunti la ricorrente ha, inoltre, dedotto, come
anticipato, l’illegittimità dell’ordine di ripristino asserendo che nel
caso in questione le opere realizzate non avrebbero integrato una
ristrutturazione edilizia, bensì di un mero cambio di destinazione d’uso,
consentito dalla novella legislativa recata dal cosiddetto “Decreto Sblocca
Italia”, mediante l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo Unico
dell’edilizia; con tale intervento normativo il legislatore avrebbe
introdotto nel sistema il concetto di “mutamento d’uso urbanisticamente
rilevante”, tale solo in caso di passaggio tra le diverse categorie
funzionali, espressamente individuate dalla norma; ne conseguirebbe che,
essendo il mutamento di destinazione d’uso interno alle categorie funzionali
omogenee consentito, nella fattispecie in questione non si sarebbe
verificato, quindi, alcun abuso, essendo stata modificata solo la
distribuzione interna degli spazi.
Anche tale doglianza non può essere condivisa.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1,
lettera c) e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano
risultate idonee a trasformare il piano interrato (peraltro oggetto di
ampliamento senza titolo) originariamente costituito da cantina e garage, in
un locale abitabile, con cucina, sala studio e bagno, incidendo, in misura
lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo
interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano seminterrato, che,
potendosi considerare tutta ricompresa nelle categorie funzionali omogenee
di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia finirebbe per risultare
“urbanisticamente irrilevante”.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori”
che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie
residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse,
cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza
considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni
caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e
della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di
costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, di recente
ribadito da questa stessa Sezione (cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il cambio di
destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso
di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché
lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non
omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra
una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con
conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò
indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame
sono presenti”
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 04.04.2017 n. 4225 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia urbanistica ed edilizia, quando sia contestata l'esecuzione di opere
in assenza di un valido titolo edilizio, il giudice deve prima di ogni altra
cosa accertare l'intervento nella sua integrale sussistenza e consistenza,
qualificarlo ai sensi degli artt. 3 e 6, d.P.R. n. 380 del 2001, verificare di conseguenza
se per esso è necessario un titolo edilizio e, in caso positivo, individuare
quale (permesso di costruire o d.i.a. sostitutiva, ovvero una semplice
d.i.a.).
Alla fine di questo percorso ricostruttivo, se accerta che per
l'opera, così come realizzata, è necessario il permesso di costruire il
giudice non deve "disapplicare" la dichiarazione di inizio attività,
perché non è di questo che si tratta; è sufficiente che prenda atto del
fatto che l'intervento è stato realizzato in assenza dell'unico titolo che
lo consente.
Né rileva l'eventualità che l'opera, così come realizzata, possa esser
conforme a quella oggetto della dichiarazione di inizio attività. Allo
stesso modo, eventuali mancate osservazioni dei tecnici comunali o di altre
autorità non possono escludere la natura illecita della costruzione che in
sede penale solo il giudice può e deve autonomamente accertare; eventuali
silenzi possono costituire argomento d'accusa per concorsi dolosi o colposi,
ma non possono rendere lecito quel che tale non è.
Sicché le numerose pagine della sentenza dedicate alla possibilità per
il giudice di disapplicare il permesso di costruire e all'incidenza del
rilascio del permesso stesso sulla consapevolezza della natura abusiva
dell'opera da parte dei privati, sono del tutto irrilevanti.
---------------
Questa Suprema Corte ha avuto
modo di pronunciare alcuni principi -che devono essere qui ribaditi perché in linea con il
consolidato orientamento della S.C.- che
possono essere così riassunti:
- «La realizzazione di opere edilizie
necessita di titolo abilitativo riferito all'intervento complessivo e non
può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei
titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti attraverso la
suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che
concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo
preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto
territoriale. L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo
complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i
suoi singoli componenti (...) mentre non risulta che, nella specie, la
To. s.r.l., si sia lecitamente determinata, in tempi successivi, ad
eseguire singole opere, non programmate sin dall'inizio»;
- «La categoria "ristrutturazione
edilizia" a fronte del più ristretto ambito di quelle del "risanamento
conservativo" e del "restauro" come configurate dal D.P.R. n. 380 del 2001 e
dal D.Lgs. n. 42 del 2004, [comporta] la radicale ed integrale
trasformazione dei componenti dell'intero edificio, con mutamento della
qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti
l'aumento delle unità immobiliari nonché l'alterazione dell'originale
impianto tipologico - distributivo e dei caratteri architettonici»;
- «Quanto al mutamento di destinazione di
uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie,
deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del
fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in
esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia
secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d), del cit. T.U.,
in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur
sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di
costruzione dovuto per la diversa destinazione»;
- «Non ha rilievo l'entità delle opere
eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire
permane per gli interventi:
- di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle
destinazioni d'uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.);
- di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento
degli "elementi tipologia" dell'edificio, cioè di quei caratteri non
soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la
qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c,
cit. T.U.).
Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di nuova
costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.. Ove il
necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili
le sanzioni amministrative di cui all'art. 31, cit. T.U. e quella
penale di cui all'art. 44, lett. b)»;
- «Ai fini della individuazione della
destinazione turistico-alberghiera di una struttura immobiliare non si deve
tenere conto della titolarità della proprietà della stessa, che
indifferentemente può appartenere ad un solo soggetto proprietario oppure ad
una pluralità di soggetti. Ciò che rileva, invece, è la configurazione della
struttura (anche se appartenente a più proprietari) come albergo o residenza
turistico-ricettiva».
---------------
Il palazzo, come detto, è immobile di rilevante interesse storico-artistico, soggetto a vincolo per i suoi rilevanti caratteri
tipologici e perché di particolare interesse documentario ed ambientale.
L'area di sedime ricade in zona omogenea A del Comune, centro
storico, di interesse culturale ed ambientale.
Le varie D.i.a. che si sono
succedute nel tempo (ben 18), hanno comportato la modifica di destinazione
d'uso di gran parte dell'imponente immobile (che occupa un intero isolato)
da "residenziale e direzionale" a "commerciale, direzionale,
residenziale".
Il che comportava senz'altro la necessità, ai sensi dell'art. 10,
comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio del permesso di
costruire o, in alternativa, della d.i.a. sostitutiva di cui all'art. 22,
comma 3, lett. a), stesso d.P.R..
L'ulteriore errore nel quale cade il Tribunale è di ritenere
sostanzialmente fungibili la d.i.a. di cui all'art. 22, comma 1, d.P.R. n.
380, cit., con quella sostitutiva del permesso di costruire di cui al
successivo comma 3 (dal quale quest'ultima ripete natura e funzione).
La cd.
Superdia è fungibile ed alternativa al permesso di costruire, non alla
semplice DIA (oggi SCIA), rispetto alla quale si pone in rapporto di totale
diversità, che ai fini della sussistenza del reato ipotizzato. Seguendo il
ragionamento del Tribunale, infatti, il reato di cui all'art. 44, comma 1,
lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 non sarebbe per assurdo mai configurabile
in caso di opere soggette a permesso di costruire realizzate in costanza di
d.i.a. non sostitutiva, ancor più non lo sarebbe quello di cui cui al
successivo comma 2-bis, che richiama espressamente ed esclusivamente la
denuncia di inizio attività di cui all'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del
2001.
---------------
6. Tanto premesso, i primi tre motivi, in essi assorbito il quarto,
sono fondati.
6.1. Il caso in esame ha ad oggetto il Palazzo Tornabuoni-Corsi-Sestini di
Firenze (dichiarato di rilevante interesse storico artistico dal Ministro
della Pubblica Istruzione il 03/04/1918) e si segnala per il fatto che le
opere in contestazione sono state effettuate in base ad titoli edilizi (D.i.a.)
che, secondo l'impostazione accusatoria, non lo consentivano.
6.2. Il Tribunale, invertendo completamente i poli del ragionamento ed
utilizzando principi di diritto elaborati da questa Suprema Corte in tema,
tutt'affatto diverso, di illegittimità del permesso di costruire (titolo del
quale invece è contestata proprio la mancanza), trascurando inoltre
completamente la sentenza di questa Sezione, n. 8495 del 2012 (di cui oltre
si dirà), compie un inammissibile atto di fede nei confronti degli imputati
(ma anche degli organismi preposti al controllo della regolarità urbanistica
e ambientale degli interventi progettati ed eseguiti) ed abdicando
all'irrinunciabile dovere del giudice di controllare la legalità degli atti
amministrativi, giunge sostanzialmente ad affermare che le opere potevano
essere realizzate in base a semplice d.i.a. sol perché così sostanzialmente
avevano attestato i professionisti che avevano redatto gli elaborati tecnici
ad essa allegati, con l'autorevole avallo del Comune di Firenze (i cui
tecnici, però, sono stati chiamati a rispondere del concorso nel reato ai
sensi dell'art. 40, cpv., cod. pen.) e della Soprintendenza che avevano
condiviso la qualificazione come "restauro" dei singoli interventi
oggetto delle varie dichiarazioni.
6.3. Metodo, come detto, totalmente errato perché, in materia urbanistica ed
edilizia, quando sia contestata l'esecuzione di opere in assenza di un
valido titolo edilizio, il giudice deve prima di ogni altra cosa accertare
l'intervento nella sua integrale sussistenza e consistenza, qualificarlo ai
sensi degli artt. 3 e 6, d.P.R. n. 380 del 2001, verificare di conseguenza
se per esso è necessario un titolo edilizio e, in caso positivo, individuare
quale (permesso di costruire o d.i.a. sostitutiva, ovvero una semplice
d.i.a.). Alla fine di questo percorso ricostruttivo, se accerta che per
l'opera, così come realizzata, è necessario il permesso di costruire il
giudice non deve "disapplicare" la dichiarazione di inizio attività,
perché non è di questo che si tratta; è sufficiente che prenda atto del
fatto che l'intervento è stato realizzato in assenza dell'unico titolo che
lo consente.
Né rileva l'eventualità che l'opera, così come realizzata, possa esser
conforme a quella oggetto della dichiarazione di inizio attività. Allo
stesso modo, eventuali mancate osservazioni dei tecnici comunali o di altre
autorità non possono escludere la natura illecita della costruzione che in
sede penale solo il giudice può e deve autonomamente accertare; eventuali
silenzi possono costituire argomento d'accusa per concorsi dolosi o colposi,
ma non possono rendere lecito quel che tale non è.
6.4. Sicché le numerose pagine della sentenza dedicate alla possibilità per
il giudice di disapplicare il permesso di costruire e all'incidenza del
rilascio del permesso stesso sulla consapevolezza della natura abusiva
dell'opera da parte dei privati, sono del tutto irrilevanti.
6.5. Quanto
alla qualificazione dell'intervento è francamente singolare che il Tribunale
non accenni nemmeno, quantomeno per confutarli motivatamente, ai principi
che, in relazione al medesimo immobile e al medesimo intervento, questa
Suprema Corte, investita in sede cautelare dal medesimo PM, pronunciò con la
citata sentenza n. 8945 del 20/10/2011 (dep. il 07/03/2012).
6.6. Tali principi -che devono essere qui ribaditi perché in linea con il
consolidato orientamento della S.C., totalmente negletto dal Tribunale-
possono essere così riassunti:
6.6.1. <<La realizzazione di opere edilizie
necessita di titolo abilitativo riferito all'intervento complessivo e non
può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei
titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti attraverso la
suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che
concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo
preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto
territoriale. L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo
complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i
suoi singoli componenti (...) mentre non risulta che, nella specie, la
To. s.r.l., si sia lecitamente determinata, in tempi successivi, ad
eseguire singole opere, non programmate sin dall'inizio»;
6.6.2. «La categoria "ristrutturazione
edilizia" a fronte del più ristretto ambito di quelle del "risanamento
conservativo" e del "restauro" come configurate dal D.P.R. n. 380 del 2001 e
dal D.Lgs. n. 42 del 2004, [comporta] la radicale ed integrale
trasformazione dei componenti dell'intero edificio, con mutamento della
qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti
l'aumento delle unità immobiliari nonché l'alterazione dell'originale
impianto tipologico - distributivo e dei caratteri architettonici»;
6.6.3. <<Quanto al mutamento di destinazione di
uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie,
deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del
fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in
esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia
secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d), del cit. T.U.,
in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur
sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di
costruzione dovuto per la diversa destinazione»;
6.6.4. «Non ha rilievo l'entità delle opere
eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire
permane per gli interventi:
- di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle
destinazioni d'uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.);
- di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento
degli "elementi tipologia" dell'edificio, cioè di quei caratteri non
soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la
qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c,
cit. T.U.).
Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di nuova
costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.. Ove il
necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili
le sanzioni amministrative di cui all'art. 31, cit. T.U. e quella
penale di cui all'art. 44, lett. b)»;
6.6.5. <<Ai fini della individuazione della
destinazione turistico-alberghiera di una struttura immobiliare non si deve
tenere conto della titolarità della proprietà della stessa, che
indifferentemente può appartenere ad un solo soggetto proprietario oppure ad
una pluralità di soggetti. Ciò che rileva, invece, è la configurazione della
struttura (anche se appartenente a più proprietari) come albergo o residenza
turistico-ricettiva».
6.7. La imprescindibile necessità di mantenere l'originaria destinazione
d'uso caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione
straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza
delle modifiche introdotte dall'art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, d.l.
12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge
11.11.2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di detti interventi
procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con
esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle
singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico.
6.8. Altrettanto si dica per gli interventi di "restauro e risanamento
conservativo".
6.9. Sorvolando sulle personali opinioni del Tribunale in ordine al concetto
di restauro, rileva innanzitutto l'errore di diritto che il Giudice compie
allorquando, nello sforzo di supportare giuridicamente tali opinioni, trae
dal contenuto dell'art. 21, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004,
argomento sistematico per affermare che il "restauro", così come
definito dal successivo art. 29, comma 4, consente la rimozione o la
demolizione, anche con successiva ricostituzione, dei beni culturali,
sminuendone però la funzione essenzialmente conservativa e ripristinatoria
del bene da restaurare (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 1978 del 18/06/2014,
Sgalannbro, Rv. 262002, secondo cui nella categoria degli "interventi di
restauro o di risanamento conservativo", per i quali non occorre il
permesso di costruire, possono essere annoverate soltanto le opere di
recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle
quali apportano un consolidamento, un rinnovo o l'inserimento di nuovi
elementi costitutivi, a condizione che siano complessivamente rispettate
tipologia, forma e struttura dell'edificio).
Resta, in ogni caso, il fatto
che gli interventi di restauro e risanamento conservativo richiedono sempre
il permesso di costruire quando riguardano immobili ricadenti in zona
omogenea A dei quali venga mutata la destinazione d'uso anche all'interno
della medesima categoria funzionale.
6.10. Il tema accusatorio, articolato e complesso, imponeva dunque al
Giudice di spingere l'indagine ben oltre la semplice conformità delle opere
alle d.i.a di volta in volta presentate per il (formale) restauro e
risanamento dell'immobile, non mancando mai di perdere di vista il risultato
finale, nella sua interezza.
6.11. Il Palazzo Tornabuoni, come detto, è immobile di rilevante interesse
storico-artistico, soggetto a vincolo per i suoi rilevanti caratteri
tipologici e perché di particolare interesse documentario ed ambientale.
L'area di sedime ricade in zona omogenea A del Comune di Firenze, centro
storico, di interesse culturale ed ambientale.
6.12. Come riconosce lo stesso Tribunale, le varie D.i.a. che si sono
succedute nel tempo (ben 18), hanno comportato la modifica di destinazione
d'uso di gran parte dell'imponente immobile (che occupa un intero isolato)
da "residenziale e direzionale" a "commerciale, direzionale,
residenziale".
6.13. Il che comportava senz'altro la necessità, ai sensi dell'art. 10,
comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio del permesso di
costruire o, in alternativa, della d.i.a. sostitutiva di cui all'art. 22,
comma 3, lett. a), stesso d.P.R..
6.14. L'ulteriore errore nel quale cade il Tribunale è di ritenere
sostanzialmente fungibili la d.i.a. di cui all'art. 22, comma 1, d.P.R. n.
380, cit., con quella sostitutiva del permesso di costruire di cui al
successivo comma 3 (dal quale quest'ultima ripete natura e funzione). La cd.
Superdia è fungibile ed alternativa al permesso di costruire, non alla
semplice DIA (oggi SCIA), rispetto alla quale si pone in rapporto di totale
diversità, che ai fini della sussistenza del reato ipotizzato. Seguendo il
ragionamento del Tribunale, infatti, il reato di cui all'art. 44, comma 1,
lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 non sarebbe per assurdo mai configurabile
in caso di opere soggette a permesso di costruire realizzate in costanza di
d.i.a. non sostitutiva, ancor più non lo sarebbe quello di cui cui al
successivo comma 2-bis, che richiama espressamente ed esclusivamente la
denuncia di inizio attività di cui all'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del
2001.
6.15. La sentenza deve perciò essere annullata in relazione al capo A della
rubrica
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
14.02.2017 n. 6873). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questa Corte ha già avuto
modo di definire la destinazione d'uso quale
elemento che qualifica la connotazione del bene
immobile e risponde a precisi scopi di interesse
pubblico, di pianificazione o di attuazione della
pianificazione, precisando, altresì, che essa
individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli
strumenti urbanistici in considerazione della
differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli
standard, diversi per qualità e quantità proprio a
seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la
gestione dello stesso vengono realizzate attraverso
il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in
tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non
consentite di queste incidono negativamente
sull'organizzazione dei servizi, alterando, appunto,
il complessivo assetto territoriale.
E' dunque evidente quale sia l'impatto sul carico
urbanistico determinato dalla modifica della
destinazione d'uso degli edifici.
Il d.P.R. 380/2001, nell'articolo 10, comma 2,
attribuisce alle Regioni il potere di stabilire con
legge quali mutamenti, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti, sono subordinate a permesso di costruire
o a segnalazione certificata di inizio attività, pur
dovendo tali enti territoriali tenere conto delle
disposizioni di principio poste dalla legge statale.
Si è ulteriormente precisato che assume rilevanza,
sotto il profilo giuridico, il solo mutamento di
destinazione d'uso tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, in quanto
nell'ambito delle stesse categorie si possono
riscontrare mutamenti di fatto, ma non diversi
regimi urbanistico-contributivi, in considerazione
delle sostanziali equivalenze dei carichi
urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Va altresì tenuto conto di quanto disposto dall'art.
23-ter del d.P.R. 380/2001 (introdotto dalla legge
n. 164 del 2014), che individua, quale mutamento
rilevante della destinazione d'uso, ogni forma di
utilizzo di un immobile o di una singola unità
immobiliare diversa da quella originaria, ancorché
non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie,
purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare ad una
diversa categoria funzionale tra quelle elencate
nella medesima disposizione: residenziale;
turistico-ricettiva; produttiva e direzionale;
commerciale e rurale.
Lo stesso articolo chiarisce che la destinazione
d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è
quella prevalente in termini di superficie utile e
che, salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il
mutamento della destinazione d'uso all'interno della
stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Quanto alle modalità di attuazione, la modifica
della destinazione d'uso può essere effettuata
mediante l'esecuzione di opere (modificazione
materiale) o senza esecuzione di opere (modificazione
funzionale). Essa, inoltre, può intervenire
nella fase di costruzione del manufatto, ovvero su
un manufatto già esistente, con conseguenze diverse
sotto il profilo sanzionatorio.
---------------
L'art. 23-ter DPR 380/2001 individua come autonoma
la categoria "commerciale" rispetto a quella
"produttiva—direzionale" nella quale rientrano,
oltre, ovviamente, agli insediamenti produttivi
propriamente detti, anche gli edifici destinati ad
uffici, sedi di enti e simili e non anche le
attività prettamente commerciali, perché altrimenti
la specifica categoria non avrebbe ragione di
esistere.
Tra queste ultime si ritiene debba rientrare quella
di "fiera" o "fiera espositiva" in quanto, sebbene
nel caso in esame non sia stato specificato in cosa
essa effettivamente consista, considerando il
significato letterale dell'espressione, quale
incontro abituale di venditori e comparatori
finalizzati alla vendita o alla pubblicizzazione di
eventuali prodotti, essa indubbiamente si colloca
nell'ambito delle attività commerciali e non anche
in quelle produttive o di prestazione di servizi in
genere.
Soccorre in tal senso anche l'opinione espressa
dalla giurisprudenza amministrativa, seppure in tema
di oneri concessori, laddove ha osservato che "(...)
l'attività fieristica espositiva è autonoma e non
strettamente asservita o connessa a specifici
edifici destinati alla produzione; la medesima
attività ha una connotazione prettamente
"commerciale" per l'incidenza che determina sul
carico urbanistico complessivo in ragione delle
conseguenze che comporta la sua presenza sul tessuto
urbano in connessione ai flussi di traffico e
clientela generati, che sono diversi da quelli
propri di un'attività industriale e del tutto
corrispondenti a quelli di un'attività commerciale;
anche nella disciplina sul commercio la superficie
espositiva è a tutti gli effetti equiparata a quella
commerciale nell'evidente considerazione dell'assimilabilità
tra le superfici sulle quali si svolge l'attività di
vendita vera e propria e quelle utilizzate invece a
fini espositivi (l'art. 4, comma 7, lett. f), del
Dlgs. 31.03.1998, n. 114, reca una definizione
completa di superficie di vendita, in quanto ne
viene espresso, in positivo l'ambito come "area
destinata alla vendita, compresa quella occupata da
banchi, scaffalature e simili", ma anche, in
negativo, ciò che non costituisce superficie di
vendita, ovvero "quella destinata a magazzini,
depositi, locali di lavorazione, uffici e servizi",
con la conseguenza che anche "la zona di esposizione
dei prodotti commercializzati dall'esercizio va
inclusa nella superfici di vendita"..
Tali affermazioni vanno pienamente condivise,
dovendosi conseguentemente affermare che, ai fini
della individuazione della relativa categoria
funzionale di cui all'art. 23-ter d.P.R. 380/2001
l'attività fieristica va individuata quale attività
commerciale, con la conseguenza che la modifica di
destinazione d'uso, mediante opere, di un
preesistente complesso immobiliare desinato ad
insediamento produttivo richiede il preventivo
rilascio del permesso di costruire.
---------------
Riguardo al momento consumativo del reato
urbanistico, se ci si riferisce, in generale,
all'esecuzione di opere, può certamente affermarsi
che esso ha natura permanente e la sua consumazione
ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione, che
assumono rilevanza, indipendentemente dal tipo ed
entità delle opere, per l'oggettiva destinazione
alla realizzazione di un manufatto e perdura fino
alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva o
con la sospensione dei lavori volontaria o imposta
(ad esempio, mediante sequestro penale), con la
sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo
l'accertamento del reato e sino alla data del
giudizio.
Con specifico riferimento alla modifica della
destinazione d'uso può dirsi, sempre in linea
generale, che la consumazione del reato cessa, nel
caso in cui non sia attuata mediante l'esecuzione di
opere, con il completamento funzionale
dell'intervento, quando, cioè, l'immobile è
pienamente utilizzabile secondo a nuova destinazione
attribuitagli.
Non può invece essere condivisa l'affermazione del
Tribunale laddove sembra voglia sostenere che la
permanenza del reato è correlata alla sua successiva
utilizzazione.
Invero, non costituiscono nuova autonoma
manifestazione antigiuridica di mutamento di
destinazione, penalmente rilevante, la utilizzazione
o gli atti di disposizione del manufatto già
realizzato in modo difforme o in assenza di
concessione. Tali atti rientrano nella sfera del
"post factum" impunibile e degli effetti permanenti
di una condotta antigiuridica o consumazione
conclusa.
Al contrario, l'utilizzazione dell'immobile
successiva alla consumazione del reato assume
rilievo ai fini cautelari reali laddove comporti un
aggravio del carico urbanistico che deve essere
considerata con riferimento all'aspetto strutturale
e funzionale dell'opera ed è rilevabile anche nel
caso di una concreta alterazione della originaria
consistenza sostanziale di un manufatto in relazione
alla volumetria, alla destinazione o alla effettiva
utilizzazione tale da determinare un mutamento
dell'insieme delle esigenze urbanistiche valutate in
sede di pianificazione con particolare riferimento
agli standard fissati dal D.M. 1444/1968.
Tale orientamento si conforma alla nota decisione
delle Sezioni Unite nella quale, ammettendosi la
possibilità del sequestro anche a reato urbanistico
ormai perfezionato -"purché il pericolo della libera
disponibilità della cosa stessa -che va accertato
dal giudice con adeguata motivazione- presenti i
requisiti della concretezza e dell'attualità e le
conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua
consumazione, abbiano connotazione di
antigiuridicità, consistano nel volontario
aggravarsi o protrarsi dell'offesa al bene protetto
che sia in rapporto di stretta connessione con la
condotta penalmente illecita e possano essere
definitivamente rimosse con l'accertamento
irrevocabile del reato"- si individuano, a titolo
esemplificativo, quali conseguenze determinate dalla
libera disponibilità del manufatto illecitamente
edificato, oltre all'aggravio del carico
urbanistico, la perpetrazione dell'illecito
amministrativo prevista dall'articolo 221 Testo
unico leggi sanitarie che, pur depenalizzato,
costituisce una situazione illecita ulteriore
prodotta dalla libera utilizzazione della cosa che
il provvedimento cautelare è finalizzato ad inibire
ed il pregiudizio arrecato alle esigenze di
vigilanza e controllo del territorio mediante
l'adeguato governo pubblico degli usi e delle
trasformazioni dello stesso a causa delle
alterazioni dell'ordinato ed equilibrato assetto e
sviluppo territoriale in danno del benessere
complessivo della collettività e della sua attività,
il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina
degli strumenti urbanistici e dalla normativa
vigente.
---------------
2. Ciò posto, va ricordato, con riferimento al
primo motivo di ricorso che questa Corte ha già
avuto modo di definire la destinazione d'uso quale
elemento che qualifica la connotazione del bene
immobile e risponde a precisi scopi di interesse
pubblico, di pianificazione o di attuazione della
pianificazione, precisando, altresì, che essa
individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli
strumenti urbanistici in considerazione della
differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli
standard, diversi per qualità e quantità proprio a
seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la
gestione dello stesso vengono realizzate attraverso
il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in
tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non
consentite di queste incidono negativamente
sull'organizzazione dei servizi, alterando, appunto,
il complessivo assetto territoriale (così,
testualmente, Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009,
Tarallo, Rv. 24310001).
E' dunque evidente quale sia l'impatto sul carico
urbanistico determinato dalla modifica della
destinazione d'uso degli edifici.
Il d.P.R. 380/2001, nell'articolo 10, comma 2,
attribuisce alle Regioni il potere di stabilire con
legge quali mutamenti, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti, sono subordinate a permesso di costruire
o a segnalazione certificata di inizio attività, pur
dovendo tali enti territoriali tenere conto delle
disposizioni di principio poste dalla legge statale
(cfr. Sez. 3, n. 43807 del 05/11/2008, Pollone, non
massimata).
Si è ulteriormente precisato (Sez. 3 n. 9894/2009,
cit.) che assume rilevanza, sotto il profilo
giuridico, il solo mutamento di destinazione d'uso
tra categorie funzionalmente autonome dal punto di
vista urbanistico, in quanto nell'ambito delle
stesse categorie si possono riscontrare mutamenti di
fatto, ma non diversi regimi
urbanistico-contributivi, in considerazione delle
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici
nell'ambito della medesima categoria.
Va altresì tenuto conto di quanto disposto dall'art.
23-ter del d.P.R. 380/2001 (introdotto dalla legge
n. 164 del 2014), che individua, quale mutamento
rilevante della destinazione d'uso, ogni forma di
utilizzo di un immobile o di una singola unità
immobiliare diversa da quella originaria, ancorché
non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie,
purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare ad una
diversa categoria funzionale tra quelle elencate
nella medesima disposizione: residenziale;
turistico-ricettiva; produttiva e direzionale;
commerciale e rurale.
Lo stesso articolo chiarisce che la destinazione
d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è
quella prevalente in termini di superficie utile e
che, salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il
mutamento della destinazione d'uso all'interno della
stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Quanto alle modalità di attuazione, la modifica
della destinazione d'uso può essere effettuata
mediante l'esecuzione di opere (modificazione
materiale) o senza esecuzione di opere (modificazione
funzionale). Essa, inoltre, può intervenire
nella fase di costruzione del manufatto, ovvero su
un manufatto già esistente, con conseguenze diverse
sotto il profilo sanzionatorio.
...
5. L'ordinanza impugnata risulta però cogliere nel
segno laddove qualifica la modifica di destinazione
come operata tra categorie tra loro autonome.
Va a tale proposito rilevato che tale affermazione
non viene smentita dal richiamo, operato in ricorso,
all'art. 25 del Regolamento Edilizio del Comune di
Pastorano, e, segnatamente, alla frase, evidenziata
in neretto dalla ricorrente, che con riferimento
alla "Zona D industriale ed esistente di progetto"
specifica "(...) in tale zona è altresì
consentita la costruzione di complessi produttivi di
varia natura, di edifici destinati ad uffici
amministrativi o commerciali e di edifici per
abitazioni purché utilizzati dal solo personale di
custodia (...)" risultando, dal tenore letterale
della disposizione, che l'aggettivo "commerciali"
è chiaramente riferito agli edifici destinati ad
uffici, come l'altro "amministrativi", con
funzione evidentemente complementare al complesso
produttivo, così come le abitazioni, pure
realizzabili se destinate al solo personale di
custodia.
Neppure risulta condivisibile l'altra affermazione
della ricorrente, secondo la quale l'intervento
realizzato andrebbe collocato nella categoria
produttiva-direzionale prevista dall'art. 23-ter
d.P.R. 380/2001, con la conseguenza che non vi
sarebbe stata alcuna modificazione penalmente
rilevante.
Invero l'art. 23-ter, come si è detto, individua
come autonoma la categoria "commerciale"
rispetto a quella "produttiva—direzionale"
nella quale rientrano, oltre, ovviamente, agli
insediamenti produttivi propriamente detti, anche
gli edifici destinati ad uffici, sedi di enti e
simili e non anche le attività prettamente
commerciali, perché altrimenti la specifica
categoria non avrebbe ragione di esistere.
Tra queste ultime si ritiene debba rientrare quella
di "fiera" o "fiera espositiva" in
quanto, sebbene nel caso in esame non sia stato
specificato in cosa essa effettivamente consista,
considerando il significato letterale
dell'espressione, quale incontro abituale di
venditori e comparatori finalizzati alla vendita o
alla pubblicizzazione di eventuali prodotti, essa
indubbiamente si colloca nell'ambito delle attività
commerciali e non anche in quelle produttive o di
prestazione di servizi in genere.
Soccorre in tal senso anche l'opinione espressa
dalla giurisprudenza amministrativa, seppure in tema
di oneri concessori, laddove ha osservato che "(...)
l'attività fieristica espositiva è autonoma e non
strettamente asservita o connessa a specifici
edifici destinati alla produzione; la medesima
attività ha una connotazione prettamente
"commerciale" per l'incidenza che determina sul
carico urbanistico complessivo in ragione delle
conseguenze che comporta la sua presenza sul tessuto
urbano in connessione ai flussi di traffico e
clientela generati, che sono diversi da quelli
propri di un'attività industriale e del tutto
corrispondenti a quelli di un'attività commerciale;
anche nella disciplina sul commercio la superficie
espositiva è a tutti gli effetti equiparata a quella
commerciale nell'evidente considerazione dell'assimilabilità
tra le superfici sulle quali si svolge l'attività di
vendita vera e propria e quelle utilizzate invece a
fini espositivi (l'art. 4, comma 7, lett. f), del
Dlgs. 31.03.1998, n. 114, reca una definizione
completa di superficie di vendita, in quanto ne
viene espresso, in positivo l'ambito come "area
destinata alla vendita, compresa quella occupata da
banchi, scaffalature e simili", ma anche, in
negativo, ciò che non costituisce superficie di
vendita, ovvero "quella destinata a magazzini,
depositi, locali di lavorazione, uffici e servizi",
con la conseguenza che anche "la zona di esposizione
dei prodotti commercializzati dall'esercizio va
inclusa nella superfici di vendita: cfr. Tar
Abruzzo, Pescara, 09.04.2008, n. 387; Tar Veneto,
Sez. III, 03.11.2004 n. 3825 (...)" (TAR Veneto,
Sez. II, 13/05/2016, n. 479).
6. Tali affermazioni vanno pienamente condivise,
dovendosi conseguentemente affermare che, ai fini
della individuazione della relativa categoria
funzionale di cui all'art. 23-ter d.P.R. 380/2001
l'attività fieristica va individuata quale attività
commerciale, con la conseguenza che la modifica di
destinazione d'uso, mediante opere, di un
preesistente complesso immobiliare desinato ad
insediamento produttivo richiede il preventivo
rilascio del permesso di costruire.
Il motivo di ricorso è, pertanto infondato.
7. Per ciò che
concerne, invece, il secondo motivo di
ricorso la ricorrente, come si è detto, incentra la
sua censura sul fatto che il Tribunale non avrebbe
accertato l'incidenza dell'intervento sul carico
urbanistico, incidenza che si assume irrilevante,
considerata l'originaria destinazione dei fabbricati
che, in alcuni periodi, avevano visto la presenza
quotidiana di tremila persone tra operai ed
impiegati, secondo quanto rilevato dallo stesso
Tribunale.
In effetti tale valutazione manca, avendo il
Tribunale ritenuto la sussistenza del periculum
in mora in considerazione della natura
permanente del reato e della conseguente situazione
di illiceità "(...) legata alla diversa
destinazione attribuita all'area che permane e
rivive ogni volta si organizzi una fiera a nulla
rilevando che le opere siano ultimate (...)".
Tale affermazione impone alcune considerazioni,
anche in considerazione di quanto prospettato nei
motivi nuovi.
8. Riguardo al momento consumativo del reato
urbanistico, se ci si riferisce, in generale,
all'esecuzione di opere, può certamente affermarsi
che esso ha natura permanente e la sua consumazione
ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione, che
assumono rilevanza, indipendentemente dal tipo ed
entità delle opere, per l'oggettiva destinazione
alla realizzazione di un manufatto e perdura fino
alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva o
con la sospensione dei lavori volontaria o imposta
(ad esempio, mediante sequestro penale), con la
sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo
l'accertamento del reato e sino alla data del
giudizio.
Con specifico riferimento alla modifica della
destinazione d'uso può dirsi, sempre in linea
generale, che la consumazione del reato cessa, nel
caso in cui non sia attuata mediante l'esecuzione di
opere, con il completamento funzionale
dell'intervento, quando, cioè, l'immobile è
pienamente utilizzabile secondo a nuova destinazione
attribuitagli.
9. Non può invece essere condivisa l'affermazione
del Tribunale laddove sembra voglia sostenere che la
permanenza del reato è correlata alla sua successiva
utilizzazione.
Invero, come questa Corte ha avuto modo di
affermare, seppure in un unica pronuncia ormai
risalente nel tempo, non costituiscono nuova
autonoma manifestazione antigiuridica di mutamento
di destinazione, penalmente rilevante, la
utilizzazione o gli atti di disposizione del
manufatto già realizzato in modo difforme o in
assenza di concessione. Tali atti rientrano nella
sfera del "post factum" impunibile e degli
effetti permanenti di una condotta antigiuridica o
consumazione conclusa (Sez. 3, n. 4179 del
20/02/1985, Sciacca, Rv. 16896501).
Al contrario, l'utilizzazione dell'immobile
successiva alla consumazione del reato assume
rilievo ai fini cautelari reali laddove comporti un
aggravio del carico urbanistico che, come questa
Corte ha già avuto modo di osservare, deve essere
considerata con riferimento all'aspetto strutturale
e funzionale dell'opera ed è rilevabile anche nel
caso di una concreta alterazione della originaria
consistenza sostanziale di un manufatto in relazione
alla volumetria, alla destinazione o alla effettiva
utilizzazione tale da determinare un mutamento
dell'insieme delle esigenze urbanistiche valutate in
sede di pianificazione con particolare riferimento
agli standard fissati dal D.M. 1444/1968 (Sez. 3, n.
36104 del 22/09/2011, P.M. in proc. Armelani, Rv.
25125101. Conf. Sez. 3, n. 6599 del 24/11/2011 (dep.
2012), Susinno, Rv. 25201601).
Tale orientamento, che va qui ribadito, si conforma
alla nota decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n.
12878 del 29/01/2003, P.M. in proc. Innocenti, Rv.
22372101) nella quale, ammettendosi la possibilità
del sequestro anche a reato urbanistico ormai
perfezionato -"purché il pericolo della libera
disponibilità della cosa stessa -che va accertato
dal giudice con adeguata motivazione- presenti i
requisiti della concretezza e dell'attualità e le
conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua
consumazione, abbiano connotazione di
antigiuridicità, consistano nel volontario
aggravarsi o protrarsi dell'offesa al bene protetto
che sia in rapporto di stretta connessione con la
condotta penalmente illecita e possano essere
definitivamente rimosse con l'accertamento
irrevocabile del reato"- si individuano, a
titolo esemplificativo, quali conseguenze
determinate dalla libera disponibilità del manufatto
illecitamente edificato, oltre all'aggravio del
carico urbanistico, la perpetrazione dell'illecito
amministrativo prevista dall'articolo 221 Testo
unico leggi sanitarie che, pur depenalizzato,
costituisce una situazione illecita ulteriore
prodotta dalla libera utilizzazione della cosa che
il provvedimento cautelare è finalizzato ad inibire
ed il pregiudizio arrecato alle esigenze di
vigilanza e controllo del territorio mediante
l'adeguato governo pubblico degli usi e delle
trasformazioni dello stesso a causa delle
alterazioni dell'ordinato ed equilibrato assetto e
sviluppo territoriale in danno del benessere
complessivo della collettività e della sua attività,
il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina
degli strumenti urbanistici e dalla normativa
vigente.
Entro tale ambito avrebbe dovuto quindi orientarsi
il giudizio del Tribunale, verificando, in primo
luogo, se le opere ritenute abusive erano ancora in
corso di esecuzione, il che avrebbe, di per sé,
giustificato la misura reale al fine di interrompere
la consumazione del reato ancora in atto e, in caso
di ultimazione delle opere, se l'utilizzazione delle
stesse determini le conseguenze indicate nelle
pronunce in precedenza richiamate, fatta salva
l'ipotesi dell'intervenuta prescrizione del reato
ipotizzata nei motivi nuovi
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.02.2017 n. 6060). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comporta la condannata per il reato previsto
dall’articolo 44, lettera b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380
l'aver trasformato un locale destinato a garage e cantina in
abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando
il vano sottoscala di accesso al piano rialzato.
---------------
Il precedente 24.07.2003 la signora Pa. aveva presentato
all’agenzia del territorio di Frosinone una denuncia di
variazione, avente a oggetto il mutamento di destinazione
d’uso di una delle cantine poste a piano primo sottostrada a
“pranzo, cottura, Wc e ripostiglio” e la
realizzazione di un porticato di mq. 11 circa e di un
ripostiglio (ricavato nel vano sottoscala interno).
...
A latere della vicenda relativa al condono si svolgeva
peraltro anche un processo penale che si concludeva con la
condanna della signora Ve. per aver realizzato le opere in
questione senza titolo; in particolare la signora Ve. era
condannata per il reato previsto dall’articolo 44, lettera
b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (in pratica per aver
trasformato un locale destinato a garage e cantina in
abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando
il vano sottoscala di accesso al piano rialzato) alla pena
di mesi uno e giorni venti di arresto e all’ammenda di euro
8.000, con ordine di ripristino dello stato dei luoghi (si
vedano la sentenza del Tribunale di Frosinone n. 245 del
27.02.2008, la sentenza della corte d’Appello di Roma n.
7951 del 03.12.2008 e la sentenza n. 42295 del 25.11.2009
con cui la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma le cui
statuizioni sono quindi ormai definitive) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 06.02.2017 n. 69 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
trasformazione del piano soffitta in
superficie residenziale, formata da una camera con bagno, rifiniti e
abitati, collegati all’abitazione sottostante mediante una scala interna.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. b) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1,
lett. c) e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano
risultate idonee a trasformare la soffitta in un locale abitabile, con
camera da letto e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico
urbanistico dell’immobile.
---------------
Sono errate le deduzioni dei ricorrenti secondo cui la modificazione
dell’uso della soffitta sarebbe interna alle categorie funzionali omogenee
di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia e quindi urbanisticamente irrilevante.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori”
che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie
residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse,
cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza
considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni
caso si configura un ampliamento della superficie residenziale e della
relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo quindi al costante orientamento della giurisprudenza, deve
ritenersi che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie
omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide
sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra
categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra
locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione
edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente
assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente
dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti.
---------------
Con ricorso notificato a Roma Capitale il 17.03.2016 e depositato il 01.04.2016 i ricorrenti impugnano la determinazione dirigenziale del
municipio 6º di Roma numero 2625 del 2015, notificata il 28.01.2016,
con cui è stata disposta la rimozione o demolizione delle opere abusive di
ristrutturazione edilizia e cambio di destinazione d’uso da una categoria
all’altra, eseguite in assenza del titolo abilitativo.
I ricorrenti espongono di aver acquistato nel 2013 la proprietà di una villa
con giardino, composta da un piano terra e un locale sopraelevato dove già
era presente un lavatoio con sanitari.
Essi si sono visti notificare la comunicazione di avvio di un procedimento
amministrativo in quanto il piano soffitta era stato trasformato in
superficie residenziale, formata da una camera con bagno, rifiniti e
abitati, collegati all’abitazione mediante una scala interna.
Il procedimento veniva definito con D.D. del 15.04.2015, notificata il
27.04.2015, mediante la quale veniva ingiunta la demolizione degli
interventi edilizi abusivi.
...
Il provvedimento impugnato è stato adottato in esito all’accertamento, in
data 13.10.2015, da parte di agenti della polizia municipale, della
inottemperanza alla ingiunzione di demolizione numero 74 del 15.04.2015,
notificata il 27.04.2015, riferita a interventi edilizi abusivi
consistenti in una ristrutturazione eseguita in assenza del necessario
titolo abilitativo.
Si trattava, ad avviso dell’Amministrazione procedente, di un cambio di
destinazione d’uso tra diverse categorie generali di cui all’articolo 7, III
comma, della legge regionale del Lazio numero 36 del 1987.
In particolare, risulta che nell’unità immobiliare distinta in catasto al
foglio 1018, particella 742, subalterno 507, il piano soffitta è stato
trasformato in superficie residenziale, formata da una camera, da un bagno,
il tutto rifinito e abitato, collegata all’abitazione sottostante mediante
una scala interna.
Con il provvedimento impugnato, quindi, è stata disposta la demolizione
d’ufficio delle opere di ristrutturazione edilizia abusivamente realizzate,
con spese a carico dei proprietari.
...
Con il 2º motivo i ricorrenti deducono la illegittimità del procedimento
amministrativo ripristinatorio perché non si tratterebbe di ristrutturazione
edilizia, bensì di un mero cambio di destinazione d’uso, consentito dalla
novella legislativa recata dal cosiddetto “decreto sblocca Italia”, mediante
l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo Unico dell’edilizia, con cui è
stato introdotto il concetto di mutamento d’uso urbanisticamente rilevante,
tale solo in caso di passaggio tra le diverse categorie funzionali,
espressamente individuate dalla norma; ne conseguirebbe che il mutamento di
destinazione d’uso interno alle categorie funzionali omogenee sarebbe
consentito; il comma 3 del citato articolo di legge, inoltre, dispone che le
Regioni adeguino la propria legislazione ai principi recati dall’articolo 23-ter entro 90 giorni; decorso tale termine trovano applicazione diretta le
disposizioni dell’articolo 23-ter; non avendo la regione Lazio legiferato al
riguardo, il cambio di destinazione d’uso all’interno della stessa categoria
funzionale sarebbe ammesso.
Nella fattispecie, quindi, non si sarebbe
verificato alcun abuso, essendo stata modificata solo la distribuzione
interna degli spazi, illegittimamente contestata con un provvedimento,
oltretutto, carente di motivazione.
Anche il 2º motivo è infondato.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere b) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1,
lettera c) e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano
risultate idonee a trasformare la soffitta in un locale abitabile, con
camera da letto e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico
urbanistico dell’immobile.
Sono errate le deduzioni dei ricorrenti secondo cui la modificazione
dell’uso della soffitta sarebbe interna alle categorie funzionali omogenee
di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia e quindi urbanisticamente irrilevante.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori”
che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie
residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse,
cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza
considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni
caso si configura un ampliamento della superficie residenziale e della
relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo quindi al costante orientamento della giurisprudenza, di recente
espresso da questo stesso Tribunale amministrativo regionale, deve ritenersi
che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non
necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico
urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie
funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e
vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti
incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime
del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere
che, comunque, nel caso in esame sono presenti (cfr. TAR Lazio, sez. I,
11/09/2015, n. 11216).
Anche il secondo motivo di impugnazione, quindi, è privo di fondamento.
Ne deriva la reiezione del ricorso, fermo restando che l’Amministrazione,
prima di eseguire il provvedimento di demolizione d’ufficio, dovrà valutare
se le operazioni di ripristino eseguite dagli interessati siano sufficienti
a restituire al locale soffitta la destinazione d’uso originaria
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 30.01.2017 n. 1439 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora
SCIA), ma a condizione che intervenga nell'ambito della stessa categoria
urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino, come nel caso in esame, il passaggio di
categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea.
---------------
1. Il ricorso è infondato.
2. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata
denunciata violazione dell'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, per l'erronea
affermazione da parte del Tribunale della prevalenza del mutamento di
destinazione impresso al fondo agricolo del ricorrente destinandolo a
deposito ed esposizione di automobili in mancanza del permesso di costruire,
in quanto ad avviso del ricorrente il Tribunale avrebbe dovuto considerare
l'estensione complessiva dell'appezzamento di terreno di sua proprietà, e
non la singola particella catastale destinata a deposito ed esposizione di
autoveicoli, con la conseguente esclusione del necessario requisito della
prevalenza del mutamento, va osservato che l'art. 23-ter d.P.R. 380/2001
stabilisce in proposito che "1. Salva diversa previsione da parte delle
leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso
ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare
diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o
dell'unita' immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra
quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b)
produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
2. La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è
quella prevalente in termini di superficie utile.
3. Le regioni adeguano la propria legislazione ai principi di cui al
presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in
vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni
del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della
destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito".
Ne consegue l'irrilevanza, nella specie, della indagine sulla prevalenza
della destinazione d'uso del fondo, giacché tale accertamento deve essere
eseguito solamente in caso di destinazione mista, allo scopo di stabilire
quale sia la destinazione d'uso da considerare prevalente, per verificare se
vi sia stato un mutamento rispetto ad essa.
Allorquando (come nel caso di
specie, nel quale, pacificamente, tutti i fondi di proprietà del ricorrente,
avevano destinazione agricola) si sia verificato un mutamento rilevante
della originaria univoca destinazione d'uso, in conseguenza di un utilizzo
del fondo diverso rispetto a quello originario, tale da assegnare l'immobile
ad una diversa categoria funzionale tra quelle elencate nel primo comma
dell'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, non occorre compiere alcuna indagine sulla
prevalenza della destinazione d'uso dell'immobile, essendo sufficiente, in
presenza di destinazione univoca, l'utilizzo diverso del fondo.
Poiché nella vicenda in esame tale mutamento vi è stato, in quanto una
porzione, corrispondente a quella sottoposta a sequestro, dei fondi a
destinazione agricola di proprietà del ricorrente è stata da questi
destinata a deposito ed esposizione di autoveicoli, comportante,
evidentemente, l'assegnazione di tale porzione di fondo alla categoria
funzionale commerciale, non sussiste la violazione di legge lamentata dal
ricorrente, essendo per effetto di tale condotta configurabile il reato di
cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001, in conseguenza del suddetto
mutamento della destinazione di fondi solo agricoli, tale da assegnarli ad
una diversa categoria funzionale (nella specie quella commerciale), in
mancanza del permesso di costruire.
Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora
SCIA), ma a condizione che intervenga nell'ambito della stessa categoria
urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino, come nel caso in esame, il passaggio di
categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del
24/06/2016, Stellato, Rv. 267106; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi,
Rv. 260422; Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, Tortora, Rv. 258686) (Corte di
cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2016 n.
50503). |
EDILIZIA PRIVATA:
PUÒ ESSERE ACCERTATO IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO SE
L’INTERVENTO EDILIZIO È ANCORA IN CORSO D’OPERA?
Il reato di esecuzione dei lavori in
totale difformità dal
permesso di costruire (del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
art. 44, comma1, lett. b), non presuppone necessariamente il
completamento dell’opera, ma è altresì configurabile nel
corso dell’esecuzione degli interventi edilizi, allorché la
difformità risulti palese durante l’esecuzione dei lavori,
in
quanto dalle opere già compiute appare evidente la
realizzazione
di un organismo diverso da quello assentito.
La questione affrontata dalla Cassazione con la sentenza qui
esaminata è di particolare interesse e riguarda
l’individuazione
delle condizioni in base alle quali può essere ritenuto
configurabile
un mutamento di destinazione d’uso quando ancora
l’intervento edilizio non è ultimato.
La vicenda processuale
trae origine dalla Corte d’Appello che aveva confermato
quella
del Tribunale con la quale l’imputato era stato dichiarato
colpevole del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art.
44,
lett. b), perché quale proprietario committente aveva
realizzato
in totale difformità dalla concessione edilizia in luogo dei
previsti locali di sgombero sottotetto, due ulteriori unità
immobiliari
con destinazione residenziale prive dell’altezza minima
prevista per l’abitabilità, indipendenti rispetto alle
sottostanti
unità abitative ed accessibili tramite scala esterna e con
aperture
finestrate, non previste in progetto, che avevano
determinato
le modifiche dei prospetti.
Contro la sentenza
proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare
sostenendo che l’affermazione di responsabilità era stata
basata sulle dichiarazioni dell’agente accertatore che, pur
privo delle necessarie conoscenze tecniche specifiche,
aveva dichiarato che si era in presenza di un ipotizzabile cambio
di destinazione d’uso, senza valutare la documentazione
prodotta e le dichiarazioni rese dal responsabile
dell’ufficio
tecnico comunale che comprovavano la sanabilità dell’opera.
La Cassazione, nell’enunciare il principio di cui in
massima, ha
respinto il ricorso, in particolare osservando come era
stato
accertato che i servizi realizzati (di natura idraulica,
elettrica,
fognaria) all’interno delle parti del fabbricato destinate
ad uso
non abitativo fossero inequivocabilmente dimostrativi della
diversa destinazione in corso di realizzazione, non
assentita
dal permesso di costruire e certamente idonea ad incidere
sul
carico urbanistico, sicché, nella specie, il reato era già
sussistente,
non occorrendo certamente il completamento degli
interventi abusivi per configurarlo.
A tal proposito, i
Supremi
Giudici hanno fatto applicazione di un principio già
affermato
dalla Cassazione secondo cui il reato di esecuzione dei
lavori in
totale difformità dal permesso di costruire (del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. b), non presuppone
necessariamente il completamento dell’opera, ma è altresì
configurabile nel corso dell’esecuzione degli interventi
edilizi,
allorché la difformità risulti palese durante l’esecuzione
dei
lavori, in quanto dalle opere già compiute appare evidente
la
realizzazione di un organismo diverso da quello assentito
(Cass. pen., Sez. III, 20.09.2007, n. 41578, B., in
CED, n. 238000; Id., Sez. III, 30.01.2008, n. 13592,
P.M. in proc. D., in CED, n. 239837).
Da qui la conclusione
degli Ermellini secondo cui in corso d’opera, l’accertamento
del mutamento di destinazione d’uso va effettuato sulla base
della individuazione di elementi univocamente significativi,
propri del diverso uso cui è destinata l’opera e non
coerenti
con la destinazione originaria (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.11.2016 n. 49840 - Urbanistica e appalti 2/2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul cambio di destinazione d'uso da cantina-garage ad
abitazione.
Nel caso di specie si è verificato un
cambio di destinazione d'uso, realizzato mediante opere
edilizie, di alcuni locali da cantina-garage ad abitazione,
ovvero dalla categoria d'uso non residenziale alla
diversa categoria d'uso residenziale.
Un tale cambio di destinazione, pacificamente realizzato in
difformità rispetto alla d.i.a. presentata, configura il
reato contestato -ex art. 44, comma 1, lett. b), del d.P.R.
n. 380/2001- trattandosi di un'opera
di ristrutturazione edilizia presa in considerazione
dalla legislazione della Regione Lazio ai sensi del comma 2
dell'art. 10 del d.P.R n. 380 del 2001. Tale ultima
disposizione prevede, infatti, che «le regioni stabiliscono
con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro
parti, sono subordinati a permesso di costruire o a
segnalazione certificata di inizio attività».
---------------
Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a d.i.a. (ora SCIA), purché intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica,
mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche
di destinazione che comportino il passaggio di categoria o,
se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea.
E, come sottolineato dalla richiamata giurisprudenza di
questa Corte, le sanzioni previste per il cambio di
destinazione d'uso risultano giustificate dall'esigenza di
scongiurare il pericolo di compromissione degli equilibri
prefigurati dagli strumenti urbanistici in relazione al
corretto e ordinato assetto del territorio.
Ne deriva, quanto al caso in esame, che l'intervento
edilizio oggetto dell'imputazione avrebbe dovuto essere
eseguito con permesso di costruire.
---------------
1. - Con ordinanza del 07.10.2015, il Tribunale di Roma ha
annullato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip
dello stesso Tribunale ed avente ad oggetto un immobile, in
relazione al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b),
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il Tribunale ha rilevato, in particolare, che le opere
edilizie realizzate in difformità dalla d.i.a. presentata,
consistenti nel cambio di destinazione d'uso di due locali,
rientrano tra quelle per le quali è richiesta la sola d.i.a.
Ad avviso dello stesso Tribunale, il permesso di costruire è
necessario per il cambio di destinazione d'uso solo se gli
immobili sono ricompresi nelle zone omogenee A, mentre
l'immobile in questione è sito in località non sottoposta a
vincoli è inserita in zona O dallo strumento urbanistico.
2. - Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso per cassazione
il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma.
Ad avviso del ricorrente, il Tribunale avrebbe omesso di
considerare che il cambio di destinazione d'uso da
cantina-garage ad abitazione è avvenuto tra due categorie
diverse, da non residenziale a residenziale, ed è dunque
inquadrabile tra le ristrutturazioni edilizie "pesanti",
tuttora soggetti alla disciplina del permesso di costruire.
...
3. - Il ricorso è fondato.
Nel caso di specie si è verificato un cambio di destinazione
d'uso, realizzato mediante opere edilizie, di alcuni locali
da cantina-garage ad abitazione, ovvero dalla categoria
d'uso non residenziale alla diversa categoria d'uso
residenziale. Un tale cambio di destinazione,
pacificamente realizzato in difformità rispetto alla d.i.a.
presentata dall'interessata, configura il reato contestato,
trattandosi di un'opera di ristrutturazione edilizia
presa in considerazione dalla legislazione della Regione
Lazio ai sensi del comma 2 dell'art. 10 del d.P.R n. 380 del
2001. Tale ultima disposizione prevede, infatti, che «le
regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o
non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili
o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o
a segnalazione certificata di inizio attività».
E la Regione Lazio, con l'art. 7, terzo comma, della legge
regionale n. 36 del 1987, nella sua formulazione attualmente
vigente, ha stabilito che «le modifiche di destinazione
d'uso con o senza opere a ciò preordinate, quando hanno per
oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico
generale, sono subordinate al rilascio di apposita permesso
di costruire, mentre quando riguardano gli ambiti di una
stessa categoria sono soggette a denuncia di inizio attività
da parte del sindaco».
La disciplina regionale, adottata ai sensi del richiamato
comma 2 dell'art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, nel
richiedere il permesso di costruire per il mutamento di
destinazione d'uso con passaggio dall'una all'altra
categoria urbanistica, non fa alcun riferimento alla
necessaria inclusione degli immobili in una particolare zona
omogenea dello strumento urbanistico. Ed essa prevale, in
ogni caso, sulla disciplina generale di cui al precedente
comma 1, lett. c), del richiamato art. 10 del d.pr. n. 380
del 2001, a norma del quale sono subordinati al permesso di
costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia
che comportino mutamenti della destinazione d'uso,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A.
Si tratta di una disciplina che, nel suo complesso, si pone
in armonia con quanto costantemente affermato dalla
giurisprudenza di questa Corte in tema di reati edilizi, nel
senso che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a d.i.a. (ora SCIA), purché intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è
richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se
il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea (sez. 3,
24.06.2014, n. 39897, rv. 260422; sez. 3, 13.12.2013, rv.
258686; in senso analogo, sez. 3, 07.05.2015, n. 42453, rv.
265191; sez. 3, 16.10.2014, n. 3953, rv. 262018).
E, come sottolineato dalla richiamata giurisprudenza di
questa Corte, le sanzioni previste per il cambio di
destinazione d'uso risultano giustificate dall'esigenza di
scongiurare il pericolo di compromissione degli equilibri
prefigurati dagli strumenti urbanistici in relazione al
corretto e ordinato assetto del territorio.
Ne deriva, quanto al caso in esame, che l'intervento
edilizio oggetto dell'imputazione avrebbe dovuto essere
eseguito con permesso di costruire (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26455). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante.
Al fine di ritenere configurabile il
mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa
esecuzione di opere edilizie sono irrilevanti le modifiche
-recentemente apportate dall'art. 17 del d.l. n. 133 del
2014, convertito dalla legge n. 164 del 2014- all'art. 3 del
d.P.R. n. 380 del 2001, il quale, nell'estendere la
categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al
frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con
esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie
o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano
immutate la volumetria complessiva e la originaria
destinazione d'uso.
E si deve, in particolare, osservare che, per il caso della
trasformazione, attraverso opere interne ed esterne, di un
immobile da deposito ad uso residenziale, viene in rilievo
il disposto del nuovo art. 23-ter, comma 1, del richiamato
d.P.R. n. 380 del 2001, in tema di mutamento d'uso
urbanisticamente rilevante.
---------------
3. - Il ricorso è inammissibile, perché proposto al di fuori
dei limiti fissati dall'art. 325, comma 1, cod. proc. pen..
Esso è infatti basato su censure che -al di là della loro
intestazione formale- non sono sostanzialmente riferite a
violazioni di legge, ma a pretesi vizi della motivazione. Le
censure sono, inoltre, del tutto generiche, perché nel
ricorso non si indicano gli elementi concreti sulla base dei
quali la conforme valutazione dello stato di fatto operata
dal Gip e dal Tribunale dovrebbe essere disattesa.
Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni, deve
comunque rilevarsi che -contrariamente a quanto sostenuto
nel ricorso- il Tribunale ha evidenziato, sulla base di
numerosi convergenti indizi, sia l'illegittimità
macroscopica del permesso di costruire rilasciato sia, in
ogni caso, l'evidente non conformità delle opere realizzate
a tale permesso.
È sufficiente qui richiamare, innanzitutto, il profilo che
il Tribunale ha ritenuto assorbente, ovvero la destinazione
del nuovo immobile realizzato a civile abitazione, in
violazione dell'accordo del 22.05.2003, con il quale si era
autorizzato l'indagato a demolire un fabbricato adibito a
deposito e a ricostruire un altro immobile avente uguale
tipologia, nonché identici volume e superficie coperta.
E sul punto deve essere richiamato il principio, più volte
affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui,
al fine di ritenere configurabile il mutamento di
destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere
edilizie sono irrilevanti le modifiche -recentemente
apportate dall'art. 17 del d.l. n. 133 del 2014, convertito
dalla legge n. 164 del 2014- all'art. 3 del d.P.R. n. 380
del 2001, il quale, nell'estendere la categoria degli
interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o
accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere,
se comportante variazione di superficie o del carico
urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la
volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso
(sez. 3, 16.10.2014, n. 3953, rv. 262018).
E si deve, in particolare, osservare che,
per il caso della trasformazione, attraverso opere interne
ed esterne, di un immobile da deposito ad uso residenziale,
viene in rilievo il disposto del nuovo art. 23-ter, comma 1,
del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale
costituisce "mutamento d'uso urbanisticamente rilevante"
ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità
immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non
accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale
da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità
immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale
tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis)
turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c)
commerciale; d) rurale.
E non possono essere qui prese in considerazione le
asserzioni svolte dalla difesa sul punto, secondo cui dagli
atti non emergerebbe che il fabbricato preesistente fosse un
deposito agricolo. Si tratta, infatti, di rilievi puramente
fattuali, puntualmente smentiti dal Tribunale e, comunque,
inammissibili in sede di legittimità.
Né possono essere condivise le considerazioni -anche esse
puramente fattuali- svolte dalla difesa relativamente alla
reale consistenza dell'immobile effettivamente realizzato,
perché la stessa è stata constatata dalla polizia
giudiziaria e dal consulente tecnico del pubblico ministero
e risulta ampiamente confermata dalla documentazione
fotografica in atti. Del resto, la linea difensiva
dell'indagato muove, sul punto, dall'erroneo presupposto che
la volumetria rappresentata da piani che saranno interrati o
seminterrati -e che, peraltro, non risultano tali allo stato
in cui si trovano i lavori- non dovrebbe essere considerata
ai fini del computo volumetrico totale.
Si tratta, in ogni caso, di valutazioni che potranno essere
oggetto di definitivo approfondimento in sede di merito. Ed
anzi la ragione giustificativa della previsione
dell'articolo 325, comma 1, cod. proc. pen. nel senso di
limitare alla sola violazione di legge il ricorso per
cassazione avverso il riesame del sequestro probatorio,
risiede proprio nell'esigenza -rilevante ai fini
dell'economia processuale- di evitare che il giudizio di
merito sulla responsabilità penale possa essere anche
parzialmente anticipato in sede cautelare (ex plurimis,
sez. 3, 09.07.2015, n. 41211; sez. 3, 17.01.2013, n. 24824)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
31.03.2016 n. 12904 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lo
svolgimento dell’attività propria di un’associazione
culturale –di carattere ricreativo o formativo, non
disgiunto magari da momenti di preghiera– non appare
compatibile con la destinazione a laboratorio industriale
propria dei locali di cui è causa.
L’art. 23-bis del DPR 380/2001 individua una serie di
categorie funzionali autonome e il passaggio dall’una
all’altra –anche senza opere edilizie– configura un
mutamento di destinazione d’uso rilevante sotto il profilo
urbanistico.
Orbene, la categoria “produttiva e direzionale” di cui alla
lettera b) del comma 1 dell’articolo citato, nella quale può
comprendersi quella a laboratorio industriale, non può
consentire attività culturali e formative –in senso lato–
che l’associazione asserisce di svolgere.
Anche prima del citato art. 23-bis, del resto, sulla
questione del mutamento di destinazione d’uso fra categorie
urbanistiche autonome, la giurisprudenza della scrivente
Sezione II, a partire dalla sentenza 27.05.2009, n. 3859,
fino alle più recenti decisioni, ha ribadito la rilevanza
sotto il profilo urbanistico di tale mutamento, che se
realizzato senza idoneo titolo edilizio deve senza dubbio
reputarsi contra legem.
A tali pronunce, si aggiungano:
- Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2014, n. 4483, che
subordina al pagamento del contributo i cambi di
destinazione d’uso –anche senza opere edilizie– fra le
distinte categorie di cui ai commi primo e secondo dell’art.
19 del DPR 380/2001 (rispettivamente industriali e
artigianali da una parte e turistiche, commerciali,
direzionali o per servizi dall’altra);
- Consiglio di Stato, sez. VI, 18.04.2013, n. 2153; TAR
Lazio, sez. I-quater, 04.10.2012, n. 8297 e TAR Campania,
Napoli, sez. VII, 12.07.2012, n. 3382, per la quale il
cambio di destinazione d’uso che comporta un aumento di
superficie anche in conseguenza della trasformazione da non
residenziale a residenziale, è soggetto a permesso di
costruire; oltre a TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
06.05.2014, n. 468, per la quale la manutenzione
straordinaria è attività limitata al rinnovamento ed alla
sostituzione di parti dell’edificio, mentre in caso di
trasformazione dell’immobile con incremento del carico
urbanistico la figura corretta per l’inquadramento
dell’attività edilizia è quella della ristrutturazione, con
necessità del relativo titolo.
Di conseguenza, appare incontestato l’avvenuto mutamento di
destinazione d’uso, da quello industriale ad altro di
carattere culturale e ricreativo (poco importa se
accompagnato da momenti di preghiera da parte di chi accede
ai locali).
---------------
La ricorrente afferma nuovamente di non svolgere attività di
culto, evidenziando che eventuali manifestazioni occasionali
di preghiera non consentono di qualificare il locale come
adibito al culto islamico.
Anche tale censura è però priva di pregio: quel che rileva
nella presente fattispecie è che i locali di cui è causa
–che dovrebbero essere impiegati esclusivamente a
laboratorio industriale– sono invece caratterizzati da un
notevole afflusso di persone svolgenti attività sicuramente
varie (incontri, mostre, lezioni di lingua araba e italiana
e anche eventuali occasioni di preghiera), ma in ogni modo
non riconducibili, neppure con il più ampio sforzo,
all’attività industriale e produttiva.
A questo punto, il richiamo ai principi costituzionali sulla
libertà religiosa non appare pertinente, in quanto –lo si
ripete nuovamente– non è certamente in discussione la
libertà religiosa della comunità mussulmana di Cinisello
Balsamo, come quella di altre comunità, ma si impone
esclusivamente il rispetto della destinazione d’uso
urbanistica dei locali.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 143 (rectius:
173) del 02.07.2014 prot. n. 41253 del 03.07.2014 a firma
del Dirigente del Servizio edilizia privata del Comune di
Cinisello Balsamo, nonché di ogni altro atto della
procedura, anche non noto, antecedente, conseguente o
connesso.
...
FATTO
Con ordinanza n. 173 del 02.07.2014, a firma del Dirigente
del Settore Servizi al Territorio, il Comune di Cinisello
Balsamo (MI), ingiungeva alla società F.E. Srl quale
proprietaria e all’associazione “Comunità Islamica di
Cinisello Balsamo” quale locataria (di seguito, per
brevità, anche solo “associazione”), il ripristino
dello stato dei luoghi e della destinazione d’uso assentita,
con riguardo ad abusi edilizi che sarebbero stati commessi
sull’immobile sito in via ... n. 11.
Contro l’ordinanza succitata era proposto il presente
ricorso, con domanda di sospensiva, per i motivi che possono
così essere sintetizzati:
1) carenza di istruttoria in merito alla ritenuta
sussistenza del mutamento della destinazione d’uso da
industriale a luogo di culto;
2) violazione dell’art. 19 della Costituzione e violazione e
falsa applicazione dell’art. 52, comma 3-bis, della LR
12/2005;
3) eccesso di potere sotto il profilo del travisamento dei
fatti in merito alla ritenuta sussistenza del mutamento di
destinazione d’uso da industriale e luogo di culto,
violazione dell’art. 70, comma 2, e 71 della LR 12/2005;
4) eccesso di potere per manifesta illogicità della
motivazione, difetto assoluto di motivazione in merito alla
correlazione tra il presunto mutamento della destinazione
d’uso a luogo di culto e la non realizzazione della rampa
interna di accesso al piano rialzato o il frazionamento
immobiliare dell’originario edificio, difetto di istruttoria
e travisamento dei fatti, violazione e falsa applicazione
dell’art. 33 del DPR 380/2001;
5) eccesso di potere per difetto di motivazione e omessa
istruttoria, violazione degli articoli 2 e 18 della
Costituzione.
Si costituiva in giudizio il Comune intimato, concludendo
per il rigetto del gravame.
...
DIRITTO
1. Nel provvedimento impugnato (cfr. il doc. 1 della
ricorrente e del resistente), il Comune di Cinisello Balsamo
ordina il ripristino dello stato dei luoghi del capannone di
via ... n. 11, sulla base del seguente percorso
argomentativo:
- la destinazione attuale dell’immobile è ancora quella di
laboratorio industriale;
- all’interno sono stati realizzati una serie di interventi
edilizi (modifica dei locali al piano rialzato e
frazionamento degli uffici al primo e secondo piano);
- nell’immobile si svolge attività di culto o, in ogni caso,
attività propria di un’associazione di carattere culturale,
comunque non compatibile con la destinazione industriale.
Nell’ordinanza cautelare di primo grado n. 40/2015, la
scrivente Sezione II aveva evidenziato che l’utilizzo
attuale dell’immobile (luogo di culto o associazione
culturale che fosse), non è in ogni modo compatibile con la
suddetta destinazione d’uso industriale.
In sede di appello cautelare, il Consiglio di Stato ha
disposto la fissazione dell’udienza pubblica in primo grado,
con sollecitazione al TAR ad approfondire le questioni
sull’accertamento dell’attività effettivamente svolta nei
locali in questione.
1.1 Nel primo motivo di ricorso, si denuncia il presunto
difetto di istruttoria in cui sarebbe incorsa
l’Amministrazione comunale, che non avrebbe accertato
l’effettivo svolgimento dell’attività di culto, posto che
l’associazione ricorrente (così testualmente nel gravame),
non avrebbe finalità religiose né svolgerebbe attività di
culto.
Sull’attività istruttoria svolta dal Comune, preme rilevare
che il 15 e il 25.04.2014 erano effettuati due distinti
sopralluoghi, nel corso dei quali era accertata l’avvenuta
esecuzione, senza titolo edilizio, di taluni interventi, fra
i quali la modifica dei locali al piano rialzato e il
frazionamento degli uffici posti al primo e al secondo
piano, che diventano in tal modo un’unità immobiliare
autonoma (cfr. i documenti 4 e 5 della ricorrente, oltre ai
documenti dal n. 2 al n. 5 del resistente).
In data 18.04.2014, la Polizia Locale effettuava un accesso
ai locali, interpellando alcune persone ivi presenti, le
quali confermavano l’avvio di lavori per la predisposizione
di un “centro culturale”, oltre che l’effettuazione
della preghiera settimanale verso le ore 13.30 (cfr. il doc.
2 del resistente).
Nel corso di un successivo sopralluogo del 25.04.2014 (cfr.
il doc. 3 del resistente), all’interno del capannone erano
rinvenute un centinaio di persone intenti alla preghiera,
mentre da un piccolo palco erano recitate preghiere.
Si evidenzia che, in tale occasione, il vicepresidente
dell’associazione riferiva di avere presentato all’ufficio
tecnico la documentazione per il cambio d’uso (circostanza
questa che non trova però riscontro presso gli uffici
comunali).
Le conclusioni dell’attività istruttoria svolta dagli uffici
sono riassunte nella scheda di controllo sull’attività
urbanistico edilizia, prodotta dal resistente quale suo doc.
5.
Ciò premesso, appare in ogni modo fuori discussione che
all’interno dello stabile di via Frisia viene svolta
un’attività (che sia o no di culto poco rileva, come meglio
sarà precisato), che comporta un notevole afflusso di
persone e che non appare in ogni modo compatibile con la
destinazione d’uso attuale, cioè –giova ricordarlo– a
laboratorio industriale.
La stessa associazione ricorrente, infatti, ammette di
svolgere attività di carattere culturale e ricreativo, come
si desume sia dallo Statuto (cfr. il doc. 1 della
ricorrente) sia dalla rassegna fotografica (cfr. il doc. 2
della ricorrente), che attesta nei locali la presenza di
numerose persone –fra cui anche molti bambini– intenti ad
attività ricreative o scolastiche.
Lo svolgimento dell’attività propria di un’associazione
culturale –di carattere ricreativo o formativo, non
disgiunto magari da momenti di preghiera– non appare
compatibile con la destinazione a laboratorio industriale
propria dei locali di cui è causa.
L’art. 23-bis del DPR 380/2001 individua una serie di
categorie funzionali autonome e il passaggio dall’una
all’altra –anche senza opere edilizie– configura un
mutamento di destinazione d’uso rilevante sotto il profilo
urbanistico.
Orbene, la categoria “produttiva e direzionale” di
cui alla lettera b) del comma 1 dell’articolo citato, nella
quale può comprendersi quella a laboratorio industriale, non
può consentire attività culturali e formative –in senso
lato– che l’associazione asserisce di svolgere.
Anche prima del citato art. 23-bis, del resto, sulla
questione del mutamento di destinazione d’uso fra categorie
urbanistiche autonome, la giurisprudenza della scrivente
Sezione II, a partire dalla sentenza 27.05.2009, n. 3859,
fino alle più recenti decisioni (cfr. TAR Lombardia, Milano,
sez. II, n. 534 e n. 535, entrambe del 26.02.2013, oltre a
quella del 18.04.2013, n. 971 ed a quella del 22.10.2014, n.
2527), ha ribadito la rilevanza sotto il profilo urbanistico
di tale mutamento, che se realizzato senza idoneo titolo
edilizio deve senza dubbio reputarsi contra legem.
A tali pronunce, si aggiungano:
- Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2014, n. 4483, che
subordina al pagamento del contributo i cambi di
destinazione d’uso –anche senza opere edilizie– fra le
distinte categorie di cui ai commi primo e secondo dell’art.
19 del DPR 380/2001 (rispettivamente industriali e
artigianali da una parte e turistiche, commerciali,
direzionali o per servizi dall’altra);
- Consiglio di Stato, sez. VI, 18.04.2013, n. 2153; TAR
Lazio, sez. I-quater, 04.10.2012, n. 8297 e TAR Campania,
Napoli, sez. VII, 12.07.2012, n. 3382, per la quale il
cambio di destinazione d’uso che comporta un aumento di
superficie anche in conseguenza della trasformazione da non
residenziale a residenziale, è soggetto a permesso di
costruire; oltre a TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
06.05.2014, n. 468, per la quale la manutenzione
straordinaria è attività limitata al rinnovamento ed alla
sostituzione di parti dell’edificio, mentre in caso di
trasformazione dell’immobile con incremento del carico
urbanistico la figura corretta per l’inquadramento
dell’attività edilizia è quella della ristrutturazione, con
necessità del relativo titolo.
Di conseguenza, appare incontestato l’avvenuto mutamento di
destinazione d’uso, da quello industriale ad altro di
carattere culturale e ricreativo (poco importa se
accompagnato da momenti di preghiera da parte di chi accede
ai locali).
Le doglianze contenute nel primo mezzo di gravame devono
quindi rigettarsi.
1.2 Nel secondo mezzo, la ricorrente afferma nuovamente di
non svolgere attività di culto, evidenziando che eventuali
manifestazioni occasionali di preghiera non consentono di
qualificare il locale come adibito al culto islamico.
Anche tale censura è però priva di pregio: quel che rileva
nella presente fattispecie è che i locali di cui è causa
–che dovrebbero essere impiegati esclusivamente a
laboratorio industriale– sono invece caratterizzati da un
notevole afflusso di persone svolgenti attività sicuramente
varie (incontri, mostre, lezioni di lingua araba e italiana
e anche eventuali occasioni di preghiera), ma in ogni modo
non riconducibili, neppure con il più ampio sforzo,
all’attività industriale e produttiva.
A questo punto, il richiamo ai principi costituzionali sulla
libertà religiosa non appare pertinente, in quanto –lo si
ripete nuovamente– non è certamente in discussione la
libertà religiosa della comunità mussulmana di Cinisello
Balsamo, come quella di altre comunità, ma si impone
esclusivamente il rispetto della destinazione d’uso
urbanistica dei locali.
1.3 Le considerazioni sopra svolte ai punti 1.1 e 1.2
possono essere estese anche al terzo motivo, nel quale la
ricorrente ribadisce ancora, richiamando gli articoli 70 e
71 della LR 12/2005, di non svolgere attività di culto
islamico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.02.2016 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interpretazione art. 44, comma 12, L.R. n. 12/2005 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 15.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Cambio destinazione d'uso SENZA OPERE EDILIZIE - verifica accessibilità (o meno) dell'unità immobiliare da RESIDENZIALE a DIREZIONALE (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 15.01.2016). |
anno 2015 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
L’attività di affittacamere, pur differenziandosi
da quella alberghiera per le dimensioni modeste, richiede
non solo la cessione del godimento di un locale ammobiliato
e provvisto delle necessarie somministrazioni, ma anche la
prestazione di servizi personali, quali il riassetto del
locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da
bagno.
Nel caso di specie non si rinviene la radicale oggettiva
diversità tra le due modalità di destinazione denunciate
dall’appellante e dunque non è configurabile una falsa
rappresentazione in ordine al denunciato cambio di
destinazione dell’immobile, per effetto della parziale
sovrapposizione tra le due forme di destinazione e
dell’ulteriore circostanza che l’eventuale impiego del bene
secondo modalità parzialmente diverse da quelle che
configurano l’affittacamere comporta l’applicazione di una
sanzione pecuniaria.
