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dossier CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere edilizie) - DEFINIZIONE

art. 23-ter D.P.R. 06.06.2001 n. 380
* * *
artt. 51, 51-bis, 52, 53 L.R. 11.03.2005 n. 12

anno 2021

EDILIZIA PRIVATA: Sul cambio di destinazione d’uso di un garage in locale abitativo.
   a) il mutamento di destinazione d’uso risulta sempre rilevante quando esso determini un incremento del carico urbanistico, con la creazione di volumi e superfici abitabili, i quali, ovviamente, incidono sugli standard, in quanto determinano un aggravio della potenziale o effettiva presenza residenziale nel territorio;
   b) la giurisprudenza, infatti, ha affermato che tutte le volte che le modificazioni configurino un mutamento della destinazione d'uso, con appesantimento, rilevabile e documentabile, dei carichi urbanistici o con manifesto contrasto con i vigenti assetti urbanistici di zona, è necessaria l'autorizzazione dell'Amministrazione, per l'elementare e basilare esigenza collettiva di consentire all’ente locale di gestire in modo ordinato, equo e proporzionato i carichi urbanistici complessivamente considerati;
   c) come affermato dalla giurisprudenza appena richiamata, il cambio di destinazione d’uso con aggravio del carico urbanistico è soggetto a permesso di costruire, sicché l’adozione dell’ordine di demolizione risultava nel caso di specie doverosa;
   d) il generale potere di vigilanza del Comune sulle attività che presentano rilievo urbanistico ed edilizio comprende anche l’accertamento relativo all’acquisizione dei pareri, assensi o nulla-osta di competenza di altre Amministrazioni (mentre resta ovviamente di competenza di tali Amministrazioni la concreta decisione in ordine alla specifica richiesta dell’interessato);
   e) il carattere vincolato dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi rende superflua la comunicazione di avvio del procedimento, dal momento che -salvo ipotesi del tutto residuali- non è possibile alcun utile apporto partecipativo dell’interessato, come pure risulta inutile una specifica motivazione, risultando sufficiente l'individuazione degli abusi commessi.
---------------

In relazione all’ordinanza dirigenziale n. 60 in data 20.12.2018, con cui il Comune ha contestato il cambio di destinazione d’uso di un garage in locale abitativo -con modifica del prospetto e realizzazione di gradini in luogo di una rampa- completo di impiantistica e rifiniture di tipo al civile, ordinando la demolizione delle opere abusive, valgono, a giudizio della Sezione, i seguenti rilievi:
   a) la trasformazione di un locale non destinato a fini abitativi può essere ben desunta dall’intervenuta effettuazione di interventi che dimostrino in modo conducente la nuova destinazione, come dimostrato dal fatto che è persino possibile il mutamento di destinazione in assenza di opere;
   b) nel caso di specie, le circostanze indicate dall’Amministrazione e che risultano dalla documentazione fotografica versata in atti -presenza di intonaci e pavimenti per civile abitazione, impianto elettrico per civile abitazione (con prese, lampadari, applique, etc.), impianto di climatizzazione, accesso tramite scalini da una strada non più carrabile e realizzazione di un ingresso attraverso una porta ubicati in apposito infisso di alluminio e vetri- appaiono del tutto risolutive e testimoniano che il locale aveva perduto la sua originaria destinazione per essere impiegato a fini abitativi;
   c) ad ogni buon conto, a differenza di quanto era stato autorizzato, il “garage” non è seminterrato, ma risulta sostanzialmente al piano terreno, con creazione, quindi, di volumi e superfici mai assentite dall’Amministrazione;
   d) il mutamento di destinazione d’uso risulta sempre rilevante quando esso determini un incremento del carico urbanistico, con la creazione di volumi e superfici abitabili, i quali, ovviamente, incidono sugli standard, in quanto determinano un aggravio della potenziale o effettiva presenza residenziale nel territorio;
   e) la giurisprudenza, infatti, ha affermato che tutte le volte che le modificazioni configurino un mutamento della destinazione d'uso, con appesantimento, rilevabile e documentabile, dei carichi urbanistici o con manifesto contrasto con i vigenti assetti urbanistici di zona, è necessaria l'autorizzazione dell'Amministrazione, per l'elementare e basilare esigenza collettiva di consentire all’ente locale di gestire in modo ordinato, equo e proporzionato i carichi urbanistici complessivamente considerati (Consiglio di Stato, II, n. 3546/2003; TAR Campania, Napoli, Sezione III, 06.04.2021, n. 2250; TAR Campania, Salerno, Sezione II, 15.03.2021, n. 658; TAR Campania, Napoli, VII, n. 1496/2020; Consiglio di Stato, Sezione II, n. 6948/2020; TAR Campania, Napoli, Sezione VI, sentenza n. 4999/2021, con specifico riferimento al cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione: sul punto, cfr. anche TAR Campania, Napoli, Sezione III, 03.01.2020, n. 31; TAR Liguria, Genova, Sezione I, 26.07.2017, n. 682; Cassazione Penale, Sezione III, 05.04.2016, n. 26455; TAR Calabria, Catanzaro, Sezione II, n. 1780/2019; TAR Lombardia, Milano, Sezione II, n. 1040/2021);
   f) come affermato dalla giurisprudenza appena richiamata, il cambio di destinazione d’uso con aggravio del carico urbanistico è soggetto a permesso di costruire, sicché l’adozione dell’ordine di demolizione risultava nel caso di specie doverosa;
   g) il generale potere di vigilanza del Comune sulle attività che presentano rilievo urbanistico ed edilizio comprende anche l’accertamento relativo all’acquisizione dei pareri, assensi o nulla-osta di competenza di altre Amministrazioni (mentre resta ovviamente di competenza di tali Amministrazioni la concreta decisione in ordine alla specifica richiesta dell’interessato);
   h) il carattere vincolato dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi rende superflua la comunicazione di avvio del procedimento, dal momento che -salvo ipotesi del tutto residuali- non è possibile alcun utile apporto partecipativo dell’interessato, come pure risulta inutile una specifica motivazione, risultando sufficiente l'individuazione degli abusi commessi (sul punto, cfr., fra le più recenti, TAR Campania, Napoli, II, n. 2842/2020; TAR Campania, Napoli, III, n. 78/2020; TAR Campania, Napoli, VIII, n. 4765/2020; TAR Liguria, Genova, I, n. 723/2019) (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 10.11.2021 n. 3343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mutamento da cantina a civile abitazione.
In merito al cambio di destinazione d’uso la giurisprudenza ha stabilito che il mutamento da cantina a civile abitazione comportando il passaggio da una categoria urbanistica ad un’altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire.
Ancora si aggiunge che l’esecuzione di opere edilizie che incidano sulla struttura di un edificio preesistente e ne comportino il mutamento di destinazione d’uso va qualificata come ristrutturazione edilizia non già come manutenzione straordinaria o risanamento conservativo.
Invero, ai sensi dell’art. 10 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, lett. c), le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, e che comportino modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (ristrutturazione edilizia).
È stato osservato, inoltre, che la trasformazione di una cantina in abitazione sia una ristrutturazione edilizia, poiché la cantina e l’abitazione hanno natura differente: pertinenziale la prima e di unità immobiliare autonoma la seconda; la predetta trasformazione, invero, comporta l’aumento un aumento delle unità immobiliari dell’edificio e un conseguente aumento del carico urbanistico.
Sul punto, ai fini della distinzione tra ristrutturazione e manutenzione, è determinante più che l’aspetto quantitativo quello qualitativo e, pertanto, a prescindere dalla vastità delle opere, il cambiamento della destinazione d’uso comporta ex se una ristrutturazione.
Si evidenzia peraltro che dal verbale della Polizia locale l’abitazione risulta munita di cucina e servizi igienici. Sul punto è costante la giurisprudenza amministrativa, per la quale l'esecuzione di opere, quali la realizzazione di una cucina o di un bagno, idonee a mutare la destinazione d'uso di un immobile, da cantina ad immobile adibito ad abitazione, comporta l'obbligo del titolo edilizio abilitativo.
Di qui la legittimità dell'ordine di demolizione emanato a carico dell'autore del cambio di destinazione d'uso realizzato con opere, in assenza di titolo edilizio.
---------------

Il ricorso è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e in diritto.
Non è condivisibile la tesi del ricorrente sulla possibile abitabilità dell’immobile: l’unità, per ricevere destinazione abitativa, non risponderebbe in alcun modo ai requisiti minimi di altezza utile, fissata in metri 2,70 come indicato in via inderogabile dal D.M. del 05.07.1975, contenente le “Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20.06.1896 relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione”.
In merito al cambio di destinazione d’uso la giurisprudenza ha stabilito che il mutamento da cantina a civile abitazione comportando il passaggio da una categoria urbanistica ad un’altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. VI, 19.07.2021, n. 4999, sez. III, 03.01.2020, n. 3, Tar Liguria-Genova, sez. I, 26/07/2017, n. 682; Cassazione penale, sez. III, 24/06/2016, n. 26455).
Ancora si aggiunge che l’esecuzione di opere edilizie che incidano sulla struttura di un edificio preesistente e ne comportino il mutamento di destinazione d’uso va qualificata come ristrutturazione edilizia non già come manutenzione straordinaria o risanamento conservativo (v. TAR Liguria, Sez. I, 08.02.2006 n. 103).
Invero, ai sensi dell’art. 10 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, lett. c), le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, e che comportino modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (ristrutturazione edilizia).
È stato osservato, inoltre, che la trasformazione di una cantina in abitazione sia una ristrutturazione edilizia, poiché la cantina e l’abitazione hanno natura differente: pertinenziale la prima e di unità immobiliare autonoma la seconda; la predetta trasformazione, invero, comporta l’aumento un aumento delle unità immobiliari dell’edificio e un conseguente aumento del carico urbanistico.
Sul punto, ai fini della distinzione tra ristrutturazione e manutenzione, è determinante più che l’aspetto quantitativo quello qualitativo e, pertanto, a prescindere dalla vastità delle opere, il cambiamento della destinazione d’uso comporta ex se una ristrutturazione (C.d.S sez. II, 24.03.2021, n. 2493).
Si evidenzia peraltro che dal verbale della Polizia locale l’abitazione risulta munita di cucina e servizi igienici. Sul punto è costante la giurisprudenza amministrativa, per la quale l'esecuzione di opere, quali la realizzazione di una cucina o di un bagno, idonee a mutare la destinazione d'uso di un immobile, da cantina ad immobile adibito ad abitazione, comporta l'obbligo del titolo edilizio abilitativo (cfr. C.d.S., sez. IV, 14.04.2006, n. 2163; TAR Lazio, Roma, sez. I, 16.07.2009, n. 7030).
Di qui la legittimità dell'ordine di demolizione emanato a carico dell'autore del cambio di destinazione d'uso realizzato con opere, in assenza di titolo edilizio.
Alla luce delle argomentazioni esposte il ricorso va respinto siccome infondato (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 09.11.2021 n. 268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: «Ed invero, "l'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 individua i mutamenti nella destinazione d'uso di un immobile da ritenere urbanisticamente rilevanti e che pertanto necessitano di uno specifico titolo abilitativo edilizio", sul presupposto che "il mutamento di destinazione d'uso, anche solo funzionale, comporta un aggravio di carico urbanistico (con la consequenziale necessità per l'interessato di munirsi del titolo edilizio), quando implica un passaggio tra categorie urbanisticamente differenti".
Peraltro, "In materia edilizia, l'aumento del carico urbanistico di un immobile si verifica anche laddove, pur senza mutare la sua destinazione, l'opera si presti a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti"
».
«Ora, "La semplificazione delle attività, voluta dal legislatore, non si è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono sostanzialmente non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della scelta già operata con il D.M. n. 1444/1968... Da tale disciplina si desume che,
   - mentre il mutamento di destinazione d'uso senza opere non assume rilevanza giuridica laddove non si verifichi un passaggio tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
   - il mutamento di destinazione d'uso (con o senza opere) è sottoposto al regime della denuncia di inizio attività alla duplice condizione che:
      i) non comporti alcuna trasformazione dell'aspetto esteriore dell'edificio o un aumento dei volumi e delle superfici esistenti;
      ii) non determini un passaggio tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione dei diversi carichi urbanistici ai sensi degli artt. 3 e 5 del D.M. n. 1444/1968"».

---------------

Il caso in esame riguarda il cambio di destinazione d'uso rilevante tra categorie diverse, per il quale (cfr. TAR Napoli, sez. III, 13/05/2020, n. 1750) «occorre fare riferimento al combinato disposto di cui all'art. 23-ter, comma 1, D.P.R. 380/2001 (aggiunto con D.L. 133/2014 conv. in L. n. 164/2014), e all'art. 32, comma 1, lettera a), del D.P.R. 380/2001 (TUE); tale cambio d'uso incide, infatti, sul carico urbanistico senza ulteriori accertamenti da compiere (D.M. 1444/1968)».
«Ed invero, "l'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 individua i mutamenti nella destinazione d'uso di un immobile da ritenere urbanisticamente rilevanti e che pertanto necessitano di uno specifico titolo abilitativo edilizio" (TAR Puglia, Bari, sez. III, 02/03/2020, n. 345), sul presupposto che "il mutamento di destinazione d'uso, anche solo funzionale, comporta un aggravio di carico urbanistico (con la consequenziale necessità per l'interessato di munirsi del titolo edilizio), quando implica un passaggio tra categorie urbanisticamente differenti" (TAR, Toscana, Firenze, sez. III, 23/08/2019, n. 1210). Peraltro, "In materia edilizia, l'aumento del carico urbanistico di un immobile si verifica anche laddove, pur senza mutare la sua destinazione, l'opera si presti a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti" (Cons. di St., sez. IV, 13/11/2018, n. 6388)
».
«Ora, "La semplificazione delle attività, voluta dal legislatore, non si è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono sostanzialmente non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della scelta già operata con il D.M. n. 1444/1968... Da tale disciplina si desume che, mentre il mutamento di destinazione d'uso senza opere non assume rilevanza giuridica laddove non si verifichi un passaggio tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, il mutamento di destinazione d'uso (con o senza opere) è sottoposto al regime della denuncia di inizio attività alla duplice condizione che: i) non comporti alcuna trasformazione dell'aspetto esteriore dell'edificio o un aumento dei volumi e delle superfici esistenti; ii) non determini un passaggio tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione dei diversi carichi urbanistici ai sensi degli artt. 3 e 5 del D.M. n. 1444/1968" (TAR Campania Napoli Sez. II, 15/10/2018, n. 5964; TAR, Campania, Napoli, sez. VII, 06/11/2017, n. 5152)».
Appare evidente, ed è questo l’elemento che il Collegio ritiene dirimente, che nel caso in esame l’utilizzo del capannone per l’uso produttivo di autocarrozzeria serva ad alterare il carico urbanistico e, come tale, richieda il titolo più garantista
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 11.10.2021 n. 3060 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, poiché comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire.
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Attesa la necessità del rilascio del permesso di costruire e non già di una mera SCIA, per il mutamento di destinazione di un locale da cantina-garage a civile abitazione, deve ritenersi legittimo l’operato della P.A., cui si imponeva l’applicazione dell’art. 31 d.P.R. 380/2001, che, per gli “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”, si impone all’Amministrazione di ingiungere al responsabile dell’abuso la relativa demolizione e il ripristino dello status quo ante.
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La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in Pozzuoli, alla via ..., n. 25, distinto al Catasto al Foglio n. 17, p.lla 873, sub 2, 3 e 4.
Il Comando VV.UU. del Comune di Pozzuoli trasmetteva al Dirigente della Direzione 5 Protezione – Tutela e Sicurezza del Territorio Urbanistica ed Edilizia la denuncia dell’11.04.2016 a carico della ricorrente, per aver eseguito presso l’immobile opere abusive, consistenti nella trasformazione del piano seminterrato della palazzina in civile abitazione, in assenza dei necessari titoli abilitativi.
...
In merito al tipo di opere contestate, poi, va considerato come da costante e condivisa giurisprudenza, "che il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, poiché comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire” (TAR Campania-Napoli, sez. III, 03/01/2020, n. 31; cfr. Tar Liguria-Genova, sez. I, 26/07/2017, n. 682; Cassazione penale, sez. III, 24/06/2016, n. 26455).
...
Ancora la ricorrente si duole dell’applicazione da parte del Comune della sanzione di cui all’art. 31 d.P.R. 380/2001, in luogo della più mite sanzione di cui all’art. 37 del medesimo T.U., assumendo che le opere abusivamente realizzate sarebbero assoggettate al regime edilizio della SCIA.
Come detto sopra, attesa la necessità del rilascio del permesso di costruire e non già di una mera SCIA, per il mutamento di destinazione di un locale da cantina-garage a civile abitazione, deve ritenersi legittimo l’operato della P.A., cui si imponeva l’applicazione dell’art. 31 d.P.R. 380/2001, che, per gli “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”, si impone all’Amministrazione di ingiungere al responsabile dell’abuso la relativa demolizione e il ripristino dello status quo ante
 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 19.07.2021 n. 4999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'illegittimità della pretesa comunale del pagamento degli oo.uu. per cambio della destinazione d'uso di una villa, senza opere, da edificio scolastico a residenza (originaria).
Dalla disamina della documentazione versata in atti, emerge che la villa, pur originariamente destinata a uso residenziale dalle previsioni del P.R.G. comunale, è stata in seguito adibita a edificio scolastico (i.e. scuola materna statale), destinazione che è poi perdurata fino all’anno 1995.
Ciò posto, occorre rammentare che il cambio destinazione uso, anche se attuato senza la realizzazione di opere edilizie, comporta l'obbligo di corrispondere al Comune il contributo di costruzione di cui all'art. 16, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per la quota-parte commisurata agli oneri di urbanizzazione ed in misura rapportata alla differenza tra quanto dovuto per la nuova destinazione rispetto a quella già in atto, allorquando la nuova destinazione sia idonea a determinare un aumento quantitativo e/o qualitativo del carico urbanistico della zona, inteso come rapporto tra insediamenti e servizi.
In termini:
   - “Gli oneri concessori, con particolare riguardo alla parte correlata agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, hanno la chiara funzione di contribuire alle spese da sostenere dalla collettività in riferimento alla realizzazione delle relative opere, sicché l’unico criterio per determinare se essi siano dovuti o meno e in che misura consiste nel valutare il carico urbanistico derivante dall’attività edilizia, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelli esistenti;
   - In linea di diritto, cioè, mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento alla trasformazione del territorio consentita al privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione «assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti».
Il Collegio ritiene che, nel caso di specie, risulti indimostrato che in dipendenza del mutamento della destinazione d’uso impressa all’immobile, si sia determinato a carico della zona di riferimento un aumento del carico urbanistico, dovendosi, piuttosto, ritenere il contrario: ed infatti, l’edificio, in precedenza adibito dapprima a scuola materna e quindi a scuola superiore, è stato in seguito convertito a uso residenziale di un unico nucleo familiare di tre componenti.
E’ ragionevole ritenere che, nel mutamento, si sia determinato un utilizzo di minore intensità delle opere di urbanizzazione e delle infrastrutture a servizio della collettività; in senso conforme è possibile richiamare un precedente arresto di giurisprudenza reso in relazione a fattispecie analoga:
   - “Il passaggio dalla precedente destinazione direzionale a quella residenziale non può che aver condotto a una consistente diminuzione del carico urbanistico dell’immobile di proprietà (..), inteso come peso sul tessuto urbano e sui servizi di zona, a partire dal traffico veicolare e dalla connessa necessità di disporre di parcheggi nelle aree antistanti o prossime all'immobile: per questo profilo, è infatti innegabile che la presenza nell’edificio di una scuola privata che faceva registrare un afflusso giornaliero di circa cento persone abbia un impatto superiore rispetto a quella di due nuclei familiari. A fronte del sicuro decremento di carico urbanistico determinato dal mutamento di destinazione, non vi sono invece elementi obiettivi per sostenere che l’asserita, contestuale divisione dell’immobile stesso in due abitazioni giustifichi comunque l’onerosità dell’intervento a causa delle sue ricadute sulle dotazioni di standard urbanistici”.
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... per l'annullamento del provvedimento del Comune di San Donà di Piave e ricavato dal così detto "Riepilogo del Contributo di Costruzione" estratto in internet e di cui alla nota 11.10.2010 n. 37034 e alla successiva nota 29.10.2010 n. 41509 con le quali il Comune di san Donà di Piave ha quantificato, richiesto (e poi rateizzato) l'importo complessivo di curo 32.355,36 al ricorrente a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria; nonché di ogni atto annesso, connesso o presupposto.
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FATTO
Con il ricorso introduttivo del giudizio il Sig. Ci. ha dedotto di essere proprietario di una villa nel territorio del Comune di San Donà di Piave dichiarata di interesse storico-artistico con decreto del 18.11.2008.
Il ricorrente ha, inoltre, rappresentato di aver effettuato un intervento di ripristino dell’edificio senza aumenti di volume, in relazione al quale il Comune resistente gli ha richiesto il pagamento di euro 32.355,36 a titolo di oneri di urbanizzazione.
Avverso tale provvedimento il ricorrente ha articolato un unico motivo di gravame: con esso si lamenta che il P.R.G. comunale prevedrebbe la destinazione dell’immobile a uso residenziale, di talché l’imposizione di oneri di urbanizzazione per il cambio di destinazione d’uso sarebbe sfornita di presupposto; il ripristino dell’originaria destinazione d’uso effettuato dal Sig. Ci. non avrebbe, peraltro, neppure implicato alcun aumento del carico urbanistico rispetto alla destinazione che all’edificio era stata impressa, in via di fatto, in epoca precedente.
Si è costituito in giudizio il Comune di San Donà di Piave, deducendo che la villa del ricorrente sarebbe stata utilizzata come edificio scolastico dal 1978 al 1995, tanto che il ricorrente, dopo averla acquistata, aveva presentato all’Amministrazione un progetto di restauro e risanamento con cambio di destinazione d’uso: di conseguenza, l’ente resistente ha chiesto il rigetto del ricorso.
All’udienza in data 27.05.2021, svoltasi da remoto con modalità di video-collegamento, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
Con il ricorso in disamina il Sig. Ci. lamenta che il Comune resistente gli avrebbe illegittimamente imposto il pagamento degli oneri di urbanizzazione in relazione a un preteso cambio di destinazione d’uso dell’immobile da questi acquistato.
Il ricorrente deduce, in particolare, di essersi limitato a ripristinare l’originaria destinazione a uso residenziale prevista per l’edificio dalle previsioni urbanistiche: sarebbe, dunque, irrilevante il temporaneo diverso uso della villa in commento a fini diversi dalla residenza.
Si aggiunge che il ripristino di tale destinazione non avrebbe implicato alcun aumento del carico urbanistico, aumento che costituisce il presupposto necessario per imporre il pagamento di somme a titolo di oneri di urbanizzazione.
Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, sia stata senz’altro operata una modifica di destinazione d’uso dell’edificio nella titolarità del ricorrente urbanisticamente rilevante.
Dalla disamina della documentazione versata in atti, emerge infatti che la villa del Sig. Ci., pur originariamente destinata a uso residenziale dalle previsioni del P.R.G. comunale, è stata in seguito adibita a edificio scolastico, in forza di delibera comunale nr. 382 del 15.11.1977 con cui veniva approvato il progetto dei lavori di ristrutturazione e adattamento della “Villa ...” ad uso di scuola materna statale (cfr. doc. 4) della produzione dell’ente resistente), destinazione che è poi perdurata fino all’anno 1995 (cfr. doc. 4) della produzione del ricorrente).
Del resto, la DIA presentata dal ricorrente in data 22.09.2010 ha, appunto, ad oggetto un intervento di “restauro conservativo con cambio di destinazione d’uso da scolastico a residenziale” (cfr. docc. 7 e 8 della produzione del Comune).
Ciò posto, occorre rammentare che il cambio destinazione uso, anche se attuato senza la realizzazione di opere edilizie, comporta l'obbligo di corrispondere al Comune il contributo di costruzione di cui all'art. 16, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per la quota-parte commisurata agli oneri di urbanizzazione ed in misura rapportata alla differenza tra quanto dovuto per la nuova destinazione rispetto a quella già in atto, allorquando la nuova destinazione sia idonea a determinare un aumento quantitativo e/o qualitativo del carico urbanistico della zona, inteso come rapporto tra insediamenti e servizi.
In termini: “Gli oneri concessori, con particolare riguardo alla parte correlata agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, hanno la chiara funzione di contribuire alle spese da sostenere dalla collettività in riferimento alla realizzazione delle relative opere, sicché l’unico criterio per determinare se essi siano dovuti o meno e in che misura consiste nel valutare il carico urbanistico derivante dall’attività edilizia, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelli esistenti (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2018, n. 2694).
In linea di diritto, cioè, mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento alla trasformazione del territorio consentita al privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione «assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti» (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n. 2294)
” (cfr., di recente, Cons. St., Sez. II, 27.04.2021, nr. 4633).
Il Collegio ritiene che, nel caso di specie, risulti indimostrato che in dipendenza del mutamento della destinazione d’uso impressa all’immobile, si sia determinato a carico della zona di riferimento un aumento del carico urbanistico, dovendosi, piuttosto, ritenere il contrario: ed infatti, l’edificio, in precedenza adibito dapprima a scuola materna e quindi a scuola superiore, è stato in seguito convertito a uso residenziale di un unico nucleo familiare di tre componenti (cfr. doc. 8 della produzione di parte ricorrente).
E’ ragionevole ritenere che, nel mutamento, si sia determinato un utilizzo di minore intensità delle opere di urbanizzazione e delle infrastrutture a servizio della collettività; in senso conforme è possibile richiamare un precedente arresto di giurisprudenza reso in relazione a fattispecie analoga: “Il passaggio dalla precedente destinazione direzionale a quella residenziale non può che aver condotto a una consistente diminuzione del carico urbanistico dell’immobile di proprietà (..), inteso come peso sul tessuto urbano e sui servizi di zona, a partire dal traffico veicolare e dalla connessa necessità di disporre di parcheggi nelle aree antistanti o prossime all'immobile: per questo profilo, è infatti innegabile che la presenza nell’edificio di una scuola privata che faceva registrare un afflusso giornaliero di circa cento persone abbia un impatto superiore rispetto a quella di due nuclei familiari. A fronte del sicuro decremento di carico urbanistico determinato dal mutamento di destinazione, non vi sono invece elementi obiettivi per sostenere che l’asserita, contestuale divisione dell’immobile stesso in due abitazioni giustifichi comunque l’onerosità dell’intervento a causa delle sue ricadute sulle dotazioni di standard urbanistici” (cfr. Tar Toscana, Sez. III, 17.10.2019, nr. 1587).
2. Alla luce di quanto precede il ricorso deve essere accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato e condanna dell’Amministrazione resistente alla restituzione di quanto versato dal ricorrente a titolo di oneri di urbanizzazione per il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile “Villa ...” in San Donà di Piave alla via ... n. ... (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.07.2021 n. 914 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeve ricordarsi che le disposizioni in materia di commercio implicano uno stretto collegamento tra la programmazione commerciale e la pianificazione urbanistica, con la conseguenza che l’apertura di esercizi commerciali presuppone la conformità dei relativi locali alle prescrizioni urbanistiche.
Più precisamente, la normativa commerciale (D.lgs 114/1998, Legge 287/1991 e D.lgs n. 59/2010) prescrive, quanto ai requisiti oggettivi che devono sussistere per il rilascio delle relative autorizzazioni, che le attività devono essere esercitate, tra l’altro, nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia e urbanistica, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici.
Gli assunti che precedono non possono in alcun modo giustificare la conclusione che l’assentimento dell’attività commerciale implichi anche l’assentimento alla modifica dei locali dal punto di vista edilizio.
Nonostante la stretta relazione tra i due ambiti, deve ritenersi che il titolo commerciale non può assorbire le valutazioni strettamente connesse al rispetto della disciplina urbanistica, che, viceversa, devono essere vagliate secondo le specifiche procedure a tal fine previste dalla legge, per sfociare, se del caso, in specifici titoli corrispondenti ai diversi interventi, così come prestabiliti dall’ordinamento.
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Il mutamento di destinazione d’uso di un fabbricato ha per effetto il passaggio da una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico ad un’altra e si traduce in un differente carico urbanistico, con la precisazione che lo stesso a volte avviene senza la realizzazione di opere a seguito del mero mutamento d’uso dell’immobile, altre volte si caratterizza per la realizzazione di quelle opere in assenza delle quali l’immobile non può soddisfare quella diversa funzionalità che comporta il trapasso da una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico ad un’altra; di conseguenza, il mutamento di destinazione d’uso riguarda, quindi, un immobile individuato e può avere corso solo nel rispetto della disciplina urbanistica vigente.
Il presupposto del mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante ai fini dell’eventuale adozione della sanzione è che l’uso diverso comporti un maggior peso urbanistico effettivamente incidente sul tessuto urbano.
L'aggravio di servizi -quali, ad esempio, il pregiudizio alla viabilità ed al traffico ordinario nella zona, il maggior numero di parcheggi nelle aree antistanti o prossime l’immobile- è l’ubi consistam del mutamento di destinazione che giustifica la repressione dell’alterazione del territorio in conseguenza dell’incremento del carico urbanistico come originariamente divisato, nella pianificazione del tessuto urbano, dall’Amministrazione locale e su queste basi, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è soltanto quello intervenuto tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, come accade nel passaggio dalla destinazione industriale a quella commerciale.