---------------
4.– L’appello è infondato.
4.1.– L’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza per
le seguenti ragioni:
a) la questione della mancanza di opere edilizie nelle sei
camere non sarebbe motivo posto a base del provvedimento
impugnato;
b) l’indisponibilità giuridica sarebbe conseguenza dei
sequestri giudiziari risultanti esistenti all’atto
dell’adozione del provvedimento di annullamento impugnato;
c) la non conformità urbanistico-edilizia, conseguente alla
pluralità di abusi esistenti sul fabbricato nel corso del
2004;
d) la falsa rappresentazione dei dati di cui alle lettere b)
e c) da parte dell’appellata al momento della presentazione
della domanda di autorizzazione.
L’appellante critica, inoltre, la sentenza nella parte in
cui ha ritenuto assimilabile l’attività di affittacamere a
quella alberghiera, in ragione della diversità tipologica
delle attività. Inoltre, si rileva come la parte appellata
aveva presentato, nel 2004, «istanza di condono edilizio
nella quale dichiarava che il fabbricato (…) era da
destinarsi ad attività alberghiera, tale essendo la finalità
delle opere edili autorizzate senza permesso».
I motivi non sono fondati.
In relazione al punto a), il preteso errore del primo
giudice nel valutare un profilo non oggetto del
provvedimento impugnato non ha rilevanza ai fini della
presente decisione.
In relazione al punto b), a parte l‘effettiva esistenza
della perdurante efficacia dei sequestri, tale
provvedimenti, come bene mette in rilievo l’appellata,
esistevano comunque al momento del rilascio
dell’autorizzazione; e non viene indicata alcuna ragione che
giustifichi l’annullamento nel 2013.
In relazione al punto c), è sufficiente rilevare che la
questione edilizia è stata affrontata in modo indebito dal
Comune, come sopra risulta: con la conseguenza che non può,
allo stato, costituire valida ragione di annullamento
dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività commerciale.
In relazione al punto d), alla luce di quanto esposto non
risultano omissioni ingannevoli al momento della domanda di
autorizzazione per giustificare l’annullamento dell’atto
autorizzatorio rilasciato. Per l’asserita falsità per la
mancata comunicazione circa la destinazione dei beni a
finalità alberghiera e non di affittacamere, si deve
anzitutto rilevare che l'attività di affittacamere, pur
differenziandosi da quella alberghiera per le dimensioni
modeste, richiede non solo la cessione del godimento di un
locale ammobiliato e provvisto delle necessarie
somministrazioni (luce, acqua, ecc.), ma anche la
prestazione di servizi personali, quali il riassetto del
locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da
bagno (cfr. Cass., II, 08.11.2010, n. 22665).
Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, deve
ritenersi che (a prescindere dall’effettività del mutamento
di destinazione e dalla valenza della rinuncia alla domanda
di condono da parte dell’appellante, successivamente
intervenuta) non sussiste la radicale oggettiva diversità
tra le due modalità di destinazione denunciata
dall’appellante.
Si tenga conto, inoltre, che la legge della Regione Campania
24.11.2001, n. 17 (Disciplina delle strutture ricettive
extralberghiere) dispone che, in caso di gestione delle
camere secondo modalità differenti da quelle autorizzate
dalla legge, si applicano soltanto sanzioni pecuniarie. In
definitiva, non è configurabile una falsa rappresentazione
in ordine al denunciato cambio di destinazione
dell’immobile, considerata la parziale sovrapposizione tra
le due forme di destinazione e la circostanza che
l’eventuale impiego del bene secondo modalità parzialmente
diverse da quelle che configurano l’”affittacamere”
comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria.
5.– Per le ragioni sin qui esposte, i provvedimenti
impugnati risultano privi di un’adeguata motivazione e di
istruttoria, sono illegittimi e vanno annullati: e il Comune
dovrà riesercitare il potere in conformità a quanto
considerato dalla presente decisione
(massima tratta da
http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.12.2015 n. 5856
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi degli art. 71, comma 1, c-bis) e 72 L.R. n.
12/2005 Lombardia, l’installazione di attrezzature
per servizi religiosi in immobili destinati a sede
di associazioni le cui finalità siano da ricondurre
alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano
dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza
della condizione rappresentata dall’accesso
indiscriminato a tutti i fedeli interessati.
Inoltre, che nel caso di specie il mutamento della
destinazione d’uso (da negozio a luogo destinato al
culto) è avvenuto in assenza del pur necessario
titolo edilizio.
---------------
... per la riforma dell'ordinanza
31.07.2015 n. 1506
del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA, resa
tra le parti, concernente ripristino originale
destinazione d'uso a negozio nei locali di via
Tremana 11, Bergamo;
...
- Considerato che ai sensi degli art. 71, comma 1,
c-bis) e 72 L.R. n. 12/2005 Lombardia,
l’installazione di attrezzature per servizi
religiosi in immobili destinati a sede di
associazioni le cui finalità siano da ricondurre
alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano
dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza
della condizione rappresentata dall’accesso
indiscriminato a tutti i fedeli interessati;
- ritenuto, inoltre, che nel caso di specie il
mutamento della destinazione d’uso (da negozio a
luogo destinato al culto) è avvenuto in assenza del
pur necessario titolo edilizio;
- ritenuto, pertanto, che l’appello proposto dal
Comune meriti accoglimento, con conseguente rigetto
dell’istanza cautelare proposta in primo grado;
- ritenuto che sussistono i presupposti per
compensare le spese della fase cautelare;
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta)
Accoglie l'appello (Ricorso numero: 8729/2015) e,
per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata,
respinge l'istanza cautelare proposta in primo
grado.
Ordina che a cura della segreteria la presente
ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita
fissazione dell'udienza di merito ai sensi dell'art.
55, comma 10, cod. proc. amm.
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
ordinanza 25.11.2015 n. 5254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul mutamento di destinazione
d'uso del sottotetto.
In tema di reati edilizi, la modifica di
destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere
interne.
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette
"opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e
rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino
aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso, precisando che
l'esecuzione di opere di aumento della superficie e dei volumi o comunque di
realizzazione di impianti tecnologici comportanti una modifica della
destinazione d'uso richiede il permesso di costruire.
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento
che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse
pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione,
individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole
destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di
ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita
dall'art. 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si
consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli
interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle
destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lettera b), d.p.r. n. 380 del
2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo,
qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici"
dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche
funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie
edilizie (art. 3, comma 1, lett. c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova
costruzione", ai sensi dell'arti. 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n.
380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso
l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione
configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di
esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R.
06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di modesta
entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente.
In particolare, la trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è
caratterizzata per sua naturale destinazione ad abitazione, costituisce
mutamento della destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario
il rilascio del permesso di costruire, in assenza della quale il fatto
integra l'ipotesi di reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del
2001.
----------------
In tema di reati urbanistici, non ricorrono gli estremi della buona fede,
idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della
legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988), quando l'imputato abbia eseguito
un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in
conseguenza di una erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di
legge ed omettendo di consultare il competente ufficio.
---------------
3.2. A prescindere, poi, dalla novità della doglianza sollevata dal Ma., il
tema centrale e risolutivo, al quale sfuggono i ricorrenti, è costituito dal
mutamento di destinazione d'uso del sottotetto in conseguenza dei lavori
abusivi eseguiti e delle difformità realizzate, in ordine alle quali, nella
loro storicità, non vi è neppure contestazione.
Questa Corte ha affermato che, in tema di reati edilizi, la modifica di
destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere
interne (Sez. 3, n. 27713 del 20/05/2010, P.M. in proc. Olivieri ed altri,
Rv. 247919).
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette
"opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e
rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino
aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso (Sez. 3, n. 47438 del
24/11/2011, Truppi, Rv. 251637), precisando che l'esecuzione di opere di
aumento della superficie e dei volumi o comunque di realizzazione di
impianti tecnologici comportanti una modifica della destinazione d'uso
richiede il permesso di costruire (Sez. 3, n. 37862 del 16/06/2014, PMT in
proc. Duranti ed altri, non mass.).
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento
che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse
pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione,
individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole
destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di
ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita
dall'articolo 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si
consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli
interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle
destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lett. b), d.p.r. n. 380 del
2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo,
qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici"
dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche
funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie
edilizie (articolo 3, comma 1, lettera c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova
costruzione", ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n.
380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso
l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione
configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di
esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di
modesta entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv.
243101).
In particolare, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, la
trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è caratterizzata per sua
naturale destinazione ad abitazione, costituisce mutamento della
destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario il rilascio del
permesso di costruire, in assenza della quale il fatto integra l'ipotesi di
reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 6581
del 19/12/2000, dep. 19/02/2001, Muccio, Rv. 218702; Sez. 3, n. 17359 del
08/03/2007, P.M. in proc. Vazza, Rv. 236493).
I ricorrenti obiettano come tale destinazione non si fosse in concreto
realizzata, in quanto non voluta, ma a parte l'istanza di sanatoria tendente
a regolarizzare il pregresso abuso, dimostrativa della perpetrazione di esso
ed anche della direzione finalistica della condotta, la destinazione della
soffitta ad uso abitativo è stata desunta dalla divisione del locale in
stanze mediante tre metrature, dall'inserimento di un bagno di grandi
dimensioni e munito addirittura vasca idromassaggio e di finiture di pregio,
inidonee per un locale di sgombero, dall'apertura di finestre che ne
aumentavano la luminosità, dalla modifica dell'impianto elettrico e di
quello idrico preesistenti, dall'inserimento addirittura di termosifoni per
il riscaldamento, dalla realizzazione di una scala di ampie dimensioni per
accedervi, sicché non si comprende cosa altro occorra per dedurre, sulla
base di massime di esperienze generalizzate, l'esecuzione di lavori diretti
ad assegnare all'immobile una destinazione d'uso diversa da quella
originaria.
Né poteva ipotizzarsi la presentazione di qualsiasi variante posto che, al
cospetto di una modifica della destinazione d'uso dell'immobile, non sono
ammesse varianti stante la chiara preclusione in tal senso desumibile
dall'art. 22, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001.
I Giudici del merito hanno pertanto correttamente applicato la normativa
urbanistica pervenendo alla conclusione di ritenere ampiamente configurati i
reati ascritti anche con riferimento alle altre ipotesi di abuso edilizio
indicate nel capo di imputazione e tutte sostanzialmente finalizzate alla
modifica della destinazione d'uso del sottotetto, violazione già di per sé
autosufficiente per l'affermazione della responsabilità penale e compiuta
nell'esclusivo interesse della proprietaria dell'immobile, circostanza che
esclude, come sarà più chiaro in seguito, la sua buona fede.
3.2. I ricorrenti hanno eccepito che la responsabilità penale non poteva
essere affermata per difetto dell'elemento soggettivo del reato e la
proprietaria, committente dei lavori, ha in particolare sostenuto di aver
agito in assenza di colpa perché inconsapevole di commettere gli abusi,
avendola il direttore dei lavori sempre rassicurata in merito alla
esecuzione delle opere non previste nella Dia, dicendole che si trattava di
lavori legittimi e regolarizzabili mediante una variante finale, ma tale
asserzione non è stata convalidata dalla Corte territoriale che ha osservato
che l'imputata, se anche avesse agito fidandosi delle assicurazioni del
direttore dei lavori, aveva comunque l'onere di accertare, con la necessaria
diligenza, se davvero le opere difformi e non previste nella Dia, di cui
ella era ampiamente consapevole, stante la loro macroscopica diversità
rispetto al progetto allegato alla Dia stessa, fossero legittime e
assentibili.
Dalla testimonianza della figlia della ricorrente si è appreso infatti che
la Ra. chiedeva spiegazioni al direttore dei lavori circa le difformità
riscontrate sentendosi rispondere che in effetti si trattava di lavori non
regolari che però sarebbero stati regolarizzati in seguito.
L'imputata, di fronte alla palese violazione dell'atto abilitativo
presentato in Comune (violazioni apprese proprio dal direttore dei lavori),
aveva allora il dovere e la concreta possibilità di verificare la
correttezza di quanto veniva eseguito rivolgendosi direttamente ai tecnici
comunali preposti al controllo dell'attività edilizia.
La Corte distrettuale ha perciò ritenuto provato che l'imputata ha agito in
modo negligente anche se il coimputato l'aveva rassicurata ed il fatto che
quest'ultimo, a dibattimento, abbia confermato di aver tranquillizzato la Ra.
circa la regolarità della procedura che aveva deciso di intraprendere, cioè
eseguire delle opere non previste dalla Dia confidando di poterle
regolarizzare con una variante finale, non esonera la ricorrente da
responsabilità per colpa ed esclude che si sia potuto verificare, in capo ad
entrambi i ricorrenti, qualsiasi errore di fatto o errore sulla violazione
di norme extrapenali, essendo entrambi perfettamente consapevoli della
difformità dei lavori eseguiti rispetto alla Dia presentata.
Questa Corte ha stabilito che, in tema di reati urbanistici, non ricorrono
gli estremi della buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva
d'ignoranza inevitabile della legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988),
quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del
necessario permesso di costruire in conseguenza di una erronea
interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di
consultare il competente ufficio (Sez. 3, n. 36852 del 10/06/2014, Messina,
Rv. 259950).
Nel caso di specie, entrambi i ricorrenti erano consapevoli
dell'illegittimità dei lavori eseguiti e la Ra. ha inosservato l'obbligo di
richiedere un'adeguata informazione per conseguire la conoscenza della
legislazione vigente in materia
(Corte di Cassazione, Sez. penale feriale,
sentenza
05.10.2015 n. 39907). |
EDILIZIA PRIVATA: Da soffitta ad alloggio: non basta la Dia.
Tar Lazio.
L’ordinanza di demolizione è legittima se per lavori che
prevedono un cambio di destinazione d’uso tra due categorie
edilizie diverse manca il «permesso di costruire» rilasciato
dalla Pa.
L’ha chiarito il TAR
Lazio-Roma nella
sentenza 11.09.2015
n. 11216, depositata dalla Sez. I-quater, bocciando
il ricorso di un privato che chiedeva di annullare l’ordine
di demolizione disposto da un Comune per i lavori di
ristrutturazione e «risanamento conservativo» di una
soffitta di inizio 900 ormai pericolante.
Secondo il
ricorrente, tali interventi erano realizzabili con la
denuncia di inizio attività (Dia) presentata in base alle
norme del Testo unico dell’edilizia (articolo 22, Dpr
380/2001) e l’ordinanza era nulla poiché «il bene preesiste
agli interventi di mero risanamento», non essendo cioè
un’opera di nuova costruzione per cui è richiesto il
permesso di costruire (lettera c, comma 1, articolo 10,
Testo unico).
I lavori avevano portato al «cambio di destinazione d’uso da
soffitta ad abitativo, e comunque determinanti, anche
singolarmente considerate, aumento volumetrico e modifica
della sagoma dell’edificio». I giudici hanno spiegato che
«in materia edilizia, le opere interne e gli interventi di
ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento
conservativo, necessitano del preventivo rilascio del
permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento
di destinazione d’uso tra due categorie funzionalmente
autonome (mutamento d’uso che nella specie si deduce
dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno
spazio destinato a soffitta)».
Il Tar, in pratica, ha
precisato come «solo il cambio di destinazione d’uso fra
categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di
costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico)»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).
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MASSIMA
Come accennato in narrativa, è oggetto di controversia
la determinazione dirigenziale con cui il Comune di Roma ha
ordinato la demolizione di talune opere eseguita senza
permesso di costruire su immobile di proprietà della
ricorrente, comportanti modifiche delle quote di imposta
(sia al colmo che alla gronda), realizzazione di un solaio a
forma di “L”, chiusura di porta d’accesso dal pianerottolo,
con contestuale apertura di una nuova porta all’interno
della soffitta, apertura di finestra–abbaino, lavori di
impiantistica.
Sostiene la ricorrente che, essendosi limitata ad eseguire
meri interventi di risanamento, tesi alla conservazione del
manufatto deterioratosi nel tempo, è illegittimo il
provvedimento repressivo, emanato senza tenere in debita
considerazione della sufficienza, quale titolo abilitativo,
l’avvenuta presentazione di DIA.
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento in esame è stato emesso sulla base di
accertamenti tecnici eseguiti dal resistente Comune a
seguito della presentazione di DIA per l’esecuzione di
lavori edili in locale con destinazione d’uso soffitta, nel
corso dei quali è emerso che, oltre ai dichiarati interventi
di sostituzione della copertura, senza modifica delle quote
d’imposta, di posa in opera di una rampa di scale di accesso
alla soffitta e di diversa distribuzione interna,
sono state
eseguite una serie di opere sistematicamente volte a
determinare in cambio di destinazione d’uso da soffitta ad
abitativo, e comunque determinanti, anche singolarmente
considerate, aumento volumetrico e modifica della sagoma
dell’edificio.
Ed invero, è la stessa relazione tecnica di parte,
depositata in atti dalla ricorrente, che evidenzia come a
seguito degli interventi ulteriori si sia determinato un
incremento volumetrico, con la conseguenza che non può
essere qualificato quale opera di ristrutturazione quella
parte di interventi edilizi, realizzata in difformità dalla
DIA e, dunque, in assenza del prescritto permesso di
costruire, avendo comportato un maggiore ingombro a terra e
maggiore altezza al piano, con conseguente aumento di
volumetria.
Per altrettanto, non è inquadrabile nelle
suddette opere di ristrutturazione la realizzazione
dell’abbaino munito di finestra sul tetto del fabbricato in
quanto, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide
sulla sagoma dell'edificio e rientra quindi nella tipologia
della ristrutturazione con mutamento di sagoma, che è
subordinata a permesso di costruire, giusta quanto dispone
l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In ogni caso, non può sottacersi che le opere eseguite e in
corso di esecuzione (quanto alla parte impiantistica) sono
idonee a modificare radicalmente la destinazione d’uso della
soffitta in locale abitabile, incidendo in modo determinate
sul carico urbanistico.
Ritiene il Collegio che, in materia edilizia, le opere
interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica,
come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro
e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo
rilascio del permesso di costruire ogni qual volta
comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si
deduce dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile
uno spazio destinato a soffitta).
Ed invero, solo il cambio di destinazione d'uso fra
categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di
costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico),
mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie
funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa
ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul
carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al
regime del permesso di costruire, e ciò, indipendentemente
dall'esecuzione di opere (che, invece, nel caso in esame
sono presenti).
In conclusione, è legittimo il provvedimento impugnato con
cui, in applicazione dell’art. 33, comma 1, d.p.r. n.
380/200, è stata ordinata la demolizione delle opere di
ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10, comma 1,
lett. c), siccome eseguite in assenza di permesso di
costruire, ed il ricorso deve essere respinto. |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
serie di opere sistematicamente volte a determinare il cambio di
destinazione d’uso da soffitta ad abitativo.
La realizzazione di un abbaino, munito di finestra sul
tetto del fabbricato, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide
sulla sagoma dell'edificio e rientra quindi nella tipologia della
ristrutturazione con mutamento di sagoma, che è subordinata a permesso di
costruire, giusta quanto dispone l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R.
06.06.2001 n. 380.
---------------
Le opere eseguite e in corso di esecuzione (quanto alla parte impiantistica)
sono idonee a modificare radicalmente la destinazione d’uso della soffitta
in locale abitabile, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Sicché, in materia edilizia le opere interne e gli interventi di
ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si deduce
dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a
soffitta).
Ed invero, solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie
omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide
sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa
ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico
urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di
costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere (che, invece,
nel caso in esame sono presenti).
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La sig.ra Ta., proprietaria di un immobile sito in Roma, via ... n. 14,
impugna l’ordinanza n. 1316 del 24.10.2007, notificata il successivo 30
ottobre, recante l’ingiunzione a demolire le seguenti opere eseguite senza
permesso di costruire: “Modifica delle quote d’imposta sia al colmo, sia
alla gronda, per m. 0,35 circa. Realizzazione, in epoca imprecisata, di un
solaio a forma di “L” delle dimensioni di m. 5,00x1,20 e m. 1,00x1,20.
Lavori d’impiantistica in corso, Chiusura porta d’accesso dal pianerottolo e
apertura nuova porta all’interno della soffitta. Apertura finestra-abbaino
di m. 0,30x1,80”.
Premesso che le opere in questione riguardano il piano di copertura,
consistente in un locale soffitta di mq. 29 sempre di esclusiva proprietà
della ricorrente, espone in fatto che le opere oggetto dell’ordine di
demolizione sono consistite in riparazioni per infiltrazioni idriche
provocate dalla preesistenza in loco di un manufatto–lucernaio e, in specie,
nella sostituzione dello stesso con una finestra–abbaino, a bocca di lupo e
con l’installazione di tegole in guaina isolante e sostituzione di travi in
legno.
Contesta, pertanto, che sia stata realizzata una sopraelevazione e che
l’opera comprenda l’installazione di impianti idrici, non essendo intenzione
della ricorrente di destinare il bene ad uso abitativo.
...
Come accennato in narrativa, è oggetto di controversia la determinazione
dirigenziale con cui il Comune di Roma ha ordinato la demolizione di talune
opere eseguita senza permesso di costruire su immobile di proprietà della
ricorrente, comportanti modifiche delle quote di imposta (sia al colmo che
alla gronda), realizzazione di un solaio a forma di “L”, chiusura di porta
d’accesso dal pianerottolo, con contestuale apertura di una nuova porta
all’interno della soffitta, apertura di finestra–abbaino, lavori di
impiantistica.
Sostiene la ricorrente che, essendosi limitata ad eseguire meri interventi
di risanamento, tesi alla conservazione del manufatto deterioratosi nel
tempo, è illegittimo il provvedimento repressivo, emanato senza tenere in
debita considerazione della sufficienza, quale titolo abilitativo,
l’avvenuta presentazione di DIA.
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento in esame è stato emesso sulla base di accertamenti tecnici
eseguiti dal resistente Comune a seguito della presentazione di DIA per
l’esecuzione di lavori edili in locale con destinazione d’uso soffitta, nel
corso dei quali è emerso che, oltre ai dichiarati interventi di sostituzione
della copertura, senza modifica delle quote d’imposta, di posa in opera di
una rampa di scale di accesso alla soffitta e di diversa distribuzione
interna, sono state eseguite una serie di opere sistematicamente volte a
determinare in cambio di destinazione d’uso da soffitta ad abitativo, e
comunque determinanti, anche singolarmente considerate, aumento volumetrico
e modifica della sagoma dell’edificio.
Ed invero, è la stessa relazione tecnica di parte, depositata in atti dalla
ricorrente, che evidenzia come a seguito degli interventi ulteriori si sia
determinato un incremento volumetrico, con la conseguenza che non può essere
qualificato quale opera di ristrutturazione quella parte di interventi
edilizi, realizzata in difformità dalla DIA e, dunque, in assenza del
prescritto permesso di costruire, avendo comportato un maggiore ingombro a
terra e maggiore altezza al piano, con conseguente aumento di volumetria.
Per altrettanto, non è inquadrabile nelle suddette opere di ristrutturazione
la realizzazione dell’abbaino munito di finestra sul tetto del fabbricato in
quanto, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide sulla sagoma
dell'edificio e rientra quindi nella tipologia della ristrutturazione con
mutamento di sagoma, che è subordinata a permesso di costruire, giusta
quanto dispone l'art. 10, comma 1, lett. c). d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In ogni caso, non può sottacersi che le opere eseguite e in corso di
esecuzione (quanto alla parte impiantistica) sono idonee a modificare
radicalmente la destinazione d’uso della soffitta in locale abitabile,
incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Ritiene il Collegio che, in materia edilizia, le opere interne e gli
interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si deduce
dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a
soffitta).
Ed invero, solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie
omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul
carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa
ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico
urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di
costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere (che, invece,
nel caso in esame sono presenti).
In conclusione, è legittimo il provvedimento impugnato con cui, in
applicazione dell’art. 33, comma 1, d.p.r. n. 380/2001, è stata ordinata la
demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10,
comma 1, lett. c), siccome eseguite in assenza di permesso di costruire, ed
il ricorso deve essere respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 11.09.2015 n. 11216 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Modifica destinazione d’uso piazzale esterno quale spazio espositivo delle autovetture in vendita, legate all’attività commerciale esistente (Regione Lombardia - Area Affari Istituzionali - Presidenza,
risposta e-mail dell'08.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere
sanzionate sono state correttamente qualificate
dall’amministrazione procedente come di ristrutturazione
edilizia, intendendosi per tale ogni intervento edilizio
volto a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la
eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi
ed impianti, come previsto dall'art. 10, comma 1, lett. e),
del DPR 380/2001, che stabilisce espressamente quali
interventi, fra quelli qualificabili di ristrutturazione
edilizia ai sensi dell'art. 3 dello stesso TU,
necessariamente richiedano il previo rilascio del permesso
di costruire.
Infatti, per "ristrutturazione edilizia", di cui
all'art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 380/2001, si
intendono quelle opere caratterizzate da una forte rilevanza
sul piano della trasformazione edilizia, rispetto alla
categoria di ristrutturazione più ampia individuata
dall'art. 3 T.U. edilizia, con conseguente assoggettamento
al previo rilascio del permesso di costruire; mentre sono
qualificabili come di manutenzione straordinaria e di
risanamento conservativo solo quegli interventi che
presuppongono la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione
interna della sua superficie.
---------------
Nel caso di specie, l'abuso in questione, considerato nella
sua complessità sistematica, è stato correttamente
inquadrato nella fattispecie dell'intervento di
ristrutturazione edilizia realizzato in assenza di una
concessione edilizia, ex art. 9 L. 47/1985 e ex art. 10,
comma 1, lett. e), D.P.R. 380/2001, in quanto si è ricavato
un organismo diverso da quello preesistente, con mutamento
di destinazione d'uso e incremento della volumetria
originaria in virtù della tamponatura della preesistente
tettoia, dalla quale sono stati ricavati un bagno e una
camera da letto, e dell'ampliamento della camera da pranzo
mediante abbattimento del muro, con relativa annessione del
terrazzo antistante.
Del resto, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile
(da soffitta o cantina ad abitazione) è urbanisticamente
rilevante e, come tale, necessita di per sé di un titolo
edilizio abilitativo; di conseguenza il mutamento de facto
della destinazione d'uso integra una situazione di
irregolarità, che può ed anzi deve essere rilevata
dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di
vigilanza.
Infatti, in base all'art. 7, l.reg. 02.07.1987 n. 36, la
modifica della destinazione d'uso, indipendentemente dal
fatto che ciò avvenga con o senza opere a tanto preordinate,
è subordinata al rilascio di permesso di costruire
allorquando, come nel caso di specie, abbia ad oggetto le
categorie stabilite dallo strumento urbanistico.
Il ricorso è infondato.
Come risulta dall'ordine di demolizione impugnato, l'odierna
ricorrente ha realizzato un cambio di destinazione d'uso
all'interno di un sottotetto di un preesistente locale
soffitta in civile abitazione, mediante una sala con angolo
cottura delle dimensioni di mt. 5,80x3,80 circa e un'altezza
variabile da mt. 1,00 a mt. 2,30 circa. In secondo luogo,
una preesistente tettoia è stata tamponata in civile
abitazione realizzando una camera da letto delle dimensioni
di mt. 5,80x3,80 circa e un'altezza di mt. 2,30 circa ed un
bagno delle dimensioni di mt. 1,50x1,50 circa ed un'altezza
di mt. 2,30 circa.
Da ultimo, la Sig.ra G. ha provveduto ad ampliare la camera
da pranzo abbattendo un muro, con relativa annessione del
terrazzo antistante, e realizzando un parapetto di mt. 1,00
di altezza in corrispondenza della ringhiera del balcone.
Ciò premesso, e contrariamente a quanto sostenuto
dall'odierna ricorrente, le opere sanzionate sono state
correttamente qualificate dall’amministrazione procedente
come di ristrutturazione edilizia, intendendosi per
tale ogni intervento edilizio volto a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la
eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi
ed impianti, come previsto dall'art. 10, comma 1, lett. e),
del DPR 380/2001, che stabilisce espressamente quali
interventi, fra quelli qualificabili di ristrutturazione
edilizia ai sensi dell'art. 3 dello stesso TU,
necessariamente richiedano il previo rilascio del permesso
di costruire.
Infatti, per "ristrutturazione edilizia", di
cui all'art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 380/2001, si
intendono quelle opere caratterizzate da una forte rilevanza
sul piano della trasformazione edilizia, rispetto alla
categoria di ristrutturazione più ampia individuata
dall'art. 3 T.U. edilizia, con conseguente assoggettamento
al previo rilascio del permesso di costruire; mentre sono
qualificabili come di manutenzione straordinaria e di
risanamento conservativo solo quegli interventi che
presuppongono la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione
interna della sua superficie.
Nel caso di specie, l'abuso in questione, considerato nella
sua complessità sistematica, è stato correttamente
inquadrato nella fattispecie dell'intervento di
ristrutturazione edilizia realizzato in assenza di una
concessione edilizia, ex art. 9 L. 47/1985 e ex art. 10,
comma 1, lett. e), D.P.R. 380/2001, in quanto si è ricavato
un organismo diverso da quello preesistente, con mutamento
di destinazione d'uso e incremento della volumetria
originaria in virtù della tamponatura della preesistente
tettoia, dalla quale sono stati ricavati un bagno e una
camera da letto, e dell'ampliamento della camera da pranzo
mediante abbattimento del muro, con relativa annessione del
terrazzo antistante.
Del resto, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile
(da soffitta o cantina ad abitazione) è urbanisticamente
rilevante e, come tale, necessita di per sé di un titolo
edilizio abilitativo; di conseguenza il mutamento de
facto della destinazione d'uso integra una situazione di
irregolarità, che può ed anzi deve essere rilevata
dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di
vigilanza. Infatti, in base all'art. 7, l.reg. 02.07.1987 n.
36, la modifica della destinazione d'uso, indipendentemente
dal fatto che ciò avvenga con o senza opere a tanto
preordinate, è subordinata al rilascio di permesso di
costruire allorquando, come nel caso di specie, abbia ad
oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 28.08.2015 n. 10957 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
destinazione ad attività di culto di un locale, la
quale impone il rispetto delle pertinenti previsioni
urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in cui al
locale stesso sia permesso l’accesso indiscriminato
a tutti i fedeli interessati.
Questo appare non essere il caso, poiché da un lato
gli agenti di Polizia Locale non hanno rilevato sul
posto alcun afflusso di persone, dall’altro lato,
come dichiarato alla camera di consiglio dal
responsabile della comunità, al momento l’accesso al
locale è riservato ai soci dell’associazione e, come
da contratto allegato 3 alla citata relazione, la
destinazione al culto è configurata come futura ed
eventuale, subordinata all’ottenimento degli assensi
amministrativi necessari.
Pertanto il fumus del ricorso sussiste, nel senso
che allo stato non può impedirsi che gli associati
all’ente ricorrente, nominativamente individuati,
accedano alla struttura per professarvi il culto
religioso da loro scelto, con esclusione del
pubblico accesso.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensiva, del
provvedimento 24.02.2015 prot. n. U0036176,
notificato alla ricorrente in data 06.03.2015, con
la quale il Dirigente del servizio interventi
edilizi e gestione del territorio del Comune di
Bergamo ha ordinato, fra gli altri, al legale
rappresentante della Missione della Chiesa di
Scientology delle Orobie di ripristinare nei locali
siti in Bergamo, alla via Tremana civico 11 la
originaria destinazione di uso a negozio;
...
Rilevato:
- che l’associazione ricorrente, di carattere
religioso, insorge contro il provvedimento di cui
meglio in epigrafe, con il quale si è vista imporre
lo sgombero dai locali in questione, sul presupposto
che negli stessi si svolga attività di culto (doc. 1
ricorrente, copia ordinanza);
- che tale apprezzamento si fonda su un sopralluogo
effettuato in data 27.01.205, il cui tenore è
ricostruibile dalla conseguente relazione di
servizio del 05.02.2015, prodotta dal Comune il
24.07.2015;
- che la destinazione ad attività di culto di un
locale, la quale impone il rispetto delle pertinenti
previsioni urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in
cui al locale stesso sia permesso l’accesso
indiscriminato a tutti i fedeli interessati, così
come ritenuto, fra le molte, dalla sentenza della
Sezione 29.05.2013 n. 522, ove ulteriori rimandi;
- che questo appare non essere il caso, poiché da un
lato gli agenti operanti (v. rel. citata) non hanno
rilevato sul posto alcun afflusso di persone,
dall’altro lato, come dichiarato alla camera di
consiglio 04.06.2015 dal responsabile della
comunità, al momento l’accesso al locale è riservato
ai soci dell’associazione e, come da contratto
allegato 3 alla citata relazione, la destinazione al
culto è configurata come futura ed eventuale,
subordinata all’ottenimento degli assensi
amministrativi necessari;
- che pertanto il fumus del ricorso sussiste,
nel senso che allo stato non può impedirsi che gli
associati all’ente ricorrente, nominativamente
individuati, accedano alla struttura per professarvi
il culto religioso da loro scelto, con esclusione
del pubblico accesso;
- che le spese di fase seguono la soccombenza e si
liquidano come da dispositivo;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione
Prima)
accoglie la suindicata istanza cautelare e per
l’effetto sospende il provvedimento 24.02.2015 prot.
n. U0036176 del Dirigente del servizio interventi
edilizi e gestione del territorio del Comune di
Bergamo. Spese di fase compensate. Fissa per la
trattazione del merito la pubblica udienza del
19.10.2016 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
ordinanza 31.07.2015 n. 1506 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche in presenza di un cambio di destinazione
d’uso che intervenga all’interno della medesima categoria
funzionale la giurisprudenza amministrativa lo ha ritenuto
urbanisticamente rilevante ogni qual volta esso abbia
comportato un aumento o un aggravamento del carico
urbanistico insistente sull’area.
Sicché, nei casi di stabile mutamento di utilizzazione
dell'immobile o di porzioni di esso, ascrivibili ad una
diversa e più onerosa classe contributiva, occorre garantire
un regime contributivo conforme alla nuova tipologia d’uso,
non potendo ammettersi che l’intervento si giovi del più
favorevole regime contributivo applicato per la destinazione
originaria.
4. Del resto pur a voler accedere alla tesi di parte
ricorrente circa l’ascrivibilità dell’autorimessa in
argomento alla destinazione d’uso commerciale non può
comunque predicarsi l’assunta omogeneità con la destinazione
ad attività di ristorazione e di accoglienza riconducibile
alla diversa categoria funzionale ricettiva come ora
disciplinata dalla lett. a) dell’art. 23-bis del t.u.ed.
inserito dall’art. 17 del d.l. c.d. sblocca Italia n. 133 del
12.09.2014 che ha introdotto la definizione di ”mutamento di
destinazione d’uso urbanisticamente rilevante” come quello
comportante il passaggio ad una diversa categoria funzionale
tra quelle ivi elencate laddove la categoria funzionale
“commerciale” è riportata alla lettera sub c) e quella
ricettiva alla diversa lettera sub b) [nella versione
applicabile ratione temporis anteriormente alle modifiche
apportate dalla legge di conversione n. 164/2014 che ha
disgiunto la destinazione turistico ricettiva sub a-bis)
dalla residenziale sub a)].
4.1 Peraltro anche in presenza di un cambio di destinazione
d’uso che intervenga all’interno della medesima categoria
funzionale la giurisprudenza amministrativa lo ha ritenuto
urbanisticamente rilevante ogni qual volta esso abbia
comportato un aumento o un aggravamento del carico
urbanistico insistente sull’area (cfr. Consiglio Stato,
sez. V, 29.01.2009 n. 498). Sicché, nei casi di stabile
mutamento di utilizzazione dell'immobile o di porzioni di
esso, ascrivibili ad una diversa e più onerosa classe
contributiva, occorre garantire un regime contributivo
conforme alla nuova tipologia d’uso, non potendo ammettersi
che l’intervento si giovi del più favorevole regime
contributivo applicato per la destinazione originaria (cfr. Tar Palermo sez. I 10.04.2015 n. 857).
5. Né sotto altro profilo può dirsi percorribile l’opzione
sulla cui base la modifica di destinazione in questione
intervenendo tra categorie omogenee non abbisognerebbe del
previo rilascio del permesso essendo assoggettabile a scia.
Al riguardo parte ricorrente non ha espressamente impugnato
la nota prot. 23544 dell’08.07.2014 con cui
l’amministrazione comunale le contestava l’insussistenza dei
requisiti e dei presupposti della scia preventivamente
presentata in data 04.06.2014. Sicché non può dolersi della
non assoggettabilità dell’intervento in oggetto a permesso
di costruire avendo prestato acquiescenza al predetto atto
anche tramite il successivo inoltro nel mese di agosto del
2014 dell’istanza di rilascio del permesso di costruire in
esame
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 22.07.2015 n. 3872 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Cambi d’uso con meno vincoli.
Il Consiglio di Stato «liberalizza» i passaggi nella stessa
categoria funzionale.
Urbanistica. Impossibile bloccare i mutamenti nell’ambito di
un comparto, ma resta il nodo delle discipline locali
preesistenti.
«Padroni in casa propria» era lo slogan della legge
obiettivo (la n. 443/2001) che allargava la super-Dia a
tutta Italia, rendendo così più semplici i lavori di
ristrutturazione.
Sembra che il Consiglio di
Stato -Sez. IV- abbia preso spunto da qui con la recente
sentenza 19.03.2015 n. 1444,
riferita all’utilizzo che ciascuno fa dei propri immobili,
siano essi ad uso commerciale o terziario (caso considerato
dalla decisione), oppure residenziale o produttivo.
Secondo i giudici amministrativi di secondo grado, la
disciplina sul mutamento della destinazione d’uso -da
ultimo modificata dall’articolo 23-ter del Testo unico
edilizia (Dpr 380/2001) introdotto dal decreto Sblocca
Italia (Dl 133/2014) e citato dalla decisione in parola-
manifesta «evidenti risvolti sulla tutela della proprietà».
Le conseguenze di questa affermazione potrebbero essere
notevolissime, atteso che nella materia dell’ordinamento
civile (cui afferisce il diritto di proprietà) la potestà
legislativa è di esclusiva competenza statale, per cui le
leggi approvate dal parlamento non possono essere disattese
dalle regioni e, a maggior ragione, dai regolamenti locali
come i piani regolatori. Al contrario, se il cambio di
destinazione d’uso dovesse appartenere solo alla materia
urbanistica, si aprirebbero ancora spazi di autonomia
legislativa per le Regioni.
In altre parole, e in concreto, non sarebbero modificabili
in sede locale (se non nei limiti stabiliti dalla stessa
norma statale) le previsioni dell’articolo 23-ter per cui:
-
costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso
solo l’utilizzo dell’immobile che comporti l’assegnazione di
una diversa categoria funzionale tra residenziale,
turistico-ricettiva, produttiva-direzionale, commerciale e
rurale;
-
il mutamento della destinazione d’uso all'interno della
stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Di fatto quindi nelle Regioni che non hanno legiferato entro
il termine loro assegnato e ormai scaduto (tutte tranne
Liguria, Umbria e Toscana) troverebbe diretta applicazione
la disciplina nazionale che rende più semplici i cambi
d’uso, ammettendoli sempre all’interno della stessa
categoria. Non sarebbero dunque salve le leggi regionali
esistenti in materia.
Di diverso avviso la Regione Emilia Romagna (si veda
articolo a fianco) per cui al contrario le discipline
preesistenti -tra cui la propria- resterebbero in vigore.
La precedente giurisprudenza amministrativa non soccorre a
sciogliere i dubbi.
Sino all’entrata in vigore dell’articolo 23-ter del Testo
unico edilizia, il mutamento delle destinazioni d’uso veniva
infatti principalmente trattato all’articolo 10, comma 2,
del Testo unico che demanda alle regioni il compito di
stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi
a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro
parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia
di inizio attività.
Le legislazioni regionali sul punto erano dunque piuttosto
eterogenee e spesso rinviavano la disciplina di dettaglio
agli strumenti urbanistici comunali. Gli unici principi
comuni in materia derivavano da primarie nozioni
urbanistiche e dall’evoluzione giurisprudenziale. In
particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che
la destinazione d’uso di un fabbricato è quella impressa dal
titolo edilizio (Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 09.02.2001 n. 583) e che il mutamento della destinazione
impressa ad un fabbricato in favore di altra funzione è
ammesso solo se la destinazione che si intende assegnare
ricada tra quelle astrattamente ammesse per l’area dallo
strumento urbanistico generale (Tar Lombardia, Milano,
sezione II, sentenza 07.05.1992, n. 219).
La giurisprudenza ha inoltre precisato come il mutamento di
destinazione sia urbanisticamente “rilevante” solamente
allorquando sussista un passaggio tra due categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
ossia aventi diverso regime contributivo in ragione del
diverso carico urbanistico.
Con l’articolo 23-ter, il legislatore statale ha
evidenziato una maggiore attenzione sul tema e la volontà di
porre rimedio all’eterogeneità delle discipline regionali.
Ma il tentativo non appare però andato pienamente a buon
fine, in ragione dei dubbi interpretativi emersi anche con
la sentenza del Consiglio di Stato.
---------------
L’adeguamento. La mappa sul territorio.
Solo tre le Regioni già allineate alla semplificazione.
Sono solo tre le Regioni
che hanno centrato l’obiettivo imposto dal decreto Sblocca
Italia di adeguare le proprie leggi sui cambi d’uso alla
semplificazione introdotta dal Dl Sblocca Italia: Liguria,
Umbria e Toscana.
L’articolo 23-ter del Testo unico dell’edilizia (Dpr
380/2001) ha imposto alle Regioni di adeguare la propria
legislazione, entro 90 giorni dall’entrata in vigore
(termine già decorso), ai principi secondo i quali:
costituisce mutamento «rilevante» della destinazione d’uso
di un immobile o di un’unità immobiliare solo l’utilizzo che
comporti il passaggio da una ad altra delle categorie
funzionali «residenziale», «turistico-ricettiva»,
«produttiva e direzionale», «commerciale» e «rurale»;
il mutamento della destinazione d’uso all’interno della
stessa categoria funzionale è sempre consentito.
La norma ha altresì disposto che, scaduti i 90 giorni,
questi principi avrebbero avuto diretta applicazione. Le
autonomie che hanno tempestivamente risposto all’appello del
legislatore nazionale sono, appunto, tre. La Liguria è
intervenuta con la legge 41/2014, la Toscana, ha ottemperato
con la legge sul governo del territorio (Lr 65/2014) e la
Regione Umbria recentemente ha approvato la legge 1/2015.
Altre autonomie, come ad esempio, l’Emilia Romagna, in
risposta alle richieste di chiarimenti avanzate in relazione
agli effetti della disciplina nazionale, sono invece
intervenute con semplici note interpretative.
La circolare 11.03.2015 della Regione Emilia Romagna è
utile per comprendere i profili di criticità che il dettato
normativo nazionale porta con sé.
La Regione Emilia Romagna si è, infatti, limitata ad
evidenziare che la disposizione introdotta a livello
nazionale, in realtà, non comporta significative innovazioni
sul territorio, atteso che il legislatore nazionale,
rispetto a i due principi nazionali, ha espressamente fatto
salve le diverse discipline contenute nelle leggi regionali.
Così la Regione ha riferito che la diretta applicabilità
delle statuizioni nazionali sia possibile solamente nelle
Regioni prive di legislazione di dettaglio in materia di
cambio d’uso.
Questa lettura, effettivamente confortata del dettato
letterale dell’articolo 23-ter (che non manca di rivelare
profili di contraddittorietà), chiarisce come l’intento di
uniformare la materia, sotteso all’introduzione della nuova
disposizione nel corpo del Testo unico sia soggetto a
notevoli limitazioni.
Il legislatore potrebbe, dunque, aver mancato l’importante
obiettivo di eliminare le disparità ad oggi esistenti tra le
discipline previste dalle singole regioni per regolare
mutamenti d’uso tra loro identici, salvo che per il
territorio sul quale sono posti in essere.
Il contenuto sostanziale della disposizione nazionale ha,
comunque, il pregio di distinguere in modo puntuale le
singole categorie funzionali e di identificare le modifiche
d’uso attuabili liberamente senza incidere sul carico
urbanistico esistente e quindi sulla dotazione di aree per
servizi (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'attività associativa all’interno di un capannone
industriale-artiginale, nel quale si svolgono, privatamente
e saltuariamente, preghiere religiose.
La Costituzione italiana sancisce il principio di eguale
libertà delle confessioni religiose ed il loro diritto ad
organizzarsi secondo i propri statuti. Gli articoli 8 e 19
stabiliscono il dovere dello Stato di salvaguardare la
libertà religiosa in un regime di pluralismo confessionale.
Ai sensi dell’art. 19 della Costituzione, nessun soggetto
può ordinare ad altro, in sintesi estrema, di non pregare a
casa propria. Identico precetto si desume dall'ordinamento
europeo. La libertà di religione e di culto è riconosciuta
anche dall'art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti
dell'Uomo, esecutiva in Italia per la legge 04.08.1955 n.
848.
Infine, il codice penale colpisce con pene anche detentive
le offese alle confessioni religiose mediante vilipendio di
persone o di cose e il “turbamento di funzioni religiose del
culto di una confessione religiosa” senza più distinguere (a
partire dalla L. n. 85/2006), ai fini dell’intensità della
tutela, tra culto cattolico e altri culti ammessi.
Tutto ciò non toglie che il Comune è titolare del potere di
sanzionare l'uso di un locale difforme dalla destinazione
urbanistica prevista negli strumenti urbanistici approvati.
L'uso difforme non può tuttavia essere identificato con il
mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del
venerdì o di altra ricorrenza, in quanto per ravvisare la
presenza di un luogo di culto in senso rilevante per le
norme edilizie e urbanistiche è necessario che i locali
siano aperti a tutti coloro che vogliano accostarsi alle
pratiche cultuali o alle attività in essi svolte con
presenze diffuse, organizzate e stabili.
---------------
L’esistenza di una procedura di selezione dei frequentatori
dello stabile e la limitatezza e prevedibilità del loro
numero, impedisce di ricondurre il capannone (in questione)
alla categoria dei luoghi di culto, caratterizzati, invece,
oltre che dalla consacrazione del luogo secondo le liturgie
proprie di ogni religione e dall’esercizio, all’interno, di
cerimonie religiose con l’assistenza di un ministro del
culto anche, e soprattutto, dall’apertura indiscriminata al
pubblico dei fedeli.
Ugualmente, non è possibile assimilare l’immobile in
questione, destinato ad ospitare i locali di un’associazione
culturale-religiosa, le cui attività statutarie sono dirette
in favore di un ristretto numero di associati, con gli
immobili destinati a “centro culturale”, la cui nozione dal
punto di vista urbanistico configura un’opera di interesse
collettivo, ossia una categoria logico-giuridica certamente
distinta rispetto a quella delle opere pubbliche in senso
stretto, ma che tuttavia comprende quegli impianti ed
attrezzature che, sebbene non destinati a scopi di stretta
cura della p.a., siano idonei a soddisfare bisogni della
collettività, ancorché vengano realizzati e gestiti da
soggetti privati.
---------------
Di norma, ai fini urbanistici, non rileva l’uso di fatto
dell’immobile in relazione alle molteplici attività umane
che il titolare è libero di esplicare; il mutamento d’uso
dell’immobile, in assenza di opere edilizie, diviene
rilevante, in base all’articolo 32 del D.P.R. n. 380/2001,
esclusivamente ove implichi variazione degli standard
previsti dal D.M. 02.04.1968, il che si verifica nel caso di
passaggio da una autonoma categoria urbanistica all’altra
fra quelle previste dal citato D.M..
Quindi, occorre distinguere il caso di specie, di esercizio
di un’attività associativa all’interno di un capannone
industriale-artiginale, nel quale si svolgono, privatamente
e saltuariamente, preghiere religiose, attività espressione
dello ius utendi del proprietario ed inidonea a comportare
l’assegnazione dell'unità immobiliare ad una diversa
categoria funzionale, da altri e ben diversi casi di
mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso
di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione
(chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come
destinazione principale o esclusiva l’esercizio del culto
religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto
urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di
attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni.
Ciò non toglie che ove l’amministrazione comunale dovesse in
futuro accertare, nel corso di eventuali sopralluoghi,
l’accesso indiscriminato al predetto capannone o comunque il
ripetersi, in più occasioni, di un significativo superamento
degli effettivi frequentatori dell’immobile rispetto al
numero degli iscritti all’associazione, si verificherebbero
i presupposti del mutamento di destinazione d’uso
urbanisticamente rilevante.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 86 del 12.06.2014
n. prot. gen. 0018688, con la quale veniva ordinata la
chiusura immediata dei locali utilizzati e la sospensione
delle attività della ricorrente nell'immobile sito in via
... a Cittadella, in provincia di Padova,
notificata in data 12.06.2014, nonché di ogni altro atto
presupposto, connesso o successivo.
...
Nel merito il ricorso è infondato.
La Costituzione italiana sancisce il principio di eguale
libertà delle confessioni religiose ed il loro diritto ad
organizzarsi secondo i propri statuti. Gli articoli 8 e 19
stabiliscono il dovere dello Stato di salvaguardare la
libertà religiosa in un regime di pluralismo confessionale.
Ai sensi dell’art. 19 della Costituzione, nessun soggetto
può ordinare ad altro, in sintesi estrema, di non pregare a
casa propria. Identico precetto si desume dall'ordinamento
europeo. La libertà di religione e di culto è riconosciuta
anche dall'art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti
dell'Uomo, esecutiva in Italia per la legge 04.08.1955 n.
848.
Infine, il codice penale colpisce con pene anche detentive
le offese alle confessioni religiose mediante vilipendio di
persone o di cose e il “turbamento di funzioni religiose del
culto di una confessione religiosa” senza più distinguere (a
partire dalla L. n. 85/2006), ai fini dell’intensità della
tutela, tra culto cattolico e altri culti ammessi.
Tutto ciò non toglie che il Comune è titolare del potere di
sanzionare l'uso di un locale difforme dalla destinazione
urbanistica prevista negli strumenti urbanistici approvati.
L'uso difforme non può tuttavia essere identificato con il
mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del
venerdì o di altra ricorrenza, in quanto per ravvisare la
presenza di un luogo di culto in senso rilevante per le
norme edilizie e urbanistiche è necessario che i locali
siano aperti a tutti coloro che vogliano accostarsi alle
pratiche cultuali o alle attività in essi svolte con
presenze diffuse, organizzate e stabili (cfr. Cons. St.,
sez. I, parere n. 2489/2014 del 29/07/2014 reso su ricorso
straordinario al Capo dello Stato; Tar Lombardia, Brescia,
nn. 242/2013 e 522/2013).
Nel caso di specie, tale presupposto, allo stato, non si
configura, essendo la partecipazione all’attività
dell’associazione ASAR condizionata all’assunzione della
qualifica di soci, previa deliberazione assembleare, cui
segue il rilascio di una tessera di riconoscimento
indispensabile ai fini dell’accesso ai locali
dell’associazione (come risulta comprovato dai documenti
depositati dalla ricorrente).
D’altra parte, che le persone trovate all’interno del
capannone nel corso dei vari accessi della polizia locale
fossero tutte appartenenti all’associazione risulta
pacificamente ammesso dai verbalizzanti della polizia locale
(cfr. informativa del 13.05.2014) e, peraltro, le stesse
persone, quando richieste, hanno tutte esibito il tesserino
attestante l’iscrizione all’associazione (cfr. verbale del
23.05.2014).
Infine, anche nei momenti di massima affluenza della
preghiera del venerdì è stata valutata, approssimativamente,
la presenza di non più di una novantina di persone adulte.
Ne deriva che l’esistenza di una procedura di selezione dei
frequentatori dello stabile e la limitatezza e prevedibilità
del loro numero, impedisce di ricondurre il capannone in
questione alla categoria dei luoghi di culto,
caratterizzati, invece, oltre che dalla consacrazione del
luogo secondo le liturgie proprie di ogni religione e
dall’esercizio, all’interno, di cerimonie religiose con
l’assistenza di un ministro del culto (elementi questi
comunque non ricorrenti nella fattispecie) anche, e
soprattutto, dall’apertura indiscriminata al pubblico dei
fedeli.
Tale circostanza, in particolare, differenzia la presente
fattispecie da quella decisa dal Consiglio di Stato con la
sentenza n. 5778/2011, richiamata dalla difesa del Comune.
Ugualmente, non è possibile assimilare l’immobile in
questione, destinato ad ospitare i locali di un’associazione
culturale-religiosa, le cui attività statutarie sono
dirette in favore di un ristretto numero di associati, con
gli immobili destinati a “centro culturale”, la cui nozione
dal punto di vista urbanistico configura un’opera di
interesse collettivo, ossia una categoria logico-giuridica
certamente distinta rispetto a quella delle opere pubbliche
in senso stretto, ma che tuttavia comprende quegli impianti
ed attrezzature che, sebbene non destinati a scopi di
stretta cura della p.a., siano idonei a soddisfare bisogni
della collettività, ancorché vengano realizzati e gestiti da
soggetti privati.
I centri sociali/culturali che il PRG del Comune di
Cittadella colloca in zona a funzione pubblica “F” sono
appunto quelli “d’interesse pubblico” che svolgono un
servizio d’interesse generale e collettivo in quanto
destinati a soddisfare esigenze primarie della generalità
dei consociati.
Inoltre, elemento dirimente ai fini dell’inserimento in zona
“F” degli edifici che ospitano tali ultime attività è
evidentemente la loro indiscriminata apertura al pubblico,
che procura un notevole carico urbanistico.
Al contrario, nel caso di specie, il servizio offerto
dall’associazione ASAR interessa una ristretta cerchia di
cittadini e non si estende oltre la sfera privatistica dei
suoi associati, i soli autorizzati a frequentare l’immobile
dalla prima condotto in locazione; come accade in qualsiasi
altra associazione culturale privata che svolge la propria
attività in locali non aperti al pubblico.
Ciò premesso, occorre quindi ricordare che di norma, ai fini
urbanistici, non rileva l’uso di fatto dell’immobile in
relazione alle molteplici attività umane che il titolare è
libero di esplicare; il mutamento d’uso dell’immobile, in
assenza di opere edilizie, diviene rilevante, in base all’articolo 32 del D.P.R. n. 380/2001, esclusivamente ove
implichi variazione degli standard previsti dal Decreto
Ministeriale 02.04.1968, il che si verifica nel caso di
passaggio da una autonoma categoria urbanistica all’altra
fra quelle previste dal citato D.M..
Quindi, occorre distinguere il caso di specie, di esercizio
di un’ attività associativa all’interno di un capannone
industriale-artiginale, nel quale si svolgono, privatamente
e saltuariamente, preghiere religiose, attività espressione
dello ius utendi del proprietario ed inidonea a comportare
l’assegnazione dell'unità immobiliare ad una diversa
categoria funzionale, da altri e ben diversi casi di
mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso
di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione
(chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come
destinazione principale o esclusiva l’esercizio del culto
religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto
urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di
attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni (cfr.
Cons. St. n. 5778/2011).
Ciò non toglie che ove l’amministrazione comunale dovesse in
futuro accertare, nel corso di eventuali sopralluoghi,
l’accesso indiscriminato al predetto capannone o comunque il
ripetersi, in più occasioni, di un significativo superamento
degli effettivi frequentatori dell’immobile rispetto al
numero degli iscritti all’associazione, si verificherebbero
i presupposti del mutamento di destinazione d’uso
urbanisticamente rilevante.
Alla luce di quanto finora esposto risulta irrilevante la
mancata iscrizione dell’associazione “ASAR” nel registro
delle associazioni di promozione sociale di cui alla L.
383/2000, non necessitando l’associazione di ottenere, in
forza di tale iscrizione, deroghe alla normativa
urbanistica; il che differenzia la presente fattispecie da
quella decisa da questa sezione con sentenza n. 801/2012 e
da quella presa in considerazione dal Consiglio di Stato con
la sentenza n. 181/2013, sentenze citate dalla difesa del
Comune.
In conclusione, per le sopra esposte ragioni, il
provvedimento impugnato risulta illegittimo, in quanto
fondato sul presupposto di un abusivo mutamento di
destinazione d’uso, in realtà, allo stato, non sussistente.
Il ricorso deve essere quindi accolto con l’annullamento
dell’atto impugnato
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 27.01.2015 n. 91 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2014 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza rispetto
all'interpretazione dell'art. 10 L. n. 10/1977, ora art. 19
D.P.R. 380/2001, relativamente all'esonero dal contributo, è
stata sempre restrittiva, ritenendo che la norma esoneri
dalla corresponsione del contributo solo i fabbricati
strettamente complementari ed asserviti alle esigenze
proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici
che non sono di per sé destinati alla produzione di beni
industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di
essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività
economica.
---------------
Con riferimento più specifico a fattispecie analoghe a
quella qui in esame, la giurisprudenza ha peraltro chiarito
che: “Si configura l'ipotesi di mutamento di destinazione
d'uso urbanisticamente rilevante, come tale soggetto al
preventivo rilascio del titolo concessorio, ogni volta che,
variando il soggetto che utilizza l'immobile e
conseguentemente l'attività che in esso viene svolta, quest'ultima
comporti un maggiore carico urbanistico derivante dal
passaggio ad una diversa categoria funzionale” (nella
fattispecie è stato ritenuto urbanisticamente rilevante
l'utilizzo di un capannone industriale come magazzino per
gestione di prodotti finiti, essendo quest'ultima
un'attività da considerare non come produttiva ma di
intermediazione commerciale e come tale legata quindi al
ciclo della commercializzazione).
Il ricorso deve essere ritenuto infondato nella parte in cui
si contesta la debenza delle somme richieste dal Comune in
ragione del cambio di destinazione d’uso del fabbricato già
costruito, dovendosi ritenere che l’amministrazione abbia
qui operato una corretta e vincolata applicazione del
disposto dell’art. 19 del D.P.R. 380/2001 e della
Convenzione per l’attuazione del Piano per gli insediamenti
produttivi, stipulata tra il Comune di Vescovana e la
CO.SE.CON. il 16.11.2004.
Ed infatti il permesso di costruire del 01.01.2005 è stato
rilasciato alla Prologis, dante causa delle odierne
ricorrenti, sul presupposto della destinazione industriale
del realizzando edificio “destinato a deposito di merci e
materiali vari”; tant’è che tale rilascio è stato
subordinato dall’amministrazione al pagamento della sola “quota
del contributo per oneri di urbanizzazione relativa
all’incidenza per opere necessarie al trattamento dei
rifiuti solidi, liquidi e gassosi”.
Ciò in virtù dell’esonero dal pagamento del contributo per
costo di costruzione previsto dall’art. 19, comma 1, D.P.R.
380/2001 a beneficio delle costruzioni destinate alle
attività industriali, ed in conformità alla Convenzione del
16.11.2004, che aveva posto a carico della società
lottizzante (CO.SE.CON.) il soddisfacimento degli oneri di
urbanizzazione per gli interventi aventi destinazione
industriale.
Appare altresì evidente che nel momento in cui, in
conseguenza del mutamento della proprietà, l’attività di
immagazzinaggio di merci svolta nel capannone in questione
non è più legata ad una attività industriale, produttiva di
beni, bensì ad una attività esclusivamente commerciale come
quella indiscutibilmente svolta da D.M.O., allora si viene a
configurare un mutamento di destinazione d’uso del
fabbricato in questione rilevante a fini urbanistici.
Ed infatti, l’attività di commercio al minuto e all’ingrosso
(di prodotti per la casa, profumi, bigiotteria, cartoleria,
vestiario etc...) svolta da D.M.O. si estende e comprende
anche la fase di deposito di tali prodotti all’interno del
magazzino in questione, il quale costituisce una componente
dell’organizzazione dell’impresa commerciale esercitata da
D.M.O..
La giurisprudenza, peraltro, rispetto all'interpretazione
dell'art. 10 L. n. 10/1977, ora art. 19 D.P.R. 380/2001,
relativamente all'esonero dal contributo, è stata sempre
restrittiva, ritenendo che la norma esoneri dalla
corresponsione del contributo solo i fabbricati strettamente
complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un
impianto industriale e non già quegli edifici che non sono
di per sé destinati alla produzione di beni industriali
ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere
utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica
(Consiglio Stato, Sez. V, 21.10.1998, n. 1512; cfr. TAR
Lombardia Milano, Sez. II, 11.02.2002, n. 495).
Con riferimento più specifico a fattispecie analoghe a
quella qui in esame, la giurisprudenza ha peraltro chiarito
che: “Si configura l'ipotesi di mutamento di destinazione
d'uso urbanisticamente rilevante, come tale soggetto al
preventivo rilascio del titolo concessorio, ogni volta che,
variando il soggetto che utilizza l'immobile e
conseguentemente l'attività che in esso viene svolta, quest'ultima
comporti un maggiore carico urbanistico derivante dal
passaggio ad una diversa categoria funzionale” (nella
fattispecie è stato ritenuto urbanisticamente rilevante
l'utilizzo di un capannone industriale come magazzino per
gestione di prodotti finiti, essendo quest'ultima
un'attività da considerare non come produttiva ma di
intermediazione commerciale e come tale legata quindi al
ciclo della commercializzazione) cfr. C.d.S. sez. V
27.12.2011 n. 6411.
Non si può dubitare, dunque, della rilevanza sotto il
profilo del carico urbanistico del mutamento di destinazione
d'uso da industriale a commerciale.
Sulla base di tali presupposti, il Comune non poteva che
operare una vincolata applicazione dell’art. 19, comma 3,
del D.P.R. 380/2001, a tenore del quale, qualora la
destinazione d’uso delle opere per le quali si è goduto del
pagamento di una minore contribuzione in relazione all’uso
industriale-artigianale venga comunque modificata, con o
senza attività edilizia, nel decennio successivo alla
ultimazione dei lavori, il titolare sarà tenuto al pagamento
del contributo di costruzione nella misura massima
corrispondente alla nuova destinazione impressa, con
riferimento temporale al momento dell’intervenuta
variazione.
E, d’altra parte, nel medesimo senso è da leggersi il punto
“J” delle premesse della Convenzione di attuazione del piano
per gli insediamenti produttivi, secondo cui: “con la
cessione del Comune di Vescovana delle aree a standards
primari e secondari, l’esecuzione delle relative opere ed
attrezzature e con le modalità previste dalla Convenzione
stipulata in data odierna, si adempie al soddisfacimento
degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria per gli
interventi aventi destinazione industriale. Per quanto
concerne le destinazioni d’uso commerciali e direzionali, la
differenza dell’onerosità delle opere di urbanizzazione
secondarie, a conguaglio, verrà versata dagli assegnatari al
Comune al momento del rilascio del permesso a costruire. Il
contributo per il costo di costruzione, se e dove previsto,
e la quota relativa all’asporto rifiuti e l’impatto
ambientale, sarà versata dai soggetti attuatari degli
interventi edilizi al Comune al momento del rilascio dei
permessi a costruire”.
Pertanto, anche sulla base degli accordi convenzionali il
passaggio delle costruzioni industriali ad una destinazione
commerciale avrebbe comportato il pagamento del conguaglio
per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Pertanto, il primo motivo di ricorso deve essere ritenuto
infondato (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 18.12.2014 n. 1537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sul cambio di destinazione d’uso senza opere da residenza a
uffici.
(a) il caso in esame è regolato dal
principio di liberalizzazione delle destinazioni d’uso
stabilito dagli art. 51 e 52 della LR 12/2005. In mancanza
di espressi divieti contenuti nello strumento urbanistico,
il passaggio a un diverso tipo di utilizzazione deve
ritenersi sempre ammissibile;
(b) questo non significa però che sia anche a costo zero. In
realtà, la liberalizzazione delle destinazioni d’uso non
assicura da sola la gratuità del passaggio da una
destinazione all’altra. Per ottenere questo risultato sono
necessarie tre condizioni:
(1) il cambio deve essere effettivamente senza opere;
(2) la nuova destinazione d’uso non deve alterare il
fabbisogno di aree a standard;
(3) il cambio deve distanziarsi temporalmente dai lavori
che comportano il versamento del contributo di costruzione
(nuova edificazione, ristrutturazione);
(c) nello specifico, la prima condizione (assenza di
opere) non è posta in dubbio. Se il Comune avesse accertato
nuove opere avrebbe potuto richiamare l’art. 44, comma 12,
della LR 12/2005, che impone il conguaglio rispetto alla
nuova destinazione d’uso, limitatamente alla parte di
edificio interessata dai lavori;
(d) per quanto riguarda la seconda condizione (invarianza
del fabbisogno di aree a standard), il provvedimento
impugnato afferma che il cambio di destinazione d’uso
comporterebbe un maggiore carico urbanistico. Questa formula
si può interpretare nel senso che la presenza di uffici in
luogo della precedente abitazione renderebbe necessario
acquisire nuove aree a standard o inserire nuovi servizi di
interesse pubblico in quelle esistenti. Si tratta però di
un’affermazione imprecisa e generica;
(e) l’imprecisione consiste nel mettere in relazione il
fabbisogno di standard urbanistici e gli oneri di
urbanizzazione, che sono e devono invece rimanere concetti
separati, trattandosi di costi che hanno titoli diversi e si
sommano tra loro. Non è possibile chiedere il pagamento
degli oneri di urbanizzazione affermando (o sottintendendo)
che sono dovuti per adeguare gli standard urbanistici;
(f) la genericità dell’affermazione del Comune emerge dal
fatto che i maggiori standard ipotizzati non sono descritti
in dettaglio. Il provvedimento impugnato sembra ritenere
ovvio che in un passaggio come quello in esame la nuova
destinazione d’uso richieda maggiori aree a standard.
Un simile onere economico non può tuttavia essere imposto
sulla base di semplici presunzioni. L’art. 51, comma 2,
della LR 12/2005 affida al PGT il compito di individuare in
quali casi i cambi destinazione d'uso, se attuati con opere
edilizie, comportino una variazione del fabbisogno di aree a
standard.
Per i cambi senza opere il successivo comma 3 precisa che
l’adeguamento delle aree a standard è necessario
esclusivamente quando la nuova destinazione d’uso preveda
l’insediamento di esercizi commerciali non costituenti
esercizi di vicinato. Anche volendo lasciare aperta la
possibilità che, per particolari esigenze pubbliche,
l’adeguamento sia necessario in ulteriori casi, si
tratterebbe comunque di fattispecie da disciplinare
puntualmente all’interno del PGT;
(g) per quanto riguarda infine la terza condizione
(adeguato intervallo temporale), l’art. 52, comma 3, della
LR 12/2005 fissa in dieci anni dall’ultimazione dei lavori
il periodo entro il quale l’amministrazione può chiedere
l’integrazione del contributo di costruzione con riferimento
alla nuova destinazione d’uso. Nel caso in esame tale
termine è ampiamente scaduto;
(h) si osserva in proposito che l’integrazione del
contributo di costruzione è un diritto potestativo pubblico
che attiene al rapporto intercorrente tra l’amministrazione
e il proprietario dell’edificio. Tale rapporto è soggetto a
riequilibrio qualora l’edificio, entro dieci anni dalla fine
dei lavori (costruzione o ristrutturazione), acquisti
stabilmente una destinazione d’uso che, se introdotta fin
dall’inizio, avrebbe incrementato il costo del titolo
edilizio.
L’adeguamento funziona peraltro in una sola direzione,
perché se poi si ritorna a una destinazione meno onerosa
l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 non contempla alcun
obbligo di rimborso. Oltre i dieci anni dalla fine dei
lavori il proprietario può invece effettuare il cambio senza
subire conseguenze economiche. La norma tende infatti a
disincentivare i comportamenti opportunistici, che non si
possono più presumere dopo un così lungo intervallo
temporale.
... per l'annullamento del provvedimento del dirigente della
Divisione Gestione del Territorio prot. n. U0012300-Pg del
09.02.2007, con il quale è stato determinato il contributo
per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria in
relazione al cambio di destinazione d’uso da residenza a
uffici in un edificio di via S. Francesco d’Assisi;
...
1. La ricorrente L.C.M. è comproprietaria nel Comune di
Bergamo di una unità immobiliare di 207,31 mq collocata al
terzo piano di un edificio (mappale n. 2732) situato in via
S. Francesco d’Assisi.
2. In data 08.02.2007 la ricorrente ha comunicato al Comune
il cambio di destinazione d’uso senza opere da residenza a
uffici. Non è contestato che la prima destinazione
sussistesse fin dal momento della realizzazione
dell’edificio, che è risalente nel tempo (almeno cento anni,
secondo la ricorrente).
3. Il dirigente della Divisione Gestione del Territorio con
provvedimento del 09.02.2007 ha stabilito che, trattandosi
di una variazione comportante un maggiore carico
urbanistico, doveva essere versato il contributo di
costruzione, e precisamente gli oneri di urbanizzazione
primaria (€ 6.614,42) e quelli di urbanizzazione secondaria
(€ 3.301,19). Gli importi corrispondono alla differenza tra
gli oneri della nuova destinazione d’uso e quelli della
destinazione originaria.
4. Contro il suddetto provvedimento la ricorrente ha
presentato impugnazione con atto notificato il 14.04.2007 e
depositato il 20.04.2007.
Le censure possono essere sintetizzate e ordinate come
segue:
(i) violazione dell’art. 52, comma 3, della LR 11.03.2005 n.
12, che prevede il versamento del contributo di costruzione
corrispondente alla nuova destinazione d’uso solo per le
variazioni effettuate entro i dieci anni successivi
all'ultimazione dei lavori;
(ii) manifesta irragionevolezza, in quanto il cambio di
destinazione d’uso senza opere, da un lato, non altera il
fabbisogno di aree a standard, e dall’altro, essendo
subordinato a semplice comunicazione preventiva, non è
collegato a un titolo edilizio che imponga il versamento del
contributo di costruzione. Oltre all’annullamento del
provvedimento impugnato è stato chiesto il risarcimento del
danno.
5. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la
reiezione del ricorso, ed evidenziando che la ricorrente non
ha mai versato l’importo richiesto.
6. Con memoria depositata il 26.09.2014 la ricorrente ha
rinunciato alla domanda risarcitoria, confermando la mancata
riscossione coattiva dell’importo richiesto.
7. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a)
il caso in esame è regolato dal principio di
liberalizzazione delle destinazioni d’uso stabilito dagli
art. 51 e 52 della LR 12/2005. In mancanza di espressi
divieti contenuti nello strumento urbanistico, il passaggio
a un diverso tipo di utilizzazione deve ritenersi sempre
ammissibile;
(b)
questo non significa però che sia anche a costo zero. In
realtà, la liberalizzazione delle destinazioni d’uso non
assicura da sola la gratuità del passaggio da una
destinazione all’altra. Per ottenere questo risultato sono
necessarie tre condizioni:
(1) il cambio deve essere effettivamente senza opere;
(2) la nuova destinazione d’uso non deve alterare il
fabbisogno di aree a standard;
(3) il cambio deve distanziarsi temporalmente dai lavori
che comportano il versamento del contributo di costruzione
(nuova edificazione, ristrutturazione);
(c)
nello specifico, la prima condizione (assenza di
opere) non è posta in dubbio. Se il Comune avesse accertato
nuove opere avrebbe potuto richiamare l’art. 44, comma 12,
della LR 12/2005, che impone il conguaglio rispetto alla
nuova destinazione d’uso, limitatamente alla parte di
edificio interessata dai lavori;
(d)
per quanto riguarda la seconda condizione (invarianza
del fabbisogno di aree a standard), il provvedimento
impugnato afferma che il cambio di destinazione d’uso
comporterebbe un maggiore carico urbanistico. Questa formula
si può interpretare nel senso che la presenza di uffici in
luogo della precedente abitazione renderebbe necessario
acquisire nuove aree a standard o inserire nuovi servizi di
interesse pubblico in quelle esistenti. Si tratta però di
un’affermazione imprecisa e generica;
(e)
l’imprecisione consiste nel mettere in relazione il
fabbisogno di standard urbanistici e gli oneri di
urbanizzazione, che sono e devono invece rimanere concetti
separati, trattandosi di costi che hanno titoli diversi e si
sommano tra loro. Non è possibile chiedere il pagamento
degli oneri di urbanizzazione affermando (o sottintendendo)
che sono dovuti per adeguare gli standard urbanistici;
(f)
la genericità dell’affermazione del Comune emerge dal fatto
che i maggiori standard ipotizzati non sono descritti in
dettaglio. Il provvedimento impugnato sembra ritenere ovvio
che in un passaggio come quello in esame la nuova
destinazione d’uso richieda maggiori aree a standard.
Un simile onere economico non può tuttavia essere imposto
sulla base di semplici presunzioni. L’art. 51, comma 2,
della LR 12/2005 affida al PGT il compito di individuare in
quali casi i cambi destinazione d'uso, se attuati con opere
edilizie, comportino una variazione del fabbisogno di aree a
standard.
Per i cambi senza opere il successivo comma 3 precisa che
l’adeguamento delle aree a standard è necessario
esclusivamente quando la nuova destinazione d’uso preveda
l’insediamento di esercizi commerciali non costituenti
esercizi di vicinato. Anche volendo lasciare aperta la
possibilità che, per particolari esigenze pubbliche,
l’adeguamento sia necessario in ulteriori casi, si
tratterebbe comunque di fattispecie da disciplinare
puntualmente all’interno del PGT;
(g)
per quanto riguarda infine la terza condizione
(adeguato intervallo temporale), l’art. 52, comma 3, della
LR 12/2005 fissa in dieci anni dall’ultimazione dei lavori
il periodo entro il quale l’amministrazione può chiedere
l’integrazione del contributo di costruzione con riferimento
alla nuova destinazione d’uso. Nel caso in esame tale
termine è ampiamente scaduto;
(h)
si osserva in proposito che l’integrazione del contributo di
costruzione è un diritto potestativo pubblico che attiene al
rapporto intercorrente tra l’amministrazione e il
proprietario dell’edificio. Tale rapporto è soggetto a
riequilibrio qualora l’edificio, entro dieci anni dalla fine
dei lavori (costruzione o ristrutturazione), acquisti
stabilmente una destinazione d’uso che, se introdotta fin
dall’inizio, avrebbe incrementato il costo del titolo
edilizio.
L’adeguamento funziona peraltro in una sola direzione,
perché se poi si ritorna a una destinazione meno onerosa
l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 non contempla alcun
obbligo di rimborso. Oltre i dieci anni dalla fine dei
lavori il proprietario può invece effettuare il cambio senza
subire conseguenze economiche. La norma tende infatti a
disincentivare i comportamenti opportunistici, che non si
possono più presumere dopo un così lungo intervallo
temporale.
8. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente
annullamento del provvedimento impugnato. Occorre poi
prendere atto della rinuncia alla domanda risarcitoria (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 10.12.2014 n. 1358 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Bed & breakfast senza permessi.
Non è cambio di destinazione d’uso, niente stop per
regolamento.
Spazi privati. Anche gli asili nido possono essere allestiti
nell’appartamento nel rispetto delle regole comuni.
Aguzzare l'ingegno e
inventarsi un mestiere, soprattutto quando le offerte di
lavoro sono ridotte al lumicino, può rivelarsi la scelta
giusta. Se poi l'impiego in questione si svolge direttamente
a casa e comporta investimenti contenuti, l'idea comincia a
essere davvero appetibile. È il caso dei bed and breakfast e
degli asili nido famiglia, due modi intelligenti per
guadagnare utilizzando l'alloggio in cui si risiede, sia
esso di proprietà o in affitto.
Il bed and breakfast è un'attività a carattere saltuario,
svolta a conduzione familiare da privati che utilizzano
parte della propria casa per offrire un servizio di alloggio
e prima colazione. In condominio non è necessaria
l'approvazione dell'assemblea, a meno che gli atti notarili
di acquisto o il regolamento condominiale non vietino
espressamente questo tipo di attività, differente dalla
pensione o dall'affittacamere.
Con la
sentenza
20.11.2014 n. 24707, confermando la
decisione della Corte d'appello, la Corte di Cassazione -Sez.
II civile- ha inoltre
stabilito che l'attività di b&b è consentita anche in
presenza di un regolamento condominiale che vieti, come nel
caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso diverso
da quello di civile abitazione o di ufficio professionale
privato». Secondo il giudice di appello «l'utilizzo degli
appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di
destinazione d'uso ai fini urbanistici» e, cosa ancora più
importante, proprio la definizione di “civile abitazione”
citata nel regolamento, risulta essere un presupposto
fondamentale per lo svolgimento dell'attività di b&b.
Il condòmino può anche realizzare tutte le opere che ritiene
opportune, a patto che non provochino danni alle cose comuni
o pregiudizi alle proprietà esclusive altrui.
Per prima cosa, occorre recarsi allo Sportello unico della
attività produttive del Comune d'appartenenza e compilare la
Scia, la segnalazione certificata di inizio attività. Non
serve nessuna iscrizione alla sezione speciale del registro
delle imprese, mentre devono essere rispettati alcuni
requisiti, come quelli igienico-sanitari previsti dal
regolamento edilizio e dal regolamento d'igiene comunale,
oltre alla normativa vigente in materia di sicurezza e di
somministrazione di cibi e bevande. In linea di massima,
anche se ogni regione detta le proprie regole, è necessario
che le stanze abbiano dimensioni adeguate e siano presenti
due servizi igienici (se l'attività si svolge in più di una
stanza). E ancora occorre garantire: l'accesso diretto alle
camere da letto destinate agli ospiti; il cambio di
biancheria almeno tre volte alla settimana (e all'arrivo do
ogni nuovo ospite) e la pulizia quotidiana dei servizi.
Il responsabile dell'attività, oltre a registrare le
presenze e comunicarle alle autorità di pubblica sicurezza,
è tenuto a sottoscrivere una polizza assicurativa di
responsabilità civile, per eventuali danni arrecati agli
ospiti. Le tariffe, sono decise liberamente e vanno
comunicate alla Provincia, che ogni anno redige un elenco
dettagliato con le strutture ricettive operanti nel
territorio di competenza.
Per quanto riguarda gli asili nido in famiglia, bisogna
prestare un po' più di attenzione al regolamento
condominiale. Qualora, ad esempio, non siano consentiti
«assembramenti o passaggi più o meno consistenti di persone
che possano determinare un disturbo per la collettività
condominiale», anche se non esplicitamente indicato il
servizio può essere vietato.
Appurata la possibilità di iniziare l'attività in
condominio, occorre presentare il progetto a Comune e Asl,
con la descrizione dettagliata della propria attività. Anche
in questo caso ci sono dei requisiti da rispettare e, come
per i b&b, ogni regione ha dettato le proprie norme. A
cominciare dai locali in cui si svolge il servizio: c'è
bisogno di uno spazio per l'accoglienza; un'area gioco
protetta; una zona riposo con lettini separata dal resto
della casa; un bagno con fasciatoio e una cucina dove
preparare i pasti.
In Trentino, la regione italiana dove il nido famiglia è più
diffuso, il responsabile dell'attività è obbligato a seguire
un corso di formazione da 250 ore, con lezioni in aula e
tirocinio pratico. Solitamente, si possono accudire fino a
un massimo di sei bambini e i costi variano dai 3 ai 6 euro
all'ora, senza nessuna quota d'iscrizione.
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In sintesi
01 IL REGOLAMENTO
Con la sentenza 24707 del 20.11.2014 la Cassazione ha
inoltre stabilito che l’attività di b&b è consentita anche
in presenza di un regolamento condominiale che vieti, come
nel caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso
diverso da quello di civile abitazione o di ufficio
professionale privato»
02 NIENTE PARTITA IVA
L’attività di bed and breakfast non è considerata un vero
e proprio lavoro e quindi
non necessita di iscrizione
alla Camera di Commercio e apertura di partita Iva
03 LA SOSPENSIONE
Il responsabile dell’attività è però obbligato a sospenderla
per tre mesi l’anno, anche non consecutivi, e affittare un
numero massimo di tre camere per sei posti letto.
04 L’ASILO NIDO
Un po’ più complesso è avviare un nido famiglia. In molti
casi è obbligatorio un titolo
di studio, in altri è sufficiente seguire un corso ad hoc.
Non è sempre necessario costituire un’impresa
o far parte di una cooperativa:
se, ad esempio, ad avviare l’asilo è una famiglia,
basterà una scrittura
privata tra le famiglie associate. Attenzione al
regolamento: se, esempio, non siano consentiti
«assembramenti
o passaggi più o meno consistenti di persone
che possano determinare
un disturbo per la collettività condominiale»,
anche se non esplicitamente indicato il servizio può
essere vietato (articolo Il Sole 24 Ore
del 02.12.2014).
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MASSIMA
Non è illegittimo adibire
l’abitazione privata condominiale ad attività commerciale di
“affitta camere”, purché non si dimostri l’effettivo
pregiudizio in danno ai vicini di casa.
Le disposizioni contenute nel regolamento condominiale che
si risolvano nella compressione delle facoltà e dei poteri
inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti,
devono essere espressamente e chiaramente manifestate dal
testo o, comunque, devono risultare da una volontà
desumibile in modo non equivoco da esso.
L’interpretazione del giudice di merito del regolamento
condominiale è insindacabile dalla Cassazione salvo vizi
logici. E il giudice di appello, nel caso di specie, con
ragionamento «coerente» e «logico» ha ritenuto che il
regolamento non vietasse l’attività ricettiva «tenuto conto
che la destinazione a civile abitazione costituisce il
presupposto per la utilizzazione di una unità abitativa ai
fini dell’attività di bed and breakfast».
Una affermazione coerente anche con il regolamento regionale
del Lazio n. 16 del 2008, in cui si chiarisce che l’utilizzo
degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di
destinazione d’uso ai fini urbanistici
(link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nel caso di mutamento di destinazione d'uso,
anche senza opere, da artigianale a commerciale, trattandosi
di un cambiamento implicante il passaggio ad una categoria
funzionale autonoma, avente diverso carico urbanistico va
rilevato che ai sensi dell'art. 19, d.P.R. n. 380 del 2001,
il sopravvenuto mutamento della destinazione d'uso, anche in
assenza di interventi, comporta comunque l'insorgenza del
presupposto imponibile per la debenza del contributo dovuto,
compreso quello relativo al costo di costruzione.
Ciò a maggior ragione se, come nel caso in esame, il cambio
di destinazione è avvenuto con opere. E’ noto come il
contributo relativo al costo di costruzione sia il
corrispettivo dovuto in presenza di una trasformazione
edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di
opere, si riveli produttiva di vantaggi economici per il suo
autore; situazione, questa, che si verifica anche nel caso
di mutamento d'uso, intendendo per tale ogni variazione
anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico e che determini comunque un aumento del c.d.
carico urbanistico.
---------------
In caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di
corrispondere il contributo concessorio è un principio
enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n.
10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n.
47/1985, la cui "ratio", come chiarito dalla giurisprudenza,
è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la
nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato
all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico,
attraverso la modifica della destinazione il contributo
possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del
richiedente".
---------------
Nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato dal
ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia di
intervento da una classe contributiva originaria e meno
"pesante" (artigianale) ad un'altra tipologia (commerciale),
non solo diversa ma anche più gravosa in termini di carico
urbanistico.
Si è trattato, cioè, di un cambio di destinazione d'uso
intervenuto tra categorie autonome, quella artigianale e
quella commerciale, che ha comportato un aumento del carico
urbanistico con conseguente mutamento degli "standard".
Presupposto, questo, sufficiente a giustificare la richiesta
di contributo per oneri di urbanizzazione.
---------------
I provvedimenti relativi alla determinazione degli oneri
concessori e dell'oblazione non necessitano di motivazione
in ordine alla somma indicata, in quanto risultano da un
mero calcolo materiale da effettuarsi sulla base di puntuali
indicazioni normative, senza che in proposito residui un
margine di discrezionalità.
Non è pertanto configurabile, a carico dell'Amministrazione,
un onere di specificare le ragioni della decisione adottata,
sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei
conteggi effettuati dall'ente.
1.2 Con riguardo alla qualificazione delle modifiche oggetto
dell’istanza come mero cambio di destinazione d’uso con
opere, la tesi di parte ricorrente non può essere condivisa.
Difatti, nel caso di mutamento di destinazione d'uso, anche
senza opere, da artigianale a commerciale, trattandosi di un
cambiamento implicante il passaggio ad una categoria
funzionale autonoma, avente diverso carico urbanistico va
rilevato che ai sensi dell'art. 19, d.P.R. n. 380 del 2001,
il sopravvenuto mutamento della destinazione d'uso, anche in
assenza di interventi, comporta comunque l'insorgenza del
presupposto imponibile per la debenza del contributo dovuto,
compreso quello relativo al costo di costruzione (Tar Veneto
26.11.2012 1445).
Ciò a maggior ragione se, come nel caso in esame, il cambio
di destinazione è avvenuto con opere. E’ noto come il
contributo relativo al costo di costruzione sia il
corrispettivo dovuto in presenza di una trasformazione
edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di
opere, si riveli produttiva di vantaggi economici per il suo
autore; situazione, questa, che si verifica anche nel caso
di mutamento d'uso, intendendo per tale ogni variazione
anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico e che determini comunque un aumento del c.d.
carico urbanistico (CdS Sez. IV 14.10.2011 n. 5539).
1.3 Riguardo l’affermazione di parte ricorrente per cui gli
oneri avrebbero dovuto essere rapportati al cambio di
destinazione d’uso e non alla nuova costruzione, il Collegio
osserva come, in caso di cambio di destinazione d'uso
l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio sia un
principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della
legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della
legge n. 47/1985, la cui "ratio", come chiarito dalla
giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare
che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile
avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime
contributivo urbanistico, attraverso la modifica della
destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in
parte a vantaggio del richiedente" (CdS sez. V, 07.12.2010, n.
8620, 30.08.2013 n. 426).
Né la delibera di Consiglio
Comunale n. 177 del 28.05.1979, citata dal ricorrente e
allegata al ricorso, può essere interpretata nel senso di
superare tale fondamentale principio, nella parte in cui
prescrive l’abbattimento del costo di costruzione del 50% in
caso di ristrutturazione con cambio di destinazione d’uso e
senza modifica di strutture portanti.
Ancora, non possono
essere applicati gli oneri di urbanizzazione previsti nella
delibera di Giunta Comunale n. 2449 del 29.11.1994 per il
caso di ristrutturazione edilizia con cambio di
destinazione. Difatti, la presenza di un cambio di
destinazione d’uso da artigianale a commerciale, con il
corredato aumento di carico urbanistico che caratterizza
quest’ultima destinazione, indubbiamente lascia la
possibilità all’Amministrazione di valutare se, ai fini
della determinazione degli oneri, risulti prevalente il
cambio di destinazione o il tipo di intervento (si veda in
materia il condivisibile ragionamento in Tar Piemonte
27.03.2013 n. 381).
Come nota il Comune, in caso contrario si
creerebbe un cortocircuito logico che renderebbe i cambi di
destinazione senza opere, in presenza di aumento di carico
urbanistico, più costosi di quelli con opere, qualora
quest’ultimi fossero riconducibili allo sconto previsto per
le ristrutturazioni dalla citata delibera 177/1979.
Correttamente, il Comune ha quindi qualificato il cambio di
destinazione da artigianale a commerciale come “nuova
costruzione”, anche tenuto che la precedente costruzione,
con destinazione artigianale non era tenuta al pagamento del
costo di costruzione, con conseguente pagamento degli oneri
“per differenza” ai sensi dell’art. 2 lett. f) del
Regolamento Comunale.
1.4 Nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato
dal ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia di
intervento da una classe contributiva originaria e meno
"pesante" (artigianale) ad un'altra tipologia (commerciale),
non solo diversa ma anche più gravosa in termini di carico
urbanistico. Si è trattato, cioè, di un cambio di
destinazione d'uso intervenuto tra categorie autonome,
quella artigianale e quella commerciale, che ha comportato
un aumento del carico urbanistico con conseguente mutamento
degli "standard". Presupposto, questo, sufficiente a
giustificare la richiesta di contributo per oneri di
urbanizzazione.
2 Ancora, con riguardo all’affermato calcolo errato
dell’oblazione per avere computato metri cubi in eccesso, va
specificato che i provvedimenti relativi alla determinazione
degli oneri concessori e dell'oblazione non necessitano di
motivazione in ordine alla somma indicata, in quanto
risultano da un mero calcolo materiale da effettuarsi sulla
base di puntuali indicazioni normative, senza che in
proposito residui un margine di discrezionalità. Non è
pertanto configurabile, a carico dell'Amministrazione, un
onere di specificare le ragioni della decisione adottata,
sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei
conteggi effettuati dall'ente (da ultimo Tar Lazio Roma
18.02.2014 n. 2015).
Nel caso in esame, i calcoli effettuati
dal Comune sono contestati con calcoli di parte (depositati
unitamente al ricorso) che risultano generici, dato che il
Comune medesimo ha depositato la documentazione fornita dal
ricorrente per la sanatoria, ove i vani dei quali il
ricorrente chiede lo scorporo in quanto ingressi comuni ad
altre parti di edificio non sono stati indicati e scorporati
(tavole 7 e 9). Il calcolo è stato quindi correttamente
effettuato sulla base della documentazione presentata dal
ricorrente medesimo, in allegato all’istanza di sanatoria
(TAR Marche,
sentenza 06.10.2014 n. 816 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cambio di destinazione d'uso senza realizzazione di opere.
La ragione per la quale il cambio di
destinazione d'uso senza realizzazione di opere non
costituisce un'attività del tutto priva di vincoli risiede
nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate le
regole generali finalizzate ad assicurare il corretto e
ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto
inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri
prefigurati della strumentazione urbanistica, potendo
risultare pregiudicato anche l'interesse patrimoniale
dell'ente, perché gli interessati sarebbero altrimenti
indotti a chiedere il rilascio dei titoli edilizi contro il
pagamento di un minore contributo per il basso carico
urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la
destinazione originaria senza corrispondere i maggiori oneri
che derivano dal maggiore carico urbanistico
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2014 n. 39897 - tratto da
www.lexambiente.it).
---------------
SENTENZA
3.2. - Venendo ora all'esame del primo motivo di
ricorso -relativo al fatto se l'uso foresteria costituisse
un mutamento d'uso da alberghiero ad abitativo e se tale
mutamento d'uso fosse compatibile con le previsioni degli
strumenti urbanistici regionali e comunali- deve rilevarsi
che lo stesso non è fondato. Quanto alla compatibilità del
mutamento d'uso con la previsione degli strumenti
urbanistici comunali, deve farsi richiamo a quanto appena
sopra rilevato.
Quanto al sistema normativo regionale, deve sottilinearsi
che lo stesso non contiene previsioni che si discostino dai
principi applicabili a livello nazionale, secondo cui
il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a d.i.a. (ora s.c.i.a.) purché intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è
richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se
il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea
(sez. 3, 13 dicembre 2013, n. 5712/2014, rv. 258686).
Nella Regione Marche, la materia del mutamento della
destinazione d'uso nell'ambito di diverse categorie
urbanistiche -che implichi, in altri termini, una variazione
degli standard previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968,
n. 1444- è disciplinata dagli artt. 5 e 6 della legge
regionale n. 14 del 1986 in senso conforme a quanto previsto
in materia dall'art. 32, comma 1, lettera a), del d.P.R. n.
380 del 2001. Il richiamato art. 6 della legge reg. n. 14
del 1986 prevede, in particolare, che la variazione di
destinazione d'uso può essere consentita dai comuni
attraverso la predisposizione degli strumenti urbanistici in
ambiti determinati dalle singole zone previste dall'art. 2
del richiamato d.m. 02.04.1968, n. 1444.
E l'ulteriore disciplina regionale si concentra sul profilo
-diverso da quello in esame- del mutamento di destinazione
d'uso attraverso la realizzazione di opere edilizie, che è
comunque regolamentato in modo analogo (v., in particolare,
l'art. 2, comma 4, della legge reg. n. 22 del 2009, più
volte modificato, il quale, in tutte le sue diverse
formulazioni, richiama anche per tale fattispecie, la
compatibilità con la destinazione di uso prevista dagli
strumenti urbanistici e il rispetto degli standard
urbanistici di cui al richiamato decreto ministeriale).
Quanto all'evoluzione della disciplina statale riguardante
la materia del cambio di destinazione d'uso di immobili o di
parti di immobili, è sufficiente fare richiamo alla
analitica disamina contenuta nella richiamata sentenza n.
5712 del 2014 (oltre che in sez. 3, 20.01.2009, n. 9894, rv.
243102).
Quanto ai principi attualmente applicabili, va comunque
ribadito che la ragione per la quale il
cambio di destinazione d'uso senza realizzazione di opere
non costituisce un'attività del tutto priva di vincoli
risiede nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate
le regole generali finalizzate ad assicurare il corretto e
ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto
inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri
prefigurati della strumentazione urbanistica
(Consiglio di Stato, 25.05.2012, n. 759),
potendo risultare pregiudicato anche l'interesse
patrimoniale dell'ente, perché gli interessati sarebbero
altrimenti indotti a chiedere il rilascio dei titoli edilizi
contro il pagamento di un minore contributo per il basso
carico urbanistico, per poi mutare liberamente e
gratuitamente la destinazione originaria senza corrispondere
i maggiori oneri che derivano dal maggiore carico
urbanistico.
Infatti, la destinazione d'uso individua il
bene sotto l'aspetto funzionale, in considerazione della
differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e
disciplinata dagli strumenti urbanistici in base a standard
diversi sotto il profilo qualitativo e quantitativo proprio
seconda della diversità delle destinazioni di zona.
L'unico caso in cui il mutamento della
destinazione d'uso senza opere può essere liberamente
consentito è, dunque, quello in cui vi sia una totale
omogeneità tra la categoria urbanistica di partenza e quella
conseguente al mutamento stesso, in modo che non vi sia
alcun aggravamento del carico urbanistico esistente.
Ed è evidente che la modificazione della
destinazione d'uso da alberghiera a foresteria non
interviene affatto fra due categorie urbanistiche omogenee,
perché la locazione ad uso foresteria rientra in tutto e per
tutto nella destinazione abitativa, pur rispondendo ad
esigenze di destinazione dell'immobile al temporaneo
alloggio di soggetti diversi dal conduttore.
Infatti, la distinzione fra locazione
abitativa e locazione ad uso foresteria fatta propria dalla
disciplina civilistica risponde ad esigenze di tipo sociale
legate al "diritto alla casa" e non assume alcuna
rilevanza ai fini penali, perché si tratta comunque in
entrambi i casi di locazioni finalizzate a soddisfare
esigenze abitative che si differenziano solo sul piano
soggettivo, con identico carico urbanistico: da un lato,
le esigenze dello stesso conduttore; dall'altro, le
esigenze di ospiti o dipendenti del conduttore. |
EDILIZIA PRIVATA:
Trasformazione con opere di sottotetto in residenza
abitabile.
La trasformazione, con opere, del
sottotetto in residenza abitabile, comporta certamente la
modifica delle relative superfici che si trasformano da
superfici non residenziali in superfici residenziali,
qualificando così il regime edilizio della relativa modifica
di destinazione d'uso come ristrutturazione edilizia
soggetta a permesso di costruire ai sensi dell'art. 10,
comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.09.2014 n. 37841 - tratto da
www.lexambiente.it).
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SENTENZA
3.1. Si contesta all'imputato di aver
modificato la destinazione d'uso del sottotetto della
propria abitazione rendendolo, con opere, abitabile.
3.2. Si legge, nell'impugnata sentenza, che
tale modifica era stata ottenuta mediante
tramezzature, la posa in opera di pavimenti, rivestimenti,
impianti tecnologici, installazione di servizi igienici.
3.3. Il ricorrente non contesta la circostanza, ma ritiene
il fatto penalmente irrilevante, trattandosi di modifica di
destinazione d'uso che la legge regionale Campania 19/2011
non annovera tra gli interventi soggetti a permesso di
costruire.
3.4. Il rilievo è infondato.
3.5. In base all'art. 10, comma 2, d.P.R. 380/2001 «Le
regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o
non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili
o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o
a denuncia di inizio attività».
3.6. L'art. 2 (Interventi edilizi subordinati a denuncia di
inizio attività), legge regionale Campania, 28.11.2011, n.
19, disciplina nei seguenti termini il regime urbanistico
delle modifiche di destinazione d'uso: «1. Possono essere
realizzati in base a semplice denuncia di inizio attività:
(...) f) i mutamenti di destinazione d'uso di immobili o
loro parti, che non comportino interventi di trasformazione
dell'aspetto esteriore, e di volumi e di superfici; la nuova
destinazione d'uso deve essere compatibile con le categorie
consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole
zone territoriali omogenee.
2. Per i beni sottoposti ai vincoli di cui al D.Lgs.
22.01.2004, n. 42, la realizzazione degli interventi
previsti dal comma 1) è subordinata al rilascio
dell'autorizzazione da parte delle Amministrazioni preposte
alla tutela dei vincoli stessi, se prescritta. (...)
5. Il mutamento di destinazione d'uso senza opere, nell'àmbito
di categorie compatibili alle singole zone territoriali
omogenee, è libero.
6. Il mutamento di destinazione d'uso, con opere che
incidano sulla sagoma dell'edificio o che determinano un
aumento piano volumetrico, che risulti compatibile, con le
categorie edilizie previste per le singole zone omogenee è
soggetto a permesso di costruire.
7. Il mutamento di destinazione d'uso, con opere che
incidano sulla sagoma, sui volumi e sulle superfici, con
passaggio di categoria edilizia, purché tale passaggio sia
consentito dalla norma regionale, è soggetto a permesso di
costruire. 8. Il mutamento di destinazione d'uso nelle zone
agricole -zona E- è sempre soggetto a permesso di costruire».
3.7. Non rileva se la modifica della
destinazione d'uso avvenga o meno con opere; è sufficiente,
in quest'ultimo caso, che vi siano modifiche delle superfici
perché l'intervento sia soggetto a permesso di costruire.
3.8. Per verificare quale sia il regime edilizio delle «superfici»
è necessario, quando non vi provvedano gli atti o le leggi
regionali, far riferimento ai decreti ministeriali che, nel
tempo, in attuazione delle norme di cui agli artt. 6, legge
28.01.1977, n. 10, (oggi art. 16, d.P.R. 06.06.2001, n.
380), hanno definito i criteri in base ai quali stabilire le
caratteristiche degli alloggi e calcolare gli oneri
concessori dovuti a titolo di «costo di costruzione».
3.9. Orbene, le soffitte e, in genere, i locali sottotetto
non destinati a uso residenziale non costituiscono «superficie
utile» e sono disciplinati diversamente.
3.10. Il panorama normativo di riferimento è chiaro nel
distinguere la «superficie utile» dalla
«superficie non
residenziale».
3.11. Già in base al DM 02.08.1969 Min. Lav. Pub. "Caratteristiche
delle abitazioni di lusso", «Le case composte di uno
o più piani costituenti unico alloggio padronale avente
superficie utile complessiva superiore a mq. 200 (esclusi i
balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e
posto macchine) ed aventi come pertinenza un'area scoperta
della superficie di oltre sei volte l'area coperta»
(art. 5); ai sensi del successivo art. 6, «le singole
unità immobiliari aventi superficie utile complessiva
superiore a mq. 240 (esclusi i balconi, le terrazze, le
cantine, le soffitte, le scale e posto macchine)».
3.12. Il D.M. 26.04.1991 Min. Lav. Pub. "Aggiornamento
dei limiti massimi di costo per gli interventi di edilizia
sovvenzionata residenziale pubblica, ai sensi della legge
05.08.1978, n. 457, determinati dal Comitato esecutivo per
l'edilizia residenziale" distingue la «superficie
utile abitabile (Su)», nella quale è compresa la
superficie del pavimento degli alloggi misurata al netto dei
muri perimentali e di quelli interni, delle soglie di
passaggio da un vano all'altro, degli sguinci di porte e
finestre (art. 1, lett. d), dalla «superficie non
residenziale (Snr)», nella quale è compresa la
superficie risultante dalla somma delle superfici di
pertinenza dell'alloggio quali logge, balconi, cantinole e
soffitte e di quelle di pertinenza dell'organismo abitativo
quali androne d'ingresso, porticati liberi, volumi tecnici,
centrali termiche ed altri locali a servizio della
residenza, misurate al netto dei muri perimentali e di
quelli interni (così anche il DM 05/08/1994, art. 6,
recepito dalla Regione Campania nel Decreto Dirigenziale
reg. 26.09.2012, n. 265, Limiti di costo per interventi di
edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata,
pubblicato nel B.U. Campania 08/10/2012, n. 65, richiamato
dall'art. 8, Decreto Dirigenziale reg. 14.01.2009, n. 7,
Aggiornamento limiti di costo per interventi di edilizia
residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, pubblicato
nel B.U. 16.03.2009, n. 18).
3.13. L'art. 2, D.M. 10/05/1977 Min. Lav. Pubb. "Determinazione
del costo di costruzione di nuovi edifici", così
definisce la «Superficie complessiva (Sc)»: «La
superficie complessiva, alla quale, ai fini della
determinazione del costo di costruzione dell'edificio, si
applica il costo unitario a metro quadrato, è costituita
dalla somma della superficie utile abitabile di cui al
successivo art. 3 e dal 60 per cento del totale delle
superfici non residenziali destinate a servizi e accessori (Snr),
misurate al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e
vani di porte e finestre (Sc = Su + 60 per cento Snr). Le
superfici per servizi ed accessori riguardano: a) cantinole,
soffitte, locali motore ascensore, cabine idriche, lavatoi
comuni, centrali termiche, ed altri locali a stretto
servizio delle residenze; b) autorimesse singole o
collettive; c) androni di ingresso o porticati liberi; d)
logge e balconi. I porticati di cui al punto c) sono esclusi
dal computo della superficie complessiva qualora gli
strumenti urbanistici ne prescrivano l'uso pubblico».
L'art. 3 così definisce la «Superficie utile abitabile
(Su): Per superficie utile abitabile si intende la
superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di
murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e
finestre, di eventuali scale interne, di logge e di balconi»
3.14. E' evidente, pertanto, che la
trasformazione, con opere, del sottotetto in residenza
abitabile, comporta certamente la modifica delle relative
superfici che si trasformano da superfici non residenziali
in superfici residenziali, qualificando così il regime
edilizio della relativa modifica di destinazione d'uso come
ristrutturazione edilizia soggetta a permesso di costruire
ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001,
cit..
3.15. Ne consegue che sussistono i reati di cui ai capi A e
B della rubrica. |
EDILIZIA PRIVATA:
Modifica della destinazione d'uso originaria.
L'esecuzione di opere interne che
trasformino l'originaria destinazione di un locale (nella
specie un locale cantina destinato a mini-appartamento)
integra la fattispecie penale laddove priva di permesso per
costruire.
Solo laddove la modificazione della destinazione d'uso non
sia costituita da opere (anche interne) può ritenersi
sufficiente la semplice D.I.A. (oggi S.C.I.A.)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.09.2014 n. 36730 - tratto da e link a
www.lexambiente.it).
---------------
SENTENZA
4. Per quanto, poi, riguarda l'aspetto legato alle
modifiche di destinazione d'uso, è assolutamente concorde la
giurisprudenza di questa Corte Suprema nell'affermare che
l'esecuzione di opere interne che trasformino l'originaria
destinazione di un locale (nella specie un locale cantina
destinato a mini-appartamento) integra la fattispecie penale
laddove priva di permesso per costruire (Sez. F. 30.08.2012
n. 43885, Moscatelli, Rv. 253585; v. anche Sez. 3^
11.12.2008 n. 28277. Zaccari, 242165;idem 20.01.2009, n. 98,
Tralallo, 243101). Solo laddove la modificazione della
destinazione d'uso non sia costituita da opere (anche
interne) può ritenersi sufficiente la semplice D.I.A. (oggi
S.C.I.A.) (Sez. 3^ 13.12.2013 n. 5712, Tortora, Rv. 258686).
A tali criteri di ispirato il Tribunale che ha correttamente
valutato le risultanze delle indagini e conferito al fatto
una qualificazione giuridica assolutamente corretta. |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'art. 19, comma 3, del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 dispone, in modo affatto chiaro, che
"Qualora la destinazione d'uso delle opere indicate nei
commi precedenti...venga comunque modificata nei dieci anni
successivi all'ultimazione dei lavori, il contributo di
costruzione è dovuto nella misura massima corrispondente
alla nuova destinazione, determinata con riferimento al
momento dell'intervenuta variazione".
La disposizione si riferisce in modo omnicomprensivo al
contributo di costruzione, come definito dal precedente art.
16, senza distinzione tra le sue componenti, e quindi tanto
alla quota parte riferibile agli oneri di urbanizzazione,
quanto a quella relativa al costo di costruzione, e trova
giustificazione nel diverso regime, più favorevole per gli
immobili a destinazione industriale o artigianale (per i
quali ai sensi del precedente comma 1 è dovuto contributo
limitato ai soli oneri urbanizzativi) e più gravoso per gli
immobili a destinazione turistica, commerciale, direzionale
e a servizi (per cui invece ai sensi del comma secondo,
oltre agli oneri urbanizzativi è dovuto un contributo
commisurato anche al costo di costruzione, sebbene nella più
ridotta misura ivi specificata, pari al 10% del costo di
costruzione documentato).
Ne consegue che, come chiarito da questa Sezione, la quota
parte relativa al costo di costruzione è comunque dovuta "...anche
in presenza di una trasformazione edilizia che,
indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela
produttiva di vantaggi economici ad essa connessi,
situazione che si verifica per il mutamento di destinazione
o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che
comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons. Stato, Sez.
IV, 20.12.2013, n. 6160; vedi anche 14.10.2011, n. 5539,
quest'ultima peraltro nel senso che anche la sola variazione
di destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria,
da commercio all'ingrosso a commercio al dettaglio,
giustifica il pagamento del contributo, anche per la quota
afferente al costo di costruzione).
D'altro canto, è indiscutibile che il mutamento di
destinazione d'uso, ancorché senza opere edilizie, da una
tipologia utilizzativa artigianale ad altra commerciale
implica un mutamento del carico urbanistico, connesso ai ben
diversi flussi di traffico e clientela, nonché della
redditività, e quindi dei vantaggi economici connessi alla
destinazione e all'attività.
In relazione all'incontestato mutamento della destinazione
d'uso comportante passaggio da una ad altra tipologia e/o
categoria edilizia, d'altra parte, il Comune non era tenuto
a supportare la propria richiesta con alcuna motivazione
specifica, essendo sufficiente il richiamo al presupposto
giuridico-fattuale, ciò che implica il superamento anche dei
rilievi introdotti con la memoria di replica a prescindere
dalla loro ritualità, contestata dal difensore
dell'Amministrazione in sede di discussione.
Binario S.p.A., con sede in Padova, in forza di contratto di
locazione finanziaria con Italease Network S.p.A., ha
acquisito un capannone, ubicato in Padova, al corso Stati
Uniti (distinto in catasto a foglio n. 9 particella n. 461),
realizzato in base al permesso di costruire n. 348 del
28.09.2005, e successive varianti, con specifica
destinazione artigianale, comunicando quindi il mutamento di
destinazione d'uso da artigianale a commerciale (parte
all'ingrosso e parte al dettaglio).
Con note del 174808 del 25.07.2012 e n. 192751 del
20.08.2012 (quest'ultima rettificativa delle somme
richieste) il Comune di Padova, rilevato che anche in
assenza di opere edilizie il mutamento di destinazione d'uso
implicava trasformazione della categoria edilizia e aumento
del carico urbanistico, ha richiesto il pagamento, a titolo
di differenza sul contributo di costruzione dovuto, della
complessiva somma di € 372.239,81 (di cui € 304.843,56 per
costo di costruzione e € 67,396,26 per oneri urbanizzativi).
Con il ricorso in primo grado la società ha proposto
cumulative domande di annullamento e accertamento,
sostenendo che il costo di costruzione non sia dovuto in
assenza di opere edilizie.
...
Nel merito l'appello è destituito di fondamento giuridico e
deve essere rigettato.
L'art. 19, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone,
in modo affatto chiaro, che "Qualora la destinazione
d'uso delle opere indicate nei commi precedenti...venga
comunque modificata nei dieci anni successivi
all'ultimazione dei lavori, il contributo di costruzione è
dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova
destinazione, determinata con riferimento al momento
dell'intervenuta variazione".
La disposizione si riferisce in modo omnicomprensivo al
contributo di costruzione, come definito dal precedente art.
16, senza distinzione tra le sue componenti, e quindi tanto
alla quota parte riferibile agli oneri di urbanizzazione,
quanto a quella relativa al costo di costruzione, e trova
giustificazione nel diverso regime, più favorevole per gli
immobili a destinazione industriale o artigianale (per i
quali ai sensi del precedente comma 1 è dovuto contributo
limitato ai soli oneri urbanizzativi) e più gravoso per gli
immobili a destinazione turistica, commerciale, direzionale
e a servizi (per cui invece ai sensi del comma secondo,
oltre agli oneri urbanizzativi è dovuto un contributo
commisurato anche al costo di costruzione, sebbene nella più
ridotta misura ivi specificata, pari al 10% del costo di
costruzione documentato).
Ne consegue che, come chiarito da questa Sezione, la quota
parte relativa al costo di costruzione è comunque dovuta "...anche
in presenza di una trasformazione edilizia che,
indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela
produttiva di vantaggi economici ad essa connessi,
situazione che si verifica per il mutamento di destinazione
o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che
comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons. Stato,
Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160; vedi anche 14.10.2011, n.
5539, quest'ultima peraltro nel senso che anche la sola
variazione di destinazione d'uso all'interno di una stessa
categoria, da commercio all'ingrosso a commercio al
dettaglio, giustifica il pagamento del contributo, anche per
la quota afferente al costo di costruzione).
D'altro canto, è indiscutibile che il mutamento di
destinazione d'uso, ancorché senza opere edilizie, da una
tipologia utilizzativa artigianale ad altra commerciale
implica un mutamento del carico urbanistico, connesso ai ben
diversi flussi di traffico e clientela, nonché della
redditività, e quindi dei vantaggi economici connessi alla
destinazione e all'attività.
In relazione all'incontestato mutamento della destinazione
d'uso comportante passaggio da una ad altra tipologia e/o
categoria edilizia, d'altra parte, il Comune non era tenuto
a supportare la propria richiesta con alcuna motivazione
specifica, essendo sufficiente il richiamo al presupposto
giuridico-fattuale, ciò che implica il superamento anche dei
rilievi introdotti con la memoria di replica a prescindere
dalla loro ritualità, contestata dal difensore
dell'Amministrazione in sede di discussione.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi o
eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha
ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque
inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.09.2014 n. 4483 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La destinazione abitativa di un
sottotetto, che secondo gli strumenti urbanistici aveva
soltanto una funzione tecnica, costituisce mutamento di
destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio
preventivo del permesso di costruire, atteso che la
variazione avviene tra categorie non omogenee.
Il carattere abusivo dell'opera e la necessità del permesso
di costruire sono elementi sufficienti, ai sensi
dell’applicata disposizione normativa di cui all’art. 31
D.P.R. n. 380/2001, a rendere legittima l'adozione
dell'impugnata ordinanza di demolizione.
Infine, <<il privato sanzionato con l'ordine di demolizione
per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può
invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi
contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se
non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio
può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai
fini della legittimità dell'ordine demolitorio>>.
In relazione al secondo, si deve osservare che le suindicate
caratteristiche dei manufatti realizzati ne imponevano
l’assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Oltre alla già citata giurisprudenza del giudice
amministrativo, si veda, altresì, Cassazione penale, Sez.
III, 8/03/2007, n. 17359, secondo cui <<la destinazione
abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti
urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica, costituisce
mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il
rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la
variazione avviene tra categorie non omogenee>>).
Non sussistono quindi i lamentati vizi, in quanto il
carattere abusivo dell'opera e la necessità del permesso di
costruire sono elementi sufficienti, ai sensi dell’applicata
disposizione normativa di cui all’art. 31 D.P.R. n.
380/2001, a rendere legittima l'adozione dell'impugnata
ordinanza di demolizione.
In ordine alla richiesta di applicazione della sanzione
pecuniaria, si deve poi in contrario osservare che <<il
privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la
costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare
l'applicazione a suo favore della disposizione oggi
contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se
non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio
può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai
fini della legittimità dell'ordine demolitorio>> (cfr.
C.d.S., sez. V, 05.09.2011, n. 4982; TAR Campania, Napoli,
sez. IV, 05.08.2013, n. 4056)
(TAR Campania-Napoli, Sez.
III,
sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
divisione ed il frazionamento di un immobile in due unità,
autonomamente utilizzabili e con distinti ingressi e
servizi, costituisce ristrutturazione edilizia che,
comportando mutamento di destinazione d'uso e comunque un
evidente maggiore carico urbanistico, giustifica il
pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Ad analoghe conclusioni è altresì giunta la giurisprudenza
penale (a conferma della qualificazione in termini di
principio della materia edilizio–urbanistica) laddove,
proprio in relazione a lavori finalizzati a suddividere un
preesistente fabbricato in due unità immobiliari, mediante
opere di diversa distribuzione interna e modifiche di porte
e finestre esterne, si è ritenuto integrato il reato di
costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma 1, lett. b),
d.P.R. 06.06.2001 n. 380) l'esecuzione di interventi di
ristrutturazione edilizia incidenti sul carico urbanistico
realizzati mediante d.i.a. semplice, in quanto attività
edilizia eseguibile esclusivamente in base alla d.i.a.
alternativa al permesso di costruire.
In generale, per una corretta qualificazione dell’intervento
edilizio occorre guardare non solo alla mera opera materiale
bensì al complessivo risultato ottenuto mediante la stessa,
per cui anche semplici interventi edilizi interni che danno
vita ad un'unica vasta unità immobiliare ovvero a due nuove
unità in luogo dell’unica precedente provocano una diversa
utilizzazione dell'area interessata ed una sensibile
variazione quantitativa e qualitativa del carico
urbanistico.
Sul secondo versante, la correttezza della qualificazione
posta a base della determinazione comunale trova il proprio
dirimente sostegno nella palese sussistenza di un aumento
del c.d. carico urbanistico, a fronte della consistenza
dell’intervento progettato.
In proposito, costituisce opinione prevalente, condivisa dal
Collegio ed integrante un’indicazione di principio tale da
fungere da ausilio ermeneutico anche per le discipline
regionali e locali, la considerazione in base alla quale la
divisione ed il frazionamento di un immobile in due unità,
autonomamente utilizzabili e con distinti ingressi e
servizi, costituisce ristrutturazione edilizia che,
comportando mutamento di destinazione d'uso e comunque un
evidente maggiore carico urbanistico, giustifica il
pagamento degli oneri di urbanizzazione (CdS 2838/2012).
Ad analoghe conclusioni è altresì giunta la giurisprudenza
penale (a conferma della qualificazione in termini di
principio della materia edilizio–urbanistica) laddove,
proprio in relazione a lavori finalizzati a suddividere un
preesistente fabbricato in due unità immobiliari, mediante
opere di diversa distribuzione interna e modifiche di porte
e finestre esterne, si è ritenuto integrato il reato di
costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma 1, lett. b),
d.P.R. 06.06.2001 n. 380) l'esecuzione di interventi di
ristrutturazione edilizia incidenti sul carico urbanistico
realizzati mediante d.i.a. semplice, in quanto attività
edilizia eseguibile esclusivamente in base alla d.i.a.
alternativa al permesso di costruire (cfr. ad es. Cass. Pen.
20350/2010).
In generale, per una corretta qualificazione dell’intervento
edilizio occorre guardare non solo alla mera opera materiale
bensì al complessivo risultato ottenuto mediante la stessa,
per cui anche semplici interventi edilizi interni che danno
vita ad un'unica vasta unità immobiliare ovvero a due nuove
unità in luogo dell’unica precedente provocano una diversa
utilizzazione dell'area interessata ed una sensibile
variazione quantitativa e qualitativa del carico
urbanistico.
Nel caso de quo, la suddivisione dell’unità
immobiliare in due immobili distinti appare pacifica, con la
conseguenza che il relativo impatto urbanistico ne impone
una qualificazione che, a norma della pianificazione
comunale vigente, comporta la necessaria presentazione di
uno strumento urbanistico attuativo, senza poter quindi
seguire la strada tentata da parte ricorrente della c.d.
d.i.a. semplice (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 21.07.2014 n. 1155 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titolo abilitativo necessario per il mutamento di
destinazione d'uso.
Il mutamento di destinazione d'uso è
assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché però intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica; mentre è
richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se
il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2014 n. 31465 - tratto da
www.lexambiente.it).
---------------
SENTENZA
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Risulta pacificamente (non venendo contestato neppure
dalla difesa) che gli imputati avevano
realizzato in zona agricola un immobile a due elevazioni
fuori terra, su una superficie coperta di mq. 150 circa,
destinandolo a civile abitazione, mentre il titolo
abilitativo prevedeva la costruzione di un fabbricato per
ricovero di macchine agricole.
Hanno quindi accertato i Giudici di merito che
la costruzione realizzata aveva una destinazione
completamente diversa da quella assentita (da uso agricolo
ad uso abitativo)
-cfr. anche pag. 2 sent. Trib.; e, sulla base di tale
accertamento, hanno, correttamente, ritenuto che, pur non
essendo stato effettuato alcun ampliamento di volume né
opere edilizie aggiuntive, fosse necessario permesso di
costruire, essendo il mutamento di destinazione avvenuto tra
categorie non omogenee.
La giurisprudenza di questa Corte ha,
invero, costantemente ritenuto che il
mutamento della destinazione d'uso che comportasse una
traslazione non precaria dell'immobile da una ad un'altra
categoria urbanistica (uso residenziale, uso agricolo, uso
industriale, uso commerciale) richiedesse, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 8, 25 e 26 L. 28.02.1985 n.
47, il rilascio di concessione edilizia, stante l'incidenza
sui carichi urbanistici
(Cass. sez. 3 n. 45119 del 22.11.2001).
Il mutamento di destinazione d'uso
giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, da
individuarsi tenendo conto della destinazione indicata
nell'ultimo titolo abilitativo relativo all'immobile ovvero
della sua tipologia, nonché delle attitudini funzionali che
il bene stesso viene ad acquisire. Sicché il mutamento di
destinazione d'uso è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA),
purché però intervenga nell'ambito della stessa categoria
urbanistica; mentre è richiesto il permesso di costruire per
le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di
categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri
storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea
(Cfr. Cass. pen. Sez. 3 n. 5712 del 13.12.2013; conf. Cass.
pen. n. 4943 del 2012 Rv. 251984; Cass. n. 9894 del 2009 Rv.
243102).
2.1. Improprio ed inconferente è il richiamo della sentenza
della Corte Costituzionale n. 73 del 1991 che aveva,
piuttosto, ritenuto che, dalla normativa statale in materia
edilizia (artt. 8, 25 e 26 L. 47/1985) emergesse che la
modifica funzionale della destinazione d'uso degli immobili,
non connessa all'esecuzione di interventi edilizi, fosse
assoggettata al regime dell'autorizzazione, ma solo
subordinatamente ad un preventivo apprezzamento di insieme
del territorio diretto a valutare se dalle mutate
utilizzazioni potessero effettivamente derivare situazioni
di incompatibilità con il tessuto urbanistico, apprezzamento
possibile in sede di pianificazione comunale. Tanto che
dichiarava la illegittimità costituzionale dell'art. 76,
primo comma, punto 2 L.Reg. Veneto 27.06.1985 n. 61, come
modificato dall'art. 15, legge reg. Veneto 11.03.1986 n. 9,
per contrasto con l'art. 117 Cost., in quanto, in difformità
del principio della legislazione statale, assoggettava i
suddetti mutamenti di destinazione d'uso, direttamente ed
indiscriminatamente, ad autorizzazione. |
EDILIZIA PRIVATA:
Finalità della destinazione d'uso.
La destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli
strumenti urbanistici aveva, come nella specie, soltanto una
funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione
d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del
permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra
categorie non omogene.
La destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le
loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di
queste incidono negativamente sull'organizzazione dei
servizi, alterando appunto il complessivo assetto
territoriale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.05.2014 n. 20773 - tratto da
www.lexambiente.it).
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SENTENZA
4. Quanto alla doglianza circa la realizzazione di lavori
che non avrebbero comportato difformità plano-volumetriche
rispetto a quelli assentiti, i ricorrenti reclamano
l'applicabilità della fattispecie di cui all'art. 10, comma
2, d.P.R. n. 380 del 2001 in relazione all'art. 2, comma 1,
lett. f), della legge regione Campania 28.11.2001, n. 19
giungendo a sostenere come, nel caso di specie, non fosse
necessario né il permesso di costruire e né l'equipollente
dichiarazione di inizio di attività disciplinata dall'art.
22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001.
La Corte territoriale ha correttamente
osservato che le opere edilizie le quali, come nella specie,
comportano una modifica della destinazione d'uso richiedono
il preventivo rilascio del permesso di costruire;
lo stesso art. 2 legge regionale Campania n. 19 del 2001
prevede che i mutamenti di destinazione d'uso di immobili o
loro parti, non siano subordinati alla semplice Dia quando
importino, come nella specie, aumenti di superfici abitabili
(si è trattato di 100 mq) ovvero solo quando siano
compatibili con le categorie consentite dalla strumentazione
urbanistica per le singole zone territoriali omogenee,
condizione questa che, nel caso di specie, non è stato
provato che ricorresse.
Sul punto, i ricorrenti non hanno affatto replicato con la
conseguenza che il motivo di ricorso è del tutto generico.
Questa Corte,
in precedenti decisioni, ha peraltro più
volte affrontato la questione concernente l'evoluzione della
disciplina riguardante la materia del cambio di destinazione
d'uso di immobili o di loro parti soprattutto con
riferimento a casi più complessi, che esulano dalla
fattispecie, in cui il cambio d'uso avvenga senza
l'esecuzione di opere.
E' qui sufficiente ricordare che l'art. 10, comma 2, d.P.R.
06.06.2001, n. 380, ribadendo le previsioni contenute
nell'art. 2, comma 60, legge n. 662 del 1996, dispone che le
Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o
meno a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti sono subordinati a permesso di costruire o a
denuncia di attività.
Per quanto qui interessa, la Regione Campania, con la legge
28.11.2001, n. 19, art. 2, modificata dalla L.R. 22.12.2004,
n. 16, ha stabilito che possono essere realizzati in base a
semplice denunzia d'inizio attività (oggi SCIA) "i
mutamenti di destinazione d'uso d'immobili o loro parti, che
non comportino interventi di trasformazione dell'aspetto
esteriore, e di volumi e superfici", aggiungendo che "la
nuova destinazione d'uso deve essere compatibile con le
categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le
singole zone territoriali omogenee" (comma 1, lett. f).
Questa Corte ha chiarito che la
destinazione d'uso è un elemento che qualifica la
connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di
interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della
pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto
funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate
dagli strumenti urbanistici in considerazione della
differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e
disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per
qualità e quantità proprio a seconda della diversa
destinazione di zona
(Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo).
L'organizzazione del territorio comunale e
la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate
attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso
in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non
consentite di queste incidono negativamente
sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il
complessivo assetto territoriale
(Sez. 3, n. 24096 del 07/03/2008, Desimine; Sez. 3, Sentenza
n. 35177 del 12/07/2001, dep. 21/10/2002. Cinquegrani Rv.
222740).
E' perciò necessario dimostrare che -a
condizioni esatte ossia in presenza di opere che non
comportino interventi di trasformazione dell'aspetto
esteriore, e di volumi e superfici- il cambio della
destinazione presenti il requisito dell'omogeneità nel senso
che il mutamento sia intervenuto tra categorie urbanistiche
omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie
urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, di
regola, un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Nel caso di specie, i Giudici del merito hanno accertato che
il sottotetto di proprietà degli imputati era stato
trasformato abusivamente in un'unità abitativa attraverso
l'esecuzione di lavori edili (tramezzature e impianti),
ricavandone un appartamento composto da cucina, salone, due
camere da letto e due bagni.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte
la destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli
strumenti urbanistici aveva, come nella specie, soltanto una
funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione
d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del
permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra
categorie non omogene
(Sez. 3, n. 17359 del 08/03/2007, P.M. in proc. Vazza, Cc.
Rv. 236493). |
EDILIZIA PRIVATA:
La variazione d’uso funzionale “realizzata in
parziale difformità ai titoli abilitativi”, non può essere
assimilata (in assenza di contestazione circa la
realizzazione di opere edili) agli interventi eseguiti in
parziale difformità del permesso di costruire, interventi
considerati dall’art. 34 del D.P.R. e per i quali la stessa
norma prevede la rimozione o la demolizione a spese dei
responsabili dell’abuso.
Pertanto, appare evidente come il richiamo all’art. 34 del
D.P.R. n. 380/2001, operato dall’Amministrazione per imporre
un uso corretto dell’immobile, sia del tutto inappropriato.
Il ricorso è fondato.
Non è dubbio che i ricorrenti utilizzino, per abitarvi, un
immobile sito in zona artigianale e destinato dallo
strumento urbanistico ad uso non residenziale (ufficio).
Il Comune di Ostuni, pertanto, verificata l’intervenuta
variazione d’uso realizzata in parziale difformità al titolo
abilitativo, ha ritenuto, per un verso, di dover ordinare ai
responsabili, ex art. 34 del D.P.R., di adeguare la
situazione di fatto dell’immobile alla situazione di
diritto, d’altro canto, di applicare la sanzione
amministrativa pecuniaria di € 2.582,00, prevista dall’art.
47 della legge regionale n. 56/1980 (da lire 1.000.000. a
lire 5.000.000).
Ora, appare evidente come il richiamo all’art. 34 del D.P.R.
n. 380/2001, operato dall’Amministrazione per imporre un uso
corretto dell’immobile, sia del tutto inappropriato.
Nella fattispecie infatti, contrariamente a quanto sembra
desumersi dal provvedimento impugnato, la variazione d’uso
funzionale “realizzata in parziale difformità ai precitati
titoli abilitativi”, non può essere assimilata (in assenza
di contestazione circa la realizzazione di opere edili) agli
interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di
costruire, interventi considerati dall’art. 34 del D.P.R. e
per i quali la stessa norma prevede la rimozione o la
demolizione a spese dei responsabili dell’abuso.
Sicché, ferma restando la possibilità dell’Amministrazione
di regolare la destinazione d’uso degli immobili, è fuor di
dubbio che nella specie siano stati utilizzati strumenti
impropri sotto il profilo normativo (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 12.05.2014 n. 1219 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
materia di cambio di destinazione d'uso necessita
distinguere tra:
I) mutamento d'uso “funzionale” di un locale, inteso quale
variazione di destinazione degli immobili non implicante la
realizzazione di opere edilizie, per il quale non è
necessario il permesso di costruire: difatti, lo stesso è
espressione dello “ius utendi” e non già dello “ius
aedificandi”;
II) mutamento di destinazione d'uso non già funzionale, bensì
“strutturale” (e, cioè, connesso e conseguente
all'esecuzione di opere) il quale, al contrario, necessita
di apposito titolo concessorio il cui difetto legittima la
demolizione delle opere stesse: al riguardo si è osservato
che in detta evenienza rileva il profilo risultante dalla
combinazione dei due elementi individuati (il mutamento di
destinazione d'uso del fabbricato interessato ai lavori e la
realizzazione di opere a quello finalizzata) sicché andranno
considerate abusive, qualora realizzate in assenza del
titolo edilizio, non solo le opere di costruzione vere e
proprie ma anche quei lavori interni che, per quanto
modesti, appaiono necessari a rendere possibile la nuova
destinazione.
Con riguardo alle ulteriori censure che attengono al merito
della sanzione edilizia irrogata, occorre distinguere e, per
cogliere le ragioni della decisione giova premettere una
sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento
che attiene al mutamento di destinazione, come tratteggiato
dalla giurisprudenza di questo Tribunale (TAR Campania,
Napoli, Sez. VIII, 23.02.2011 n. 1072; Sez. II, 14.03.2006 n. 2931).
L’istituto in argomento ha trovato una prima organica
disciplina nella L. 28.02.1985 n. 47.
Secondo l’autorevole lettura offerta dalla Corte
Costituzionale (sentenza 11.02.1991 n. 73), la
precitata legge, per quel che riguarda il mutamento di
destinazione, all'art. 8 ne prevedeva l'assoggettabilità al
regime della concessione se connessa a variazioni essenziali
“del progetto”, comportanti variazione degli standards
previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968.
Doveva, quindi, ritenersi esclusa dal regime della
concessione ogni ipotesi di mutamento di destinazione non
connessa con modifiche strutturali dell'immobile.
Viceversa, il mutamento di destinazione comunque
accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il quale
non sia altrimenti prevista la concessione), anche se solo
interno, era invece assoggettato dall'art. 26 della L.
47/1985 al regime dell'autorizzazione, ciò desumendosi
dall'eccezione ivi espressamente prevista rispetto al regime
ordinario delle opere interne.
Del mutamento di destinazione senza opere, si occupava,
invece, l'ultimo comma dell'art. 25 della legge statale
citata che attribuiva alle Regioni il potere di fissare con
legge i casi in cui il mutamento di destinazione d'uso,
anche senza opere, può essere soggetto a concessione oppure
ad autorizzazione.
In seguito, nel novellato quadro ordinamentale, l’art. 10
del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni
stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a
denuncia di inizio attività.
La Regione Campania, ai sensi dell'art. 2 della L.Reg. 28.11.2001 n. 19, ha previsto che possono essere
realizzati in base a semplice denunzia d'inizio attività,
tra gli altri, “i mutamenti di destinazione d'uso d'immobili
o loro parti, che non comportino interventi di
trasformazione dell'aspetto esteriore, e di volumi e
superfici”.
Viceversa, restano soggetti a permesso di costruire i
mutamenti di destinazione d'uso, con opere che incidono
sulla sagoma dell'edificio o che determinano un aumento
volumetrico, che risulti compatibile, con le categorie
edilizie previste per le singole zone omogenee (comma 6)
quelli con opere che incidano sulla sagoma, sui volumi e
sulle superfici, con passaggio di categoria edilizia, purché
tale passaggio sia consentito dalla norma regionale (comma
7) ovvero quelli programmati nelle zone agricole - zona E
(comma 8).
Di contro, ai sensi del comma 5, il mutamento di
destinazione d'uso senza opere, nell'ambito di categorie
compatibili alle singole zone territoriali omogenee, è
libero.
Tali principi sono stati espressi anche da questa Sezione
(TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 10.11.2010 n.
23752) che ha distinto tra:
I) mutamento d'uso “funzionale” di un locale, inteso quale
variazione di destinazione degli immobili non implicante la
realizzazione di opere edilizie, per il quale non è
necessario il permesso di costruire: difatti, lo stesso è
espressione dello “ius utendi” e non già dello “ius aedificandi” (TAR Lazio, Latina,
04.05.2010 n. 686);
II) mutamento di destinazione d'uso non già funzionale,
bensì “strutturale” (e, cioè, connesso e conseguente
all'esecuzione di opere) il quale, al contrario, necessita
di apposito titolo concessorio il cui difetto legittima la
demolizione delle opere stesse: al riguardo si è osservato
che in detta evenienza rileva il profilo risultante dalla
combinazione dei due elementi individuati (il mutamento di
destinazione d'uso del fabbricato interessato ai lavori e la
realizzazione di opere a quello finalizzata) sicché andranno
considerate abusive, qualora realizzate in assenza del
titolo edilizio, non solo le opere di costruzione vere e
proprie ma anche quei lavori interni che, per quanto
modesti, appaiono necessari a rendere possibile la nuova
destinazione (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
16.04.2014 n. 2174 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
mutamento di destinazione d’uso senza opere deve intendersi,
in via di principio, subordinato a s.c.i.a. potendo,
comunque, implicare, sia pure in assenza di attività
costruttive, una non irrilevante trasformazione dell’assetto
urbanistico-edilizio acquisito dal territorio.
--------------
Al livello delle fonti normative statali, l'art. 32, comma
1, del d.p.r. n. 380/2001, qualifica come ‘variazione
essenziale’ –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 con
la demolizione e la riduzione in pristino– il mutamento di
destinazione d'uso (comunque realizzato, anche senza opere
edilizie), che implichi una variazione degli standard
previsti dal d.m. n. 1444/1968.
Appare, quindi, evidente, in primis, che il mutamento di
destinazione d'uso, anche senza attività costruttive, non
può integrare, di per sé, un’operazione urbanistico-edilizia
per così dire ‘neutra’, affrancata dall’assoggettamento a
qualsivoglia titolo abilitativo.
Ed appare evidente, altresì, che la sua realizzazione
abusiva non possa legittimarsi esclusivamente attraverso il
pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo
l'amministrazione verificare se essa non abbia inciso anche
sul carico urbanistico di zona.
In questo senso, si è ritenuto che, indipendentemente
dall'esecuzione fisica di opere, il mutamento di
destinazione d'uso è rilevante, se avviene fra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
dovendosi, in tal caso, vagliare l’eventuale aggravio del
carico urbanistico e la connessa trasformazione edilizia,
produttiva di vantaggi economici derivanti dall'innovata
utilizzazione, anche senza opere.
Venendo ora a scrutinare il ricorso,
ragioni di coerenza logico-espositiva che verranno ad
appalesarsi compiutamente in appresso inducono ad anteporre
l’esame delle censure rivolte al rilievo di assenza di s.c.i.a., formulato nell’impugnata nota del 26.01.2012, prot. n. 2687.
6.1. Al riguardo, giova, in primis, rammentare che –a
smentita degli assunti di parte ricorrente– il mutamento di
destinazione d’uso senza opere deve intendersi, in via di
principio, subordinato a s.c.i.a. (cfr. Cass. civ., sez. II,
22.11.2004, n. 22041), potendo, comunque, implicare,
sia pure in assenza di attività costruttive, una non
irrilevante trasformazione dell’assetto urbanistico-edilizio
acquisito dal territorio.
6.2. Né vale addurre, in contrario al superiore approdo, il
tenore dell’invocato art. 2, comma 5, della l.r. Campania n.
19/2001:
“Il mutamento di destinazione d’uso senza opere –recita la
richiamata norma legislativa regionale–, nell’ambito di
categorie compatibili alle singole zone territoriali
omogenee, è libero”.
Ora, tale disposizione deve essere interpretata alla luce
del suo stesso tenore logico-letterale, nonché dei principi
fondamentali e delle più generali regole rivenienti dalla
legislazione statale.
In particolare, il citato 2, comma 5, della l.r. Campania
n. 19/2001, se, da un lato, qualifica espressamente come
“libero” il cambio destinazione d’uso senza opere, d’altro
lato, ne circoscrive l’ammissibilità alle sole “categorie
compatibili alle singole zone territoriali omogenee”.
Nel contempo, al livello delle fonti normative statali,
l'art. 32, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, qualifica come
‘variazione essenziale’ –sanzionata ai sensi del precedente
art. 31 con la demolizione e la riduzione in pristino– il
mutamento di destinazione d'uso (comunque realizzato, anche
senza opere edilizie), che implichi una variazione degli
standard previsti dal d.m. n. 1444/1968.
Appare, quindi, evidente, in primis, che il mutamento di
destinazione d'uso, anche senza attività costruttive, non
può integrare, di per sé, un’operazione urbanistico-edilizia
per così dire ‘neutra’, affrancata dall’assoggettamento a
qualsivoglia titolo abilitativo.
Ed appare evidente, altresì, che la sua realizzazione
abusiva non possa legittimarsi esclusivamente attraverso il
pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo
l'amministrazione verificare se essa non abbia inciso anche
sul carico urbanistico di zona.
In questo senso, si è ritenuto che, indipendentemente
dall'esecuzione fisica di opere, il mutamento di
destinazione d'uso è rilevante, se avviene fra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
dovendosi, in tal caso, vagliare l’eventuale aggravio del
carico urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546) e la connessa trasformazione edilizia,
produttiva di vantaggi economici derivanti dall'innovata
utilizzazione, anche senza opere (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
14.10.2011, n. 5539; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Ciò posto, nella specie, l’art. 37 del regolamento edilizio
comunale di Maddaloni stabilisce che i locali interrati
possono essere adibiti unicamente a cantine, depositi,
magazzini, autorimesse e impianti termici a servizio
dell’edificio.
Ebbene, risulta innegabile che il passaggio da una simile
vocazione funzionale a quella di palestra implichi
incremento del carico urbanistico dovuto alla presenza di
persone impegnate in attività sportive.
In considerazione di ciò, non può, in via di principio,
disconoscersi all’amministrazione il potere di verificare la
compatibilità del divisato mutamento di destinazione d’uso
con le disposizioni urbanistiche locali, oltre che con le
condizioni di sicurezza, igiene e salubrità ex art. 23,
comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 (vieppiù indefettibili nella
controversa di adibizione a palestra, e solo parzialmente
acclarate nella nota dell’ASL di Caserta, prot. n. 601/UOPC,
del 12.04.2012, depositata in giudizio il 07.12.2013): potere –questo– che, per essere in concreto
esercitabile, richiede necessariamente (almeno) una
preventiva segnalazione (appunto, s.c.i.a.) da parte
dell’interessato, finalizzata a informare i competenti
uffici dell’iniziativa assunta.
6.3. In mancanza di una simile segnalazione, volta a
consentire i suindicati controlli di compatibilità, è,
dunque, da reputarsi legittimo l’ordine di ripristino
impartito dal Comune di Maddaloni, siccome inteso ad evitare
un (formalmente) illecito e (materialmente) irreversibile
cambio di destinazione d’uso (cfr. TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 27.07.2012, n. 2146)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.03.2014 n. 1881 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sul cambio di destinazione d’uso da deposito/garage a
palestra.
A norma dell'art. 32, comma 4, della l. n. 383/2000, “la
sede delle associazioni di promozione sociale ed i locali
nei quali si svolgono le relative attività sono compatibili
con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal
decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 …
indipendentemente dalla destinazione urbanistica”.
L'intrinseca meritevolezza delle finalità perseguite dalle
associazioni di promozione sociale ha indotto, dunque, il
legislatore a prevedere facilitazioni non soltanto sul piano
fiscale, ma anche su quello amministrativo, con specifico
riguardo agli aspetti urbanistici, proprio allo scopo di
agevolare l'individuazione delle sedi e dei locali dove
svolgere le attività istituzionali.
In virtù della emanata disciplina agevolativa, le sedi e i
locali in parola sono, quindi, ubicabili:
a) in tutte le parti del territorio urbano, stante la loro
compatibilità con ogni destinazione d'uso urbanistico
rilevante ai sensi del d.m. n. 1444/1968;
b) a prescindere dalla destinazione d'uso impressa
specificamente e funzionalmente rispetto al singolo
fabbricato.
Da quanto sopra discende l'illegittimità della nota
comunale, laddove esclude la configurabilità del divisato
cambio di destinazione d’uso da deposito/garage a palestra,
poiché in contrasto con l’art. 37 del regolamento edilizio
comunale.
Sostenere, infatti, che l’operazione posta in essere dal
ricorrente non sia compatibile con la destinazione dei piani
interrati unicamente a cantine, depositi, magazzini,
autorimesse e impianti termici a servizio dell’edificio,
vuol dire disconoscere la portata derogatoria del citato
art. 32, comma 4, della l. n. 383/2000, con conseguente
palese illegittimità della correlativa determinazione
amministrativa.
Innanzitutto, a norma del
citato art. 32, comma 4, della l. n. 383/2000, “la sede
delle associazioni di promozione sociale ed i locali nei
quali si svolgono le relative attività sono compatibili con
tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto
del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 …
indipendentemente dalla destinazione urbanistica”.
L'intrinseca meritevolezza delle finalità perseguite
dalle associazioni di promozione sociale (fra le quali va
annoverata, non essendo ciò materia di contestazione fra le
parti, anche la Energy Planet 2003) ha indotto, dunque, il
legislatore a prevedere facilitazioni non soltanto sul piano
fiscale, ma anche su quello amministrativo, con specifico
riguardo agli aspetti urbanistici, proprio allo scopo di
agevolare l'individuazione delle sedi e dei locali dove
svolgere le attività istituzionali.
In virtù della emanata disciplina agevolativa, le sedi e i
locali in parola sono, quindi, ubicabili:
a) in tutte le
parti del territorio urbano, stante la loro compatibilità
con ogni destinazione d'uso urbanistico rilevante ai sensi
del d.m. n. 1444/1968;
b) a prescindere dalla destinazione
d'uso impressa specificamente e funzionalmente rispetto al
singolo fabbricato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.01.2013, n. 181; TAR Puglia, Lecce, sez. I,
05.06.2008, n.
1653; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.07.2013, n.
1911; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 18.10.2013, n.
1404).
Da quanto sopra discende l'illegittimità della nota del
24.04.2012, prot. n. 12194, laddove esclude la
configurabilità del divisato cambio di destinazione d’uso da
deposito/garage a palestra, poiché in contrasto con l’art.
37 del regolamento edilizio comunale.
Sostenere, infatti, che l’operazione posta in essere dal
ricorrente non sia compatibile con la destinazione dei piani
interrati unicamente a cantine, depositi, magazzini,
autorimesse e impianti termici a servizio dell’edificio,
vuol dire disconoscere la portata derogatoria del citato
art. 32, comma 4, della l. n. 383/2000, con conseguente
palese illegittimità della correlativa determinazione
amministrativa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.03.2014 n. 1881 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: MUTAMENTO
DI DESTINAZIONE D'USO SENZA OPERE ED INDIVIDUAZIONE DEL
CORRETTO TITOLO ABILITATIVO.
Il mutamento di destinazione d'uso senza
opere è assoggettato a DIA (ora SCIA), purché intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è
richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se
il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea.
La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in
esame, ad analizzare il regime giuridico richiesto, a
seguito dell’evoluzione normativa e dell’interpretazione
giurisprudenziale, per quella categoria di interventi
edilizi che comportino il cd. mutamento di destinazione
d’uso di un’unità immobiliare.
La vicenda processuale trae origine da un decreto di
sequestro preventivo che era stato disposto con riferimento
ad una serie di reati urbanistici, edilizi e paesaggistici
nei confronti di un soggetto cui era stato addebitato di
avere, quale legale rappresentante di una società che aveva
in gestione una struttura alberghiera, variato la
destinazione d'uso delle pertinenze dell'hotel, trasformando
i locali, che in precedenza erano adibiti a deposito e
lavanderia, in camere per gli ospiti e ciò in assenza del
permesso di costruire e del necessario nulla osta
paesaggistico.
Il Tribunale del riesame adito, nel respingere l’istanza di
dissequestro, aveva osservato come, in mancanza di un titolo
che autorizzasse il mutamento della destinazione d'uso,
fosse ampiamente configurato il fumus dei reati posti
a fondamento del provvedimento cautelare, tanto più che
risultava un espresso diniego del comune rispetto ad una
istanza dell'interessato avanzata per sanare ex post
il già realizzato mutamento della destinazione d'uso dei
locali, mutamento che, secondo il Tribunale, avrebbe dovuto
necessariamente comportare, per adattare i locali
originariamente destinati a deposito e lavanderia in camere
per ospiti dell'albergo, anche la realizzazione di opere
eseguite in assenza di permesso. In presenza poi di un
aggravio del carico urbanistico, desumibile dal
considerevole aumento della ricettività alberghiera quale
diretta conseguenza del realizzato mutamento della
destinazione d'uso, doveva ritenersi integrato, ad avviso
del tribunale del riesame, anche il periculum in
mora, derivando da ciò la conferma del decreto di sequestro
preventivo.
L’ordinanza del tribunale veniva impugnata davanti alla
Cassazione, sostenendosi che, in base alla normativa
regionale, secondo la quale gli interventi edilizi che non
comportino trasformazione dell'aspetto esteriore e dei
volumi e di superfici possono essere realizzati con semplice
DIA, sicché il mutamento di destinazione d'uso senza opere
nell'ambito di categorie compatibili alle singole zone
territoriali omogenee è libero; da ciò ne sarebbe derivato,
dunque, che mentre il mutamento di destinazione da
lavanderia -deposito in struttura ricettiva richiederebbe il
permesso di costruire non svolgendosi- all'interno di
categorie compatibili alle zone territoriali omogenee, tale
permesso non sarebbe richiesto qualora il mutamento della
destinazione d'uso senza opere rientri nell'ambito di
categorie compatibili alla medesima zona territoriale
omogenea.
La Cassazione ha però dichiarato inammissibile il ricorso
ritenendolo manifestamente infondato. Ed invero, hanno
osservato sul punto i giudici della Suprema Corte, non è
sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione
d'uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie
interne ma occorre dimostrare che il cambio della
destinazione presenti il requisito dell'omogeneità nel senso
che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee
perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche
disomogenee di utilizzazione, determina, come nella specie,
un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Ed allora, nell’affermare il principio di cui in massima
quanto all’individuazione del titolo abilitativo necessario,
deve ritenersi giuridicamente rilevante solo il mutamento
di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico, atteso che nell'ambito
delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma
non diversi regimi urbanistico-contributivi stante le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 05.02.2014 n. 5712 -
tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il mutamento di destinazione d'uso,
senza opere, assume valore giuridicamente rilevante solo
quando si verifichi un passaggio tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
mentre è giuridicamente irrilevante allorquando il cambio di
destinazione non determini un tale passaggio, salvo che nei
centri storici dove il mutamento della destinazione d'uso
rileva anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
---------------
La ragione per la quale il cambio di
destinazione d'uso senza realizzazione di opere non
costituisce un'attività del tutto priva di vincoli risiede
nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate le
regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed
ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto ed
inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri
prefigurati dalla strumentazione urbanistica,
potendo risultare pregiudicato anche
l'interesse patrimoniale dell'ente perché gli interessati
sarebbero altrimenti indotti a chiedere il rilascio di un
titolo edilizio che sconta il pagamento di un minor
contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare
liberamente e gratuitamente la destinazione d'uso originaria
senza corrispondere i maggiori oneri che derivano dal
maggior carico urbanistico.
Questa Corte ha chiarito che
la destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione. Essa individua il bene
sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di
zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione
della differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a seconda della
diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e
la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate
attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso
in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non
consentite di queste incidono negativamente
sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il
complessivo assetto territoriale.
Perciò
non è sufficiente dimostrare che il
mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in
assenza di opere edilizie interne ma occorre dimostrare che
il cambio della destinazione presenti il requisito
dell'omogeneità nel senso che sia intervenuto tra categorie
urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe
categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione,
determina, come nella specie, un aggravamento del carico
urbanistico esistente.
Va quindi conclusivamente ribadito che
è giuridicamente rilevante solo il
mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, posto che
nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti
di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi
stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici
nell'ambito della medesima categoria.
Ne consegue che
il mutamento di destinazione d'uso senza
opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è
richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se
il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea.
---------------
La diversa destinazione dei locali lavanderia-deposito in
camere d'albergo, per la diversità di tipologia degli
ambienti, aveva di certo comportato, secondo il Collegio
cautelare, anche l'esecuzione di opere quantomeno interne di
adattamento ed in ogni caso determinato un consistente
aggravio del carico urbanistico, avendo la struttura
aumentato significativamente la sua ricettività ed avendo,
senza permesso di costruire, realizzato nuovi vani
abitabili, alterando la consistenza originaria del manufatto
in conseguenza dell'avvenuto cambio di destinazione
incidente sul carico urbanistico.
---------------
L'incidenza di un immobile sul carico
urbanistico va valutata secondo indici concreti e può essere
rappresentata, a titolo esemplificativo, dalla consistenza
dell'insediamento edilizio, dal numero di nuclei familiari
presenti, dall'incremento della domanda di strutture, opere
collettive e dotazione minima di spazi pubblici per
abitante, dalla necessità di salvaguardare l'ambiente e la
staticità dei luoghi e, infine, dalla possibilità che le
opere non ancora ultimate siano portate a compimento e le
unità non ancora abitate siano occupate.
Perciò
la sussistenza del pericolo derivante dalla
libera disponibilità del bene pertinente al reato va
parametrata alla reale compromissione degli interessi
attinenti al territorio ed ad ogni altro dato utile a
stabilire in che misura il godimento e la disponibilità
attuale della cosa da parte dell'indagato o di terzi possa
implicare una effettiva ulteriore lesione del bene giuridico
protetto, ovvero se l'attuale disponibilità del manufatto
costituisca un elemento neutro sotto il profilo della
offensività.
Invero,
la nozione di "carico urbanistico",
deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è
costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni,
uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio
(opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade,
fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di
erogazione del gas) che deve essere proporzionato
all'insediamento primario, ossia al numero degli abitanti
insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro
svolte. Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene
prodotto dall'insediamento primario come domanda di
strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero
delle persone insediate su di un determinato territorio. Si
tratta di un concetto, non definito dalla vigente
legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione
in vari istituti del diritto urbanistico, tra i quali:
a) gli standards urbanistici di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444,
che richiedono l'inclusione, nella formazione degli
strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici
per abitante a seconda delle varie zone;
b) la sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di
urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici
utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di
nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento;
c) il parallelo esonero da contributo di quelle opere che non
comportano nuovo insediamento, come le opere di
urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione.
Il carico urbanistico deve quindi
intendersi come rapporto tra insediamenti e servizi in un
determinato territorio, attesa la potenziale incidenza di un
insediamento abitativo sulla distribuzione degli impianti
urbanistici e dei servizi pubblici, con la conseguenza che
il suo aggravamento non è altro che l'effetto che viene
prodotto da una condotta ulteriore rispetto alla semplice
consumazione del reato e, cioè, dall'incidenza indebita che
l'insediamento primario produce su quello secondario in
termini di domanda di strutture ed opere collettive.
---------------
2. Il primo ed il secondo motivo, essendo tra
loro strettamente collegati, possono essere congiuntamente
trattati.
Il Tribunale distrettuale, sulla base degli atti di causa,
ha accertato che i locali in sequestro, precedentemente
adibiti a deposito e a lavanderia, sono stati trasformati in
camere per gli ospiti dell'albergo, con conseguente
modificazione della destinazione d'uso, in assenza del
rilascio dei necessari titoli abilitativi.
Il Collegio cautelare ha tratto ulteriore conferma di ciò
dal fatto che lo stesso ricorrente aveva chiesto, senza
ottenere il permesso, di essere autorizzato al cambio di
destinazione ad uso ricettivo delle opere in sequestro ed il
Tribunale del riesame ha ricavato, anche da ciò, solido
argomento per ritenere, da un lato, la sussistenza del
fumus commissi delicti dei reati urbanistici e
paesaggistici, in considerazione anche dei vincoli esistenti
sulla zona, e la esistenza, dall'altro, del periculum in
mora in considerazione dell'aggravamento del carico
urbanistico che il mutamento della destinazione d'uso
dell'immobile aveva comportato.
L'assunto del ricorrente è che, avuto anche riguardo alla
normativa regionale, non necessitava il rilascio di alcun
titolo abilitativo perché il cambio d'uso sarebbe
intervenuto, quanto ai parametri urbanistici, entro
categorie omogenee, essendo stati investiti dalla
trasformazione i locali in precedenza destinati ad
abitazione per i dipendenti che, senza il ricorso ad opera
alcuna, sarebbero stati destinati a camere di albergo per
gli ospiti.
A prescindere che un tale assunto cozza inevitabilmente con
i precedenti comportamenti concludenti avviati dallo stesso
ricorrente, che pure aveva avvertito la necessità di essere
autorizzato al cambio di destinazione d'uso, va precisato
che oggetto del sequestro, per quanto indicato nel
dispositivo del titolo cautelare, sono i locali, già
destinati a deposito e lavanderia, di pertinenza
dell'albergo de quo (con riferimento ai quali è lo stesso
ricorrente ad ammettere che, in caso di cambio d'uso,
sarebbe stato necessario il previo rilascio del titolo
abilitativo) e non dunque le altre parti dell'edificio, cui
pure il ricorrente accenna nel ricorso e che pertanto
esulano dal petitum cautelare.
3. Ciò posto, è tuttavia utile delineare, in breve,
l'evoluzione della disciplina riguardante la materia del
cambio di destinazione d'uso di immobili o di loro parti al
solo fine di meglio cogliere le specificità relative ai casi
in cui il cambio d'uso avvenga senza l'esecuzione di opere
(ulteriore profilo di doglianza sostenuto dal ricorrente).
3.1. L'art. 2, comma 60, della legge 23.12.1996, n. 662,
novellando l'art. 25, ultimo comma, della legge 28.02.1985,
n. 47, disponeva che le leggi regionali stabiliscono quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a
concessione, e quali mutamenti connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti
siano subordinati ad autorizzazione.
L'art. 10, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ribadendo le
previsioni contenute nell'art. 2, comma 60, legge n. 662 del
1996, dispone che le Regioni stabiliscono con legge quali
mutamenti, connessi o meno a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di attività.