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7 – L’appello avverso tale pronuncia deve trovare accoglimento nei limiti di seguito precisati.
Preliminarmente, è utile richiamare il contenuto dell’atto impugnato. Nella nota del 24.10.2018 n. 15572, si legge: “Da sopralluogo effettuato in data 10.10.2018, da personale del settore tecnico e della Polizia Locale, si è riscontrato che le opere edilizie sono conformi a quelle autorizzate. Nel contempo si è accertato che l’attività svolta consistente in un caseificio artigianale con vendita del prodotto che, pur se non conforme a quanto autorizzato con i titoli sopra richiamati, è conforme alle previsioni urbanistiche della zona. Alla luce di quanto sopra evidenziato si ritiene che tale difformità non si configura come abuso – non comporta una variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale 1444/1968 ossia dei carichi urbanistici relativi alla zona omogenea in questione; - che non essendo state eseguite opere in difformità ai titoli edilizi sopra citati il mutamento della destinazione d’uso costituisce espressione della facoltà di godimento quale concreta proiezione dello jus utenti spettante al proprietario che, diversamente dallo jus aedificandi, non rientra nella disciplina urbanistico-edilizia generale”.
E’ la stessa amministrazione a confermare inconfutabilmente la prospettazione dell’appellante, e cioè che i titoli edilizi relativi all’immobili non contemplano un utilizzo produttivo dei locali.
7.1 – La riscontrata difformità, contrariamente all’assunto del Giudice di primo grado, che ha escluso la natura abusiva del cambio di destinazione d’uso valorizzando la SCIA del 31/07/2017, non può essere superata da quest’ultimo atto. Invero, la SCIA è stata presentata ad altri fini, ovvero per intraprendere l’attività dal punto di vista commerciale.
E’ pacifico che tale atto non si riferisce all’aspetto urbanistico-edilizio, presupponendo, come è tipico di ogni titolo legittimante l’attività commerciale, la regolarità edilizia dei locali rispetto all’attività che il richiedente si propone di svolgere (trasformazione del latte in prodotti caseari e vendita di prodotti caseari).
Deve ricordarsi che le disposizioni in materia di commercio implicano uno stretto collegamento tra la programmazione commerciale e la pianificazione urbanistica, con la conseguenza che l’apertura di esercizi commerciali presuppone la conformità dei relativi locali alle prescrizioni urbanistiche (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23.01.2001; Cons. Stato, sez. IV, 27.04.2004).
Più precisamente, la normativa commerciale (D.lgs 114/1998, Legge 287/1991 e D.lgs n. 59/2010) prescrive, quanto ai requisiti oggettivi che devono sussistere per il rilascio delle relative autorizzazioni, che le attività devono essere esercitate, tra l’altro, nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia e urbanistica, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici.
Gli assunti che precedono non possono in alcun modo giustificare la conclusione che l’assentimento dell’attività commerciale implichi anche l’assentimento alla modifica dei locali dal punto di vista edilizio. Nonostante la stretta relazione tra i due ambiti, deve ritenersi che il titolo commerciale non può assorbire le valutazioni strettamente connesse al rispetto della disciplina urbanistica, che, viceversa, devono essere vagliate secondo le specifiche procedure a tal fine previste dalla legge, per sfociare, se del caso, in specifici titoli corrispondenti ai diversi interventi, così come prestabiliti dall’ordinamento.
Per scrupolo, deve precisarsi che, nel caso di specie, non è neppure possibile configurare una sorta di titolo edilizio implicito, dovendosi al riguardo osservare che si è al cospetto di una SCIA, ovvero di un atto del privato, e non di un provvedimento amministrativo, da cui l’impossibilità di desumere una sopposta volontà dell’amministrazione circa l’assentimento al mutamento della destinazione d’uso dal punto di vista edilizio.
Così circoscritta la valenza e l’efficacia della SCIA del 31/07/2017 ed escluso che la stessa possa svolgere la funzione di titolo edilizio legittimante il cambio di destinazione d’uso dei locali da commerciali a produttivi, perdono di ogni consistenza gli argomenti del TAR con i quali si prospetta la necessità di intervenire in autotutela sulla predetta SCIA, nei modi e nei limiti a tal fini previsti dalla legge, sicché il cambio di destinazione non potrebbe considerarsi abusivo fino a che permangono gli effetti della SCIA.
7.2 – Per indagare la natura illegittima del cambio di destinazione d’uso denunciato deve invece aversi riguardo ai relativi titoli edilizi, dai quali, per quanto ammesso dalla stessa amministrazione, non emerge l’assentimento dello svolgimento dell’attività di produzione nei locali in questione.
In proposito, l’art. 23-ter del DPR n. 380/2001, aggiunto dall’art. 17, comma 1, lett. n), D.L. n. 133/2014 conv. nella L. n. 164/2014, al comma 1 qualifica come “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante, ancorché non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie”, quello dalla categoria “commerciale” a quella “produttiva”, ed al comma 2 puntualizza che “la destinazione d’uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile”.
Anche la giurisprudenza ha chiarito che il mutamento di destinazione d’uso di un fabbricato ha per effetto il passaggio da una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico ad un’altra e si traduce in un differente carico urbanistico, con la precisazione che lo stesso a volte avviene senza la realizzazione di opere a seguito del mero mutamento d’uso dell’immobile, altre volte si caratterizza per la realizzazione di quelle opere in assenza delle quali l’immobile non può soddisfare quella diversa funzionalità che comporta il trapasso da una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico ad un’altra; di conseguenza, il mutamento di destinazione d’uso riguarda, quindi, un immobile individuato e può avere corso solo nel rispetto della disciplina urbanistica vigente (ex multis Consiglio di Stato, sez. V, 30/06/2014, n. 3279).
Il presupposto del mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante ai fini dell’eventuale adozione della sanzione è che l’uso diverso comporti un maggior peso urbanistico effettivamente incidente sul tessuto urbano; - l’aggravio di servizi -quali, ad esempio, il pregiudizio alla viabilità ed al traffico ordinario nella zona, il maggior numero di parcheggi nelle aree antistanti o prossime l’immobile- è l’ubi consistam del mutamento di destinazione che giustifica la repressione dell’alterazione del territorio in conseguenza dell’incremento del carico urbanistico come originariamente divisato, nella pianificazione del tessuto urbano, dall’Amministrazione locale e su queste basi, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è soltanto quello intervenuto tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, come accade nel passaggio dalla destinazione industriale a quella commerciale (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI, 25/09/2017, n. 4469).
Alla luce delle considerazioni che precedono, deve concludersi che il cambio di destinazione d’uso in questione –da commerciale a produttivo- richiedeva uno specifico titolo edilizio, che nel caso di specie non sussiste, con la conseguenza che la modifica di destinazione d’uso è abusiva e, in quanto tale, deve essere sanzionata nelle forme di legge da parte del Comune.
7.3 – Non può portare ad un diverso esito l’inciso contenuto nel provvedimento impugnato, ove si legge che “pur se non conforme a quanto autorizzato con i titoli sopra richiamati, è conforme alle previsioni urbanistiche della zona”, posto che all’assenza del titolo edilizio consegue l’illegittimità dell’intervento, indipendentemente dalla sua conformità alla disciplina sostanziale.
Tale aspetto, se del caso, ben può costituire il presupposto per la sanatoria dell’intervento, ma non legittima di per sé il cambio di destinazione privo della necessaria autorizzazione.
Deve infatti ricordarsi che l’eventuale (allo stato indimostrata) legittimità sostanziale della modifica posta in essere, in rapporto al regime dell’area, deve necessariamente essere valutata nell’ambito di un procedimento di sanatoria. Tanto si evince dall’art. 31 e dall’art. 27 del DPR n. 380/2001, che impongono all’amministrazione comunale di reprimere l’abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dall’art. 36, che rimette all’esclusiva iniziativa del privato l’attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica.
Sarà in quella sede che, se del caso, il Comune valuterà l’esatta portata degli artt. 13, comma 2, e 16, comma 1, del vigente Regolamento Urbanistico -che in base alla prospettazione di parte appellante precluderebbero, anche dal punto di vista sostanziale, l’assentimento del cambio di destinazione d’uso- non potendosi pertanto esaminare in questa sede la questione prima che sulla stessa si sia espressa l’amministrazione, pena il rischio di violare il disposto di cui all’art. 34, comma 2, del c.p.a. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.06.2021 n. 4940 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d’uso.
Il TAR Brescia osserva che gli articoli 51 e 52 della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 hanno previsto un regime di sostanziale liberalizzazione delle destinazioni d’uso, per il quale il passaggio a un diverso tipo di utilizzazione deve ritenersi sempre ammissibile, in mancanza di espressi divieti contenuti nello strumento urbanistico.
La liberalizzazione delle destinazioni d’uso non assicura peraltro che il passaggio dall’una all’altra avvenga a titolo gratuito.
In base alla normativa regionale perché si possa avere un mutamento di destinazione d’uso senza costi per il privato sono necessarie tre condizioni: che il cambio sia senza opere, che la nuova destinazione d'uso non alteri il fabbisogno di standard, che siano decorsi almeno 10 anni dell'ultimazione dei lavori
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.06.2021 n. 578 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3. Il ricorso assunto al N.R.G. 1286/2014 censura i provvedimenti con i quali l’amministrazione comunale ha diffidato i proprietari delle tre indicate unità a mutarne la destinazione d’uso da produttiva a direzionale/servizi, allegando che in virtù della convenzione urbanistica originaria gli standard sono stati versati solo nella misura del 20% della s.l.p., dovuta per gli immobili a destinazione produttiva, che la nuova funzionalizzazione richiede standard nella misura del 100% della s.l.p. (ai sensi degli articoli 23, 44 e 46 delle Nta del piano delle regole) e che quindi è dovuto il versamento del differenziale.
4. Va anzitutto dichiarata l’inammissibilità del gravame con riferimento al sub 701, atteso che il proprietario Gi.Sp. non ha proposto impugnativa.
5. Con riferimento ai restanti subalterni il ricorso è ammissibile limitatamente ai profili di interesse dei rispettivi proprietari.
6. L’amministrazione resistente ha precisato che non è mai stata in contestazione la possibilità di mutare la destinazione dei subalterni, risultando il nuovo utilizzo compatibile con le norme urbanistiche.
7. La nuova destinazione risulta pertanto legittima, atteso tra l’altro che gli articoli 51 e 52 della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 hanno previsto un regime di sostanziale liberalizzazione delle destinazioni d’uso, per il quale il passaggio a un diverso tipo di utilizzazione deve ritenersi sempre ammissibile, in mancanza di espressi divieti contenuti nello strumento urbanistico.
L’articolo 51, in particolare, prevede al comma 1 che “Costituisce destinazione d'uso urbanistica di un'area la funzione o il complesso di funzioni ammesse dagli strumenti di pianificazione. Ferma restando, per i profili edilizi, la destinazione d'uso prevalente ai sensi dell'articolo 23-ter, comma 2, del D.P.R. 380/2001, è principale la destinazione d'uso qualificante l'area; è complementare o accessoria o compatibile qualsiasi ulteriore destinazione d'uso che integri o renda possibile la destinazione d'uso principale o sia prevista dallo strumento urbanistico generale a titolo di pertinenza o custodia. In particolare, sono sempre considerate tra loro urbanisticamente compatibili, anche in deroga a eventuali prescrizioni o limitazioni poste dal PGT, le destinazioni residenziale, commerciale di vicinato e artigianale di servizio, nonché le destinazioni direzionale e per strutture ricettive fino a 500 mq di superficie lorda. Le destinazioni principali, complementari, accessorie o compatibili, come sopra definite, possono coesistere senza limitazioni percentuali ed è sempre ammesso il passaggio dall'una all'altra, nel rispetto del presente articolo, salvo quelle eventualmente escluse dal PGT. (…)”.
8. La liberalizzazione delle destinazioni d’uso non assicura peraltro che il passaggio dall’una all’altra avvenga a titolo gratuito. In base alla normativa regionale perché si possa avere un mutamento di destinazione d’uso senza costi per il privato sono necessarie tre condizioni: che il cambio sia senza opere, che la nuova destinazione d'uso non alteri il fabbisogno di standard, che siano decorsi almeno 10 anni dell'ultimazione dei lavori (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 02.03.2021, n. 206; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 17.06.2015, n. 855).
9. La modifica del fabbisogno di standard e quindi il carico urbanistico della nuova destinazione e l’eventuale incremento rispetto a quella precedente vanno verificati non già in base a principi generali, bensì in ragione delle specifiche previsioni urbanistiche comunali.

EDILIZIA PRIVATA: È assodato in giurisprudenza che “nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza”.
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Come riferito dal CTU, il Comune ha ravvisato nel 2016 un cambio di destinazione d’uso dei locali “soffitta” in chiave abitativa, con predisposizione dell’impianto di riscaldamento, dell’area condizionata e degli impianti per i bagni. I “solai” risultano anche essere stati rifiniti con pavimenti e intonaci.
Ciò detto, si deve concludere che tale conformazione del solaio ne impone il computo, ai fini dell’altezza, in relazione all’art. 9.3 delle NTA già citato, atteso che questi ultimi costituiscono “ultimo piano abitabile” ai sensi di tale normativa, laddove l’abitabilità va considerata non con riferimento all’osservanza di tutti i parametri edilizi pertinenti, ma alla fruibilità e alla vocazione abitativa del sottotetto, posto che “a seconda dell'altezza, della praticabilità del solaio, delle modalità di accesso e dell'esistenza o meno di finestre” “la realizzazione di un locale sottotetto con vani (distinti e) comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna è indice rivelatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati”.
Difatti, “quando una costruzione abbia raggiunto o sia poco al di sotto dell'altezza massima consentita a un edificio, non è consentita una qualificazione negativa (nel senso che non si computa a fini di altezza) del sottotetto, che, per le caratteristiche di sostanziale identità con quelle delle abitazioni sottostanti, si traduca in un sostanziale innalzamento dell'edificio assentito in elusione della stessa normativa invocata sull'utilizzazione dei sottotetti per finalità abitative non stabili”.
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8. Fondato è altresì il terzo motivo di ricorso, concernente la violazione del regime delle altezze degli edifici.
La ricorrente deduce, per tale profilo, l’inosservanza sia dell’art. 8 del DM 1444/1968, sia dell’art. 54.4 del PRG del Comune di Fiumicino.
Quest’ultime disposizioni stabiliscono che l’altezza massima dei nuovi edifici non possa essere superiore a quella degli edifici preesistenti e circostanti (cfr. art. 8, quanto alla zona B), mentre la ricorrente deduce che questi ultimi hanno un’altezza di soli 4 mt, contro i circa 11 mt del nuovo palazzo.
Nel caso di specie, la prima CTU, senza soffermarsi sull’altezza degli edifici circostanti, ha accertato che il permesso di costruire impugnato non ha calcolato, ai fini dell’altezza, i locali adibiti in progetto a “solaio”, le cui caratteristiche costruttive avrebbero dovuto invece imporre che essi fossero computati. Ciò ha comportato che il nuovo edificio abbia superato anche l’altezza degli immobili demoliti e ricostruiti.
Quest’ultima è stata determinata in mt. 11,00, mentre l’altezza della nuova palazzina è pari a mt 11,60, incluse le soffitte al colmo.
8.1 Con riferimento a queste ultime, la controinteressata ha sostenuto che esse non debbano venire computate, quanto all’altezza dell’edificio, in forza dell’art. 9.3 delle NTA vigenti, secondo il quale, nei casi in cui le falde del tetto abbiano una pendenza non superiore al 35% e la linea di colmo sia posta non oltre m 2,80 sopra l’estradosso del solaio di copertura dell’ultimo piano abitabile, l’altezza si misura dalla quota del marciapiede latistante la fronte medesima alla linea di gronda dell’edificio.
Tuttavia, in linea di diritto, e come sostenuto dalla ricorrente, nel caso di specie i solai vanno calcolati ai fini di determinare l’altezza raggiunta.
Sono perciò da disattendere i calcoli offerti con il supplemento di CTU, che, ancora una volta ribaltando le conclusioni ben più motivate alle quali il consulente era pervenuto in prima istanza, hanno ritenuto di escludere i solai dal calcolo dell’altezza.
È infatti assodato in giurisprudenza che “nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza” (ex plurimis, Cons. Stato, sez. II, n. 8835 del 2019).
È quanto si è verificato nel caso di specie: lo stesso CTU ha verificato che i cd solai solai rivestono, viceversa, il carattere di ambiente nella sostanza abitabile, al punto che essi sono collegati con scale interne agli appartamenti sottostanti (elemento che il CTU, a pag. 22 della prima consulenza, ha accertato essere già indicato nel progetto originario, cosicché l’omessa considerazione di esso rende illegittimo il conseguente titolo abilitativo) e sono dotati di finestre “idonee a garantire un sufficiente apporto di luce e aria”, con una non trascurabile altezza, indicata dalla ricorrente in mt 2,20 (il CTU ha altresì rilevato che la controinteressata ha “inizialmente” accatastato i locali soffitta a categoria C/2, uso abitativo, sicché l’accatastamento a superficie accessoria non abitabile dell’ottobre 2016, di cui si dà conto nel supplemento di istruttoria, deve reputarsi posteriore).
Fermo, quindi, che le caratteristiche strutturali dei cd. solai depongono per l’utilizzabilità abitativa della relativa superficie, va poi rimarcato che, nei fatti, tali caratteristiche sono state appunto sfruttate in tali termini, posto che (come riferito dal CTU) il Comune di Fiumicino ha ravvisato nel 2016 un cambio di destinazione d’uso dei locali “soffitta” in chiave abitativa, con predisposizione dell’impianto di riscaldamento, dell’area condizionata e degli impianti per i bagni. I “solai” risultano anche essere stati rifiniti con pavimenti e intonaci.
8.2 Ciò detto, si deve concludere che tale conformazione del solaio ne avrebbe imposto il computo, ai fini dell’altezza, in relazione all’art. 9.3 delle NTA già citato, atteso che questi ultimi costituiscono “ultimo piano abitabile” ai sensi di tale normativa, laddove l’abitabilità va considerata non con riferimento all’osservanza di tutti i parametri edilizi pertinenti, ma alla fruibilità e alla vocazione abitativa del sottotetto, posto che “a seconda dell'altezza, della praticabilità del solaio, delle modalità di accesso e dell'esistenza o meno di finestre” (tutti elementi già valutati supra) “la realizzazione di un locale sottotetto con vani (distinti e) comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna è indice rivelatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati” (ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV. n. 812 del 2011).
Difatti, “quando una costruzione abbia raggiunto o sia poco al di sotto dell'altezza massima consentita a un edificio, non è consentita una qualificazione negativa (nel senso che non si computa a fini di altezza) del sottotetto, che, per le caratteristiche di sostanziale identità con quelle delle abitazioni sottostanti, si traduca in un sostanziale innalzamento dell'edificio assentito in elusione della stessa normativa invocata sull'utilizzazione dei sottotetti per finalità abitative non stabili” (Cons. Stato, sez. VI, n. 2826 del 2014).
In definitiva, il permesso di costruire è illegittimo, anche perché è stato assentito un edificio più alto di quanto consentito dalla legge.
8.3 L’atto impugnato va perciò annullato, non residuando alcun interesse all’annullamento del diniego comunale di agire in autotutela, anch’esso qui censurato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 05.03.2021 n. 2763 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio, richiamando i principi giurisprudenziali consolidatisi nella materia, intende premettere che:
   a) ai sensi dell’art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito dall’art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del 1968;
   b) l’aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di modifica della destinazione funzionale dell’immobile, ma anche nel caso in cui, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti;
   c) pertanto il mutamento di destinazione d’uso, sia con che senza opere, giuridicamente rilevante, ossia quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, influisce in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, carico da intendersi come rapporto di proporzione quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una determinata zona territoriale.
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6. Con il primo motivo l’appellante lamenta l’erroneità dell’impugnata pronuncia nell’aver confutato la posizione dell’Amministrazione comunale che aveva subordinato il cambio di destinazione dell’immobile da “terziario direzionale” a “residenziale”, chiedendo la cessione “dell’integrale dotazione di standard” a servizio della destinazione residenziale, così non considerando le superfici a standard, che in fase di realizzazione dell’edificio come terziario, erano già state asservite con l’imposizione di un vincolo di destinazione, stante la differenza e la non assimilabilità tra le due tipologie di standard.
Ad avviso del Comune l’intervento de quo sarebbe sottoposto alla disciplina di cui alla delibera c.c. n. 31/2015, che, in attuazione della legge regionale della Puglia n. 16 del 07.04.2014, ha definito le zone di attuazione per tali mutamenti di destinazione d’uso ed ha, al contempo, definito le condizioni di applicabilità.
A tal ultimo riguardo, si fa notare che l’art. 39 delle NTA del PRG di Bari dispone che “A norma dell’art. 5, comma 1°, n. 2 del D.M. 02.04.1968 devono essere “previsti” spazi, escluse le sedi viarie, in misura non inferiore a 80 mq. per 100 mq. di superficie lorda di pavimento con destinazione terziario-direzionale; inoltre, devono essere “reperiti” i servizi di quartiere per gli abitanti insediati, nella misura di 20 mq. per abitante, se la zona è parzialmente utilizzata per destinazioni residenziali….”.
Ne consegue che gli standard “residenziali” e quelli del “terziario direzionale” non potrebbero essere assimilati essendo di fatto legati a concetti completamente differenti e pertanto non si potrebbe procedere tra di essi allo scomputo.
6.1. La censura non è fondata.
6.2. Il Collegio, al riguardo, richiamando i principi giurisprudenziali consolidatisi nella materia (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2018, n. 6388), intende premettere che:
   a) ai sensi dell’art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito dall’art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del 1968;
   b) l’aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di modifica della destinazione funzionale dell’immobile, ma anche nel caso in cui, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti;
   c) pertanto il mutamento di destinazione d’uso, sia con che senza opere, giuridicamente rilevante, ossia quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, influisce in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, carico da intendersi come rapporto di proporzione quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una determinata zona territoriale.
Del resto, in maniera sostanzialmente conforme è disciplinato il mutamento di destinazione d’uso dalla legge regionale Puglia n. 16/2014, recante “Modifiche e integrazioni alla legge regionale 15.11.2007, n. 33 (Recupero dei sottotetti, dei porticati, di locali seminterrati e interventi esistenti e di aree pubbliche non autorizzate)”, dalla delibera del Consiglio comunale del Comune di Bari n. 31/2015, che ha recepito detta legge regionale, e dalla legge regionale Puglia n. 48/2017 (art. 4) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in esame (“terziario direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già garantiti.
Invero, a tali fini, si osserva che:
   a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli “insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”;
   b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle a uso terziario;
   c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento urbanistico generale del Comune tra “previsti” e “reperiti”, essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale omogeneità concettuale esistente tra essi;
   d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico al privato;
   e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale” e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”, che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre, solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero.
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6.3. Ciò premesso, in ordine alla specifica questione oggetto della controversia, è corretto rilevare, come fatto dal primo giudice, che, sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in esame (“terziario direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già garantiti.
6.3.1. Invero, a tali fini, si osserva che:
   a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli “insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”;
   b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle a uso terziario;
   c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento urbanistico generale del Comune di Bari tra “previsti” e “reperiti”, essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale omogeneità concettuale esistente tra essi;
   d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico al privato;
   e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
6.3.2. In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale” e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”, che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre, solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero. E, nel caso che qui occupa, non è in contestazione che l’edificio preesistente già disponesse della quota di standard richiesta per la sua originaria destinazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2020

EDILIZIA PRIVATA: E' pervenuta al Comune una proposta progettuale concernente il cambio di destinazione d'uso da deposito a distribuzione commerciale all'ingrosso.
L'edificio oggetto della richiesta, avendo destinazione d'uso "deposito" usufruisce dell'esenzione dal pagamento del costo di costruzione (art. 19, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) per le attività produttive/artigianali.
Si chiede se, ai sensi dell'art. 23-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e dell'art. 4, L.R. Puglia 16.04.2015, n. 24, l'attività di commercio all'ingrosso sia da considerarsi produttiva di un mutamento della categoria funzionale di appartenenza (nella specie, da produttiva/artigianale a commerciale, precisando, tra l'altro, che l'intervento proposto non sarebbe urbanisticamente rilevante in quanto la superficie oggetto del cambio d'uso è nettamente inferiore al 50% della superficie totale del capannone, che resta ad uso deposito/logistica e quindi produttiva).

Al fine di dare adeguata risposta al quesito giova precisare quanto segue.
Preliminarmente occorre affrontare la questione di principio sottesa al concetto di cambio di destinazione e per farlo pare opportuno richiamare alcuni chiarimenti forniti dalla Giurisprudenza in materia.
Il cambio destinazione uso, anche se attuato senza la realizzazione di opere edilizie, comporta l'obbligo di corrispondere al Comune il contributo di costruzione di cui all'art. 16, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per la quota-parte commisurata agli oneri di urbanizzazione ed in misura rapportata alla differenza tra quanto dovuto per la nuova destinazione rispetto a quella già in atto, allorquando la nuova destinazione sia idonea a determinare un aumento quantitativo e/o qualitativo del carico urbanistico della zona, inteso come rapporto tra insediamenti e servizi.
Il mutamento di destinazione uso comporta di per sé che la quota parte relativa al costo di costruzione è comunque dovuta "...anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons. Stato, Sez. IV, 03.09.2014, n. 4483).
Pertanto, alla luce di quanto sopra, nel caso di specie è indubbio che il cambio di destinazione d'uso da deposito a distribuzione commerciale all'ingrosso "si rivela produttivo di vantaggi economici connessi" (per usare l'espressione giurisprudenziale sopra citata) e quindi ad avviso di chi scrive comporta l'obbligo di pagare il relativo importo afferente al contributo di costruzione.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 16
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato, Sez. IV, 03.09.2014, n. 4483
(27.07.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

EDILIZIA PRIVATA: Laddove il cambio di categoria edilizia determina un ulteriore carico urbanistico, risulta irrilevante verificare se tale modifica sia avvenuta con l’effettuazione di opere edilizie.
In materia edilizia, l’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444; “il mutamento di destinazione d’uso di un fabbricato che determini, dal punto di vista urbanistico, il passaggio tra diverse categorie in rapporto di reciproca autonomia funzionale, comporta inevitabilmente un differente carico ed un maggiore impatto urbanistico, anche se nell’ambito di zone territoriali omogenee, da valutare in relazione ai servizi e agli standard ivi esistenti”.

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6. A questo punto, per ragioni di economia processuale, appare opportuno procedere allo scrutinio della terza censura di tutti i ricorsi, attraverso la quale si contesta l’applicabilità dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, considerata l’assenza dei suoi presupposti applicativi –(i) interventi in assenza del permesso di costruire, (ii) opere in difformità rispetto al permesso e (iii) opere eseguite con variazioni essenziali al titolo edilizio– e avuto riguardo, in ogni caso, all’inapplicabilità dell’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale non essendo i ricorrenti responsabili dell’abuso.
6.1. La doglianza è infondata.
Come è stato evidenziato in precedenza, i ricorrenti (o il loro dante causa) hanno destinato abusivamente a locali abitabili i sottotetti della Palazzina C che erano destinati a locali sgombero, senza permanenza di persone. Un tale mutamento di destinazione d’uso, a prescindere dalla circostanza che sia stato accompagnato da opere edilizie, ha certamente modificato i parametri edilizi della costruzione (aumento di altezze e della volumetria), comportando un non indifferente aggravio del carico urbanistico, e quindi avrebbe dovuto essere assistito da idoneo titolo abilitativo. Difatti, laddove il cambio di categoria edilizia determina un ulteriore carico urbanistico, risulta irrilevante verificare se tale modifica sia avvenuta con l’effettuazione di opere edilizie (TAR Campania, Salerno, II, 08.03.2013, n. 580).
In materia edilizia, l’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444 (TAR Lombardia, Milano, II, 04.07.2019, n. 1529; 27.07.2012, n. 2146; TAR Valle d’Aosta, 16.11.2016, n. 55; TAR Veneto, II, 21.08.2013, n. 1078); “il mutamento di destinazione d’uso di un fabbricato che determini, dal punto di vista urbanistico, il passaggio tra diverse categorie in rapporto di reciproca autonomia funzionale, comporta inevitabilmente un differente carico ed un maggiore impatto urbanistico, anche se nell’ambito di zone territoriali omogenee, da valutare in relazione ai servizi e agli standard ivi esistenti” (Consiglio di Stato, VI, 20.11.2018, n. 6562).
Va specificato che contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso R.G. n. 1859/2019, la predetta abusiva trasformazione non può nemmeno essere ricondotta nello spettro applicativo della ristrutturazione edilizia –con le connesse sanzioni ai sensi dell’art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001– di cui all’art. 64 della legge regionale n. 12 del 2005, relativo al recupero dei sottotetti, in quanto non è stata verificata la sussistenza dei suoi presupposti applicativi, compreso l’avvenuto decorso del periodo minimo –oggi triennale– che deve intercorrere dalla data di conseguimento dell’agibilità del fabbricato al recupero del sottotetto (cfr. art. 63, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005).
Ne consegue la legittima applicazione dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, che tuttavia non esclude la possibilità per i ricorrenti di richiedere l’accertamento di conformità, ove dovessero sussistere i presupposti di cui al successivo art. 36 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.06.2020 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione d’uso funzionale alla realizzazione di un centro di accoglienza per migranti – Conformità alla normativa urbanistica di riferimento – Necessità – Art. 11 d.lgs. n. 142/2015.
La modificazione della destinazione d’uso presuppone la sua conformità alla normativa urbanistica di riferimento, a cui non è consentito derogare nemmeno se il cambio di destinazione d’uso è funzionale a realizzare nel fabbricato un centro di accoglienza per migranti richiedenti asilo.
La normativa di cui al D.Lgs. n. 142/2015 (e in particolare l’art. 11) e quella urbanistico-edilizia, operano infatti su piani distinti senza interferire tra loro, posto che la prima regola i profili dell’accoglienza dei migranti richiedenti asilo e la seconda quelli concernenti il governo del territorio attraverso prescrizioni idonee a consentirne la corretta e ordinata utilizzazione.
Ne consegue che l’art. 11, laddove prevede che in caso di necessità i migranti possano essere accolti “in strutture temporanee appositamente allestite”, non presenta alcun elemento ermeneutico che consenta di ritenere che l’allestimento ivi contemplato possa avvenire in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia di riferimento
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.03.2020 n. 1753 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mutamento di destinazione d’uso senza opere dal settore terziario a quello residenziale.
Il mutamento di destinazione d’uso richiesto da parte ricorrente comporta il passaggio a una tipologia costruttiva più gravosa in termini di carico urbanistico, dal settore terziario a quello residenziale. Tale mutamento, cioè, si sostanzia in un cambio di destinazione d’uso tra categorie autonome, comportante un aumento quantitativo e qualitativo degli “standards”.
In via generale, l’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 (Testo unico dell’edilizia) –introdotto dal D.L. n. 123/2014 (c.d. decreto “Sblocca Italia”)– individua i mutamenti nella destinazione d’uso di un immobile da ritenere urbanisticamente rilevanti e che pertanto necessitano di uno specifico titolo abilitativo edilizio.
Di modo che, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, “ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie”, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati a una diversa categoria funzionale tra quelle “residenziale”, “turistico-ricettiva”, “produttiva e direzionale”, “commerciale” e “rurale”.
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In linea di principio deve osservarsi che ove non si autorizzi ex novo una costruzione a uso residenziale ma si realizzi un mutamento di destinazione d’uso senza opere, cioè meramente funzionale, dovrà tenersi conto -nella quantificazione degli oneri- degli stardards già garantiti; giacché, diversamente opinando, si determinerebbe un ingiustificato aggravio a carico dei richiedenti e un indebito arricchimento a vantaggio del Comune, dovendo individuarsi la finalità degli obblighi di cessione nell’esigenza di un corretto e ordinato svolgimento del tessuto edificato nei limiti prescritti dallo stesso Ente comunale in sede di pianificazione urbanistica.
È significativo rammentare in proposito che –per unanime giurisprudenza- gli Enti locali hanno l’obbligo di motivare l’imposizione di standards in misura superiore al minimo garantito dal D.M. n. 1444/1968.
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Dal combinato disposto degli artt. 16, commi 1, 3 e 10, 19, comma 2, e 23 del D.P.R. n. 380/2001, emerge con chiarezza che il costo di costruzione, nel caso di interventi su edifici esistenti, è determinato in relazione agli interventi stessi, come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire.
Nel caso di specie, siamo in presenza di un cambio di destinazione d’uso funzionale (senza opere edilizie) dell’unità immobiliare in discussione, senza che ricorrano interventi di ristrutturazione, di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica; sicché –alla stregua del combinato disposto delle norme su richiamate- il costo di costruzione non è dovuto, poiché, in effetti, non vi è alcuna costruzione.

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1 - Con ricorso notificato in data 22.07.2016, la dott.ssa -OMISSIS- -OMISSIS- ha impugnato la nota a firma del Direttore del Settore S.U.E. -in epigrafe meglio specificata- recante divieto di prosecuzione delle attività di cui alla S.C.I.A. in data 02.05.2016, per asserita omissione degli adempimenti indicati nella deliberazione di C.C. n. 31/2015 (di recepimento della L.R. n. 16/2014).
Trattasi di intervento di mutamento di destinazione d’uso senza opere, in relazione all’unità immobiliare sita in Bari, al corso -OMISSIS-, realizzata in attuazione di un piano di lottizzazione in area tipizzata come “Zona per attività terziaria”. L’Amministrazione comunale subordina la prosecuzione dell’intervento in questione al reperimento della totalità degli standards prescritti dall’art. 3 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la destinazione a uso residenziale.
Più precisamente, si legge nella citata nota comunale che “detta delibera di Consiglio Comunale (n.d.r. la n. 31/15) prevede:
   a) il reperimento delle superfici destinate a standard per la residenza come previsti, per la nuova destinazione, dal D.M. n. 1444 del 1968, dallo strumento urbanistico vigente o l’importo dovuto per la loro monetizzazione ove non sia possibile reperirli nelle immediate vicinanze;
   b) il versamento del contributo di costruzione di cui all’art. 16 del T.U.E. – D.P.R. 380/2001, come fissato dalla Determina Dirigenziale n. 5493 del 03.08.2012 (contributo del costo di costruzione) e dalla Determina Dirigenziale n. 8915 del 21.12.2012 (oneri di urbanizzazione primaria e secondaria)
”.
Parte ricorrente affida il gravame a un unico motivo di ricorso col quale contesta, per un verso, l’erroneità dei criteri adottati nella nota gravata, nella parte in cui non è stato previsto un meccanismo compensativo tra gli standards richiesti per la nuova destinazione (residenziale) e quelli già versati per la destinazione originaria (terziario), salvo l’onere di provvedere alla cessione di eventuali maggiori superfici in relazione alla nuova destinazione d’uso; per altro verso, contesta la richiesta di versamento del costo di costruzione, essendo stato richiesto un mutamento meramente funzionale e difettandone, pertanto, il presupposto.
Il Comune di Bari, costituitosi in giudizio per resistere all’impugnativa, essenzialmente oppone alla ricostruzione del ricorrente la mancata cessione di aree a standards all’atto di realizzazione del fabbricato destinato a terziario.
Questa Sezione, con ordinanza n. 913/2019, ha disposto incombenti istruttori per accertare eventuali cessioni e per verificare, conseguentemente, il saldo delle aree da destinarsi a standards, in considerazione della disomogeneità dei criteri di calcolo, a seconda che le aree stesse vengano rapportate alla destinazione a uso residenziale (artt. 3 e 4 del D.M. n. 1444/1968) ovvero alla destinazione a uso produttivo o assimilabile (art. 5 dello stesso D.M.).
L’Amministrazione comunale, con nota della Ripartizione urbanistica ed edilizia privata prot. n. 223008 del 07.08.2019, prodotta in pari data, ha reso i chiarimenti richiesti.
All’udienza dell’11.12.2019, la causa è stata riservata per la decisione.
2 – Il ricorso è fondato.
3 - Deve rimarcarsi in via preliminare che il mutamento di destinazione d’uso richiesto da parte ricorrente –e inibito dal Comune di Bari- comporta il passaggio a una tipologia costruttiva più gravosa in termini di carico urbanistico, dal settore terziario a quello residenziale, come parte ricorrente stessa riconosce. Tale mutamento, cioè, si sostanzia in un cambio di destinazione d’uso tra categorie autonome, comportante un aumento quantitativo e qualitativo degli “standards”.
In via generale, l’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 (Testo unico dell’edilizia) –introdotto dal D.L. n. 123/2014 (c.d. decreto “Sblocca Italia”)– individua i mutamenti nella destinazione d’uso di un immobile da ritenere urbanisticamente rilevanti e che pertanto necessitano di uno specifico titolo abilitativo edilizio.
Di modo che, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, “ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie”, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati a una diversa categoria funzionale tra quelle “residenziale”, “turistico-ricettiva”, “produttiva e direzionale”, “commerciale” e “rurale” (cfr.: Cons. Stato V, n. 6562 del 20/11/2018; Cass. civile n. 6366 dell’11/02/2019).
Nel caso di specie, non vi è questione sulla forma del titolo edilizio, bensì sulla quantificazione delle aree da vincolare a servizio e del contributo di costruzione.
4 - Le contestazioni di parte ricorrente si appuntano non già sulla configurabilità dell’obbligo di cessione ma sui criteri di calcolo utilizzati (dunque, sul dato quantitativo), non avendo il Comune considerato le aree già vincolate a standard all’atto della realizzazione del fabbricato originario.
La censura è, invero, da ritenersi attendibile.
In linea di principio deve osservarsi che ove non si autorizzi ex novo una costruzione a uso residenziale ma si realizzi un mutamento di destinazione d’uso senza opere, cioè meramente funzionale, dovrà tenersi conto -nella quantificazione degli oneri- degli stardards già garantiti; giacché, diversamente opinando, si determinerebbe un ingiustificato aggravio a carico dei richiedenti e un indebito arricchimento a vantaggio del Comune, dovendo individuarsi la finalità degli obblighi di cessione nell’esigenza di un corretto e ordinato svolgimento del tessuto edificato nei limiti prescritti dallo stesso Ente comunale in sede di pianificazione urbanistica. È significativo rammentare in proposito che –per unanime giurisprudenza- gli Enti locali hanno l’obbligo di motivare l’imposizione di standards in misura superiore al minimo garantito dal D.M. n. 1444/1968 (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 19/02/2019, n. 1151).
Nella fattispecie, è incontroverso che di mutamento funzionale si tratti; l’Amministrazione comunale ha, infatti, ritenuto di imporre la cessione dell’integrale dotazione di standards a servizio della destinazione residenziale sul diverso presupposto dell’assenza di cessione di aree a standards all’atto di realizzazione dell’intervento costruttivo originario.
Orbene, tale assenza di cessioni è stata, in effetti, confermata in sede istruttoria; ma, nella stessa sede, è emersa la destinazione di una certa quantità di superfici a standards pubblicistici attraverso l’imposizione di servitù (cfr. la tabella riepilogativa allegata all’istruttoria stessa; nonché l’atto per notaio Er.Fo. rep. n. 114464 del 14.05.1996, agli atti di causa).
Nell’interpretazione seguita dall’Amministrazione, tuttavia, tali superfici non sarebbero suscettibili di scomputo in considerazione del dato testuale dell’art. 39 delle N.T.A. dello strumento urbanistico generale che utilizza il termine “reperire” con riferimento agli standards destinati alla residenza e il termine “prevedere” con riferimento agli standards destinati al terziario; sicché sussisterebbe il vincolo della cessione vera e propria degli standards per la realizzazione degli interventi residenziali e, conseguentemente, non sarebbero all’uopo utili le aree meramente vincolate a finalità pubblicistiche rimaste nella proprietà degli interessati.
In disparte il rilievo che di tali aree si sarebbe potuta prevedere la cessione all’Ente comunale quale condizione dello scomputo, in ogni caso –stante la ratio dell’obbligo di reperimento degli standards come su riportata- non può ritenersi dirimente lo strumento giuridico utilizzato per assicurarne la fruizione da parte della collettività insediata su una certa porzione di territorio (cessione in proprietà, costituzione di servitù o vincolo di destinazione).
Pertanto, a fronte dell’indiscussa messa a disposizione di aree che -sebbene non trasferite in proprietà all’Ente locale- risultano gravate da vincolo di destinazione, appare infondata la pretesa dell’Amministrazione comunale di ricalcolare l’intero fabbisogno come se si trattasse di prima costruzione; fatta salva la diversa opzione di trasformare il vincolo di destinazione pregresso in vera e propria cessione della proprietà in favore dell’Amministrazione stessa.
5 - Con un’ulteriore residuale censura, parte ricorrente domanda l’accertamento dell’insussistenza dell’obbligo di pagamento del contributo di costruzione per ciò che attiene al costo di costruzione, pure richiesto dal Comune di Bari in relazione al mutamento di destinazione d’uso (si ribadisce: da ufficio a residenziale) dell’appartamento in questione, sul presupposto che, nel caso de quo, trattandosi di cambio di destinazione d’uso senza opere, realizzato mediante segnalazione certificata di inizio attività, non sussiste l’obbligo del versamento del costo di costruzione, difettandone in radice il presupposto.
La pretesa è legittima, essendo fondato il motivo dedotto.
Dal combinato disposto degli artt. 16, commi 1, 3 e 10, 19, comma 2, e 23 del D.P.R. n. 380/2001, emerge con chiarezza che il costo di costruzione, nel caso di interventi su edifici esistenti, è determinato in relazione agli interventi stessi, come individuati dal Comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire.
Nel caso di cui si tratta, siamo in presenza –si ribadisce ancora una volta- di un cambio di destinazione d’uso funzionale dell’unità immobiliare in discussione, senza che ricorrano interventi di ristrutturazione, di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica; sicché –alla stregua del combinato disposto delle norme su richiamate- il costo di costruzione non è dovuto, poiché, in effetti, non vi è alcuna costruzione.
6 – In conclusione, in ragione di quanto su esposto, il ricorso deve essere interamente accolto (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 02.03.2020 n. 348 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alle procedure urbanistiche necessarie per il mutamento di destinazione d'uso di un edificio ex scolastico a laboratorio artigianale/produttivo per prodotti tipici locali - Comune di Borbona (Regione Lazio, nota 23.01.2020 n. 62032 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio della destinazione d'uso (con opere) da chiesa sconsacrata ad immobile direzionale-bancario sostanzia un intervento di ristrutturazione edilizia.
In via generale <<ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U. Edilizia, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche del volume, dei prospetti ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (ristrutturazione edilizia), anche se di dimensioni modeste. In via residuale, la SCIA assiste, invece, i restanti interventi di ristrutturazione c.d. leggera (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell'edificio preesistente)>>.
Più precisamente, <<gli interventi edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti o la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia. Non può essere ascritto, pertanto, al restauro o risanamento conservativo un intervento edilizio implicante un incremento di superficie o un mutamento di sagome o di destinazione d'uso che devono essere, in ogni caso, preceduti dall'acquisizione del relativo titolo edilizio, ravvisabile nel c.d. permesso di costruire>>.
In questo stesso senso, <<per la normativa edilizia [art. 3 comma 1, lettere a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art. 10, comma 1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome>>.
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La modificazione della destinazione d'uso e la trasformazione di una chiesa sconsacrata in una banca, con l'esecuzione di lavori edilizi, necessita del permesso di costruire poiché trattasi non di restauro o risanamento conservativo ma di ristrutturazione edilizia.
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In via generale <<ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U. Edilizia, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche del volume, dei prospetti ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (ristrutturazione edilizia), anche se di dimensioni modeste. In via residuale, la SCIA assiste, invece, i restanti interventi di ristrutturazione c.d. leggera (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell'edificio preesistente)>> (TAR Campania, sez. IV, 05/02/2019, n. 6209).
Più precisamente, <<gli interventi edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti o la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia. Non può essere ascritto, pertanto, al restauro o risanamento conservativo un intervento edilizio implicante un incremento di superficie o un mutamento di sagome o di destinazione d'uso che devono essere, in ogni caso, preceduti dall'acquisizione del relativo titolo edilizio, ravvisabile nel c.d. permesso di costruire>> (TAR Campania, sez. III, 03/04/2018, n. 2141).
In questo stesso senso, <<per la normativa edilizia [art. 3 comma 1, lettere a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art. 10, comma 1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome>> (TAR Lazio, sez. II, 04/04/2017, n. 4225).
Applicando i principi giurisprudenziali predetti alla fattispecie in esame, quindi, l’intervento edilizio per il quale è causa rientra certamente tra le ipotesi di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), trattandosi di modificazione di destinazione dell’immobile sito in zona A (centro storico di Verona), attuata mediante opere che, per vero, non possono nemmeno qualificarsi “minime”, non essendo tali né la realizzazione di un servizio igienico per disabili prima inesistente, né l’installazione degli impianti, opere queste assolutamente necessarie per consentire l’utile modificazione della destinazione dell’immobile che in tal modo è venuto ad assumere una “struttura funzionale” del tutto diversa, determinando, peraltro, come si dirà più avanti, un evidente aumento del carico urbanistico.
Con riferimento, in particolare, alla modificazione della destinazione d’uso, nel caso di specie tale presupposto di fatto è evidente se solo si considera che l’immobile in esame era un edificio di culto e che solo in seguito alla “sconsacrazione” è divenuto suscettibile di diverso utilizzo: si tratta di un caso estremo di passaggio di categoria funzionale, ricorrendo l’ipotesi di un edificio che, prima della sconsacrazione, aveva una funzione “pubblica”, quale luogo di culto, divenuto, ora, sede di un’attività privata con funzione direzionale-bancaria.
Ulteriore argomento ostativo alla qualificazione dell’opera in termini di “restauro conservativo” come asserito in giudizio da parte ricorrente è dato dal fatto che solo a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 65-bis, d.l. n. 50 del 2017, convertito in l. 21.06.2017, n. 96, l’art. 3, comma 1, lettera c), d.p.r. 06.06.2001, n. 380, è stato modificato nel senso che all’espressione <<ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili>> è stata sostituita quella secondo la quale <<ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi>>.
In tal senso, solo con la predetta modifica legislativa è possibile porsi il problema se il mutamento di destinazione d’uso con opere non integri un’ipotesi di ristrutturazione edilizia ex art. 10, comma 1, lett. c), laddove siano rispettati i presupposti indicati dalla norma così “novellata” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.01.2020 n. 40 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire.
In giurisprudenza si ritiene che <<Il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire>>.
Anche la Cassazione penale ha stabilito che per il mutamento di destinazione d'uso da cantina ad abitazione è necessario il permesso di costruire: <<In tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea. (Fattispecie relativa a sequestro preventivo di locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione, con conseguente passaggio dalla categoria d'uso non residenziale alla diversa categoria residenziale>>.
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La censura è complessivamente infondata.
Premette il Collegio che le due contestazioni mosse con l’impugnata ordinanza, sì come inerenti alle opere interne al fabbricato di proprietà dei ricorrenti, destinato a loro residenza - unitamente ai corrispondenti profili di censura, vanno lette ed esaminate congiuntamente.
In particolare con il rilievo n. 1 si contesta la “trasformazione dell’intero piano terra da cantinato a residenziale”, mentre con quello n. 2 “il frazionamento dell’unità abitativa posta al piano primo, in n. 3 unità residenziali”.
Parte ricorrente deduce che entrambi gli interventi non necessitavano del previo rilascio del permesso di costruire, ma di una segnalazione certificata di attività la cui mancanza è sanzionabile (non con la sanzione demolitoria ex art. 31, d.P.R. 380/2001, ma) con la mera sanzione pecuniaria.
A supportare la loro tesi sostengono che “la destinazione prevalente del fabbricato di proprietà dei ricorrenti, è quella residenziale, ovvero la destinazione sub a) del comma 1 dell’art. 23-ter d.P.R. 380/2001", atteso che “il fabbricato in questione si compone di un piano seminterrato e di un piano rialzato ed i ricorrente hanno provveduto a destinare a residenza anche il piano seminterrato”.
Ma tale presupposto -quanto meno con specifico riferimento alle unità immobiliari oggetto di contestazione- non è affatto pacifico tra le parti, né dimostrato dai ricorrenti.
Invero, quanto al rilievo n. 1 inerente alla “trasformazione dell’intero piano terra”, ciò che si contesta è proprio il mutamento di destinazione fra categorie funzionalmente autonome e non omogenee (“da cantinato a residenziale”), mentre il richiamo alla “categoria prevalente” può valere unicamente con riferimento ad una variazione che si mantenga nell’ambito della medesima categoria urbanistica.
In giurisprudenza si ritiene che <<Il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire>> (TAR Genova, (Liguria) sez. I, 26/07/2017, n. 682).
Anche la Cassazione penale ha stabilito che per il mutamento di destinazione d'uso da cantina ad abitazione è necessario il permesso di costruire: <<In tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea. (Fattispecie relativa a sequestro preventivo di locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione, con conseguente passaggio dalla categoria d'uso non residenziale alla diversa categoria residenziale>> (Cassazione penale sez. III, 05/04/2016, n. 26455).
Per quanto attiene alla contestazione di cui al n. 2 (“frazionamento dell’unità abitativa posta al piano prima, in n. 3 unità residenziali”), per la quale i ricorrenti riferiscono di un <<frazionamento del piano rialzato “già destinato a residenza” in tre unità residenziali>>, va rilevato quanto segue.
Lo stesso provvedimento impugnato dà atto del pregresso uso abitativo del piano rialzato, come da permesso di costruire, per cui è fondato il richiamo alla nuova formulazione dell’articolo 3, lettera b), del D.P.R. 380/2001, come integrato con le aggiunte di cui al d.l. 12.09.2014, convertito in L. 11.11.2014 n. 164 -dal cui contenuto testuale si evince che è stata ampliata la nozione di manutenzione straordinaria, comprendendovi tutti quegli interventi di conservazione dell'edilizia esistente, ivi compresi anche quegli interventi che portano all'accorpamento o al frazionamento interni alle unità immobiliari- presuppone che alle operazioni da ultimo indicate non si accompagni alcun cambio di destinazione.
Invero la suddetta modifica normativa, entrata in vigore il 13.09.2014, ha esteso la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria ricomprendendovi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico, ma a condizione che non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione d'uso.
Il disposto del nuovo art. 3-ter d.P.R. n. 380 del 2001 (introdotto dalla legge di conversione del predetto d.l., ossia dalla l. 11.11.2014, n. 164), che, sul punto, chiarisce come «costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione, dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati, ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale) commerciale) rurale».
Ne consegue che nella fattispecie in esame in cui lo stesso provvedimento impugnato assume la destinazione abitativa dell’unità immobiliare interessata dal frazionamento, devono ritenersi sussistenti i presupposti necessari per l’applicazione della normativa invocata dai ricorrenti (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire.
La circostanza che, nella licenza edilizia, il piano cantinato non abbia alcuna indicazione in ordine alla destinazione d’uso non può fare presumere, proprio per le caratteristiche intrinseche del relativo locale, un uso abitativo dello stesso.
Sul punto si osserva che, laddove il cantinato assuma un carattere di pertinenza rispetto all’unità principale ad uso abitativo la sua funzione non può che essere servente dell’appartamento, giammai autonoma quale unità abitativa del tutto distinta da quella principale.
Non a caso, nella classificazione a fini di rendita fiscale, i cantinati –a differenza delle abitazioni– rientrano nella categoria catastale C, sottocategoria C/2, quali locali di deposito, proprio in considerazione della loro funzione servente dell’unità abitativa e quindi fondamentalmente diversa da quest’ultima.
Da ciò consegue anche che non è applicabile l’invocato art. 23-ter d.p.r. 380/2001, in quanto il passaggio da cantinato a locale abitabile rientra nell’ambito del cambiamento della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante, considerata la totale diversità delle modalità di utilizzo di una cantina rispetto ad un appartamento e l’evidente aggravio del carico urbanistico complessivo sul territorio comunale.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire.
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2.3.- Circa il cambio di destinazione d’uso non sono condivisibili le tesi di parte ricorrente.
La circostanza che nella licenza edilizia, il piano cantinato non abbia alcuna indicazione in ordine alla destinazione d’uso non può fare presumere, proprio per le caratteristiche intrinseche del relativo locale, un uso abitativo dello stesso.
Tra l’altro, è la stessa parte ricorrente a riconoscerlo nel punto in cui sostiene, benché incidentalmente, che il cantinato riveste una funzione pertinenziale dell’appartamento.
Sul punto si osserva che, laddove il cantinato assuma un carattere di pertinenza rispetto all’unità principale ad uso abitativo –aspetto che il Collegio non nega ma anzi sul quale conviene- la sua funzione non può che essere servente dell’appartamento, giammai autonoma quale unità abitativa del tutto distinta da quella principale.
Non a caso, nella classificazione a fini di rendita fiscale, i cantinati –a differenza delle abitazioni– rientrano nella categoria catastale C, sottocategoria C/2, quali locali di deposito, proprio in considerazione della loro funzione servente dell’unità abitativa e quindi fondamentalmente diversa da quest’ultima.
2.4.- Da ciò consegue anche che non è applicabile l’invocato art. 23-ter d.p.r. 380/2001, in quanto il passaggio da cantinato a locale abitabile rientra nell’ambito del cambiamento della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante, considerata la totale diversità delle modalità di utilizzo di una cantina rispetto ad un appartamento e l’evidente aggravio del carico urbanistico complessivo sul territorio comunale.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire (cfr. Tar Genova, sez. I, 26.07.2017, n. 682).
2.5.- L’elemento dell’altezza non appare rilevante, almeno nei termini invocati dai ricorrenti.
Ed invero, costoro non contestano che l’altezza effettiva del piano interrato sia difforme da quella indicata nel grafico di prospetto, pari a metri 3,00, ma che questa, sin dall’origine, sia sempre stata pari a metri 2,10.
Ebbene, anche laddove l’altezza non sia mai variata e quella riportata nel grafico sia frutto di errore (materiale) e quindi fuorviante, è del tutto evidente che, a questo punto, l’unità, per ricevere destinazione abitativa, non risponderebbe in alcun modo ai requisiti minimi di altezza utile, fissata in metri 2,70 -riducibili a m 2.40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli- come indicato in via inderogabile dal D.M. del 05.07.1975, contenente le “Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20.06.1896 relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 31 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