3.2. In particolare la Regione Campania, con la legge
28.11.2001, n. 19, art. 2, modificata dalla L.R. 22.12.2004,
n. 16, ha stabilito che possono essere realizzati in base a
semplice denunzia d'inizio attività (oggi SCIA) "i
mutamenti di destinazione d'uso d'immobili o loro parti, che
non comportino interventi di trasformazione dell'aspetto esteriore,
e di volumi e superfici",
aggiungendo che "la nuova destinazione d'uso deve essere
compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione
urbanistica per le singole zone territoriali omogenee"
(comma 1, lett. f).
Inoltre, per quanto qui interessa, ha stabilito che "il
mutamento di destinazione d'uso senza opere, nell'ambito di
categorie compatibili alle singole zone territoriali
omogenee, è libero" (comma 5).
Ne consegue che il mutamento di destinazione d'uso, senza
opere, assume valore giuridicamente rilevante solo quando si
verifichi un passaggio tra categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico, mentre è giuridicamente
irrilevante allorquando il cambio di destinazione non
determini un tale passaggio, salvo che nei centri storici
dove il mutamento della destinazione d'uso rileva anche
all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n.
9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243102).
La ragione per la quale il cambio di destinazione d'uso
senza realizzazione di opere non costituisce un'attività del
tutto priva di vincoli risiede nel fatto che ne
risulterebbero altrimenti vulnerate le regole generali
finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto
del territorio, con conseguente concreto ed inevitabile
pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica (Cons. Stato n. 759 del
25.05.2012), potendo risultare pregiudicato anche
l'interesse patrimoniale dell'ente perché gli interessati
sarebbero altrimenti indotti a chiedere il rilascio di un
titolo edilizio che sconta il pagamento di un minor
contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare
liberamente e gratuitamente la destinazione d'uso originaria
senza corrispondere i maggiori oneri che derivano dal
maggior carico urbanistico.
Questa Corte ha chiarito che la destinazione d'uso è un
elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e
risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di
pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa
individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando
le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici
in considerazione della differenziazione infrastrutturale
del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa
sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a
seconda della diversa destinazione di zona (Sez. 3, n. 9894
del 20/01/2009, Tarallo).
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le
loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di
queste incidono negativamente sull'organizzazione dei
servizi, alterando appunto il complessivo assetto
territoriale (Sez. 3, n. 24096 del 07/03/2008, Desimine;
Sez. 3, Sentenza n. 35177 del 12/07/2001, dep. 21/10/2002.
Cinquegrani Rv. 222740).
Perciò non è sufficiente dimostrare che il mutamento della
destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere
edilizie interne ma occorre dimostrare che il cambio della
destinazione presenti il requisito dell'omogeneità nel senso
che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee
perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche
disomogenee di utilizzazione, determina, come nella specie,
un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Va quindi conclusivamente ribadito che è giuridicamente
rilevante solo il mutamento di destinazione d'uso tra
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie
possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi
urbanistico-contributivi stante le sostanziali equivalenze
dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima
categoria.
Ne consegue che il mutamento di destinazione d'uso senza
opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è
richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se
il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea.
4. Chiarita dunque la ratio essendi del provvedimento
impugnato, che perciò non merita le censure contro di esso
dirette, avendo correttamente statuito la configurabilità
del fumus dei reati urbanistici e paesaggistici in
quanto, contrariamente all'assunto del ricorrente, il
mutamento della destinazione d'uso è stato effettuato
proprio con riferimento a categorie tra loro incompatibili,
con la conseguenza che l'intervento richiedeva, per la sua
conformità al diritto, l'assenso dell'autorità di governo
del territorio e di quella preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico, va precisato, per delimitare il campo
d'indagine devoluto a questa Corte dalle ulteriori
prospettazioni contenute nel ricorso, che in questa materia,
a norma dell'art. 325 cod. proc. pen., il ricorso per
cassazione può essere proposto solo per violazione di legge,
nella cui nozione, secondo l'orientamento prevalente di
questa Corte, rientrano la mancanza assoluta di motivazione
o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto
correlate all'inosservanza di precise norme processuali, ma
non l'illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel
giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e
autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell'art.
606 stesso codice (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, Ferazzi,
Rv. 226710), né tanto meno il travisamento del fatto non
risultante dal testo del provvedimento, sicché le
argomentazioni del ricorrente tendenti a censurare l'iter
logico seguito dal Tribunale per giungere alla conferma del
decreto di sequestro preventivo sono inammissibili in questa
sede.
In ogni caso, il censurato difetto di motivazione non si
apprezza sotto alcun profilo avendo il Tribunale
distrettuale puntualmente confutato le argomentazioni del
ricorrente ritenendo che il fumus dei reati fosse
ulteriormente corroborato dalla presenza in atti del diniego
(del 06.07.2012) del Comune di Castellabate alla richiesta
di sanatoria ex post del mutamento di destinazione
d'uso dei locali.
Va aggiunto, per inciso, che l'Ufficio tecnico comunale
aveva espressamente contestato che il mutamento della
destinazione d'uso potesse ritenersi libero, ai sensi
dell'art. 5, comma 2, L.R. n. 19 del 2001, tanto sul
presupposto che l'immobile ricade all'interno del Piano di
recupero (zona A), essendo perciò assoggettato alla
normativa edilizia vigente che non prevede tra le
destinazioni d'uso compatibili con la singola zona omogenea,
cui ricade il fabbricato, né quella ad attrezzature
ricettive alberghiere né tanto meno quella ad attrezzature
para alberghiere.
5. Sicché la diversa destinazione dei locali
lavanderia-deposito in camere d'albergo, per la diversità di
tipologia degli ambienti, aveva di certo comportato, secondo
il Collegio cautelare, anche l'esecuzione di opere
quantomeno interne di adattamento ed in ogni caso
determinato un consistente aggravio del carico urbanistico,
avendo la struttura aumentato significativamente la sua
ricettività ed avendo, senza permesso di costruire,
realizzato nuovi vani abitabili, alterando la consistenza
originaria del manufatto in conseguenza dell'avvenuto cambio
di destinazione incidente sul carico urbanistico,
configurandosi perciò anche le esigenze cautelari sottese al
sequestro.
Nel pervenire a tali conclusioni, il Tribunale si è attenuto
alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 11544 del
27/11/2012; Sez. 3, n. 6599 del 24/11/2011; Sez. 3, n. 40033
del 18/10/2011; Sez. U., n. 12878 del 20/03/2003), secondo
cui l'incidenza di un immobile sul carico urbanistico va
valutata secondo indici concreti e può essere rappresentata,
a titolo esemplificativo, dalla consistenza
dell'insediamento edilizio, dal numero di nuclei familiari
presenti, dall'incremento della domanda di strutture, opere
collettive e dotazione minima di spazi pubblici per
abitante, dalla necessità di salvaguardare l'ambiente e la
staticità dei luoghi e, infine, dalla possibilità che le
opere non ancora ultimate siano portate a compimento e le
unità non ancora abitate siano occupate.
Perciò la sussistenza del pericolo derivante dalla libera
disponibilità del bene pertinente al reato va parametrata
alla reale compromissione degli interessi attinenti al
territorio ed ad ogni altro dato utile a stabilire in che
misura il godimento e la disponibilità attuale della cosa da
parte dell'indagato o di terzi possa implicare una effettiva
ulteriore lesione del bene giuridico protetto, ovvero se
l'attuale disponibilità del manufatto costituisca un
elemento neutro sotto il profilo della offensività.
Come le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito (Sez.
U., n. 12878 del 20/03/2003, cit.), la nozione di "carico
urbanistico", deriva dall'osservazione che ogni
insediamento umano è costituito da un elemento c.d.
primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da
uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere,
uffici pubblici, parchi, strade, fognature,
elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione
del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento
primario, ossia al numero degli abitanti insediati ed alle
caratteristiche dell'attività da costoro svolte. Quindi, il
carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto
dall'insediamento primario come domanda di strutture ed
opere collettive, in dipendenza del numero delle persone
insediate su di un determinato territorio. Si tratta di un
concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è
in concreto preso in considerazione in vari istituti del
diritto urbanistico, tra i quali:
a) gli standards urbanistici di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444,
che richiedono l'inclusione, nella formazione degli
strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici
per abitante a seconda delle varie zone;
b) la sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di
urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici
utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di
nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento;
c) il parallelo esonero da contributo di quelle opere che non
comportano nuovo insediamento, come le opere di
urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione.
Il carico urbanistico deve quindi intendersi come rapporto
tra insediamenti e servizi in un determinato territorio,
attesa la potenziale incidenza di un insediamento abitativo
sulla distribuzione degli impianti urbanistici e dei servizi
pubblici, con la conseguenza che il suo aggravamento non è
altro che l'effetto che viene prodotto da una condotta
ulteriore rispetto alla semplice consumazione del reato e,
cioè, dall'incidenza indebita che l'insediamento primario
produce su quello secondario in termini di domanda di
strutture ed opere collettive.
Ciò è quello che si è puntualmente verificato nel caso di
specie, come il Giudice di merito ha congruamente
spiegato, richiamando il numero non irrilevante di camere di
albergo, aperte e destinate al pubblico, ricavate attraverso
il mutamento della destinazione d'uso dei precedenti locali,
in considerazione della consistenza quantitativa degli spazi
diversamente utilizzati come desumibili dalle planimetrie in
atti (Corte di
Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 05.02.2014 n. 5712). |
EDILIZIA
PRIVATA: IL
MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO ESEGUITO MEDIANTE
REALIZZAZIONE DI “OPERE INTERNE” È RISTRUTTURAZIONE
EDILIZIA.
Le cosiddette "opere interne", non più
previste nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria
autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti,
rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia
quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche
dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento
di destinazione d'uso.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, su
un’interessante questione relativa alla possibilità di
qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia la
realizzazione di opere interne, volte a comportare un
mutamento della destinazione d’uso di un immobile.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte
d'appello confermava la sentenza del tribunale che aveva
condannato alcuni cittadini cinesi per i reati di cui al
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), e artt. 93 e 95
dello stesso D.P.R. in relazione ad intervento di
ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di
costruire. In particolare, l’esecuzione dell’intervento
edilizio era consistito nel frazionamento di un capannone
con pareti in cartongesso. L’imputata si era quindi rivolta
alla Cassazione, lamentandosi del fatto che i lavori
eseguiti non fossero qualificabili come interventi di
ristrutturazione edilizia e, dunque, non soggetti a permesso
di costruire.
La Cassazione ha, però, respinto il ricorso, affermando il
principio di cui in massima, osservando, con riferimento al
caso in esame, che era stata accertata l'intervenuta
realizzazione, sin dal primo sopralluogo presso l'unità
immobiliare in questione, di lavori volti a suddividere la
stessa in tre distinte unità, a loro volta suddivise in
sette locali, ciascuno dotato di servizio igienico oltre ad
una cucina, destinati in parte ad abitazione ed in parte a
laboratori: di qui la corretta deduzione in ordine alla
sussistenza di un intervento di ristrutturazione edilizia,
comportante un parziale mutamento di destinazione d'uso da
produttiva residenziale, in assenza del necessario permesso
di costruire ovvero, in alternativa, della cosiddetta “super
DIA” (sulla necessità di tale, alternativo, titolo
abilitativo nelle ipotesi di ristrutturazione edilizia
attuata mediante mutamento di destinazione d’uso, v.: Cass.,
sez. III, 24.11.2011, n. 47438, in CED Cass., n. 251637)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
04.02.2014 n. 5455 -
tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'esecuzione di lavori interni volti
suddividere l'unità immobiliare esistente in tre distinte
unità, a loro volta suddivise in sette locali, ciascuno
dotato di servizio igienico oltre ad una cucina, destinati
in parte ad abitazione ed in parte a laboratori, concreta la
sussistenza di un intervento di ristrutturazione edilizia,
comportante un parziale mutamento di destinazione d'uso da
produttiva a residenziale, in assenza del necessario
permesso di costruire ovvero, in alternativa, della
cosiddetta "super D.i.a.".
Invero, le cosiddette "opere interne", non più previste nel
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 come categoria autonoma di
intervento edilizio sugli edifici esistenti, rientrano negli
interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino
aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei
prospetti e delle superfici ovvero, come nella specie,
mutamento di destinazione d'uso.
---------------
5. Anche il ricorso di Xi.Ch. è manifestamente infondato.
Quanto alla doglianza inerente l'avvenuta realizzazione di
null'altro che di opere interne, la Corte territoriale ha in
realtà posto in rilievo l'intervenuta realizzazione, sin dal
primo sopralluogo presso l'unità immobiliare in questione,
di lavori volti suddividere la stessa in tre distinte unità,
a loro volta suddivise in sette locali, ciascuno dotato di
servizio igienico oltre ad una cucina, destinati in parte ad
abitazione ed in parte a laboratori; di qui la corretta
deduzione in ordine alla sussistenza di un intervento di
ristrutturazione edilizia, comportante un parziale mutamento
di destinazione d'uso da produttiva a residenziale, in
assenza del necessario permesso di costruire ovvero, in
alternativa, della cosiddetta "super D.i.a."; va
infatti ricordato che le cosiddette "opere interne",
non più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380 come
categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici
esistenti, rientrano negli interventi di ristrutturazione
edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o
modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici
ovvero, come nella specie, mutamento di destinazione d'uso
(da ultimo, Sez. 3, n. 47438 del 24/11/2011, Truppi, Rv.
251637; Sez. 3, n. 27713 del 20/05/2010, P.M. in proc.
Olivieri ed altro, Rv. 247919) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
04.02.2014 n. 5455). |
anno 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA: M.
Viviani e A. Bagnasco,
La
ristrutturazione con modifica di destinazione d’uso secondo
l’ultimo comma dell’art. 9 DPR n. 380/2001
(29.12.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimità concessione edilizia in deroga per
realizzazione di ambulatorio medico privato.
Se è pur vero che il titolo è stato
richiesto per la realizzazione di un manufatto destinato ad
accogliere l’attività di medico di base del Servizio
Sanitario Nazionale (in relazione al quale potrebbe essere
non implausibile la sussistenza di un interesse pubblico
all’assistenza nei confronti dei pazienti), è d’altra parte
indubitabile che il vulnus alla disciplina
urbanistico–edilizia inflitto con la concessione in deroga
non risulta giustificato dalla duratura destinazione (a
servizio sanitario) dell’immobile: quest’ultimo, infatti,
non solo è (e resta privato) e nella esclusiva disponibilità
dell’interessato anche quanto all’uso, non essendo stato
apposto alcun vincolo ragionevole durata o di destinazione
(di interesse pubblico), ma altresì nulla impedisce che,
anche prima della naturale conclusione dell’attività
professionale del proprietario, l’immobile possa essere
ceduto a terzi e/o concretamente utilizzato per un’attività
ovvero per una finalità esclusivamente privata.
--------------
Al riguardo si rammenta la distinzione
tra l’ambulatorio, che identifica una struttura
aziendale, aperta, spersonalizzata ed organizzata
imprenditorialmente in vista dell’affluenza di un pubblico
indeterminato, in cui prevale l’aspetto organizzativo su
quello professionale, e lo studio medico, connotato
dal prevalente apporto professionale mediante esercizio
professionale dell’attività sanitaria: solo nei confronti
del primo (ambulatorio) è astrattamente ipotizzabile la
ricorrenza del presupposto dell’interesse pubblico
preminente idoneo a giustificare il rilascio della
concessione edilizia in deroga.
---------------
Nel merito
l’appello è infondato, il che consente di prescindete
dall’esame delle ulteriori eccezioni preliminari, sollevate
in primo grado e non esaminate per assorbimento, ma
espressamente riproposte in appello.
Come emerge dalla documentazione in atti, non è
contestato che il dott. -OMISSIS- presentò in data 23.09.1980 una richiesta di concessione edilizia in
deroga per l’ampliamento del fabbricato sito in Asolo, via
S. Caterina (in catasto, sez. B, foglio n. IV, mapp. n. 654)
ad uso ambulatorio medico.
Con delibera n. 89 del 02.10.1980 il Consiglio comunale
di Asolo espresse al riguardo parere favorevole, in ragione
della particolare rilevanza sociale e di pubblica utilità
dell’iniziativa, incaricando contestualmente il sindaco di
richiedere alla Regione Veneto il prescritto nulla–osta ai
sensi dell’art. 3 della legge 21.12.1955, n. 1357; in
data 14.01.1984 veniva poi effettivamente rilasciato il
richiesto titolo edilizio in deroga n. 93/1980 per la
realizzazione di un ambulatorio medico, essendo intervenuto
in data 08.11.1983 (prot. 1150) anche il nulla–osta
dei Beni Ambientali di Treviso.
E’ altresì pacifico, mancando sul punto qualsiasi
contestazione tra le parti, che l’immobile, il cui
ampliamento ad uso ambulatorio medico è stato consentito con
il contestato titolo edilizio, ricadeva nella zona A del
Comune di Asolo, all’interno della quale, ai sensi
dell’allora vigente piano regolatore (art. 13), gli
interventi edilizi erano subordinati all’approvazione di
piani particolareggiati, potendo, in difetto degli stessi,
essere consentiti, sempre previo apposito titolo concessorio,
solo la manutenzione ordinaria e straordinaria; gli
interventi sui parametri esterni, purché non interessino
spostamenti di aperture e modifiche dei materiali di
facciata; risanamenti interni di carattere igienico o
distributivo, purché non comportino sostanziali modifiche
strutturali e tipologiche; restauri conservativi e
demolizioni di corpi di fabbrica interni privi di valore
architettonico.
Il successivo art. 27 (ex 29) del piano regolatore prevedeva
la possibilità di derogare alle relative previsioni, ove
ricorressero “particolari motivi di pubblico interesse, di
decoro cittadino e di igiene”.
Per completezza deve aggiungersi che l’art. 80 (rubricato
“Deroghe”) dell’allora vigente legge regionale 02.05.1980, n. 40 (“Norme per l’assetto e l’uso del territorio”)
stabiliva che “Il piano regolatore può dettare disposizioni
che consentano al Sindaco di rilasciare concessioni in
deroga alle norme e alle previsioni urbanistiche generali
quando riguardino edifici e/o impianti pubblici o di
interesse pubblico, purché non abbiano per oggetto la
modificazione delle destinazioni di zona. In tali casi il
rilascio della concessione deve essere preceduto da
deliberazione favorevole del consiglio comunale”.
Benché la predetta legge sia stata sostituita dalla
successiva legge regionale 27.06.1985, n. 61 (anch’essa
disciplinante l’assetto e l’uso del territorio), l’art. 80
di quest’ultima, pur esso rubricato “Deroghe”, riporta ai
primi due commi delle disposizioni del tutto identiche a
quelle della precedente legge n. 40 del 1980.
Ciò precisato, la Sezione ritiene che la sentenza
impugnata sfugga alle critiche che le sono state appuntate.
Il rilascio della concessione in deroga, sia nelle
previsioni del piano regolatore generale che secondo le
ricordate disposizioni della legislazione regionale,
costituisce una facoltà eccezionale riconosciuta
all’amministrazione comunale per il perseguimento di un
interesse pubblico preminente, a prescindere dalla
circostanza che si tratti di un’attività di edificazione di
carattere privato: il solo predetto interesse pubblico
consente infatti di disapplicare una norma con riferimento
ad una fattispecie concreta che pure presenta tutti gli
elementi per essere assoggettata alla disciplina di
carattere generale (C.d.S., sez. V, 23.07.2009, n. 4664;
02.04.2006, n. 439).
In ragione della natura eccezionale (del rilascio) della
concessione edilizia in deroga i relativi presupposti (in
particolare proprio la ricorrenza di un interesse pubblico
preminente) devono essere accertati in modo puntuale e
rigoroso, così come le norme che la ammettono devono essere
interpretate in senso restrittivo (pena lo stravolgimento
della sua stessa ratio), come del resto ha sottolineato la
giurisprudenza (C.d.S., sez. V, 11.01.2006, n. 46),
evidenziando che la concessione in deroga costituisce un
provvedimento eccezionale ed a contenuto singolare, assunto
cioè per soddisfare specifici interessi pubblici sulla base
di valutazioni contingenti e dotate di eccezionalità che
giustificano nella situazione concreta l’inosservanza delle
disposizioni contenute negli atti di programmazione.
E’ stato anche precisato che per edificio di interesse
pubblico, ai fini del rilascio della concessione in droga
(nel caso di specie ex art. 16 della legge 06.08.1967, n.
765) deve intendersi ogni manufatto edilizio idoneo per
caratteristiche intrinseche o per destinazione funzionale a
soddisfare interessi di rilevanza pubblica (C.d.S., sez. IV,
23.05.1988, n. 434).
Applicando tali condivisibili e consolidati principi
al caso in esame, non sussistevano i presupposti per il
rilascio del titolo edilizio in deroga per la realizzazione
dell’immobile in questione, non essendo del resto stata
fornita dall’amministrazione una adeguata e convincente
valutazione (dell’esistenza) dell’interesse pubblico
preminente.
Se è pur vero, infatti, che il titolo è stato richiesto per
la realizzazione di un manufatto destinato ad accogliere lo
studio del ricorrente, esercente l’attività di medico di
base del Servizio Sanitario Nazionale (in relazione al quale
potrebbe essere non implausibile la sussistenza di un
interesse pubblico all’assistenza nei confronti dei
pazienti), è d’altra parte indubitabile che il vulnus alla
disciplina urbanistico–edilizia inflitto con la
concessione in deroga non risulta giustificato dalla
duratura destinazione (a servizio sanitario) dell’immobile:
quest’ultimo, infatti, non solo è (e resta privato) e nella
esclusiva disponibilità dell’interessato anche quanto
all’uso, non essendo stato apposto alcun vincolo ragionevole
durata o di destinazione (di interesse pubblico), ma altresì
nulla impedisce che, anche prima della naturale conclusione
dell’attività professionale del proprietario, l’immobile
possa essere ceduto a terzi e/o concretamente utilizzato per
un’attività ovvero per una finalità esclusivamente privata.
Al riguardo si rammenta la distinzione (Cass. Civ., sez. II,
19.03.2010, n. 6719) tra l’ambulatorio, che identifica
una struttura aziendale, aperta, spersonalizzata ed
organizzata imprenditorialmente in vista dell’affluenza di
un pubblico indeterminato, in cui prevale l’aspetto
organizzativo su quello professionale, e lo studio medico,
connotato dal prevalente apporto professionale mediante
esercizio professionale dell’attività sanitaria: solo nei
confronti del primo (ambulatorio) è astrattamente
ipotizzabile la ricorrenza del presupposto dell’interesse
pubblico preminente idoneo a giustificare il rilascio della
concessione edilizia in deroga
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.12.2013 n. 6136
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Imprenditore agricolo oneri concessori e variante da
agricola a residenziale.
La mancanza del requisito
dell’imprenditore agricolo a titolo principale è sufficiente
a ritenere dovuto il contributo concessorio e insussistente
il diritto alla esenzione, legato a ipotesi tassative.
Inoltre, va aggiunto che ai fini del mutamento di
destinazione d’uso (nella specie, da agricola a
residenziale) si ritiene che comporti aumento del carico
urbanistico il passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome, in quanto il mutamento di destinazione d’uso, in
sé, nella specie, a differenza di quanto sostiene
l’appellata, comporta un maggiore carico urbanistico, al
quale si correla la imposizione di pagamento.
Occorre ora
esaminare la correttezza del ragionamento del primo giudice,
contestato dall’appello, sulla base sia degli accertamenti
effettuati sulla natura dell’intervento che sulla base della
disciplina normativa sulla dovutezza del contributo.
In fatto, la verificazione ha dato modo di accertare che:
a) l’intervento (che secondo il Comune è consistito nella
demolizione e ricostruzione del preesistente edificio
ubicato in zona agricola ed individuato come fabbricato
rurale di rilevante valore dal Piano regolatore con
contestuale cambio di destinazione di uso poiché la nuova
costruzione oggetto di sanatoria non avrebbe più
destinazione agricola ma residenziale) deve essere
qualificato come ristrutturazione edilizia e non come
restauro e risanamento conservativo; b) non sussistono
elementi univoci nel senso che esso avrebbe comportato
mutamenti di destinazione d’uso, anche se le previsioni
divisorie interne e le modifiche alle aperture esistenti non
pregiudicano tale possibilità; c) non si può ritenere dalla
documentazione esistente che sussista il requisito
dell’imprenditore agricolo a titolo principale e anzi, deve
ritenersi, tale qualifica non sussiste.
La legge invocata 28/01/1977, n. 10 all’articolo 9 prevede
(prevedeva perché trattasi di articolo abrogato
dall'articolo 136, comma 1, lettera c), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal
01.01.2002; tuttavia
applicabile ratione temporis, poiché l’intervento è degli
anni novanta e il ricorso originario dell’anno 1998) che il
contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto per
(lettera a) le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi
comprese le residenze, in funzione della conduzione del
fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo
principale, ai sensi dell'art. 12, L. 09.05.1975, n. 153.
Si intende quindi (tra tante, si veda Consiglio Stato sez.
V, 30.08.2005, n. 4424) che l'esonero dal pagamento
degli oneri concessori per gli edifici destinati alla
conduzione del fondo e alle esigenze dell'imprenditore
agricolo, stabilito dalla lett. a), art. 9, l. n. 10 del
1977, spetta soltanto a tutti i soggetti che esercitino
l'attività agricola a titolo principale, tanto persone
fisiche che persone giuridiche.
Pertanto, una volta accertata la insussistenza della
qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale,
l’esenzione è del tutto ingiustificata, né si giustifica
l’accoglimento motivato sulla base di una asserita disparità
di trattamento con situazione, invero del tutto differente,
di un altro soggetto, anch’egli proprietario di un edificio
unifamiliare (che però ricade in zona diversamente
classificata dal PRG), che non sarebbe esonerato da tale
obbligazione, a fronte di un intervento edilizio medesimo
avente le medesime caratteristiche.
A meno di non incorrere in una interpretazione arbitraria,
si deve soltanto accertare, a tal fine –salvo valutare
altresì la natura dell’intervento realizzato– se sussiste
il requisito della imprenditore agricolo a titolo principale
(che è oggetto di una specifica disciplina, ora a seguito
della c.d. Legge di orientamento sull’imprenditore
agricolo), in quanto solo in tal caso sussiste il diritto (e
invero ovviamente la ragione legislativa) alla esenzione del
contributo di concessione per le opere da realizzare in zona
agricola.
Con riguardo alla effettiva natura dell’intervento, è
evidente che non possa essere accolta la tesi della parte
appellata, riproposta in memoria, secondo cui si tratterebbe
nella specie soltanto di restauro o risanamento
conservativo.
Sia sufficiente osservare come in relazione alla natura di
ristrutturazione dell’intervento si sono espressi con
chiarezza sia la verificazione sia lo stesso primo giudice,
che ha accolto il ricorso, come visto, sulla base di diverso
iter logico interpretativo. Né, al riguardo, l’appellata ha
fornito argomenti in grado di sovvertire le conclusioni del
verificatore.
La caratteristica degli interventi di mero restauro è quella
di essere effettuati mediante interventi che non comportano
l’alterazione delle caratteristiche edilizie dell’immobile
da restaurare, rispettando gli elementi formali e
strutturali dell’immobile stesso, dovendosi privilegiare la
funzione di ripristino della individualità originaria
dell’immobile (Cassazione penale, III, 01.09.2009, n.
33536), mentre la ristrutturazione edilizia si caratterizza
per essere idonea ad introdurre un quid novi rispetto al
precedente assetto dell’edificio.
Nella specie è stato demolito il secondo corpo di fabbrica e
parzialmente ricostruito con pareti portanti dal piano terra
al piano primo a sostegno del solaio e le opere realizzate
sono tali da essere definite variazioni essenziali recanti
il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio;
il verificatore aggiunge che non è da escludersi –e anzi
tutte le circostanze di fatto portano a ritenerlo probabile- il successivo mutamento di destinazione d’uso da agricolo
a residenziale.
La mancanza del requisito dell’imprenditore agricolo a
titolo principale è sufficiente a ritenere dovuto il
contributo concessorio e insussistente il diritto alla
esenzione, legato a ipotesi tassative.
Inoltre, va aggiunto che ai fini del mutamento di
destinazione d’uso (nella specie, da agricola a
residenziale) si ritiene che comporti aumento del carico
urbanistico il passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome, in quanto il mutamento di destinazione d’uso, in
sé, nella specie (per tali considerazioni, si veda di
recente tra varie Cons. Stato, V, 30.08.2013, n. 4326) a
differenza di quanto sostiene l’appellata, comporta un
maggiore carico urbanistico, al quale si correla la
imposizione di pagamento
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.12.2013 n. 6005
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mutamento di
destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può
costituire una operazione edilizia o urbanistica per così
dire “neutra”, da definirsi esclusivamente attraverso il
pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo
l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia
inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza
amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione
d’uso è rilevante se avviene fra “categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico”, dovendosi in tal
caso verificare la variazione del carico urbanistico;
parimenti è stato affermato che, indipendentemente
dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio
dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal
punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del
carico; in altri termini si configura una “trasformazione
edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi
economici connessi all’utilizzazione, anche senza opere.
Deve quindi riconoscersi in capo alle Amministrazioni locali
il potere, in caso di mutamento d’uso senza opere edilizie
in contrasto con le previsioni urbanistiche, di ordinare la
rimessione in pristino, per evitare un illecito ed
irreversibile cambio di destinazione urbanistica non
accompagnato da adeguate misure per fare fronte
all'aumentato carico urbanistico.
Secondo la
giurisprudenza di questo Tribunale, la specifica disciplina
regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere
letta e interpretata alla luce dei principi fondamentali e
delle disposizioni più generali risultanti dalla
legislazione statale (DPR 380/2001) e anche dalla stessa
legge regionale 12/2005.
Quest’ultima, in particolare,
all’art. 51, comma 1, se da una parte ammette in via di
principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa
espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento
urbanistico generale (“...salvo quelle eventualmente escluse
dal PGT…”).
L’art. 52, comma 2, del resto, prevede per i
mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice
comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti
mutamenti siano “...conformi alle previsioni urbanistiche
comunali ed alla normativa igienico-sanitaria …”. Quanto
alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR
380/2001, qualifica come “variazione essenziale”, sanzionata
ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con
l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino, il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche
senza opere edilizie), che implichi una variazione degli
standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi
evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza
opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o
urbanistica per così dire “neutra”, da definirsi
esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione
pecuniaria, dovendo l’Amministrazione verificare se il
cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico
della zona.
In questo senso appare orientata anche la
giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di
destinazione d’uso è rilevante se avviene fra “categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico”,
dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico
urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.7.2010, n.
4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è
stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione
fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una
categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista
urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri
termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la
stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi
all’utilizzazione, anche senza opere (cfr. Consiglio di
Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539; TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Deve quindi riconoscersi in capo alle Amministrazioni locali
il potere, in caso di mutamento d’uso senza opere edilizie
in contrasto con le previsioni urbanistiche, di ordinare la
rimessione in pristino, per evitare un illecito ed
irreversibile cambio di destinazione urbanistica non
accompagnato da adeguate misure per fare fronte
all'aumentato carico urbanistico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
15.10.2013 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E’
vero che il Consiglio di Stato con decisione n. 525/1982 ha
affermato che allo stato della legislazione del ’42, pur
tenendo conto delle modifiche del ’67 (legge 06.08.1967, n.
765), del ’68 (legge 19.11.1968, n. 1187) e del ’77 (legge
28.01.1977, n. 10) si possa ritenere incontroversa
l’irrilevanza urbanistica del mero uso degli immobili, con
conseguente non necessità di concessione o autorizzazione.
E’ parimenti pacifico che il quadro, sia normativo che
giurisprudenziale, sia poi mutato: la giurisprudenza ha
evidenziato la non irrilevanza dei mutamenti in questione
sul piano urbanistico, avuto in particolare riguardo alle
differenti dotazioni di standards, riconducibili alle varie
tipologie d'uso degli immobili stessi, anche inseriti nella
medesima zona territoriale omogenea.
L'art. 25, u.c., della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso
nell'art. 10, comma 2, del T.U., approvato con D.P.R. n.
380/2001 cit.) ha rinviato la soluzione della complessa
tematica in ambito locale, disponendo che siano le leggi
regionali a stabilire "quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti" debbano essere subordinati a concessione (oggi
permesso di costruire) e quali a mera autorizzazione, con
ciò profilando comunque la necessità di un regime minimo di
regolazione.
E’ vero che, come sostengono gli
appellanti, il Consiglio di Stato con decisione 525/1982 del
28.07.1982 ha affermato che allo stato della
legislazione del ’42, pur tenendo conto delle modifiche del
’67 (legge 06.08.1967, n. 765), del ’68 (legge 19.11.1968, n. 1187) e del ’77 (legge 28.01.1977, n.
10) si possa ritenere incontroversa l’irrilevanza
urbanistica del mero uso degli immobili, con conseguente non
necessità di concessione o autorizzazione; ed è altresì vero
che, sulla base di tale affermazione, il Consiglio di Stato
ha annullato la variante al PRG di Roma approvata nel ’79
nella parte in cui conteneva prescrizioni concernenti la
zona B che imponevano limiti al cambiamento di destinazione
d’uso (da residenziale a non residenziale).
Non v’è quindi dubbio che all’indomani della decisione
demolitoria, il mutamento di destinazione d’uso senza opere
fosse da considerare attività dal punto di vista
urbanistico/edilizio non necessitante di alcun titolo, salvi
i controlli in ordine all’abitabilità, o al legittimo
esercizio dell’attività (cfr. pagg. 45 e 46 della
decisione).
E’ parimenti pacifico che il quadro, sia normativo che
giurisprudenziale, sia poi mutato: la giurisprudenza ha
evidenziato la non irrilevanza dei mutamenti in questione
sul piano urbanistico, avuto in particolare riguardo alle
differenti dotazioni di standards, riconducibili alle varie
tipologie d'uso degli immobili stessi, anche inseriti nella
medesima zona territoriale omogenea (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24).
L'art. 25, u.c., della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso
nell'art. 10, comma 2, del T.U., approvato con D.P.R. n.
380/2001 cit.) ha rinviato la soluzione della complessa
tematica in ambito locale, disponendo che siano le leggi
regionali a stabilire "quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti" debbano essere subordinati a concessione (oggi
permesso di costruire) e quali a mera autorizzazione, con
ciò profilando comunque la necessità di un regime minimo di
regolazione (al riguardo Cons. St., sez. IV, 29.05.2008, n.
2561) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4841 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Destinazione d'uso e strumenti di
pianificazione.
La destinazione d’uso è un elemento che qualifica la
connotazione dell’immobile e risponde agli scopi di
interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa,
infatti, individua il bene sotto l’aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona.
Soltanto gli strumenti di pianificazione, generali ed
attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la
destinazione d’uso dei suoli e degli edifici, poiché alle
varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili
relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi.
L’organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle
varie destinazioni d'uso e le modifiche non consentite di
queste incidono negativamente sull’organizzazione dei
servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione
ottimale del territorio
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 17.09.2013 n. 38005 -
tratto da www.lexambiente.it).
---------------
SENTENZA
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Modica, con sentenza del
15.06.2012, ha affermato la responsabilità
penale di Fa.Gi. in ordine ai reati di cui:
- all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380/2001 [per avere effettuato
il cambio di destinazione d'uso di un
fabbricato, originariamente destinato a "magazzino
e locale tecnico" in "officina di
elettrauto ed ufficio e deposito ricambi
dell'attività di elettrauto" in
contrasto con le previsioni del piano
regolatore generale vigente nel Comune di
Ispica, che destinava la zona ad usi
agricoli indifferenziati (zona E) - acc. il
05.02.2009);
- agli artt. 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001 [per avere iniziato la
costruzione di una tettoia avente superficie
di mq. 22,31, in pilastrini e travetti in
ferro, senza la preventiva autorizzazione
dell'ufficio del Genio civile] e, unificati
i reati nel vincolo della continuazione ex
art. 81 cpv. cod. pen., lo ha condannato
alla pena complessiva di euro 12.000,00 di
ammenda, ordinando la demolizione della
tettoia ai sensi dell'art. 98 del T.U. n.
380/2001.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il
Fa., il quale ha eccepito, sotto i profili
della violazione di legge e del vizio di
motivazione:
- la insussistenza e la inconfigurabilità del reato di cui all'art.
44, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, poiché
l'intervento edilizio contestato (per il
quale in data 19.03.2008 era stata
presentata domanda di autorizzazione
edilizia per manutenzione ordinaria e
straordinaria) avrebbe riguardato un
immobile "a destinazione libera", in
quanto costruito in epoca anteriore sia
all'emanazione delle norme che hanno
introdotto l'istituto della licenza edilizia
sia all'adozione del P.R.G. del Comune di
Ispica, che ha posto le previsioni di
zonizzazione che si assumono violate;
- la illegittimità dell'ordine di demolizione della tettoia,
erroneamente correlato alla contestata
violazione della normativa antisismica;
- la carenza assoluta di motivazione in ordine al mancato
riconoscimento di circostanze attenuanti
generiche e del beneficio della sospensione
condizionale della pena.
CONSIDERATO IN DIRITTO
...
2. Il ricorso, invece, deve essere rigettato
nel resto.
2.1 La destinazione d'uso è
un elemento che qualifica la connotazione
dell'immobile e risponde agli scopi di
interesse pubblico perseguiti dalla
pianificazione. Essa, infatti, individua il
bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate
dagli strumenti urbanistici in
considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e
disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a
seconda della diversa destinazione di zona.
Soltanto gli strumenti di pianificazione,
generali ed attuativi, possono decidere, fra
tutte quelle possibili, la destinazione
d'uso dei suoli e degli edifici, poiché alle
varie e diverse destinazioni, in tutte le
loro possibili relazioni, devono essere
assegnate -proprio in sede pianificatoria-
determinate qualità e quantità di servizi.
L'organizzazione del territorio comunale e
la gestione dello stesso vengono realizzate
attraverso il coordinamento delle varie
destinazioni d'uso e le modifiche non
consentite di queste una gestione ottimale
del territorio.
Deve ricordarsi, comunque, che
il mutamento di destinazione d'uso
giuridicamente rilevante è solo quello tra
categorie funzionalmente autonome dal punto
di vista urbanistico
(ciò che si è appunto verificato nel caso in
esame), tenuto conto che
nell'ambito delle stesse categorie possono
aversi mutamenti di fatto, ma non diversi
regimi urbanistici (anche ai fini
contributivi), stanti le sostanziali
equivalenze dei carichi urbanistici
nell'ambito della medesima categoria
[vedi Cons. Stato, Sez. V: 03.01.1998, n. 24
e 13.02.1993, n. 245; nonché Cass.,
Sez. III: 07.12.2006, n. 594/2007 e
22.11.2001, n. 45119].
2.2 Per individuare in
concreto il mutamento della precedente
destinazione d'uso, merita adesione il
principio affermato dalla giurisprudenza
amministrativa
[vedi, ad esempio, Cons. Stato, Sez. V:
24.10.1996, n. 1268 e 03.01.2001, n. 3]
secondo il quale deve tenersi conto:
- della destinazione indicata nell'ultima licenza o concessione
edilizia relativa all'edificio [vedi C.
Stato, sez. V, 09.02.2001, n. 583] oppure
della tipologia dell'immobile, dovendo
considerarsi irrilevante la utilizzazione di
fatto;
- delle attitudini funzionali che il bene stesso viene ad acquisire
attraverso l'esecuzione dei nuovi lavori.
La normativa da applicarsi
all'intervento modificativo (anche per la
determinazione del contributo di costruzione
e per l'eventuale conguaglio del contributo
originariamente versato) è quella vigente al
momento in cui detto intervento viene
attuato -in base al principio tempus
regit actum- sicché può ritenersi "libero"
soltanto il mutamento senza modifiche di
carattere edilizio intervenuto nella vigenza
della legge n. 1150/1942, come modificata
dalla legge n. 765/1967, che non imponeva
alcuna previa autorizzazione nel caso in cui
il cambio di destinazione venisse attuato
senza opere.
Nella fattispecie in esame, invece, il
mutamento di destinazione è stato attuato in
epoca successiva all'entrata in vigore sia
della legge statale n. 10/1977 sia della
normativa regionale e di quella comunale di
recepimento, sicché per l'intervento
effettivamente eseguito in nessun caso
poteva intervenire alcun valido titolo
abilitante, stante il contrasto con le
previsioni di piano e, conseguentemente, con
la determinazione degli standard. |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di disciplina delle costruzioni
in zona sismica, il potere-dovere del
giudice di ordinare, ai sensi dell'art. 98,
3° comma, del d.P.R. n. 380/2001, la
demolizione dell'immobile in caso di
condanna per i reati previsti dallo stesso
T.U. sussiste soltanto con riferimento alle
violazioni sostanziali, ovvero per la
inosservanza delle norme tecniche, e non
anche per le violazioni meramente formali.
---------------
SENTENZA
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Modica, con sentenza del
15.06.2012, ha affermato la responsabilità
penale di Fa.Gi. in ordine ai reati di cui:
- all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380/2001 [per avere effettuato
il cambio di destinazione d'uso di un
fabbricato, originariamente destinato a "magazzino
e locale tecnico" in "officina di
elettrauto ed ufficio e deposito ricambi
dell'attività di elettrauto" in
contrasto con le previsioni del piano
regolatore generale vigente nel Comune di
Ispica, che destinava la zona ad usi
agricoli indifferenziati (zona E) - acc. il
05.02.2009);
- agli artt. 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001 [per avere iniziato la
costruzione di una tettoia avente superficie
di mq. 22,31, in pilastrini e travetti in
ferro, senza la preventiva autorizzazione
dell'ufficio del Genio civile] e, unificati
i reati nel vincolo della continuazione ex
art. 81 cpv. cod. pen., lo ha condannato
alla pena complessiva di euro 12.000,00 di
ammenda, ordinando la demolizione della
tettoia ai sensi dell'art. 98 del T.U. n.
380/2001.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il
Fa., il quale ha eccepito, sotto i profili
della violazione di legge e del vizio di
motivazione:
- la insussistenza e la inconfigurabilità del reato di cui all'art.
44, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, poiché
l'intervento edilizio contestato (per il
quale in data 19.03.2008 era stata
presentata domanda di autorizzazione
edilizia per manutenzione ordinaria e
straordinaria) avrebbe riguardato un
immobile "a destinazione libera", in
quanto costruito in epoca anteriore sia
all'emanazione delle norme che hanno
introdotto l'istituto della licenza edilizia
sia all'adozione del P.R.G. del Comune di
Ispica, che ha posto le previsioni di
zonizzazione che si assumono violate;
- la illegittimità dell'ordine di demolizione della tettoia,
erroneamente correlato alla contestata
violazione della normativa antisismica;
- la carenza assoluta di motivazione in ordine al mancato riconoscimento
di circostanze attenuanti generiche e del
beneficio della sospensione condizionale
della pena.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Solo il secondo motivo di ricorso
è fondato e deve essere accolto.
In tema di disciplina delle costruzioni in
zona sismica, infatti, il potere-dovere del
giudice di ordinare, ai sensi dell'art. 98,
3° comma, del d.P.R. n. 380/2001, la
demolizione dell'immobile in caso di
condanna per i reati previsti dallo stesso
T.U. sussiste soltanto con riferimento alle
violazioni sostanziali, ovvero per la
inosservanza delle norme tecniche, e non
anche per le violazioni meramente formali,
quale quella contestata nella fattispecie in
esame [vedi Cass., Sez. III: 03.07.2007, n.
37322, Borgia; 19.12.2003, n. 48685, Munafò;
17.01.2001,
n. 317, Di Ienno; 15.03.1994, n. 3113,
Campisi].
La sentenza impugnata, conseguentemente,
deve essere annullata senza rinvio,
limitatamente all'ordine di demolizione in
essa disposto, che va eliminato
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 17.09.2013 n. 38005 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
controversie relative al pagamento di contributi per il
rilascio delle concessioni edilizie riguardano diritti
soggettivi concernenti un rapporto obbligatorio pecuniario e
non interessi legittimi: esse non sottostanno, pertanto, ai
termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e
possono essere attivate nei normali termini di prescrizione
che, nel caso di contributi di concessione, risultano essere
decennali.
---------------
Il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste
nel titolo edilizio in sé ma nella necessità di
redistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità
derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità
eque per la comunità–, con la conseguenza che anche nel caso
di modificazione della destinazione d’uso cui si correli un
maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che
giustifica l’imposizione del pagamento della differenza tra
gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione
originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova
destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante
allorquando sussiste un passaggio tra due categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
qualificate sotto il profilo della differenza del regime
contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
Al contrario qualora il mutamento di destinazione d’uso non
determina l’incremento del carico urbanistico il pagamento
dei relativi oneri non è dovuto, essendo privo di causa.
... per l'accertamento del diritto delle Società ricorrenti
alla restituzione degli importi dalle stesse corrisposti al
Comune di Cattolica per oneri di urbanizzazione e
monetizzazione di due posti auto per il rilascio del
permesso di costruire per il cambio di destinazione d'uso da
"commercio al dettaglio" - B 2.1- ad “artigianato dei
servizi alla persona" B3.1 di n. 2 unità immobiliari ubicate
in Cattolica;
...
Le società ricorrenti, rispettivamente proprietaria del
fabbricato e conduttrice dell’immobile, presentavano una
richiesta di rilascio di permesso di costruzione per
ottenere il cambio di destinazione d’uso da “negozio” a
“centro benessere-solarium”.
Su richiesta del Comune provvedevano al pagamento della
somma quantificata dallo stesso per “monetizzazione” di
numero due posti auto “P3”.
Ritenendo non dovuto il pagamento dei suddetti oneri con il
presente ricorso hanno chiesto la restituzione delle somme
pagate, oltre agli interessi legali.
Si è costituito in giudizio il Comune intimato che ha controdedotto alle avverse doglianze, ed ha eccepito
l’inammissibilità del ricorso sotto vari profili e,
comunque, concluso per il rigetto dello stesso.
La causa è stata trattenuta in decisione all’odierna
udienza.
Va, preliminarmente, respinta l’eccezione di difetto di
legittimazione passiva, sulla quale insiste il comune con la
memoria di costituzione in quanto il pagamento non sarebbe
stato effettuato dagli attuali ricorrenti.
Va, infatti, rilevato che la richiesta del permesso di
costruzione è stata avanzata dall’attuale ricorrente così
come il titolo edilizio è stato alla stessa rilasciato.
Anche il pagamento degli oneri quantificati dal Comune,
quale condizione per il rilascio del titolo edilizio, è
stato richiesto all’attuale ricorrente.
La circostanza che il pagamento sia avvenuto, su incarico
dei ricorrenti e, quindi, quale pagamento riferibile alle
società ricorrenti (quindi in nome e per conto), accettato
dal Comune, da parte di una terza società (che le ricorrenti
indicano quale conduttrice) non significa che il pagamento
non sia riferibile, quale pagamento rappresentativo, ai
titolare del permesso di costruzione ai quali, quindi,
spetta l’azione per la restituzione di quanto eventualmente
indebitamente corrisposto.
Va, altresì, respinta l’eccezione di tardività dell’azione
proposta. Infatti, le controversie relative al pagamento di
contributi per il rilascio delle concessioni edilizie
riguardano diritti soggettivi concernenti un rapporto
obbligatorio pecuniario (TAR Potenza Basilicata, sez. I,
08.03.2013, n. 126) e non interessi legittimi: esse non
sottostanno, pertanto, ai termini decadenziali propri dei
giudizi impugnatori e possono essere attivate nei normali
termini di prescrizione (Cons. di Stato, Sez. IV, 04.11.2011, n. 5852 e Sez. V,
06.12.1999, n. 2056) che, nel
caso di contributi di concessione, risultano essere
decennali (Consiglio di Stato, sez. VI, 31.05.2013, n.
2996).
A tal fine, pertanto, è perfettamente ammissibile l’utilizzo
dello strumento processuale dell’azione di accertamento
(TAR Potenza Basilicata, sez. I, 08.03.2013, n. 126) e
della conseguente condanna la restituzione degli importi
eventualmente dovuti perché indebitamente pagati.
Nel merito in linea di diritto va osservato che, per
costante giurisprudenza (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV,
10.06.2010 n. 1787; TAR Lombardia, Brescia, 07.11.2005 n. 1115), il fondamento del contributo di
urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé ma
nella necessità di redistribuire i costi sociali delle opere
di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano
delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità eque per la comunità–, con la conseguenza
che anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso
cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il
presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della
differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la
destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per
la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è
rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza
del regime contributivo in ragione di diversi carichi
urbanistici.
Al contrario qualora il mutamento di destinazione d’uso non
determina l’incremento del carico urbanistico il pagamento
dei relativi oneri non è dovuto, essendo privo di causa.
Nel caso concreto, come previsto nel titolo edilizio, il
cambio di destinazione è avvenuto dalla categoria B2.1.
“Commercio al dettaglio”, alla categoria B3.1. “Artigianato
dei servizi alla persona” per i quali è prevista la
dotazione di parcheggi pertinenziali (P2 e P3).
L’articolo 3.3. delle Norme di Attuazione del PRG,
prodotte in giudizio dal Comune, per quanto concerne la
tabella di parcheggi pertinenziali, oggetto del presente
giudizio, non prevede alcun incremento del carico
urbanistico essendo previsto “1 p.a. ogni 40 mq. Di SC,
tutti di tipo P3” per entrambi gli usi.
E’, infatti, lo stesso titolo edilizio che richiede la
monetizzazione di due posti auto P3 per il cambio di
destinazione d’uso in parola.
Come rilevato dalla giurisprudenza (TAR Bologna, sez.
I, 239/2012), al cambio di destinazione d’uso segue la
corresponsione di un contributo di urbanizzazione pari alla
differenza tra gli oneri dovuti per la destinazione
originaria e quelli eventualmente più elevati della nuova
destinazione d’uso, risolvendosi altrimenti la riscossione
di una somma maggiore in un pagamento privo di causa.
Poiché nel caso in esame tale presupposto non ricorre,
non essendo previsti per i parcheggi P3, per il cambio di
destinazione in parola, alcun incremento di carico
urbanistico, sussiste l’obbligo di restituzione ai
ricorrenti di quanto versato a tale titolo.
Detta somma andrà, poi, incrementata degli interessi
legali dalla data di proposizione della domanda giudiziale
fino al soddisfo (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.12.2006
n. 2901)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 06.09.2013 n. 601 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di
corrispondere il contributo concessorio è principio
enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n.
10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n.
47/1985, la cui “ratio”, come chiarito dalla giurisprudenza,
è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la
nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato
all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico,
attraverso la modifica della destinazione il contributo
possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del
richiedente".
---------------
Qualora la concessione edilizia sia stata rilasciata senza
l'onere di contributi di urbanizzazione ex art. 18, u.c., l.
28.01.1977 n. 10 è poi legittima la richiesta del Comune di
quei contributi per il rilascio di concessione edilizia in
sanatoria relativa a interventi in variante rispetto al
progetto originario essendo stato determinato un incremento
del peso urbanistico.
Osserva la
Sezione che, in caso di cambio di destinazione d'uso
l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio è
principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della
legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della
legge n. 47/1985, la cui “ratio”, come chiarito dalla
giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare
che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile
avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime
contributivo urbanistico, attraverso la modifica della
destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in
parte a vantaggio del richiedente" (Cons. di Stato, sez. V,
07.12.2010, n. 8620).
E, nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato
dalla ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia
di intervento da una classe contributiva originaria e meno
"pesante" (industriale, appunto) ad un'altra tipologia
(commerciale), non solo diversa ma anche più gravosa in
termini di carico urbanistico. Si è trattato, cioè, di un
cambio di destinazione d'uso intervenuto tra categorie
autonome, quella industriale e quella commerciale, che ha
comportato un aumento del carico urbanistico con conseguente
mutamento degli “standard”. Presupposto, questo,
sufficiente, per giurisprudenza unanime, a giustificare la
richiesta di contributo per oneri di urbanizzazione.
Trattandosi in ogni caso di un supplemento di contributo
urbanistico, l'importo dovuto dalla società ricorrente
doveva in ogni caso essere pari alla differenza tra il
contributo previsto per la nuova destinazione direzionale
ricreativa e quello relativo alla precedente destinazione
industriale, ove integralmente versato.
Ma nel caso che occupa, essendo la prima licenza per lavori
edilizi anteriore alla entrata in vigore della l. n.
10/1977, non era dovuta la corresponsione di oneri, anche ai
sensi dell’art. 18 della legge stessa, e non era
scomputabile alcuna somma in precedenza pagata a tale titolo
da quanto dovuto a seguito dell’effettuato mutamento di
destinazione d’uso.
Prima della entrata in vigore di detta legge non era infatti
previsto il pagamento di alcun onere di urbanizzazione o per
costo di costruzione, introdotti con gli artt. 5 e 6 della
legge suddetta, ed essi non potevano essere stati
virtualmente scontati.
Del resto la giurisprudenza è da tempo orientata nel senso
che qualora la concessione edilizia sia stata rilasciata
senza l'onere di contributi di urbanizzazione ex art. 18,
u.c., l. 28.01.1977 n. 10 è poi legittima la richiesta del
Comune di quei contributi per il rilascio di concessione
edilizia in sanatoria relativa a interventi in variante
rispetto al progetto originario (Consiglio Stato, sez. V,
04.09.2000, n. 4662) essendo stato determinato un incremento
del peso urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.08.2013 n. 4326 - link a www.giustizia-amministrativa). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi edilizi
che comportano modifiche alla destinazione d’uso del
fabbricato sul quale incidono, nonché un aumento della
superficie dello stesso, non possono essere ricondotti alla
categoria della manutenzione straordinaria.
Anche la giurisprudenza, si è orientata nel senso di
ritenere che se le opere determinano la modifica di
destinazione d’uso ovvero un aumento di superficie
dell’immobile, esse vanno qualificate quale intervento di
ristrutturazione edilizia.
L’art. 27, primo comma, lett. c), della l.r. 11.03.2005 n.
12, al contrario del citato art. 3 del d.P.R. n. 380/2001,
nel fornire la definizione degli interventi di manutenzione
straordinaria, non pone il limite del mantenimento della
destinazione d’uso né quello dell’aumento di superficie.
Ritiene tuttavia il Collegio che la lacuna contenuta nella
legge regionale vada colmata attraverso l’applicazione delle
norme statali, posto che queste ultime, nella parte in cui
definiscono le categorie di interventi edilizi, vanno
considerate quali espressione di principi fondamentali della
materia (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 309 del
23.11.2011), e che, quindi, una diversa interpretazione
porrebbe inevitabilmente il citato art. 27 in contrasto con
l’art. 117, comma terzo, Cost.
Deve pertanto ritenersi che, anche per la normativa
regionale, le opere che determinano il cambio di
destinazione d’uso o un aumento di superficie dell’immobili
su cui incidono vanno qualificate quali interventi di
ristrutturazione edilizia.
In base all’art. 3, comma primo,
lett. b), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, possono
considerarsi interventi di manutenzione straordinaria “…le
opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire
parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare
ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici,
sempre che non alterino i volumi e le superfici delle
singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle
destinazioni di uso”.
Come si vede questa norma è chiara nell’affermare che
gli interventi edilizi che comportano modifiche alla
destinazione d’uso del fabbricato sul quale incidono, nonché
un aumento della superficie dello stesso, non possono essere
ricondotti alla categoria della manutenzione straordinaria.
Anche la giurisprudenza, in applicazione di questa
norma, si è orientata nel senso di ritenere che se le opere
determinano la modifica di destinazione d’uso ovvero un
aumento di superficie dell’immobile, esse vanno qualificate
quale intervento di ristrutturazione edilizia (cfr. ex multis TAR Emilia Romagna Parma sez. I, 25.05.2011 n.
154).
L’art. 27, primo comma, lett. c), della l.r. 11.03.2005 n. 12, al contrario del citato art. 3 del d.P.R. n.
380/2001, nel fornire la definizione degli interventi di
manutenzione straordinaria, non pone il limite del
mantenimento della destinazione d’uso né quello dell’aumento
di superficie. Ritiene tuttavia il Collegio che la lacuna
contenuta nella legge regionale vada colmata attraverso
l’applicazione delle norme statali, posto che queste ultime,
nella parte in cui definiscono le categorie di interventi
edilizi, vanno considerate quali espressione di principi
fondamentali della materia (cfr. Corte Costituzionale, sent.
n. 309 del 23.11.2011), e che, quindi, una diversa
interpretazione porrebbe inevitabilmente il citato art. 27
in contrasto con l’art. 117, comma terzo, Cost.
Deve pertanto ritenersi che, anche per la normativa
regionale, le opere che determinano il cambio di
destinazione d’uso o un aumento di superficie dell’immobili
su cui incidono vanno qualificate quali interventi di
ristrutturazione edilizia
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.07.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
nostro ordinamento, ai sensi del noto art. 19 della
Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in
sintesi estrema, di non pregare a casa propria.
Identico precetto, va aggiunto per completezza, si desume
dall’ordinamento europeo, cui ai sensi degli artt. 11 e 117
Cost. il nostro si conforma: in primo luogo, la libertà di
religione e di culto è riconosciuta anche dall’art. 9 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in
Italia per la l. 04.08.1955 n. 848; in secondo luogo, la
libertà di religione è riconosciuta anche dall’art. 10 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta
di Nizza, 07.12.2000, che come è noto ha ora il
medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi
dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
---------------
Il Comune è senz’altro titolare dell’astratto potere di
sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione,
ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere
identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la
preghiera, del venerdì o di altra ricorrenza. Infatti, come
risulta dalla giurisprudenza già richiamata e dalla prassi,
per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante
per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due
requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di
determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco,
dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano
pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle
attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto
a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di
qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o
nazionalità essi siano”.
Allo stesso modo, si ribadisce, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica, e anche di altri culti,
può esistere anche all’interno di una proprietà privata
-come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di
istituti, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma
non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non
permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso
incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l’accesso
per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai
membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto
accertato dall’autorità, attraverso una corretta e completa
istruttoria.
... per l’annullamento, previa sospensione, del
provvedimento 24.09.2012 prot. n. 3329 e n. 54/2012 del
registro ordinanze, notificato il 01.10.2012, con il quale
il Responsabile dell’area tecnica del Comune di Cologne ha
ingiunto all’Associazione Dialogo e Convivenza il divieto di
effettuare attività di culto (preghiera del venerdì) presso
il locale seminterrato del condominio Edera, sito in Cologne
alla via ..., a decorrere dalla data di notifica;
...
Ciò posto, va ribadito il rilievo valorizzato per cui nel
nostro ordinamento, ai sensi del noto art. 19 della
Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in
sintesi estrema, di non pregare a casa propria. Identico
precetto, va aggiunto per completezza, si desume
dall’ordinamento europeo, cui ai sensi degli artt. 11 e 117
Cost. il nostro si conforma: in primo luogo, la libertà di
religione e di culto è riconosciuta anche dall’art. 9 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in
Italia per la l. 04.08.1955 n. 848; in secondo luogo, la
libertà di religione è riconosciuta anche dall’art. 10 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta
di Nizza, 07.12.2000, che come è noto ha ora il
medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi
dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
In tal senso, la difesa del Comune intimato ha continuato
a fondarsi su un presupposto diverso, che però all’evidenza
non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del
provvedimento che dice altro. Il Comune deduce infatti che
il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede
dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad
altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a
moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di
una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai
sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005,
nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune è
senz’altro titolare dell’astratto potere di sanzionare l’uso
di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di
specie l’uso difforme non può essere identificato con il
mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del
venerdì o di altra ricorrenza. Infatti, come risulta dalla
giurisprudenza già richiamata e che qui si riproduce –in tal
senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla
prassi, che pure si torna a citare –in tal senso il parere
al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal
Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di
una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e
urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco,
dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri,
l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro
che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali
o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del
culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e
donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o
sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere stesso).
Allo stesso modo, si ribadisce, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica, e anche di altri culti,
può esistere anche all’interno di una proprietà privata
-come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di
istituti, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma
non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non
permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso
incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l’accesso
per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai
membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto
accertato dall’autorità, attraverso una corretta e completa
istruttoria.
Va quindi accolta la domanda di annullamento del
provvedimento 24.09.2012 prot. n. 3329 per cui è causa, e
rimane da scrutinare se vada accolta la contestuale domanda
risarcitoria, che è espressamente qualificata (ricorso, p. 9
settimo rigo dal basso) come relativa a un danno non
patrimoniale da liquidare secondo equità
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.05.2013 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d’uso rilevante.
Il mutamento di destinazione d’uso è
rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso
verificare la variazione del carico urbanistico; parimenti è
stato affermato dalla giurisprudenza che, indipendentemente
dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio
dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal
punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del
carico.
In altri termini si configura una “trasformazione edilizia”
quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici
connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza
l’esecuzione di opere edilizie. Appare poi, altresì,
evidente che il passaggio da una prevalente destinazione
produttiva ad una prevalentemente residenziale o terziaria
implica il passaggio ad un’autonoma categoria funzionale,
con incremento del carico urbanistico dovuto alla presenza
di persone stabilmente residenti nell’immobile.
---------------
La categoria urbanistica di industria, in quanto
assoggettata ad un regime contributivo agevolato, è
categoria di stretta interpretazione e "concerne
strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle
esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli
edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di
beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili
di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività
economica".
Fermo restando quanto sopra, giova in ogni caso ricordare
che lo scrivente TAR ha già chiarito (cfr. TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 24.10.2012, n. 2593 e 27.07.2012, n. 2146),
che la specifica disciplina regionale sul mutamento di
destinazione d’uso deve essere letta ed interpretata alla
luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più
generali risultanti dalla legislazione statale (DPR
380/2001) ed anche dalla stessa legge regionale 12/2005: si
verte, infatti, nella materia del “governo del territorio”,
oggetto di potestà legislativa regionale concorrente ai
sensi dell’art. 117, comma 3°, della Costituzione, con
conseguente necessità di rispetto dei principi fondamentali
della legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1° citato, se
da una parte ammette in via di principio il passaggio da una
destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni
previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo
quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti
d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice
comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti
mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche
comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1°, del DPR
380/2001, qualifica come “variazione essenziale”
–sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001
con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche
senza opere edilizie), che implichi una variazione degli
standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione
d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire
un’operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”,
dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non
abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza
amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione
d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>,
dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico
urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010,
n. 4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è
stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione
fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una
categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista
urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri
termini si configura una “trasformazione edilizia”
quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici
connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza
l’esecuzione di opere edilizie (cfr. Consiglio di Stato,
sez. IV, 14.10.2011, n. 5539, con le pronunce in essa
richiamate ed anche TAR Lombardia, Milano, sez. II,
11.02.2011, n. 468).
Appare poi, altresì, evidente che il passaggio da una
prevalente destinazione produttiva ad una prevalentemente
residenziale o terziaria implica il passaggio ad un’autonoma
categoria funzionale, con incremento del carico urbanistico
dovuto alla presenza di persone stabilmente residenti
nell’immobile (cfr. sul punto anche TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 27.05.2009, n. 3859, che in relazione al citato
art. 32 delle NTA ha espressamente statuito che: <<...rispetto
alla destinazione produttiva la destinazione terziaria o
residenziale si caratterizza sotto una serie di profili
tutt’altro che secondari: comporta il pagamento di un
contributo di costruzione più elevato e il conferimento di
standard urbanistici in misura maggiore>>).
---------------
La giurisprudenza, peraltro, chiamata a pronunciarsi in tema
di cambi di destinazione d'uso, ha avuto modo di chiarire
che la categoria urbanistica di industria, in quanto
assoggettata ad un regime contributivo agevolato, è
categoria di stretta interpretazione e "concerne
strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle
esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli
edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di
beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili
di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività
economica" (Cons. Stato, sez. V, 19.06.2012 n. 3561;
cfr. altresì Cons. Stato, Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; TAR
Sardegna, 27.10.2003, n. 1299)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.04.2013 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Cds:
per il cambio di destinazione serve l'ok del comune.
Non basta la Scia. Da magazzino a bar? Se permesso.
Il carico urbanistico che grava su di un bar è certamente
superiore a quello che può interessare un magazzino. Di
conseguenza la modifica della destinazione d'uso tra le due
diverse categorie deve essere formalmente autorizzata dal
Comune e non è sufficiente la presentazione di una denuncia
di inizio attività (ora Scia); e ciò, anche se non sono
state apportate modifiche all'immobile.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 18.04.2013 n. 2153 ha chiarito che il cambio di destinazione non
può essere riportato alla medesima classe del magazzino
originariamente autorizzato dal Comune, posto che, come è
evidente, ben diverse sono le caratteristiche proprie
dell'uno e dell'altro utilizzo e, di conseguenza, diversi
sono i parametri ai quali deve essere conformata l'opera
edilizia all'uno o all'altro dedicata.
Senza contare che la
diversa tipologia del carico urbanistico proprio della
destinazione a sala ristorante e bar rispetto a quello
proprio del magazzino non consentono l'assenso mediante
semplice procedura di Dia, che l'art. 57, comma 14, della
legge regionale della Calabria 19/2002, consente per il
mutamento della destinazione d'uso, alla specifica
condizione che dalla stessa non derivi la necessità di
dotazioni aggiuntive di standard e servizi pubblici e
privati. Nel caso specifico, è stato ritenuto illegittimo il
comportamento dell'Ente nel non aver accertato se dal
mutamento realizzato derivasse la necessità di dotazioni
aggiuntive, ovvero se risultasse il rispetto degli standard
urbanistici.
Nonostante tale circostanza, tuttavia, non è stata accolta
la richiesta di risarcimento del danno presentata dalla
ricorrente originaria, posto che la relativa domanda era
sfornita di prova circa la sussistenza del dolo o della
colpa dell'Amministrazione. Ciò in quanto il danno non è
rilevabile dal mero atto illegittimo, che comporterebbe
l'identificazione della illegittimità con il danno, mentre
la domanda di risarcimento è, anche nel processo
amministrativo, regolata dal principio dell'onere della
prova di cui all'art. 2697 cod. civ., in base al quale chi
vuol far valere un diritto in giudizio deve indicare e
provare i fatti che ne costituiscono il fondamento
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
fini di ritenere integrato un cambio di destinazione d’uso è
sufficiente che sia intervenuto un “completamento
funzionale”, nel senso che le opere, pur non perfette nelle
finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi
strutturali e con le caratteristiche idonee ad assolvere la
funzione cui sono destinate: in altri termini, l’immobile
deve risultare già fornito di opere indispensabili a rendere
effettivamente possibile un uso diverso da quello asserito,
in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria
destinazione.
Proprio questa è la situazione che si è venuta a determinare
nel caso di specie, laddove nel vano de quo sono sicuramente
presenti opere funzionali ad una destinazione (lavanderia)
diversa da quella originaria (cantina).
Ai fini di ritenere integrato un cambio di
destinazione d’uso –secondo la giurisprudenza– è
sufficiente che sia intervenuto un “completamento
funzionale”, nel senso che le opere, pur non perfette nelle
finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi
strutturali e con le caratteristiche idonee ad assolvere la
funzione cui sono destinate: in altri termini, l’immobile
deve risultare già fornito di opere indispensabili a rendere
effettivamente possibile un uso diverso da quello asserito,
in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria
destinazione (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, n. 12734
del 2005; TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, n. 837 del 2007).
Proprio questa è la situazione che si è venuta a determinare
nel caso di specie, laddove nel vano de quo sono sicuramente
presenti opere funzionali ad una destinazione (lavanderia)
diversa da quella originaria (cantina)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il sopravvenire di una disciplina urbanistica, in
assenza di atti di assensi del Comune a istanze di mutamento
di destinazione, non può ex se mutare le destinazioni
formalizzate a catasto.
Infatti il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente
rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, posto che
nell'ambito delle stesse categorie catastali possono anche
aversi mutamenti di fatto, ma che, come tali, sono
irrilevanti sul piano urbanistico.
In un caso identico la giurisprudenza aveva espressamente
ricordato come l'abuso eventualmente commesso dal
proprietario -che destina a scopi commerciali una parte di
un immobile con destinazione industriale- non vale in alcun
caso ad imprimere allo stesso una destinazione formale
diversa da quella risultante cartolarmente.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è dunque soltanto quello che interviene legittimamente tra
categorie funzionalmente autonome sotto il profilo
urbanistico, posto che il mutamento di fatto, da
“produttivo" ad attività di commercio all'ingrosso -o anche
al dettaglio- non configura come un mutamento di
destinazione d'uso giuridicamente ed urbanisticamente
rilevante.
Di fronte alla qualificazione catastale in cat.
D/1, irrilevante appare poi in ogni caso che la destinazione
“di fatto” sarebbe tra quelle ammissibili in zona BB dalle
sopravvenute previsioni urbanistiche, in quanto
riconducibile alla “funzione di servizi”, ed in particolare
tra quelle previste all’articolo 43. 4.7 lett. a) n.d.a. del
PUC “connettivo urbano”.
Il sopravvenire di una disciplina urbanistica, in assenza di
atti di assensi del Comune a istanze di mutamento di
destinazione, non può ex se mutare le destinazioni
formalizzate a catasto.
Infatti il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente
rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, posto che
nell'ambito delle stesse categorie catastali possono anche
aversi mutamenti di fatto (cfr. Consiglio Stato, sez. V 22.03.2010 n. 1650), ma che, come tali, sono irrilevanti sul
piano urbanistico.
In un caso identico la giurisprudenza aveva espressamente
ricordato come l'abuso eventualmente commesso dal
proprietario -che destina a scopi commerciali una parte di
un immobile con destinazione industriale- non vale in
alcun caso ad imprimere allo stesso una destinazione formale
diversa da quella risultante cartolarmente (cfr. Consiglio
Stato sez. V 11.06.2003 n. 3295).
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è dunque soltanto quello che interviene legittimamente tra
categorie funzionalmente autonome sotto il profilo
urbanistico, posto che il mutamento di fatto, da
“produttivo" ad attività di commercio all'ingrosso
-o
anche al dettaglio- non configura come un mutamento di
destinazione d'uso giuridicamente ed urbanisticamente
rilevante (cfr. Consiglio Stato sez. V 13.02.1993 n. 245)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1712 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
trasformazione di un magazzino e di un deposito in superfici
commerciali e la previsione, al primo piano, di uffici in
luogo di locali residenziali configurano modifiche della
destinazione d'uso rilevanti, intervenendo tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti
incidenti sul carico urbanistico.
Correttamente, l’amministrazione ha escluso che l’intervento
possa qualificarsi quale “manutenzione straordinaria",
proprio in considerazione della previsione di una modifica
della destinazione d'uso di alcune porzioni dell’immobile.
Invero, ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. b), sono opere di
manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici” a
condizione, però, che non alterino i volumi e le superfici
delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche
delle destinazioni di uso.
Il Collegio non condivide la tesi del ricorrente secondo cui
le opere previste in progetto sarebbero riconducibili alla
manutenzione straordinaria in forza delle previsione di cui
all’art. 51, l. reg. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “i
mutamenti di destinazione d'uso, conformi alle previsioni
urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere
edilizie, non mutano la qualificazione dell’intervento”.
La normativa regionale, invero, deve essere interpretata
alla luce dei principi fondamentali della materia “governo
del territorio”, quali sono le definizioni delle categorie
di interventi edilizi dettate all’art. 3, d.P.R. n. 380/2001
(C. Cost., 23.11.2011, n. 309).
Con il provvedimento prot. n. 7842 del 28.8.2011 e con il
provvedimento prot. n. 7838 del 28.02.2011 il Comune
di Gallarate ha rigettato, rispettivamente, l’istanza di
autorizzazione paesaggistica e l’istanza di permesso di
costruire presentate dal sig. C.Z., ritenendo che
l’intervento edilizio proposto, poiché prevede un cambio di
destinazione d'uso e l’esecuzione di opere non qualificabili
quale manutenzione straordinaria, si ponga in contrasto con
il piano di governo del territorio, adottato con
deliberazione del Consiglio Comunale n. 57 del 04.10.2010 ed
ha quindi disposto l’applicazione delle misure di
salvaguardia, ai sensi dell’art. 13, c. 12, l. reg.
Lombardia n. 12/2005.
In particolare, l’amministrazione ha ravvisato un contrasto
con l’art. 71 del piano delle regole, norma che, negli
ambiti territoriali a trasformazione urbanistica, in
pendenza della approvazione dei piani attuativi o degli atti
di programmazione negoziata, consente unicamente interventi
di conservazione degli edifici esistenti sino alla
manutenzione straordinaria come definita dall’art. 27, c. 1,
lett. b), (e, nella versione definitiva, sino alla
ristrutturazione), senza modifica della destinazione d'uso.
...
L’art. 71 del piano delle regole è chiaro nel
vietare modificazioni della destinazione d'uso nelle more
della approvazione dei piani attuativi.
Nel caso di specie, la realizzazione di mutamenti della
destinazione d'uso è chiaramente evincibile dalla
descrizione delle opere, contenuta nell’istanza di permesso
di costruire e dalle tavole ad essa allegate.
Né può obiettarsi, come fa il ricorrente, che si tratti di
meri “spostamenti di usi esistenti”: la trasformazione di un
magazzino e di un deposito in superfici commerciali e la
previsione, al primo piano, di uffici in luogo di locali
residenziali configurano modifiche della destinazione d'uso
rilevanti, intervenendo tra categorie edilizie
funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti
incidenti sul carico urbanistico.
Correttamente, inoltre, l’amministrazione ha escluso che
l’intervento possa qualificarsi quale “manutenzione
straordinaria", proprio in considerazione della previsione
di una modifica della destinazione d'uso di alcune porzioni
dell’immobile.
Invero, ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. b), sono opere di
manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici” a
condizione, però, che non alterino i volumi e le superfici
delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche
delle destinazioni di uso.
Il Collegio non condivide la tesi del ricorrente secondo cui
le opere previste in progetto sarebbero riconducibili alla
manutenzione straordinaria in forza delle previsione di cui
all’art. 51, l. reg. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “i
mutamenti di destinazione d'uso, conformi alle previsioni
urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere
edilizie, non mutano la qualificazione dell’intervento”.
La normativa regionale, invero, deve essere interpretata
alla luce dei principi fondamentali della materia “governo
del territorio”, quali sono le definizioni delle categorie
di interventi edilizi dettate all’art. 3, d.P.R. n. 380/2001
(C. Cost., 23.11.2011, n. 309).
In ogni caso, nella fattispecie oggetto del presente
giudizio, la qualificazione dell’intervento non assume
rilievo decisivo (la nuova versione dell’art. 71 del piano
delle regole consente, invero, anche gli interventi di
ristrutturazione edilizia): ciò che rileva è, piuttosto, la
realizzazione di mutamenti di destinazione d'uso,
chiaramente vietata dal piano di governo del territorio.
Poiché, quindi, l’intervento edilizio in questione prevede
un mutamento di destinazione d'uso, esso si pone in
contrasto con l’art. 71 del piano delle regole del p.g.t.:
legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha dato
applicazione alle misure di salvaguardia ed ha sospeso ogni
determinazione sulla domanda di permesso di costruire,
conformemente alla previsione di cui all’art. 36, l. reg.
Lombardia n. 12/2005.
Il provvedimento non è viziato da difetto di motivazione,
indicando chiaramente nel cambio di destinazione d'uso la
ragione per la quale le opere non sono qualificabili quale
manutenzione straordinaria e si pongono in contrasto con le
previsioni del p.g.t. adottato.
Non sussiste parimenti la violazione dell’art. 38, l. reg.
Lombardia n. 12/2005: la norma pone in capo al responsabile
del procedimento la facoltà di richiedere modifiche, ma solo
nel caso in cui queste siano di modesta entità, circostanza
che non ricorre nel caso di specie.
Né è causa di illegittimità del provvedimento impugnato la
richiesta di integrazioni documentali sugli aspetti
paesaggistici del progetto, necessaria stante l’inclusione
del Comune di Gallarate nel Piano Lombardo del Ticino.
Non è poi configurabile il vizio di eccesso di potere -per
contraddittorietà rispetto ai precedenti atti comunali
assunti nel corso del procedimento- il quale presuppone
l’esercizio di un potere discrezionale, nella specie
insussistente.
In considerazione della natura vincolata del potere
esercitato e della correttezza del contenuto dispositivo del
provvedimento impugnato, le lamentate violazioni degli artt.
10-bis, 7 della l. n. 241/1990 e degli artt. 36 e 37, l.
Regione Lombardia n. 12/2005 (poiché il provvedimento prot.