anno 2019

EDILIZIA PRIVATALa trasformazione dei locali adibiti ad uso industriale in locali adibiti ad attività di culto -attraverso la realizzazione di opere interne con le quali sono state create, tra le altre, una cucina, due locali wc, etc.- ha implicato una modifica funzionale dei locali interessati con conseguente incidenza sul carico urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa è pacifica nel ritenere che la trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico rappresenti una ristrutturazione edilizia subordinata al rilascio di apposito permesso di costruire.
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5. Il ricorso non merita accoglimento.
La trasformazione dei locali adibiti ad uso industriale in locali adibiti ad attività di culto, compiuta dai ricorrenti attraverso la realizzazione di opere interne con le quali sono state create, tra le altre, una cucina, due locali wc, etc. ha implicato una modifica funzionale dei locali interessati con conseguente incidenza sul carico urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa è pacifica nel ritenere che la trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico rappresenti una ristrutturazione edilizia subordinata al rilascio di apposito permesso di costruire.
Ai sensi dell’art. 3, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, infatti, per “interventi di ristrutturazione edilizia" si intendono: gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Per tali interventi e per l’insieme sistematico di opere che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, il successivo art. 10 richiede che il privato sia preventivamente in possesso di apposito permesso di costruire.
Nel caso di specie, invece, vi è assenza del titolo edilizio richiesto per il mutamento della destinazione d’uso originariamente assentita e la contestuale realizzazione di opere interne idonee ad incidere sul carico urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 21.11.2019 n. 2918 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla variazione di destinazione d’uso, senza opere, da scuola a due unità abitative.
Il passaggio dalla precedente destinazione direzionale a quella residenziale non può che aver condotto a una consistente diminuzione del carico urbanistico dell’immobile, inteso come peso sul tessuto urbano e sui servizi di zona, a partire dal traffico veicolare e dalla connessa necessità di disporre di parcheggi nelle aree antistanti o prossime all'immobile: per questo profilo, è infatti innegabile che la presenza nell’edificio di una scuola privata che faceva registrare un afflusso giornaliero di circa cento persone abbia un impatto superiore rispetto a quella di due nuclei familiari.
A fronte del sicuro decremento di carico urbanistico determinato dal mutamento di destinazione, non vi sono invece elementi obiettivi per sostenere che l’asserita, contestuale divisione dell’immobile stesso in due abitazioni giustifichi comunque l’onerosità dell’intervento a causa delle sue ricadute sulle dotazioni di standard urbanistici.
Manca, in definitiva, la prova che il criterio adoperato –fra quelli stabiliti dall’art. 120 l.r. n. 1/2005, cit., per identificare gli interventi onerosi– rifletta adeguatamente le peculiarità della vicenda, essendosi il Comune attenuto a un’applicazione rigida e automatica della norma di legge, che, al contrario, fornisce dei parametri indiziari da valutarsi caso per caso secondo ragionevolezza.
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1. La signora M.Or. è proprietaria di una palazzina situata in Piombino e composta da due appartamenti, l’uno al primo piano con ingresso dalla via Ge. 10, l’altro al pianterreno con accesso dalla via Be. 41, entrambi adibiti a scuola privata dal dicembre del 1995 (in precedenza, l’appartamento al pianterreno era adibito ad abitazione).
Con due separati ricorsi, la signora Or. impugna rispettivamente:
   - la richiesta, di cui alla nota del Comune di Piombino in data 18.09.2006, di regolarizzazione della D.I.A. presentata da essa ricorrente il 30.03.2005 per la variazione di destinazione d’uso senza opere, da scuola a due unità abitative, dell’immobile sopra descritto (ricorso n. 2007/2006 R.G.);
   - la richiesta, di cui alla nota comunale del 01.02.2007, di conguaglio del contributo per oneri di urbanizzazione relativi alla predetta D.I.A., nella misura di euro 9.552,61.
...
2. Come riferito in narrativa, la ricorrente signora Or. ha presentato il 30.03.2005 una D.I.A. avente a oggetto la variazione di destinazione d’uso, senza opere, del fabbricato di sua proprietà sito in via Ge. 10/via Be. 41.
Il Comune di Piombino, a riscontro della D.I.A., ha dapprima chiesto alla ricorrente di regolarizzare la documentazione a corredo della pratica, producendo, in particolare, gli schemi grafici esemplificativi dei volumi e/o delle superfici con i rispettivi calcoli dei contributi dovuti, nonché copia della ricevuta di versamento degli oneri concessori.
La richiesta, comunicata con nota del 18.09.2006, è stata impugnata con il ricorso iscritto al n. 2007/2006 R.G..
È seguita la nota del 01.02.2007, recante la pretesa del Comune al pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria asseritamente dovuti dalla signora Or. con riferimento al cambio di destinazione d’uso dell’immobile di sua proprietà. La debenza o meno degli oneri in questione è materia della controversia promossa con il ricorso n. 442/2007 R.G..
2.1. Evidenti ragioni di connessione oggettiva e soggettiva rendono opportuna la trattazione congiunta dei ricorsi, che vanno riuniti.
In via pregiudiziale, deve peraltro osservarsi come alla nota del 18.09.2006 non possa riconoscersi un’immediata capacità lesiva, atteso che un pregiudizio concreto ed attuale sarebbe potuto derivare all’interessata soltanto dalla successiva adozione, da parte del Comune, di iniziative sanzionatorie nei confronti dell’attività intrapresa in virtù della D.I.A. “irregolare” (non regolarizzata); ovvero dalla successiva richiesta, poi effettivamente pervenuta, di versare il contributo per oneri di urbanizzazione dipendenti dalla D.I.A..
Si tratta, in altre parole, di un atto interlocutorio dal quale non scaturiscono esigenze di tutela né di interessi legittimi, né di diritti soggettivi, da ciò derivando l’inammissibilità della domanda proposta con il ricorso più risalente.
2.2. Certamente ammissibile è, di contro, la domanda proposta con il ricorso n. 442/2007 R.G., volto a contrastare la pretesa del Comune di Piombino di vedersi corrispondere gli oneri di urbanizzazione relativi all’intervento oggetto della D.I.A. presentata dalla ricorrente nel 2005 per il cambio di destinazione d’uso dell’immobile di sua proprietà.
Presupposto della pretesa è che il mutamento di destinazione da direzionale (scuola privata) a residenziale abbia comportato altresì un aumento del numero di unità immobiliari. In particolare, la nota comunale di accompagnamento ai documenti trasmessi al TAR evidenzia la variazione catastale che avrebbe dato luogo, presso la palazzina di via Ge./via Ce., a due nuovi subalterni (602 e 603) previa soppressione della preesistente unità immobiliare (sub 601).
Tanto premesso, con il primo motivo di ricorso, la signora Or. nega che il cambio di destinazione d’uso sia stato accompagnato dall’aumento delle unità immobiliari, o anche delle superfici utili dell’edificio.
Dal 1930 il fabbricato sarebbe sempre stato diviso in due appartamenti indipendenti, con accessi autonomi, entrambi utilizzati quali sede di scuola privata a partire dal 1995, anno in cui sarebbe stata realizzata una porta interna di collegamento fra l’appartamento al pianterreno e un corridoio comune.
Con il ritorno alla destinazione residenziale dell’intero edificio, nel 2005, il carico urbanistico sarebbe considerevolmente diminuito e nulla sarebbe pertanto dovuto al Comune per oneri di urbanizzazione connessi alla presentazione della D.I.A..
La ricorrente lamenta, per altro verso, che la verifica eseguita dal Comune sul pagamento degli oneri sarebbe tardiva rispetto al termine perentorio stabilito per la verifica della D.I.A. dall’art. 82, co. 3, l.r. n. 1/2005, nonché dell’art. 8, co. 8, l.r. n. 39/1994. La richiesta di pagamento, inoltre, non sarebbe stata preceduta dalla necessaria comunicazione di avvio del procedimento, né sarebbe adeguatamente motivata.
Il difetto della motivazione dell’atto impugnato è ribadito con il secondo motivo, anche in relazione alla disciplina comunale che prevede la gratuità dei mutamenti di destinazione d’uso nella zona omogenea “A” di P.R.G..
2.2.1. Le censure, da esaminarsi congiuntamente, sono fondate.
L’amministrazione intimata –lo si è detto– ritiene che l’intervento di cui alla D.I.A. presentata dalla ricorrente nel 2005 sia oneroso in ragione non del mutamento della destinazione d’uso dell’immobile, bensì dell’aumento del numero di unità immobiliari, e tanto in dichiarata applicazione dell’art. 120 l.r. n. 1/2005 (oltre all’atto impugnato, si veda la nota comunale del 12.03.2007, in atti).
La disposizione, applicabile ratione temporis alla fattispecie nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla legge regionale n. 40/2011, prevede(va) al comma 1 che:
1. Gli oneri di urbanizzazione sono dovuti in relazione agli interventi, soggetti a permesso di costruire o a denuncia di inizio dell'attività, che comportano nuova edificazione o determinano un incremento dei carichi urbanistici in funzione di:
   a) aumento delle superfici utili degli edifici;
   b) mutamento delle destinazioni d'uso degli immobili;
   c) aumento del numero di unità immobiliari
”.
Il legislatore regionale, come si vede, ha individuato alcuni indici rivelatori del maggior carico urbanistico dal quale dipende l’onerosità o meno dell’intervento. Se, pertanto, è lecito presumere che in presenza di uno di tali indici la corresponsione degli oneri sia dovuta, non per questo si è però in presenza di una presunzione assoluta, a maggior ragione laddove il concorso, in concreto, di due degli indici individuati dalla legge fornisca indicazioni non collimanti.
È quel che accade nel caso in esame, caratterizzato dalla compresenza di un cambio di destinazione d’uso e di un incremento del numero delle unità immobiliari. Il secondo dato è contestato dalla ricorrente, ma il tema non richiede di essere approfondito in fatto, risultando assorbito dalle considerazioni che seguono.
Il passaggio dalla precedente destinazione direzionale a quella residenziale non può che aver condotto a una consistente diminuzione del carico urbanistico dell’immobile di proprietà Or., inteso come peso sul tessuto urbano e sui servizi di zona, a partire dal traffico veicolare e dalla connessa necessità di disporre di parcheggi nelle aree antistanti o prossime all'immobile: per questo profilo, è infatti innegabile che la presenza nell’edificio di una scuola privata che faceva registrare un afflusso giornaliero di circa cento persone abbia un impatto superiore rispetto a quella di due nuclei familiari.
A fronte del sicuro decremento di carico urbanistico determinato dal mutamento di destinazione, non vi sono invece elementi obiettivi per sostenere che l’asserita, contestuale divisione dell’immobile stesso in due abitazioni giustifichi comunque l’onerosità dell’intervento a causa delle sue ricadute sulle dotazioni di standard urbanistici. Manca, in definitiva, la prova che il criterio adoperato –fra quelli stabiliti dall’art. 120 l.r. n. 1/2005, cit., per identificare gli interventi onerosi– rifletta adeguatamente le peculiarità della vicenda, essendosi il Comune di Piombino attenuto a un’applicazione rigida e automatica della norma di legge, che, al contrario, fornisce dei parametri indiziari da valutarsi caso per caso secondo ragionevolezza.
2.2.2. Alla luce di quanto precede, la pretesa esercitata dal Comune di Piombino non ha fondamento.
Ne discende l’accoglimento del ricorso non tanto ai fini della richiesta pronuncia di annullamento, quanto, trattandosi di rapporto paritetico ricadente nella giurisdizione esclusiva del G.A. (per tutte, cfr. Cons. Stato, A.P., 30.08.2018, n. 12), dell’accertamento dell’insussistenza del credito rivendicato dall’amministrazione nei confronti della signora Or., con assorbimento di ogni residua doglianza (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.11.2019 n. 1587 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Codice del terzo settore (d.lgs. n. 117/2017) – Sedi di enti del terzo settore e locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali – Compatibilità con tutte le destinazioni d’uso urbanistico – Fattispecie: gestione di attività turistiche di interesse sociale.
E' illegittimo il provvedimento con il quale il comune inibisce ad una associazione del terzo settore la prosecuzione dell’attività di sosta camper su di un’area.
Invero, sussiste la violazione e falsa applicazione degli articoli 2 e 32 della legge n. 383 del 2000.
Ai sensi di tale normativa, confermata dall’art. 71 del codice del terzo settore (
D.Lgs. 03.07.2017 n. 117), le associazioni di promozione sociale, che svolgono attività senza fini di lucro, possono svolgere la propria attività in qualsiasi immobile, area o zona del territorio comunale, a prescindere dalla destinazione urbanistica impressa all’area stessa e senza che ciò determini un mutamento della destinazione d’uso dell’immobile o dell’area utilizzati.
Ne consegue che il Comune non può imporre, così come avvenuto con il provvedimento gravato, la formazione di un piano di lottizzazione convenzionato con la determinazione di aree per parcheggi e spazi pubblici.
Peraltro, il provvedimento gravato risulta irragionevole, atteso che l’ospitalità dei camper dura solo per circa cinque mesi l’anno, al termine dei quali l’area torna libera da ogni mezzo, senza che si realizzi alcuna modifica permanente dei luoghi o la realizzazione di una struttura ricettiva permanente necessitante di titoli edilizi.
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1.- Oggetto di impugnativa è il provvedimento con il quale il Comune di Roseto degli Abruzzi inibisce all’Associazione ricorrente la prosecuzione dell’attività di sosta camper sull’area distinta in catasto al foglio 55, particella n. 33
2.- I motivi di ricorso rispondono alla medesima direttrice logica e possono essere, pertanto, trattati congiuntamente.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli articoli 2 e 32 della legge n. 383 del 2000.
Ai sensi di tale normativa, confermata dall’art. 71 del codice del terzo settore, le associazioni di promozione sociale, che svolgono attività senza fini di lucro, possono svolgere la propria attività in qualsiasi immobile, area o zona del territorio comunale, a prescindere dalla destinazione urbanistica impressa all’area stessa e senza che ciò determini un mutamento della destinazione d’uso dell’immobile o dell’area utilizzati.
Ne consegue che il Comune non può imporre, così come avvenuto con il provvedimento gravato, la formazione di un piano di lottizzazione convenzionato con la determinazione di aree per parcheggi e spazi pubblici. Peraltro, il provvedimento gravato sarebbe irragionevole, atteso che l’ospitalità dei camper dura solo per circa cinque mesi l’anno, al termine dei quali l’area torna libera da ogni mezzo, senza che si realizzi alcuna modifica permanente dei luoghi o la realizzazione di una struttura ricettiva permanente necessitante di titoli edilizi.
Parte ricorrente lamenta -secondo motivo- l’incompetenza del Comune ad inibire un’attività di promozione sociale regolarmente affiliata alla Federazione nazionale liberi circoli, a sua volta iscritta ex art. 7 L. 383/2000 al registro delle associazioni di promozione sociale, tenuto presso la Presidenza del consiglio dei Ministri.
Inoltre, il provvedimento muove da un erroneo presupposto di fatto -terzo motivo- ovvero che l’area in cui sorge il camping, in quanto trasformata in un’area turistica e ricettiva, necessiterebbe della dotazione di parcheggi e di altri spazi pubblici da destinare al verde. Il Comune omette di considerare che la ricorrente si limita a mettere a disposizione degli utenti del campeggio un’area di terreno ove vanno a sostare massimo trenta camper per un periodo limitato della stazione estiva.
Infine -quarto motivo- è dedotta la violazione degli articoli 2, 3, 9 e 18, perché il provvedimento determina l’inibizione dell’attività esercitata in precedenza autorizzata.
3.- Il ricorso è fondato.
L’art. 2, recante l’individuazione delle associazioni di promozione sociale, e l’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000- il quale prevedeva che la sede delle associazioni di promozione sociale ed i locali nei quali si svolgono le relative attività sono compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee (previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968) indipendentemente dalla destinazione urbanistica- sono stati abrogati dall'art. 102, comma 1, lett. a), D.Lgs. 03.07.2017, n. 117, a decorrere dal 03.08.2017, ai sensi di quanto disposto dall'art. 104, comma 3, del medesimo D.Lgs. n. 117/2017.
Il disposto normativo recato dal sopra citato articolo 2 è stato riprodotto nell’art. 71, comma 1, del D.Lgs. 03/07/2017, n. 117, recante il codice del terzo settore, laddove prevede che: <<le sedi degli enti del Terzo settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica>>.
L’art. 5 del d.lgs. 117/2017, dopo aver qualificato come enti del terzo settore quelli che “esercitano in via esclusiva o principale una o più attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” elenca in modo tassativo una serie di attività che si considerano di interesse generale, purché svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano l'esercizio.
Orbene, tra le attività incluse nell’elenco, che sono considerate di interesse generale, vi è la “gestione di attività turistiche di interesse sociale” (art. 5, comma 1, lett. k) ovvero quelle attività perseguite da enti privati “costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”.
Tali attività, in considerazione della meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di promozione sociale, possono essere localizzabili in tutte le parti del territorio urbano, essendo compatibile con ogni destinazione d'uso urbanistico, e a prescindere dalla destinazione d'uso edilizio impresso specificamente e funzionalmente all’area (in senso conforme: Cons. Stato Sez. V Sent., 15/01/2013, n. 181).
Ciò in virtù delle previsioni dell’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000 e dell’art. 71 del d.lgs. 117/2017, disposizioni che, in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 della Costituzione), "intendono promuovere e favorire le associazioni private che realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi” (art. 1 della L. 06/06/2016, n. 106, recante la delega al Governo per la riforma del terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale).
Illustrato il quadro normativo di riferimento, occorre allora verificare se l’Associazione ricorrente si occupi di “gestione di attività turistiche di interesse sociale” senza scopo di lucro ovvero persegua “attività di utilità sociale”, mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi.
Come emerge dallo Statuto dell’Associazione Ca.cl.Ro.Ma.Bl. (allegato 10 del fascicolo di parte ricorrente), si tratta di ente senza fini di lucro, che ha una finalità di promozione del turismo in campeggio.
Ciò emerge dall’art. 2 dello Statuto ove, tra gli scopi perseguiti dall’associazione, ci sono, tra gli altri, quelli di: “promuovere, coordinare e tutelare l’attività campeggistica, il turismo itinerante, l’associazionismo ricreativo e culturale tra quanti esercitano il turismo all’aria aperta, con particolare riferimento all’assistenza ed alla propaganda turistica”; “sollecitare la collaborazione degli operatori pubblici e privati, degli enti pubblici e privati, degli organi di informazione interessati al turismo campeggistico ed itinerante, per l’integrazione di tale attività nel turismo in generale, anche con accordi commerciali a favore dei soci”.
E’ pertanto da escludere l’esercizio, da parte della ricorrente, di un attività diretta a ricavare introiti commerciali con carattere di stabilità.
Né si evince dallo Statuto un nesso diretto tra la concessione del diritto a stazionare nel parcheggio e il versamento di un corrispettivo, atteso che all’associazione sono ammessi tutti i cittadini di qualsiasi età che ne accettino lo Statuto.
Il camping non è quindi una struttura ricettiva propriamente detta, non riservata ai soci e aperta al pubblico, ma si tratta di un’area messa a disposizione dei soli soci, il che consente di configurare l’attività svolta come attività di promozione sociale ovvero di attività turistica di interesse sociale.
Al riguardo, il Comune non ha contestato che il Ca.Ro.Ma.bl. non avesse i requisiti per essere considerato come associazione di promozione sociale o che li avesse persi per non aver ottenuto l’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore (art. 4, comma 1, del d.lgs. 117/2017).
Né ha allegato concreti elementi dai quali desumere che la situazione di fatto non fosse in realtà conforme a quella di diritto, ovvero che il campeggio nominalmente associazione senza fini di lucro destinata ai soli soci, operasse in realtà come struttura aperta al pubblico. Non consta documentazione fiscale o di altro tipo, da cui risulti appunto un’attività di tipo commerciale, né esistono agli atti, sotto forma di verbali di ispezione o simili, esiti di accertamenti o verifiche in tal senso.