7837 del 28.2.2011 sarebbe stato sottoscritto dal
funzionario responsabile del procedimento e non dal
dirigente capo del servizio), anche ove fondate, non
causerebbero l’annullamento del provvedimento impugnato,
così come previsto all’art. 21-octies, l. n. 241/1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.03.2013 n. 760 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Cambio destinazione d'uso in Lombardia - Commento al parere
della Regione Lombardia del 10.01.2013 (16.03.2013
- link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Mutamento della destinazione d’uso senza opere
edilizie (Regione Lombardia, Direzione Generale
Territorio e Urbanistica,
risposta e-mail del 20.07.2012 + ulteriore e
complementare
risposta e-mail del
10.01.2013).
---------------
Lo scorso 23.07.2012 abbiamo pubblicato l'interessante
quesito redatto dall'U.T. di un comune bergamasco con
annessa risposta regionale.
Tuttavia, lo stesso comune ha richiesto -dopo poche
settimane- un ulteriore chiarimento in materia [circa il
fatto che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 309 del
23.11.2011 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del
2005, nella parte in cui disapplica l’art. 3 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia)] ... e la
relativa risposta del 10.01.2013 è sopra linkata.
11.03.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
EDILIZIA PRIVATA:
●
Il cambio di destinazione d’uso senza realizzazione
di opere edilizie non costituisce un’attività del tutto
libera e priva di vincoli, non potendo comportare la
vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini
l’uso del territorio nel singolo comune. Una diversa
soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio,
una inammissibile vulnerazione delle prerogative di
autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali,
ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole
generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato
assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo
di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati
dalla strumentazione urbanistica.
●
Il cambio di categoria edilizia, da residenziale a terziario
-comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione
di standards, specie di parcheggi- rende ininfluente la
circostanza che tale modifica avvenga o meno con
l’effettuazione di opere edilizie.
La giurisprudenza, dunque, afferma la necessità della
concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per tale
tipologia di interventi, al posto della DIA; la DIA è invece
sufficiente laddove il semplice cambio di destinazione d’uso
sia stato effettuato senza opere evidenti in quanto non
implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio
del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di
concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto
dell’area.
Più precisamente la Cassazione ha sancito che in materia
edilizia, le opere interne hanno proprie peculiari
caratteristiche -rispetto agli interventi di trasformazione
del patrimonio edilizio esistente, ovvero di manutenzione
ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento
conservativo e di ristrutturazione edilizia- devono pertanto
essere considerate nel loro complesso onde stabilirne il
regime urbanistico applicabile, con la conseguenza che
occorre la concessione edilizia allorché esse determinino un
mutamento della destinazione d’uso o diano origine ad un
organismo in tutto o in parte nuovo.
●
La nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le
categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le
singole zone territoriali omogenee.
---------------
Nella specie, il cambio di destinazione d’uso è avvenuto tra
categorie diverse e cioè da residenziale a terziario e ciò,
comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione
di standards, specie di parcheggi, rende ininfluente la
circostanza che tale modifica sia avvenuta o meno con
l’effettuazione di opere edilizie.
E’ controversa nel presente giudizio la legittimità del
provvedimento con il quale la resistente amministrazione
comunale di Avellino ha sanzionato, con l’ingiunzione del
ripristino dello stato dei luoghi, il mutamento di
destinazione d’uso dell’appartamento di proprietà del
ricorrente, sito al secondo piano di via ..., siccome
adibito, senza preventiva autorizzazione, a studio
commerciale in luogo dell’originaria destinazione
residenziale.
L’ordinanza è contestata dal ricorrente che oppone
l’esistenza di un mero mutamento funzionale dell’immobile,
realizzato senza opere edilizie, in conformità alla
normativa urbanistica vigente nel 1997, epoca dell’avvenuto
mutamento.
In sostanza, i ricorrenti invocano la costante
giurisprudenza del Giudice Amministrativo (sin da Cons.
Stato, sez. IV, 27.07.1982, n. 525) secondo cui «il
semplice cambio di destinazione d'uso, effettuato senza
opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento
urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale,
non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga
l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio ricade»
(così TAR Lazio-Roma, sez. I-quater, 24.05.2011, n. 4622);
Sostengono che, all'epoca dell'indicato cambiamento di
destinazione d'uso (da residenziale a studio professionale)
la Regione Campania non aveva ancora legiferato in materia
e, comunque, l’attività di studio professionale impressa
all’immobile fin dal 1977 era conforme alle previsioni
dell'allora vigente Piano Regolatore Generale di Avellino,
siccome ricadente in zona “B - residenziale”.
La tesi attorea, pur finemente esposta e doviziosamente
argomentata, non ha pregio atteso che la giurisprudenza ha
chiarito che:
- il cambio di destinazione d’uso senza realizzazione di
opere edilizie non costituisce un’attività del tutto libera
e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione
di ogni previsione urbanistica che disciplini l’uso del
territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non
solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile
vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità
sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in
concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad
assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio,
con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli
modificazioni degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica (Cons. St. Sez. I 25.05.2012 n.
759; Cons. St. Sez. V 10.07.2003 n. 4102; 03.01.1998 n. 24;
28.05.2010 n. 3420);
- il cambio di categoria edilizia, da residenziale a
terziario -comportando diverso carico urbanistico e connessa
dotazione di standards, specie di parcheggi- rende
ininfluente la circostanza che tale modifica avvenga o meno
con l’effettuazione di opere edilizie. La giurisprudenza,
dunque, afferma la necessità della concessione edilizia
(oggi permesso di costruire) per tale tipologia di
interventi, al posto della DIA; la DIA è invece sufficiente
laddove il semplice cambio di destinazione d’uso sia stato
effettuato senza opere evidenti in quanto non implica
necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del
territorio comunale e, come tale, non abbisogna di
concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto
dell’area. Più precisamente la Cassazione ha sancito che in
materia edilizia, le opere interne hanno proprie peculiari
caratteristiche -rispetto agli interventi di trasformazione
del patrimonio edilizio esistente, ovvero di manutenzione
ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento
conservativo e di ristrutturazione edilizia- devono pertanto
essere considerate nel loro complesso onde stabilirne il
regime urbanistico applicabile, con la conseguenza che
occorre la concessione edilizia allorché esse determinino un
mutamento della destinazione d’uso o diano origine ad un
organismo in tutto o in parte nuovo (cfr. Cass. Pen., sez.
III, 15.03.2002, n. 19378);
- la nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le
categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le
singole zone territoriali omogenee (cfr. Cons. St., sez. V,
07.09.2004, n. 5867);
Nella specie, il cambio di destinazione d’uso è avvenuto tra
categorie diverse e cioè da residenziale a terziario e ciò,
comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione
di standards, specie di parcheggi, rende ininfluente la
circostanza che tale modifica sia avvenuta o meno con
l’effettuazione di opere edilizie
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 08.03.2013 n. 580 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per ravvisare la presenza
di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e
urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno
intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e
paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover
accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente
accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi
svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli
di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola
giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi
siano”.
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica può esistere anche
all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle
cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir
regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico
edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei
fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere
accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la
libera attività di preghiera sia non riservato ai membri
dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire.
... per l'annullamento del provvedimento 97149/12 P.G.
adottato in data 07.11.2012 dal Responsabile del
Settore “Sportello Unico dell’Edilizia” del Comune di
Brescia attraverso il quale è stato ordinato
all’Associazione Culturale Al-Noor Brescia – Italia di
ripristinare la destinazione d’uso autorizzata “commerciale”
nell’unità immobiliare sita in via F.lli Bonardi n. 9, piano
terra, individuabile al NCT fg. 26, part. 132 sub. 12, con
l’avvertimento che “per poter utilizzare in futuro i locali
a Centro Culturale e/o a sede associativa e centro di culto,
dovrà essere richiesto ed ottenuto il necessario permesso di
costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-bis, L.R. 11.03.2005 n. 12, così come previsto dalle norme regionali
sopradescritte, ed una nuova certificazione di agibilità”,
nonché di ogni atto presupposto, connesso e conseguente.
...
Il ricorso risulta fondato.
L’Amministrazione comunale, una volta preso conoscenza
dell’atto costitutivo e dello statuto dell’Associazione
islamica qui ricorrente, è pervenuta dunque alla conclusione
che l’utilizzo dei locali richiederebbe, anche in assenza di
lavori, il rilascio del permesso di costruire.
Tale tesi non può essere condivisa.
La fattispecie all’esame è assai simile a quella definita
dal TAR Milano, Sez. 2° con la sentenza ex art. 60 c.p.a. n.
6415 del 23.9.2010, alle cui motivazioni si rinvia ex art.
74 c.p.a.
(Per comodità del lettore si riporta il punto centrale della
sentenza: <<di per sé le opere oggetto dell’istanza non
rivelano, in alcun modo, la volontà dell’associazione
ricorrente di attuare una destinazione del fabbricato ad
“attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”, ai
sensi dell’art. 71, l. Regione Lombardia n. 12/2005,
piuttosto che a propria sede.
Il fabbricato non può, difatti, essere qualificato, per
effetto di tali interventi, quale immobile destinato al
culto, all’abitazione dei ministri del culto o del personale
di servizio, ovvero ad attività di formazione religiosa.
La fattispecie non rientra neppure nell’ipotesi di cui
all’art. 71, c. 1, lett. c, della l. Regione Lombardia n.
12/2005: in essa sono, difatti, ricompresi “gli immobili
adibiti ad attività educative, culturali, sociali,
ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le
attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e
similari che non abbiano fini di lucro” unicamente se tali
attività vengano svolte “nell’esercizio del ministero
pastorale”.
Il rifacimento di coperture di pavimentazione, il ripristino
di intonaci, la sistemazione di pilastri in cartongesso,
l’imbiancatura dei locali, la realizzazione di impianti
igienico–sanitari ed elettrici non palesano, di per sé, in
alcun modo, la volontà di realizzare un luogo di culto né di
esercitare nell’immobile un’attività connessa all’esercizio
del ministero pastorale, attività che, oltretutto, non
rientra tra quelle indicate nello statuto dell’associazione
“Centro Culturale Pace”;
- né quanto sostenuto dall’amministrazione circa l’essere il
Centro Culturale “emanazione di una confessione religiosa”
assume alcun rilievo, non potendo dedursi dalla natura e
dall’orientamento religioso del proprietario di un immobile
la volontà di imprimere ad esso una particolare destinazione
d’uso.
La stessa difesa dell’amministrazione comunale ammette che
l’immobile non è una moschea ma “un luogo di riunione ed
assistenza riservato alla comunità religiosa islamica”: il
fatto che i servizi prestati dall’associazione siano rivolti
ad una comunità appartenente ad una determinata confessione
religiosa, ma dichiaratamente erogati al solo scopo di
promuoverne l’integrazione e l’inserimento nella società,
non rivela affatto la volontà di destinare i locali in cui
essa ha la propria sede a luogo di culto o comunque ad
attività connesse all’esercizio del ministero pastorale,
come richiede l’art. 71 della l. Regione Lombardia n.
12/2005;
- parimenti, la circostanza che vi possa essere stato, in
passato, un uso di fatto dell’immobile anche quale luogo di
culto e di preghiera, non è indicativa di un intento di
modificare la funzione originaria dell’immobile, al fine di
adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa
rispetto a quella di sede del Centro Culturale;
- la volontà di attuare una particolare destinazione d'uso -nel caso di specie ad “attrezzatura di interesse comune per
servizi religiosi”- deve, invero, trovare una
corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere
realizzate e non può essere inferita dall’uso di fatto che
possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. Tar
Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665), tanto più
quando l’istanza di sanatoria non faccia riferimento alcuno
ad una destinazione di tipo religioso.>>).
Va soggiunto che la Sezione, con la recente ordinanza
cautelare n. 483 del 31.10.2012, ha svolto le seguenti
ulteriori considerazioni: <<… nel nostro ordinamento,
vigente il noto art. 19 della Costituzione, conforme del
resto all’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo, nessun soggetto può ordinare ad altro di non
pregare a casa propria (cfr. ricorso, p. 9 dal dodicesimo
rigo). Del resto, la difesa del Comune intimato è incentrata
su un presupposto diverso, che ben può essere quello che
storicamente ha ispirato l’azione dell’ente, ma all’evidenza
non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del
provvedimento che dice altro.
Assume infatti il Comune che
il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede
dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad
altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a
moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di
una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai
sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005,
nella specie mancante. In tal senso, deve allora osservarsi
che il Comune ha senz’altro il potere di sanzionare l’uso di
un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di
specie l’uso difforme non può essere identificato con il
mero fatto che nel locale si svolga la preghiera.
Infatti,
come risulta dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il
parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011
dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza
di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e
urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco,
dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri,
l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro
che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali
o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del
culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e
donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o
sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica può esistere anche
all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle
cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir
regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico
edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei
fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può
essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso
per la libera attività di preghiera sia non riservato ai
membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire;>>
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 08.03.2013 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
nostro ordinamento, vigente il noto art. 19 della
Costituzione, conforme del resto all’art. 9 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nessun soggetto
può ordinare ad altro di non pregare a casa propria.
Assume infatti il Comune che il locale per cui è causa,
legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente,
sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di
culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a
differenza che per la sede di una associazione, è richiesto
il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-ter,
della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune ha
senz’altro il potere di sanzionare l’uso di un locale
difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso
difforme non può essere identificato con il mero fatto che
nel locale si svolga la preghiera. Infatti, come risulta
dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV,
28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il parere
al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal
Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di
una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e
urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco,
dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri,
l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro
che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali
o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del
culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e
donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o
sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica può esistere anche
all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle
cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir
regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico
edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei
fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere
accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la
libera attività di preghiera sia non riservato ai membri
dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire.
L’Amministrazione comunale, una volta preso
conoscenza dell’atto costitutivo e dello statuto
dell’Associazione islamica qui ricorrente, è pervenuta
dunque alla conclusione che l’utilizzo dei locali
richiederebbe, anche in assenza di lavori, il rilascio del
permesso di costruire.
Tale tesi non può essere condivisa.
La fattispecie all’esame è assai simile a quella definita
dal TAR Milano, Sez. 2° con la sentenza ex art. 60 c.p.a. n.
6415 del 23.09.2010, alle cui motivazioni si rinvia ex art.
74 c.p.a. (Per comodità del lettore si riporta il punto
centrale della sentenza: <<di per sé le opere oggetto
dell’istanza non rivelano, in alcun modo, la volontà
dell’associazione ricorrente di attuare una destinazione del
fabbricato ad “attrezzatura di interesse comune per servizi
religiosi”, ai sensi dell’art. 71, l. Regione Lombardia n.
12/2005, piuttosto che a propria sede.
Il fabbricato non può, difatti, essere qualificato, per
effetto di tali interventi, quale immobile destinato al
culto, all’abitazione dei ministri del culto o del personale
di servizio, ovvero ad attività di formazione religiosa.
La fattispecie non rientra neppure nell’ipotesi di cui
all’art. 71, c. 1, lett. c, della l. Regione Lombardia n.
12/2005: in essa sono, difatti, ricompresi “gli immobili
adibiti ad attività educative, culturali, sociali,
ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le
attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e
similari che non abbiano fini di lucro” unicamente se tali
attività vengano svolte “nell’esercizio del ministero
pastorale”.
Il rifacimento di coperture di pavimentazione, il ripristino
di intonaci, la sistemazione di pilastri in cartongesso,
l’imbiancatura dei locali, la realizzazione di impianti
igienico–sanitari ed elettrici non palesano, di per sé, in
alcun modo, la volontà di realizzare un luogo di culto né di
esercitare nell’immobile un’attività connessa all’esercizio
del ministero pastorale, attività che, oltretutto, non
rientra tra quelle indicate nello statuto dell’associazione
“Centro Culturale Pace”;
- né quanto sostenuto dall’amministrazione circa l’essere il
Centro Culturale “emanazione di una confessione religiosa”
assume alcun rilievo, non potendo dedursi dalla natura e
dall’orientamento religioso del proprietario di un immobile
la volontà di imprimere ad esso una particolare destinazione
d’uso.
La stessa difesa dell’amministrazione comunale ammette che
l’immobile non è una moschea ma “un luogo di riunione ed
assistenza riservato alla comunità religiosa islamica”: il
fatto che i servizi prestati dall’associazione siano rivolti
ad una comunità appartenente ad una determinata confessione
religiosa, ma dichiaratamente erogati al solo scopo di
promuoverne l’integrazione e l’inserimento nella società,
non rivela affatto la volontà di destinare i locali in cui
essa ha la propria sede a luogo di culto o comunque ad
attività connesse all’esercizio del ministero pastorale,
come richiede l’art. 71 della l. Regione Lombardia n.
12/2005;
- parimenti, la circostanza che vi possa essere stato, in
passato, un uso di fatto dell’immobile anche quale luogo di
culto e di preghiera, non è indicativa di un intento di
modificare la funzione originaria dell’immobile, al fine di
adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa
rispetto a quella di sede del Centro Culturale;
- la volontà di attuare una particolare destinazione d'uso -nel caso di specie ad “attrezzatura di interesse comune per
servizi religiosi”- deve, invero, trovare una
corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere
realizzate e non può essere inferita dall’uso di fatto che
possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. Tar
Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665), tanto più
quando l’istanza di sanatoria non faccia riferimento alcuno
ad una destinazione di tipo religioso.>>).
Va soggiunto che la Sezione, con la recente ordinanza
cautelare n. 483 del 31.10.2012, ha svolto le seguenti
ulteriori considerazioni: <<… nel nostro ordinamento,
vigente il noto art. 19 della Costituzione, conforme del
resto all’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo, nessun soggetto può ordinare ad altro di non
pregare a casa propria (cfr. ricorso, p. 9 dal dodicesimo
rigo). Del resto, la difesa del Comune intimato è incentrata
su un presupposto diverso, che ben può essere quello che
storicamente ha ispirato l’azione dell’ente, ma all’evidenza
non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del
provvedimento che dice altro.
Assume infatti il Comune che
il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede
dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad
altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a
moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di
una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai
sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005,
nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi
che il Comune ha senz’altro il potere di sanzionare l’uso di
un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di
specie l’uso difforme non può essere identificato con il
mero fatto che nel locale si svolga la preghiera. Infatti,
come risulta dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il
parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011
dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza
di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e
urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco,
dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri,
l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro
che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali
o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del
culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e
donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o
sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica può esistere anche
all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle
cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir
regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico
edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei
fedeli. Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può
essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso
per la libera attività di preghiera sia non riservato ai
membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire;>>.
Le spese di giudizio, liquidate come da dispositivo, vanno
poste -alla stregua del principio victusvictori- a
carico della resistente Amministrazione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 08.03.2013 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Risposta a quesito interpretativo su
ristrutturazione con modifica di destinazione d’uso con
opere (Regione
Emilia Romagna,
parere 08.02.2013 n.
35234 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: INDIVIDUAZIONE
DEL MOMENTO CONSUMATIVO
NEL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO.
Nei casi in cui si proceda al mutamento di destinazione
d’uso di un immobile mediante l’esecuzione di opere il
cui scopo è quello di renderlo utilizzabile per finalità
diverse
da quelle originarie, la trasformazione dovrà ritenersi
ultimata con il completamento delle opere medesime,
quando, cioè, l’uso del manufatto secondo la nuova
destinazione sia effettivamente possibile.
Particolarmente interessante la questione oggetto di
attenzione
da parte della Cassazione nella vicenda in esame, in
cui la Corte affronta, sotto un diverso angolo visuale, il
tema
del mutamento di destinazione d’uso di un’unit
immobiliare, in particolare fissando con chiarezza quando
deve ritenersi
‘‘ultimato’’ l’illecito intervento edilizio.
La vicenda
processuale
segue alla condanna, confermata in appello, nei confronti
di un imputato cui era stato addebitato di aver modificato
l’originaria destinazione d’uso di un locale sottotetto da
locale di sgombero a locale ad uso abitativo, con
realizzazione
di opere e ampliamento volumetrico non assentibile,
realizzazione
del locale sottotetto con pendenza delle falde del
37% in luogo del 35% assentito, con conseguente maggiore
altezza al colmo, il tutto in assenza di permesso di
costruire
o, comunque, in difformità totale dal permesso di costruire
e da quanto disposto dall’art. 6, comma 2, delle Norme
Tecniche di attuazione del PRG del Comune.
Contro la
sentenza
di condanna proponeva ricorso per cassazione la difesa,
sostenendo, per quanto di interesse in questa sede, che
la Corte d’appello avrebbe erroneamente individuato la data
di consumazione del reato facendo riferimento alla
realizzazione
di impianti all’interno del locale, mentre la modifica
dell’originaria destinazione d’uso avrebbe dovuto
considerarsi
perfezionata nel momento in cui era avvenuta la
realizzazione
delle falde con pendenza superiore rispetto a quanto
previsto, poiché sarebbe tale intervento ad aver reso
urbanisticamente
rilevante la volumetria del sottotetto.
La prospettazione difensiva, pur suggestiva, è stata però
disattesa
dagli Ermellini che hanno, sul punto, respinto il ricorso.
In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato
che
nei casi in cui, come nella fattispecie, si proceda al
mutamento
di destinazione d’uso di un immobile mediante l’esecuzione
di opere il cui scopo è quello di renderlo utilizzabile
per finalità diverse da quelle originarie, la
trasformazione dovrà
ritenersi ultimata con il completamento delle opere
medesime,
quando, cioè, l’uso del manufatto secondo la nuova
destinazione sia effettivamente possibile.
In applicazione
di
tale principio si è rilevato che, nel caso in esame, la
Corte
d’appello aveva rilevato che, all’atto del sequestro, le
opere
interne al sottotetto e destinate a renderlo abitabile erano
ancora in corso di esecuzione, tanto che oltre a non essere
stati ancora installati ‘‘importanti elementi strutturali’’,
quali
luci e condizionatori, mancava anche una scala di accesso ai
locali e veniva utilizzata una scala mobile a pioli per
accedere
attraverso un foro praticato sul pavimento, costituente
l’unica
via di ingresso dall’ultimo piano del fabbricato al
sottotetto.
Da qui, dunque, la corretta interpretazione fattane dai
giudici
di merito.
In giurisprudenza, si noti che la Cassazione,
già in passato aveva avuto modo di operare una interessante
distinzione, precisando che, il mutamento di destinazione
d’uso può essere materiale, quando si realizzi attraverso
l’esecuzione
di opere edili sull’immobile preesistente, ovvero
soltanto funzionale, quando avvenga con una semplice
modificazione
dell’utilizzo, che non comporti trasformazioni materiali:
solo il mutamento funzionale richiede, per essere integrato,
l’effettiva modifica della destinazione dell’immobile,
mentre il mutamento materiale si consuma sin dall’inizio dei
lavori edilizi finalizzati al cambio di destinazione,
purché tale
finalizzazione sia desumibile attraverso mezzi probatori di
natura
logica o storica (v., Cass. pen., sez. VI, 28.10.1999,
n. 12271, in Ced Cass., n. 214527)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.02.2013 n. 6298
-
tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Modifica della destinazione d'uso e momento consumativo del reato urbanistico.
Nei casi in cui si proceda al mutamento di destinazione
d'uso di un immobile mediante l'esecuzione di opere il cui
scopo è quello di renderlo utilizzabile per finalità diverse
da quelle originarie, la trasformazione dovrà ritenersi
ultimata con il completamento delle opere medesime, quando,
cioè, l’uso del manufatto secondo la nuova destinazione sia
effettivamente possibile (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.02.2013 n. 6298 -
tratto da www.lexambiente.it).
---------------
SENTENZA
4. Il ricorso è inammissibile perché
basato su motivi manifestamente infondati.
Occorre in primo luogo rilevare che non
risulta in contestazione la natura
dell'intervento eseguito che, da quanto
emerge dall'esame del ricorso e del
provvedimento impugnato, si è concretato
nell'innalzamento delle falde di un
sottotetto e l'esecuzione di opere interne,
quali la realizzazione di un bagno, la
predisposizione di punti luce e di attacchi
per impianti di condizionamento (pag. 3 del
ricorso e pag. 4 della sentenza).
Neppure è contestato che l'intervento possa
qualificarsi come modifica dell'originaria
destinazione d'uso di un preesistente volume
tecnico in unità abitativa in assenza di
titolo abilitativo.
Ciò che i ricorrenti ritengono meritevole di
censura è, invece, la individuazione del
momento consumativo del reato, che essi
ritengono coincidente con l'innalzamento
delle falde del tetto e che, al contrario,
la Corte del merito colloca in un momento
successivo, quello della ultimazione delle
opere interne, specificando che, essendo
intervenuto il sequestro preventivo delle
opere ancora in corso di realizzazione il
02.03.2006, è da tale data che decorre il
termine di prescrizione del reato.
5. Date tali premesse, deve ricordarsi che,
in linea generale, si è già avuto modo di
precisare che la
destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile
e risponde a precisi scopi di interesse
pubblico, di pianificazione o di attuazione
della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto
funzionale, specificando le destinazioni di
zona fissate dagli strumenti urbanistici in
considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e
disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a
seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e
la gestione dello stesso vengono realizzate
attraverso il coordinamento delle varie
destinazioni d'uso in tutte le loro
possibili relazioni e le modifiche non
consentite di queste incidono negativamente
sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale
(così, testualmente, Sez. III n. 9894,
05.03.2009).
Più recentemente, si è osservato che
l'accertamento del mutamento di
destinazione d'uso in corso d'opera deve
effettuarsi sulla base della individuazione
di elementi univocamente significativi,
propri, del diverso uso cui è destinata
l'opera e non coerenti con la destinazione
originaria
(Sez. III n. 8282, 09.03.2011).
6. Ciò posto, appare evidente che
nei casi in cui, come nella
fattispecie, si proceda al mutamento di
destinazione d'uso di un immobile mediante
l'esecuzione di opere il cui scopo è quello
di renderlo utilizzabile per finalità
diverse da quelle originarie, la
trasformazione dovrà ritenersi ultimata con
il completamento delle opere medesime,
quando, cioè, l'uso del manufatto secondo la
nuova destinazione sia effettivamente
possibile.
Date tali premesse, deve rilevarsi che, nel
caso in esame, con accertamento in fatto
supportato da adeguata motivazione, in
quanto tale, non sindacabile in questa sede,
la Corte territoriale ha rilevato che,
all'atto del sequestro, le opere interne al
sottotetto e destinate a renderlo abitabile
erano ancora in corso di esecuzione, tanto
che oltre a non essere stati ancora
installati «importanti elementi
strutturali», quali luci e
condizionatori, mancava anche una scala di
accesso ai locali e veniva utilizzata una
scala mobile a pioli per accedere attraverso
un foro praticato sul pavimento, costituente
l'unica via di ingresso dall'ultimo piano
del fabbricato al sottotetto.
La sentenza impugnata risulta pertanto, sul
punto, del tutto immune da censure. |
EDILIZIA
PRIVATA:
"Servizi religiosi" e normativa urbanistica.
Con
sentenza 04.01.2013 n. 21 il TAR Lombardia-Milano, Sez.
II, si pronuncia sull’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005, che
ammette la realizzazione di “nuove attrezzature per i
servizi religiosi” esclusivamente nelle aree
classificate a standard fino all’approvazione del piano dei
servizi, giudicando indimostrato, nel caso di specie, che
una richiesta di permesso di costruire per cambio di
destinazione d’uso avanzata da un’associazione di diritto
privato per la realizzazione di un centro culturale possa
rientrare in tale definizione ed essere sottoposta a tale
disciplina.
L’Unione Comunità islamica valtellinese è un’associazione
che ha come scopo statutario “la realizzazione di
iniziative utili sia a promuovere la conoscenza dell’Islam
in Italia che a rendere più autenticamente islamica la vita
delle famiglie musulmane in Italia”.
Proprietaria di un immobile a Sondrio, presenta in Comune
una richiesta di permesso di costruire per cambio di
destinazione d’uso “per l’adeguamento degli spazi
attualmente destinati a palestra per la realizzazione di un
centro culturale con relativi servizi”.
Il Comune, con preavviso di rigetto ex art. 10-bis l.
241/1990, rappresenta la mancanza del parere di conformità
alla normativa antincendio (ex art. 2 d.p.r. 37/1998),
assimilando l’attività dell’associazione a quella dei “locali
di spettacolo e trattenimento in genere con capienza
superiore a 100 posti” (n. 83 dell’allegato al d.m.
16.02.1982).
Successivamente, il Comune comunica il diniego definitivo di
permesso di costruire, fondato essenzialmente su ragioni di
natura urbanistica, asserendo il contrasto del progetto con
le previsioni di PRG relative alla zona B1 e la violazione
dell’art. 72, co. 4-bis, della l.r. 12/2005.
Tuttavia, sostiene il TAR, non è stato
dimostrato che la destinazione richiesta dall’Associazione
sia riconducibile alle “nuove attrezzature per i servizi
religiosi” di cui all’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005
e, di conseguenza, non è possibile stabilire la
compatibilità della destinazione richiesta con quelle
ammesse nella zona di ubicazione dell’immobile da parte
della pianificazione comunale.
In particolare, il giudice amministrativo rileva e censura
la discrasia tra preavviso di diniego e diniego definitivo:
quest’ultimo, come detto, fa riferimento a questioni
urbanistiche di cui il preavviso di diniego non fa menzione,
con ciò integrando una violazione dell’art. 10-bis l.
241/1990.
Scopo precipuo del preavviso di diniego, ove correttamente
effettuato, è quello di garantire un apporto in funzione
collaborativa da parte dell’interessato nel procedimento
amministrativo. Nella vicenda in esame, invece,
l’amministrazione (“in modo parziale e incompleto”)
ha omesso di riferire in via preliminare sulle possibili
problematiche di carattere urbanistico, pregiudicando così
l’apporto collaborativo dell’Unione Comunità islamica
valtellinese.
Un apporto del richiedente sarebbe stato sicuramente
auspicabile e avrebbe potuto fare maggior chiarezza sulla
natura dell’Unione, in funzione della corretta
individuazione della normativa applicabile.
L’Associazione ricorrente, infatti, in quanto associazione
di diritto privato non qualificabile come confessione
religiosa, nega che, ai fini urbanistici, la sua attività e
le sue strutture possano rientrare nel novero dei “servizi
religiosi” ex art. 72, co. 4-bis. Tuttavia, nella
richiesta di permesso di costruire, essa stessa si definisce
a volte come “associazione culturale”, altre volte
come “luogo di culto”.
Similmente il Comune, che a fini urbanistici considera
l’associazione islamica alla stregua dei “servizi
religiosi”, sotto il profilo della normativa antincendio
assimila l’attività dell’Unione a quella dei “locali di
spettacolo e trattenimento in genere”.
Il TAR accoglie pertanto il ricorso e annulla il diniego di
permesso di costruire; sulla richiesta presentata
dall’Unione islamica l’amministrazione “dovrà
ripronunciarsi mediante riesercizio del potere previo il
concreto coinvolgimento in sede procedimentale
dell’Associazione”.
Resta così assorbito il motivo con cui la ricorrente
chiedeva di sollevare questione di legittimità
costituzionale dell’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005 in
riferimento agli artt. 17–20 Cost. (libertà di riunione, di
associazione, libertà religiosa) (link a http://studiospallino.blogspot.it). |
anno 2012 |
|
EDILIZIA
PRIVATA: La
destinazione d’uso:
- caratterizza funzionalmente l’immobile ed è segnata dagli
strumenti urbanistici di pianificazione o di attuazione
della pianificazione, nell’ambito delle categorie generali
di uso urbanistico previste dalle norme vigenti;
- non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il
soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal
titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso”
urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia
strutturale dell’immobile – quale individuata nel titolo
edilizio – senza che essa possa essere influenzata da
utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti
autorizzatori e/o pianificatori;
- solo in caso di assenza o indeterminatezza del titolo
edilizio è ritraibile dalla classificazione catastale
attribuita in sede di primo accatastamento o da altri
documenti probanti.
---------------
Il mutamento di destinazione d’uso senza opere assume
rilievo solo se si sostanzia in un mutamento
urbanistico-edilizio ovvero solo se sconvolge l’assetto
dell’area in cui è ricaduto l’intervento edilizio.
---------------
Il mutamento di destinazione d’uso è ammesso solo se
compatibile con la caratterizzazione urbanistica impressa
all’area in cui è ubicato l’immobile.
► Ritenuto, peraltro, pacifico che la
destinazione d’uso:
- caratterizza funzionalmente l’immobile ed è segnata dagli
strumenti urbanistici di pianificazione o di attuazione
della pianificazione, nell’ambito delle categorie generali
di uso urbanistico previste dalle norme vigenti;
- secondo un costante orientamento giurisprudenziale, non si
identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto
utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo
abilitativo (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001 n.
583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto
la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata
alla tipologia strutturale dell’immobile – quale individuata
nel titolo edilizio – senza che essa possa essere
influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto
degli atti autorizzatori e/o pianificatori (tra le altre,
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n. 219 e TAR
Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, sentenza 07.09.2012 n.
537);
- solo in caso di assenza o indeterminatezza del titolo
edilizio è ritraibile dalla classificazione catastale
attribuita in sede di primo accatastamento o da altri
documenti probanti;
► Ritenuto che, per costante orientamento giurisprudenziale
(ex multis Cons. Stato, sez. V, 23.2.2000 n. 949, TAR
Liguria, sez. I, 28.01.2004 n. 102, TAR Veneto, Sez. III,
13.11.2001 n. 3699, Cass. Penale, Sez. III, 01.10.1997 n.
3104 e, più di recente, TAR Lazio, sez. II, 07.10.2005 n.
8002, TAR Abruzzo, sede l'Aquila, 02.04.2009 n. 236 e
TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.05.2011, n. 4622), il
mutamento di destinazione d’uso senza opere assume rilievo
solo se si sostanzia in un mutamento urbanistico-edilizio
ovvero solo se sconvolge l’assetto dell’area in cui è
ricaduto l’intervento edilizio;
► Ritenuto, in ogni caso, che il mutamento di destinazione
d’uso è ammesso solo se compatibile con la caratterizzazione
urbanistica impressa all’area in cui è ubicato l’immobile
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 13.12.2012 n. 1346 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il contributo per oneri
di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di
natura non tributaria, posto a carico del costruttore a
titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne ritrae.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di
urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d’uso concretamente impressa all’alloggio: poiché l’entità
degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata
alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che
un intervento di ristrutturazione e mutamento di
destinazione d’uso possa non comportare aggravi di carico
urbanistico e quindi l’obbligo della relativa corresponsione
degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in
caso di mutamento di destinazione di uso nell’ambito della
stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior
carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto
assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri
concessori.
---------------
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare
che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata
accompagnata da un’alterazione del carico urbanistico,
tenendo conto che l’aggregazione di cui si discute ha
interessato due appartamenti aventi già in precedenza
destinazione direzionale.
In ogni caso, in presenza di un insediamento già in possesso
di analoghe caratteristiche funzionali (nella fattispecie, i
locali incorporati erano adibiti ad ufficio)
l’amministrazione –per poter legittimamente esigere il
contributo per gli oneri di urbanizzazione– deve dare
contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui
si evinca il maggior carico urbanistico addebitabile alla
nuova destinazione.
---------------
La giurisprudenza è dell’avviso che gli interventi edilizi
che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione
interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e
comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e
ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come
manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento
conservativo, ma rientrano nell’ambito della
ristrutturazione edilizia.
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di
ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino
modificati la distribuzione della superficie interna e dei
volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le
diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere
più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi
casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi
dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento
conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che
lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie.
Nella fattispecie le modifiche effettuate inducono ad
ascrivere l’intervento edilizio nel genus della
ristrutturazione, poiché si assiste alla riallocazione e al
rinnovato dimensionamento di alcuni vani esistenti (taluni
dei quali adibiti a nuove funzioni come “sterilizzazione” e
“deposito”) nonché al rifacimento degli impianti tecnologici
e dei servizi igienici. Sono quindi ravvisabili i tratti
distintivi della ristrutturazione, per il duplice elemento
del recupero dello spazio e della diversità e “non alterità”
dell’organismo che si viene a realizzare rispetto a quello
originario, dato che gli ambienti mantengono una sostanziale
omogeneità rispetto ai precedenti quanto ai loro principali
caratteri identificativi (collocazione, sagoma, altezza,
volumetria): in buona sostanza si compie una modifica totale
o parziale dell’edificio, che in positivo è rappresentata
dalla creazione di un organismo “diverso” dal precedente, ed
in negativo dal fatto che per effetto delle opere non
vengono sensibilmente alterati i volumi, le superfici, le
dimensioni o la tipologia del fabbricato.
---------------
L’obbligazione contributiva per costo di costruzione è
a-causale e si correla alla produzione di ricchezza connessa
all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle
potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha
natura essenzialmente paratributaria.
Il contributo afferente al costo di costruzione, a norma
dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato in rapporto alle
caratteristiche, alle tipologie delle costruzioni e delle
loro destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre fare
riferimento all’art. 16 del D.P.R. 380/2001).
Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di rinnovo degli
elementi costitutivi di un immobile mediante la
realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il
pagamento della parte di contributo afferente al costo di
costruzione, da riferire al dato oggettivo della
ristrutturazione dell’edificio.
I ricorrenti lamentano l’erronea determinazione del
contributo di urbanizzazione da parte dell’amministrazione
in sede di rilascio del titolo abilitativo.
Nell’ambito di un tipico giudizio di accertamento, è
opportuno esaminare separatamente i presupposti per
l’applicazione degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione.
Sottolinea anzitutto il Collegio che –contrariamente a
quanto affermato dal Comune resistente– parte ricorrente ha
lamentato (classificando il proprio intervento come restauro
e risanamento conservativo - pag. 4 del gravame
introduttivo) l’assenza di un maggiore carico urbanistico a
seguito dell’ampliamento dello studio dentistico originario.
Va ribadito sul tema che il contributo per oneri di
urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di
natura non tributaria, posto a carico del costruttore a
titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia
Bari, sez. III – 10/02/2011 n. 243). Il presupposto
imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione
va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di
servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di
riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso
concretamente impressa all’alloggio: poiché l’entità degli
oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla
variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un
intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione
d’uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e
quindi l’obbligo della relativa corresponsione degli oneri;
al contrario è altrettanto possibile che in caso di
mutamento di destinazione di uso nell’ambito della stessa
categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico
urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito
e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori (TAR
Lazio Roma, sez. II – 14/11/2007 n. 11213).
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare
che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata
accompagnata da un’alterazione del carico urbanistico,
tenendo conto che l’aggregazione di cui si discute ha
interessato due appartamenti aventi già in precedenza
destinazione direzionale. In ogni caso, come sostenuto di
recente (cfr. sentenze Sezione 02/03/2012 n. 355; 24/08/2012
n. 1467) in presenza di un insediamento già in possesso di
analoghe caratteristiche funzionali (i locali incorporati
erano adibiti ad ufficio) l’amministrazione –per poter
legittimamente esigere il contributo per gli oneri di
urbanizzazione– avrebbe dovuto dare contezza degli indici o,
comunque, delle condizioni da cui si evinceva il maggior
carico urbanistico addebitabile alla nuova destinazione
(cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV – 04/05/2009 n. 3604).
Nel caso concreto la difesa dell’amministrazione ha
evidenziato –nella memoria finale– che il raddoppio delle
sale dedicate a gabinetto dentistico provoca una maggiore
domanda di servizi, senza tuttavia raffrontare la situazione
attuale (studio dentistico ampliato) con quella
concretamente preesistente. Al riguardo non è sufficiente il
paragone con una media struttura di vendita (la quale
avrebbe maggiore capacità di attrazione di clientela di due
esercizi di vicinato sommati tra loro): si tratta infatti di
una struttura del settore commerciale (soggetta ad una
disciplina specifica sugli standard necessari)
caratterizzata da una superficie ben maggiore (oltre 250
mq.).
Deve in conclusione ritenersi indebitamente preteso
l’importo di € 15.312,81, da restituire alla parte
ricorrente.
A differenti conclusioni deve pervenirsi con riguardo al
costo di costruzione.
Come ha già sottolineato questo Tribunale (cfr. sentenza
sez. I – 19/04/2011 n. 582) la giurisprudenza è dell’avviso
che gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il
profilo della distribuzione interna, l’originaria
consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento
di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei
volumi, non si configurano né come manutenzione
straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo,
ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia
(cfr. TAR Molise – 27/03/2009 n. 99; Consiglio di Stato,
sez. V – 17/12/1996 n. 1551).
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di
ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino
modificati la distribuzione della superficie interna e dei
volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le
diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere
più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi
casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi
dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento
conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che
lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie (cfr. Consiglio
di Stato, Sez. V – 18/10/2002 n. 5775; Consiglio di Stato,
sez. V – 23/05/2000 n. 2988).
Nella fattispecie le modifiche effettuate inducono ad
ascrivere l’intervento edilizio nel genus della
ristrutturazione, poiché (dall’analisi della planimetria in
atti) si assiste alla riallocazione e al rinnovato
dimensionamento di alcuni vani esistenti (taluni dei quali
adibiti a nuove funzioni come “sterilizzazione” e “deposito”)
nonché al rifacimento degli impianti tecnologici e dei
servizi igienici. Sono quindi ravvisabili i tratti
distintivi della ristrutturazione, per il duplice elemento
del recupero dello spazio e della diversità e “non
alterità” dell’organismo che si viene a realizzare
rispetto a quello originario, dato che gli ambienti
mantengono una sostanziale omogeneità rispetto ai precedenti
quanto ai loro principali caratteri identificativi
(collocazione, sagoma, altezza, volumetria): in buona
sostanza si compie una modifica totale o parziale
dell’edificio, che in positivo è rappresentata dalla
creazione di un organismo “diverso” dal precedente,
ed in negativo dal fatto che per effetto delle opere non
vengono sensibilmente alterati i volumi, le superfici, le
dimensioni o la tipologia del fabbricato (sentenza TAR
Brescia – 11/06/2004 n. 646).
Posta questa premessa, osserva il Collegio che
l’obbligazione contributiva per costo di costruzione è
a-causale e si correla alla produzione di ricchezza connessa
all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle
potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha
natura essenzialmente paratributaria (TAR Campania Salerno,
sez. II – 11/06/2002 n. 459). Il contributo afferente al
costo di costruzione, a norma dell’art. 6 della L. 10/1977,
è determinato in rapporto alle caratteristiche, alle
tipologie delle costruzioni e delle loro destinazioni ed
ubicazioni (oggi occorre fare riferimento all’art. 16 del
D.P.R. 380/2001). Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di
rinnovo degli elementi costitutivi di un immobile mediante
la realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il
pagamento della parte di contributo afferente al costo di
costruzione, da riferire al dato oggettivo della
ristrutturazione dell’edificio (sentenza Sezione 02/03/2012
n. 355): pertanto l’esazione è stata correttamente pretesa
dal Comune.
In conclusione il ricorso è parzialmente fondato e deve
essere accolto nella parte in cui il Comune ha erroneamente
richiesto la quota di oneri di urbanizzazione (€ 15.312,81),
che devono essere restituiti. Sulla somma vanno calcolati
gli interessi i quali decorrono –trattandosi di azione di
ripetizione di indebito– dalla data di proposizione della
domanda giudiziale, dovendosi presumere la buona fede
dell’amministrazione resistente in assenza di dimostrazione
contraria, mentre non spetta la rivalutazione monetaria
trattandosi di indebito oggettivo il quale genera solo
l’obbligazione di restituzione degli interessi a norma
dell’art. 2033 del c.c. (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II
– 05/05/2004 n. 1620; TAR Lazio Roma, sez. I – 19/01/1999 n.
99; Consiglio di Stato, sez. V – 30/10/1997 n. 1207). Non
spetta alcuna altra somma a titolo risarcitorio, in difetto
della dimostrazione di danni ulteriori e diversi
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 20.11.2012 n. 1818 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il contributo relativo al
costo di costruzione (art. 6, legge n. 10/1977), definibile
acausale, è riconducibile all'attività costruttiva ex se
considerata e, correlandosi direttamente all'uso
edificatorio del suolo ed ai potenziali vantaggi economici
che ne discendono, è sostanzialmente configurabile alla
stregua dei prelievi di natura paratributaria ed è sempre
dovuto in presenza di una trasformazione edilizia del
territorio ed in conseguenza della produzione di ricchezza
connessa alla sua utilizzazione.
Al contrario l'imposizione del contributo di urbanizzazione
(art. 5, L. n. 10/1977) -il quale non ha natura di
controprestazione in rapporto sinallagmatico, rispetto al
rilascio della concessione edilizia, ma è assimilabile ai
corrispettivi di diritto pubblico di natura non tributaria,
che svolgono funzione recuperatoria non commisurata né
all'utile dell'operazione né al vantaggio del
concessionario– presenta natura causale e risponde ad una
diversa ratio, che va individuata nella necessità di
ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle
utilità derivanti dalla presenza delle opere medesime, in
modo più equo per la comunità.
---------------
Da quanto sopra discende che, nell'ipotesi di variazione di
destinazione d'uso di un immobile senza la realizzazione di
opere, mentre non sussiste il presupposto per il pagamento
della parte di contributo afferente al costo di costruzione,
da riferire al dato oggettivo della realizzazione
dell'edificio, per la parte, invece, che attiene agli oneri
di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del
pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento
del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione
d'uso del manufatto, dovendosi ritenere, per contro, che
tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna
variazione in aumento del carico urbanistico.
---------------
Il cambio di destinazione d'uso, da locale a uso industriale
a locale ad uso commerciale, ha certamente conferito
all'immobile di proprietà della società ricorrente
un'utilizzazione autonoma e produttiva, in relazione alla
quale si giustifica il pagamento delle spese di
urbanizzazione derivanti dal maggior carico urbanistico che
esso comporta per effetto della nuova destinazione.
Invero, la giurisprudenza ha più volte affermato che la
richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione, in
sede di rilascio della concessione edilizia, deve ritenersi
illegittima ogni volta che non sia ravvisabile un aumento
del carico urbanistico a seguito del realizzato intervento
edilizio; e, correlativamente, legittima nel caso in cui si
sia verificata una variazione in aumento del carico
medesimo, giacché in tale evenienza sussiste il presupposto
che giustifica l'imposizione al titolare del pagamento della
differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la
destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la
nuova destinazione impressa all'immobile.
Con riferimento alle
ulteriori censure va premesso che a fronte della
modificazione della destinazione d'uso di un manufatto
edilizio, la possibilità dello stesso di essere assoggettato
a sanatoria (o condono edilizio) è subordinata al pagamento
degli oneri concessori, vale a dire alla corresponsione di
un contributo commisurato sia all'incidenza delle spese di
urbanizzazione, sia al costo di costruzione.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che il
contributo relativo al costo di costruzione (art. 6, legge
n. 10/1977), definibile acausale, è riconducibile all'attività
costruttiva ex se considerata e, correlandosi direttamente
all'uso edificatorio del suolo ed ai potenziali vantaggi
economici che ne discendono, è sostanzialmente configurabile
alla stregua dei prelievi di natura paratributaria ed è
sempre dovuto in presenza di una trasformazione edilizia del
territorio ed in conseguenza della produzione di ricchezza
connessa alla sua utilizzazione; al contrario l'imposizione
del contributo di urbanizzazione (art. 5, L. n. 10/1977) -il
quale non ha natura di controprestazione in rapporto
sinallagmatico, rispetto al rilascio della concessione
edilizia, ma è assimilabile ai corrispettivi di diritto
pubblico di natura non tributaria, che svolgono funzione recuperatoria non commisurata né all'utile dell'operazione
né al vantaggio del concessionario (cfr. Cass. Civ., Sez. I,
27.09.1994, n. 7874)– presenta natura causale e
risponde ad una diversa ratio, che va individuata nella
necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di
urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che
beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle
opere medesime, in modo più equo per la comunità (cfr.
TAR Veneto, 17.06.2002, n. 2877; id., Sez. II, 12.05.1994, n. 394; TAR Salerno, Sez. II, 23.05.2003, n. 548; TAR Toscana, Sez. III, 11.08.2004, n.
3181).
Da quanto sopra discende che, nell'ipotesi di variazione di
destinazione d'uso di un immobile senza la realizzazione di
opere, mentre non sussiste il presupposto per il pagamento
della parte di contributo afferente al costo di costruzione,
da riferire al dato oggettivo della realizzazione
dell'edificio, per la parte, invece, che attiene agli oneri
di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del
pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento
del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione
d'uso del manufatto, dovendosi ritenere, per contro, che
tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna
variazione in aumento del carico urbanistico (cfr. TAR
Veneto, Sez. II, 13.11.2001, n. 3699).
Con riferimento al caso specifico va rilevato che il
cambio di destinazione d'uso, da locale a uso industriale a
locale ad uso commerciale, ha certamente conferito
all'immobile di proprietà della società ricorrente
un'utilizzazione autonoma e produttiva, in relazione alla
quale si giustifica il pagamento delle spese di
urbanizzazione derivanti dal maggior carico urbanistico che
esso comporta per effetto della nuova destinazione (cfr.
TAR Veneto Sez. II Sent., 12.07.2007, n. 2438; TAR
Lazio sez. II 17.05.2005, n. 3844).
Invero, la giurisprudenza ha più volte affermato che la
richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione, in
sede di rilascio della concessione edilizia, deve ritenersi
illegittima ogni volta che non sia ravvisabile un aumento
del carico urbanistico a seguito del realizzato intervento
edilizio; e, correlativamente, legittima nel caso in cui si
sia verificata una variazione in aumento del carico
medesimo, giacché in tale evenienza sussiste il presupposto
che giustifica l'imposizione al titolare del pagamento della
differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la
destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la
nuova destinazione impressa all'immobile (confr. Cons.
Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611; id., Sez. V, 15.09.1997, n. 959; TAR Milano, Sez. II,
02.10.2003, n. 4502; TAR Bologna, Sez. II, 19.02.2001,
n. 157 e 07.05.1999, n. 259; TAR Veneto, n. 2877/2002,
cit.).
Nel caso di specie, l’incremento del carico urbanistico
costituisce dato pacifico, al pari della sussistenza
dell’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione,
risultando controverso unicamente il metodo di liquidazione
degli stessi
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 14.11.2012 n. 1221 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione
d’uso deve essere letta ed interpretata alla luce dei
principi fondamentali e delle disposizioni più generali
risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) ed
anche dalla stessa legge regionale 12/2005: si verte,
infatti, nella materia del “governo del territorio”, oggetto
di potestà legislativa regionale concorrente ai sensi
dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, con conseguente
necessità di rispetto dei principi fondamentali della
legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1, citato, se
da una parte ammette in via di principio il passaggio da una
destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni
previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo
quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti
d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice
comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti
mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche
comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR
380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata
ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con
l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche
senza opere edilizie), che implichi una variazione degli
standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione
d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una
operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”,
dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non
abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza
amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione
d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal
caso verificare la variazione del carico urbanistico;
parimenti è stato affermato che, indipendentemente
dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio
dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal
punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del
carico; in altri termini si configura una “trasformazione
edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi
economici connessi all’utilizzazione del bene immobile,
anche senza l’esecuzione di opere edilizie.
Questo TAR ha chiarito (cfr. TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 27.07.2012, n. 2146), che la specifica disciplina
regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere
letta ed interpretata alla luce dei principi fondamentali e
delle disposizioni più generali risultanti dalla
legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche dalla stessa
legge regionale 12/2005: si verte, infatti, nella materia
del “governo del territorio”, oggetto di potestà legislativa
regionale concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3, della
Costituzione, con conseguente necessità di rispetto dei
principi fondamentali della legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1, citato, se
da una parte ammette in via di principio il passaggio da una
destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni
previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo
quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti
d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice
comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti
mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche
comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR
380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001
con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche
senza opere edilizie), che implichi una variazione degli
standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione
d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una
operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”,
dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non
abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza
amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione
d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal
caso verificare la variazione del carico urbanistico (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 13.7.2010, n. 4546, con la
giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è stato affermato
che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere,
rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria
funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con
conseguente aumento del carico; in altri termini si
configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia
produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione
del bene immobile, anche senza l’esecuzione di opere
edilizie (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.10.2011, n.
5539, con le pronunce in essa richiamate ed anche TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.10.2012 n. 2593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Modifica di destinazione d'uso e ristrutturazione
urbanistica.
La modifica di destinazione d’uso che determina un impatto
urbanistico rilevante, anche se incidente sul medesimo
sedime, configura una ipotesi di ristrutturazione
urbanistica e non di semplice ristrutturazione edilizia
realizzabile mediante denuncia di inizio attività.
Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con
sentenza 19.10.2012 n. 2563, torna sull’annosa
questione relativa alla possibilità per i privati di
ricomprendere le opere di demolizione e ricostruzione tra le
ristrutturazioni edilizie realizzabili mediante la
presentazione della sola dia.
Nel caso in esame i giudici amministrativi hanno ritenuto
legittimo il provvedimento con il quale l’amministrazione
comunale ordinava di non effettuare le trasformazioni
previste dalla dia “in quanto esso è rivolto a sostituire
l’esistente tessuto urbanistico ed edilizio con altro
sostanzialmente diverso, senza peraltro rispettare la
previsione del P.R.G. vigente.”.
La pronuncia in commento si fonda sulla distinzione tra la
nozione di ristrutturazione edilizia, prevista dall’art. 3,
comma 1, lett. d), del Dpr n. 380/2001 (Testo Unico
dell’Edilizia) e quella di ristrutturazione urbanistica,
dettata dalla lettera f) della stessa norma.
La sentenza in esame richiama in primo luogo la
giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale: “il
concetto di ristrutturazione di un edificio preesistente
presuppone che non si tratti di opere implicanti radicali
interventi di adattamento delle strutture interne eseguite
per creare nuovi vani o volumi, in quanto l’aumento di
questi ultimi determina a sua volta un maggiore carico
urbanistico di cui l’amministrazione non può non tenere
conto in sede di approvazione del progetto stesso (cfr.
C.d.S. sez. 5^ 10.08.2000 n. 4397).”; successivamente in
relazione al caso di specie, considera che: “il progetto
presentato dalla società ricorrente realizza all’evidenza
–il Collegio ne ha preso visione in contraddittorio anche
nel corso della discussione in udienza- un intervento di
ristrutturazione urbanistica dell’area, in quanto esso
interviene su alcuni capannoni di proprietà della società
ricorrente attraverso un insieme di opere volte a
trasformare le strutture preesistenti da immobili ad uso
produttivo in immobili ad uso misto, attraverso la creazione
di una serie di appartamenti residenziali e relativi
giardini di pertinenza nonché di un certo numero di
laboratori.
Tutto ciò anche con la prevista demolizione e ricostruzione
di alcuni dei fabbricati e con lo svuotamento di porzioni di
immobili, onde ricavare adeguati rapporti aeroilluminanti.”
In conclusione, deve ritenersi che la realizzazione di
interventi che comportano una diversa destinazione d’uso
delle strutture edilizie, determinando conseguentemente una
sostanziale modifica della morfologia del lotto di
riferimento non possono essere assentiti mediante lo
strumento edilizio della denuncia di inizio attività
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di
opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera
e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione
di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel
territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non
solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile
vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità
sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in
concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad
assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio,
con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli
modificazioni degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica.
Nel caso di specie, il capannone di proprietà della
ricorrente è stato in concreto adibito ad un uso
(commerciale) incompatibile con l’assetto urbanistico
(agricolo) di zona, e dunque correttamente esso è stato
sanzionato con l’ordine di ripristino.
Come giustamente ha osservato la difesa comunale, la tesi di
parte ricorrente, se portata alle sue estreme conseguenze,
condurrebbe alla inammissibile conclusione per cui chiunque,
pagando una semplice sanzione pecuniaria, sarebbe
legittimato a stravolgere le linee di pianificazione dettate
dall’amministrazione, mutando a suo piacimento la
destinazione di un determinato sito.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il
cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di
opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera
e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione
di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel
territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non
solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile
vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità
sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in
concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad
assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio,
con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli
modificazioni degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato sez. I,
25.05.2012 n. 759; in senso conforme Cons. Stato, sez. V,
10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24; Cons. Stato, V,
28.05.2010, n. 3420)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 19.10.2012 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il cambiamento di destinazione d'uso senza
realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività
del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare
la vanificazione di ogni previsione urbanistica che
disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune.
Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di
principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative
di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti
locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione
di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed
ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile
pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri
prefigurati dalla strumentazione urbanistica.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 2480 in data
02.08.1996, con la quale il sindaco del Comune di Grugliasco
ha disposto il ripristino della destituzione d'uso agricola
di un capannone di proprietà della ricorrente.
...
Con il secondo motivo la ricorrente sostiene che i mutamenti
d’uso realizzati senza opere strutturali sarebbero soggetti
a semplice sanzione pecuniaria e non ad obblighi di
ripristino.
Anche tale censura non può essere condivisa.
La normativa richiamata dalla ricorrente non è
conferente al caso di specie, perché concerne ipotesi di
mutamenti funzionali di destinazione d’uso realizzati nel
rispetto delle previsioni urbanistiche di zona, benché in
assenza di un titolo abilitativo: sicché in tali ipotesi la
sanzione pecuniaria punisce l’assenza del titolo, ma non
legittima alcun abuso, anzi presuppone la compatibilità
urbanistica anche della nuova destinazione d’uso.
Nel caso di specie, invece, il capannone di proprietà
della ricorrente è stato in concreto adibito ad un uso
(commerciale) incompatibile con l’assetto urbanistico
(agricolo) di zona, e dunque correttamente esso è stato
sanzionato con l’ordine di ripristino.
Come giustamente ha osservato la difesa comunale, la
tesi di parte ricorrente, se portata alle sue estreme
conseguenze, condurrebbe alla inammissibile conclusione per
cui chiunque, pagando una semplice sanzione pecuniaria,
sarebbe legittimato a stravolgere le linee di pianificazione
dettate dall’amministrazione, mutando a suo piacimento la
destinazione di un determinato sito.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il
cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di
opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera
e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione
di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel
territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non
solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione
delle prerogative di autonomia e responsabilità sul
territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in
concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad
assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio,
con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli
modificazioni degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato sez. I,
25.05.2012 n. 759; in senso conforme Cons. Stato, sez. V,
10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24; Cons. Stato, V,
28.05.2010, n. 3420) (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 19.10.2012 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Valutazione tecnico-economica immobile abusivo.
Il mutamento di destinazione d’uso da cantina ad abitazione
comporta, indipendentemente dalla realizzazione o meno di
opere ad esso preordinate, un aggravamento degli standards
urbanistici e, pertanto, necessita di permesso di costruire
secondo quanto previsto dagli artt. 16 e 17, lettera a), l.r.
n. 15/2008 “Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia”.
La norma regionale richiamata deve essere interpretata in
senso coerente con la normativa nazionale (d.p.r. n.
380/2001) per cui la valutazione “tecnico-economica”,
è insita nell’accertamento di abusività del manufatto
dovendosi, invece, escludere l’esistenza di un potere
discrezionale in capo agli organi comunali in quanto
incompatibile con il carattere vincolato del provvedimento
di demolizione quale è prefigurato dal d.p.r. n. 380/2001 (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 18.10.2012 n. 8645 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Qualora
si versi nell’ambito di un mutamento di destinazione d'uso
di carattere strutturale, cioè connesso e conseguente
all'esecuzione di opere, il permesso di costruire è
necessario.
Pertanto devono considerarsi abusive non solo le opere di
costruzione vere e proprie, ma anche i lavori interni che,
per quanto modesti (e non è il caso in esame, nel quale al
contrario gli interventi all’esterno ed all’interno appaiono
significativi), si rendono indispensabili per rendere
possibile la nuova destinazione.
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, con
orientamento condiviso dal Collegio, qualora si versi
nell’ambito di un mutamento di destinazione d'uso di
carattere strutturale, cioè connesso e conseguente
all'esecuzione di opere, il permesso di costruire è
necessario (cfr. recente Tar Campania, Napoli, Sez. III,
07.02.2011, n. 735). Pertanto devono considerarsi abusive
non solo le opere di costruzione vere e proprie, ma anche i
lavori interni che, per quanto modesti (e non è il caso in
esame, nel quale al contrario gli interventi all’esterno ed
all’interno appaiono significativi), si rendono
indispensabili per rendere possibile la nuova destinazione.
Ne consegue che, nel caso in cui locali sottotetto siano
stati destinati a locali di civile abitazione, è legittimo
l'ordine di demolizione
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza
09.10.2012 n. 1804 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'art.
53, c. 2, della legge regionale lombarda n. 12/2005 deve
essere letta unitamente alle disposizioni del testo unico
dell’edilizia ed alle altre previsioni dalla legge regionale
n. 12/2005 che disciplinano i mutamenti di destinazione
d'uso.
L’abusiva realizzazione di un mutamento di destinazione
d'uso che non sia conforme alle previsioni urbanistiche è,
difatti, sanzionata con la demolizione ed il ripristino
dello stato dei luoghi dall’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, in
quanto intervento eseguito in assenza di permesso di
costruire.
Né un tale permesso potrebbe comunque essere rilasciato,
stante l’assenza di conformità con le destinazioni di zona.
La l.reg. Lombardia n. 12/2005 non incide su tale
previsione: l’art. 52, c. 2 esclude, difatti, la necessità
del permesso di costruire ed assoggetta a preventiva
comunicazione dell'interessato unicamente i mutamenti di
destinazione d'uso di immobili non comportanti la
realizzazione di opere edilizie “che siano conformi alle
previsioni urbanistiche comunali”.
La previsione di cui all’art. 53, c. 2, l. reg. Lombardia n.
12/2005 non può quindi essere interpretata, come vorrebbe la
ricorrente, quale norma di sanatoria, pena la sua
incostituzionalità, per contrasto con i principi dettati dal
testo unico dell’edilizia.
Essa deve essere quindi intesa quale sanzione aggiuntiva a
quella ripristinatoria prevista dall’art. 31, d.P.R. n.
380/2001.
La questione centrale oggetto del presente ricorso attiene alla
interpretazione dell’art. 53, c. 2, l.reg. Lombardia n.
12/2005, ai sensi del quale “qualora il mutamento di
destinazione d'uso senza opere edilizie, ancorché comunicato
ai sensi dell'articolo 52, comma 2, risulti in difformità
dalle vigenti previsioni urbanistiche comunali, si applica
la sanzione amministrativa pecuniaria pari all'aumento del
valore venale dell'immobile o sua parte, oggetto di
mutamento di destinazione d'uso, accertato in sede tecnica e
comunque non inferiore a mille euro”.
Ad avviso della ricorrente, tale norma consentirebbe la
sanatoria di mutamenti di destinazione d'uso che non siano
conformi alle previsioni dello strumento urbanistico, dietro
pagamento della sola sanzione pecuniaria.
La ricorrente afferma inoltre l’ammissibilità, nel caso di
specie, del richiesto intervento di mutamento di
destinazione d'uso, in quanto esso sarebbe in linea con le
previsioni del nuovo piano di governo del territorio,
adottato in epoca antecedente alla presentazione
dell’istanza di mutamento di destinazione d'uso.
Il Collegio non condivide le argomentazioni della
ricorrente.
È incontestata la non conformità del mutamento di
destinazione d'uso richiesto dalla ricorrente con le
previsioni dello strumento urbanistico vigente.
In mancanza di tale presupposto, indispensabile perché
l’intervento possa essere ritenuto ammissibile, non assume
rilievo la circostanza che l’intervento sia consentito dal
nuovo piano di governo del territorio che, alla data di
adozione del provvedimento, era solamente adottato.
Non può, poi, condividersi la lettura parziale dell’art. 53,
c. 2, della legge regionale lombarda n. 12/2005, proposta
dalla ricorrente.
Tale norma deve difatti essere letta unitamente alle
disposizioni del testo unico dell’edilizia ed alle altre
previsioni dalla legge regionale n. 12/2005 che disciplinano
i mutamenti di destinazione d'uso.
L’abusiva realizzazione di un mutamento di destinazione
d'uso che non sia conforme alle previsioni urbanistiche è,
difatti, sanzionata con la demolizione ed il ripristino
dello stato dei luoghi dall’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, in
quanto intervento eseguito in assenza di permesso di
costruire.
Né un tale permesso potrebbe comunque essere rilasciato,
stante l’assenza di conformità con le destinazioni di zona.
La l.reg. Lombardia n. 12/2005 non incide su tale
previsione: l’art. 52, c. 2 esclude, difatti, la necessità
del permesso di costruire ed assoggetta a preventiva
comunicazione dell'interessato unicamente i mutamenti di
destinazione d'uso di immobili non comportanti la
realizzazione di opere edilizie “che siano conformi alle
previsioni urbanistiche comunali”.
La previsione di cui all’art. 53, c. 2, l. reg. Lombardia n.
12/2005 non può quindi essere interpretata, come vorrebbe la
ricorrente, quale norma di sanatoria, pena la sua
incostituzionalità, per contrasto con i principi dettati dal
testo unico dell’edilizia.
Essa deve essere quindi intesa quale sanzione aggiuntiva a
quella ripristinatoria prevista dall’art. 31, d.P.R. n.
380/2001.
In questa situazione, non assume neppure rilevanza la
verifica sul rispetto degli standard da parte del Comune, la
quale rileva unicamente in relazione ai mutamenti
compatibili con le destinazioni di zona, ma, non, come nella
specie, nel caso di cambiamenti del tutto contrastanti con
la vigente zonizzazione (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 03.01.1998, n. 24).
Per le ragioni esposte, il provvedimento di rigetto del
cambio di destinazione d'uso ed il diniego di agibilità sono
quindi da ritenersi adeguatamente motivati con il richiamo
alla non conformità con le previsioni dello strumento
urbanistico vigente ed all’art. 52, c. 2, l.reg. Lombardia
n. 12/2005 che assoggetta a preventiva comunicazione
dell'interessato unicamente i mutamenti di destinazione
d'uso di immobili che siano conformi alle previsioni
urbanistiche comunali.
La legittimità di tale motivo è sufficiente giustificazione
del provvedimento impugnato, sicché è irrilevante la
contestazione in ordine alla necessità di realizzare o meno
opere edilizie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.10.2012 n. 2467 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
mutamento di destinazione d'uso di una porzione
dell'immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal
precedente e contribuendo ad aumentare il carico
urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito della
categoria della "ristrutturazione edilizia".
Coerentemente, anche le attività che “non alterino lo stato
dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, non possono
rientrare nella esimente di cui all’art. 149, 1° comma lett.
a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura
eccezionale della relativa disposizione, in quanto
prefigurativa di una specifica deroga al regime
autorizzatorio ordinario– non pare lecito fornire arbitrarie
interpretazioni estensive: arg. ex art. 14 prel.), per
difetto del (concorrente e necessario) requisito tipologico
(id est, per la argomentata non sussumibilità nella
categoria di interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria, di consolidamento statico e restauro
conservativo).
Contrariamente a quanto prospettato dal gravame,
il mutamento di destinazione d'uso di una porzione
dell'immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal
precedente e contribuendo ad aumentare il carico
urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito della
categoria della "ristrutturazione edilizia", come si evince,
del resto, dall'esplicito riferimento a tale tipologia di
intervento presente nell'art. 10 comma 1° lettera c) d.p.r.
n. 380/2001 (in termini, TAR Lazio Roma, sez. I, 20.09.2011, n. 7432, TAR Sardegna, sez. II,
06.10.2008, n. 1822), come tale sussumibile nella tipologia 3 di
cui all’allegato 1 della l. n. 326/2003, che preclude la
possibilità di sanatoria per il caso di sussistenza del
vincolo di cui all’art. 32 della legge 28.02.1985, n.
47.
Coerentemente, anche le attività che “non alterino lo stato
dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, non
possono, come auspicato, rientrare nella esimente di cui
all’art. 149, 1° comma lett. a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura eccezionale della relativa
disposizione, in quanto prefigurativa di una specifica
deroga al regime autorizzatorio ordinario– non pare lecito
fornire arbitrarie interpretazioni estensive: arg. ex art.
14 prel.), per difetto del (concorrente e necessario)
requisito tipologico (id est, per la argomentata non sussumibilità
nella categoria di interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria, di consolidamento statico e restauro
conservativo)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.09.2012 n. 1683 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Circa
il quadro normativo in materia di
mutamenti di destinazione d'uso lo si può riassumere come di
seguito riportato.
Prima della legge n. 47/1985, la giurisprudenza
amministrativa si era attestata nel senso di ritenere
illegittime le disposizioni contenute negli strumenti
urbanistici che prevedessero limitazioni del mutamento di
destinazione d'uso degli immobili attuato senza opere
edilizie, con l'ulteriore corollario che il mutamento
dell'uso così attuato non era soggetto alla preventiva
acquisizione della concessione edilizia, né
dell'autorizzazione edilizia.
Tale assetto mutava per effetto dell'entrata in vigore della
legge n. 47/1985. Infatti, dal combinato disposto degli
articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente
disciplina:
a) erano soggetti a regime concessorio soltanto i mutamenti
di destinazione d'uso che intervenivano tra categorie
funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, atteso
che all'interno della stessa categoria potevano realizzarsi
mutamenti di fatto privi di incidenza sui carichi
urbanistici;
b) il mutamento di destinazione d'uso accompagnato da
qualsiasi intervento edilizio (per il quale non fosse
altrimenti prevista la concessione), anche se solo interno,
era assoggettato al regime dell'autorizzazione, stante
l'espressa previsione dell'applicabilità del regime delle
opere interne (di cui all'art. 26, comma 1, della legge n.
47/1985) alle opere che "non modifichino la destinazione
d'uso delle costruzioni";
c) il mutamento di destinazione d'uso senza opere era
regolato dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985,
il quale demandava al legislatore regionale il compito di
stabilire "criteri e modalità cui dovranno attenersi i
comuni, all'atto della predisposizione di strumenti
urbanistici, per l'eventuale regolamentazione, in ambiti
determinati del proprio territorio, della destinazione d'uso
degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di
essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione".
La situazione mutava ulteriormente a seguito della novella
apportata all'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985,
dall'art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, secondo il
quale "le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti,
connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso
di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e
quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni
fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano
subordinati ad autorizzazione".
La disposizione in esame, nel delegare definitivamente alle
Regioni la disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso -e
così la facoltà di poter applicare una disciplina uniforme,
tanto per quelli di carattere strutturale, quanto per quelli
di carattere funzionale- introduceva la facoltà di
sottoporre a concessione edilizia i mutamenti d'uso
maggiormente significativi, ovvero quelli comportanti un
maggiore impatto sull'assetto urbanistico-territoriale
(secondo la suddivisione del territorio in zone residenziali
''A'', ''B'' e ''C'', produttive ''D'', agricole ''E'', e
destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale
''F'', operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice
autorizzazione, quelli attuati all'interno della medesima
categoria funzionale.
Da ultimo l'art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al
comma 2, che le Regioni stabiliscano con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
La conclusione che precede è, del resto, l’unica
coerente con il quadro normativo di riferimento in materia
di mutamenti di destinazione d'uso, che giova di seguito
riassumere (in termini, da ultimo TAR Campania, Napoli,
sez. VII, 22.02.2012, n. 885).
Prima della legge n. 47/1985, la giurisprudenza
amministrativa (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28.07.1982, n. 525) si era attestata nel senso di ritenere
illegittime le disposizioni contenute negli strumenti
urbanistici che prevedessero limitazioni del mutamento di
destinazione d'uso degli immobili attuato senza opere
edilizie, con l'ulteriore corollario che il mutamento
dell'uso così attuato non era soggetto alla preventiva
acquisizione della concessione edilizia, né
dell'autorizzazione edilizia.
Tale assetto mutava per effetto dell'entrata in vigore della
legge n. 47/1985. Infatti, dal combinato disposto degli
articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente
disciplina:
a) erano soggetti a regime concessorio soltanto
i mutamenti di destinazione d'uso che intervenivano tra
categorie funzionalmente autonome sotto il profilo
urbanistico, atteso che all'interno della stessa categoria
potevano realizzarsi mutamenti di fatto privi di incidenza
sui carichi urbanistici;
b) il mutamento di destinazione
d'uso accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il
quale non fosse altrimenti prevista la concessione), anche
se solo interno, era assoggettato al regime
dell'autorizzazione, stante l'espressa previsione
dell'applicabilità del regime delle opere interne (di cui
all'art. 26, comma 1, della legge n. 47/1985) alle opere che
"non modifichino la destinazione d'uso delle costruzioni";
c) il mutamento di destinazione d'uso senza opere era
regolato dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985,
il quale demandava al legislatore regionale il compito di
stabilire "criteri e modalità cui dovranno attenersi i
comuni, all'atto della predisposizione di strumenti
urbanistici, per l'eventuale regolamentazione, in ambiti
determinati del proprio territorio, della destinazione d'uso
degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di
essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione".
La situazione mutava ulteriormente a seguito della novella
apportata all'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985,
dall'art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, secondo il
quale "le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti,
connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso
di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e
quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni
fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano
subordinati ad autorizzazione".
La disposizione in esame,
nel delegare definitivamente alle Regioni la disciplina dei
mutamenti di destinazione d'uso -e così la facoltà di poter
applicare una disciplina uniforme, tanto per quelli di
carattere strutturale, quanto per quelli di carattere
funzionale- introduceva la facoltà di sottoporre a
concessione edilizia i mutamenti d'uso maggiormente
significativi, ovvero quelli comportanti un maggiore impatto
sull'assetto urbanistico-territoriale (secondo la
suddivisione del territorio in zone residenziali ''A'',
''B'' e ''C'', produttive ''D'', agricole ''E'', e destinate
ad attrezzature ed impianti di interesse generale ''F'',
operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice
autorizzazione, quelli attuati all'interno della medesima
categoria funzionale.
Da ultimo l'art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al
comma 2, che le Regioni stabiliscano con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio attività
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.09.2012 n. 1683 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Destinazione d'uso di immobile.
La destinazione d’uso di un immobile non si identifica con
l’impiego che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza,
ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e
ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante
è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale
individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa
essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al
contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (tratto
da www.lexambiente.it -
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 17.09.2012 n. 566
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
destinazione d’uso di un immobile non si identifica con
l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma
con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò
in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è
ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale
individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa
essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al
contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori.
Va premesso che, secondo un costante orientamento
giurisprudenziale, la destinazione d’uso di un immobile non
si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il
soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal
titolo abilitativo (v., ex multis, Cons. Stato, Sez.
V, 09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n.
85), e ciò in quanto la nozione di “uso”
urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia
strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo
edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da
utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti
autorizzatori e/o pianificatori (v., tra le altre, TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n. 219) (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 07.09.2012 n. 537 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Modifica di destinazione ed aggravio del carico
urbanistico.
L'aggravio
urbanistico va considerato in relazione alla interezza della
condotta ed alle finalità perseguite con le realizzazioni
abusive. Il mutamento di destinazione dell'area attraverso
la realizzazione delle opere contestate comporta
evidentemente l'inadeguatezza delle strutture (strade,
fognature, elettrificazione, ecc.) che non possono non
essere diverse tra un'area “verde" ed una adibita a
scopo produttivo per le diverse esigenze delle stesse
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.08.2012 n. 33353 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Decreto sviluppo. Cambi d'uso e manutenzione
straordinaria senza permessi.
Per gli immobili d'impresa si amplia
l'edilizia libera.
Le incertezze interpretative frenano però
l'applicazione.
I DUBBI/
Le modifiche urbanistiche non possono
interessare i fabbricati che non sono ancora
adibiti alle attività produttive.
Il legislatore nazionale torna a occuparsi
dell'attività edilizia libera, con
l'articolo 13-bis del Dl 83/2012, introdotto
dalla legge di conversione in attesa di
pubblicazione sulla «Gazzetta»). Dopo le
significative modificazioni già apportate
alla materia dal Dl 40/2010, la nuova norma
amplia ulteriormente il novero degli
interventi per la cui esecuzione non è
necessario un titolo abilitativo, inserendo
al secondo comma dell'articolo 6 del Dpr
380/2001 la lettera e-bis), specificamente
rivolta agli immobili utilizzati per lo
svolgimento di attività imprenditoriali, nel
cui ambito, stante la generalità (o
genericità) del termine, possono
ragionevolmente ricomprendersi di fatto
tutti gli immobili non destinati alla
residenza (capannoni e negozi, ad esempio).