Al contrario, non risulta che il Comune abbia mai mosso rilievi al camping, né quando si è trattato di emettere un avviso di accertamento per il pagamento della TARI per gli anni 2015 e 2018 (all. 14 e 15 al fascicolo di parte ricorrente), né quando a mezzo della società in house Ru.Re. s.p.a. è stato autorizzato l’allaccio al collettore comunale delle acque reflue domestiche provenienti da wc, lavandini e docce a servizio dell’area adibita a parcheggio per camper (all. 16 ricorrente).
In definitiva, non avendo il Comune contestato che la ricorrente svolgesse attività di interesse generale ovvero attività turistica di interesse sociale, il provvedimento gravato è illegittimo, per violazione della fonte normativa gerarchicamente superiore (art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000 e art. 71 del d.lgs. 117/2017), laddove pretende, per l’utilizzo dell’area in questione, di applicare la norma di natura regolamentare (art. 17 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G.), che impone il piano di lottizzazione privato di cui all’art. 23 della legge 18/1983, con il rispetto della viabilità e dei parcheggi e degli altri spazi pubblici previsti all’interno delle singole perimetrazioni.
Il Comune avrebbe dovuto considerare l’area sede del camping, come compatibile con tutte le destinazioni d'uso omogenee.
In proposito, non coglie nel segno l’interpretazione della legge statale fornita dall’ente locale secondo la quale solo i “locali” e non le “aree” beneficerebbero del regime agevolativo e derogatorio alla disciplina urbanistica in materia di destinazioni d’uso.
Invero, osserva il Collegio, l’art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000 e l’ art. 71 del d.lgs. 117/2017 si riferiscono non solo ai “locali”, ma anche alle “sedi”. Quest’ultime, per le attività come quella di sosta dei camper, che può essere ontologicamente svolta solo all’aperto, non possono che farsi coincidere con le aree scoperte.
Appare, peraltro, irragionevole subordinare l’attività di camping al piano di lottizzazione convenzionata, non risultando contestata la circostanza che l’attività esercitata non implica l’installazione di costruzioni o di altri manufatti inamovibili. La ricorrente, infatti, si limita a metter a disposizione ai propri associati l’area per lo stazionamento temporaneo (nel solo periodo estivo) dei camper (strutturati in modo da servire come abitazioni durante la sosta).
L’attività svolta dalla ricorrente sembra dunque compatibile con quella dei campeggi temporanei disciplinata dall’art. 8 della legge regionale 23.10.2003, n. 16, secondo la quale: <<1. le associazioni senza scopo di lucro che operano per finalità ricreative, culturali, religiose o sociali possono usufruire, esclusivamente per i propri associati, di aree appositamente messe a disposizione dal Comune o da privati per periodi di sosta di non più di trenta giorni, purché forniti di mezzi autonomi di pernottamento e le presenze non superino le cento unità giornaliere.
2. L'autorizzazione viene concessa dal Comune purché siano assicurate le attrezzature indispensabili per garantire il rispetto delle norme igienico-sanitarie e, comunque, nel rispetto di tutte le altre prescrizioni contenute nell'autorizzazione stessa, volte alla salvaguardia dei valori naturali ed ambientali
>>.
Contrariamente a quanto affermato dal Comune la norma regionale appena citata non può essere interpretata nel senso di non consentire l’utilizzazione di aree a prescindere dalla loro destinazione urbanistica, perché la legge regionale n. 16/2003, recante la disciplina delle strutture ricettive all’aria aperta, prevede che l’autorizzazione comunale debba verificare la sussistenza delle seguenti due condizioni:
   a) il rispetto delle norme igienico sanitarie (art. 8, comma 2, L.R. cit.), quali ad esempio l’allaccio alla rete fognaria comunale (requisito comprovato dalla ricorrente);
   b) la salvaguardia dei valori naturali e ambientali.
4.- In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, assorbita ogni altra doglianza, il provvedimento impugnato che inibisce alla ricorrente la prosecuzione dell’attività di sosta camper per mancanza del piano di lottizzazione convenzionata, è illegittimo e deve essere, pertanto, annullato (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 25.10.2019 n. 519 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d’uso di un magazzino.
La gestione di un magazzino è assimilabile all’attività produttiva quando ha a oggetto le materie prime o i semilavorati destinati a essere impiegati nel ciclo produttivo, mentre, di contro, si inserisce nella fase della commercializzazione quando finge da deposito di prodotti finiti pronti per essere immessi nel mercato; ne consegue che l’attività di stoccaggio di prodotti finiti (alimenti) in attesa della loro spedizione ai destinatari finali (i.e. coloro che acquistano i prodotti via web o telefono) deve essere qualificata come commerciale.
Non essendo in contestazione che l’immobile ove venivano stoccati detti prodotti avesse originariamente destinazione produttiva, nella fattispecie è verificato un cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante ai sensi dell’articolo 52, comma 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 che determina un aumento del carico urbanistico, come si ricava dall’articolo 5 D.M. 1444/1968, e giustifica la debenza di un maggior contributo di costruzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.09.2019 n. 2055 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
Dalla documentazione in atti si evince incontrovertibilmente che l’attività svolta da Eu. S.r.l. nell’immobile di proprietà della società In. S.p.A. sia di vendita all’ingrosso di alimenti: si vedano, in particolare, il contratto di locazione stipulato da Eu.Im. S.r.l. e Eu. S.r.l. in cui si dà esplicitamente atto che l’immobile locato sarà destinato a deposito e magazzino per il commercio all’ingrosso, e alla dichiarazione di inizio attività presentata da Eu. S.r.l. per vendita all’ingrosso di alimentari (docc. 6 e 7 fascicolo di In. S.p.A.).
Né può negarsi che l’attività ivi svolta non sia commerciale, limitandosi la società Eu. S.r.l. a stoccare gli alimenti in attesa della loro spedizione ai destinatari finali (i.e. coloro che acquistano i prodotti via web o telefono). Infatti, come la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire, la gestione di un magazzino è assimilabile all’attività produttiva quando ha a oggetto le materie prime o i semilavorati destinati a essere impiegati nel ciclo produttivo, mentre, di contro, si inserisce nella fase della commercializzazione quando finge da deposito di prodotti finiti pronti per essere immessi nel mercato (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 6388/2018).
Dunque, poiché Eu. S.r.l. stoccava nell’immobile per cui è causa prodotti finiti (alimenti) l’attività da essa svolta deve essere qualificata come commerciale.
Ora, non essendo in contestazione che l’immobile di via ... avesse originariamente destinazione produttiva, ne consegue che si è verificato un cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante ai sensi dell’articolo 52, comma 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 (cfr., sentenza n. 1536/2015 della Sezione). Il mutamento da artigianale/produttivo a commerciale determina, infatti, un aumento del carico urbanistico come si ricava dall’articolo 5 D.M. 1444/1968 (cfr., TAR Toscana, Sez. III, sentenza n. 309/2018) e giustifica la debenza di un maggior contributo di costruzione.
Peraltro, ai fini del calcolo dell’aumento del contributo di costruzione dovuti da proprietario e utilizzatore del bene, correttamente l’Amministrazione ha tenuto conto, oltre che della parte destinata a magazzino, anche della superficie lorda occupata dalla celle frigorifere, dagli uffici e dai locali accessori, in quanto vani tutti strettamente funzionali all’attività commerciale medesima, e ha applicato le tabelle per l’attività commerciale, quale è quella svolta da Eu. S.r.l.. Sicché, non vi è stato alcun errore di quantificazione del dovuto.
Infine, la pendenza del ricorso promosso da Eu. S.r.l. avverso analoga ingiunzione di pagamento emessa nei suoi confronti dal Comune non incide in alcun modo sulla legittimità dell’atto qui impugnato. Peraltro, quel giudizio risulta estinto per perenzione.
Né è causa di illegittimità il fatto che l’ingiunzione di pagamento ordini alla società In. S.p.A. il versamento di €uro 303.103,01 a titolo di oneri di urbanizzazione e costi di costruzione, mentre nella nota del 21.07.2001 la stessa somma capitale è richiesta solamente a titolo di oneri di urbanizzazione, facendo salvo il successivo calcolo del costo di costruzione.
Invero, la suddetta nota è un mero atto endoprocedimentale e non l’atto conclusivo del procedimento; peraltro, l’ingiunzione di pagamento, proprio perché qualifica la somma ivi indicata come definitiva e non più come parziale, è più favorevole alla ricorrente, che dunque non ha interesse a dolersene.
In conclusione, il ricorso è infondato e per questo viene respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d'uso.
DOMANDA:
Si chiede di conoscere se per il cambio di destinazione d'uso di un locale dalla categoria catastale C1 (locali commerciali ed artigianali) alla categoria C2 (deposito), siano dovuti gli oneri di urbanizzazione a favore del Comune. Il fabbricato in questione è stato costruito nel 1967.
RISPOSTA:
Con riferimento al quesito posto, si osserva quanto segue.
Preliminarmente, si rileva che la giurisprudenza è costante nell'affermare che il fondamento degli oneri di urbanizzazione (Legge n. 10/1977) non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante quando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici (tra le tante, Consiglio di Stato, Sez. V, 30.08.2013, n. 4326; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 07.04.2016, n. 1769).
La giurisprudenza, inoltre, nel ribadire che la funzione e la causa giuridica degli oneri di urbanizzazione sono quelle di contribuire alle spese da sostenere dalla collettività in riferimento alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, sicché l'unico criterio per determinare se gli oneri siano dovuti o meno consiste nel carico urbanistico derivante dall'attività edilizia, ha precisato che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente quelli esistenti (Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2018, n. 2694).
È stato altresì precisato che poiché l'assoggettamento agli oneri di urbanizzazione trova fondamento nel maggior carico urbanistico generato da un intervento edilizio, deve escludersi la suddetta imposizione quando l'intervento consista in un mutamento di destinazione d'uso che avvenga all'interno della stessa categoria funzionale mentre il pagamento è dovuto quando il mutamento di destinazione d'uso determini il passaggio ad una categoria funzionale autonoma avente maggiore carico urbanistico rispetto a quella pregressa (Tar Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 30.04.2018, n. 368).
Per quanto riguarda l'individuazione delle categorie funzionali, preme rilevare che il legislatore, con l’art. 17, comma 1, lett. n), D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, ha introdotto nel Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (D.P.R. n. 380/2001) l’art. 23-ter, rubricato “Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante”, che dispone quanto segue: “1. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
2. La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile.
3. Le regioni adeguano la propria legislazione ai princìpi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito
”.
L'Allegato A della Deliberazione G.R. Molise 25.03.2019, n. 92 contiene la seguente definizione di carico urbanistico: “Fabbisogno di dotazioni territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua entità e destinazione d'uso. Costituiscono variazione del carico urbanistico l'aumento o la riduzione di tale fabbisogno conseguenti all'attuazione di interventi urbanistico-edilizi ovvero a mutamenti di destinazione d'uso”.
Tutto ciò premesso, venendo all'esame del caso di specie, si osserva che, per poter rispondere al quesito posto occorre verificare se il cambio di destinazione d’uso di un locale dalla categoria catastale C1 (locali commerciali ed artigianali) alla categoria C2 (deposito) costituisca un cambio di destinazione d’uso operato tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, in caso affermativo, se tale passaggio avvenga ad una categoria funzionale autonoma avente maggiore carico urbanistico di quella originaria, oppure costituisca un cambio di destinazione d'uso operato all'interno della stessa categoria funzionale.
Tra le categorie funzionali previste dal vigente art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 (che, ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, trova applicazione diretta qualora la Regione interessata –nel caso di specie, la Regione Molise– non abbia adeguato la propria legislazione ai principi di cui al suddetto articolo entro il termine di 90 giorni dalla sua entrata in vigore e che dunque costituisce la norma di riferimento ai fini della risposta al quesito in oggetto) non si rinviene in maniera espressa la destinazione a deposito di cui alla categoria catastale C2.
Pertanto, occorre cercare di ricondurre la predetta destinazione a deposito in una delle categorie previste dalla predetta norma. A tal fine, potrebbe essere di aiuto la verifica dell’effettiva destinazione urbanistica dell’area in cui è situato l’immobile da assoggettare al cambio di destinazione d'uso, che si ritiene dunque opportuno che venga compiuta da parte di chi ha posto il quesito e che deve essere effettuata, in particolare, prendendo in esame le previsioni dello strumento urbanistico comunale vigente, alle quali non viene fatto alcun riferimento nel testo del quesito.
Considerato che, in linea generale, l'attività di deposito e/o di magazzino produce ricchezza sul ricovero e sullo spostamento di oggetti/merci e non sulla loro creazione o produzione, si ritiene che la destinazione a deposito possa essere ricondotta alla categoria funzionale “commerciale” di cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001. Occorrerà poi indagare a quale categoria funzionale corrisponda la destinazione d'uso “originaria” dell’immobile in questione.
Al riguardo, considerato che il locale presenta una categoria catastale C1 (che corrisponde a “negozi e botteghe”), ferma restando la necessità, già sopra evidenziata, di verificare la destinazione urbanistica effettiva dell’area in cui l'immobile ricade, si ritiene che tale destinazione rientri anch'essa nella categoria funzionale “commerciale” di cui alla lettera c) del comma 1 dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001.
Pertanto, considerato che, alla luce delle suddette considerazioni, il cambio di destinazione d'uso prospettato nel quesito, fermi restando gli opportuni approfondimenti da effettuare in base alle previsioni dello strumento urbanistico comunale vigente, pare suscettibile di essere qualificato come cambio di destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale (commerciale), si ritiene di poter affermare, anche alla luce della giurisprudenza sopra citata, che non siano dovuti gli oneri di urbanizzazione.
Ad ulteriore sostegno di quanto sopra, si osserva, inoltre, che peraltro il mutamento di destinazione d'uso da negozio a deposito (o magazzino) non pare comportare un incremento del carico urbanistico rispetto alla destinazione originaria (novembre 2019 - tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'applicazione dell'art. 23-ter, comma 2, del d.P.R. 380/2001 in tema di cambio di destinazione d'uso – Comune di Velletri (Regione Lazio, nota 06.03.2019 n. 175831 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Sul cambio abusivo di destinazione d’uso dell’immobile da negozio a luogo di culto, senza opere, da parte di una associazione di promozione sociale.
La compatibilità urbanistica, con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal D.M. n. 1444 del 1968, della sede delle associazioni di promozione sociale e dei locali nei quali si svolgono le relative attività (ex art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000), nonché secondo Cass. 449/1985, 24852/2015, 34812/2017 delle attività di culto, non esonera dall’obbligo di richiedere e ottenere un conforme titolo edilizio, non rilevando nel vigente ordinamento giuridico, ai fini della valutazione del regime autorizzatorio applicabile, la qualificazione soggettiva del privato proponente.
Difatti, il citato art. 32 della legge n. 383 del 2000 pone una compatibilità ex lege della sede e dei locali dell’associazione di promozione sociale con qualsiasi zona omogenea di PRG, ma poi la concreta modificabilità del precedente uso, ancorché senza opere, quando non sia tra categorie funzionali omogenee, deve essere assentita in un apposito titolo edilizio, mediante il quale l’Amministrazione possa, oltre che verificare i presupposti allegati dal richiedente circa la riconducibilità della situazione proprio al paradigma del citato art. 32, o ad altre ipotesi di astratta compatibilità, anche verificare l’eventuale maggiore incidenza sotto il profilo urbanistico-edilizio del nuovo uso, ai fini del calcolo della differenza dei relativi oneri, unitamente alla necessità di procedere all’accertamento del rispetto di tutte le prescrizioni sia di natura edilizia che urbanistica che rendano idoneo l’immobile in relazione al nuovo utilizzo.
Pertanto, in mancanza del necessario titolo edilizio, appare assolutamente giustificata l’applicazione della sanzione ripristinatoria prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, laddove, come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso, sia stata abusivamente mutata la destinazione d’uso originariamente assentita.
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La parte ricorrente si qualifica associazione di promozione sociale che dal 2004 svolge le sue attività nell’immobile, ottenuto in locazione dalla proprietaria, sito in Mestre, P.le Madonna Pellegrina, in zona residenziale di completamento B1, avente destinazione d’uso commerciale;
Con l’ordinanza 06.11.2018 il Comune di Venezia contestava alla predetta Associazione l’avvenuto cambio abusivo di destinazione d’uso dell’immobile da negozio a luogo di culto, senza opere, disponendo di conseguenza il rispristino dell’uso legittimo o la conformazione mediante idoneo titolo.
Con il ricorso, si assume l’illegittimità dell’ordinanza, in quanto il contestato mutamento abusivo –da esercizio commerciale ad attività culturale ed esercizio del culto islamico– non potrebbe dirsi sussistente, tenuto conto che la natura di associazione di promozione sociale della ricorrente le consentirebbe di localizzare la propria sede e i locali ove si svolgono le sue attività in qualsiasi zona del territorio comunale e indipendentemente dalla destinazione legittima impressa «ab origine» all’immobile.
Al riguardo il Collegio osserva che la compatibilità urbanistica, con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal D.M. n. 1444 del 1968, della sede delle associazioni di promozione sociale e dei locali nei quali si svolgono le relative attività (ex art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000), nonché secondo Cass. 449/1985, 24852/2015, 34812/2017 delle attività di culto, non esonera dall’obbligo di richiedere e ottenere un conforme titolo edilizio, non rilevando nel vigente ordinamento giuridico, ai fini della valutazione del regime autorizzatorio applicabile, la qualificazione soggettiva del privato proponente (cfr. TAR Toscana, III, 20.12.2012, n. 2105); difatti, il citato art. 32 della legge n. 383 del 2000 pone una compatibilità ex lege della sede e dei locali dell’associazione di promozione sociale con qualsiasi zona omogenea di PRG, ma poi la concreta modificabilità del precedente uso, ancorché senza opere, quando non sia tra categorie funzionali omogenee, deve essere assentita in un apposito titolo edilizio, mediante il quale l’Amministrazione possa, oltre che verificare i presupposti allegati dal richiedente circa la riconducibilità della situazione proprio al paradigma del citato art. 32, o ad altre ipotesi di astratta compatibilità, anche verificare l’eventuale maggiore incidenza sotto il profilo urbanistico-edilizio del nuovo uso, ai fini del calcolo della differenza dei relativi oneri, unitamente alla necessità di procedere all’accertamento del rispetto di tutte le prescrizioni sia di natura edilizia che urbanistica che rendano idoneo l’immobile in relazione al nuovo utilizzo (cfr. TAR Campania, Napoli, VIII, 24.05.2016, n. 2635; altresì, TAR Puglia, Bari, III, 20.05.2016, n. 691, nonché la stessa giurisprudenza invocata sulla compatibilità della attività di culto con ogni destinazione).
Pertanto, in mancanza del necessario titolo edilizio, appare assolutamente giustificata l’applicazione della sanzione ripristinatoria prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, laddove, come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso, sia stata abusivamente mutata la destinazione d’uso originariamente assentita (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2018