Da domani, quindi, sarebbe sufficiente una
semplice comunicazione al Comune sia per
realizzare «le modifiche interne di
carattere edilizio sulla superficie coperta
dei fabbricati adibiti ad esercizio
d'impresa», sia per effettuare «le modifiche
della destinazione d'uso» di questi locali.
La disposizione solleva varie perplessità,
innanzitutto per il ricorso alla locuzione
"modifiche interne" senza alcuna ulteriore
specificazione tipologica. Appare azzardato
ipotizzare che il legislatore abbia inteso
consentire cambiamenti anche di tipo
strutturale, oppure interventi riconducibili
al novero della ristrutturazione o del
restauro e risanamento conservativo, poiché
in tal caso verrebbe a delinearsi una
incongrua disparità di trattamento e il
sospetto di incostituzionalità della
previsione. Infatti, solo i proprietari di
immobili adibiti ad attività imprenditoriali
risulterebbero esentati dalla necessità di
un titolo abilitativo per queste categorie
di interventi.
È quindi preferibile una lettura
costituzionalmente orientata, che riconduca
le modifiche interne nel novero degli
interventi di manutenzione straordinaria
ammessi dal comma 2, lettera a), che già
contempla «l'apertura di porte interne o lo
spostamento di pareti interne»; anche in
questo caso con ovvia esclusione delle opere
di tipo strutturale –per le quali è
richiesto in via generale il titolo
abilitativo– e senza alcun mutamento di
destinazione d'uso, trattandosi di modifiche
edilizie relative a fabbricati comunque già
adibiti a esercizio di impresa. Ma con
questa più prudente chiave interpretativa,
la previsione finisce con lo svuotarsi di
contenuto sostanziale.
Anche la seconda parte della disposizione
desta incertezze, nella misura in cui
prevede la possibilità di effettuare
«modifiche della destinazione d'uso dei
locali adibiti ad esercizio d'impresa».
Trattandosi di misure teoricamente volte a
favorire le iniziative produttive, la norma
avrebbe forse dovuto adoperare il termine
"da adibirsi", così sancendo la possibilità
di utilizzare a esercizio di impresa spazi
in precedenza destinati ad altro uso.
Inoltre, se i locali sono (già) adibiti ad
attività imprenditoriale, la modifica d'uso
non potrà che avvenire nell'ambito della
stessa tipologia ed essere di tipo
funzionale, quindi senza l'esecuzione di
opere. Diversamente si ricadrebbe in
un'ipotesi interpretativa sperequata e di
dubbia costituzionalità, esentando i soli
proprietari imprenditori dall'obbligo del
previo titolo abilitativo (che nelle zone
omogenee "A" è il permesso di costruire, ai
sensi dell'articolo 10, primo comma, lettera
c), Testo unico).
Secondo la giurisprudenza (si veda ad
esempio Consiglio di Stato, Sezione V,
1650/2010, 498/2009; Tar Lazio-Roma,
4622/2011; Cassazione penale, Sezione III,
20350/2010) il mutamento di destinazione
d'uso giuridicamente rilevante è quello tra
categorie funzionalmente autonome dal punto
di vista urbanistico, posto che nell'ambito
delle stesse categorie possono aversi
mutamenti di fatto, ma non diversi regimi
urbanistico costruttivi, stante le
sostanziali equivalenze dei carichi
urbanistici nell'ambito della medesima
categoria. Peraltro, in questo caso, la
modifica d'uso non dovrebbe comportare il
pagamento di un ulteriore contributo di
costruzione.
La previsione, dunque, dovrebbe essere letta
e interpretata tenendo presente le possibili
ripercussioni del mutamento d'uso sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie
massime assentibili in relazione agli indici
della zona, così come individuati dai piani
regolatori generali, nonché i limiti di
carattere generale posti per l'attività
edilizia che può essere eseguita in assenza
di pianificazione urbanistica, specie per
ciò che attiene alle destinazioni produttive
(articolo 9, testo unico).
---------------
Le nuove definizioni
Le tipologie di attività edilizia libera
dopo l'intervento del decreto sviluppo
nell'articolo 6 del Testo unico
dell'edilizia
ARTICOLO 6, COMMA 1 -
Attività edilizia totalmente libera
●
lettera a) - manutenzione ordinaria;
●
lettera b) - eliminazione di barriere
architettoniche senza realizzazione di
rampe, di ascensori esterni o altri
manufatti che alterino la sagoma
dell'edificio;
●
lettera c) - opere temporanee per attività
di ricerca nel sottosuolo, eseguite in aree
esterne al centro edificato, di carattere
geognostico, ad esclusione di attività
di ricerca di idrocarburi;
●
lettera d) - movimenti di terra strettamente
pertinenti all'esercizio dell'attività
agricola e delle pratiche
agro-silvo-pastorali, compresi gli
interventi su impianti idraulici agrari;
●
lettera e) - serre mobili stagionali,
sprovviste di strutture in muratura,
funzionali allo svolgimento
dell'attività agricola
ARTICOLO 6, COMMA 2 -
Attività edilizia libera previa
comunicazione inizio lavori
●
lettera a) - manutenzione straordinaria,
compresa l'apertura di porte interne
o lo spostamento di pareti interne, che non
riguardi parti strutturali dell'edificio,
non aumenti il numero delle unità
immobiliari e non incrementi i parametri
urbanistici;
● lettera b) - opere dirette a soddisfare
esigenze contingenti e temporanee
e da rimuovere al cessare della necessità,
comunque, entro novanta giorni;
● lettera c) - pavimentazione e finitura
di spazi esterni, anche per aree di sosta,
contenute entro l'indice di permeabilità,
ove stabilito dallo strumento urbanistico
comunale, ivi compresa la realizzazione
di intercapedini interamente interrate
e non accessibili, vasche di raccolta
delle acque, locali tombati;
●
lettera d) - pannelli solari, fotovoltaici,
a servizio degli edifici, da realizzare
al di fuori delle zone A (centri storici);
●
lettera e) - aree ludiche senza fini di
lucro ed elementi di arredo delle aree
pertinenziali degli edifici;
●
lettera e-bis) - modifiche interne
di carattere edilizio sulla superficie
coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio
d'impresa e modifiche della destinazione
d'uso dei locali adibiti ad esercizio
d'impresa
ARTICOLO 6, COMMA 4, PRIMO E SECONDO PERIODO
-
Attività edilizia libera previa
comunicazione inizio lavori, trasmissione
dati identificativi dell'impresa esecutrice
dei lavori e relazione tecnica, con
elaborati progettuali, asseverante la
conformità
a strumenti urbanistici e regolamenti
edilizie e non necessità di titolo
abilitativo
●
interventi articolo 6, comma 2, lettera a) -
manutenzione straordinaria, compresa
l'apertura di porte interne o lo spostamento
di pareti interne, che non riguardi parti
strutturali dell'edificio, non aumenti
il numero delle unità immobiliari
e non incrementi i parametri urbanistici;
●
lettera e-bis) - modifiche interne di
carattere edilizio sulla superficie coperta
dei fabbricati adibiti ad esercizio
d'impresa e modifiche della destinazione
d'uso
dei locali adibiti ad esercizio d'impresa
(con dichiarazione di conformità da parte
dell'Agenzia per le imprese, su sussistenza
requisiti)
---------------
SEMPLIFICAZIONI/
Via anche i nullaosta da allegare
L'articolo 13-bis abroga l'intero comma 3
dell'articolo 6 del Dpr 380/2001, facendo
venire meno l'obbligo generalizzato di
allegare alla comunicazione di inizio dei
lavori «le autorizzazioni eventualmente
obbligatorie ai sensi delle normative di
settore», per tutti gli interventi di cui al
comma 2.
Con le contestuali modifiche apportate al
comma 4, questo onere permane solo nel caso
degli interventi di cui alla lettera a) e
alla nuova lettera e-bis), per i quali
andranno comunicati i dati identificativi
dell'impresa cui si intende affidare la
realizzazione dei lavori, nonché una
relazione, redatta da un tecnico abilitato.
Questi dovrà prima dichiarare di non avere
rapporti di dipendenza con l'impresa, né con
il committente, quindi asseverare, sotto la
propria responsabilità, che i lavori sono
conformi agli strumenti urbanistici
approvati e ai regolamenti edilizi e che non
è necessario il titolo abilitativo.
Infine, per i soli interventi di cui alla
lettera e-bis), dovranno essere trasmesse le
dichiarazioni di conformità da parte
dell'Agenzia per le imprese concernenti la
realizzazione, la trasformazione, il
trasferimento e la cessazione dell'esercizio
del l'attività di impresa.
---------------
INTERVENTO/
Sui tecnici gravano oneri impropri
Per comprendere appieno la portata delle
ultime modifiche in tema di attività
edilizia libera introdotte dall'articolo
13-bis della legge di conversione del
decreto-sviluppo occorrerà attendere un
chiarimento giurisprudenziale, se non
legislativo. Sino ad allora la complessità
delle questioni dovrebbe suggerire ai
professionisti di agire con la massima
prudenza e di interpretare in senso
restrittivo le nuove disposizioni.
Essi vengono chiamati dall'articolo 6, comma
4, del Testo unico dell'edilizia non solo ad
asseverare che i lavori progettati siano
conformi agli strumenti urbanistici
approvati e ai regolamenti edilizi vigenti
(e sin qui il compito sarebbe relativamente
facile, potendosi fare affidamento su fonti
certe e provenienti dalla stessa
amministrazione), ma anche a certificare al
Comune -e a garantire al committente- che
la normativa statale e regionale non prevede
il rilascio di un titolo abilitativo per
l'intervento che si intende eseguire.
In tal modo, ai tecnici abilitati risulta
assegnato un compito esegetico della portata
applicativa della norma che non solo li
espone a rilevanti responsabilità di natura
civile, penale e professionale, ma,
soprattutto, che istituzionalmente non
compete loro. La funzione interpretativa
della norma, infatti, non può che spettare
al giudice chiamato ad applicarla, oppure al
legislatore che l'ha formulata, operando un
chiarimento quando incerta si presenta
l'enunciazione normativa o il suo ambito di
operatività.
---------------
Le competenze. La Consulta ha chiarito che è il legislatore nazionale a
fissare il regime delle autorizzazioni.
Alle Regioni spazi limitati per incidere sui
titoli abilitativi.
LA RIPARTIZIONE/
Sulla materia del governo del territorio
ancora incerti i confini della potestà
normativa suddivisa tra Stato e governi
locali.
L'articolo 6, comma 6, lettera a), del Testo
unico dell'edilizia stabilisce che le
Regioni a statuto ordinario possono
estendere la disciplina dell'attività
edilizia libera a interventi edilizi
ulteriori rispetto a quelli previsti dai
commi 1 e 2. La previsione ripropone la
tematica dei rapporti tra il Dpr 380/2001 e
le leggi regionali in materia, dopo le
modifiche del titolo V della Costituzione e
solleva dubbi che non vengono sedati –ma
semmai ampliati– dal decreto sviluppo di
quest'anno.
Norma di riferimento è l'articolo 2 del
Testo unico, il cui comma 1 dispone che le
Regioni a statuto ordinario «esercitano la
potestà legislativa concorrente in materia
edilizia nel rispetto dei principi
fondamentali della legislazione statale
desumibili dalle disposizioni contenute nel
Testo unico». Inoltre (comma 3) le
disposizioni, anche di dettaglio, del Testo
unico, e attuative dei principi di riordino
in esso contenuti, operano direttamente nei
riguardi delle medesime Regioni, fino a
quando queste non adeguino la propria
legislazione a tali principi.
La prima difficoltà, quindi, è quella di
circoscrivere la categoria dei principi di
riordino e capire in cosa si differenzino
dai principi fondamentali. Il Consiglio di
Stato (adunanza plenaria del 07.04.2008,
n. 2) ha rilevato come il legislatore
nazionale, attraverso il Testo unico, ha
proceduto al complessivo riordino della
materia, assegnando alle disposizioni in
esso contenute carattere di norme di
principio, con la conseguente abrogazione
delle disposizioni regionali con esse confliggenti. Pertanto «fino al
l'adeguamento delle Regioni a statuto
ordinario alle norme di principio recate nel
Testo unico, le norme aventi tale portata in
questo contenute sono destinate a prevalere
sulle prime».
Anche l'adeguamento del legislatore
regionale dovrà però comunque avvenire nel
rispetto dei principi fondamentali, che, a
loro volta, non sono chiaramente indicati
dal Dpr 380/2001, bensì solo desumibili dal
Testo unico. Sul punto la Corte
costituzionale, con la sentenza 309/2011 ha
ribadito che nella normativa di principio in
materia di governo del territorio vanno
ricondotte tutte le disposizioni legislative
riguardanti i titoli abilitativi per gli
interventi edilizi. Con l'ulteriore
conseguenza che «a fortiori sono principi
fondamentali della materia le disposizioni
che definiscono le categorie di interventi,
perché è in conformità a queste ultime che è
disciplinato il regime dei titoli
abilitativi, con riguardo al procedimento e
agli oneri, nonché agli abusi e alle
relative sanzioni, anche penali».
Per la Consulta, quindi, l'intero corpo
normativo statale si fonda sulla definizione
degli interventi edilizi e l'individuazione
delle relative categorie spetta al
legislatore nazionale. Sarà quindi arduo il
compito del legislatore regionale che
volesse estendere la disciplina
dell'attività edilizia libera a interventi
tipologicamente diversi da quelli previsti
dalla norma statale, poiché l'esclusione per
un intervento dalla necessità del titolo
abilitativo potrebbe incorrere nella
violazione dell'articolo 117, comma 3 della
Costituzione e dei limiti posti alla
legislazione concorrente nella materia del
governo del territorio (articolo
Il Sole 24 Ore del 13.08.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione pecuniaria prevista dall’art. 10, comma 1,
della legge 47/1985 (il doppio dell'aumento
del valore venale dell'immobile conseguente
alla realizzazione delle opere abusive) si
deve intendere nel senso che la base di
calcolo è costituita dall’incremento di
valore acquisito dall’immobile per effetto
delle innovazioni introdotte.
Quando la modifica consiste nell’adattamento
dei locali a una nuova destinazione d’uso
l’incremento è dato dalla differenza tra il
valore della nuova utilizzazione e quello
dell’uso precedente. Poiché si guarda al
risultato e non ai mezzi, non ha particolare
rilievo il costo dei materiali impiegati.
---------------
In materia edilizia vi sono abusi maggiori
(v. art. 31-32-33 del DPR 380/2001) e abusi
minori (v. art. 37 del DPR 380/2001), e
all’interno di ciascuna categoria si possono
individuare abusi sostanziali, così definiti
perché normalmente non sanabili con il
rilascio successivo del titolo edilizio, e
abusi formali, che sono tali in quanto
ammettono il rilascio di un titolo edilizio
a posteriori.
Gli abusi maggiori (ad esempio, una nuova
costruzione senza titolo edilizio) possono
essere sanati se esiste la conformità
urbanistica (v. art. 36 del DPR 380/2001),
gli abusi minori seguono la stessa regola
(v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001) ma
possono, a certe condizioni, essere sanati
anche se non vi è la conformità urbanistica.
In quest’ultima ipotesi la somma di denaro
pagata non è soltanto una sanzione per la
mancata tempestiva richiesta del titolo
edilizio ma costituisce principalmente il
corrispettivo (o, dal punto di vista
dell’amministrazione, il risarcimento) per
il fatto che sono mantenuti fermi i
risultati dell’intervento edilizio
nonostante il contrasto con la disciplina
urbanistica;
Per questa ragione la sanatoria degli abusi
minori privi di conformità urbanistica è
correlata all’aumento del valore venale
dell’immobile (v. art. 37, comma 1, del DPR
380/2001, art. 53, comma 2, della LR
12/2005). Quando sussiste la conformità
urbanistica la sanzione è invece calcolata
in altro modo (v. art. 37, comma 4, del DPR
380/2001).
---------------
Con riferimento al cambio di destinazione
d’uso occorre fare un’ulteriore
precisazione. Questa fattispecie è inserita
da tempo tra gli interventi edilizi minori
sottoposti a DIA (v. art. 4, commi 7 e 13,
del DL 05.10.1993 n. 398), ma se il cambio
implica un incremento dello standard
urbanistico si realizza una variazione
essenziale da inquadrare tra gli abusi
maggiori (v. art. 8, comma 1-a, della legge
47/1985, art. 32, comma 1-a, del DPR
380/2001, art. 54, comma 1-a, della LR
12/2005). Dunque esiste una graduazione
all’interno di questa tipologia di abuso
che, in mancanza di conformità urbanistica,
può condurre all’applicazione di tre diverse
discipline sanzionatorie:
(1) abuso maggiore con obbligo di remissione
in pristino nel caso di insufficienza dello
standard urbanistico;
(2) abuso minore con obbligo di pagamento di
una somma pari al doppio dell'aumento del
valore venale dell'immobile se sono state
effettuate opere edilizie (v. art. 37, comma
1, del DPR 380/2001);
(3) abuso minore con obbligo di pagamento di
una somma pari all'aumento del valore venale
dell'immobile se non sono state realizzate
opere edilizie (v. art. 53, comma 2, della
LR 12/2005).
... per l'annullamento del provvedimento del
dirigente dell’Area Servizi al Territorio
prot. n. 5904 del 12.03.2001, con il
quale, in relazione al cambio di
destinazione d’uso dell’immobile situato in
via Malogno (mappale n. 31), è stata
inflitta una sanzione pecuniaria pari a €
79.017,91 ai sensi dell’art. 3 comma 2 della
LR 15.01.2001 n. 1; ...
...
Sulle questioni proposte dalle parti si possono svolgere le seguenti
considerazioni:
(a) in primo luogo, non sembra che la
ricorrente abbia un particolare interesse ad
affermare l’inapplicabilità della LR 1/2001.
All’epoca del cambio di destinazione d’uso
non esisteva una disciplina regionale
specifica per questo tipo di infrazioni, e
pertanto doveva essere applicato, in quanto
norma generale sugli abusi edilizi minori,
l’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 (v.
ora l’art. 37, comma 1, del DPR 06.06.2001
n. 380). Tale norma, letta in collegamento
con l’art. 26 della legge 47/1985, è
riferibile anche ai lavori di adattamento
interni comportanti modiche alla
destinazione d’uso, come nel caso in esame;
(b) la sanzione pecuniaria prevista
dall’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 (il
doppio dell'aumento del valore venale
dell'immobile conseguente alla realizzazione
delle opere abusive) si deve intendere nel
senso che la base di calcolo è costituita
dall’incremento di valore acquisito
dall’immobile per effetto delle innovazioni
introdotte. Quando la modifica consiste
nell’adattamento dei locali a una nuova
destinazione d’uso l’incremento è dato dalla
differenza tra il valore della nuova
utilizzazione e quello dell’uso precedente.
Poiché si guarda al risultato e non ai
mezzi, non ha particolare rilievo il costo
dei materiali impiegati;
(c) dunque la sanzione dell’art. 10, comma 1,
della legge 47/1985 è confrontabile con
quella dell’art. 3, comma 2, della LR 1/2001
(v. ora l’art. 53, comma 2, della LR 11.03.2005 n. 12), e dal confronto si desume che
la ricorrente trae un vantaggio
dall’applicazione di quest’ultima, in quanto
l’onere economico è dimezzato;
(d) in proposito si osserva che questo
risultato (ossia una sanzione pari
all'aumento del valore venale e non al
doppio di tale aumento) è stato raggiunto
perché il Comune ha ritenuto che la modifica
della destinazione d’uso sia stata
conseguita senza opere edilizie (appunto la
fattispecie che l’art. 3, comma 2, della LR
1/2001 ha staccato dalla previsione generale
dell’art. 10, comma 1, della legge 47/1985).
Se invece il Comune avesse qualificato come
opere edilizie i lavori eseguiti dalla
ricorrente si sarebbe applicata la sanzione
corrispondente alla tipologia delle
innovazioni in concreto poste in essere (v.
art. 3, comma 1, della LR 1/2001, art. 53,
comma 1, della LR 12/2005), ossia nel caso
specifico proprio la sanzione ex art. 10,
comma 1, della legge 47/1985;
(e) cadono quindi le censure della
ricorrente contro il presunto
fraintendimento degli interventi eseguiti al
primo piano dell’edificio in questione. In
realtà il Comune ha giudicato irrilevanti le
partizioni in cartongesso e si è
(correttamente) concentrato sul cambio di
destinazione d’uso. Della presenza di un
cambio di destinazione d’uso non si può
dubitare se si mettono a confronto da un
lato la zonizzazione e il certificato di
agibilità (incentrati sull’uso industriale-artigianale) e dall’altro
l’attività svolta in concreto
(poliambulatorio);
(f) non possono essere condivise neppure le
censure che tendono a porre in risalto il
comportamento contraddittorio degli uffici
comunali. Una certa mancanza di
coordinamento è evidente, perché quando il
Comune ha imposto la sanzione pecuniaria per
il cambio di destinazione d’uso stava già
riscuotendo da oltre due anni l’imposta
sulla pubblicità relativa all’attività di
poliambulatorio e di fisioterapia. Tuttavia
non esiste alcuna contraddizione tra questi
provvedimenti: la sanzione pecuniaria è
infatti il prezzo che il privato è tenuto a
pagare per consolidare un cambio di
destinazione d’uso senza opere in contrasto
con le norme urbanistiche, precisamente la
fattispecie disciplinata dall’art. 3, comma 2,
della LR 1/2001;
(g) per chiarire meglio questo punto occorre
posizionare la vicenda in questione nel
quadro generale: in materia edilizia vi sono
abusi maggiori (v. art. 31-32-33 del DPR
380/2001) e abusi minori (v. art. 37 del DPR
380/2001), e all’interno di ciascuna
categoria si possono individuare abusi
sostanziali, così definiti perché
normalmente non sanabili con il rilascio
successivo del titolo edilizio, e abusi
formali, che sono tali in quanto ammettono
il rilascio di un titolo edilizio a
posteriori.
Gli abusi maggiori (ad esempio,
una nuova costruzione senza titolo edilizio)
possono essere sanati se esiste la
conformità urbanistica (v. art. 36 del DPR
380/2001), gli abusi minori seguono la
stessa regola (v. art. 37, comma 4, del DPR
380/2001) ma possono, a certe condizioni,
essere sanati anche se non vi è la
conformità urbanistica. In quest’ultima
ipotesi la somma di denaro pagata non è
soltanto una sanzione per la mancata
tempestiva richiesta del titolo edilizio ma
costituisce principalmente il corrispettivo
(o, dal punto di vista dell’amministrazione,
il risarcimento) per il fatto che sono
mantenuti fermi i risultati dell’intervento
edilizio nonostante il contrasto con la
disciplina urbanistica;
(h) per questa ragione la sanatoria degli
abusi minori privi di conformità urbanistica
è correlata all’aumento del valore venale
dell’immobile (v. art. 37, comma 1, del DPR
380/2001, art. 53, comma 2, della LR 12/2005).
Quando sussiste la conformità urbanistica la
sanzione è invece calcolata in altro modo
(v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001);
(i) con riferimento al cambio di
destinazione d’uso occorre fare un’ulteriore
precisazione. Questa fattispecie è inserita
da tempo tra gli interventi edilizi minori
sottoposti a DIA (v. art. 4, commi 7 e 13, del DL
05.10.1993 n. 398), ma se il cambio
implica un incremento dello standard
urbanistico si realizza una variazione
essenziale da inquadrare tra gli abusi
maggiori (v. art. 8, comma 1-a, della legge
47/1985, art. 32, comma 1-a, del DPR 380/2001,
art. 54, comma 1-a, della LR 12/2005). Dunque
esiste una graduazione all’interno di questa
tipologia di abuso che, in mancanza di
conformità urbanistica, può condurre
all’applicazione di tre diverse discipline
sanzionatorie:
(1) abuso maggiore con
obbligo di remissione in pristino nel caso
di insufficienza dello standard urbanistico;
(2) abuso minore con obbligo di pagamento di
una somma pari al doppio dell'aumento del
valore venale dell'immobile se sono state
effettuate opere edilizie (v. art. 37, comma
1, del DPR 380/2001);
(3) abuso minore con
obbligo di pagamento di una somma pari
all'aumento del valore venale dell'immobile
se non sono state realizzate opere edilizie
(v. art. 53, comma 2, della LR 12/2005);
(j) il Comune ha deciso di collocare il
comportamento della ricorrente nella terza
categoria, nonostante le osservazioni
contenute nella relazione del 14.04.2000
sulla diversa quantificazione delle aree a
standard per gli insediamenti produttivi e
per quelli direzionali;
(k) questa decisione è in effetti più
vantaggiosa per la ricorrente, in quanto
permette di conservare la nuova destinazione
d’uso pagando una sanzione pecuniaria (e,
tra le sanzioni ipotizzabili, quella
minore), ma è irragionevole e sproporzionata
nella parte in cui non consente alla
ricorrente di liberarsi dalla sanzione
rinunciando al cambio di destinazione d’uso.
Il Comune avrebbe invece dovuto porre alla
ricorrente un’alternativa: pagare la somma
richiesta e proseguire nell’utilizzazione
dell’immobile come poliambulatorio
(eventualmente adeguando le aree a standard,
ma su questo i provvedimenti impugnati non
si soffermano) oppure rimettere in pristino
i locali abbandonando ogni utilizzazione
diversa da quella industriale-artigianale.
Non spetta infatti all’amministrazione la
scelta sul modo migliore di soddisfare
l’interesse dei privati quando vi sono due
opzioni ugualmente idonee a tutelare
l’interesse pubblico
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 09.08.2012 n. 1443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
mutamento di destinazione d’uso, anche senza
opere edilizie, non può costituire una
operazione edilizia o urbanistica per così
dire “neutra”, da definirsi esclusivamente
attraverso il pagamento di una sanzione
pecuniaria, dovendo l’Amministrazione
verificare se il cambio d’uso non abbia
inciso anche sul carico urbanistico della
zona.
In questo senso appare orientata anche la
giurisprudenza amministrativa, per la quale
il mutamento di destinazione d’uso è
rilevante se avviene fra <<categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico>>, dovendosi in tal caso
verificare la variazione del carico
urbanistico; parimenti è
stato affermato che, indipendentemente
dall’esecuzione fisica di opere, rileva il
passaggio dell’immobile ad una categoria
funzionalmente autonoma dal punto di vista
urbanistico, con conseguente aumento del
carico; in altri termini si configura una
“trasformazione edilizia” quando la stessa
sia produttiva di vantaggi economici
connessi all’utilizzazione, anche senza
opere.
La specifica disciplina
regionale sul mutamento di destinazione
d’uso deve essere letta ed interpretata alla
luce dei principi fondamentali e delle
disposizioni più generali risultanti dalla
legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche
dalla stessa legge regionale 12/2005.
Quest’ultima, in particolare, all’art. 51,
comma 1°, se da una parte ammette in via di
principio il passaggio da una destinazione
all’altra, fa espressamente salve le
esclusioni previste dallo strumento
urbanistico generale (<<…salvo quelle
eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per
i mutamenti d’uso senza opere edilizie un
obbligo di semplice comunicazione
all’Amministrazione, purché i suddetti
mutamenti siano <<…conformi alle previsioni
urbanistiche comunali ed alla normativa
igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32,
comma 1°, del DPR 380/2001, qualifica come
“variazione essenziale” –sanzionata ai
sensi del precedente art. 31 del DPR
380/2001 con l’obbligo di demolizione e
riduzione in pristino– il mutamento di
destinazione d’uso (comunque realizzato,
anche senza opere edilizie), che implichi
una variazione degli standard previsti dal
DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di
destinazione d’uso, anche senza opere
edilizie, non può costituire una operazione
edilizia o urbanistica per così dire
“neutra”, da definirsi esclusivamente
attraverso il pagamento di una sanzione
pecuniaria, dovendo l’Amministrazione
verificare se il cambio d’uso non abbia
inciso anche sul carico urbanistico della
zona.
In questo senso appare orientata anche la
giurisprudenza amministrativa, per la quale
il mutamento di destinazione d’uso è
rilevante se avviene fra <<categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico>>, dovendosi in tal caso
verificare la variazione del carico
urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546, con la
giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è
stato affermato che, indipendentemente
dall’esecuzione fisica di opere, rileva il
passaggio dell’immobile ad una categoria
funzionalmente autonoma dal punto di vista
urbanistico, con conseguente aumento del
carico; in altri termini si configura una
“trasformazione edilizia” quando la stessa
sia produttiva di vantaggi economici
connessi all’utilizzazione, anche senza
opere (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
14.10.2011, n. 5539, con le pronunce in essa
richiamate ed anche TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Nel caso di specie, la disciplina
urbanistica del PRG di Lissone esclude che
nella zona B3 di cui è causa sia possibile
la destinazione residenziale: in tal senso
si vedano l’art. 16.5.4 delle NTA che
individua le destinazioni compatibili con
quella principale produttiva, l’art. 20
delle NTA, che attribuisce alla zona B3 una
caratteristica essenzialmente produttiva
industriale e artigianale e l’art. 22 delle
NTA, che per la zona B3 ammette attività
compatibili e complementari con quella
primaria produttiva (cfr. doc. 3 del
resistente nel ricorso 1930/2011).
Dal combinato disposto delle norme tecniche
citate, è agevole concludere che la
destinazione residenziale non è possibile
nella zona B3, se non per la sola ipotesi
della residenza del custode in misura
massima del 16.67% della s.l.p. (superficie
lorda di pavimento).
Appare poi evidente che il passaggio dalla
destinazione produttiva a quella
residenziale implica il passaggio ad una
autonoma categoria funzionale, con
incremento del carico urbanistico dovuto
alla presenza di persone stabilmente
residenti nell’immobile.
Deve quindi riconoscersi in capo alle
Amministrazioni locali il potere, in caso di
mutamento d’uso senza opere edilizie in
contrasto con le previsioni urbanistiche, di
ordinare la rimessione in pristino, per
evitare un illecito ed irreversibile cambio
di destinazione urbanistica non accompagnato
da adeguate misure per fare fronte
all’aumentato carico urbanistico.
Alla luce di quanto sopra esposto,
devono respingersi le censure contenute nel
ricorso RG 1930/2011 contro la nota comunale
dell’11.4.2011, nella quale, pur dandosi
avviso dell’avvio del procedimento
sanzionatorio per gli abusi edilizi
riscontrati (interventi eseguiti in
difformità dalle DIA del 2007 e del 2010),
viene sostanzialmente negato il cambio di
destinazione d’uso dei locali, richiesto
dall’esponente con istanza del 28.03.2011
(cfr. doc. 6 della ricorrente).
In ordine all’accertamento dell’abuso, si
richiama il verbale di sopralluogo del
06.04.2011 con l’allegata documentazione
fotografica (cfr. doc. 15 del resistente nel
ricorso 1930/2011), dal quale risulta in
maniera inequivocabile che all’interno delle
unità immobiliari di cui è causa sono stati
realizzati bagni completi di sanitari e la
predisposizione per le cucine; si tratta di
interventi che rivelano con sufficiente
chiarezza il cambio d’uso intervenuto negli
ambienti, destinati senza dubbio alla
permanenza continua di persone ed alla
residenza e non certo all’attività
produttiva (sull’accertamento del cambio di
destinazione d’uso, che può essere desunto
anche da elementi indiziari, purché univoci,
si vedano: Cassazione penale, sez. III,
26.01.2011, n. 9282 e TAR Lombardia, Milano,
29.04.2011, n. 1105).
L’istruttoria svolta appare quindi adeguata,
così come non si ravvisa alcuna violazione
dell’obbligo di motivazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
27.07.2012 n.
2146 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: DECRETO SVILUPPO/
In azienda opere edili senza vincoli.
Ammesso anche il cambio di destinazione
d'uso dei locali adibiti alle attività.
VIA I PALETTI/
Gli interventi edilizi interni (sia in
muratura che prefabbricati) sono sottratti
al passaggio burocratico in Comune.
Novità per i fabbricati adibiti a esercizio
d'impresa, nei quali possono essere
realizzate modifiche interne di carattere
edilizio o mutamenti di destinazione d'uso
senza alcun titolo abilitativo.
Lo consente l'articolo 13-bis del
decreto
legge «sviluppo» (n. 83 del 22.06.2012),
che amplia una previsione valida in
precedenza solo per la manutenzione
straordinaria, le pavimentazioni, i pannelli
solari, le aree ludiche e le opere
temporanee.
Dal giugno 2012, quindi, gli interventi
edilizi interni (sia in muratura che
prefabbricati) sono sottratti al passaggio
burocratico del Comune, perché sono
equiparati alle opere libere, che non
esigono titoli edilizi. L'innovazione non
riguarda le aree produttive scoperte, né
quelle (quali le tettoie) che ricadono in
zone prive di delimitazioni e che quindi non
presentano caratteristiche di zone
«interne».
In aggiunta alle opere di carattere
edilizio, sono disciplinati in modo
innovativo anche i mutamenti di destinazione
d'uso dei locali adibiti a esercizio di
impresa: ciò significa che all'interno di un
immobile di impresa i singoli locali
(uffici, magazzini, depositi, servizi)
possono trasmigrare da una destinazione
all'altra.
Le nuove libertà riguardano non solo le aree
produttive, ma in generale le destinazioni
ad esercizio di impresa, quindi qualsiasi
intervento di tipo produttivo purché interno
all'attività.
Sino a oggi la materia era regolata dalla
circolare del ministero Lavori pubblici n.
1918 del 16.11.1977 in tema di opere
da realizzare all'interno di stabilimenti
industriali. Questa circolare riguardava
tuttavia soprattutto gli elementi
tecnologici, quali cabine, canalizzazioni,
serbatoi baracche, palloni pressostatici
chioschi, pali, passerelle basamenti e
tettoie di protezione.
Si tratta di elementi di libera
realizzazione purché non in contrasto con
aspetti ambientali igienico sanitari e
comunque senza incremento di densità
(aumento di addetti).
Solo in casi particolari (come stabilito dal
Tar Parma 537/2003) si riusciva a superare
le previsioni dei Comuni, ottenendo la
suddivisione di un ampio capannone
attraverso tramezzature interne e
l'ampliamento del numero degli accessi;
spesso poi la modifica interna era, per il
Comune, un'occasione per esigere il
pagamento di oneri di concessione, quanto
meno su una delle due frazioni di capannone
ottenuta sezionando la precedente unità.
Questi problemi sembrano ora superati dal
decreto legge del 2012, norma che va oltre
gli aspetti della tecnica produttiva (le
innovazioni necessarie per esigenze
tecnologiche e di sicurezza), poiché vengono
agevolate anche le modifiche di stampo
edilizio e le destinazioni d'uso.
Un limite all'agevolazione può tuttavia
desumersi dal comma 4 dell'articolo 6 del
Dpr 380/2001, introdotto dal l'articolo
13-bis del decreto legge 83/2012: subito
dopo aver reso liberi gli interventi nei
luoghi produttivi, il legislatore prevede
che l'interessato debba comunicare al Comune
l'inizio dei lavori, i dati dell'impresa
esecutrice e una relazione tecnica di data
certa, con elaborati progettuali, a firma di
un professionista abilitato.
Il tecnico deve asseverare, sotto la propria
responsabilità, che i lavori sono conformi
agli strumenti urbanistici approvati e ai
regolamenti edilizi vigenti e che per essi
la normativa statale e regionale non prevede
il rilascio di un titolo abilitativo.
Sembra quindi che il nuovo comma 4
dell'articolo 6 del Dpr 380/2001 (richiedendo
l'asseverazione) contrasti con il precedente
comma 2, lettera e-bis (che parla di
esecuzione senza alcun titolo abilitativo).
Ciò accade proprio ora che la Corte
costituzionale (164 del 27.06.2012) ha
sancito la supremazia della legislazione
nazionale in materia di Scia rispetto alle
più severe norme locali.
In ogni caso, la liberalizzazione delle
opere interne in edifici produttivi e quella
dei cambi di destinazione vede entrare in
azione le agenzie per le Imprese (regolate
dalla legge 112/2008, articolo 38, comma 3),
le quali devono certificare (su richiesta
degli interessati) la sussistenza dei
requisiti e i presupposti per considerare le
modifiche interne e quelle di destinazione
d'uso conformi al decreto legge 83/2012.
Anche in tal caso, quindi, la maggiore
snellezza della procedura è attuata
chiedendo un ausilio ai privati.
---------------
Tutte le misure di snellimento
antiburocrazia
Le novità introdotte dal decreto sviluppo
incidono profondamente sull'attività
edilizia, liberalizzando
le procedure soprattutto se i lavori si
svolgono all'interno delle unità produttive
SPORTELLO UNICO
Lo sportello unico per l'edilizia diventa il
punto di riferimento obbligato per tutti gli
atti «riguardanti il titolo abitativo e
l'intervento edilizio oggetto dello stesso».
Lo sportello fornisce una risposta
tempestiva in luogo di tutte le Pa comunque
coinvolte.
Tutti gli atti dovranno essere gestiti da
questa struttura, e altri uffici comunali o
altre amministrazioni coinvolte dal
procedimento non potranno trasmettere
autonomamente «ai richiedenti» atti autorizzatori, pareri, nulla osta o consensi.
PERMESSO DI COSTRUIRE
Per il rilascio del permesso di costruire,
rientra nelle competenze dello sportello
unico l'acquisizione, diretta o tramite
conferenza di servizi, di pareri di
amministrazioni finora escluse. Tra queste,
Regione, Difesa e autorità sui vincoli
idrogeologici.
Il responsabile dello sportello unico ha
l'obbligo di indire
la conferenza di servizi
se entro sessanta giorni
dalla domanda manca
ancora qualche nulla osta
o c'è il dissenso di qualche amministrazione.
STOP ALLA DUPLICAZIONE DI DOCUMENTI
Scatta un taglio consistente della
documentazione richiesta per tutti gli
interventi, compresi quelli minori fatti in
casa, grazie all'acquisizione d'ufficio dei
documenti già in possesso degli uffici
pubblici, come documenti catastali o
variazioni di mappa.
In base alle nuove disposizioni
contenute nella versione definitiva del Dl
Sviluppo
le amministrazioni «non possono richiedere
attestazioni, comunque denominate, o
perizie, sulla veridicità e l'autenticità di
tali documenti, informazioni e dati».
LAVORI NELLE IMPRESE
Novità importanti nei fabbricati adibiti ad
esercizio d'impresa, nei quali possono
essere realizzate modifiche interne di
carattere edilizio o mutamenti di
destinazione d'uso senza alcun titolo
abilitativo. Lo consente l'articolo 13-bis
del Dl "sviluppo".
Dal giugno 2012 tutti gli interventi edilizi
interni sono sottratti al passaggio
burocratico del Comune, perché sono
equiparati alle opere libere, che non
esigono titoli edilizi. Prima erano esclusi
solo manutenzione straordinaria,
pannelli solari e aree ludiche.
CAMBI DI DESTINAZIONI D'USO IN AZIENDA
Vengono regolati anche i mutamenti di
destinazione d'uso dei locali adibiti ad
esercizio di impresa: all'interno di un
immobile d'impresa i singoli locali (uffici,
magazzini, depositi, servizi) possono
trasmigrare da una destinazione all'altra.
Le nuove libertà riguardano
non solo le aree produttive,
ma in generale tutte
le destinazioni ad esercizio
di impresa, quindi anche
qualsiasi intervento di tipo produttivo
purché interno all'attività
(articolo Il Sole 24
Ore del 26.07.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
La destinazione d’uso di un
immobile non si identifica con l’impiego che
in concreto ne fa il soggetto che lo
utilizza, ma con la destinazione impressa
dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la
nozione di “uso” urbanisticamente rilevante
è ancorata alla tipologia strutturale
dell’immobile –quale individuata nel titolo
edilizio–, senza che essa possa essere
influenzata da utilizzazioni difformi
rispetto al contenuto degli atti autorizzatori
e/o pianificatori.
Va premesso che, secondo un costante
orientamento giurisprudenziale, la
destinazione d’uso di un immobile non si
identifica con l’impiego che in concreto ne
fa il soggetto che lo utilizza, ma con la
destinazione impressa dal titolo abilitativo
(v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V,
09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I,
25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto la
nozione di “uso” urbanisticamente rilevante
è ancorata alla tipologia strutturale
dell’immobile –quale individuata nel titolo
edilizio–, senza che essa possa essere
influenzata da utilizzazioni difformi
rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (v., tra le
altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n. 219).
Tale principio, d’altra
parte, risulta codificato anche nella
legislazione della Regione Emilia-Romagna,
laddove è previsto che la “destinazione
d’uso in atto dell’immobile o dell’unità
immobiliare è quella stabilita dal titolo
abilitativo che ne ha previsto la
costruzione o l’ultimo intervento e recupero
o, in assenza o indeterminatezza del titolo,
dalla classificazione catastale attribuita
in sede di primo accatastamento ovvero da
altri documenti probanti” (art. 26, comma 3,
legge reg. n. 31/2002) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 24.07.2012 n. 520 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere edilizie autorizzate, l'uso
diverso legittima la demolizione.
E' legittima l'ordinanza di demolizione di
opere la cui destinazione, sebbene
cristallizzata nel provvedimento
abilitativo, è mutata nel corso del tempo a
cagione di un diverso utilizzo da parte
degli interessati.
Il deducente, proprietario di due posti auto
ubicati nel piano interrato di un immobile
situato nel centro cittadino, ha gravato
l’ordinanza con cui il Comune aveva
ingiunto, ai sensi dell’art. 9, comma 1,
della L.R. (Emilia Romagna) n. 23/2004, la
demolizione di alcuni interventi realizzati
per la chiusura dei “…box auto destinati
al solo utilizzo privato …”, nonché il
ripristino della destinazione degli stessi a
“… spazi per sosta e parcheggi pubblici
in interrato”.
In particolare, ha contestato l’erroneità
del presupposto secondo cui tutti i posti
auto di quell’edificio avrebbero costituito,
sebbene privati, parcheggi funzionali alle
attività terziarie e direzionali insediate
negli edifici del comparto realizzato con
precedente piano particolareggiato e che,
quindi, avrebbero rappresentato “spazi
per sosta e parcheggi pubblici in interrato”,
ovvero spazi destinati a operare come
strutture aperte non suddivise in box.
Invero, ha addotto che la concessione
edilizia rilasciata riguardava l’esecuzione
di lavori di “interrato sottopiazza a uso
parcheggi di pertinenza” e che le
convenzioni urbanistiche a suo tempo
stipulate tra il Comune e il soggetto
attuatore del piano particolareggiato non
contemplavano il diritto di uso pubblico dei
posti-auto.
Il Collegio di Bologna ha dichiarato
l’infondatezza del gravame.
In argomento ha dapprima rammentato che,
secondo un costante orientamento
giurisprudenziale, la destinazione d’uso di
un immobile non si identifica con l’impiego
che in concreto ne fa il soggetto che lo
utilizza, ma con la destinazione impressa
dal titolo abilitativo, e ciò in quanto: “…
la nozione di <<uso>> urbanisticamente
rilevante è ancorata alla tipologia
strutturale dell’immobile – quale
individuata nel titolo edilizio – senza che
essa possa essere influenzata da
utilizzazioni difformi rispetto al contenuto
degli atti autorizzatori e/o pianificatori”
(ex multis, Cons. Stato, Sez. V,
09.02.2001, n. 583; TAR Liguria, Sez. I,
25.01.2005, n. 85; TAR Lombardia, Milano,
Sez. II, 07.05.1992, n. 219).
D’altra parte, ha osservato come il
menzionato principio sia stato codificato
anche nella legislazione della regione
Emilia Romagna, laddove, all’art. 26, comma
3, L.R. n. 31/2002, è previsto che: “… la
destinazione d’uso in atto dell’immobile o
dell’unità immobiliare è quella stabilita
dal titolo abilitativo che ne ha previsto la
costruzione o l’ultimo intervento e recupero
o, in assenza o indeterminatezza del titolo,
dalla classificazione catastale attribuita
in sede di primo accatastamento ovvero da
altri documenti probanti”.
Sicché, con riferimento alla vicenda, il
giudicante ha sottolineato che, al momento
di richiesta del rilascio della concessione
edilizia per i lavori di «interrato
sottopiazza ad uso parcheggi di pertinenza»,
l’amministrazione comunale aveva istruito la
pratica e acquisito l’avviso positivo del
Settore gestione controlli trasformazioni
urbanistiche, nonché il parere favorevole
della Commissione edilizia.
Tali atti istruttori avevano evidentemente
rappresentato gli elementi costitutivi della
volontà della civica P.A. di assentire i
predetti interventi, con la conseguenza che
mediante il rilascio del relativo titolo
abilitativo si fosse inteso destinare quei
posti-auto al soddisfacimento delle
necessità di parcheggio degli utenti della
attività direzionali insediate nel comparto,
indipendentemente dall’uso che poi in
concreto fosse stato fatto da parte degli
interessati.
Pertanto, la circostanza per cui, a distanza
di un considerevole arco di tempo, le
caratteristiche strutturali di quelle aree
erano state modificate in termini tali
(trasformazione in veri e propri “box
auto” chiusi) da renderle oggettivamente
inidonee all’uso a suo tempo autorizzato, a
opinione dell’adito Tribunale aveva
giustificato l’intervento repressivo
dell’amministrazione ex art. 9, comma 1,
L.R. n. 23/2004; quest’ultima diposizione,
non a caso, prevede espressamente che: ”…
lo Sportello unico per l’edilizia, quando
accerti l’inizio o l’esecuzione di opere,
realizzate senza titolo o in difformità
dallo stesso, su aree assoggettate, da leggi
statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti, a vincolo di
inedificabilità o destinate a opere e spazi
pubblici … ordina l’immediata sospensione
dei lavori e ingiunge al proprietario e al
responsabile dell’abuso di provvedere entro
novanta giorni alla demolizione delle opere
e al ripristino dello stato dei luoghi …”.
Né a differenti conclusioni s’è giunti con
riferimento alla doglianza formulata
dall’interessato secondo cui l’omessa
trascrizione del vincolo (pubblico) nei
registri immobiliari avrebbe determinato
l’inopponibilità dello stesso ai terzi
acquirenti del bene.
In realtà il Collegio ha precisato che,
essendo il vincolo di destinazione d’uso il
risultato dell’efficacia costitutiva del
rilascio della concessione edilizia, le
limitazioni connesse a tale destinazione si
sarebbero risolte in una qualità obiettiva
del suolo che, proprio perché formata da un
provvedimento amministrativo, sarebbe stata
opponibile anche ai terzi acquirenti, fatti
salvi i rimedi giurisdizionali e
amministrativi azionabili nei confronti del
titolo abilitativo eventualmente
illegittimo.
D’altro canto, ha rilevato che la tutela dei
terzi sarebbe stata comunque assicurata con
la pacifica accessibilità agli atti
urbanistico/edilizi del Comune e con la
conseguente possibilità di conoscenza della
destinazione d’uso impressa a ogni singolo
immobile oggetto di interesse dei
consociati, secondo modalità che
garantiscono un’adeguata pubblicità e quindi
una sufficiente circolazione delle
informazioni.
In virtù di quanto illustrato, il G.A. di
Bologna ha respinto il ricorso,
contestualmente dichiarando la legittimità
della gravata ordinanza di demolizione
(commento tratto da www.ipsoa.it - TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 24.07.2012 n. 520 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Mutamento della destinazione
d’uso senza opere edilizie (Regione
Lombardia, Direzione Generale Territorio e
Urbanistica,
risposta
e-mail del 20.07.2012).
---------------
Pubblichiamo l'interessante quesito
redatto dall'U.T. di un comune bergamasco
con annessa risposta.
La questione non è affatto chiara, tant'é
che da un'indagine -ancorché non
approfondita- con alcuni UTC lombardi se ne
sono sentite di cotte e di crude circa il
modus operandi ...
Adesso, però, si spera che con questa risposta regionale
si possa avere -d'ora in avanti- un
comportamento uniforme sull'intero
territorio regionale.
23.07.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
EDILIZIA
PRIVATA:
Centri culturali islamici: in quali zone del PRG possono
collocarsi? La questione delle associazioni di promozione
sociale.
Nel caso esaminato dalla
sentenza 11.06.2012 n. 801 del TAR Veneto, Sez.
II, il comune ha diffidato un centro culturale islamico a
usare un immobile in modo difforme dalla destinazione d'uso
risultante dal certificato di agibilità conseguito per il
medesimo immobile (capannone destinato ad attività
produttivo-artigianale).
Il TAR ha ritenuto che le disposizioni del PRG non
consentano destinazioni d'uso diverse da quelle
produttivo-artigianali e ha concluso che le attività
destinate al culto e/o ad associazioni culturali o religiose
non possono trovare collocazione in questa zona, ma possono
essere svolte nelle zone a ciò destinate dal P.R.G., ai
sensi dell’art. 30 delle N.T.A.
IL TAR non ha ritenuto applicabile la disposizione dell'art.
32 della legge 383 del 2000 che stabilisce che le attività
delle associazioni di promozione sociale sono compatibili
con qualsiasi destinazione urbanistica, in quanto non è
stato conseguito il formale riconoscimento come associazione
di promozione sociale: "che, invero, ai sensi dell’art. 7
della normativa invocata è prevista l’iscrizione delle
associazioni di promozione sociale in appositi registri, su
scala nazionale o regionale a seconda del livello di
operatività delle associazioni, e ai sensi del successivo
art. 8 è prescritto che al fine di usufruire dei benefici di
cui alla legge de qua è necessario conseguire l’iscrizione
nei suddetti registri, nazionali o regionali; atteso che
l’associazione ricorrente non ha fornito alcuna
documentazione a tale specifico riguardo, non dimostrando
l’iscrizione nel registi di cui alla L. n. 383/2000, diversa
essendo la documentazione proveniente dall’Agenzia delle
Entrate ai sensi e per gli effetti di cui al D.lgs. n.
460/1997" (commento tratto da e link a http://venetoius.myblog.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Ordinanze contingibili e urgenti (divieto di
utilizzo di locale seminterrato adibito a
luogo di culto).
La giurisprudenza ha
costantemente affermato il principio secondo
cui deve escludersi l'illegittimità del
provvedimento amministrativo, fondato su una
pluralità di autonomi motivi, quando ne
esista almeno uno idoneo a sostenere l'atto
stesso.
---------------
Una volta provato, come è avvenuto
attraverso i sopralluoghi per il
procedimento edilizio e i controlli della
Polizia Locale, che l’immobile (ndr:
magazzino) viene utilizzato quale luogo di
culto, da un numero di persone che, con alta
probabilità, supera sistematicamente le 150
unità, l’adozione di un provvedimento di
inibizione dell’uso dei locali si configura
come atto dovuto, atteso che l’esigenza di
garantire luoghi di ritrovo salubri e sicuri
è ragione sufficiente a giustificare
l’adozione di un provvedimento contingibile
e urgente, volto a prevenire ed eliminare
ogni possibile pericolo imprevedibile che
può nascere da un assembramento di persone
in luoghi chiusi.
Oggetto del presente ricorso è il
provvedimento con cui il Comune di Legnano
ha disposto il divieto di utilizzare il
seminterrato di un immobile, sede di una
associazione culturale, per le riunioni o
gli incontri di preghiera.
Il provvedimento è qualificato come
ordinanza contingibile ed urgente, ex art.
54 TUEL, ed è stato adottato a seguito di
una istruttoria che verte sia sul profilo
sanitario sia su quello della sicurezza.
L’Amministrazione già in precedenza aveva
rilevato la violazione di disposizioni
edilizie e aveva quindi ordinato la
demolizione delle opere, con un
provvedimento mai gravato e divenuto quindi
inoppugnabile.
Due sono quindi i procedimenti, conclusisi
con atti distinti: il procedimento edilizio,
al cui esito si ordina la demolizione delle
opere realizzate senza titolo; il
procedimento de quo, relativo all’uso
dell’immobile, utilizzo che contrasta, non
solo con la destinazione dei locali
(magazzino), ma anche con la disciplina
igienico-sanitaria e con le norme di
prevenzione incendi: stante quindi le
accertate violazioni l’Amministrazione ha
adottato un provvedimento ex art. 54 TUEL,
per la evidente necessità di “tutelare la
pubblica incolumità e sicurezza” di
coloro che occupano l’immobile.
Così qualificato l’atto impugnato, il
Collegio ritiene che i profili di
illegittimità rilevati siano infondati, per
cui si può prescindere dall’esame delle
eccezioni preliminari sollevate dalla difesa
dell’Amministrazione.
Alla base dell’ordine di non utilizzare
l’immobile vi sono gli accertamenti della
Polizia Locale, che in più occasioni (in
particolare il 29.3.2010, 21.5.2010,
6.8.2010 e 3.9.,2010), ha verificato
l’ingresso continuo di persone, anche fino a
400.
Poco rileva la circostanza, contestata da
parte ricorrente, che vi sarebbe un via vai
costante e quindi che non sarebbe provato
l’esatto numero di persone presenti
contestualmente nell’immobile: è infatti un
dato accertato durante tutti i sopralluoghi,
che intorno alle 12.30, più di 100 persone
entrano nell’immobile, vi stanziano fino
alle 15.30 e in questo lasso di tempo
continuano ad entrare altri soggetti.
Questa situazione di fatto ha portato
l’Amministrazione ad adottare l’ordinanza
qui gravata, per la violazione della
normativa igienico-sanitaria e di quella
antincendio.
Va premesso, prima dell’esame dei singoli
motivi, che il provvedimento in esame è un
atto plurimotivazionale ed è quindi
sufficiente la legittimità di un solo motivo
per rendere legittimo il provvedimento. Al
proposito occorre ricordare -perché utile
nell'esame della fattispecie- che la
giurisprudenza ha costantemente affermato il
principio secondo cui deve escludersi
l'illegittimità del provvedimento
amministrativo, fondato su una pluralità di
autonomi motivi, quando ne esista almeno uno
idoneo a sostenere l'atto stesso (Cons.
Stato sez. VI, 19.08.2009, n. 4975;
17.09.2009, n. 5544; 05.07.2010, n. 4243).
Nella prima censura, lamenta parte
ricorrente l’errata applicazione delle
disposizioni del regolamento di igiene, in
quanto l’ASL farebbe riferimento ad una
situazione ancora da accertare.
Il motivo non ha pregio.
Come sopra detto non può essere messo in
dubbio che nel seminterrato stanzino un
certo numero di persone: è quindi corretto
il richiamo alle norme del Regolamento
locale di igiene che per i locali
seminterrati impone una serie di
prescrizioni nel caso di permanenza di
persone, requisiti assenti nel caso di
specie: infatti ai sensi dell’art 3.6.4 la
permanenza nei locali seminterrati è
consentita a condizione che vi siano
adeguate condizioni di altezza, di
superficie e di aereoilluminazione. L’art
3.6.9 detta prescrizioni per le dimensioni
delle scale; l’art 3.8.1. impone poi per i
locali di ritrovo una cubatura pari a 4 mc.
per ogni utente e almeno due servizi per
ogni 200 utilizzatori.
La violazione di queste prescrizioni è stata
accertata non solo dal Comune in sede di
procedimento edilizio, ma anche dall’ASL
nella nota del 27.04.2010, in cui vengono
indicate le condizioni necessarie
nell’ipotesi di uso dell’immobile “come
locali di ritrovo”, circostanza che
l’Autorità sanitaria ritiene debba essere
accertata dall’Amministrazione Comunale.
Pertanto l’Autorità Sanitaria non si è
limitata ad un richiamo generico di norme
regolamentari, come sostenuto da parte
ricorrente, ma ha indicato con precisione le
norme che devono essere rispettate per l’uso
dell’immobile quale luogo di ritrovo,
demandando all’Amministrazione Comunale
l’accertamento di questo profilo.
Il provvedimento richiama anche il parere
dei Vigili del Fuoco del 03.06.2010, dove si
afferma che i locali potrebbero avere i
requisiti di sicurezza e salubrità a
condizione che la capienza non superi le 150
unità, le uscite di sicurezza siano dotate
di adeguata segnaletica e vi sia la
documentazione prevista dal d.lgs. 81/2008.
Ma nello stesso parere si da atto che le vie
di uscita non sono dotate di segnaletica e
che il locale può avere i requisiti di
sicurezza, solo se “la capienza massima
non superi le 150 unità”.
Una volta quindi provato, come è avvenuto
attraverso i sopralluoghi per il
procedimento edilizio e i controlli della
Polizia Locale, che l’immobile viene
utilizzato quale luogo di culto, da un
numero di persone che, con alta probabilità,
supera sistematicamente le 150 unità,
l’adozione di un provvedimento di inibizione
dell’uso dei locali si configura come atto
dovuto, atteso che l’esigenza di garantire
luoghi di ritrovo salubri e sicuri è ragione
sufficiente a giustificare l’adozione di un
provvedimento contingibile e urgente, volto
a prevenire ed eliminare ogni possibile
pericolo imprevedibile che può nascere da un
assembramento di persone in luoghi chiusi.
Per tali ragioni, l’ordinanza resiste alla
prima censura e la motivazione igienico
sanitaria e di sicurezza è sufficiente a
sorreggere il provvedimento (TAR Lombardia-Milano,
Sez. III,
sentenza 08.06.2012 n. 1618 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
La lottizzazione abusiva presuppone
opere (c.d. lottizzazione materiale) o iniziative giuridiche
(c.d. lottizzazione cartolare) che comportano una
trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in
violazione delle prescrizioni urbanistiche.
Al fine di valutare un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d.
materiale, appare necessaria una visione d'insieme dei
lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell'attività
edilizia realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere
modifiche rispetto all'attività assentita idonee a conferire
un diverso assetto al territorio comunale oggetto di
trasformazione
Proprio in quanto sussiste lottizzazione abusiva in tutti i
casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la
programmazione del territorio, deve rilevarsi che la
verifica dell'attività edilizia realizzata nel suo complesso
può condurre a riscontrare un illegittimo mutamento della
destinazione all'uso del territorio autoritativamente
impressa anche nei casi in cui le variazioni apportate
incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei
manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R.
n. 380/2001 che impone di affermare che integra un'ipotesi
di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente,
a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in
ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla
futura attività di programmazione (che viene posta di fronte
al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita
adeguamento degli standards. Invero, il concetto di "opere
che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei
terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera
"funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico
tutelato è costituito dalla necessità di preservare la
potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché
l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto
titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il
Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo
degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards
compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica
ed edilizia" e non quello di "opera comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende che il mutamento di destinazione d'uso di
edifici già esistenti può influire sull'assetto urbanistico
dei terreni sui quali essi insistono e può altresì
comportare nuovi interventi di urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia" dei terreni, lo si ribadisce, deve
quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla
ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è
costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di
preservare la potestà pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del
territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva,
appunto, a garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo
degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards
compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della
trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle
previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui
si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite (giacché tale difformità è
specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n.
380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia
che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa
conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le
singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato
rilasciato il permesso di costruire.
---------------
Può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi
tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del
territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento
abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un
concreto ostacolo alla futura attività di programmazione
(che viene posta di fronte al fatto compiuto) ma anche
soltanto un carico urbanistico che necessita di adeguamento
degli standards e rimarcare che, avuto riguardo alla
tipologia dei reiterati abusivi intereventi realizzati, ove
unitariamente considerati, questa è l’evenienza realizzatasi
nel caso di specie.
In sostanza: da un modesto immobile di minima consistenza,
attraverso una pluralità di opere abusive, poste in essere
con sistematicità, ed in spregio anche ai decreti di
sequestro via via emessi dall’Autorità amministrativa e
giudiziaria (si veda il capo di imputazione sotteso alla
sentenza ex art. 444 cpp, laddove è stato contestato il
delitto di violazione di sigilli aggravata ex art. 349 cpv
cp) si è realizzato un piccolo albergo munito financo di
piscina.
La giurisprudenza della Corte di cassazione penale è ormai
stabilmente orientata all’affermazione di detto principio.
Si rammenta in proposito (la fattispecie è speculare a
quella in esame) quanto ripetutamente sostenuto da questa
giurisprudenza, cioè che: “In materia edilizia, il reato di
lottizzazione abusiva mediante modifica della destinazione
d'uso da alberghiera a residenziale è configurabile,
nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico generale
consenta l'utilizzo della zona ai fini residenziali, in due
casi:
a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato alla
stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad
immobili residenziali;
b) quando la destinazione d'uso residenziale comporti un
incremento degli "standards" richiesti per l'edificazione
alberghiera e tali "standars" aggiuntivi non risultino
reperibili ovvero reperiti in concreto.”.
In detta pronuncia, in particolare, si è condivisibilmente
affermato che il problema della configurabilità del reato di
lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso
consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile
già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche
alla stregua della legislazione urbanistica regionale in
materia di classificazione delle categorie funzionali della
destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni
della pianificazione comunale, alle quali deve essere
raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata
trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in particolare, “può
integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento
della destinazione d'uso di un immobile che alteri il
complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso
gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto
alla individuazione di siffatta "alterazione", che
l'organizzazione del territorio comunale si attua con il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le
loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni
singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità
di servizi.
L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche
allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli
standards di zona.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin da epoca
risalente affermato dalla giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato ha rimarcato, al riguardo, che "la
richiesta di cambio della destinazione d'uso di un
fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle
modificazioni astrattamente possibili in una determinata
zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto
difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto
con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si
tratta non di una mera modificazione formale destinata a
muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal
piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere
significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal
piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri
prefigurati in quella sede" (nella specie è stato affermato
che legittimamente un Comune aveva respinto l'istanza per il
cambio di destinazione d'uso di un complesso immobiliare,
relativamente ad uso esclusivamente residenziale, del tutto
incompatibile con la destinazione di zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza
(ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in
ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la
definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3,
comma 1, lett. d), del in quanto l'esecuzione dei lavori,
anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione
di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente".
L'art. 30 del
D.P.R. 380/2001, al comma 1, dispone che: "si ha
lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando
vengono iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o
adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché
quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti che, per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio".
Appare evidente che la lottizzazione abusiva presuppone
opere (c.d. lottizzazione materiale) o iniziative giuridiche
(c.d. lottizzazione cartolare) che comportano una
trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in
violazione delle prescrizioni urbanistiche.
Al fine di valutare un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d.
materiale, appare necessaria una visione d'insieme dei
lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell'attività
edilizia realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere
modifiche rispetto all'attività assentita idonee a conferire
un diverso assetto al territorio comunale oggetto di
trasformazione
Proprio in quanto sussiste lottizzazione abusiva in tutti i
casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la
programmazione del territorio, deve rilevarsi, ad avviso del
Collegio, che la verifica dell'attività edilizia realizzata
nel suo complesso può condurre a riscontrare un illegittimo
mutamento della destinazione all'uso del territorio
autoritativamente impressa anche nei casi in cui le
variazioni apportate incidano esclusivamente sulla
destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R.
n. 380/2001 che impone di affermare che integra un'ipotesi
di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente,
a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in
ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla
futura attività di programmazione (che viene posta di fronte
al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita
adeguamento degli standards. Come già affermato dalla
giurisprudenza di merito il concetto di "opere che
comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei
terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale"
alla ratio della norma, il cui bene giuridico
tutelato è costituito dalla necessità di preservare la
potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché
l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto
titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il
Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo
degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards
compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione
urbanistica ed edilizia" e non quello di "opera
comportante trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende, ad avviso del Collegio, che il mutamento di
destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire
sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi
insistono e può altresì comportare nuovi interventi di
urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia" dei terreni, lo si ribadisce,
deve quindi essere interpretato in maniera "funzionale"
alla ratio della norma (il cui bene giuridico
tutelato è costituito, come si diceva in precedenza, dalla
necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del
territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva,
appunto, a garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo
degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards
compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della
trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle
previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui
si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite (giacché tale difformità è
specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n.
380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia
che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa
conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le
singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato
rilasciato il permesso di costruire.
Tenuto conto della natura del provvedimento impugnato in
primo grado (ordinanza di sospensione per lottizzazione
abusiva) cadono quindi tutte le censure fondate sulla
mancata definizione delle domande di condono dei singoli –e
reiterati- abusi realizzati, in quanto non incidenti sulla
riscontrabilità di una condotta lottizzatoria materiale
abusiva.
---------------
Deve per ulteriore conseguenza affermarsi che può integrare
un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere
in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio
preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo
e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto
ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene
posta di fronte al fatto compiuto) ma anche soltanto un
carico urbanistico che necessita di adeguamento degli
standards e rimarcare che, avuto riguardo alla tipologia dei
reiterati abusivi intereventi realizzati, ove unitariamente
considerati, questa è l’evenienza realizzatasi nel caso di
specie.
In sostanza: da un modesto immobile di minima consistenza,
attraverso una pluralità di opere abusive, poste in essere
con sistematicità, ed in spregio anche ai decreti di
sequestro via via emessi dall’Autorità amministrativa e
giudiziaria (si veda il capo di imputazione sotteso alla
sentenza ex art. 444 cpp, laddove è stato contestato il
delitto di violazione di sigilli aggravata ex art. 349 cpv
cp) si è realizzato un piccolo albergo munito financo di
piscina.
La giurisprudenza della Corte di cassazione penale è ormai
stabilmente orientata all’affermazione di detto principio.
Si rammenta in proposito (la fattispecie è speculare a
quella in esame) quanto ripetutamente sostenuto da questa
giurisprudenza, cioè che: “In materia edilizia, il reato
di lottizzazione abusiva mediante modifica della
destinazione d'uso da alberghiera a residenziale è
configurabile, nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico
generale consenta l'utilizzo della zona ai fini
residenziali, in due casi:
a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato alla
stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad
immobili residenziali;
b) quando la destinazione d'uso residenziale comporti un
incremento degli "standards" richiesti per l'edificazione
alberghiera e tali "standars" aggiuntivi non risultino
reperibili ovvero reperiti in concreto.” (Cassazione
penale, sez. III, 07.03.2008, n. 24096).
In detta pronuncia, in particolare, si è condivisibilmente
affermato che il problema della configurabilità del reato di
lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso
consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile
già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche
alla stregua della legislazione urbanistica regionale in
materia di classificazione delle categorie funzionali della
destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni
della pianificazione comunale, alle quali deve essere
raffrontata, in termini di "compatibilità", la
effettuata trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in particolare, “può
integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento
della destinazione d'uso di un immobile che alteri il
complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso
gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto
alla individuazione di siffatta "alterazione", che
l'organizzazione del territorio comunale si attua con il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le
loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni
singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità
di servizi.
L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche
allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli
standards di zona.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin da epoca
risalente affermato dalla giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato (sez. 5^, 03.01.1998, n. 24) ha
rimarcato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della
destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca
all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in
una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare
un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in
insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto
che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione
formale destinata a muoversi tra i possibili usi del
territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione
idonea ad incidere significativamente sulla destinazione
funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da
alterare gli equilibri prefigurati in quella sede"
(nella specie è stato affermato che legittimamente un Comune
aveva respinto l'istanza per il cambio di destinazione d'uso
di un complesso immobiliare, relativamente ad uso
esclusivamente residenziale, del tutto incompatibile con la
destinazione di zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza
(ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in
ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la
definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3,
comma 1, lett. d), del in quanto l'esecuzione dei lavori,
anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione
di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente".
La dedotta circostanza che, a particolari condizioni, possa
conseguirsi la sanatoria degli immobili abusivamente
edificati -(principio costantemente affermato dalla Corte di
Cassazione: “In tema di reati edilizi, l'inapplicabilità
della disciplina sul condono edilizio prevista dall'art. 39
L. 23.12.1994, n. 724 al reato di lottizzazione abusiva
(art. 18 L. 28.02.1985 n. 47), non esclude l'applicabilità
di tale disciplina ai singoli manufatti abusivamente
eseguiti, i quali sono suscettibili di condono previa
valutazione globale dell'attività lottizzatoria secondo il
meccanismo previsto dal combinato disposto degli articoli 29
e 35, comma tredicesimo, L. 28.02.1985, n. 47.”
-Cassazione penale, sez. III, 21.11.2007, n. 9982; e
confermato pure dalla giurisprudenza amministrativa di
merito: si veda TAR Campania Napoli, sez. II, 27.08.2010, n.
17263)- non inficia la legittimità dell’ordinanza di
sospensione gravata, posto che lo stesso principio non può
precludere all’amministrazione comunale la ravvisabilità di
una fattispecie di lottizzazione materiale abusiva, né
l’adozione dei provvedimenti ad essa consequenziali.
Nel caso di specie peraltro, la fattispecie “unica”
racchiude in realtà due condotte parimenti illegali: la
abusiva edificazione di svariati manufatti (lottizzazione
materiale) e la avvenuta adibizione degli stessi, unitamente
al pregresso ed originario corpo di fabbrica, ad attività
incompatibile (lottizzazione abusiva mercé modifica della
destinazione d’uso) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.06.2012 n. 3381 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E' pacifico che possa parlarsi di opere
di manutenzione straordinaria tutte le volte in cui il
rifacimento di alcune parti di un manufatto preesistente,
nel senso sopra indicato, non comporti variazioni
plano-volumetriche delle stesse, laddove, per contro,
interventi edilizi che determinino un aumento delle altezze
e un mutamento di destinazione d'uso vanno qualificati come
“ristrutturazione edilizia".
Pertanto, seppur il rifacimento o il puro rinnovo di un
manufatto preesistente possa essere inquadrato nella
categoria della manutenzione straordinaria, ciò presuppone
la mancata alterazione di volumi e superfici: in sostanza,
deve sussistere un duplice requisito, funzionale e
strutturale, consistente sia nella finalità delle opere che
nel rispetto dell’obbligo di cui sopra.
Orbene, è pacifico che possa parlarsi di opere di
manutenzione straordinaria tutte le volte in cui il
rifacimento di alcune parti di un manufatto preesistente,
nel senso sopra indicato, non comporti variazioni
plano-volumetriche delle stesse, laddove, per contro,
interventi edilizi che determinino un aumento delle altezze
e un mutamento di destinazione d'uso vanno qualificati come
“ristrutturazione edilizia” (Tar Lecce, sez. III,
29.09.2011 n. 1694; Tar Lazio, sez. I, 01.08.2011 n. 6834).
Pertanto, seppur il rifacimento o il puro rinnovo di un
manufatto preesistente possa essere inquadrato nella
categoria della manutenzione straordinaria, ciò presuppone
la mancata alterazione di volumi e superfici: in sostanza,
deve sussistere un duplice requisito, funzionale e
strutturale, consistente sia nella finalità delle opere che
nel rispetto dell’obbligo di cui sopra (Tar Napoli, sez. II,
01.04.2011 n. 1902; Cons. St., sez. IV, 22.03.2007 n. 1388)
(TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1055 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il generale principio di correlare gli
oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, la
ristrutturazione edilizia comporta tale dovere allorché
sussista tale carico, che va riscontrato anche in caso di
divisione e frazionamento di immobile che da uno si
trasforma in due unità, con distinti ingressi e servizi.
Anche in tale ipotesi, consistente nella divisione e
frazionamento di una unità immobiliare in due o più unità,
stante l’autonoma utilizzabilità delle stesse, si realizza
un aumento dell’impatto sul territorio e sono dovuti i
relativi oneri.
---------------
Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli
oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior
carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio,
sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione
interessi globalmente l'edificio -con variazioni riguardanti
nella loro interezza le parti esterne ed interne del
fabbricato- ma è soltanto sufficiente che ne risulti
comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità
urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti
all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a
sopportare l'aggiuntivo carico «socio-economico» che
l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento
dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori
dovuti ad una divisione o frazionamento dell'immobile in due
unità o fra due o più proprietari
La giurisprudenza di questo Consesso ha già chiarito che il
generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione
al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta
tale dovere allorché sussista tale carico, che va
riscontrato anche in caso di divisione e frazionamento di
immobile che da uno si trasforma in due unità, con distinti
ingressi e servizi (così Consiglio di Stato, IV, 29.04.2004,
n. 2611; per esempio, nel senso che in caso di mutamento di
destinazione d'uso siano dovuti gli oneri concessori,
Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4014).
Anche in tale ipotesi, consistente nella divisione e
frazionamento di una unità immobiliare in due o più unità,
stante l’autonoma utilizzabilità delle stesse, si realizza
un aumento dell’impatto sul territorio e sono dovuti i
relativi oneri.
D’altronde, che i lavori realizzati abbiano prodotto due
distinte e, come tali, fruibili, unità immobiliari
costituisce ammissione della stessa parte appellante.
Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli
oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior
carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio,
sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione
interessi globalmente l'edificio -con variazioni riguardanti
nella loro interezza le parti esterne ed interne del
fabbricato- ma è soltanto sufficiente che ne risulti
comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità
urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti
all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a
sopportare l'aggiuntivo carico «socio-economico» che
l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento
dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori
dovuti ad una divisione o frazionamento dell'immobile in due
unità o fra due o più proprietari (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 17.05.2012 n. 2838 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La casa non è uno studio. Trasformazione
illegittima se non è dichiarata. Sentenza del Tar Lazio
sulla destinazione d'uso degli immobili privati.
L'appartamento da residenza privata
diventa studio professionale. Se ne accorge la polizia
municipale che fa scattare l'abbattimento delle opere,
abusive perché eseguite senza il permesso di costruire,
sempre necessario quando si altera la destinazione d'uso
dell'immobile.
È quanto emerge dalla
sentenza 26.03.2012 n. 2832, pubblicata dalla
Sez. I-quater del TAR Lazio-Roma.
Titolo necessario.
Niente da fare per i proprietari dell'immobile trasformato
in una zona di pregio di Roma: gli interventi realizzati
dovranno essere rimossi. È la polizia municipale ad
accorgersi di quanto sta avvenendo nell'appartamento: il
contratto di affitto al nuovo inquilino, una società, parla
inequivocabilmente di «locazione ad uso studio
professionale» e i vigili accertano che la cucina è
smantellata, seppure non del tutto, per far posto alle
scrivanie con tanto di impianti elettrici, telematici e di
climatizzazione tipici di un ufficio.
E i proprietari non dispongono del titolo edilizio: scatta
allora il provvedimento del Comune che ordina la riduzione
in pristino. È vero, la concessione non risulta sempre
necessaria: se ne può ben fare a meno quando i lavori non
consistono in interventi evidenti che alternano il
territorio. Ma in questo caso l'immobile ricade in zona «A»
del piano regolatore della Capitale, che impone la
titolarità del permesso di costruire.
Proprietari smentiti.
Bocciata su tutto il fronte la linea difensiva dei titolari
dell'appartamento. È esclusa infatti la violazione di legge
ed eccesso di potere con riguardo all'errata applicazione e
allo sviamento della normativa di riferimento. Non si
configura la denunciata illegittimità della determinazioni
comunali per mancato rispetto della preventiva acquisizione
dell'accertamento e del parere di cui all'articolo 33, commi
2 e 4, dpr 380/2001. I provvedimenti adottati dal Comune non
sono affatto spropositati: la documentazione
dell'amministrazione esclude che nello stop allo studio «abusivo»
si possa configurare un eccesso di potere per travisamento
dei fatti o un'ingiustizia «grave e manifesta» a
carico dei proprietari dell'immobile.
Confermata, insomma, la demolizione delle opere abusive
determinata dal «mutamento di destinazione d'uso
dell'immobile da abitazione e ufficio privato con
eliminazione del vano cucina e installazione di impianti
telematici, elettrico e di condizionamento» rilevato
dall'amministrazione (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il cambio di destinazione d'uso,
effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente
un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e,
come tale, non necessita di concessione edilizia qualora non
sconvolga l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio
ricade.
Nella fattispecie in esame si controverte della legittimità
della determinazione dirigenziale di demolizione opere
abusive adottata dal Comune a fronte del mutamento di
destinazione d’uso di un'immobile da abitazione e ufficio
privato con eliminazione del vano cucina e installazione di
impianti telematici, elettrico e di condizionamento.
Il Collegio ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale a
tenere del quale il semplice cambio di destinazione d'uso,
effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente
un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e,
come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non
sconvolga l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio
ricade (cfr, tra le tante, Cons. Stato, sez. V., 23.02.2000
n. 949, TAR Liguria, sez. I, 28.01.2004 n. 102, TAR Veneto,
Sez. III, 13.11.2001 n. 3699, Cass. Penale, Sez. III,
01.10.1997 n. 3104 e, più di recente, TAR Lazio, sez. II,
07.10.2005 n. 8002 e TAR Abruzzo, sede l'Aquila, 02.04.2009
n. 236).
Nel caso in esame, tuttavia, il giudice preso atto che si
ricade in zona A di PRG ha rigettato il ricorso in quanto il
mutamento da residenza a studio privato abbisognava di
permesso a costruire (art. 10, comma 1, lett. c) (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 26.03.2012 n. 2832 - massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento della destinazione.