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d’uso posto in essere, con passaggio dalla categoria residenziale a quella produttiva, è giuridicamente rilevante e non può essere eseguito liberamente ma necessita del rilascio del permesso di costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, alla cui stregua deve essere letto anche il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di variazioni essenziali al permesso di costruire, così dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, poiché la semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della scelta già operata con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale, configurando un passaggio tra categorie funzionali autonome, costituisce per espressa qualificazione di legge un mutamento giuridicamente rilevante della destinazione d’uso.
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In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto) ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato dalla trasformazione edilizia posta in essere.
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L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale consegue automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza all’ordine di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale istituto connesse al mancato incremento degli standard urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso.
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4. Perimetrato l’ambito del giudizio al su indicato provvedimento di ripristino, si può dare corso allo scrutinio di un primo gruppo di censure articolate avverso quest’ultimo, le quali sono così riassumibili:
   a) l’effettuato cambio di destinazione d’uso era “liberamente eseguibile” e non assoggettabile a permesso di costruire, in virtù del combinato disposto degli artt. 23-ter e 32, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, non avendo giuridica rilevanza per mancato apporto di aggravio urbanistico in termini di ulteriori standard. L’inesistenza del maggior peso urbanistico è comprovata dai seguenti indici:
i) “prima di avere una destinazione residenziale, la porzione di immobile della sig.ra Storno aveva già una destinazione produttiva, sicché l’odierna ricorrente non ha fatto altro che ripristinare l’originaria destinazione d’uso produttiva impressa ad una parte dell’immobile fin dalla sua costruzione”;
ii) “proprio la destinazione d’uso produttiva dell’immobile era stata presa in considerazione dal Comune al momento dell’adozione del P.R.G., sicché lo strumento urbanistico già tiene conto dell’impatto della destinazione produttiva (originaria) dell’immobile della sig.ra Storno ed ha previsto degli standard urbanistici adeguati e correlati direttamente all’utilizzo produttivo dell’immobile”;
iii) “il mutamento di destinazione d’uso concerne una porzione di un edificio che è inserito in un contesto già ampiamente urbanizzato (strade, illuminazione) e dotato altresì di allacci idrici e fognari”;
   b) il cambio di destinazione d’uso in questione “oltre a non avere alcun impatto urbanistico, è anche funzionale all’esercizio di un’attività artigianale, sicché non può omettersi di rilevare che ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. e-bis), del D.P.R. n. 380/2001 rientrano tra l’attività di edilizia libera anche “le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa””;
   c) la legittimità del cambio di destinazione d’uso era comunque asseverata dalla CILA dell’11.07.2016 e dalla SCIA commerciale del 02.09.2016, con la conseguenza che l’amministrazione non avrebbe potuto adottare l’ordine di ripristino senza prima annullare in autotutela i suddetti titoli abilitativi;
   d) l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale prospettata nell’ordinanza di ripristino in caso di inottemperanza non può trovare applicazione a casi, come quello di specie, in cui il cambio di destinazione d’uso da residenziale a produttivo non comporti incremento degli standard urbanistici.
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le ragioni di seguito esplicitate.
5. Il cambio di destinazione d’uso posto in essere dalla ricorrente, con passaggio dalla categoria residenziale a quella produttiva, era giuridicamente rilevante e non poteva essere eseguito liberamente, anche previa CILA come nello specifico, ma necessitava del rilascio del permesso di costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (introdotto dal decreto legge n. 133/2014, convertito nella legge n. 164/2014), alla cui stregua deve essere letto anche il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di variazioni essenziali al permesso di costruire, così dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, poiché la semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della scelta già operata con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale, configurando un passaggio tra categorie funzionali autonome, costituisce per espressa qualificazione di legge un mutamento giuridicamente rilevante della destinazione d’uso (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 22.09.2017 n. 5770; Consiglio di Stato, Sez. VI, 13.05.2016 n. 1951; Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.02.2015 n. 974; Cass. Pen., Sez. III, 03.12.2015 n. 12904; TAR Campania Napoli, Sez. III, 05.09.2017 n. 4249; TAR Lombardia Milano, Sez. II, 17.02.2016 n. 344).
5.1 Né può ritenersi, come sostiene parte ricorrente richiamando un orientamento giurisprudenziale ormai minoritario (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 03.05.2016 n. 1684), che per aversi mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante occorrerebbe appurare, in aggiunta al passaggio tra categorie funzionali diverse, l’effettivo aggravio urbanistico incidente sul tessuto edilizio in termini di incremento degli standard urbanistici (nella specie, parte ricorrente rimarca per l’appunto l’inesistenza di tale maggior peso urbanistico).
Tale tesi merita di essere disattesa perché contrastante sia con la lettera sia con la ratio dell’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001.
Infatti, nell’enunciato della disposizione in parola non si rinviene alcun riferimento all’accertamento in concreto dell’aggravio urbanistico, ma semplicemente si ricollega il concetto di rilevanza del mutamento di destinazione d’uso ad una diversa assegnazione della categoria funzionale di appartenenza, la quale di per sé impatterebbe sul carico urbanistico, inteso come rapporto di proporzione quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una determinata zona territoriale.
Inoltre, inserendosi l’intervento di trasformazione funzionale nell’ambito di un preesistente piano urbanistico, è evidente, in considerazione della differenziazione infrastrutturale tra le singole zone, che la ratio perseguita dalla norma riposa sulla salvaguardia del corretto ed ordinato assetto del territorio piuttosto che sul mero contrasto di eventuali aggravi urbanistici, avendo la finalità di mantenere inalterato il carico urbanistico di ogni zona e di impedire lo stravolgimento degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica mediante appositi standard (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 5770/2017 cit.).
In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto) ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato dalla trasformazione edilizia posta in essere.
...
8. Infine, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale consegue automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza all’ordine di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale istituto connesse al mancato incremento degli standard urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Mutamento di destinazione d'uso senza opere - SCIA o permesso di costruire - Presupposti - Stessa categoria urbanistica - Categoria omogenea - Centri storici - Art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a SCIA, purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016 - dep. 24/06/2016, P.M. in proc. Stellato).
...
Destinazione d'uso - Funzione - Organizzazione e gestione del territorio comunale - Mutamento della destinazione d'uso - Aggravamento del carico urbanistico - Regimi urbanistico-contributivi diversi.
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Pertanto, è giuridicamente rilevante solo il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2018 n. 40678 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, come nella specie, un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Pertanto,
è giuridicamente rilevante solo il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Va, quindi, conclusivamente ribadito che,
in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a SCIA, purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.

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2. Il primo motivo è infondato, essendo prevalentemente articolato in fatto.
Questa Corte ha chiarito che la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo).
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale (Sez. 3, n. 24096 del 07/03/2008, Desimine; Sez. 3, Sentenza n. 35177 del 12/07/2001, dep. 21/10/2002, Cinquegrani Rv. 222740).
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, come nella specie, un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Pertanto, è giuridicamente rilevante solo il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Va, quindi, conclusivamente ribadito che, in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a SCIA, purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016 - dep. 24/06/2016, P.M. in proc. Stellato, Rv. 267106) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2018 n. 40678).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione d’uso senza permesso, demolizione solo in caso di lavori «pesanti». Sulla necessità del permesso di costruire in caso di mutamento di destinazione d'uso di rilevanza urbanistica.
Sulla demolizione di opere edilizie abusive che hanno comportato il mutamento della destinazione d'uso di una soffitta-lavatoio–stenditoio ad uso abitativo residenziale.
Non è controversa l’avvenuta destinazione del complesso soffitta-lavatoio-stenditoio ad uso abitativo, Si tratta, con ogni evidenza, di un mutamento di destinazione d’uso con opere, in quanto anche la semplice realizzazione degli impianti tecnologici e sanitari è sufficiente, per costante giurisprudenza, a tal fine.
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La disposta demolizione presuppone la classificazione del mutamento di destinazione d’uso con opere nell’ambito della ristrutturazione edilizia cd. “pesante” o “maggiore”, alla quale fanno riferimento l’art. 33 del D.P.R. n. 380/2001 e l’art. 16 della L.R. n. 15/2008.
Tale classificazione è stata adottata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione in numerose sentenze.
Invero, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare, per quanto qui interessa, quanto segue:
   - “la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale”;
   - “quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza…. si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione”;
   - “un delicato problema di coordinamento interpretativo si correla alla disposizione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), secondo la quale sono subordinati a permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione edilizia che ..., limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione d'uso". Il che potrebbe portare ad affermare che, fuori delle zone omogenee A), la ristrutturazione edilizia (purché non comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici) sarebbe sottratta al regime del permesso di costruire e realizzabile mediante denuncia di inizio dell'attività anche se si accompagni alla modifica della destinazione d'uso.
Una conclusione siffatta, però, si porrebbe in contrasto con l'assoggettamento al permesso di costruire, anche fuori dei centri storici, delle opere di manutenzione straordinaria e di restauro e risanamento conservativo (interventi di minore portata rispetto alla ristrutturazione edilizia) qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
Un'interpretazione coerente della disposizione […], conseguentemente, può aversi soltanto allorché si ritenga che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni d'uso compatibili" già considerate dallo stesso D.P.R., art. 3, comma 1, lett. c) (nella descrizione della tipologia del restauro e risanamento conservativo).
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, in sostanza, alla stessa stregua degli interventi di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo:
   - necessitano sempre di permesso di costruire, qualora comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico;
   - fuori dei centri storici sono realizzabili mediante denunzia di attività qualora comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea;
   - nei centri storici non possono essere realizzati mediante denunzia di attività neppure qualora comportino il mero mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea”.
Tale linea interpretativa è stata confermata dalla successiva giurisprudenza.
In particolare, ha precisato che la “imprescindibile necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza delle modifiche introdotte dal D.L. 12.09.2014, n. 133, art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di detti interventi procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico”.
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Nel caso di trasformazione di vani accessori in vani abitabili in un edificio residenziale, è da ritenersi -in generale- che non vi sia il rispetto degli elementi formali/strutturali dell’organismo edilizio.
La Corte di cassazione ritiene che gli "
elementi formali" attengono alla disposizione dei volumi, elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando la sua immagine caratteristica; mentre gli "elementi strutturali" sono quelli che materialmente compongono la struttura dell'organismo edilizio.
Ad avviso del Collegio, detti requisiti non vanno giustapposti, bensì considerati sinteticamente come espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è connotato non solo tipologicamente, ma anche come individualità che include una determinata proporzione di elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito della mera conservazione, sia pur intesa dinamicamente.
Inoltre, il Collegio ritiene decisivo osservare che la qualificazione dell’intervento in questione quale restauro e risanamento conservativo è radicalmente preclusa dal testo dell’art. 16, comma 1, della L.R. 11.08.2008, n. 15 (applicato nella fattispecie dall’Amministrazione), il quale accomuna espressamente agli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001 i “cambi di destinazione d’uso da una categoria generale ad un’altra…in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’art. 22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001”, senza limitarne la portata applicativa alle Zone A.
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La questione è connessa a quella del carattere urbanisticamente rilevante di questo tipo di mutamento (da locale accessorio o pertinenza a vano abitabile).
Si tratta, in realtà, di un mutamento del tutto assimilabile a un cambio di categoria rilevante ai sensi dell’art. 23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 e come tale avente rilevanza urbanistica ai sensi del punto 38 della Tabella A - Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (D.Lgs. 222/2016).
Questo Tribunale ha affermato al riguardo che “nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria. Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire”.
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1. La società ricorrente impugna l'ordinanza prot. n. 1954 n. 9/2017 del 01.02.2017 del Comune di Rignano Flaminio avente ad oggetto la demolizione opere edilizie abusive ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, unitamente al presupposto verbale di sopralluogo della Polizia Locale.
Le opere in questione riguardano una unità immobiliare collocata nell'immobile censito nel N.C.E.U. al Foglio 4, Particella 1014, Subalterno 568, edificato sul terreno in Catasto al Foglio 4, Particella 1014 (edificio B) e situato in Zona B di P.R.G., in area non vincolata paesaggisticamente.
Esse hanno comportato il mutamento della destinazione d'uso a soffitta-lavatoio-stenditoio, risultante dagli elaborati progettuali dei Permessi di Costruire, in destinazione residenziale, a seguito di un insieme sistematico di opere accessorie realizzate per rendere i vari ambienti dell'unità immobiliare adatti ad un uso abitativo, le quali sono così descritte:
   - Installazione di un termosifone e fornitura del gas nel vano denominato "soffitta C1" adibito a cucina con gli appositi arredi.
   - Installazione di due termosifoni, realizzazione di una presa TV e telefono nonché di prese della corrente nel vano principale denominato "soffitta C" ora adibito a soggiorno.
   - Installazione di un termosifone, realizzazione di una presa TV nonché di prese della corrente, nel vano denominato "Soffitta C2" ora adibito a camera da letto matrimoniale con armadio.
   - Installazione di un termosifone, realizzazione di un wc, doccia e prese della corrente nel vano denominato “lavatoio” ora adibito a bagno.
   - Realizzazione di una presa TV e della corrente nello stenditoio scoperto lato sud.
   - Realizzazione di un vano caldaia nello stenditoio scoperto lato est.
...
6. Il terzo motivo di ricorso attiene alla disciplina del mutamento di destinazione d'uso, che necessita di permesso di costruire soltanto in caso di rilevanza urbanistica.
Secondo il ricorrrente, ove non si verifichi il passaggio da una categoria all’altra, di cui all’art. 23-bis del T.U. Ed., è sufficiente una semplice DIA (ora SCIA), la cui omissione non è passibile di ordinanza di demolizione, ma solamente della sanzione pecuniaria di cui all’art. 37 T.U. cit., che fa salve le ipotesi, qui non ricorrenti, degli interventi eseguiti su beni culturali ovvero in zona tipizzata come “A” dallo strumento urbanistico.
6.1 Il motivo è infondato.
6.1.1 In punto di fatto, non è controversa l’avvenuta destinazione del complesso soffitta-lavatoio-stenditoio ad uso abitativo, come risulta anche dai rilievi fotografici acquisiti agli atti del giudizio.
Si tratta inoltre, con ogni evidenza, di un mutamento di destinazione d’uso con opere, in quanto anche la semplice realizzazione degli impianti tecnologici e sanitari è sufficiente, per costante giurisprudenza, a tal fine.
6.1.2 In punto di diritto, va anzitutto osservato che la disposta demolizione presuppone la classificazione del mutamento di destinazione d’uso con opere nell’ambito della ristrutturazione edilizia cd. “pesante” o “maggiore”, alla quale fanno riferimento l’art. 33 del D.P.R. n. 380/2001 e l’art. 16 della L.R. n. 15/2008.
Tale classificazione è stata adottata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione in numerose sentenze.
Già con la sentenza 05.03.2009 n. 9894 della III sezione penale, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare, per quanto qui interessa, quanto segue:
   - “la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale
”;
   - “quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza…. si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione
”;
   - “un delicato problema di coordinamento interpretativo si correla alla disposizione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), secondo la quale sono subordinati a permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione edilizia che ..., limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione d'uso". Il che potrebbe portare ad affermare che, fuori delle zone omogenee A), la ristrutturazione edilizia (purché non comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici) sarebbe sottratta al regime del permesso di costruire e realizzabile mediante denuncia di inizio dell'attività anche se si accompagni alla modifica della destinazione d'uso.
Una conclusione siffatta, però, si porrebbe in contrasto con l'assoggettamento al permesso di costruire, anche fuori dei centri storici, delle opere di manutenzione straordinaria e di restauro e risanamento conservativo (interventi di minore portata rispetto alla ristrutturazione edilizia) qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
Un'interpretazione coerente della disposizione […], conseguentemente, può aversi soltanto allorché si ritenga che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni d'uso compatibili" già considerate dallo stesso D.P.R., art. 3, comma 1, lett. c) (nella descrizione della tipologia del restauro e risanamento conservativo).
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, in sostanza, alla stessa stregua degli interventi di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo:
   - necessitano sempre di permesso di costruire, qualora comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico;
   - fuori dei centri storici sono realizzabili mediante denunzia di attività qualora comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea;
   - nei centri storici non possono essere realizzati mediante denunzia di attività neppure qualora comportino il mero mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea
”.
Tale linea interpretativa è stata confermata dalla successiva giurisprudenza (cfr. ex multis Cass. pen, sez. III, 28.01.2015, n. 3953). In particolare, Cass. pen, sez. III, 14.02.2017, n. 6873, ha precisato che la “imprescindibile necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza delle modifiche introdotte dal D.L. 12.09.2014, n. 133, art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di detti interventi procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico”.
Dalla ricostruzione della disciplina normativa successiva alle riforme del 2014-2017 potrebbe trarsi, secondo una diversa ipotesi, anche l'interpretazione per cui il mutamento di destinazione d’uso potrebbe essere ricompreso -almeno in alcuni casi- nella definizione di restauro e risanamento conservativo (secondo la linea interpretativa adottata da TAR Toscana, sez. III, 28.07.2017, n. 1009).
Ad avviso del Collegio, tuttavia, questa classificazione (la quale comporterebbe un diverso regime sanzionatorio edilizio, conformemente alla prospettazione della parte ricorrente) non può essere recepita.
In realtà la sentenza della Cassazione da ultimo menzionata, richiamando la giurisprudenza anteriore, ha anche precisato sul punto che nella categoria del restauro e risanamento conservativopossono essere annoverate soltanto le opere di recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle quali apportano un consolidamento, un rinnovo o l'inserimento di nuovi elementi costitutivi, a condizione che siano complessivamente rispettate tipologia, forma e struttura dell'edificio”.
La diversa opinione fa leva, oggi, sulla nuova definizione di restauro e risanamento conservativo introdotta nell’art. 3, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, ad opera dell’art. 65-bis della L. n. 96/2017: “gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio”.
Pur tuttavia, anche questa versione della norma prevede sempre il requisito della compatibilità con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo edilizio (su cui cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2013, n. 4851).
Ora, nel caso di trasformazione di vani accessori in vani abitabili in un edificio residenziale, è da ritenersi -in generale- che non vi sia il rispetto degli elementi formali/strutturali dell’organismo edilizio.
La Corte di cassazione ritiene che gli "elementi formali" attengono alla disposizione dei volumi, elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando la sua immagine caratteristica; mentre gli "elementi strutturali" sono quelli che materialmente compongono la struttura dell'organismo edilizio (Cass. pen., sez. III, 26.11.2014, n. 49221).
Ad avviso del Collegio, detti requisiti non vanno giustapposti, bensì considerati sinteticamente come espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è connotato non solo tipologicamente, ma anche come individualità che include una determinata proporzione di elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito della mera conservazione, sia pur intesa dinamicamente.
Inoltre, il Collegio ritiene decisivo osservare che la qualificazione dell’intervento in questione quale restauro e risanamento conservativo è radicalmente preclusa dal testo dell’art. 16, comma 1, della L.R. 11.08.2008, n. 15 (applicato nella fattispecie dall’Amministrazione), il quale accomuna espressamente agli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001 i “cambi di destinazione d’uso da una categoria generale ad un’altra…in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’art. 22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001”, senza limitarne la portata applicativa alle Zone A.
In piena continuità con questa impostazione si colloca, da ultimo, la recente L.R. 18.07.2017, n. 7 (“Disposizioni per la rigenerazione urbana e il recupero edilizio”), la quale così dispone all’art. 4, comma 1: “I comuni, con apposita deliberazione di consiglio comunale da approvare mediante le procedure di cui all'articolo 1, comma 3, della L.R. n. 36/1987, possono prevedere nei propri strumenti urbanistici generali, previa acquisizione di idoneo titolo abilitativo di cui al D.P.R. n. 380/2001, l'ammissibilità di interventi di ristrutturazione edilizia, compresa la demolizione e ricostruzione, di singoli edifici aventi una superficie lorda complessiva fino ad un massimo di 10.000 mq, con mutamento della destinazione d'uso tra le categorie funzionali individuate all'articolo 23-ter del D.P.R. 380/2001 con esclusione di quella rurale”.
La questione è connessa a quella del carattere urbanisticamente rilevante di questo tipo di mutamento (da locale accessorio o pertinenza a vano abitabile).
Si tratta, in realtà, di un mutamento del tutto assimilabile a un cambio di categoria rilevante ai sensi dell’art. 23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 e come tale avente rilevanza urbanistica ai sensi del punto 38 della Tabella A - Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (D.Lgs. 222/2016).
Questo Tribunale ha affermato al riguardo che “nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria. Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire” (cfr. TAR Lazio, sez. II-bis, 11.07.2018, n. 7739; cfr. altresì sez. II-bis, 04.04.2017, n. 4225; sez. II-bis, 30.01.2017, n. 1439; nonché Cass. pen., sez. fer., 05.10.2015, n. 39907).
Per mera completezza va anche osservato che nessun rilievo riveste, nella specie, il profilo di cui all’art. 23-ter, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 (“La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile”): secondo la Cassazione penale, sez. III, 29.11.2016, n. 50503, l’accertamento sulla prevalenza della destinazione d'uso del fondo riguarda solamente il caso di una destinazione mista, allo scopo di stabilire quale sia la destinazione d'uso da considerare prevalente, per verificare se vi sia stato un mutamento rispetto ad essa; mentre nel caso dei locali accessori non si discute della destinazione residenziale complessiva dell’opera, che è certa ed è unitaria, ma della diversa questione della ripartizione dei volumi principali e accessori, secondo le considerazioni poc’anzi esposte.
...
9. Conclusivamente il ricorso va respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 30.08.2018 n. 9074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAEsposizione di auto smantellata.
Il comune che accerta l'occupazione abusiva di un'area da parte di un concessionario di autoveicoli deve ordinare l'immediata cessazione dell'esposizione a cielo aperto. Anche se si tratta di una porzione di terreno posizionata in una zona periferica degradata che è stata curata negli anni grazie all'intervento del commerciante di automobili.

Lo ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, con la sentenza 09.08.2018 n. 8949.
Un concessionario della periferia romana si è allargato recintando un'area confinante con la sua e posizionando negli anni in questo spazio una vera e propria esposizione di veicoli a cielo aperto.
A seguito di un controllo della polizia municipale di Roma capitale il dirigente capitolino ha ordinato l'immediata cessazione dell'occupazione abusiva e l'interessato ha proposto ricorso contro questa determinazione. Ma senza successo.
Non interessa tanto il fatto che i veicoli in questione siano solo in esposizione e non in vendita, specifica il collegio. Quello che rileva è il fatto che senza alcun titolo il commerciante abbia posizionato dei veicoli su una porzione di terreno per esercitare la sua attività commerciale
(articolo ItaliaOggi del 25.08.2018).
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MASSIMA
Rileva il Collegio che il presupposto in fatto delle censure dedotte –secondo il quale la ricorrente avrebbe ottenuto l’area in questione in affidamento in custodia a seguito di eventi di rilievo per l’ordine pubblico puntualmente descritti in ricorso– è del tutto recessivo rispetto all’oggetto del provvedimento impugnato, che è rivolto a determinare la cessazione dell’attività di deposito a cielo aperto di autoveicoli, questione che attiene all’utilizzazione in atto dell’area, non alla sua titolarità in capo alla ricorrente stessa.
Quest’ultima trascura di considerare che
la collocazione di autoveicoli in area a cielo aperto in uso all’azienda comporta la qualificazione dell’attività come di deposito, senza che rilevi lo specifico scopo commerciale (che può variare a seconda della natura dell’attività di impresa) ai fini del quale l’esposizione degli automezzi è rivolta e finalizzata (in ordine al rapporto tra il deposito a cielo aperto, l’attività di tipo imprenditoriale cui è riferita e la necessità della SCIA, si veda TAR Lazio, II-ter, 18.01.2018 nr. 651; per il rapporto tra l’attività in parola ed il regime del titolo edilizio, si veda, della stessa Sezione, sentenza nr. 11090 del 07.11.2017), con la conseguenza che, ai fini dell’odierno giudizio, l’asserita locazione finanziaria degli autoveicoli medesimi non implica la qualificazione del relativo esercizio in termini di attività finanziaria sottratta all’applicazione dell’art. 19 della l. 241/1990 (quanto al regime delle attività semplificate, però, non nei termini della possibilità di esercitare senza alcun titolo).
In ogni caso, non sussiste dimostrazione alcuna né della titolarità dell’affidamento dell’area in custodia che parte ricorrente afferma, ma non comprova, di avere ricevuto (peraltro da funzionari di altra amministrazione, non proprietaria dell’area, né titolare di poteri di amministrazione attiva di tipo territoriale); né della circostanza, del pari meramente affermata, secondo la quale sarebbe stata comunicata l’attività di collocazione della recinzione (ciò rileva sia ai fini della decorrenza dei termini di cui alla seconda censura,
sia al fine di valutare la regolarità edilizia della recinzione, che, pertanto, allo stato va ritenuta insussistente, dal momento che il relativo regime dipende dalle caratteristiche tipologiche e rimane esclusa la necessità di un titolo solo in caso di modesta consistenza senza opere murarie di alcun genere, vedasi da ultimo Consiglio di Stato, IV 15.12.2017, n. 5908).
Nessuna delle censure dedotte può quindi trovare accoglimento, stante l’irrilevanza della natura finanziaria o meno dell’attività, nonché essendo palese l’insussistenza di qualsiasi legittimo affidamento (difettando un provvedimento di assegnazione dell’area come pure un titolo per la sua trasformazione), ed avendo riguardo alla completezza dell’istruttoria condotta dall’ufficio (che aveva richiesto di dimostrare il titolo dell’assegnazione dell’area).
Quanto agli ulteriori profili inerenti le spese eseguite dalla ricorrente sull’area, deve affermarsi che l’espletamento di fatto dell’attività sull’area ed il relativo possesso, ancorché prolungato, non costituiscono titolo per il permanere dell’occupazione dell’area pubblica ai fini del deposito a cielo aperto; ogni questione inerente il rapporto economico tra il valore e l’utilità dell’occupazione, anche sotto il profilo della tutela di ordine pubblico della zona, si colloca in fase esecutiva della determinazione impugnata ed attiene allo stato a poteri non ancora esercitati (non risultando avanzata dalla ricorrente alcuna richiesta di indennizzo o di risarcimento, né, di converso, adottata alcuna determinazione in merito da parte dell’Amministrazione), con conseguente impossibilità per il giudice di pronunciarsi al riguardo.
Resta salva, naturalmente, l’azione della PA cui compete di valutare, nel procedimento amministrativo, ogni eventuale istanza che il privato riterrà di proporre ai fini della valutazione del valore delle opere eseguite.
Il ricorso è quindi infondato e come tale va respinto, con ogni conseguenza in ordine alle spese di lite che si liquidano come in dispositivo.