Il mutamento della destinazione d'uso di un immobile attuato
attraverso la realizzazione di opere edilizie, qualora venga
realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la
sua esistenza, configura in ogni caso un'ipotesi di
ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita
dall'art. 3, 1° comma, lett. d), del TU. 380/2011, in quanto
l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta
pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del
contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.03.2012 n. 8945 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'utilizzazione di un immobile ad
ufficio pubblico non ne determina la modificazione della
destinazione d'uso.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha affermato
che l’utilizzazione di fatto di un immobile ad ufficio
pubblico in forza di un contratto di diritto privato non può
essere fonte di modificazione della destinazione d’uso
derivante questa, infatti, da provvedimenti classificatori
di natura autoritativa non modificabili o estinguibili da
determinazioni negoziali: queste, per loro natura -contratto
di locazione– hanno incorporata in sé una logica transitoria
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.02.2012 n. 1148 - massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per la Corte di Cassazione anche il cambio d'uso senza opere
abusivo è reato, salvo tra categorie omogenee.
La
sentenza 08.02.2012 n. 4943 della III Sez. penale
della Corte di Cassazione, si occupa del cambio d'uso senza
opere.
Scrive la Cassazione che la modificazione della destinazione
d'uso di un immobile, anche senza opere, in contrasto con
quanto previsto dagli strumenti urbanistici integra la
fattispecie contravvenzionale di cui alla lettera a)
dell'art. 44 del Dpr 380/2001.
Fa eccezione il caso in cui le modificazioni siano poste in
essere tra categorie omogenee.
Nel caso in esame, un'area agricola era stata abusivamente
destinata a campo di volo da parte di una associazione di
appassionati (tratto da e link a http://venetoius.myblog.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Modifica destinazione di uso.
Nell'ipotesi in cui si abbia una modificazione della
destinazione d'uso dell'immobile rispetto a quella
preesistente, senza la realizzazione di opere, e salva
l'ipotesi di modificazioni poste in essere tra categorie
omogenee è configurabile la fattispecie contravvenzionale di
cui all'art. 44, primo comma lett. a), del DPR n. 380/2001,
che ripete sostanzialmente la formulazione dell'art. 20,
lett. a), della L. n. 47/1985, stante la inosservanza delle
prescrizioni dello strumento urbanistico, allorché detta
modificazione risulti incompatibile con le previsioni in
esso contenute (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.02.2012 n. 4943 - tratto da
www.lexambiente.it). |
anno 2011 |
|
EDILIZIA
PRIVATA:
A. Frigo,
Cambio di destinazione d'uso di un annesso rustico ai sensi
dell'articolo 4, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011 (cd.
decreto sviluppo) (link a http://venetoius.myblog.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Cambio di destinazione d'uso in
violazione del P.R.G. - Sanzione Amministrativa - Valore
degli immobili - Perizia di stima - Discrezionalità tecnica
- Legittimità.
2. Cambio di destinazione d'uso in violazione del P.R.G. -
Sanzione Amministrativa - Valore degli immobili -
Osservatorio del Mercato Immobiliare - Organismo pubblico -
Legittimità.
1. Non sussistendo radicale diversità tra la destinazione
commerciale e quella terziaria, risulta legittima la perizia
di stima del valore degli immobili effettuata dell'Agenzia
del Territorio che, essendo espressione di discrezionalità
tecnica è censurabile soltanto in caso di evidenti errori o
macroscopiche illogicità, non riscontrabili nel caso di
specie, risultando conseguente legittima la sanzione
amministrativa impugnata.
2. Non è viziata da difetto di motivazione la perizia di
stima del valore degli immobili dell'Agenzia del Territorio
che richiama i dati dell'Osservatorio del Mercato
Immobiliare, senza sottoporli ad adeguata valutazione, in
quanto l'Osservatorio è un organismo pubblico, istituito
presso l'Amministrazione Finanziaria ai fini di agevolare
l'attività di stima degli immobili svolta dall'Agenzia del
Territorio le cui valutazioni, seppure non vincolanti, hanno
carattere di ufficialità (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.11.2011 n. 2649 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
EDIFICI DI CULTO – SEDI DI ASSOCIAZIONI
CULTURALI ISLAMICHE – PREVALENZA DELL’ATTIVITA’ DI PREGHIERA
– DETERMINA MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO – NECESSITA’
DI PERMESSO DI COSTRUIRE - SUSSISTE.
In tema di edilizia cultuale, qualora un immobile non
risulti utilizzato in via esclusiva quale luogo di culto, ma
come sede di un’Associazione culturale islamica (nella
specie ubicata in un negozio), in linea di principio non
sarebbe possibile affermare la sussistenza di
un’incompatibilità edilizio-urbanistica della destinazione
d’uso dell’immobile medesimo, salvo che le circostanze di
fatto non inducano a ritenere che l’attività ivi
prevalentemente svolta sia quella della preghiera
congregazionale, espressamente prevista dallo Statuto
dell’Associazione culturale, e quest’ultima non sia in grado
di provare il prevalente svolgimento di attività diverse da
quelle proprie della preghiera.
LEGGE URBANISTICA DELLA LOMBARDIA – EDIFICI DI CULTO –
NECESSITA’ DI PERMESSO DI COSTRUIRE ANCHE PER MUTAMENTI DI
DESTINAZIONE D’USO SENZA OPERE – INCOSTITUZIONALITA’ PER
DISCRIMINAZIONE – NON SUSSISTE.
L’art. 52, comma 3-bis della L.R. della Lombardia 11.03.2005
n. 12, che dispone la necessità del rilascio del permesso di
costruire per i “mutamenti di destinazione d’uso di
immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere
edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e
luoghi destinati a centri sociali”, non si presta a dubbi di
costituzionalità o di discriminazione, poiché esso, trovando
applicazione in relazione all’intera categoria delle
“attrezzature di interesse comune per servizi religiosi …
gli immobili (comunque) destinati a sedi di associazioni,
società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite,
le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre
alla religione, all’esercizio del culto o alla professione
religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o
centri culturali”, si propone di controllare i mutamenti di
destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso di persone o
di utenti, di creare centri di aggregazione con riflessi di
rilevante impatto urbanistico.
---------------
La sentenza resa in primo grado va riformata e –per
l’effetto– il ricorso ivi proposto va respinto.
Il Collegio ribadisce in tal senso che, come evidenziato
anche nella recente ordinanza cautelare n. 2008 dd.
10.05.2011, se un immobile non risulta sia utilizzato in via
esclusiva quale luogo di culto (diritto, questo, il cui
esercizio è comunque garantito anche ai non cittadini a’
sensi e nei limiti dell’art. 19 Cost.), in linea di
principio non è possibile affermare la sussistenza di
un’incompatibilità edilizio-urbanistica della destinazione
d’uso dell’immobile medesimo, il quale peraltro consterebbe
sia a tutt’oggi nella specie adibito a “negozio”,
anche se poi divenuto sede dell’Associazione Culturale Da’awa.
L’esame dello statuto di tale Associazione e delle
circostanze di fatto documentate sino alla predetta data del
23.07.2011 convincono tuttavia il Collegio della circostanza
che, a differenza del caso definito in sede cautelare da
questa stessa Sezione mediante l’anzidetta ordinanza n. 2008
del 2001, nella fattispecie non risulta materialmente
comprovato lo svolgimento da parte della Associazione
medesima di attività diverse da quelle proprie della
preghiera, nondimeno reputata in via del tutto apodittica
dal TAR come accessoria e marginale nel contesto degli scopi
statutari perseguiti da Da’awa.
In effetti, nell’estrema genericità dei pur commendevoli
scopi di carattere generale enunciati dallo statuto di Da’awa
(“rafforzare il legame di fratellanza umana tra comunità
e i cittadini locali attraverso lo scambio culturale, la
collaborazione sociale, la vicinanza civile all’interno di
un quadro di rispetto e di integrazione”; “essere un
elemento di una area di convivenza e di pace, promuovendo
una condotta morale che porti alla pratica del bene”; “far
rivivere gli insegnamenti del Profeta - Sunna e la
rivelazione Divina - Corano”), la specifica attività di
“organizzare preghiere individuali e collettive”
assume all’evidenza un carattere non occasionale ma del
tutto preminente: e ciò inderogabilmente impone, pertanto,
l’applicazione nella specie dell’art. 52, comma 3-bis della
L.R. 11.03.2005 n. 12 come introdotto dall’art. 1 della L.R.
14.07.2006 n. 12, laddove si dispone la necessità del
rilascio del permesso di costruire per i “mutamenti di
destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la
realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione
di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali”.
Né va sottaciuto che l’art. 70 e ss. della medesima L.R. 12
del 2005 reca una specifica disciplina urbanistica per i
luoghi di culto e che, medio tempore, lo ius superveniens
contenuto nell’art. 71, comma 1, lett. c–bis, della L.R.
11.03.2005 n. 12, così come inserito dall’art. 12 della L.R.
21.02.2011 n. 3, ha comunque ricondotto nella categoria
delle “attrezzature di interesse comune per servizi
religiosi … gli immobili (comunque) destinati a sedi di
associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi
forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative
siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto
o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole
di religione o centri culturali”.
In tale contesto, pertanto, la trasformazione
–inoppugnabilmente avvenuta nella specie– del preesistente “negozio”
in luogo preminentemente adibito a culto non poteva che
richiedere, anche a prescindere dalla concomitantemente
contestata realizzazione al piano seminterrato di un
tavolato interno, il rilascio del titolo edilizio abilitante
al mutamento della destinazione d’uso dei relativi locali.
Né la disciplina contenuta nel testé citato art. 52, comma
3-bis, della L.R. 12 del 2005 come introdotto dall’art. 1
della L.R. 12 del 2006 può reputarsi incostituzionale
secondo la prospettazione svolta in tal senso dagli
appellati.
Secondo questi ultimi, infatti, tale disciplina violerebbe:
- l’art. 2 Cost. (riconoscimento costituzionale dei diritti
inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni
sociali; tra i diritti inviolabili dell’uomo vi è il diritto
alla preghiera religiosa ed al culto);
- l’art. 3 Cost. (violazione del principio d’eguaglianza e
ragionevolezza in quanto sarebbe chiara la discriminazione
che la Regione Lombardia pone a coloro che vogliano
destinare i locali, anche senza opere, a luogo di culto
-necessità di operare con permesso di costruire- rispetto a
tutti gli altri cittadini che vogliano effettuare un
mutamento di destinazione d'uso d’altro genere -il permesso
di costruire non necessita- è sufficiente la denuncia
d’inizio attività, o la semplice comunicazione);
- l’art. 8 Cost. (libertà di tutte le confessioni religiose
davanti alla legge);
- l’art. 9 Cost. (promozione dello sviluppo della cultura);
- gli artt. 18 e 19 Cost. (a mezzo della contestata
disciplina regionale si inciderebbe e si annullerebbe il
diritto di associarsi liberamente ed il diritto di
professare liberamente la propria fede religiosa al fine di
farne propaganda -anche a mezzo di associazioni culturali-
ed anche per esercitare in pubblico ed in privato il proprio
culto);
- l’art. 20 Cost. (si violerebbe il divieto costituzionale
di non porre speciali limitazioni legislative per ogni forma
d’attività dell’associazione con fine di culto);
- e, da ultimo, l’art. 21 Cost. (si inciderebbe e si
annullerebbe il diritto di manifestare liberamente il
proprio pensiero costituito anche dall’esercizio del culto.
Il Collegio a tale ultimo riguardo evidenzia che lo stesso
giudice di primo grado ha convenuto che l’art. 52, comma
3-bis della L.R. 12 del 2005 per la sua collocazione e la
sua ratio è palesemente volto al controllo di
mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso
di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione
(chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come
destinazione principale o esclusiva l’esercizio del culto
religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto
urbanistico, le quali richiedono la verifica delle dotazioni
di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni:
se non altro agli effetti dell’altrettanto necessario e
conseguente rilascio del certificato di agibilità (cfr. art.
23 e ss. del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380)
dell’immobile destinato al nuovo uso, nonché della parimenti
necessaria e conseguente pratica di prevenzione incensi di
cui al D.P.R. 12.01.1998 n. 37 di competenza dei Vigili del
Fuoco.
Pertanto non sussiste, nel contesto del medesimo comma
3-bis, alcuna discriminazione di carattere
politico-culturale e religioso, anche per il fatto che la
disciplina sopradescritta è uniformemente applicata ad ogni
luogo di culto, anche cattolico, nonché ad ogni centro
sociale, di qualsivoglia tendenza socio-politica, al fine di
salvaguardare l’incolumità di tutti coloro che frequentano
tali luoghi di riunione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.10.2011 n. 5778 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA:
Variazione di destinazione d'uso
dell'immobile - Istanza - Diniego - Adozione
- Sindaco - Vizio di incompetenza -
Competenza del Dirigente - Ipotesi di
ordinaria attività gestionale. (D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, art. 107).
L'istanza di variazione di destinazione
d'uso dell'immobile, non rientrando
nell'ambito della definizione di obiettivi e
programmi o della verifica della rispondenza
dei risultati dell'attività amministrativa,
integra una ipotesi di ordinaria attività
gestionale, come tale affidata, in virtù del
principio della separazione fra livello di
indirizzo politico e gestionale, alla
generale competenza del Dirigente in quanto
apice della struttura burocratica.
Qualora,
dunque, il provvedimento di diniego
sull'istanza suddetta sia stato adottato dal
Sindaco ha luogo una ipotesi di vizio di
incompetenza per violazione dell'art. 107
del D.Lgs. n. 267 del 2000, nella parte in
cui contempla una previsione generale che
attribuisce ai dirigenti tutti i compiti non
ricompresi espressamente dalla legge o dallo
statuto tra le funzioni di indirizzo e
controllo politico-amministrativo, ivi
compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano
l'Amministrazione verso l'esterno (TAR Valle d'Aosta,
sentenza 20.10.2011 n. 68 - massima tratta
da www.diritto24.ilsole24ore.com -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il costo di costruzione c'è.
Dall'ingrosso al dettaglio, il commerciante paga. Sentenza
del Consiglio di stato: l'onere rimane, anche senza lavori
edilizi.
Il costo di costruzione previsto dagli
oneri di urbanizzazione imposti ai commercianti dalla legge
cosiddetta «Bucalossi» è dovuto in quota corrispondente
anche se nei locali non sono stati effettuati interventi
edilizi per consentire il passaggio dalla vendita
all'ingrosso a quella al dettaglio.
Lo precisa la
sentenza 14.10.2011 n. 5539 dalla IV Sez. del
Consiglio di Stato.
Trasformazione e vantaggio.
L'impresa che ha sede nell'area urbana destinata
all'industria e all'artigianato è «pizzicata» dal
Comune: il cambio di destinazione d'uso realizzato nei
locali con il «via» alla vendita al dettaglio non
risulta autorizzato nell'ambito della concessione ottenuta.
Scatta così la rideterminazione degli oneri di
urbanizzazione, primaria e secondaria. Che tuttavia il
commerciante non contesta.
Ciò che non vuole pagare l'azienda, che per ironia della
sorte vende prodotti per l'edilizia, sono i costi di
costruzione. E la motivazione è che non sono stati
realizzati lavori per aprire la vendita al pubblico:
l'ampiezza della superficie «dedicata» non è
cambiata. Ma la censura non coglie nel segno.
È vero: il contributo relativo al costo di costruzione di
cui alla legge Bucalossi è riconducibile all'attività
costruttiva considerata in sé. Ma attenzione, si tratta di
un prelievo che ha natura paratributaria: il corrispettivo è
comunque dovuto in presenza di una «trasformazione
edilizia» produce vantaggi economici connessi
all'utilizzazione. E ciò indipendentemente dall'esecuzione
fisica di opere. Con il passaggio dall'ingrosso al dettaglio
si verifica un mutamento d'uso rilevante nell'esercizio
commerciale: si tratta, infatti, di due categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e la
trasformazione determina comunque un aumento del cosiddetto
«carico urbanistico».
Scorporo impossibile.
La mancata realizzazione di opere edilizie all'interno dei
locali è irrilevante. Il passaggio dall'ingrosso al
dettaglio comporta maggiori oneri sociali delle opere di
urbanizzazione e fa perciò insorgere il presupposto
imponibile per la debenza del contributo concessorio
comprensivo della quota relativa al costo di costruzione: ne
consegue che l'utilizzatore del beneficio deve pagare la
differenza tra gli oneri di urbanizzazione già corrisposti
per la destinazione d'uso originaria e quelli, se più
elevati come nel caso di specie, dovuti per la nuova
destinazione impressa all'immobile.
E il contributo concessorio così rideterminato comprende
necessariamente anche il costo di costruzione (articolo
ItaliaOggi del 18.10.2011). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento di destinazione d'uso -
Variazione degli standard - Configurabilità come nuova
costruzione - Sussiste.
Il mutamento
di destinazione d'uso da locali senza permanenza di persone
in locali abitabili rientra nel concetto di nuova
costruzione, che riguarda non soltanto la realizzazione di
un manufatto su area libera, ma include ogni intervento di
ristrutturazione che renda un manufatto oggettivamente
diverso da quella preesistente. Detta oggettiva diversità
sussiste ogniqualvolta si abbia un mutamento di destinazione
d'uso che implichi la variazione degli standard, poiché
detta destinazione d'uso rappresenta in elemento
determinante della tipologia del manufatto (massima tratta
da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.10.2011 n. 2426 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La
disposizione di cui all'art. 52, comma 3-bis, L.R. 12/2005
della Lombardia vuole evitare che -attraverso la
liberalizzazione dei cambi di destinazione d'uso stabilita
dall'art. 51 della LR 12/2005- siano realizzate innovazioni
di grande impatto sul tessuto urbano senza un preventivo
esame da parte dell'amministrazione.
Anche in presenza non di un luogo espressamente destinato
all’esercizio del culto islamico, ma solo di un luogo di
raduno di immigrati di religione islamica con finalità
meramente culturali e non cultuali comunque trova
applicazione (configurandosi alternativamente l’ipotesi del
“centro sociale”, inteso come luogo di aggregazione di una
cospicua entità di soggetti aventi interessi comuni) la
suddetta norma regionale che richiede il rilascio di
specifico titolo edilizio, nella specie non richiesto.
La L.R. 11.03.2005 n. 12, al
comma 3-bis dell’art. 52 (recante la rubrica ”Mutamenti
di destinazione d'uso con e senza opere edilizie”)
espressamente dispone che: “I mutamenti di destinazione
d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di
opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di
culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati
a permesso di costruire”.
La Sezione (cfr. la sentenza 14.09.2010 n. 3522 ) ha già
avuto modo di rilevare che tale disposizione vuole evitare
che -attraverso la liberalizzazione dei cambi di
destinazione d'uso stabilita dall'art. 51 della LR 12/2005-
siano realizzate innovazioni di grande impatto sul tessuto
urbano senza un preventivo esame da parte
dell'amministrazione.
Va rilevato che quand’anche dovesse accedersi alla tesi di
parte ricorrente, -secondo cui nella fattispecie non si
sarebbe in presenza di un luogo espressamente destinato
all’esercizio del culto islamico, ma solo di un luogo di
raduno di immigrati di religione islamica con finalità
meramente culturali e non cultuali- ciò non di meno comunque
trova applicazione (configurandosi alternativamente
l’ipotesi del “centro sociale”, inteso come luogo di
aggregazione di una cospicua entità di soggetti aventi
interessi comuni) la suddetta norma regionale che richiede
il rilascio di specifico titolo edilizio, nella specie non
richiesto
(TAR Lombardia-Brescia,
Sez. I,
sentenza 22.09.2011 n. 1320 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento di destinazione d'uso - Oneri
di urbanizzazione - Supplemento di contributo urbanistico -
In caso di aumento del carico urbanistico - Legittimità.
In caso di
mutamento della destinazione d'uso dell'immobile -nel caso
di specie da residenza a studio medico- che comporti un
incremento del carico urbanistico è legittima la richiesta
della P.A. circa la corresponsione di un supplemento del
contributo pari alla differenza tra il contributo previsto
per la nuova destinazione e quello relativo alla precedente
(cfr. TAR Milano, sent. n. 2989/2006, 1115/2005, 1100/2005,
145/2005) (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.09.2011 n. 2236 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nuova costruzione - Nozione - In caso di
mutamento di destinazione d'uso con variazione degli
standard - Sussiste.
La realizzazione di un nuovo insediamento non consegue
necessariamente ad una nuova edificazione, ben potendo
configurarsi anche ove venga mutata la destinazione d'uso di
edificio già esistente -nel caso di specie creazione di
insediamento non residenziale derivante da insediamento
residenziale- (cfr. TAR Milano, sent. n 1069/2011) (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.09.2011 n. 2236 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La destinazione urbanistica della zona
non rileva ai fini del cambio di destinazione d'uso
dell’immobile ivi localizzato, che ha assunto una
utilizzazione economica diversa (quella commerciale), che
giustifica il pagamento delle spese di urbanizzazione ai
sensi dell'art. 9, lett. b), della L. n. 10/1977.
Con il secondo motivo si
sostiene che il cambio di destinazione d'uso dell'immobile,
da magazzino ad attività commerciale, non avrebbe
giustificato il pagamento delle spese di urbanizzazione per
la nuova destinazione perché l'immobile ricadrebbe in zona
M/2 destinata ad attrezzature di servizi generali e locali,
e quindi, il mutamento di destinazione non era soggetto a
concessione edilizia ma a mera autorizzazione.
La censura è infondata perché la destinazione urbanistica
della zona non rileva ai fini del cambio di destinazione
d'uso dell’immobile ivi localizzato, che ha assunto una
utilizzazione economica diversa (quella commerciale), che
giustifica il pagamento delle spese di urbanizzazione ai
sensi dell'art. 9, lett. b), della L. n. 10/1977
(Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 01.09.2011 n. 4906 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento funzionale della destinazione
d’uso da residenziale a professionale - Presupposto -
Modifiche della tipologia costruttiva o dell’organizzazione
interna degli spazi.
Per poter parlare di un mutamento funzionale della
destinazione d'uso di un immobile da residenziale a
professionale -direzionale, occorre riferirsi alle oggettive
caratteristiche dei locali interessati dall’intervento di
trasformazione, dovendosi escludere tale mutamento quando
l’utilizzazione lavorativa dei locali non abbia comportato
una modifica della tipologia costruttiva o, quantomeno,
dell'organizzazione interna degli spazi (TAR Parma Emilia
Romagna, sez. 1^ 26.11.2009, n. 792, sentenza che richiama
anche: TRGA Trentino-Alto Adige, Trento, 07.05.2009, n.
150).
Diversamente opinando si dovrebbe invero concludere che
anche lo svolgimento di un'attività professionale svolta
senza alcun apparato organizzativo e strumentale nello
studio della propria abitazione, ne comporta la
trasformazione in immobile ad uso direzionale (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 01.07.2011 n. 1110 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Mutamento di destinazione d'uso -
Potere della P.A. di limitare una destinazione ammessa -
Legittimità ex art. 41, Costituzione.
2. Mutamento di destinazione d'uso - Incremento di valore
degli immobili - Stima dell'Agenzia del Territorio - E' atto
endoprocedimentale - Conseguenze - Necessità di notifica
all'Agenzia del Territorio - Non sussiste.
1. E'
configurabile in capo al Comune il potere di introdurre,
oltre al divieto tout court della destinazione d'uso
in relazione ad una determinata area, anche una limitazione
percentuale della medesima destinazione, benché ammessa:
tale diversificazione funzionale delle aree, attraverso la
quale l'autorità investita della pianificazione contempera
la molteplicità di interessi convergenti in subiecta
materia, è giustificata dall'art. 41 della Costituzione e
dal suo riferimento alla utilità sociale quale limite alla
libertà d'iniziativa economica privata (cfr. Corte
Costituzionale, sent. n. 167/2009; Cons. di Stato, sent. n.
894/2011).
2.
In materia di rilevazioni di incremento di valore degli
immobili nel passaggio da una destinazione d'uso ad
un'altra, la stima dell'Agenzia del Territorio costituisce
atto interno, non direttamente lesivo, e pertanto
impugnabile solo unitamente al provvedimento che irroga la
sanzione: ciò esclude la configurabilità dell'Agenzia del
Territorio come contraddittore necessario (cfr. TAR Milano,
sent. n. 468/2011, n. 1546/2010).
(tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.06.2011 n. 1730 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Quesiti in merito al frazionamento di unità
immobiliari e al cambio di destinazione d’uso.
Il Comune pone dei quesiti sul frazionamento di unità
immobiliari e sul cambio di destinazione d’uso delle stesse,
eseguiti senza esecuzione di opere edilizie o tramite
interventi riconducibili ad attività di manutenzione
straordinaria, in ordine ai quali si osserva quanto segue
(Regione Marche,
parere 06.06.2011 n. 188/2011). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Residenza a ufficio: senza opere cambio
d'uso regolare.
Il semplice cambio di destinazione
d'uso, effettuato senza opere evidenti, non implica
necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del
territorio comunale e, come tale, non abbisogna di
concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto
dell’area in cui l’intervento edilizio ricade. Dagli atti
depositati in giudizio risulta, per tabulas, che si tratta
di un cambio di destinazione d’uso senza opere (da
residenziale a funzionale).
Come noto, è stato affermato in giurisprudenza che il
semplice cambio di destinazione d'uso, effettuato senza
opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento
urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale,
non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga
l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio ricade
(cfr, tra le tante, Cons. Stato, sez. V., 23.02.2000 n. 949,
TAR Liguria, sez. I, 28.01.2004 n. 102, TAR Veneto, Sez. III,
13.11.2001 n. 3699, Cass. Penale, Sez. III, 01.10.1997 n.
3104 e, più di recente, TAR Lazio, sez. II, 07.10.2005 n.
8002 e TAR Abruzzo, sede l'Aquila, 02.04.2009 n. 236).
Sul punto, la Regione Lazio non ha legiferato in materia, né
con l’ultima l.r. 38/1999, né con la precedente l.r.
36/1987.
Nella fattispecie in esame, il mutamento da residenza a
ufficio non comporta alcun aggravio né una oggettiva
modificazione nell'assetto urbanistico-edilizio della zona,
dal che consegue che detta attività non è soggetta al previo
rilascio della concessione edilizia (ora permesso di
costruire) (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lazio-Roma,
Sez. I-quater,
sentenza 24.05.2011 n. 4622 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nuova costruzione - Nozione - In caso di
mutamento di destinazione d'uso con variazione degli
standard - Sussiste.
Il concetto di
nuova costruzione riguarda non soltanto la realizzazione di
un manufatto su area libera, ma include, altresì, ogni
intervento di ristrutturazione che renda un manufatto
oggettivamente diverso da quello preesistente: in
particolare, tale oggettiva diversità sussiste ogniqualvolta
si abbia un mutamento di destinazione d'uso che implichi la
variazione degli standard, poiché detta destinazione d'uso
rappresenta un elemento determinante della tipologia del
manufatto (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 4256/2008; TAR
Milano, sent. n. 1787/2010; TAR Torino, sent. n. 940/2010)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 27.04.2011 n. 1069 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Richiesta di pagamento del costo di
costruzione - Cambio di destinazione d'uso - Nuova
destinazione ammessa dalle N.T.A. - Categorie edilizie
autonome - Vincolo di strumentalità - Irrilevanza -
Legittimità.
Se il cambio
di destinazione d'uso di un immobile, ancorché compatibile
nella medesima zona omogenea, è intervenuto tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, e, quindi,
ha integrato una modificazione edilizia con effetti
incidenti sul carico urbanistico, è soggetta al regime
oneroso, indipendentemente dalla tipologia delle opere.
Di conseguenza, risultando altresì irrilevante la
rappresenta strumentalità della nuova destinazione di parte
delle aree (espositiva) alla pregressa destinazione
sussistente nella restante parte di edificio (produttiva),
risulta legittima la richiesta di pagamento del costo di
costruzione impugnata (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.03.2011 n. 740 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Cambio d'uso gratis solo se non cresce
il carico urbanistico. L'esenzione degli oneri «segue» la
necessità della dotazione di servizi.
Il cambio d'uso non è sempre "gratuito", ma non solo.
Il pagamento del contributo di costruzione è uno degli snodi
critici della materia edilizia e, nel corso degli anni, una
nutrita giurisprudenza ha chiarito gli aspetti più
problematici della materia, specie per quel che riguarda la
natura giuridica del contributo, le varie ipotesi di
esenzione e i presupposti per il suo pagamento in relazione
alla tipologia dell'intervento che si intende realizzare.
La definizione di «carico».
A quest'ultimo riguardo il Tar Lombardia-Brescia, Sez. I,
con la recente
sentenza 03.03.2011 n. 375, affronta una delle
questioni di maggior rilievo nella materia, quella del
cambio di destinazione d'uso, anche se attuato in assenza di
interventi costruttivi, qualora questo determini comunque un
aumento del cosiddetto «carico urbanistico».
Questo concetto non è definito dalla legislazione vigente,
ma la giurisprudenza della Cassazione l'ha individuato come
«l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario
come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza
del numero delle persone insediate su di un determinato
territorio» (Sezioni unite penali, 20.03.2003, sentenza
n. 12878).
In altri termini, poiché ogni insediamento umano è
costituito da un elemento primario (abitazioni, uffici,
opifici, negozi, eccetera), è necessario proporzionare
questo primo elemento a quello cosiddetto secondario o di
servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici,
parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio
idrico, condutture di erogazione del gas), in relazione al
numero degli abitanti insediati e alle caratteristiche delle
attività svolte in quello stesso territorio.
Proprio partendo da questa considerazione, i giudici
bresciani, richiamando propri precedenti orientamenti (n.
145/2005, n. 646/2004 e n. 34/1998) rilevano come il
presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di
urbanizzazione vada ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi nel l'area di riferimento (rete viaria,
fognature eccetera), che sia indotta dalla destinazione
d'uso concretamente impressa al manufatto. Questo perché una
diversa utilizzazione dell'edificio rispetto a quella
stabilita nel l'originario titolo abilitativo può
determinare una variazione quantitativa e qualitativa del
carico urbanistico.
Il pagamento degli oneri si giustifica quindi con la
necessità di ridistribuire –in modo equo per la comunità– i
costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli
gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità
derivanti dalla loro presenza. Il contributo di
urbanizzazione infatti, secondo il Consiglio di Stato
(sezione V, n. 2359/2009 e n. 2258/2006), pur non avendo
natura tributaria, costituisce comunque «un corrispettivo
di diritto pubblico posto a carico del costruttore, connesso
al rilascio della concessione edilizia, a titolo di
partecipazione del concessionario ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne ritrae».
Il mutamento rilevante.
Da questi elementi la sentenza del Tar Lombardia fa derivare
che il presupposto imponibile si verifica in tutti i casi di
«mutamento rilevante» della destinazione d'uso dalla quale
derivi un maggior carico urbanistico, con conseguente
necessità per l'interessato di pagare la differenza tra gli
oneri di urbanizzazione già corrisposti per la destinazione
d'uso originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la
nuova destinazione impressa al l'immobile (ad esempio, la
trasformazione di un albergo in un edificio residenziale).
Quanto al concetto di «mutamento rilevante», la
pronuncia chiarisce un elemento importante, specificando che
lo stesso sussiste in tutti i casi di «passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza
del regime contributivo in ragione di diversi carichi
urbanistici, cosicché la circostanza che le modifiche di
destinazione d'uso senza opere non sono soggette a
preventiva concessione o autorizzazione sindacale non
comporta ipso jure l'esenzione dagli oneri di urbanizzazione
e quindi la gratuità dell'operazione».
Di conseguenza, ciò che assume rilievo ai fini del pagamento
non è la necessità o meno di un titolo abilitativo per
l'attività di trasformazione edilizia che si vuole
realizzare (permesso di costruire o Dia): il presupposto
impositivo si può verificare anche nel caso di mutamento di
destinazione d'uso del fabbricato di tipo «funzionale»,
cioè senza alcuna esecuzione di opere (si veda anche anche
Tar Campania-Napoli n. 6271/2008, citata nella scheda a
destra) (articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2011). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento della destinazione d'uso di
edifici - Lottizzazione abusiva materiale - Configurabilità
- Fattispecie: modifica della destinazione da sottotetti a
mansarde.
Rientra nel concetto giuridico di lottizzazione abusiva
materiale, anche l’esecuzione dei lavori che determinano un
mero mutamento della destinazione d'uso di edifici, già
esistenti, da cui derivi la necessità di nuovi interventi di
urbanizzazione (Cass. 15/02/2007, n. 6396). Fattispecie:
configurabilità del reato di lottizzazione abusiva
conseguente alla modifica della destinazione da sottotetti a
mansarde. (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2011 n. 6892 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Destinazione d'uso; mutamento; assenza
di lavori edili; concessione edilizia; non necessarietà;
modifiche prospettiche; ampliamento dell'immobile; titolo
abilitativo.
Il mutamento di destinazione d'uso degli immobili in assenza
di lavori edili, purché compatibile con la destinazione di
zona, non è assoggettato a concessione edilizia, in quanto
costituisce espressione non già dello ius aedificandi,
bensì dello ius utendi.
La circostanza di cui innanzi, e la conseguente non
necessità del titolo abilitativo, deve, tuttavia, escludersi
ogni qualvolta il richiedente, formulando istanza di condono
ai sensi della L. n. 47 del 1985, indichi nel medesimo
modello il cambio di destinazione d'uso e le modifiche
prospettiche, le quali non solo implicano necessariamente
delle opere, in quanto incidenti sulla forometria esterna
del fabbricato, ma per di più appaiono strutturalmente
finalizzate proprio alla diversa utilizzazione dell'immobile
medesimo (nella specie come albergo e non più come
abitazione), nonché, in altro modello, la necessità di un
ampliamento (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.02.2011 n. 236 - tratto da
www.diritto24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Mutamento di destinazione d'uso -
Divieto di introdurre limiti quantitativi alla presenza di
destinazioni complementari a fianco di quelle principali -
Illegittimità.
2. Mutamento di destinazione d'uso - Incremento di valore
degli immobili - Stima dell'Agenzia del Territorio - E' atto
endoprocedimentale - Conseguenze - Onere di impugnabilità
della stima - Non sussiste.
1.
In materia di disciplina dei mutamenti delle destinazioni
d'uso degli immobili, ai sensi dell'art. 1, comma 2, L.R.
1/2001 -norma oggi abrogata, ma sostanzialmente confluita
nell'art. 51, comma 1, lett. d), L.R. 12/2005- da un lato, è
consentito ai comuni di escludere in toto determinate
destinazioni: dall'altro, tuttavia, tale norma non può
essere intesa come divieto di introdurre limiti quantitativi
alla presenza di destinazioni complementari a fianco di
quella o quelle identificate come principali.
2.
In materia di rilevazioni di incremento di valore degli
immobili nel passaggio da una destinazione d'uso ad
un'altra, la stima dell'Agenzia del Territorio costituisce
atto interno, non direttamente lesivo, e pertanto
impugnabile solo unitamente al provvedimento che irroga la
sanzione: ciò esclude la configurabilità dell'Agenzia del
Territorio come contraddittore necessario (cfr. TAR Milano,
sent. n. 1546/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.02.2011 n. 468 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Contributi e oneri - Rimborso della
differenza tra oneri concessori versati per il terziario e
minori oneri dovuti per l'abitativo - Impossibilità.
Una volta che l'intervento edilizio sia stato realizzato in
base a permesso di costruire chiesto dall'interessato e
questi ne abbia successivamente mutata la destinazione
d'uso, non è dovuto alcun rimborso della differenza tra
oneri concessori versati per il terziario e (minori) oneri
dovuti per l'abitativo: infatti, nessuna norma prevede la
restituzione degli oneri (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.02.2011 n. 468
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
TAR Milano: mutamento di destinazione
d'uso, rimangono le percentuali.
Il TAR di Milano ha affermato che, pur
nel regime della L.R. 12/2005, lo strumento urbanistico può
prevedere limitazioni percentuali alle destinazioni d'uso
ammissibili nelle diverse zone. Ciò alla luce di
un'interpretazione estensiva dell'ultimo inciso contenuto
nell'art. 51 primo comma della L.R. 12/2005: "salve quelle
escluse dal PGT" significa che lo strumento urbanistico può
derogare al principio per cui le destinazioni d'uso
ammissibili (principali, complementari e accessorie),
coesistono senza limitazioni percentuali.
L’art. 51 della legge regionale n. 12/2005 dispone (secondo
e terzo comma): “I comuni indicano nel PGT in quali casi
i mutamenti di destinazione d’uso di aree e di edifici,
attuati con opere edilizie, comportino un aumento ovvero una
variazione del fabbisogno di aree per servizi e attrezzature
pubbliche e di interesse pubblico o generale di cui
all’articolo 9. Per i mutamenti di destinazione d’uso non
comportanti la realizzazione di opere edilizie, le
indicazioni del comma 2 riguardano esclusivamente i casi in
cui le aree o gli edifici siano adibiti a sede di esercizi
commerciali non costituenti esercizi di vicinato ai sensi
dell’articolo 4, comma 1, lettera d), del decreto
legislativo 31.03.1998, n. 114”.
Queste disposizioni -peraltro rivolte ai futuri PGT-
riguardano i mutamenti di destinazione d’uso ammessi, non
quelli esclusi dallo strumento urbanistico. Esse riproducono
infatti l’art. 1, comma 3, della previgente l.r. n. 1 del
2001, che in termini pressoché identici recitava: “I
comuni indicano, altresì, attraverso lo strumento
urbanistico generale, in quali casi i mutamenti di
destinazione d'uso di aree e di edifici, ammissibili ai
sensi del comma 2, attuati con opere edilizie, comportino un
aumento ovvero una variazione del fabbisogno di standard;
per quanto riguarda i mutamenti di destinazione d'uso
ammissibili, non comportanti la realizzazione di opere
edilizie, le suddette indicazioni riguarderanno
esclusivamente i casi in cui le aree o gli edifici vengano
adibiti a sede di esercizi commerciali non costituenti
esercizi di vicinato ai sensi dell'articolo 4, comma 1,
lettera d), del d.lgs. 31.03.1998, n. 114”.
Quanto all’art. 54 della legge regionale, il fatto che i
mutamenti di destinazione che non determinino carenza di
aree per servizi e attrezzature di interesse generale non
costituiscano variazione essenziale, non esclude la
sanzionabilità dei mutamenti di destinazione che si pongano
in contrasto con lo strumento urbanistico (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.02.2011 n. 468 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento di destinazione d'uso -
Finalità - Mutamento d'uso funzionale - Variazione su
immobile senza opere - Assenza del titolo - Illegittimità
dell'ordine di demolizione - Variazioni con opere -
Necessità del titolo - Legittimità dell'ordine di
demolizione - Impugnativa - Infondatezza.
Il mutamento di destinazione d'uso consiste nel variare la
destinazione cui l'immobile è urbanisticamente destinato.
Esso può essere realizzato con opere, ed in tal caso è
soggetto a licenza o concessione ovvero a semplice
autorizzazione, a seconda del tipo di intervento, o senza
opere ed in tal caso è soggetto a semplice autorizzazione.
Ai fini del legittimo mutamento d'uso "funzionale" di
un locale, inteso quale variazione di destinazione
dell'immobile non implicante la realizzazione di opere
edilizie, non essendo richiesta concessione edilizia, è
illegittimo l'ordine sindacale di demolizione, motivato con
l'assenza o la difformità di idoneo titolo concessorio.
Viceversa, l'ipotesi di un mutamento di destinazione d'uso
non già funzionale, bensì strutturale, ovvero connesso e
conseguente all'esecuzione di opere, necessita di apposita
concessione il cui difetto legittima la demolizione delle
opere stesse.
Orbene, nel caso in esame, risulta infondato il gravame
promosso dalla ricorrente per l'annullamento del
provvedimento con cui il Comune resistente le ordinava la
demolizione di tre manufatti, perché realizzati in assenza
sia del titolo edilizio che del titolo paesistico -quest'ultimo
necessario essendo il predetto Comune sottoposto alle norme
del Piano Territoriale Paesistico approvato con D.M. del
04.07.2002, pubblicato in G.U. serie generale n. 219 del
19.09.2002-, giacché risultava che i predetti manufatti,
diversamente da quanto asseriva la ricorrente, presentavano
caratteristiche difficilmente riconducibili a quelle
precedenti, con la conseguenza che vi era stata un'attività
edilizia manipolativa che doveva necessariamente
qualificarsi come illecita e, quindi, abusiva in quanto
posta in essere senza i succitati titoli (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.02.2011 n. 735 - tratto da
www.diritto24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Immobile abusivo ultimato - Mancanza del
certificato di abitabilità - Sequestro - Art. 221 T.U. delle
leggi sanitarie - Art. 321 c.p.p..
In materia di reati edilizi o urbanistici, ai fini della
sequestrabilità preventiva di un immobile abusivo già
ultimato, può considerarsi come antigiuridica l'implicazione
proveniente dalla perpetrazione dell'illecito amministrativo
sanzionato dall'art. 221 del T.U. delle leggi sanitarie
(divieto di abitare gli edifici sforniti di certificato di
agibilità), che, pur non potendosi inquadrare nella nozione
di "agevolazione della commissione di altri reati",
certamente integra una situazione illecita ulteriore
prodotta dalla condotta (la libera utilizzazione della cosa)
che il provvedimento cautelare è finalizzato ad inibire
(Cass., Sez. III, 16.11.2004, n. 44433 e sez. IV,
19.04.2007, n. 15845).
Mutamento di destinazione d'uso
materiale - Configurabilità - Immobile abusivo - I lavori
eseguiti ripetono le caratteristiche di illegittimità.
Deve ritenersi realizzato un mutamento di destinazione d'uso
materiale (e non meramente ‘funzionale’), quando
l'innovazione avviene attraverso l'esecuzione di opere
edilizie ad essa finalizzate. Inoltre, i lavori eseguiti,
riguardano un immobile preesistente non edificato
legittimamente, per il quale pende procedura di condono non
ancora definita, sicché ripetono le caratteristiche di
illegittimità dall'opera alla quale sono intimamente
connessi e costituiscono abusiva prosecuzione della stessa.
Reati edilizi o urbanistici -
Disponibilità del manufatto - Profilo della offensività e
misura cautelare - Valutazione del giudice.
In tema di reati edilizi o urbanistici, spetta al giudice di
merito, con adeguata motivazione, compiere una attenta
valutazione del pericolo derivante da libero uso della cosa
pertinente all'illecito penale.
In particolare, vanno approfonditi la reale compromissione
degli interessi attinenti al territorio ed ogni altro dato
utile a stabilire in che misura il godimento e la
disponibilità attuale della cosa, da parte dell'indagato o
di terzi, possa implicare una effettiva ulteriore lesione
del bene giuridico protetto, ovvero se l'attuale
disponibilità del manufatto costituisca un elemento neutro
sotto il profilo della offensività.
In altri termini, il giudice deve determinare in concreto,
il livello di pericolosità che la utilizzazione della cosa
appare in grado di raggiungere in ordine all'oggetto della
tutela penale, in correlazione al potere processuale di
intervenire con la misura preventiva cautelare (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.02.2011 n. 3885 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Contributi e oneri concessori -
Mutamenti di destinazione d'uso - Necessità.
2. Contributi e oneri concessori - Previsione di distinte
sottocategorie di destinazioni d'uso con diversi importi dei
contributi concessori - Legittimità.
1.
La necessità di corrispondere i contributi concessori anche
per i mutamenti di destinazione d'uso è principio
enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della Legge n. 10
del 1977, al fine di evitare che, quando la nuova tipologia
assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più
oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la
modifica della destinazione il contributo possa essere evaso
in tutto o in parte a vantaggio del richiedente e, di
contro, con l'aggravio urbanistico già valutato in sede di
fissazione di quel regime contributivo.
2.
Deve ritenersi legittima la suddivisione delle categorie di
destinazione d'uso in più sottocategorie o sottofunzioni,
con diversa onerosità dal punto di vista dei contributi di
costruzione, laddove ciò sia giustificato da significative
diversità del carico urbanistico implicato dall'una o
dall'altra di esse, tale da giustificare diverse modulazioni
di calcolo del contributo concessorio (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 26.01.2011 n. 240 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2010 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
Concessione edilizia e licenza di
abitabilità - Destinazione d'uso - Mutamento senza opere
edili - Non occorre - Condizione.
Il cambio di destinazione d'uso di un immobile senza opere
edilizie non costituisce immutazione urbanistica ai sensi
dell'art. 1,1. 28.01.1977 n. 10 ed è, pertanto, soggetto ad
autorizzazione, non già a concessione, ma esclusivamente a
condizione che non implichi situazioni di incompatibilità
con le previsioni funzionali di zona ed il piano regolatore
non diversifichi gli indici di edificazione a seconda delle
destinazioni (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.12.2010 n. 8620 - tratto da
www.diritto24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
VECCHI CONDONI.
È legittimo il provvedimento con il quale, in sede di
rilascio di una concessione in sanatoria in base ai condoni
del 1985 e del 1994 per aver mutato senza opere edilizie da
commercio all'ingrosso a commercio al minuto la destinazione
d'uso di un fabbricato in zona D (destinata ad «attività
produttive»), è stato chiesto il pagamento del
conguaglio degli oneri concessori per il mutamento della
destinazione d'uso (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.12.2010 n. 8620 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005
- Mutamenti di destinazione d'uso - Attività con riflessi di
rilevante impatto urbanistico - Necessità di verificare le
dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette
destinazioni - Sussiste - Associazione culturale con fine
religioso - Applicabilità dell'art. 52, comma 3-bis, L.R. n.
12/2005 - Non sussiste, se il fine religioso è accessorio e
marginale nel contesto degli scopi statutari.
2. Art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005 - Mutamenti di
destinazione d'uso - Rilevanza ai fini urbanistici dell'uso
di fatto dell'immobile - Non sussiste.
1.
L'art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005, per la sua
collocazione e la sua ratio, è palesemente volto al
controllo di mutamenti di destinazione d'uso suscettibili,
per l'afflusso di persone o di utenti, di creare centri di
aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi
come destinazione principale o esclusiva l'esercizio del
culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante
impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle
dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette
destinazioni.
La norma non pare quindi applicabile nel caso in cui
l'immobile venga utilizzato da un'associazione culturale in
cui il fine religioso rivesta carattere di accessorietà e di
marginalità nel contesto degli scopi statutari.
2.
Non rileva di norma ai fini urbanistici l'uso di fatto
dell'immobile in relazione alle molteplici attività umane
che il titolare è libero di esplicare (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.10.2010 n. 7050 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Cambio di destinazione d'uso - Mancanza
di conformità urbanistica.
E' respinto il ricorso per l'accertamento del silenzio
formatosi sull'istanza con la quale è stata chiesta
l'approvazione del cambio di destinazione d'uso di alcune
unità immobiliari.
Sulla base dei chiarimenti forniti dal comune su una
questione simile si ritiene che la mancanza di conformità
urbanistica non può essere superata semplicemente
richiamando la liberalizzazione dei cambi di destinazione
d'uso prevista in via generale dall'art. 51, comma 1, della
l.r. n. 12/2005 (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 22.10.2010 n. 4109 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Impugnazione provvedimento sanzionatorio
- Cambio di destinazione d'uso in difformità dalle
previsioni urbanistiche comunali - Piano attuativo -
Infungibilità delle destinazioni - Legittimità.
In presenza della previsione di un piano attuativo che pone
un limite quantitativo alle varie destinazioni, non si può
affermare la piena fungibilità delle diverse destinazioni e
la conseguente libertà di modificare la destinazione d'uso
degli immobili (anche tra quelle ammesse dal P.R.G. per la
zona in questione), passando così da una destinazione
all'altra, senza una modifica del piano stesso.
Conseguentemente risulta legittimo il provvedimento
impugnato con il quale l'Amministrazione ha sanzionato la
violazione di una disposizione urbanistica di dettaglio,
mentre nessuna rilevanza ha la modalità con cui il cambio di
destinazione viene realizzato, aspetto che attiene al
profilo edilizio (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.10.2010 n. 7032 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
N. D'Angelo,
Modifica di destinazione d'uso: titoli abilitativi e
trattamento sanzionatorio (Ufficio Tecnico n.
9/2010). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento di destinazione d'uso -
Creazione di luoghi di culto o centri sociali - Presupposti
- Usi di fatto - Irrilevanza - Fattispecie.
La volontà di attuare una particolare destinazione d'uso
-nel caso di specie ad "attrezzatura di interesse comune
per servizi religiosi"- deve trovare una corrispondenza
nella natura e nella tipologia di opere realizzate e non può
essere inferita dall'uso di fatto che possa, in precedenza,
essere stato posto in essere, tanto più quando l'istanza di
sanatoria non faccia riferimento alcuno ad una destinazione
di tipo religioso (cfr. TAR, Milano, sent. n. 4665/2009)
-nel caso di specie il TAR ha annullato il diniego di
rigetto di sanatoria del Comune ritenendo che le opere
oggetto della domanda consistessero, principalmente, nel
rifacimento della pavimentazione, nel ripristino degli
intonaci, nel rivestimento dei pilastri con cartongesso,
nella imbiancatura dei locali, nella realizzazione di
impianti igienico-sanitari ed elettrici e non rivelassero,
in alcun modo, la volontà dell'associazione ricorrente di
attuare una destinazione del fabbricato ad "attrezzatura
di interesse comune per servizi religiosi", ai sensi
dell'art. 71, l. Regione Lombardia n. 12/2005 (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenze 23.09.2010 nn. 6415 e
6416 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lombardia, sulla localizzazione dei
luoghi di culto di diversa confessione religiosa e sul
cambio della destinazione d'uso, anche senza opere, per
ricavare un luogo di culto.
In sede di elaborazione degli strumenti urbanistici i
comuni, qualora ricevano richieste di localizzazione di
luoghi di culto, possono legittimamente porsi soltanto il
problema dell’effettiva esigenza di queste infrastrutture in
relazione al numero di soggetti interessati (anche su scala
sovracomunale se per le ridotte distanze o per altri motivi
risulti verosimile che il bacino potenziale è più ampio del
territorio comunale: v. art. 72, comma 3, della LR 12/2005).
Una volta accertata l’esigenza di un luogo di culto la
localizzazione deve essere necessariamente conforme alla
proposta presentata, qualora i promotori del progetto
abbiano la disponibilità degli immobili, in quanto una
diversa soluzione, coinvolgendo diritti di terzi,
equivarrebbe di fatto a un diniego arbitrario.
Un diniego legittimo deve basarsi invece sull’inidoneità del
sito proposto, secondo le normali valutazioni urbanistiche.
In questa fase la convenzione con i promotori del progetto
non è necessaria, almeno in via generale, in quanto
riguarda, come si è visto sopra al punto 14, le concrete
modalità di realizzazione o sistemazione dell’edificio.
Niente impedisce naturalmente che già nel corso della
stesura degli strumenti urbanistici si raggiungano intese
per rimuovere eventuali ostacoli o per creare le condizioni
per l’inserimento del luogo di culto nella programmazione
urbanistica.
E' necessario esaminare le censure che si riferiscono
specificamente al cambio di destinazione d’uso finalizzato
alla realizzazione di un luogo di culto.
Si tratta delle censure contenute nel sesto e nel settimo
motivo di ricorso, che richiedono una valutazione congiunta.
Gli argomenti proposti non sono condivisibili per le ragioni
esposte qui di seguito:
(a)
innanzitutto non sono ravvisabili profili di illegittimità
costituzionale nell’art. 52, comma 3-bis, della LR 12/2005,
che impone l’obbligo del permesso di costruire solo per i
cambi di destinazione d’uso relativi ad alcuni edifici
particolari (luoghi di culto, centri sociali).
La norma vuole evitare che attraverso la liberalizzazione
dei cambi di destinazione d’uso stabilita dall’art. 51 della
LR 12/2005 siano realizzate innovazioni di grande impatto
sul tessuto urbano senza un preventivo esame da parte
dell’amministrazione.
L’obiettivo è ragionevole, e non appare discriminatorio
proprio per l’indubbia rilevanza sociale di questo tipo di
edifici, che rende preferibile il controllo preventivo
all’eventuale remissione in pristino;
(b)
è corretto quanto afferma la ricorrente circa la prevalenza
delle qualificazioni del DPR 380/2001 (disciplina nazionale
omogenea con riflessi penali) quando si tratta di applicare
le misure repressive degli abusi edilizi.
Il fatto che l’art. 52 comma 3-bis della LR 12/2005 richieda
il permesso di costruire anche per i cambi di destinazione
d’uso senza opere non consente di equiparare l’abuso della
ricorrente a quelli disciplinati dagli art. 31 e 33 del DPR
380/2001 (nuova costruzione, variazioni essenziali,
ristrutturazione pesante).
A proposito della ristrutturazione pesante si osserva che in
base all’art. 10, comma 1, lett. c), del DPR 380/2001 può
essere considerato tale solo il cambio di destinazione d’uso
negli immobili compresi nelle zone omogenee A;
(c)
la repressione del cambio di destinazione d’uso operato
dalla ricorrente non deve quindi partire dal dato formale
(necessità del permesso di costruire) ma da quello
sostanziale (si tratta di un intervento senza opere);
(d)
anche con questa precisazione non è però possibile arrivare
alla sanatoria disciplinata dall’art. 53, comma 2, della LR
12/2005. Questa norma stabilisce che il cambio di
destinazione d'uso senza opere si può sanare con il
pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria anche
quando risulti in contrasto con le previsioni urbanistiche
comunali.
Il confronto con l’art. 52, comma 2, della LR 12/2005
chiarisce tuttavia che la sanatoria non è possibile quando
manchi la conformità alla normativa igienico-sanitaria, il
che è in effetti ragionevole se si considera il livello
sovraordinato degli interessi pubblici collegati a
quest’ultima (in particolare l’interesse alla salute e alla
sicurezza collettiva);
(e)
nel caso dei luoghi di culto, come si è visto sopra al punto
14, le questioni igienico-sanitarie sono una parte rilevante
del contenuto della convenzione prevista dall’art. 70, comma
2, della LR 12/2005.
Un cambio di destinazione d’uso senza opere relativo a un
luogo di culto non è quindi sanabile con il meccanismo
ordinario dell’art. 53, comma 2, della LR 12/2005 proprio
perché, mancando la convenzione, manca la regolamentazione
che è considerata indispensabile per l’introduzione di un
uso non solo diverso da quello precedente ma del tutto
particolare e in grado di incidere in modo significativo sul
contesto sociale;
(f)
la convenzione potrebbe essere stipulata anche a posteriori
con effetto sanante, ma appare comunque legittima la
decisione del Comune di bloccare immediatamente gli effetti
del cambio di destinazione d’uso per il tempo necessario a
valutare la situazione e in attesa della presentazione di
una richiesta di permesso di costruire da parte della
ricorrente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.09.2010 n. 3522 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esecuzione del giudicato -
Decorso del termine assegnato - Nomina di un
Commissario.
Il Comune deve eseguire il giudicato della
sentenza che autorizza il cambio di
destinazione d'uso da abitazione a
laboratorio medico e la trasformazione di un
garage interrato in locale commerciale.
La decisione fa sorgere a carico
dell'amministrazione comunale l'obbligo di
adeguare la situazione di fatto degli
immobili a quella di diritto; ne consegue
l'ordine di dar esecuzione al giudicato, con
l'avvertenza che, in caso di inutile decorso
del termine assegnato, si procederà alla
nomina di un commissario ad acta che
adotti, in sostituzione dell'amministrazione
inadempiente, i provvedimenti necessari per
l'ottemperanza al giudicato (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 23.07.2010 n. 4841 -
massima tratta da
www.diritto24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Giudizio di ottemperanza
- Esecuzione delle sentenze recanti
l'autorizzazione al cambio di destinazione
d'uso da abitazione a laboratorio medico e
la concessione in sanatoria per la
trasformazione di un garage interrato in
locale commerciale - Inottemperanza -
Obbligo della P.A. di dare esecuzione al
giudicato - Nomina di un commissario ad acta
in caso di ulteriore inadempimento.
E' fondato e meritevole di accoglimento il
ricorso esperito per l'esecuzione del
giudicato formatosi in merito
all'annullamento della concessione edilizia
recante l'autorizzazione al cambio di
destinazione d'uso da abitazione a
laboratorio medico e della concessione in
sanatoria rilasciata per la trasformazione
di un garage interrato in locale commerciale
ed artigianale, ove, a seguito della
notificazione della sentenza al Comune, sia
stata constatata l'inerzia della P.A. in
ordine all'esecuzione della decisione.
La
sentenza fa sorgere a carico
dell'amministrazione comunale l'obbligo di
adeguare la situazione di fatto degli
immobili a quella di diritto; ne consegue,
in accoglimento della pronuncia, l'ordine di
dar esecuzione al giudicato con l'avvertenza
che in caso di inutile decorso del termine
assegnato si procederà alla nomina di un
commissario ad acta che adotti, in
sostituzione dell'amministrazione
inadempiente i provvedimenti necessari per
l'ottemperanza al giudicato (massima tratta
da www.diritto24.ilsole24ore.com -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.07.2010 n. 4841
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il mutamento della destinazione del
fabbricato da residenziale a terziario, realizzato senza
opere edilizie, non è soggetto a concessione edilizia ma
resta pur sempre subordinato al pagamento dei maggiori oneri
di urbanizzazione.
In ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un
immobile non accompagnata dalla realizzazione di opere, non
sussiste il presupposto per il pagamento della parte di
contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al
dato oggettivo della realizzazione dell'edificio
(ndr:
fattispecie ante L.R. n. 12/2005).
Questo Tribunale (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.02.1999
n. 611) ha escluso che sia soggetto al rilascio della
concessione in sanatoria il cambio di destinazione d’uso in
assenza di opere edilizie (c.d. cambio di destinazione d’uso
funzionale).
E’ infatti noto che, secondo giurisprudenza consolidata, il
mutamento di destinazione d’uso degli immobili non
accompagnato da lavori edili costituisce espressione dello
ius utendi e non dello ius aedificandi ed è
pertanto escluso dall’ambito delle attività soggette a
concessione edilizia (cfr., ex pluribus, CdS V
18/01/1988 n. 8; id., IV 23/11/1985 n. 551; id., 01/10/1993
n. 818; TAR Lombardia I n. 1782/1996, II nn. 66/88,
596/1993, 439/1995, 664/96, 127/1997, 1184/1998, III n.
441/1993).
La fattispecie non si presta quindi ad essere disciplinata
dall’art. 13 della l. n. 47/1985, così come ha disposto il
Comune.
Il mutamento della destinazione del fabbricato da
residenziale a terziario, realizzato senza opere edilizie,
non è quindi soggetto a concessione, ma resta pur sempre
subordinato al pagamento dei maggiori oneri contributivi.
Infatti non esiste un collegamento necessario tra il
rilascio di un titolo concessorio in sanatoria ed il
pagamento degli oneri di urbanizzazione. La giurisprudenza
(TAR Lombardia, Brescia, 10.03.2005, n. 145) ha chiarito che
il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste
nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di
ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle
utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo
modalità eque per la comunità (cfr. TAR Veneto, sez. II –
13/11/2001 n. 3699).
Pertanto, anche nel caso della modificazione della
destinazione d'uso cui si correla un maggior carico
urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica
l’imposizione al titolare del pagamento della differenza tra
gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione
originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova
destinazione impressa: il mutamento è rilevante allorquando
sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto
il profilo della differenza del regime contributivo in
ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la
circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza
opere non sono soggette a preventiva concessione o
autorizzazione sindacale non comporta ipso jure
l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la
gratuità dell’operazione (cfr., in tal senso, TAR Lombardia,
Brescia 23/01/1998 n. 34).
Analogamente l’art. 5 c. 2 della L.R. 60/1977 stabilisce che
le modificazioni delle destinazioni d'uso comportano, per
quanto attiene all'incidenza degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria, un contributo commisurato sia alla
eventuale maggior somma determinata in relazione alla nuova
destinazione rispetto a quella che sarebbe dovuta per la
destinazione precedente.
Tuttavia, a differenza di quanto effettuato dal Comune, non
può applicarsi la quantificazione degli oneri prevista
dall’art. 13 della L. 47/1985, che prevede il raddoppio
degli oneri di urbanizzazione, in quanto il pagamento di
tale contributo prescinde dal rilascio del titolo
abilitativo in sanatoria.
Ne consegue che il provvedimento comunale deve essere
annullato con riferimento alle somme pagate a titolo di
oneri di urbanizzazione in quanto l’amministrazione ha
provveduto alla quantificazione secondo disposizioni non
applicabili al caso di specie e dovrà provvedere ad una
nuova determinazione conformandosi a quanto previsto
dall’art. 5, c. 2, della L.R. 60/1977.
Deve inoltre accogliersi il motivo di ricorso nella parte in
cui contesta il pagamento del contributo di costruzione.
Questa sezione ha infatti stabilito che in ipotesi di
variazione di destinazione d'uso di un immobile non
accompagnata dalla realizzazione di opere, “non sussiste
il presupposto per il pagamento della parte di contributo
afferente al costo di costruzione, da riferire al dato
oggettivo della realizzazione dell'edificio” (TAR
Lombardia, Milano, sez. IV, 04.05.2009 n. 3604; TAR Lazio
Roma, sez. II, 17.05.2005, n. 3844).
Infatti, il contributo relativo al costo di costruzione
(art. 6 L. 28.01.1977 n. 10) è riconducibile all'attività
costruttiva ex se considerata e, correlandosi
direttamente all'uso edificatorio del suolo e ai potenziali
vantaggi economici che ne discendono, è sostanzialmente
configurabile alla stregua dei prelievi di natura
paratributaria ed è dovuto solo in presenza di una
trasformazione edilizia del territorio e in conseguenza
della produzione di ricchezza connessa alla sua
utilizzazione.
Avendo nel caso in questione la ricorrente provveduto,
verosimilmente, al pagamento del costo di costruzione al
momento del rilascio della concessione con destinazione
residenziale si deve escludere la debenza di questa voce
contribuitiva per il cambiamento di destinazione d’uso senza
opere (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.06.2010 n. 1787 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sulla variazione d'uso, senza opere,
della destinazione di un terreno in contrasto con le norme
igienico-sanitarie.
L’eventuale possibilità di qualificare l’uso del terreno
-per cui è causa- come mutamento di destinazione di uso
senza opere non comporta di per sé che la sanzione
pecuniaria prevista dalla legge per tale abuso sia l’unica
applicabile, così come sostenuto dalla difesa della parte
ricorrente.
Tale conseguenza sarebbe esclusa comunque ai sensi della
normativa nazionale, in quanto per gli articoli 31 e 32 del
T.U. 380/2001 un mutamento di destinazione d’uso
comporterebbe pur sempre una variazione essenziale, soggetta
a rimessione in pristino attraverso la cessazione
dell’attività vietata: così per tutte in giurisprudenza sul
principio TAR Liguria, sez. I, 29.10.2008 n. 1862.
Si deve poi, comunque, considerare la disciplina del cambio
di destinazione d’uso senza opere così come risulta dalla
l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12.
All’art. 52 di essa si prevede che i “mutamenti di
destinazione d'uso di immobili non comportanti la
realizzazione di opere edilizie, purché conformi alle
previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa
igienico-sanitaria” si possono lecitamente realizzare
con semplice comunicazione all’ente; all’art. 53 si prevede
poi una sanzione per il mutamento di destinazione senz’opere
illegittimo: ”Qualora il mutamento di destinazione d'uso
senza opere edilizie, ancorché comunicato ai sensi
dell'articolo 52, comma 2, risulti in difformità dalle
vigenti previsioni urbanistiche comunali, si applica la
sanzione amministrativa pecuniaria…”.
Tale sanzione però non è esaustiva, anche a prescindere da
quanto sancito dalla normativa nazionale di cui al §
precedente, perché non prevede il caso, del tutto possibile
e verificatosi nella specie, in cui l’asserito mutamento,
oltre che non conforme alla normativa urbanistica, risulti
in aggiunta contrario anche alle norme igienico sanitarie.
In tale ultimo caso, secondo logica, la sanzione non
potrebbe essere comunque che quella della cessazione
dell’attività e della rimessione in pristino, perché
altrimenti –sempre beninteso prescindendo dalla normativa
nazionale- si ingenererebbe il paradosso per cui qualsiasi
attività vietata per ragioni di igiene e salute pubblica si
potrebbe liberamente proseguire, al solo prezzo di una
sanzione pecuniaria, ove essa configurasse mutamento di uso
senza opere di un qualsiasi immobile, mentre si potrebbe
inibire se posta in essere occasionalmente come uso di
fatto, ovvero in una fattispecie oggettivamente meno grave
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 30.04.2010 n. 1658 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Abuso edilizio - Sanatoria - Mutamenti
di destinazione d'uso senza opere - Art. 32, comma 27, D.L.
n. 269/2001 - Vincolo a carattere relativo - Art. 32 L. n.
47/1985 - Mutamenti di destinazione d'uso meramente
funzionali - Possibilità di sanatoria - Sussiste, previo
riconoscimento di compatibilità con il vincolo da parte
dall'Autorità competente.
Il rinvio operato dall'art. 32, comma 27, D.L. n. 269/2001
all'art. 32 L. n. 47/1985 (che disciplina le ipotesi di
abuso in presenza di vincolo a carattere relativo,
superabili cioè sulla base di un giudizio di compatibilità
con il vincolo) e la preclusione della sanatoria per le
opere abusive realizzate su immobili soggetti a vincolo
monumentale inducono a ritenere che gli interventi abusivi
realizzati senza opere (come i mutamenti di destinazione
d'uso meramente funzionali) sono suscettibili di sanatoria
quante volte siano dalla competente autorità riconosciuti
compatibili con il vincolo gravante sull'immobile (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.04.2010 n. 1213 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nel
caso in cui il mutamento di destinazione d'uso di un
immobile, realizzato attraverso opere interne, abbia
impresso all'immobile stesso un'effettiva nuova e diversa
destinazione rispetto a quella originaria, occorre la
concessione edilizia.
Gli interventi edilizi effettuati all’interno dell’immobile
di cui trattasi (consistenti nella demolizione e
ricostruzione di tramezzi, predisposizione di impianti
idrici, elettrici e di condizionamento e deumidificazione,
nell’esecuzione di opere necessarie alla coibentazione
acustica del locale a piano terra, nella predisposizione
delle opere necessarie per la costruzione di un soppalco per
il collocamento dell’impianto delle luci di scena e di
amplificazione sonora) hanno comportato il mutamento di
destinazione di uso dello stesso senza il previo rilascio
del relativo necessario titolo autorizzatorio e perciò solo
erano da considerarsi legittimamente come opere edilizie
abusive senza concessione edilizia e pertanto passibili di
demolizione.
Secondo consolidata e condivisa giurisprudenza, nel caso in
cui il mutamento di destinazione d'uso di un immobile,
realizzato attraverso opere interne, abbia impresso
all'immobile stesso un'effettiva nuova e diversa
destinazione rispetto a quella originaria, occorre la
concessione edilizia (Consiglio Stato, sez. V, 11.05.2004,
n. 2954 e TAR Campania Napoli, Sez. VI, 17.04.2008, n.
2320).
Nel caso di specie il mutamento di destinazione di uso si è
concretizzato con la realizzazione di opere edilizie interne
per cui, indipendentemente dal rispetto o meno degli
standards urbanistici, era necessario il previo rilascio di
un titolo edilizio e, comunque, non rileva la mancata
attuazione in sede regionale dell’ult. co. dell’art. 25
della L. n. 47/1985, come invece prospettato in ricorso.
Ai sensi dell’ult. co. della richiamata norma, rubricata “Semplificazione
delle procedure”, “Le leggi regionali stabiliscono
quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni
fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a
concessione, e quali mutamenti, connessi e non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti
siano subordinati ad autorizzazione”.
Tuttavia la circostanza che la norma statale di cui all'art.
25, ultimo comma, della L. n. 47/1985, ammetta espressamente
la possibilità che il mutamento di destinazione senza
trasformazioni fisiche dell'immobile possa essere
subordinato non solo ad autorizzazione (o a denuncia di
inizio di attività), ma persino a concessione edilizia,
evidenzia il dovere di attribuire una notevole rilevanza sul
piano urbanistico ai cambiamenti che possono apportarsi alla
utilizzazione degli immobili.
La finalità di tale disciplina, dunque, che deve essere
dettata con legge regionale, può individuarsi nella esigenza
di individuazione delle differenti ipotesi di mutamenti di
destinazione degli immobili, al fine precipuo di stabilire
quali provvedimenti debbano essere richiesti nei singoli
casi; ne consegue che la mancanza di disciplina regionale,
non può dirsi tale da indurre a sostenere che il cambiamento
di destinazione costituisca una attività del tutto "libera"
e priva di vincoli non potendo comportare, una simile lacuna
legislativa, la vanificazione di ogni previsione urbanistica
che disciplini l'uso del territorio nel singolo comune; una
diversa soluzione non solo costituirebbe, in linea di
principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative
di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti
locali in parola, ma comporterebbe anche, in concreto, la
violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il
corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente
inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli
equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica, come
già in precedenza osservato dalla giurisprudenza (Cons. di
Stato, Sez. IV, 29.05.2008, n. 2561).
In senso contrario a quanto dedotto non vale il richiamo
insistente effettuato da parte della difesa della società
ricorrente alle recenti statuizioni della Corte di
Cassazione Penale relativamente ai reati contestati alla
stessa in ordine ai lavori effettuati all’interno dei locali
di cui trattasi; ed infatti è sufficiente rilevare come,
premesso che trattasi di piani distinti, con le citate
decisioni si è confermata la circostanza che nei locali
siano stati effettuate opere interne (che non hanno
comportato modifiche né alla sagoma dell’edificio né ai
prospetti del medesimo né, infine, hanno arrecato
pregiudizio alla statica dell’immobile).
Gli interventi edilizi effettuati all’interno dell’immobile
di cui trattasi (consistenti nella demolizione e
ricostruzione di tramezzi, predisposizione di impianti
idrici, elettrici e di condizionamento e deumidificazione,
nell’esecuzione di opere necessarie alla coibentazione
acustica del locale a piano terra, nella predisposizione
delle opere necessarie per la costruzione di un soppalco per
il collocamento dell’impianto delle luci di scena e di
amplificazione sonora) hanno comportato il mutamento di
destinazione di uso dello stesso (tanto è vero che proprio a
tal fine era stata presentata una istanza di rilascio della
concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell’art. 13
della L. n. 4771985, rigettata dal competente ufficio con il
provvedimento dirigenziale n. 1292/1993, mai impugnato dalla
società ricorrente) senza il previo rilascio del relativo
necessario titolo autorizzatorio e perciò solo erano da
considerarsi legittimamente come opere edilizie abusive
senza concessione edilizia e pertanto passibili di
demolizione
(TAR Lazio-Roma, Sez.
II-ter,
sentenza 26.04.2010 n. 8493 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento di destinazione d'uso - Da
agricolo a residenziale - Illegittimità - Non sussiste -
Fattispecie.
La locazione di una unità abitativa ad un soggetto non
impiegato in attività agricola non può ritenersi idonea a
configurare quel cambio di destinazione d'uso, ancorché
senza opere, che l'art. 53 della legge n. 12 del 2005
intende sanzionare in relazione ad un immobile agricolo
edificato in epoca anteriore all'entrata in vigore della
stessa legge regionale n. 93/1980 (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2010 n. 131 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sul mutamento della destinazione d'uso
senza l'esecuzione di opere edilizie.
Il mutamento abusivo di
destinazione di uso di un immobile senza l’esecuzione di
opere edilizie, realizzato in contrasto con le previsioni
degli strumenti urbanistici normativi o amministrativi
(regolamenti edilizi, atti di concessione, ecc.), deve
comportare una traslazione non precaria dall’una all’altra
delle categorie urbanistiche considerate dalla normativa
vigente (uso residenziale, uso agricolo, uso industriale,
uso commerciale) (in tal senso, ai fini della integrazione
del reato di cui all’art. 17, lett. a), l. n. 10 del 1977,
Cassazione penale, sez. III, 29.02.1984).
Il mutamento di destinazione di uso giuridicamente rilevante
è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di
vista urbanistico (in tal senso, Consiglio di Stato, V,
13.02.1993, n. 245 e Cassazione penale, III sezione,
27.09.2007, n. 35640) e nella specie l’interprete deve
rifarsi alla normativa statale e regionale antecedente alla
legge regionale Piemonte n. 19 del 1999.
Le destinazioni autonome sopra richiamate sono evincibili
(così Consiglio Stato, V, 448 depositata in data 05.02.2007)
dal decreto del Ministro dei lavori pubblici n. 1444 del
1968, dalla legge n. 10 del 1977 e dall’art. 12, comma 2,
punto 4) della l.r. Piemonte n. 56 del 1977 (nel testo
vigente ratione temporis al momento di presentazione
della domanda di condono)
Il mutamento di destinazione di uso viene per esempio
escluso nel caso di mutamento del tipo di attività
industriale (Consiglio Stato, V, 21.12.1992, n. 1547).
Nel caso di mutamento abusivo senza opere edilizie della
destinazione di un immobile, il rilascio della concessione
in sanatoria è ammesso solo quando, sulla base di elementi
obiettivi, sia possibile verificare in concreto l’uso
diverso da quello assentito (in tal senso, Consiglio Stato,
IV, 09.09.2009, n. 5416)
(Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 13.01.2010 n. 45 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2009 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
Sull'esecuzione di opere edilizie
finalizzate a mutare la destinazione d'uso di un laboratorio
artigianale a centro sociale nonché ad attività di culto.
In seguito a sopralluogo il Comune ha contestato: la
formazione di una nuova parete a tutta altezza in
cartongesso, lunga 3,60 metri, che divide il locale
principale dai servizi igienici; il posizionamento
all’esterno del fabbricato, sul fronte che prospetta sulla
pubblica via, di due unità esterne di climatizzazione ad
un’altezza di m. 2,75; il cambiamento d’uso dell’immobile,
destinato a centro sociale nonché ad attività di culto, che
si svolgono ogni settimana il venerdì.
Ritenuto che le opere abusive configurino un intervento di
manutenzione straordinaria, che l’installazione delle unità
esterne di condizionamento non sia regolamentare (dovendo le
medesime essere sistemate sulla copertura), e che il cambio
di destinazione d’uso richieda il rilascio del permesso di
costruire (ex art. 52, comma 3-bis, legge regionale n. 12
del 2005), il Comune, con ordinanza 26.08.2009 n. 109,
preceduta da avviso di avvio del procedimento cui
l’Associazione ha dato seguito con proprie osservazioni, ha
ingiunto la demolizione delle opere abusive e il ripristino
della destinazione d’uso artigianale antecedente l’attuale
destinazione a luogo di culto, con preavviso di acquisizione
dell’immobile in caso di inottemperanza.
Il ricorso, cui resiste il Comune, è
fondato.
Va esaminata in
via prioritaria, per ragioni logiche, la questione se il
cambio di destinazione d’uso richiedesse o meno, nel caso de
quo, il permesso di costruire.
L’art. 52, comma 3-bis, della legge regionale 11.03.2005 n.
12 (legge sul governo del territorio) stabilisce che “I
mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non
comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati
alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a
centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire”.
Il comma 3-bis è stato introdotto dalla legge regionale
14.07.2006 n. 12 (art. 1, comma 1, lett. m), e non è
applicabile prima della sua entrata in vigore.
Nel caso in esame, sebbene non vi sia prova della data in
cui sono state eseguite le opere contestate dal Comune, e
sebbene solo il contratto di locazione stipulato in data
14.04.2008 (e non anche quello antecedente, stipulato
nell’ottobre 2005) preveda la destinazione dell’immobile a “circolo
ricreativo”, è verosimile che tale destinazione risalga
a data anteriore all’introduzione della norma, come si
desume dalla nota del 29.10.2005 con la quale il Comune,
nell’interloquire con il ricorrente, che aveva formulato una
richiesta di utilizzo del campo sportivo, indirizzava la
propria risposta al Centro, nella sede di piazza Dante 7.
Ne consegue che la norma de qua non è applicabile al
caso in esame.