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini del mutamento di destinazione d’uso è necessario che la destinazione assunta dall’immobile non sia in contrasto con la destinazione di zona prevista dal PRG.
La zona in cui insiste l'immobile in questione è classificata zona omogenea D7 dal PRG, riservata alla costruzione di insediamenti per servizi logistici e di supporto alle attività industriali.
In tale area non è, quindi, possibile l'insediamento di locali per pubblico spettacolo, come quello per il quale è stato chiesto il cambio di destinazione d’uso. Né la possibilità di insediamento può essere tratta dalla specificazione degli insediamenti installabili in zona D7 riportata nello stesso provvedimento gravato (“aziende di trasporto pubbliche e private, servizi telematici ed informatici, centralizzati, magazzini di stoccaggio merci, mense, locande e pensioni per non più di 20 posti letto, aziende di pulizie, manutenzione, realizzazione impianti”), in quanto si tratta di attività diverse e incompatibili con la destinazione di locale per pubblico spettacolo.
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Circa l'impugnato diniego
sull’istanza di rilascio del permesso di costruire per mutamento di destinazione, con preceduto dalla comunicazione degli elementi ostativi ex art. 10-bis l. 241/1990 può, farsi applicazione di quanto disposto dell’art. 21-octies, comma 2, della medesima legge poiché trattasi di ambito provvedimentale a carattere vincolato e, in ogni caso, risulta che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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Parte ricorrente ha impugnato il provvedimento n. 13031 del 18/06/2013 del Comune di Marcianise, di diniego sull’istanza di rilascio del permesso di costruire per mutamento di destinazione, senza opere edili strutturali, dell'unità immobiliare sita in località S. Ippolito, in catasto al f. 17, p.lla 5326, nonché ogni altro atto presupposto, connesso o conseguente.
In particolare, la medesima parte ricorrente è proprietaria di un immobile insistente in una zona omogenea classificata D7 dallo strumento urbanistico, riservata a insediamenti per servizi logistici e di supporto alle attività industriali. Ha presentato un’istanza al Comune per il rilascio del permesso di costruire finalizzato al cambio di destinazione d’uso, dall’attuale destinazione commerciale dell’immobile, a “locale per pubblico spettacolo”.
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1) Il ricorso si palesa infondato.
Il cambio destinazione d'uso richiesto da parte ricorrente non era assentibile, in quanto la destinazione desiderata è contraria alle prescrizioni dello strumento urbanistico comunale e, in particolare, alla destinazione di zona.
Ai fini del mutamento di destinazione d’uso è necessario che la destinazione assunta dall’immobile non sia in contrasto con la destinazione di zona prevista dal PRG.
La zona in cui insiste l'immobile in questione è classificata zona omogenea D7 dal PRG, riservata alla costruzione di insediamenti per servizi logistici e di supporto alle attività industriali.
In tale area non è, quindi, possibile l'insediamento di locali per pubblico spettacolo, come quello per il quale è stato chiesto il cambio di destinazione d’uso. Né la possibilità di insediamento può essere tratta dalla specificazione degli insediamenti installabili in zona D7 riportata nello stesso provvedimento gravato (“aziende di trasporto pubbliche e private, servizi telematici ed informatici, centralizzati, magazzini di stoccaggio merci, mense, locande e pensioni per non più di 20 posti letto, aziende di pulizie, manutenzione, realizzazione impianti”), in quanto si tratta di attività diverse e incompatibili con la destinazione di locale per pubblico spettacolo.
Né in senso contrario può far concludere la circostanza che l'immobile di proprietà di parte ricorrente, del quale si è chiesto il cambio di destinazione, abbia attualmente destinazione commerciale.
Il fatto che un locale abbia, per qualsiasi motivazione, una destinazione difforme a quella di zona non autorizza il proprietario ad adibirlo ad altre destinazioni che, seppure sono affini a quella posseduta, non sono consentite dallo strumento urbanistico vigente.
Allo stesso modo non ha rilievo la deduzione che il PRG avrebbe perso rilevanza nella zona in questione perché vi sarebbero di fatto ubicate attività (commerciali) diverse da quelle consentite dalla destinazione di zona omogenea D7.
In primo luogo, infatti, tale circostanza appare indimostrata e, in secondo luogo, l’eventuale violazione di fatto delle prescrizioni del PRG inerenti alla destinazione di zona, non ha alcun effetto ai fini di legittimare l’installazione di ulteriori attività non consentite, con la conseguenza di compromettere ulteriormente la pianificazione urbanistica.
Quanto alla doglianza inerente alla non necessarietà del permesso di costruire, l’istanza di permesso di costruire è stata presentata dalla stessa parte ricorrente, e, in ogni caso, vale anche qui la considerazione che in ogni caso la destinazione desiderata è incompatibile con quella di zona.
2) Da rigettare è anche la censura relativa alla violazione dell’art. 10-bis legge n. 241/1990, per omissione del preavviso di rigetto.
Ritiene al riguardo il Collegio che, per i motivi indicati nel punto che precede, possa farsi applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990, trattandosi di ambito provvedimentale a carattere vincolato e, in ogni caso, risultando che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, considerata l’applicabilità di quest’ultima norma anche alle violazioni dell’art. dall’art. 10-bis legge n. 241/1990 (TAR Sicilia Palermo, sez. I, 23.03.2011, n. 541; Consiglio Stato, sez. VI, 18.03.2011, n. 1673; TAR Puglia Lecce, sez. II, 12.09.2006, n. 4412; TAR Piemonte, sez. I, 14.06.2006 , n. 2487; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 06.11.2006 , n. 2875).
In tal senso si rivela, infatti, corretta l’indicazione contenuta nello stesso provvedimento gravato secondo cui la previa comunicazione di avvio del procedimento era stata omessa in considerazione dell’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.07.2018 n. 5126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Al riguardo si legga anche il commento:
  
M. Tomaello e C. Perin, Mutamento di destinazione d’uso di un immobile in contrasto con le previsioni di zona (09.08.2018 - link a regione.veneto.it/web/ambiente-e-territorio/news-urbjus).

EDILIZIA PRIVATA: Sulle opere realizzate volte a trasformare i locali adibiti a servizi (soffitta, lavatoio, stenditoio ed essiccatoio) in abitazione.
Le opere realizzate dalla ricorrente, volte a trasformare i locali adibiti a servizi (soffitta, lavatoio, stenditoio ed essiccatoio) in abitazione, con la modifica dei prospetti, sono, in verità, idonee a mutare radicalmente la destinazione d’uso dell’immobile in questione in locale residenziale, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico e non appaiono legittimate dalla presentata DIA.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. a) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1, lett. c), e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano, infatti, del preventivo rilascio del permesso di costruire, e non di semplice DIA, ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del terzo piano del fabbricato -originariamente destinato a soffitta- che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non poteva considerarsi semplicemente già tutto a destinazione abitativa.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “
accessori” o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, ciò integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti”.
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Il provvedimento di demolizione delle opere abusive si rivela frutto di una sufficiente istruttoria e congruamente motivato con il richiamo alle risultanze dell’accertamento del 27.11.2017, nonché del tutto vincolato, senza che la partecipazione della ricorrente, volta a rappresentare elementi, in realtà, ininfluenti sui fatti di causa, potesse apportare alcun elemento utile ad una diversa determinazione dell’Amministrazione.
Come evidenziato, del resto, dalla giurisprudenza amministrativa prevalente, “è legittima l'ordinanza di demolizione che non sia stata preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, sia per la natura vincolata dell'attività amministrativa volta alla repressione degli abusi edilizi, sia per l'operatività dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241 atteso che, in base a tale ultima disposizione, l'omissione non comporta comunque conseguenze sul piano della legittimità dei provvedimenti adottati, qualora il contenuto dispositivo di essi non avrebbe potuto essere diverso, anche a fronte della partecipazione degli interessati".
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Con il ricorso in epigrafe la Ed.Pe. s.r.l. ha chiesto al Tribunale di annullare, previa sospensione dell’efficacia, la determinazione dirigenziale di Roma Capitale dell’11.01.2018, avente ad oggetto “Ingiunzione a rimuovere o demolire gli interventi di ristrutturazione edilizia abusivamente realizzati in via del Pergolato n. 84 (art. 16 Legge Regione Lazio n. 15/2008 e s.m.i.) fasc. UDE 117/17” e qualsiasi altro atto presupposto e/o conseguente del procedimento.
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Il ricorso non è fondato e deve essere respinto.
Le opere realizzate dalla ricorrente, volte, come anticipato, a trasformare i locali adibiti a servizi (soffitta, lavatoio, stenditoio ed essiccatoio) in abitazione, con la modifica dei prospetti, sono, in verità, idonee a mutare radicalmente la destinazione d’uso dell’immobile in questione in locale residenziale, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico e non appaiono legittimate dalla DIA del 16.05.2006.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1, lettera c), e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano, infatti, del preventivo rilascio del permesso di costruire, e non di semplice DIA, ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del terzo piano del fabbricato -originariamente destinato a soffitta- che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non poteva considerarsi semplicemente già tutto a destinazione abitativa.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, di recente ribadito da questa stessa Sezione (cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 04.04.2017 n. 4225 e 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, ciò integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti”.
Alla luce di tali argomentazioni, il provvedimento di demolizione delle opere abusive si rivela frutto di una sufficiente istruttoria e congruamente motivato con il richiamo alle risultanze dell’accertamento del 27.11.2017, nonché del tutto vincolato, senza che la partecipazione della ricorrente, volta a rappresentare elementi, in realtà, ininfluenti sui fatti di causa, potesse apportare alcun elemento utile ad una diversa determinazione dell’Amministrazione.
Come evidenziato, del resto, dalla giurisprudenza amministrativa prevalente, “è legittima l'ordinanza di demolizione che non sia stata preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, sia per la natura vincolata dell'attività amministrativa volta alla repressione degli abusi edilizi, sia per l'operatività dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241 atteso che, in base a tale ultima disposizione, l'omissione non comporta comunque conseguenze sul piano della legittimità dei provvedimenti adottati, qualora il contenuto dispositivo di essi non avrebbe potuto essere diverso, anche a fronte della partecipazione degli interessati” (cfr. ex multis, TAR Marche, Sez. I, 28.09.2017 n. 750 TAR Campania, Napoli, Sez. III, 12.02.2018 n. 898).
In conclusione, il ricorso non può, come detto, che essere integralmente rigettato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 11.07.2018 n. 7739 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla trasformazione di una porzione -autorimessa o deposito- di immobile, nel suo complesso a destinazione abitativa, con l’effetto di incidere in modo determinate sul relativo carico urbanistico.
Questo Tribunale ha considerato «l’aggiunta di un vano, ricavato da parte di superficie del deposito adiacente al piano terra» alla stregua di «una difformità rilevante rispetto al progetto approvato», atteso che «in luogo di uno spazio destinato a deposito sono stati realizzati un volume ed una superficie residenziali … Di conseguenza, non si tratta di una mera opera interna, derivandone, in conseguenza del peculiare uso sostanzialmente diverso rispetto a quello assentito … un superamento dei parametri edilizi consentiti».
A conclusioni analoghe giunge anche il TAR Lazio, secondo cui «nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, … deve ritenersi che … allorché lo stesso [cambio di destinazione d’uso] intervenga … tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall’esecuzione di opere…».

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Sul primo aspetto, con comunicazione n. 15795 del 24.10.2016, di «riscontro alle controdeduzioni del 27/09/2016 prot. n. 14046», il Comune di Roccapiemonte aveva rappresentato che «agli atti d’ufficio non risulta alcuna comunicazione, SCIA o altra pratica edilizia dalla quale riscontrare l’avvenuta legittimazione della variazione effettivamente operata».
Al riguardo, non può essere condiviso quanto affermato da parte ricorrente, secondo cui «in assenza di opere, non contestate nel provvedimento, il mutamento di destinazione fra categorie omogenee è libero» (pag. 7 del ricorso).
È vero infatti che l’invocato art. 2, co. 5, L.R. n. 19/2001, ha reso «libero il mutamento di destinazione d’uso senza opere purché nell’ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee (co. 5, art. 2 cit.)», sul presupposto che «nell’ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito della medesima categoria» (Cons. di Stato, I, sent. n. 3586/2006).
Nel caso in esame, tuttavia, viene in rilievo la diversa questione della trasformazione di una porzione -autorimessa o deposito- di immobile, nel suo complesso a destinazione abitativa, con l’effetto di incidere in modo determinate sul relativo carico urbanistico.
In fattispecie analoga, questo Tribunale ha considerato «l’aggiunta di un vano, ricavato da parte di superficie del deposito adiacente al piano terra» alla stregua di «una difformità rilevante rispetto al progetto approvato», atteso che «in luogo di uno spazio destinato a deposito sono stati realizzati un volume ed una superficie residenziali … Di conseguenza, non si tratta di una mera opera interna, derivandone, in conseguenza del peculiare uso sostanzialmente diverso rispetto a quello assentito … un superamento dei parametri edilizi consentiti» (sez. I, sent. n. 1016/2013, confermata dal Consiglio di Stato, VI, sent. n. 216/2015).
A conclusioni analoghe giunge anche il TAR Lazio, secondo cui «nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, … deve ritenersi che … allorché lo stesso [cambio di destinazione d’uso] intervenga … tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall’esecuzione di opere…
» (sez. II-bis, sent. n. 4577/2017) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.05.2018 n. 742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: IL MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO TRA CATEGORIE NON OMOGENEE (DA CATEGORIA COMMERCIALE A RESIDENZIALE) RICHIEDE IL P.D.C.
In materia di reati edilizi, il passaggio dalla destinazione di un immobile da spogliatoio annesso ad una sala da ballo (categoria commerciale), utilizzato in via funzionale ad altro fabbricato, a due mini appartamenti (categoria residenziale) determina non solo un cambio tra categorie non omogenee, ma è anche idoneo a incidere sul carico urbanistico sul semplice rilievo che la destinazione precedente prevede una presenza saltuaria di persone, in luogo della presenza continua di chi dimora in una abitazione, né rileva la circostanza che solo con la L. n. 164 del 2014 è stato introdotto nel d.P.R. n. 380 del 2001, l’art. 23-ter (mutamento d’uso urbanisticamente rilevante), atteso che con esso il legislatore ha inteso normativizzare principi già affermati dalla giurisprudenza ordinaria e amministrativa, non potendosi quindi farsi discendere la conclusione secondo cui l’intervento realizzato in epoca antecedente sia comunque consentito in assenza di titolo abilitativo.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla questione, annosa e ricorrente nella prassi delle aule giudiziarie, della individuazione del titolo abilitativo necessario in presenza di un mutamento di destinazione d’uso.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il Tribunale aveva condannato un imputato per il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, per avere effettuato, senza permesso di costruire, un mutamento di destinazione d’uso, senza opere, “funzionale” tra categorie non omogenee, passando dalla classe D alla classe A così rendendo l’immobile, di cui era proprietario, in origine destinato a spogliatoio a servizio della sala da ballo, in due unità abitative (mini appartamenti) con variazione degli standard urbanistici, che cedeva in locazione a terzi.
Avverso la detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo non essere stato realizzato un mutamento di destinazione d’uso incompatibile con le previsioni contenute nello strumento urbanistico, in quanto la trasformazione da spogliatoio annesso a locale sala da ballo in due unità abitative non avrebbe comportato alcun aumento del carico urbanistico, giacché erano previsti tutti gli allacci alla rete elettrica, idrica e fognaria, ma al contrario per la presenza di un singolo occupante il medesimo sarebbe stato anche meno grave. Inoltre, non poteva trovare applicazione, in quanto norma intervenuta successivamente ai fatti, la L. n. 164 del 2014, art. 23-ter rubricato “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante”.
La tesi difensiva è stata ritenuta infondata dagli Ermellini che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno ricordato che costituisce ius receptum il principio secondo cui in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d’uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell’ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d’uso sia eseguito nei centri storici, anche all’interno di una stessa categoria omogenea (Cass. pen., Sez. III, 05.04.2016, n. 26455, P.M. in proc. S., CED, 267106; Id., Sez. III, 03.12.2015, n. 12904, P., CED, 266483; Id., Sez. III, 24.06.2014, n. 39897, F., CED, 260422; Id., Sez. III, 13.12.2013 n. 5712, T., CED, 258686).
La destinazione d’uso è infatti un elemento che qualifica la connotazione dell’immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto l’aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
In tale ambito solo gli strumenti di pianificazione, generali ed attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la destinazione d’uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi. Da cui l’ovvia conseguenza che le modifiche non consentite della singola destinazione, incidendo sull’assetto del territorio comunale come pianificato, incidono negativamente sull’organizzazione dei servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione ottimale del territorio.
Dunque, come è stato costantemente osservato, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico che influisce sul carico urbanistico (TAR Campania, Sez. VII, 06.11.2017 n. 5152) tenuto conto che nell’ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistici stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito della medesima categoria.
Per individuare in concreto il mutamento della precedente destinazione d’uso si dovrà tenere conto, come indicato dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. V, 24.10.1996, n. 3) della destinazione indicata nell’ultimo provvedimento abilitativo (licenza o concessione edilizia), della tipologia dell’immobile e della attitudine funzionale che il bene viene ad assumere.
Ed allora, concludono i Supremi Giudici, è evidente che il passaggio dalla destinazione dell’immobile da spogliatoio annesso ad una sala da ballo (categoria commerciale), utilizzato in via funzionale ad altro fabbricato, a due mini appartamenti (categoria residenziale) determina senza ombra di dubbio non solo un cambio tra categorie non omogenee, ma anche idoneo a incidere sul carico urbanistico sul semplice rilievo che la destinazione precedente prevedeva una presenza saltuaria di persone, in luogo della presenza continua di chi dimora in una abitazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.02.2018 n. 7271 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO INTERVENUTO TRA CATEGORIE URBANISTICHE DISOMOGENEE DI UTILIZZAZIONE NECESSITA DI P.D.C.
In materia edilizia, poiché l’organizzazione e la gestione del territorio comunale vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d’uso in tutte le loro possibili relazioni, sulle quali vanno ad incidere negativamente le modifiche non consentite alterando il rapporto con i servizi in dotazione rispetto alle singole zone, non è sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d’uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne, ma occorre, per contro, provare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell’omogeneità nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee.
Interessante la questione esaminata dalla Corte di cassazione con la sentenza qui commentata, in cui i giudici di legittimità si pronunciano nuovamente a distanza di pochi giorni (cfr. Sez. III, 15.02.2018, n. 7271, supra commentata) sul tema della individuazione del titolo abilitativo necessario al fine di eseguire interventi edilizi comportanti un mutamento dell’originaria destinazione d’uso.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte di Appello aveva confermato la pronuncia di primo grado che aveva condannato l’imputato per plurime violazioni del d.P.R. n. 380 del 2001 in materia di edilizia avendo, in assenza del permesso di costruire previsto dall’art. 44, lett. b), mutato la destinazione d’uso, all’interno di un fabbricato ubicato in zona B2 del PRG, dell’unità al piano rialzato da artigiana ad abitativa e del seminterrato da deposito ad uso anch’esso abitativo e per aver omesso di adempiere alle prescrizioni previste dagli artt. 64, 65, 71 e 72 in relazione all’utilizzo di cemento armato, nonché dagli artt. 93 e 95 trattandosi di manufatto in zona sismica.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo la mancanza di prove e di indizi a fondamento del mutamento di destinazione d’uso contestatogli, il quale, secondo l’univoca interpretazione della giurisprudenza amministrativa, in tanto ricorre in quanto le opere edilizie realizzate comportino un aumento volumetrico o di superficie o una trasformazione rilevante, altrimenti risolvendosi in una mera espressione della facoltà di godimento liberamente esercitabile dal proprietario dell’unità immobiliare interessata. Poiché invece nella specie non era stato dimostrato che fossero stati eseguiti nel fabbricato interventi tali da determinare modifiche della sua sagoma, superficie o volumetria, doveva escludersi il fondamento della condanna pronunciata, ben potendo la trasformazione essere effettuata con d.i.a., titolo di cui l’imputato era munito.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso.
In particolare, i Supremi Giudici hanno ritenuto che la sentenza avesse correttamente disatteso le contestazioni svolte dalla difesa in ordine all’irrilevanza penale degli interventi edilizi in difetto aumenti volumetrici o di superficie del fabbricato. Non essendo in contestazione l’intervenuto mutamento di destinazione dell’unità posta al piano rialzato del fabbricato e di parte del piano seminterrato da uso artigianale ovvero di deposito, al medesimo connesso, ad uso residenziale, doveva escludersi per gli Ermellini che le attività edilizie a tal fine eseguite fossero realizzabili mediante semplice denuncia di inizio attività indipendentemente dalla loro consistenza specifica.
Nella vigente disciplina la rilevanza penale del mutamento di destinazione c.d. “senza opere”, allorquando comporti il passaggio dall’una all’altra categoria funzionale, che connota cioè il bene in relazione alla sua funzione nell’assetto urbanistico, emerge inconfutabilmente dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23-ter, introdotto dalla Legge di conversione n. 164 del 2014 del D.L. n. 133 del 2014. Dunque, la trasformazione da destinazione artigianale così come da deposito ad uso residenziale, come nel caso di specie, costituisce oggi ex lege, un mutamento rilevante della destinazione d’uso.
Alle medesime conclusioni si perviene, comunque, osserva la S.C., anche in applicazione della previgente normativa. Il d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 10, comma 2, ribadendo le previsioni contenute nella L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 60, dispone che le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o meno a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di attività.
In particolare, con riferimento al caso esaminato, la Regione Campania, con la L. 28.11.2001, n. 19, art. 2, modificata dalla L.R. 22.12.2004, n. 16, ha stabilito che possono essere realizzati in base a semplice denunzia d’inizio attività (oggi SCIA) “i mutamenti di destinazione d’uso d’immobili o loro parti, che non comportino interventi di trasformazione dell’aspetto esteriore, e di volumi e superfici”, aggiungendo che “la nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee” (comma 1, lett. f).
Ha inoltre stabilito che “il mutamento di destinazione d’uso senza opere, nell’ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee, è libero” (comma 5). Secondo la citata normativa, pertanto, il mutamento di destinazione d’uso senza opere in tanto fuoriesce dall’orbita penale in quanto avvenga nell’ambito di categorie tra loro compatibili nell’ambito di una zona che, secondo gli strumenti urbanistici, possa definirsi territorialmente omogenea, dove il concetto di compatibilità passa necessariamente attraverso quello di categoria funzionale di cui al vigente d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23-ter: secondo la normativa della Regione Campania il mutamento di destinazione è quindi giuridicamente irrilevante solo allorquando non determini un passaggio tra categorie funzionalmente autonome, mentre rientra nella fattispecie incriminatrice di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 quando, in assenza del permesso di costruire, si verifichi, invece, il passaggio dall’una all’altra categoria funzionale, salvo che nei centri storici dove il mutamento della destinazione d’uso rileva anche all’interno di una stessa categoria omogenea (Cass. pen., Sez. III, 20.01.2009 n. 9894, T., CED, 243102).
Inserendosi infatti il suddetto intervento edilizio nell’ambito di un preesistente piano urbanistico, è evidente la ratio perseguita attraverso la suddetta disposizione, volta a tutelare, in considerazione della differenziazione infrastrutturale tra le singole zone, il corretto ed ordinato assetto del territorio, così da mantenere inalterato il carico urbanistico, inteso come rapporto tra insediamenti e servizi in un determinato territorio, e, conseguentemente da scongiurare il pericolo di sconvolgimento degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Cons. Stato 25.05.2012 n. 759), cui si aggiunge anche quello della tutela dell’interesse patrimoniale dell’ente territoriale che si vedrebbe altrimenti privato del contributo economico correlato all’effettivo carico urbanistico conseguente alla pianificazione dell’assetto territoriale.
In tal senso si è costantemente orientata l’interpretazione della Corte di cassazione, affermando che ai fini della configurabilità del reato di cui al d.P. R. n. 380 del 2001, art. 44, nel caso di interventi eseguiti in difetto o in difformità del permesso di costruire, costituisce “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata da opere edilizie, purché tale da comportare il passaggio dall’una all’altra categoria urbanistica, essendo invece sufficiente la D.I.A. (ora SCIA) per le modifiche di destinazione che intervengano nell’ambito della stessa categoria omogenea (Cass. pen., Sez. III, 31.03.2016 n. 12904, P., CED, 266483; Id., Sez. III, 24.06.2016 n. 26455, P.M. in proc. S., CED, 267106 in fattispecie relativa a sequestro preventivo di locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione, con conseguente passaggio dalla categoria d’uso non residenziale alla diversa categoria residenziale; Cass. pen., Sez. III, 05.02.2014, n. 5712, T., CED, 258686 in fattispecie relativa a sequestro preventivo dei locali di un albergo, originariamente adibiti a deposito e lavanderia, trasformati in camere per gli ospiti in assenza del permesso di costruire e del nulla osta paesaggistico).
Essendo, nel caso di specie, il mutamento intervenuto tra categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, quali si configurano le destinazioni artigianale e di deposito rispetto a quella residenziale, le conclusioni raggiunte dalla Corte d’appello dovevano per la S.C. ritenersi esatte (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.02.2018 n. 5770 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: In ordine al rapporto tra il deposito a cielo aperto di veicoli, l’attività di tipo imprenditoriale cui è riferita e la necessità della SCIA.
Ai fini del decidere appaiono rilevanti i presupposti di fatto e le determinazioni assunti con l’ordinanza impugnata e, quindi, gli aspetti qualificanti la specifica attività svolta sul terreno, consistente in un deposito a cielo aperto di veicoli che “non può essere esercitata senza la prescritta autorizzazione amministrativa, o senza aver presentato la relativa Scia ai sensi dell’art. 19 della L. 241/1990” .
Orbene, partendo dalla qualificazione dell’attività come descritta da parte ricorrente -stazionamento temporaneo di automezzi di proprietà da destinare all’attività del servizio di raccolta e trasporto rifiuti in adempimento del contratto di appalto in essere con il Comune e non deposito di veicoli quali merce per l’esercizio tipico dell’attività svolta– occorre rilevare che dall’esame delle modalità di esecuzione del servizio, come indicate nell’allegato contratto di appalto, e dalla descrizione del servizio e delle modalità di svolgimento dello stesso, come indicata nel capitolato d’appalto, l’attività di deposito-stazionamento degli automezzi adibiti al servizio (con caratteristiche di impiego indicate nell’art. 8 del capitolato) costituisce componente necessaria per l’esercizio dell’attività del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti in questione svolta dalla società ed è attività ad essa strettamente funzionale, anche se autonoma (trattandosi di mezzi propri o di cui abbia la disponibilità).
Sicché, non è possibile equiparare l’attività della ricorrente riguardo il deposito-stazionamento degli automezzi da adibire per il predetto servizio a quella del soggetto privato che parcheggia la propria vettura nel garage di casa o su un terreno in locazione per tale scopo, come sostenuto, ipotesi non necessarie di autorizzazione.
Nella specie, va rilevato che la società ricorrente agisce quale esercente un’attività imprenditoriale ossia quella oggetto del servizio espletato di raccolta e trasporto dei rifiuti realizzata con automezzi (che dovranno riportare in evidenza, su ciascun lato, un pannello o adesivo con la scritta “Raccolta differenziata per conto AMA Spa – Roma Capitale”) e il deposito-stazionamento di tali mezzi rientra nella articolazione del servizio svolto e dunque nel complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’attività di impresa, come tale soggetto ad autorizzazione amministrativa ovvero a Scia, per effetto della deprovvedimentalizzazione dell'attività amministrativa a seguito delle norme di c.d. Liberalizzazioni.
La Scia, com'è oramai da ritenersi acquisito, rappresenta un atto soggettivamente e oggettivamente privato ossia uno strumento di massima semplificazione quale manifestazione di autonomia privata con cui l’interessato certifica la sussistenza dei presupposti in fatto e in diritto allegati a presupposto del legittimo esercizio dell’attività segnalata ammessa dalla legge e, come tale, libera, ancorché assoggettata a un regime amministrativo di controllo ex post.
Riguardo a ciò non sono condivisibili le censure relative alla violazione della normativa in materia di c.d. Liberalizzazioni e disapplicazione delle norme regolamentari comunali, attesa la posizione costante della giurisprudenza in materia secondo cui il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell'attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall'altro, però mantenga “le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l'utilità sociale” tenuto conto altresì delle espresse deroghe contemplate nella relativa legislazione a tutela del bene “salute” e della “sicurezza dei lavoratori”.
E d’altro canto è indubbio che nella specie si tratta di attività che necessita di un pubblico controllo ed involge la cura di interessi pubblici (in disparte comunque che dagli atti di causa non risulta in modo evidente che nell’area adibita a deposito si svolga anche lo stoccaggio temporaneo dei rifiuti essendo in tal caso indiscutibile la necessità di apposito titolo e di autorizzazione sanitaria).
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2. La controversa vicenda è volta all’annullamento dell’ordinanza n. 9 del 29.07.2016 emessa dal Comune di Fiumicino nei confronti della società ricorrente nonché della successiva nota prot. n. 21802 del 12.08.2016 di rigetto dell’istanza di riesame proposta dalla società.
In particolare con l’ordinanza il Comune ha disposto a carico della società ricorrente la cessazione dell’attività abusivamente intrapresa di deposito a cielo aperto di veicoli (mezzi Ama) su terreno in locazione, in quanto attività sprovvista della prescritta autorizzazione amministrativa o segnalazione certificata di inizio attività Scia ex art. 19 della legge n. 241 del 1990, previa contestazione con nota n. 28020/16 della violazione dell’art. 33 del Reg. di P.U.
2.1. Osserva il Collegio che la contestazione di fondo della ricorrente, come sopra riportato, verte sul profilo della carenza di motivazione, sul travisamento dei fatti e la carenza di istruttoria e sulla erronea valutazione del Comune riguardo la pretesa Scia per il deposito dei veicoli, in quanto non si tratterebbe di attività abusiva di deposito di veicoli da considerare “merce” per l’esercizio dell’attività, come tale soggetta a Scia, ma di uno stazionamento temporaneo di automezzi di proprietà da destinare all’attività del servizio di raccolta e trasporto rifiuti in adempimento del contratto di appalto in essere con il Comune di Roma.
Preliminarmente occorre perimetrare l’oggetto del contendere che non attiene ai profili urbanistico-edilizi del terreno, abusivamente modificato da lavori eseguiti sullo stesso, risultando ininfluenti i riportati tratti del parallelo contenzioso presso il g.o., puntualmente svolti in fatto dalla ricorrente, in quanto ai fini del decidere appaiono rilevanti i presupposti di fatto e le determinazioni assunti con l’ordinanza impugnata e, quindi, gli aspetti qualificanti la specifica attività svolta sul terreno, consistente in un deposito a cielo aperto di veicoli che “non può essere esercitata senza la prescritta autorizzazione amministrativa, o senza aver presentato la relativa Scia ai sensi dell’art. 19 della L. 241/1990” .
Orbene partendo dalla qualificazione dell’attività come descritta da parte ricorrente -stazionamento temporaneo di automezzi di proprietà da destinare all’attività del servizio di raccolta e trasporto rifiuti in adempimento del contratto di appalto in essere con il Comune di Roma e non deposito di veicoli quali merce per l’esercizio tipico dell’attività svolta– occorre rilevare che dall’esame delle modalità di esecuzione del servizio, come indicate nell’allegato contratto di appalto, e dalla descrizione del servizio e delle modalità di svolgimento dello stesso, come indicata nel capitolato d’appalto, l’attività di deposito-stazionamento degli automezzi adibiti al servizio (con caratteristiche di impiego indicate nell’art. 8 del capitolato) costituisce componente necessaria per l’esercizio dell’attività del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti in questione svolta dalla società ed è attività ad essa strettamente funzionale, anche se autonoma (trattandosi di mezzi propri o di cui abbia la disponibilità).
Diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente non è possibile equiparare l’attività della ricorrente riguardo il deposito-stazionamento degli automezzi da adibire per il predetto servizio a quella del soggetto privato che parcheggia la propria vettura nel garage di casa o su un terreno in locazione per tale scopo, come sostenuto, ipotesi non necessarie di autorizzazione; nella specie, va rilevato che la società ricorrente agisce quale esercente un’attività imprenditoriale ossia quella oggetto del servizio espletato di raccolta e trasporto dei rifiuti realizzata con automezzi (che dovranno riportare in evidenza, su ciascun lato, un pannello o adesivo con la scritta “Raccolta differenziata per conto AMA Spa – Roma Capitale”) e il deposito-stazionamento di tali mezzi rientra nella articolazione del servizio svolto e dunque nel complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’attività di impresa, come tale soggetto ad autorizzazione amministrativa ovvero a Scia, per effetto della deprovvedimentalizzazione dell'attività amministrativa a seguito delle norme di c.d. Liberalizzazioni.
La Scia, com'è oramai da ritenersi acquisito, rappresenta un atto soggettivamente e oggettivamente privato ossia uno strumento di massima semplificazione quale manifestazione di autonomia privata con cui l’interessato certifica la sussistenza dei presupposti in fatto e in diritto allegati a presupposto del legittimo esercizio dell’attività segnalata ammessa dalla legge e, come tale, libera, ancorché assoggettata a un regime amministrativo di controllo ex post (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II, 05.07.2016, n. 7707; idem, 02.11.2016, n. 10809; Tar Campania, Napoli, sez. II, 25.07.2016, n. 3869; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 09.02.2017, n. 203).
Riguardo a ciò non sono condivisibili le censure relative alla violazione della normativa in materia di c.d. Liberalizzazioni e disapplicazione delle norme regolamentari comunali, attesa la posizione costante della giurisprudenza in materia secondo cui il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell'attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall'altro, però mantenga “le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l'utilità sociale” tenuto conto altresì delle espresse deroghe contemplate nella relativa legislazione a tutela del bene “salute” e della “sicurezza dei lavoratori” (cfr. Corte Cost. 23.01.2013, n. 8).
E d’altro canto è indubbio che nella specie si tratta di attività che necessita di un pubblico controllo ed involge la cura di interessi pubblici (in disparte comunque che dagli atti di causa non risulta in modo evidente che nell’area adibita a deposito si svolga anche lo stoccaggio temporaneo dei rifiuti essendo in tal caso indiscutibile la necessità di apposito titolo e di autorizzazione sanitaria).
Per quanto riguarda, infine, il difetto di motivazione dell’impugnato provvedimento il Collegio osserva che l’atto de quo non presenta deficit motivazionale in ragione dell’indicato presupposto di fatto accertato (attivazione di attività con deposito senza autorizzazione o Scia) nonché dei richiami normativi contenuti; inoltre la natura vincolata del provvedimento fa sì che lo stesso sconti in sede procedimentale la sola verifica di conformità al paradigma normativo di riferimento; sicché, ogni vizio di carattere formale e/o procedimentale non assume nella fattispecie valore viziante (art. 21-octies, L. n. 241 del 1990).
In definitiva, il ricorso è infondato e va, dunque, respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 18.01.2018 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2017