Gli abusi edilizi commessi dal ricorrente (realizzazione di
un tramezzo e posizionamento irregolare delle unità esterne
di condizionamento), in quanto finalizzati al mutamento di
destinazione d’uso, vanno riguardati e valutati dunque sotto
un’altra prospettiva, tenendo conto:
(a) che la disciplina regionale in materia distingue il
regime dei mutamenti di destinazione d’uso secondo che siano
conformi o non conformi alle previsioni urbanistiche (cfr.
artt. 52 e 53 legge regionale n. 12 del 2005);
(b) che lo stesso Comune ha qualificato le opere abusive
come opere di manutenzione straordinaria;
(c) che le opere di manutenzione straordinaria richiedono
una semplice d.i.a., la cui mancanza non può dar luogo
all’acquisizione dell’immobile (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 28.12.2009 n. 6226 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il mutamento di destinazione è
consentito in entrambe le fattispecie normative del
restauro-risanamento conservativo e della ristrutturazione:
nella prima ipotesi soffre pur sempre la limitazione della
compatibilità con gli elementi tipologici, formali e
strutturali del fabbricato.
La Sezione ritiene che, conformemente al parere del
responsabile del settore edilizia privata del comune di
Genova (doc. 9 delle produzioni 05.11.2009 di parte
resistente), a seguito della presentazione della D.I.A. in
variante in data 01.06.2007, l’intervento proposto debba
qualificarsi come ristrutturazione, comportando il cambio di
destinazione d’uso di gran parte dell’immobile
(segnatamente, i piani dal terzo al settimo) mediante la
realizzazione e l’inserimento di nuovi elementi edilizi,
anche esterni (tra i quali le scale esterne di sicurezza in
ferro sul retro ed il nuovo accesso per la scuola al terzo
piano), che alterano l'originaria fisionomia e consistenza
fisica dell'immobile.
Tali trasformazioni appaiono senz’altro incompatibili con il
concetto di restauro e risanamento conservativo, che
presuppone invece, ex art. 3, comma 1, lett. c), del D.P.R.
n. 380/2001, il rispetto degli elementi tipologici, formali
e strutturali dell’organismo edilizio, mediante la
realizzazione di opere che ne lascino inalterata la
struttura.
Né rileva che, secondo una consolidata giurisprudenza (per
la quale cfr., da ultimo, TAR Puglia, II, 01.03.2004, n.
910), la modifica della preesistente destinazione d’uso non
sia astrattamente incompatibile con il concetto di
risanamento conservativo.
Difatti, come correttamente evidenziato dalla difesa del
comune, il mutamento di destinazione, che in linea di
principio è consentito in entrambe le fattispecie normative
del restauro-risanamento conservativo e della
ristrutturazione, nella prima ipotesi soffre pur sempre la
limitazione, imposta direttamente dalla norma, della
compatibilità con gli elementi tipologici, formali e
strutturali del fabbricato (Cons. di St., V, 06.07.2002, n.
3728).
E poiché l'intervento in questione non era diretto -come
vuole la definizione dettata dalla norma e lo stesso
significato proprio dei termini "recupero" e "risanamento"-
a conservare l'organismo edilizio, ma aveva lo scopo di
trasformare l'immobile al solo fine di adattarlo alla
progettata diversa destinazione d'uso (ancorché
compatibile), non può residuare alcun dubbio circa la
qualificazione dello stesso nell’ambito della
ristrutturazione edilizia, con conseguente assoggettamento a
contributo di costruzione
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 09.12.2009 n. 3565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO.
Ristrutturazione – Presupposti -
Mutamento di destinazione d'uso di un immobile - Deve essere
autorizzato mediante rilascio del permesso di costruire -
Fattispecie.
Gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo
della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica
di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti
e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si
configurano né come manutenzione straordinaria, né come
restauro o risanamento conservativo, ma rientrano
nell'ambito della ristrutturazione edilizia prevista
dall'art. 31, lett. d), legge n. 457 del 1978, (Cons. St.,
sez. V, 17.12.1996, n. 1551) e, quindi, ove vi sia
sostanziale modifica della destinazione preesistente,
concretano il mutamento di destinazione d’uso.
Da ciò consegue che il mutamento di destinazione d'uso di un
immobile deve essere autorizzato mediante rilascio del
permesso di costruire, qualora sia effettuato mediante
opere, o qualora comporti un mutamento tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, in tali
casi integrando una modificazione edilizia che incide sul
carico urbanistico (v. TAR Campania-NA - Sez. III,
18/09/2008 n. 10351; TAR Puglia-BA - Sez. I, 10/06/2008 n.
1415; TAR Sicilia-CT - Sez. I, 04/01/2008 n. 55, TAR
Piemonte Sez. I, 28/03/2006 n. 1560).
Con riferimento al cambio di destinazione d'uso, la
giurisprudenza ha escluso la necessità di permesso a
costruire solo allorquando un organismo edilizio assicura la
fisionomia e conservazione della destinazione d'uso, della
collocazione e delle caratteristiche fisiche identificative
dell'originario manufatto (Cons. Stato, V, 08.08.2003 n.
4593).
Nel caso di specie gli interventi previsti comportavano una
trasformazione della realtà strutturale, oltre che della
fruibilità edilizia dell’immobile, dato che da un unico
locale si ricava un piccolo appartamento dotato di tutti i
comforts, dando luogo ad un organismo ben diverso da quello
preesistente (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 15.10.2009 n. 2302 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Mutamento di destinazione d'uso -
Creazione di luoghi di culto o centri sociali - Presupposti
- Destinazione permanente a diversa funzione.
2. Mutamento di destinazione d'uso - Creazione di luoghi di
culto o centri sociali - Presupposti - Usi di fatto -
Irrilevanza.
3. Utilizzo della propria residenza per riunioni di adepti,
a scopo religioso, culturale, associativo - Illecito
edilizio ex art. 31 D.P.R. n. 380/2001 - Inconfigurabilità.
4. Utilizzo della propria residenza per riunioni di adepti,
a scopo religioso, culturale, associativo - Immissione di
rumori eccedenti i limiti imposti dalla legge e dalla
convivenza civile - Giurisdizione G.O.
1.
Il mutamento di destinazione rilevante ai fini della
creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri
sociali è quello che altera, sia pure senza opere, la
funzione originaria dell'immobile, al fine di adibirlo, in
via permanente, ad una funzione diversa. In tal caso
l'immobile perde la destinazione originariamente assentita
per assumere la funzione diversa che gli viene assegnata.
2.
Altra cosa è l'uso di fatto dell'immobile in relazione alle
molteplici attività umane che il titolare è libero di
esplicare: la destinazione d'uso impressa a determinati
locali dal titolo autorizzativo non riguarda, infatti, le
attività umane che vi si svolgono, ossia i c.d. usi di fatto
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 949/2000; n. 77/1997).
3.
L'utilizzo della propria residenza per riunioni di adepti, a
scopo religioso, culturale, associativo in genere, non è di
per sé sufficiente a configurare un illecito edilizio
suscettibile di essere sanzionato ai sensi dell'art. 31
D.P.R. n. 380/2001 (t.u. edilizia); né lo è lo svolgimento
saltuario di pratiche di culto in un luogo strutturato e
destinato ad abitazione.
4.
In caso di disturbo derivante da pratiche di culto ovvero in
caso di intollerabile immissione di rumori eccedenti i
limiti imposti dalla legge e dalla convivenza civile,
sussiste in capo al soggetto disturbato la facoltà di adire
il giudice ordinario qualora, in relazione all'afflusso di
persone e al disturbo cagionato in occasione delle suddette
cerimonie religiose, si registrino immissioni moleste che
eccedono la normale tollerabilità (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.09.2009 n. 4665 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Vanno ricondotte al comune, e non alla
regione, le scelte urbanistiche, in esito alle quali i
mutamenti di destinazione d'uso possono essere soggetti a
concessione. E' legittimo quindi, il provvedimento con cui
un comune ha stabilito l'obbligo di pagare il contributo per
oneri di urbanizzazione, in corrispondenza del cambio di
destinazione d'uso di un immobile (da abitazione ad
ufficio), effettuato senza opere edilizie.
La questione sottoposta all’esame del Collegio riguarda la
valenza –sul piano urbanistico– del mutamento di
destinazione d’uso di unità o complessi immobiliari, senza
effettuazione di opere edilizie e della possibilità, o meno,
di ritenere dovuti per interventi del tipo indicato i
contributi per oneri di urbanizzazione, anche quando la
normativa regionale non richieda per gli interventi stessi
il titolo abilitativo, una volta denominato “concessione
edilizia” e –nel nuovo testo unico– “permesso di
costruire”.
Sia nella precedente che nell’attuale normativa in effetti
(articoli 3, 5, 6 della legge 28.01.1977, n. 10 e 16 del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380) alle nuove edificazioni e ad
altri interventi, comunque soggetti ai titoli abilitativi
sopra specificati, corrisponde il pagamento di un
contributo, commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione, nonché al costo di costruzione.
La natura giuridica del predetto contributo è quella di
prestazione patrimoniale imposta, anche indipendentemente
dall’utilità specifica del singolo concessionario, comunque
tenuto a concorrere alla spesa pubblica per le
infrastrutture –strade, fognature, illuminazione, parcheggi,
ma anche scuole, uffici, centri commerciali ecc.– che
debbono accompagnare ogni nuovo insediamento edificatorio
(cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez. V,
06.05.1997, n. 462. 16.04.1986, n. 225 e 06.10.1986, n.
504). E’ anche evidente che la destinazione d’uso degli
immobili condiziona le esigenze infrastrutturali, da tempo
individuate dalla normativa sotto forma di standards
urbanistici, in base al D.M. 02.04.1968, n. 1444 e all’art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, nel testo
introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765. In
connessione con i principi generali, sopra sommariamente
enunciati, è stato a lungo dibattuto in giurisprudenza il
problema dei mutamenti di destinazione d’uso degli immobili,
effettuabili senza opere edilizie, essendo evidente –pur in
assenza di una materiale trasformazione del territorio– la
non irrilevanza dei mutamenti in questione sul piano
urbanistico (tenuto conto in particolare delle differenti
dotazioni di standards, riconducibili alle varie tipologie
d’uso degli immobili stessi, anche inseriti nella medesima
zona territoriale omogenea: cfr. al riguardo Cons. St., sez.
IV, 29.05.2008, n. 2561).
L’art. 25, u.c., della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso
nell’art. 10, comma 2, del T.U., approvato con D.P.R. n.
380/2001 cit.) ha rinviato la soluzione della complessa
tematica in ambito locale, disponendo che siano le leggi
regionali a stabilire “quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di
loro parti” dovessero essere subordinati a concessione
(oggi permesso di costruire) e quali a mera autorizzazione
(potendosi identificare con tale terminologia –non del tutto
propria, data la natura comunque autorizzatoria dei titoli
abilitativi in questione: cfr. al riguardo, per il
principio, Corte Cost. 21.04.1983, n. 127– i mutamenti di
destinazione d’uso di minore impatto sul territorio,
assimilabili agli interventi edilizi, di norma non soggetti
ad oneri).
In rapporto alle diverse normative, conseguentemente emanate
dalle Regioni, alcune linee di indirizzo sono state espresse
dalla Corte Costituzionale, che –con sentenze nn. 73 in data
11.02.1991 (riferita all’art. 76, comma 1 della legge della
Regione Veneto 27.06.1985, n. 61) e 259 del 23.07.1997,
riferita all’art. 2, comma 1, della legge della Regione
Emilia Romagna 08.11.1988, n. 46)– ha indicato i seguenti
principi:
a)
riconducibilità al Comune, e non alla Regione, delle scelte
urbanistiche, in esito alle quali i mutamenti di
destinazione d’uso possono essere soggetti a concessione;
b)
riconoscimento per la Regione, in forza della competenza
concorrente che le è propria, del compito di stabilire
criteri e modalità, cui i Comuni debbono attenersi in sede
di predisposizione degli strumenti urbanistici;
c)
non assoggettabilità con legge regionale dei mutamenti di
destinazione d’uso senza opere a concessione, anziché a
semplice autorizzazione, per l’intero territorio comunale.
Nella situazione in esame, si tratta di stabilire i corretti
parametri applicativi della legge della Regione Lombardia
15.01.2001, n. 1, che all’art. 2, comma 2 dispone quanto
segue: “I mutamenti di destinazione d’uso di immobili,
conformi alle previsioni urbanistiche comunali e non
comportanti la realizzazione di opere edilizie, sono
soggetti esclusivamente a preventiva comunicazione
dell’interessato al Comune, ad esclusione di quelli
riguardanti unità immobiliari o parti di esse, la cui
superficie lorda di pavimento non sia superiore a 150 metri
quadrati, per i quali la comunicazione non è richiesta”.
Il precedente art. 1 della medesima legge regionale prevede,
altresì, che i Comuni indichino nello strumento urbanistico
le destinazioni d’uso non ammissibili nelle diverse aree
omogenee e definiscano nello strumento urbanistico le
necessarie variazioni del fabbisogno di standards,
relativamente ai mutamenti d’uso ammissibili attuati con
opere edilizie, ovvero anche non comportanti la
realizzazione di tali opere, se riferiti ad uso commerciale
“non costituente esercizio di vicinato”.
Una interpretazione costituzionalmente orientata della
citata legge –tenuto conto dei principi in precedenza
esposti– non può comunque escludere un autonomo
apprezzamento comunale, in merito all’impatto urbanistico di
qualsiasi mutamento di destinazione d’uso ed implica dunque,
ad avviso del Collegio, che i mutamenti in questione –anche
ove effettuabili senza opere e compatibili con la
destinazione di zona, per immobili di non minimale
consistenza (oltre 150 mq)– non siano soggetti a specifico
assenso comunale e non possano essere inibiti a chi vi abbia
interesse: quanto sopra, tuttavia, non senza che sia
possibile integrare la riscossione dei contributi,
corrispondenti agli oneri di urbanizzazione, da parte dei
Comuni interessati, cui competono la valutazione e
l’eventuale integrazione degli standards urbanistici
presenti sul territorio, ove gli assetti originari finiscano
per subire variazioni di rilievo (come nel caso in cui una
zona a prevalente vocazione abitativa finisca per
trasformarsi –fenomeno non raro in aree centrali dei nuclei
urbani– in zona ad uso prioritario di tipo direzionale, con
esigenze diverse, ad esempio, in tema di parcheggi ed altri
servizi connessi).
Se è vero, infatti, che la Regione non potrebbe imporre ai
Comuni la sottoposizione dei mutamenti di destinazione d’uso
al medesimo titolo abilitativo, previsto per le nuove
costruzioni (Corte Cost. nn. 73/1991 e 259/1997 cit.), è
anche vero che la Regione stessa non avrebbe titolo per
precludere alle Amministrazioni comunali –preposte
all’individuazione delle destinazioni, compatibili con le
singole aree omogenee, nonché alla relativa disciplina–
l’acquisizione dei contributi per oneri di urbanizzazione,
nella misura per legge dovuta (a norma, per quanto qui
interessa, dell’art. 4 della legge regionale 05.12.1977, n.
60).
Nella situazione in esame, pertanto, legittimamente il
Comune appellato ha richiesto l’integrazione del contributo,
ovvero la differenza fra l’ammontare dovuto per oneri di
urbanizzazione, corrispondenti all’uso ufficio, e la minor
somma già in precedenza corrisposta per l’uso abitativo:
quanto sopra, non quale nuova autorizzazione a titolo
oneroso, ma quale mera commutazione, ammissibile ex lege,
della tipologia di riferimento dell’autorizzazione
originaria (cfr. anche al riguardo, per il principio, art.
19, comma 3, del D.Lgs. 06.06.2001, n. 378, nonché –per un
caso solo parzialmente diverso– Cons. St., sez. IV,
14.04.2006, n. 2163).
Una diversa linea interpretativa potrebbe comportare una
generalizzata elusione dell’ammontare del contributo di cui
trattasi da parte di costruttori ed altri operatori
economici, interessati a versare il contributo stesso nella
misura minore, potendo poi usufruire di un gratuito
mutamento di destinazione d’uso, il cui maggior carico
infrastrutturale determinerebbe un onere, gravante in via
esclusiva sulla finanza pubblica.
Non appare contrastante con la logica delle conclusioni, in
precedenza raggiunte, la diversa regolamentazione dei
mutamenti di destinazione d’uso, che riguardino singole
unità immobiliari di superficie inferiore a 150 mq.: una
liberalizzazione circoscritta a queste ultime appare,
infatti, giustificata sia dall’indifferenza, sul piano
urbanistico, di nuovi insediamenti direzionali di così
modesta entità (in corrispondenza, per lo più, a studi
professionali con limitato numero di addetti), sia da una
certa “intercambiabilità” di destinazione, che è
sembrato opportuno riservare a dette articolazioni
immobiliari minori, più facilmente integrabili nel
territorio (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 25.08.2009 n. 5059 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della
L.R. n. 12/2005:
3^ lezione - Cambi di destinazione d'uso
(Geometra Orobico n. 6/2009). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Fattispecie in materia di
ristrutturazione - Opere interne.
Le opere interne e gli interventi di ristrutturazione
edilizia, come pure quelli di manutenzione ordinaria o
straordinaria, ogniqualvolta comportino mutamento di
destinazione d'uso tra categorie d'interventi funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano
essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui
comportino mutamento di destinazione d'uso all'interno di
una categoria omogenea, come ad esempio quella industriale o
residenziale, richiedono il permesso di costruire.
Gli stessi interventi di ristrutturazione o manutenzione,
comportanti modificazioni della destinazione d'uso
nell'ambito di categorie omogenee, qualora siano realizzati
fuori del centro storico richiedono solo la denuncia di
inizio attività.
Inoltre, la c.d. lottizzazione cd. materiale non presuppone
necessariamente il compimento di opere su un suolo
inedificato, ma può verificarsi anche attraverso la
modificazione della destinazione d'uso di un edificio già
esistente (Cass. sez. III, sentenza n. 6990 del 2006)
(massima tratta da www.studiospallino.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.05.2009 n. 20149). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mutamento d’uso di cui è causa è avvenuto
senza esecuzione di alcuna opera edilizia e, all’epoca dei
fatti, non era ancora stata promulgata per la Regione
Lombardia, la legge cui l’art. 25, u. co., L. 28.02.1985 n.
47 rinvia, al fine di stabilire quali mutamenti siano da
subordinare a concessione e quali ad autorizzazione.
Ciò premesso, dopo le sentenze della Corte Costituzionale
11/02/1991 n. 73 e 31.12.1993 n. 498, è pacifico in
giurisprudenza che -avendo l'art. 25 citato stabilito che il
mutamento di destinazione d'uso, realizzato senza opere
edilizie, va sottoposto, nei casi, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge regionale, a semplice autorizzazione e
non a concessione edilizia- in mancanza di apposita legge
regionale, vale il principio che il mutamento di
destinazione d'uso funzionale dei singoli edifici è, in
linea generale, libero.
La giurisprudenza amministrativa si mostra, pertanto,
incline a ritenere sottratti al potere di pianificazione
urbanistica, i mutamenti di destinazione d'uso meramente
funzionali, in quanto manifestazioni del diritto di
proprietà e di impresa.
Conseguentemente, per il cambiamento di destinazione
riconducibile a quello contestato all’odierna ricorrente,
non può che essere registrata la presa di posizione,
applicabile ratione temporis ai fatti per cui è causa,
secondo cui lo stesso non è assoggettabile né a concessione
e, neppure, ad autorizzazione edilizia.
---------------
Va chiarito come, se da un lato, la circostanza che
le modifiche di destinazione d'uso senza opere non siano
soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale
non comporti, ipso jure, l'esenzione dagli oneri di
urbanizzazione e quindi la gratuità dell'operazione,
dall’altro, affinché il mutamento di destinazione possa
giustificare l’imposizione dei ridetti oneri, sia necessario
accertare se il mutamento in questione realizzi o meno un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo
della differenza del regime contributivo in ragione di
diversi carichi urbanistici.
Ne deriva, quindi, che, in ipotesi di variazione di
destinazione d'uso di un immobile non accompagnata dalla
realizzazione di opere, “mentre non sussiste il presupposto
per il pagamento della parte di contributo afferente al
costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della
realizzazione dell'edificio; per la parte, invece, che
attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il
presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo
all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla
nuova destinazione d'uso del manufatto. Deve, per contro,
ritenersi che tali oneri non siano dovuti ove non sia
riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico
urbanistico”.
Rileva il Collegio che:
a) in punto di fatto, risulta incontroverso tra le parti che
il mutamento d’uso di cui è causa, sia avvenuto senza
esecuzione di alcuna opera edilizia;
b) in punto di diritto, all’epoca dei fatti non era ancora
stata promulgata per la Regione Lombardia, la legge cui
l’art. 25, u. co., L. 28.02.1985 n. 47 rinvia, al fine
di stabilire quali mutamenti siano da subordinare a
concessione e quali ad autorizzazione;
c) sempre in punto di diritto, dopo le sentenze della Corte
Costituzionale 11/02/1991 n. 73 e 31.12.1993 n. 498, è
pacifico in giurisprudenza che -avendo l'art. 25 citato
stabilito che il mutamento di destinazione d'uso, realizzato
senza opere edilizie, va sottoposto, nei casi, nei modi e
nei limiti stabiliti dalla legge regionale, a semplice
autorizzazione e non a concessione edilizia- in mancanza di
apposita legge regionale, vale il principio che il mutamento
di destinazione d'uso funzionale dei singoli edifici è, in
linea generale, libero.
La giurisprudenza amministrativa si mostra, pertanto,
incline a ritenere sottratti al potere di pianificazione
urbanistica, i mutamenti di destinazione d'uso meramente
funzionali, in quanto manifestazioni del diritto di
proprietà e di impresa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.07.1982, n. 525; id. 13.06.1987, n. 365; sez. V 18.01.1988
n. 8).
Conseguentemente, per il cambiamento di destinazione
riconducibile a quello contestato all’odierna ricorrente,
non può che essere registrata la presa di posizione,
applicabile ratione temporis ai fatti per cui è causa,
secondo cui lo stesso non è assoggettabile né a concessione
e, neppure, ad autorizzazione edilizia (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 23.11.1985, n. 551; id., 16.05.1986, n.
341; id., 01.10.1993, n. 818; nonché, di recente, TAR
Veneto, Sez. II, 13.11.2001, n. 3699; TAR Lazio, sez. II, 03.03.2008 n.1973).
---------------
Quanto ai
pretesi oneri di urbanizzazione, il Collegio osserva quanto
segue.
Nel caso di modificazione della destinazione d'uso senza
opere edilizie, cui sia ascrivibile un maggior carico
urbanistico, sarebbe senz’altro integrato il presupposto che
giustifica l'imposizione, al titolare del bene, del
pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione
dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più
elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa. E,
tuttavia, rileva il Collegio come occorra, da parte
pubblica, fornire un adeguato riscontro di tale maggior
carico urbanistico ascrivibile alla nuova destinazione.
In altri termini, riepilogando sul punto, va chiarito come,
se da un lato, la circostanza che le modifiche di
destinazione d'uso senza opere non siano soggette a
preventiva concessione o autorizzazione sindacale non
comporti, ipso jure, l'esenzione dagli oneri di
urbanizzazione e quindi la gratuità dell'operazione,
dall’altro, affinché il mutamento di destinazione possa
giustificare l’imposizione dei ridetti oneri, sia necessario
accertare se il mutamento in questione realizzi o meno un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo
della differenza del regime contributivo in ragione di
diversi carichi urbanistici (cfr., in tal senso, TAR
Lombardia Brescia, 07.11.2005 , n. 1115).
Ne deriva, quindi, che, in ipotesi di variazione di
destinazione d'uso di un immobile non accompagnata dalla
realizzazione di opere, “mentre non sussiste il presupposto
per il pagamento della parte di contributo afferente al
costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della
realizzazione dell'edificio; per la parte, invece, che
attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il
presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo
all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla
nuova destinazione d'uso del manufatto. Deve, per contro,
ritenersi che tali oneri non siano dovuti ove non sia
riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico
urbanistico” (così TAR Lazio Roma, sez. II, 17.05.2005 ,
n. 3844)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 04.05.2009 n. 3604 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quesito 8 -
In merito al concetto di ultimazione delle opere abusive ai
fini dell'applicabilità della normativa in materia di
condono edilizio, con specifico riguardo alla fattispecie
del mutamento di destinazione d'uso (Geometra
Orobico n. 4/2009). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Verbale di sopralluogo - Natura
provvedimentale - Non sussiste - Inammissibilità.
2. Accertamento illegittimità del mutamento destinazione
d'uso - Diritto soggettivo - Non sussiste - Inammissibilità.
1.
E' inammissibile il ricorso avverso il verbale con cui il
Comune si è limitato a comunicare le risultanze di un
sopralluogo in quanto, non contenendo alcuna determinazione,
tale atto non ha natura provvedimentale.
2.
L'azione di accertamento dell'illegittimità del mutamento di
destinazione d'uso è inammissibile in quanto nel processo
amministrativo l'azione di accertamento può trovare spazio
in sede di giurisdizione esclusiva solo quando da parte
dell'istante viene fatta valere una posizione di diritto
soggettivo, non sussistente nel caso di domanda volta a
conseguire un provvedimento sanzionatorio rispetto al quale
il ricorrente non vanta una posizione di diritto soggettivo
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 24.04.2009 n. 3585). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E' legittimo l'operato del comune che,
in presenza di una diversità di destinazione d'uso
dell'immobile, determina la liquidazione dei contributi
urbanistici in base ai parametri previsti per la categoria
di destinazione prevalente.
Risulta che l’unità immobiliare, prima destinata a negozio
(attività commerciale), è stata frazionata e trasformata
internamente (con opere) al fine di adibirla in parte ad
uffici ed in parte ad ambulatorio veterinario.
Ciò posto l’intervento di cui si tratta si configura come
modifica della destinazione d’uso con opere.
In tal caso l'esistenza di un’attività edilizia finalizzata
alla modificazione dell’edificio comporta uno iatus
con la precedente situazione consentendo l'imposizione di
contributi ( si veda C. St. V 1208 del 30.10.1997; V Sez.
06.06.1996 n. 666, che affermano essere è legittimo
l'operato del Comune che, in presenza di una diversità di
destinazione d'uso dell'immobile, determina la liquidazione
in base ai parametri previsti per la categoria di
destinazione prevalente; TAR Brescia, n. 251/23.04.2001 che
afferma la rilevanza ai fini della determinazione dei
contributi urbanistici, della destinazione d’uso degli
immobili, in quanto gli oneri sottesi all' intervento
edilizio sono giustificati dai costi e dai vantaggi
reciproci che derivano alla collettività e al concessionario
dalla trasformazione del territorio).
In giurisprudenza è stato poi ripetutamente affermato che il
mutamento della destinazione d'uso necessita di concessione
edilizia e comporta l'obbligo di corrispondere al comune il
contributo nella misura rapportata alla nuova destinazione.
Inoltre la legislazione nazionale e regionale in materia di
contributi lasciano alla Regione ampi margini di
discrezionalità nell’individuazione dei presupposti degli
oneri di urbanizzazione e non prevedono l’esenzione degli
interventi edilizi di trasformazione di volumi preesistenti
( Si veda C. St. IV, n. 2163/2006).
Occorre ricordare che la nozione del contributo per oneri di
urbanizzazione, in giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato,
V Sez., 23.05.1997 n. 529) è definita come "un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae,
cosicché l'uso dà la giustificazione giuridica dell'an
debeatur, mentre le modalità dell'uso danno la ragione del
quantum".
La causa giuridica della debenza del contributo va ricercata
quindi anche nell'utilità che la nuova costruzione trae
dalle opere di urbanizzazione già esistenti (sent. TAR BZ n.
59/2000).
Quindi, anche con riferimento a quanto elaborato in
giurisprudenza (cfr. CS, Sez. V, 23.05.1997 n. 529) i
contributi di urbanizzazione non sono strettamente riferiti
all’impatto del singolo intervento, essendo rimessa
all’autorità preposta l’individuazione della tipologia degli
interventi edilizi da assoggettare al contributo in
relazione all’insieme dei benefici connessi
all’urbanizzazione complessiva, ivi compresa quella
preesistente, relativa all’intera zona (TAR Emilia-Romagna,
Sez. II,
sentenza 06.04.2009 n. 395 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire. Conformità al vigente P.R.G..
E’ chiesto parere in merito ai possibili
rimedi esperibili da un Comune che abbia
rilasciato un permesso di costruire sulla
base di un erroneo presupposto, consistente
in un elaborato progettuale risultato non
conforme al vigente P.R.G.
(Regione Piemonte,
parere 44/2009 -
tratto da www.regione.piemonte.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento di destinazione di uso di un
immobile attuato attraverso la realizzazione di opere
edilizie - Permesso di costruire - Art. 3, 1° c., lett. d),
T.U. n. 380/2001.
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie,
qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del
fabbricato e durante la sua esistenza, si configura in ogni
caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia (art. 3, 1°
comma, lett. d), del T.U. n. 380/2001), in quanto
l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta
pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del
contributo di costruzione dovuto per la diversa
destinazione.
Destinazione di un immobile - Concetto
di uso urbanistico.
La destinazione di un immobile non si identifica con l'uso
che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con
quella impressa dal titolo abilitativo assentito.
Ciò significa che "il concetto di uso urbanisticamente
rilevante è ancorato alla tipologia strutturale
dell'immobile, quale individuata nell'atto di concessione,
senza che esso possa essere influenzato da utilizzazioni
difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o
pianificatori" (TAR Lombardia-Milano, Sez. 1,
07.05.1992, n. 219; C.d.S. Sez. V, 09.02.2001, n. 583).
Cambio della destinazione d'uso di un
fabbricato - Strumento urbanistico - Alterazione di
equilibri prefigurati - Insanabilità.
La richiesta di cambio della destinazione d'uso di un
fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle
modificazioni astrattamente possibili in una determinata
zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto
difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto
con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si
tratta non di una mera modificazione formale destinata a
muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal
piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere
significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal
piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri
prefigurati in quella sede. (Consiglio di Stato Sez. V,
03.01.1998, n. 24) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2009 n. 9894 - link a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
PRG - Destinazione d'uso urbanistico -
Atto di destinazione specifica - Controllo della
destinazione d'uso degli immobili - Modalità - D.M. n.
1444/1968.
Lo strumento urbanistico rappresenta l'atto di destinazione
generica ed esso trova attuazione nelle prescrizioni imposte
dal titolo che abilita a costruire, quale atto di
destinazione specifica che vincola il titolare ed i suoi
aventi causa. Possono conseguentemente distinguersi: una
destinazione d'uso urbanistico, riferita alle categorie
specificate dalla legge e dal D.M. n. 1444/1968; una
destinazione d'uso edilizio, che attiene al singolo edificio
ed alle sue capacità funzionali.
Duplice è, dunque, l'esigenza correlata al controllo della
destinazione d'uso degli immobili: da un lato quella di
assicurare tutela alla zonizzazione funzionale, dall'altro
quella di consentire l'applicazione della normativa sugli
standards, regolatrice della differenziazione
infrastrutturale del territorio. Il mutamento di
destinazione d'uso giuridicamente rilevante è solo quello
tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico, tenuto conto che nell'ambito delle stesse
categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi
regimi urbanistico-contributivi, stanti le sostanziali
equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della
medesima categoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2009 n. 9894 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Modifica della destinazione d’uso.
La
destinazione di un immobile non si identifica con l'uso che
in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con quella
impressa dal titolo abilitativo assentito (ovviamente quando
tale titolo sussista e sia determinato sul punto). Ciò
significa che il concetto di uso urbanisticamente rilevante
è ancorato alla tipologia strutturale dell'immobile, quale
individuata nell'atto di concessione, senza che esso possa
essere influenzato da utilizzazioni difformi rispetto al
contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori.
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si
configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione
edilizia (secondo la definizione fornita dall'art. 3. l°
comma, lett. d), del T.U. n. 380/2001), in quanto
l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta
pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente". L'intervento
rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del
permesso di costruire con pagamento del contributo di
costruzione dovuto per la diversa destinazione.
Un'interpretazione coerente della disposizione di cui
all'art. 10, l° comma, lett. c), del T.U. n. 380/2001 può
aversi soltanto allorché si ritenga che in essa il
legislatore si è riferito alle "destinazioni d'uso
compatibili" già considerate dall'art 3, l° comma, lett. c)
dello stesso T.U. (nella descrizione della tipologia del
restauro e risanamento conservativo). Soltanto
un'interpretazione siffatta consente di mantenere coerenza
al sistema. Una diversa conclusione, nel senso della
generalizzata esclusione, fuori dei centri storici, del
limite dell'immodificabilità delle destinazioni d'uso, si
porrebbe infatti in incoerente contrasto con tutta la
disciplina degli interventi specificati dall'art. 3 del T.U.
n. 380/2001 (ove finanche la manutenzione straordinaria, non
può comportare "modifiche della destinazione d'uso")
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2009 n. 9894 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quesito 6 -
In merito al mutamento di destinazione d'uso di un immobile
che lo renda utilizzabile per finalità diverse rispetto a
quelle originari (Geometra Orobico n. 2/2009). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quesito 1 -
In merito al mutamento di destinazione d'uso con opere ed
alla necessità del permesso di costruire per la
ristrutturazione edilizia - In merito alla necessità del
permesso di costruire che non può essere derogata dalla
legislazione regionale (Geometra Orobico n.
2/2009). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Modifica destinazione d’uso mediante
opere.
In ordine al
mutamento di destinazione d'uso di un immobile attraverso la
realizzazione di opere edilizie si configura in ogni caso
un'ipotesi di ristrutturazione edilizia (secondo la
definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d) del T.U.
n.380/2001), in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di
modesta entità, porta pur sempre alla creazione di un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al
previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del
contributo di costruzione dovuto per la diversa
destinazione.
Non ha rilievo l'entità delle opere eseguite, allorché si
consideri che la necessità del permesso di costruire permane
per gli interventi:
- di manutenzione straordinaria, qualora comportino
modifiche delle destinazioni d'uso (art. 3, comma l, lett.
b) T.U. 380/2001);
- di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino
il mutamento degli "elementi tipologici" dell'edificio, cioè
di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche
funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle
tipologie edilizie (art. 3, comma l, lett. c), T.U. n.
380/2001).
Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di
nuova costruzione" ai sensi dell'art. 3 comma 1, lett. e)
del T.U. n. 380/2001. Ove il necessario permesso di
costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili le
sanzioni amministrative di cui all'art. 31 del T.U. n.
380/2001 e quella penale di cui all'art. 44, lett. b) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.02.2009 n. 8847 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Ingiunzione sindacale ex art. 7 della
legge n. 47/1985 di ripristino della destinazione
industriale di porzione di fabbricati - Interesse
all'impugnazione - In caso di chiusura dell'intero complesso
industriale - sussiste .
2. Mutamento di destinazione d'uso senza opere edilizie -
Assenza di legge regionale - Non è soggetto a potere di
pianificazione urbanistica.
1.
Sussiste l'interesse ad impugnare un'ingiunzione sindacale
di ripristino della destinazione industriale da parte della
società ingiunta anche nel caso in cui l'intero complesso
industriale sia stato chiuso posto che tale circostanza non
è sufficiente ad escludere il conseguimento di un risultato
vantaggioso.
2.
In applicazione dell'art. 25 u.c. Legge 28.02.1985 n. 47 che
stabilisce che il mutamento di destinazione d'uso,
realizzato senza opere edilizie, va sottoposto, nei casi,
nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge regionale, a
semplice autorizzazione e non a concessione edilizia, in
mancanza di apposita legge regionale, vale il principio che
il mutamento di destinazione d'uso funzionale dei singoli
edifici è in linea generale libero, ovvero non è soggetto a
potere di pianificazione urbanistica (cfr. Corte
Costituzionale 11.02.1991 n. 73; 31.12.1993 n. 498) (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 20.02.2009 n. 1342). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quesito 7 -
Sul cambio di destinazione d'uso effettuato con lo
spostamento di porte e finestre esterne nonché con
tramezzatura interna e sulla necessità o meno di ravvisare
un mutamento urbanistico-edilizio del territorio
(Geometra Orobico n. 1/2009). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Modifica della destinazione d’uso.
Per quanto concerne la modifica della destinazione d'uso, a
parte il potere attribuito alle regioni di stabilire quali
mutamenti debbano essere sottoposti al permesso di costruire
e quali alla denuncia d'inizio attività, è comunque
richiesto il permesso di costruire allorché il mutamento si
riferisce ad immobili compresi nelle zone omogenee A) o
comunque allorché comportino interventi che modifichino la
sagoma o il volume del manufatto preesistente (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.01.2009 n. 3445 - link a
www.lexambiente.it). |
anno 2008 |
|
EDILIZIA
PRIVATA:
E' legittima la rideterminazione degli
oo.uu. nel caso di mutamento della destinazione d'uso da
residenza a studio professionale.
Premesso che nel caso di mutamento della destinazione d'uso
gli oneri sono dovuti solo nel caso di maggiore incidenza
del carico urbanistico e limitatamente alla differenza, va
precisato che nel caso in esame i ricorrenti hanno mutato la
destinazione d'uso senza opere edilizie di locali di
proprietà da residenza a studio dentistico e a studio
medico.
A tale proposito va osservato che il principio del
supplemento del contributo urbanistico nel caso di cambio di
destinazione d'uso ai sensi dell'art. 10, ultimo comma,
della legge n. 10/1977 trova applicazione allorché si
realizzi una destinazione d'uso compresa in una classe
contributiva diversa e più onerosa della precedente, ossia
tale che, se la concessione fosse stata richiesta fin
dall'origine per la nuova destinazione, avrebbe comportato
un diverso e meno favorevole regime contributivo urbanistico
(cfr. Cons. Stato – Sez. V^ - n. 198 del 16.03.1987).
La disposta rideterminazione
dei suddetti contributi discende dal fatto del mutamento
della destinazione d'uso di alcuni locali da residenza a
studio dentistico e a studio medico, per cui legittimamente
il Comune ha proceduto in tal senso, atteso che il pagamento
del contributo per oneri concessori va corrisposto allorché
sia ravvisabile, a seguito dell'intervento edilizio, un
aumento del carico urbanistico, con conseguente mutamento
degli standard (cfr. TAR Lazio – Sez. II^ - n. 54 del
04.01.2005)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 22.10.2008 n. 3257 -
link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Destinazione d’uso da commerciale a
direzionale: norme applicabili e titolo.
In materia edilizia, le opere
interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica,
come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro
e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo
rilascio del permesso di costruire ogni qual volta
comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e,
qualora debbano essere realizzati nei centri storici, anche
nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso
all'interno di una categoria omogenea.
La norma di cui al D.M. 02.04.1968, art. 5, comma 1, n. 2,
unifica gli insediamenti di carattere commerciale a quelli
di carattere direzionale al solo esclusivo fine di
determinare i cd. servizi di residenza (rapporti tra spazi
coperti e spazi pubblici da destinare alle attività
collettive, a verde pubblico e a parcheggio), ferma
restando, tuttavia, l’autonomia funzionale tra le due
categorie edilizie.
Nel procedimento di denuncia di inizio di attività,
disciplinato dall'art. 23 T.U. 06.06.2001 n. 380, la
scadenza del termine perentorio di trenta giorni preclude
all'Autorità comunale competente l'esercizio del suo potere
di controllo a fini inibitori (previsto dal comma 6, in
relazione al comma 1), ma non impedisce l'esercizio del suo
ordinario potere sanzionatorio-repressivo per ogni
trasformazione edilizia contrastante con la disciplina
urbanistica. Rimane pertanto impregiudicato il potere-dovere
del Comune e dell'Autorità giudiziaria di intervenire sul
piano sanzionatorio nel caso in cui l'intervento realizzato
a seguito della presentazione della denuncia di inizio di
attività, risulti sottoposto a permesso di costruire
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 06.10.2008 n. 1822 -
link a
www.altalex.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Fattispecie in materia di
ristrutturazione - Mutamento di
destinazione d’uso.
In materia edilizia, le opere interne e gli interventi di
ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento
conservativo, necessitano del preventivo rilascio del
permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento
di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere
realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui
comportino mutamento di destinazione d'uso all'interno di
una categoria omogenea (massima tratta da
www.studiospallino.it - TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 06.10.2008 n. 1822 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quando il mutamento della destinazione
d'uso necessita del preventivo rilascio del permesso di
costruire.
In materia edilizia, le opere interne e gli interventi di
ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento
conservativo, necessitano del preventivo rilascio del
permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento
di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere
realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui
comportino mutamento di destinazione d'uso all'interno di
una categoria omogenea (cfr: Cons. Stato, Sez. V,
11.05.2004, n. 2954) (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 06.10.2008 n. 1822 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Modifica della destinazione d’uso.
In ordine al
mutamento di destinazione d'uso di un immobile attraverso la
realizzazione di opere edilizie, effettuato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante lo sua esistenza si
configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione
edilizia (secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma
1, lett. d) del T.U. n. 380/2001), in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di modesta entità, porta pur sempre
alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente. L'intervento rimane assoggettato,
pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con
pagamento del contributo di costruzione dovuto per la
diversa destinazione.
Non ha rilievo l'entità delle opere eseguite, allorché si
consideri che la necessità del permesso di costruire permane
per gli interventi: di manutenzione straordinaria, qualora
comportino modifiche delle destinazioni d'uso (art. 3, comma
1, lett. b), T.U. 380/2001; di restauro e risanamento
conservativo, qualora comportino il mutamento degli
"elementi tipologici" dell'edificio, cioè di quei caratteri
non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne
consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie
(art. 3, comma 1, lett. c, T.U. n. 380/2001)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.09.2008 n. 35383 -
link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Ordine di rimessione in pristino -
Cambio di destinazione d'uso - Prova -Legittimità.
2. Ordine di rimessione in pristino - Cambio di destinazione
d'uso - Mancata effettuazione di opere edilizie -
Irrilevanza.
3. Ordine di rimessione in pristino - Cambio di destinazione
d'uso - Indeterminatezza del dispositivo dell'ordine - Non
sussiste.
1.
Con riferimento allo stato di fatto di un locale con
destinazione d'uso cantina, un rapporto dei vigili urbani
che da atto di come, in verità, lo stesso sia stato
trasformato in una cucina per la presenza di lavello,
finiture, allacciamenti a luce, acqua e riscaldamento
contiene elementi univoci (da considerare complessivamente)
della trasformazione del locale, atteso che ciò che è
decisivo per qualificare un intervento sotto il profilo
urbanistico edilizio è la oggettiva idoneità del locale ad
una certa destinazione. Non essendo il Comune tenuto, in
mancanza di fatti nuovi, ad effettuare un secondo
sopralluogo, risulta legittimo il provvedimento di
rimessione in pristino adottata.
2.
Con riferimento ad un ordine di rimessione in pristino di un
locale, con destinazione cantina, trasformato in cucina, il
Comune non è tenuto a replicare in modo specifico alla
deduzione sulla mancata effettuazione di opere edilizie, non
essendo necessario, in astratto, che siano poste in essere
opere per realizzare un mutamento di destinazione d'uso.
3.
E' legittimo il provvedimento impugnato perché non sussiste
la dedotta indeterminatezza del dispositivo dello stesso, in
quanto la rimessione in pristino (che è il contenuto
predeterminato dalla legge del provvedimento in esame) di un
locale, assoggettato abusivamente a modifica di destinazione
d'uso, si effettua ripristinando le condizioni di idoneità
oggettiva del locale alla destinazione d'uso pregressa
(massima tratta
da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.07.2008 n. 2988). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento della destinazione d’uso -
Limiti della disciplina regionale (Sicilia) - Artt. 31, 44 e
10, c. 2 e 3 del D.P.R. n. 380/2001.
In materia urbanistica le disposizioni introdotte da leggi
regionali devono rispettare i principi generali stabiliti
dalla legislazione nazionale e, conseguentemente devono
essere interpretate in modo da non collidere con i detti
principi (cass. pen. sez. III sent. del 15/06/2006). Deve
quindi escludersi, in ossequio al principio di legalità, che
la scelta di criminalizzare o meno una certa condotta possa
attribuirsi alla Regione. Del resto la formulazione
dell'art. 10, commi 2 e 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380
consente alle Regioni l'esercizio di una flessibilità
normativa nella direzione di ampliare l'area applicativa del
permesso di costruire ma non determina un ampliamento del
potere delle Regioni tale da consentire di eliminare una
sanzione penale in una parte del territorio nazionale. E'
conforme all'indicato principio la motivazione del giudice
di merito che, richiamando l'art. 31 del d.p.r. n. 380 del
2001, con riferimento all'art. 44 dello stesso d.p.r.,
(Cass. pen. 15/03/2002, n. 19378) abbia rilevato che, il
mutamento di destinazione d'uso degli immobili, effettuato
con opere interne, è possibile senza il previo rilascio di
concessione edilizia purché detta modificazione intervenga
entro categorie omogenee quanto a parametri urbanistici,
atteso che la modificazione di destinazione d'uso
giuridicamente e penalmente rilevante è quella che avviene
tra macrocategorie, in quanto comporta il mutamento degli
standard urbanistici e la variazione del carico urbanistico.
Trasformazione edilizia ed urbanistica -
Mutamento di destinazione di uso - Competenza esclusiva
attribuita alla Regione Siciliana - Limiti della disciplina
regionale - L n. 37/1985 - Art. 36 c. 1 L.R. Sicilia n.
71/1978 - Fattispecie.
In materia urbanistica la Legge n. 37 del 1985, nonostante
la competenza esclusiva attribuita alla Regione Siciliana,
deve comunque rispettare i principi fondamentali della
legislazione nazionale e, quindi, deve essere interpretata
in modo da non collidere con detti principi generali.
Inoltre, l'art. 36, comma 1, della legge regionale n. 71 del
1978 sottopone a concessione edilizia qualsivoglia attività
comportante trasformazione edilizia ed urbanistica del
territorio comunale, nonché il mutamento di destinazione di
uso degli immobili. Nella specie, gli imputati, in possesso
di concessione edilizia a titolo gratuito ex art. 9 della
legge n. 10 del 1977 per le opere da realizzare nelle zone
agricole, - ivi comprese le residenze, in funzione della
conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore
agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12 della
legge 09.05.1975, n. 1537 avevano modificato arbitrariamente
la destinazione di uso del capannone da adibire a deposito
di macchine agricole, realizzando un'attività commerciale di
autocarrozzeria, con stravolgimento della normale
destinazione urbanistica dell'immobile e con notevole
aggravamento del territorio.
Abuso edilizio - Data di commissione del
reato - Onere della prova.
In tema di abuso edilizio/urbanistico, non basta la mera
affermazione da parte dell'imputato a far ritenere che il
reato sia stato commesso in epoca antecedente
all'accertamento e neppure a determinare l'incertezza sulla
data di commissione del reato idonea a far scattare la
presunzione "in dubio pro reo", atteso che in base al
principio generale ciascuno deve fornire la prova di quanto
afferma (v. Cass. pen. sez. III sent. 17/04/2000, n. 10562,
Fretto S) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.07.2008 n. 31135 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Limiti disciplina regionale e destinazione d’uso.
In materia urbanistica le disposizioni introdotte da
leggi regionali devono rispettare i principi generali
stabiliti dalla legislazione nazionale e, conseguentemente
devono essere interpretate in modo da non collidere con i
detti principi. Deve quindi escludersi, in ossequio al
principio di legalità, che la scelta di criminalizzare o
meno una certa condotta possa attribuirsi alla Regione. Del
resto la formulazione dell'art. 10, commi 2 e 3 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380 consente alle Regioni l'esercizio di una
flessibilità normativa nella direzione di ampliare l'area
applicativa del permesso di costruire ma non determina un
ampliamento del potere delle Regioni tale da consentire di
eliminare una sanzione penale in una parte del territorio
nazionale.
E' conforme all'indicato principio la motivazione del
giudice di merito che, richiamando l'art. 31 del d.p.r. n.
380 del 2001, con riferimento all'art. 44 dello stesso
d.p.r., abbia rilevato che, secondo consolidata
giurisprudenza il mutamento di destinazione d'uso degli
immobili, effettuato con opere interne, è possibile senza il
previo rilascio di concessione edilizia purché detta
modificazione intervenga entro categorie omogenee quanto a
parametri urbanistici, atteso che la modificazione di
destinazione d'uso giuridicamente e penalmente rilevante è
quella che avviene tra macrocategorie, in quanto comporta il
mutamento degli standard urbanistici e la variazione del
carico urbanistico (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.07.2008 n. 31135 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Attività edilizia - Cambio di
destinazione d'uso senza opere edilizie - Autorizzazione -
Non occorre - Fattispecie.
2. Misure repressive - Inapplicabilità - Solo per opere
realizzate in epoca in cui la normativa non richiedeva
assenso edilizio.
3. Misure repressive - Termine di decadenza o prescrizione -
Non sussiste - Affidamento del privato - Inconfigurabilità.
4. Processo amministrativo - Rapporti con il processo penale
- Sentenza penale di assoluzione - Rilevanza nei giudizi
amministrativi - Limite.
1.
In tema di variazione d'uso di un immobile senza opere
edilizie, qualora l'impiego del l'immobile - nella
fattispecie: box - come deposito di cose o di merci non sia
preordinato allo svolgimento diretto di un'attività in situ
che richieda un'autorizzazione ad hoc, ma attenga ad un uso
di fatto che il proprietario fa della cosa propria, tale
impiego non rileva per il diritto (cfr. Cons. di Stato,
sent. n. 77/1997): non occorre pertanto alcuna
autorizzazione per la variazione d'uso (nella fattispecie
vigeva l'art. 25, ult. comma Legge 47/1985 prima delle
modifiche introdotte dal D.L. 498/1993).
2.
Un'opera abusiva, anche risalente nel tempo, non può
ritenersi perciò solo inamovibile, a meno che non si provi
che è stata realizzata in epoca in cui la normativa generale
e locale non richiedeva assenso edilizio alcuno, o che ha
beneficiato di un condono edilizio, in assenza del quale si
applicano le ordinarie sanzioni (art. 40 Legge n. 47/1985).
3.
La vetustà dell'opera abusiva non esclude il potere di
controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia
urbanistico-edilizia, in quanto l'esercizio di tale potere
non è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che
l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione
della relativa sanzione può intervenire anche a notevole
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il
ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il
sorgere di affidamenti o situazioni consolidate.
4.
Il proscioglimento in sede penale dei ricorrenti, rinviati a
giudizio per costruzione senza concessione edilizia non
comporta l'illegittimità dell'eventuale ordinanza di
demolizione, in quanto il proscioglimento in sede penale
vincola il Giudice Amministrativo solo relativamente alla
materialità dei fatti accertati, ma non preclude una diversa
valutazione della fattispecie ai fini dell'applicazione
delle sanzioni edilizie di carattere amministrativo
(massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.06.2008 n. 2045 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva e modifica della destinazione
d’uso (residenza turistico alberghiera).
Può configurare il reato di lottizzazione abusiva la
modifica di destinazione d'uso di un complesso alberghiero,
realizzata attraverso la vendita di singole unità
immobiliari a privati, allorché (indipendentemente dal
regime proprietario della struttura) non sussiste una
organizzazione imprenditoriale preposta alla gestione dei
servizi comuni ed alla concessione in locazione dei singoli
appartamenti compravenduti secondo le regole comuni del
contratto di albergo, atteso che in tale ipotesi le singole
unità perdono la loro originaria destinazione d'uso
alberghiera per assumere quella residenziale. Si ha
lottizzazione abusiva allorquando il frazionamento anzidetto
si ponga in contrasto con specifiche previsioni dello
strumento urbanistico generale, come ad esempio nel caso in
cui detto strumento, nella zona in cui è stato costruito
l'albergo, non preveda utilizzabilità diversa da quella
turistico-alberghiera. Nel caso in cui lo strumento
urbanistico generale consenta una utilizzabilità anche
residenziale può configurarsi lottizzazione abusiva sia
allorquando il complesso alberghiero sia stato edificato
alla stregua di previsioni derogatorie (ad esempio a divieti
di edificabilità, limitazioni plano-volumetriche, distanze
etc.) non estensibili ad immobili residenziali sia
allorquando la destinazione d'uso residenziale comporti un
incremento degli standards richiesti per l'edificazione
alberghiera (con riferimento anche ai parcheggi privati di
cui all'art. 41-sexies della legge n. 1150/1942) e tali
standards aggiuntivi non risultino reperibili ovvero
reperiti in concreto.
Il problema della configurabilità del reato di lottizzazione
abusiva -allorquando il bene suddiviso consista non in un
terreno inedificato, bensì in un immobile già regolarmente
edificato- deve essere affrontato anche alla stregua della
legislazione urbanistica regionale in materia di
classificazione delle categorie funzionali della
destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni
della pianificazione comunale, alle quali deve essere
raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata
trasformazione del territorio. Può integrare il reato di
lottizzazione abusiva, il mutamento della destinazione d'uso
di un immobile che alteri il complessivo assetto del
territorio messo a punto attraverso gli strumenti
urbanistici, dovendosi considerare, quanto alla
individuazione di siffatta "alterazione", che
l'organizzazione del territorio comunale si attua con il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le
loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni
singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità
di servizi. L'assetto territoriale, pertanto, può essere
alterato anche allorché significativamente si incida sulle
dotazioni degli standards di zona (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 13.06.2008 n. 24096
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quesito 10 -
Sulla sussistenza o meno di un mutamento di destinazione
d'uso urbanisticamente rilevante nel caso in cui un
appartamento destinato ad abitazione venga adibito a studio
professionale (Geometra Orobico n. 5/2008). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Attività
edilizia - Modifiche di superficie e destinazione d'uso -
Ristrutturazione edilizia - Sussistenza - Concessione
edilizia - Necessità.
2. Condono edilizio ex Legge 47/1985 - Domanda - Inesatta
rappresentazione della realtà su un presupposto essenziale -
Ipotesi di domanda dolosamente infedele ex art. 40 L.
47/1985 - Sussiste - Silenzio assenso - Inconfigurabilità.
3. Procedimento amministrativo - Preavviso di diniego -
Violazione art. 10-bis Legge 241/1990 - Illegittimità -
Quando sussiste.
4. Condono edilizio ex Legge 47/1985 - Requisiti per
l'ottenimento - Prova - Onere del richiedente.
1.
Le opere edilizie comportanti la realizzazione di nuove
unità abitative ed il mutamento di destinazione d'uso, pur
se giustificate da esigenze di rinnovamento e di restauro,
costituiscono ristrutturazione edilizia -e non manutenzione
straordinaria- e, pertanto, necessitano di concessione
edilizia; in particolare, la realizzazione di tramezzi
interni, propedeutici alla realizzazione di nuovi vani, e la
creazione di servizi igienici non sono riconducibili al
concetto di manutenzione straordinaria.
2.
Nel disciplinare la formazione del silenzio assenso sulle
domande di condono, gli artt. 35-40 della Legge 47/1985
indicano quale elemento in presenza del quale il silenzio
assenso non può formarsi, la dolosa infedeltà della domanda;
pertanto il silenzio assenso di cui all'art. 40, il quale
prevede che, decorso il termine perentorio di 24 mesi dalla
presentazione della domanda, la stessa si intende accolta,
non si applica laddove la dichiarazione resa dalla parte in
sede di presentazione della domanda di condono non sia
ritenuta vera all'esito dell'istruttoria (cfr. TAR Palermo,
sentenza. n. 2369/2006).
3.
La violazione dell'art. 10-bis Legge 241/1990, secondo cui
il diniego deve essere preceduto dal preavviso di rigetto,
non produce ex se l'illegittimità del provvedimento
terminale, dovendo detta disposizione essere interpretata
alla luce del successivo art. 21-octies, il quale, laddove
il ricorrente sollevi determinati vizi di natura formale,
impone al Giudice di valutare il contenuto sostanziale del
provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità
sostanziale del provvedimento impugnato (cfr. TAR Lecce.,
sent. n. 1385/2006; sent. n. 5633/2005).
4.
Spetta a colui che richiede la sanatoria dimostrare di avere
i requisiti per ottenere il provvedimento richiesto e,
quindi, anche quello di provare la situazione esistente
(massima tratta
da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.05.2008 n. 1802
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune di Sora - parere in merito al mutamento di
destinazione d'uso senza opere in assenza di piano
urbanistico attuativo del P.R.G. (Regione Lazio,
parere
04.04.2008
n. 126867 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il mutamento dell'uso funzionale (senza opere) di un
immobile con un maggior carico urbanistico sconta il
pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Ad avviso della costante giurisprudenza (Consiglio di Stato,
sez. V – 26/07/1984 n. 592; TAR Catania – 31/07/1979 n.
408), il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae,
cosicché il tipo di uso offre la giustificazione giuridica
all’an debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno
la ragione del quantum (Consiglio di Stato, sez. V –
23/05/1997 n. 529).
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di
urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una
diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita
nell’originario titolo abilitativo può determinare una
variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico
(Sentenza Sezione 11/06/2004 n. 646; TAR Lombardia Milano,
sez. II – 02/10/2003 n. 4502; Consiglio Stato, sez. V –
25/05/1995 n. 822).
Il Collegio osserva, in termini generali, che il fondamento
del contributo di urbanizzazione –da versare al momento del
rilascio di una concessione edilizia– non consiste nell'atto
amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire
i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli
gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità
derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità
eque per la comunità (cfr. TAR Veneto, sez. II – 13/11/2001
n. 3699).
Pertanto, anche nel caso della modificazione della
destinazione d'uso cui si correla un maggior carico
urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica
l’imposizione al titolare del pagamento della differenza tra
gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione
originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova
destinazione impressa: il mutamento è rilevante allorquando
sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto
il profilo della differenza del regime contributivo in
ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la
circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza
opere non sono soggette a preventiva concessione o
autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l’esenzione
dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità
dell’operazione (cfr., in tal senso, sentenza Sezione
23/01/1998 n. 34).
Un diverso ragionamento sarebbe evidentemente inaccettabile,
dal momento che gli interessati sarebbero altrimenti indotti
a chiedere ed ottenere una concessione edilizia che sconta
il pagamento di un minor contributo per il basso carico
urbanistico, per poi mutare liberamente la destinazione
d'uso originaria senza pagare i più elevati oneri che
derivano dal maggior carico urbanistico.
Nella specie il mutamento di destinazione –da residenziale a
direzionale– è riconducibile ad una classe diversa e più
onerosa della precedente tale che, se la concessione fosse
stata richiesta fin dall’origine per la nuova destinazione,
avrebbe comportato un diverso e meno favorevole regime
contributivo urbanistico: ai fini del calcolo dei cd.
standard, uno studio per l’attività professionale di dottore
commercialista assume la consistenza di un distinto ed
autonomo centro d'attrazione, non riconducibile alle
esigenze di normale vivibilità delle zone residenziali, ed è
pertanto fonte di un maggiore carico urbanistico (Consiglio
Stato – sez. V, 19.05.1998 n. 626).
A fronte dell’accertato mutamento di destinazione d’uso,
l’amministrazione ha legittimamente provveduto a calcolare
di nuovo il quantum dovuto in relazione al diverso carico
urbanistico derivante dall’insediamento di un’attività di
tipo direzionale piuttosto che di una residenza, tenuto
presente che, come già illustrato, il contributo di
urbanizzazione non è geneticamente collegato al rilascio di
una nuova concessione edilizia, ma rappresenta la
compartecipazione posta a carico del titolare dell’alloggio
alle utilità derivanti dalla presenza delle opere di
urbanizzazione (cfr. Sentenza Sezione 13/06/2002 n. 957)
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 10.03.2005 n. 145 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E' materia non soggetta al potere di
pianificazione urbanistica i mutamenti di destinazione d'uso
meramente funzionali, in quanto manifestazioni del diritto
di proprietà e di impresa; conseguentemente, le attività in
questione sono state ritenute non assoggettate né a
concessione né ad autorizzazione edilizia.
La giurisprudenza amministrativa si è decisamente orientata
nel senso di ritenere materia non soggetta al potere di
pianificazione urbanistica i mutamenti di destinazione d'uso
meramente funzionali, in quanto manifestazioni del diritto
di proprietà e di impresa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
28.07.1982, n. 525; id. 13.06.1987, n. 365);
conseguentemente, le attività in questione sono state
ritenute non assoggettate né a concessione né ad
autorizzazione edilizia (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
23.11.1985, n. 551; id., 16.05.1986, n. 341; id.,
01.10.1993, n. 818).
Tale principio è stato sostanzialmente confermato dalla
legge 28.02.1985, n. 47, che, in sede di emanazione di una
nuova disciplina dell'attività edilizia, ha considerato
rilevanti i mutamenti di destinazione d'uso ove realizzati
mediante l'esecuzione di opere (cfr., in particolare, art.
8, primo comma, lett. a), in tema di variazioni essenziali
al progetto approvato e art. 26, primo comma, in materia di
opere interne). Peraltro, l'art. 25, ultimo comma, di detta
L. n. 47 del 1985 ha introdotto una importante novità,
prevedendo per le Regioni la possibilità di fissare con
legge criteri e modalità per l'eventuale regolamentazione da
parte dei Comuni, in ambiti determinati del territorio,
delle destinazioni d'uso degli immobili e per la eventuale
sottoposizione delle loro variazioni ad autorizzazione del
sindaco.
Tale norma stabiliva, quindi, una riserva di legge regionale
finalizzata ad una eventuale disciplina comunale dei
mutamenti di destinazione d'uso e alla loro sottoposizione a
controllo, ancorché realizzati senza l'esecuzione di opere
edilizie.
La Corte costituzionale ha, al riguardo, precisato che "la
modifica funzionale della destinazione, non connessa
all'esecuzione di interventi edilizi, può essere
assoggettata soltanto al regime dell'autorizzazione, e solo
dopo che i criteri, dettati dall'apposita legge regionale
prevista dall'art. 25 citato, siano filtrati ed attuati in
sede di pianificazione urbanistica comunale" (sent.
11.02.1991, n. 73).
In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza
amministrativa, la quale ha più volte affermato che la
rilevanza di variazioni di destinazioni d'uso meramente
funzionali è subordinata alla previa fissazione con legge
regionale di criteri e modalità per l'eventuale esercizio
del potere di regolamentazione comunale in ambiti
territoriali determinati (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
18.01.1988, n. 8; id., 20.02.1990, n. 163), restando
altrimenti attività libera (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
30.06.1998, n. 998; Sez. V, 10.03.1999, n. 231; id.,
23.02.2000, n. 949).
Sulla materia è nuovamente intervenuto il legislatore con
l'art. 2, comma 60, della legge 23.12.1996, n. 662,
applicabile "ratione temporis" al caso in esame, che
ha sostituito l'ultimo comma del predetto art. 25 con la
seguente disposizione: "Le leggi regionali stabiliscono
quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni
fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti subordinare a
concessione, e quali mutamenti, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti
siano subordinati ad autorizzazione".
Dalla nuova formulazione della norma emerge, da un lato,
l'equiparabilità, in sede di normazione regionale, dei
mutamenti di destinazione d'uso strutturali a quelli
meramente funzionali, che possono essere assoggettati a
concessione edilizia ovvero ad autorizzazione; dall'altro,
che la disciplina della materia è riservata alla esclusiva
competenza delle Regioni, essendo stato eliminato ogni
riferimento alla regolamentazione urbanistica comunale, con
la conseguenza che, in mancanza di una diversa disciplina
regionale, il mutamento di destinazione d'uso senza opere
costituisce tuttora attività edilizia libera (cfr. Cons.
Stato, sez. II; par. 05.11.2003, n. 2199/2002).
Tanto premesso va osservato in conclusione che il mutamento
di destinazione d'uso, che consiste nel mutare l'uso per il
quale l'immobile è urbanisticamente destinato, se realizzato
con opere è, quindi, soggetto a previa licenza o concessione
ovvero a semplice autorizzazione, mentre, se realizzato
senza opere, può essere liberamente posto in essere, se non
diversamente disposto dalla Regione (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-ter,
sentenza 03.03.2008 n. 1973 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Cambio di destinazione d'uso con opere edilizie -
Oneri di urbanizzazione - Portata.
Il cambio di destinazione d'uso oggetto di concessione
edilizia, accompagnato da interventi edilizi interni,
comporta l'imposizione di oneri integrativi di
urbanizzazione, solo quando determina una variazione
quantitativa e qualitativa del carico urbanistico, ma non
quando la modificazione intervenga entro categorie omogenee
quanto a parametri urbanistici e non comporta la variazione
del carico urbanistico (nel caso di specie il TAR ha
ritenuto che il cambio di destinazione d'uso del locale
interrato da cantina a deposito commerciale non fosse
urbanisticamente rilevante, dal momento che ab origine lo
stesso era utilizzato come locale accessorio a locali
commerciali e come tale svolgeva già la funzione di
magazzino) (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
25.02.2008 n. 404
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mutamento di destinazione d'uso di immobile in zona
vincolata - Modifiche interne - Esistenza di permesso di
costruire per uso diverso - Difformità totale - Reati -
Configurabilità.
In tema di violazioni edilizie e paesaggistiche, il
mutamento della destinazione d'uso di un immobile in zona
vincolata, realizzato mediante modifiche interne tali da
renderlo idoneo ad un uso residenziale, diverso da quello
originariamente assentito, integra sia il reato di
esecuzione di lavori in difformità totale dal permesso di
costruire, che quello di esecuzione di lavori su beni
paesaggistici in assenza di autorizzazione (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.01.2008 n. 4555
- link a www.lexambiente.it). |
anno 2007 |
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URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva - Rilevabilità - Cambio di
destinazione d'uso - Contratti preliminari di compravendita
- Art. 30 D.P.R. n. 380/2001.
In presenza di specifici elementi rilevatori della volontà
di procedere al mutamento di destinazione delle unità
immobiliari, non vale, richiamare l'astratto dato normativo
che, peraltro, certamente non legittima alcuna forma di
arbitraria immutazione.
Sicché, l'ipotesi di lottizzazione abusiva, di cui all'art.
30 d.P.R. 06.06.2001 n. 380, è configurabile anche in
relazione ad un complesso immobiliare già edificato
attraverso il cambio di destinazione d'uso rilevabile dalla
stipula di contratti preliminari di compravendita, come
quelli aventi ad oggetto unità abitative destinate a
residenza privata e facenti parte di un complesso
originariamente autorizzato per lo svolgimento di attività
alberghiera.
Lottizzazione abusiva - Rilevabilità - Modifica di
destinazione d'uso di immobili oggetto di un piano -
Frazionamento di un complesso immobiliare - Originaria
destinazione d'uso alberghiera.
In materia urbanistica, configura il reato di lottizzazione
abusiva la modifica di destinazione d'uso di immobili
oggetto di un piano di lottizzazione attraverso il
frazionamento di un complesso immobiliare di modo che le
singole unità perdano la originaria destinazione d'uso
alberghiera per assumere quella residenziale, atteso che
tale modificazione si pone in contrasto con lo strumento
urbanistico costituito dal piano di lottizzazione (Sez. 3,
n. 6990 del 29/11/2005 Rv. 233552) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 03.04.2007 n. 13687
- link a www.ambientediritto.it). |
anno 2006 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
1. Mutamento di
destinazione d'uso - Oneri di urbanizzazione
- Pagamento - Aumento del carico
urbanistico.
2. Mutamento di destinazione d'uso -
Modalità di utilizzo del bene - Funzionalità
acquisite.
1. In sede di rilascio della
concessione edilizia, al quale consegua il
mutamento di destinazione d'uso
dell'immobile, il pagamento del contributo
per oneri di urbanizzazione va corrisposto
ogni qual volta si rinvenga, a seguito
dell'intervento edilizio, un aumento del
carico urbanistico.
2. Al fine di accertare se vi sia
stato un mutamento di destinazione d'uso,
bisogna considerare non solo la modalità di
utilizzo del bene, quanto, soprattutto, le
funzionalità da esso acquisite in forza
degli interventi edilizi (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.12.2006 n. 2989
- massima tratta da www.solom.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Cerveteri - Parere in merito alla sanabilità del
cambio di destinazione d'uso da agricolo a residenziale ed
altre casistiche (Regione Lazio,
parere
10.11.2006 n. 133863 di prot.). |
anno 2005 |
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EDILIZIA PRIVATA: Il
contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di
diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei
benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il
tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an
debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la
ragione del quantum.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di
urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una
diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita
nell’originario titolo abilitativo può determinare una
variazione quantitativa e qualitativa del carico
urbanistico.
In termini generali, il fondamento del contributo di
urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una
concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo
in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali
delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli
interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla
presenza delle medesime, secondo modalità eque per la
comunità.
Pertanto, anche nel caso di modificazione della destinazione
d'uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è
integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al
titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di
urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e
quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione
impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo
della differenza del regime contributivo in ragione di
diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le
modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono
soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale
non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di
urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione.
Un diverso ragionamento sarebbe evidentemente inaccettabile,
dal momento che gli interessati sarebbero altrimenti indotti
a chiedere ed ottenere una concessione edilizia che sconta
il pagamento di un minor contributo per il basso carico
urbanistico, per poi mutare liberamente la destinazione
d'uso originaria senza pagare i più elevati oneri che
derivano dal maggior carico urbanistico.
Se è comunque indispensabile l’esame della fattispecie
concreta per accertare se il nuovo insediamento o la nuova
opera abbia determinato un incremento nella domanda di
strutture ed opere collettive, nella specie il mutamento di
destinazione –da residenziale ad ufficio– è riconducibile ad
una classe diversa e più onerosa della precedente tale che,
se la concessione fosse stata richiesta fin dall’origine per
la nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno
favorevole regime contributivo urbanistico: ai fini del
calcolo dei cd. standard, l’ufficio di un’attività d’impresa
assume la consistenza di un distinto ed autonomo centro
d'attrazione, non riconducibile alle esigenze di normale
vivibilità delle zone residenziali, ed è pertanto fonte di
un maggiore carico urbanistico.
In definitiva, a fronte dell’accertato mutamento di
destinazione d’uso l’amministrazione ha legittimamente
provveduto a calcolare di nuovo il quantum dovuto in
relazione al diverso carico urbanistico
La censura è priva di pregio.
Ad avviso della costante giurisprudenza (Consiglio di Stato,
sez. V – 26/07/1984 n. 592; TAR Catania–31/07/1979 n. 408),
il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo
di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a
carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi
delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei
benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il
tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an
debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la
ragione del quantum (Consiglio di Stato, sez. V – 23/05/1997
n. 529).
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di
urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una
diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita
nell’originario titolo abilitativo può determinare una
variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico
(Sentenza Sezione 11/06/2004 n. 646; TAR Lombardia Milano,
sez. II – 02/10/2003 n. 4502; Consiglio Stato, sez. V –
25/05/1995 n. 822).
In termini generali, il fondamento del contributo di
urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una
concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo
in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali
delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli
interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla
presenza delle medesime, secondo modalità eque per la
comunità (cfr. TAR Veneto, sez. II – 13/11/2001 n. 3699).
Pertanto, anche nel caso di modificazione della destinazione
d'uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è
integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al
titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di
urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e
quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione
impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo
della differenza del regime contributivo in ragione di
diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le
modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono
soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale
non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di
urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione (cfr.,
in tal senso, sentenze Sezione 10/03/2005 n. 145 e
23/01/1998 n. 34).
Un diverso ragionamento sarebbe evidentemente inaccettabile,
dal momento che gli interessati sarebbero altrimenti indotti
a chiedere ed ottenere una concessione edilizia che sconta
il pagamento di un minor contributo per il basso carico
urbanistico, per poi mutare liberamente la destinazione
d'uso originaria senza pagare i più elevati oneri che
derivano dal maggior carico urbanistico.
Se è comunque indispensabile l’esame della fattispecie
concreta per accertare se il nuovo insediamento o la nuova
opera abbia determinato un incremento nella domanda di
strutture ed opere collettive (TAR Piemonte, sez. I –
04/12/1997 n. 821; Consiglio di Stato, sez. V – 29/01/2004
n. 295), nella specie il mutamento di destinazione –da
residenziale ad ufficio– è riconducibile ad una classe
diversa e più onerosa della precedente tale che, se la
concessione fosse stata richiesta fin dall’origine per la
nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno
favorevole regime contributivo urbanistico: ai fini del
calcolo dei cd. standard, l’ufficio di un’attività d’impresa
assume la consistenza di un distinto ed autonomo centro
d'attrazione, non riconducibile alle esigenze di normale
vivibilità delle zone residenziali, ed è pertanto fonte di
un maggiore carico urbanistico (Consiglio Stato, sez. V –
19/05/1998 n. 626).
In definitiva, a fronte dell’accertato mutamento di
destinazione d’uso l’amministrazione ha legittimamente
provveduto a calcolare di nuovo il quantum dovuto in
relazione al diverso carico urbanistico (TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 07.11.2005
n. 1115). |
anno 2004 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
Lo spargimento di ghiaia su un'area che
ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia
allorché appaia preordinata alla modifica della precedente
destinazione d'uso.
La giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato due
indirizzi ermeneutici: secondo il primo, andrebbero
assoggettati a titolo abilitativo solo gli interventi di
portata -simultaneamente– urbanistica ed edilizia.
Invero, osservano i fautori della tesi in esame, l’uso
congiunto delle due espressioni (urbanistica ed edilizia)
nel citato articolo escluderebbe l’assoggettamento al previo
rilascio del titolo degli interventi che, pur non mancando
di impatto urbanistico, siano privi di consistenza materiale
di opere edilizie.
Secondo l’opposto indirizzo, l’art. 1 l. 28.01.1977
n. 10 sulla edificabilità dei suoli, che pone la regola
della soggezione a concessione di ogni attività comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, non
comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle
consistenti in una modificazione dello stato materiale e
della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego
diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua
condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica
(cfr.: Cons. Stato, sez. V, 31/01/2001, n. 343; Cons. Stato,
sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato, sez. V,
01/03/1993, n. 319; tale orientamento è condiviso anche
dalla giurisprudenza ordinaria: cfr. Cass. pen., 14/10/1988;
Cass. pen., sez. III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., sez.
VI, 24/07/1997, n. 8520).
La giurisprudenza favorevole a tale tesi ha aggiunto che
l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 impone al soggetto attuatore di
munirsi di concessione edilizia per ogni attività che
comporti la trasformazione del territorio attraverso
l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti
urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione
abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o solo
funzionale (cfr. la recente Cons. Stato, sez. VI,
26/09/2003, n. 5502).
Pertanto, è soggetto a concessione edilizia ogni intervento
sul territorio, preordinato alla perdurante modificazione
dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in
assenza di opere in muratura (Cons. Stato, sez. V,
06/04/1998, n. 415; cfr. altresì: <<la concessione
edilizia è richiesta sia quando vi sia la realizzazione di
opere murarie, sia quando si intenda realizzare un
intervento sul territorio che, pur non richiedendo opere in
muratura, comporti la perdurante modifica dello stato dei
luoghi con materiale posto sul suolo>> Cons. Stato, sez.
V, 14/12/1994, n. 1486; Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2003, n.
419).
E’ ben vero che, secondo un
precedente citato dall’appellante, questo Consesso ha
ritenuto che non integra l'ipotesi di trasformazione
urbanisticamente rilevante del territorio, soggetta a
concessione ex art. 1 l. n. 10 del 1977, l'intervento
materialmente consistente nella mera ripulitura di un
terreno parzialmente erboso, con ripristino di una
recinzione preesistente e spargimento di ghiaia, a nulla
rilevando, sotto il profilo urbanistico, la conseguente
utilizzazione del suolo così ripulito e riordinato
all'esposizione di autovetture a scopi commerciali (Cons.
Stato, sez. IV, 08/03/1983, n. 103).
Tuttavia, alla luce dell’orientamento condiviso dal
Collegio, deve ritenersi che lo spargimento di ghiaia su
un'area che ne era in precedenza priva richiede la
concessione edilizia allorché appaia preordinata alla
modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza
questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati).
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla
risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui
deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un
terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine
di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di
autocarri e containers (Cass. pen., 09/06/1982; cfr. altresì
<<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la
riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano
regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di
ghiaia, per essere destinata a parcheggio>> Cons. Stato,
sez. II, 15/02/1989, n. 18/1989).
Per esigenze di completezza si osserva che la tesi
abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale
riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia –D.P.R.
n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di
risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un
valido ausilio interpretativo, specie ove “codifica”
un orientamento giurisprudenziale pregresso): l’art. 3, in
materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta
a permesso di costruire –ascrivendole al genus delle nuove
costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di
impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la
trasformazione in via permanente di suolo inedificato>>
(lett. e.3) e <<la realizzazione di depositi di merci o
di materiali, la realizzazione di impianti per attività
produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori
cui consegua la trasformazione permanente del suolo
inedificato>> (e.7); si tratta, come è facile rilevare,
di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e,
nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo (oggi permesso
di costruire).
Significativa è, poi, la previsione dell’art. 10, comma 2,
secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>
(Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 11.11.2004 n. 7324 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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