EDILIZIA PRIVATA: In ordine al rapporto tra il deposito a cielo aperto, l’attività di tipo imprenditoriale cui è riferita ed il regime del titolo edilizio.
La regolarità urbanistica ed edilizia dell’immobile che ospita l’attività commerciale è una delle condizioni oggettive di quest’ultima, in assenza della quale l’Amministrazione esercita i propri poteri di intervento conseguenti alla mancanza dei requisiti dell’attività privata.
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La trasformazione di un manufatto ai fini dell’individuazione della corretta disciplina edilizia ed urbanistica, va apprezzata nella sua globalità e nell’assetto finale della sua consistenza, senza che sia possibile scindere il risultato unitario nelle singole operazioni che lo compongono (così da sostituire il permesso a costruire con la somma di singole operazioni edilizie da assoggettarsi a DIA o SCIA), con conseguente insufficienza della DIA relativa alla sola recinzione a consentire l’uso dell’intera area come deposito.
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Pacifica, secondo la giurisprudenza, è la circostanza che la realizzazione di un deposito-merci, che, a norma dell'art. 3, comma primo, lett. e, 5) e 7), d.P.R. n. 380/2001, sia diretto a soddisfare esigenze non meramente temporanee e comporti la trasformazione permanente dello stato dei luoghi, necessita del permesso di costruire, non essendo riconducibile al regime delle pertinenze.
Irrilevante è la circostanza che le trasformazioni dell’area siano o meno imputabili a gestioni precedenti dell’immobile: le condizioni di conformità urbanistica ed edilizia del manufatto che ospita l’attività commerciale vanno riferite al momento della presentazione della SCIA di avvio e se queste difettano perché –in tesi– sono state operate trasformazioni del bene senza il prescritto titolo dalla precedente proprietà dell’immobile, la SCIA va egualmente dichiarata priva di efficacia perché ciò consegue alla condizione dell’immobile e non si verte intorno a provvedimenti sanzionatori che presuppongono l’accertamento della responsabilità del soggetto agente.
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Nell’odierno giudizio, parte ricorrente agisce per l’annullamento degli atti impugnati con i quali l’Amministrazione intimata ha dichiarato l’inefficacia della SCIA di avviamento dell’attività commerciale della ricorrente stessa, nel presupposto della mancanza di conformità urbanistica dell’immobile nel quale è condotta.
Prima di procedere all’esame delle ragioni di censura, è bene premettere che la regolarità urbanistica ed edilizia dell’immobile che ospita l’attività commerciale è una delle condizioni oggettive di quest’ultima, in assenza della quale l’Amministrazione esercita i propri poteri di intervento conseguenti alla mancanza dei requisiti dell’attività privata (da ultimo, vedasi TAR Lazio, II-ter, 16.06.2017, nr. 07097 e 19.09.2017, nr. 9820/2017, nonché richiami ivi contenuti).
Nel caso di specie, secondo l’Amministrazione l’uso dell’area utilizzata dalla ricorrente per l’esposizione a cielo aperto di veicoli destinati alla vendita avrebbe necessitato di un permesso a costruire, a mente del combinato disposto di cui all’art. 3, punto 1- lett. 7 del DPR 380/2001 (applicabile ratione temporis), sussistendo trasformazione del suolo.
L’effettiva sussistenza di tale ultima condizione è stata l’oggetto dell’indagine svolta a seguito della fase cautelare.
Alla luce delle risultanze di giudizio, il ricorso si rivela infondato e come tale va respinto.
Dagli atti depositati da parte di Roma Capitale, emerge che, con DD del 17.01.2005, a seguito di sopralluogo dell’08.11.2004 e con DD n. 53 del 13.01.2006 era stata riscontrata la realizzazione abusiva di un manufatto prefabbricato in legno di circa mq 30 (uso ufficio); un secondo manufatto, sempre prefabbricato, di circa 16,00 mq, con antistante veranda (uso ufficio); una tettoia in legno e pilastri infissi a terra per circa 72 mq, adibita a lavorazione del legno; un box prefabbricato in legno, adibito a magazzino, per circa 15,0 mq.
Sull’area di interesse sussisteva, dunque, una pregressa situazione di abusivismo che ha comportato l’emanazione della DD di demolizione e ripristino nr. 53 del 13.01.2006, di cui però non si conosce l’esito.
Dal sopralluogo effettuato il 26.10.2016 emerge la presenza di un primo manufatto di circa 28,00 mq, che la parte ricorrente dichiara di aver chiesto di sanare, producendo poi, da ultimo, il relativo provvedimento nr. 383540 del 23.06.2017.
Quanto a tale aspetto, deve convenirsi con Roma Capitale circa l’irrilevanza della sanatoria del fabbricato, posto che si tratta di un elemento della fattispecie sopravvenuto rispetto agli atti impugnati (e dunque dovrà eventualmente tenersene conto in esito all’eventuale riproposizione di una istanza da parte della ricorrente, in quella sede verificando la pertinenza o meno del manufatto rispetto all’area di interesse); in ogni caso, dal confronto tra la descrizione degli abusi edilizi oggetto dei provvedimenti di demolizione sopra indicati e la descrizione degli abusi oggetto del provvedimento di sanatoria da ultimo intervenuto, non si evince una perfetta corrispondenza, e dalle risultanze del sopralluogo emerge la presenza di un secondo manufatto (di mt. 1,50 x 1,50), del quale non risultano i titoli edilizi. Altresì risulta, sempre dal sopralluogo, la realizzazione di un impianto di illuminazione e l’adeguamento del selciato con collocazione di materiale inerte, opere che implicano, di per sé, trasformazione del suolo.
Si aggiunga che –differenza di quanto dichiarato dalla ricorrente nell’apposita asseverazione– l’area è gravata dal vincolo paesaggistico ed archeologico (nota prot. 194799/2015 del 10.11.2015), circostanza in ordine alla quale non risultano efficaci controdeduzioni sostanziali.
Pertanto, anche ad attenersi alla sola situazione descritta nel sopralluogo da ultimo svolto in contraddittorio (dal momento che, per quanto sopra indicato, non è chiaro se i manufatti oggetto degli accertamenti operati nel 2004 sono stati demoliti a seguito della DD nr. 53/2006 e, laddove persistano, siano inclusi nell’area oggetto della SCIA), è infondata la principale censura di gravame secondo cui non sarebbe stato necessario il permesso di costruire ai fini della regolarità urbanistica dell’immobile, rendendosi invece necessario quest’ultimo.
Secondo la giurisprudenza della Sezione, peraltro, la trasformazione di un manufatto ai fini dell’individuazione della corretta disciplina edilizia ed urbanistica, va apprezzata nella sua globalità e nell’assetto finale della sua consistenza, senza che sia possibile scindere il risultato unitario nelle singole operazioni che lo compongono (così da sostituire il permesso a costruire con la somma di singole operazioni edilizie da assoggettarsi a DIA o SCIA; vedasi TAR Lazio, II-ter, 13.07.2016, nr. 8058 e 16.06.2017, nr. 7092; v. anche TAR Napoli, VIII 08.11.2012 n. 4496), con conseguente insufficienza della DIA relativa alla sola recinzione a consentire l’uso dell’intera area come deposito.
Nessuna delle censure o degli argomenti dedotti a sostegno, può quindi trovare condivisione.
Pacifica, secondo la giurisprudenza, è la circostanza che la realizzazione di un deposito-merci, che, a norma dell'art. 3, comma primo, lett. e, 5) e 7), d.P.R. n. 380/2001, sia diretto a soddisfare esigenze non meramente temporanee e comporti la trasformazione permanente dello stato dei luoghi necessita del permesso di costruire, non essendo riconducibile al regime delle pertinenze (vedasi, tra le tante, Cass. pen. Sez. III, sent. n. 6593 del 24.11.2011; Sez. III, n. 8064 del 02.12.2008; Tar Piemonte, Torino, 18.01.2017, n. 134).
Irrilevante è la circostanza che le trasformazioni dell’area siano o meno imputabili a gestioni precedenti dell’immobile: le condizioni di conformità urbanistica ed edilizia del manufatto che ospita l’attività commerciale vanno riferite al momento della presentazione della SCIA di avvio e se queste difettano perché –in tesi– sono state operate trasformazioni del bene senza il prescritto titolo dalla precedente proprietà dell’immobile, la SCIA va egualmente dichiarata priva di efficacia perché ciò consegue alla condizione dell’immobile e non si verte intorno a provvedimenti sanzionatori che presuppongono l’accertamento della responsabilità del soggetto agente (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 07.11.2017 n. 11090 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn base al combinato disposto degli artt. 2 e 32 della L. 383/2000, le associazioni di promozione sociale possono localizzare la loro sede in tutte le parti del territorio urbano, essendo la stessa compatibile con ogni destinazione d’uso urbanistico, a prescindere dalla destinazione d’uso edilizio impressa funzionalmente e specificamente al singolo fabbricato, sulla base del permesso di costruire.
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L’Associazione ricorrente, associazione di promozione sociale iscritta nel registro regionale ai sensi della L. 383/2000, nonché della L.R. 39/2007, impugna l’epigrafata ordinanza con la quale il Comune di Lecce, dopo aver contestato il “cambio di destinazione d’uso dell’unità immobiliare censita in catasto al fg. 213, part. 142, sub 2, p.t., da abitazione a ufficio privato, in assenza di titoli abilitativi legittimanti”, le ha intimato di ripristinare l’originaria destinazione d’uso abitativa.
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Il Collegio ritiene di condividere quanto già espresso da questo tribunale con ordinanza n. 6/2017, con la quale si è rilevato il deficit istruttorio e motivazionale del provvedimento impugnato, atteso che lo stesso non risulta aver tenuto in debita considerazione che, in base al combinato disposto degli artt. 2 e 32 della L. 383/2000, le associazioni di promozione sociale possono localizzare la loro sede in tutte le parti del territorio urbano, essendo la stessa compatibile con ogni destinazione d’uso urbanistico, a prescindere dalla destinazione d’uso edilizio impressa funzionalmente e specificamente al singolo fabbricato, sulla base del permesso di costruire (in tal senso C.d.S. 181/2013).
Il provvedimento impugnato infatti omette di considerare le caratteristiche dell’attività in concreto esercitata nei locali predetti, nonché la compatibilità della stessa con la destinazione d’uso ivi precedentemente impressa, non esprimendo sufficienti argomentazioni sul punto.
In tal senso, pertanto, il ricorso merita accoglimento con assorbimento delle censure non esaminate (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 13.09.2017 n. 1447 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza anche penale è ferma nel ritenere che il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire.
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- rilevato che, in linea di fatto è pacifica la sussistenza del vincolo nonché la consistenza dell’intervento in termini di trasformazione di un porticato aperto destinato a garage in nuova unità abitativa tramite chiusura perimetrale;
- considerato che, in proposito, se la giurisprudenza anche penale è ferma nel ritenere che il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire (cfr. ad es. Cass. pen. sez. III, 05/04/2016, n. 26455), nel caso di specie è evidente il consistente mutamento di destinazione d’uso accompagnato da opere (chiusura perimetrale di spazio prima aperto);
- atteso che tale rilevante modifica dello stato preesistente (sia in termini urbanistici di aumento del carico che in termini edilizi) non può certo qualificarsi alla stregua degli interventi minori (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 26.07.2017 n. 682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mutamento di destinazione d'uso (senza esecuzione di opere o aumento di volumi) del fabbricato posto in zona classificata come D2, ricomprendente aree commerciali e terziarie di completamento, in attività di preghiera o di culto.
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Il Consiglio di Stato ha affermato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede".
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Quanto al mutamento di destinazione d'uso realizzato, come nel caso in esame, senza l'esecuzione di opere edilizie, è stato chiarito che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione d'uso funzionale che non comporti una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità, derivante dalla diversa destinazione impressa al bene.
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Per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico urbanistico nel senso anzidetto.
L'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette categorie funzionali, sicché il suo svolgimento, di per sé, non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in concreto accertato, unitamente, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico.
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1. Il ricorso, come peraltro sottolineato anche dal Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta, è fondato in relazione al primo e al terzo motivo, essendo del tutto mancante la motivazione riguardo all'aggravio del carico urbanistico conseguente alla diversa destinazione d'uso impressa all'immobile senza esecuzione di opere o aumento di volumi.
2. Il sequestro oggetto delle censure proposte dal ricorrente è stato disposto in relazione al mutamento di destinazione d'uso del fabbricato condotto in locazione dallo stesso Da., nella sua veste di Presidente di una associazione culturale, posto in zona classificata come D2, ricomprendente aree commerciali e terziarie di completamento, sulla base del rilievo che all'interno di tale fabbricato sarebbe stata svolta attività di preghiera o di culto, determinante mutamento della destinazione d'uso del bene.
Al riguardo va dunque ricordato che questa Corte ha già chiarito (cfr. Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243102; conf. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, Tortora, Rv. 258686; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv. 260422; Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, Stellato, Rv. 267106) che la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Il Consiglio di Stato (Sez. 5, n. 24 del 03/01/1998, Comune di Ostuni c. Mo. S.r.l.) ha affermato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede".
Quanto al mutamento di destinazione d'uso realizzato, come nel caso in esame, senza l'esecuzione di opere edilizie, è stato chiarito (cfr. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, cit., e successive conformi, tra cui Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, e Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, citate) che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea. Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione d'uso funzionale che non comporti una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852 del 08/05/2013, Pace, non massimata), derivante dalla diversa destinazione impressa al bene.
3. Per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico urbanistico nel senso anzidetto.
L'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette categorie funzionali, sicché il suo svolgimento, di per sé, non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in concreto accertato, unitamente, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico (cfr., in proposito, Sez. 3, n. 4943 del 17/01/2012, Bittesini, Rv. 251984; Sez. 3, n. 19378 del 15/03/2002, Catalano, Rv. 221951; Sez. 3, n. 26209 del 30/04/2003, Censullo, Rv. 225515).
4. Ora, nella vicenda in esame, il Tribunale ha fondato il rigetto della richiesta di riesame sulle dichiarazioni rese a una dipendente del Comune di Coccaglio dalla figlia di uno dei partecipanti alla associazione culturale di cui il ricorrente è il presidente, che avrebbe riferito che nell'immobile condotto in locazione da detta associazione i fedeli si trovano quotidianamente a pregare; il Tribunale ha, però, omesso, oltre a qualsiasi riferimento alla imputazione di cui all'art. 681 cod. pen. (essendo stato disposto il sequestro anche in relazione a essa, che il Tribunale non ha, tuttavia, considerato), anche di accertare l'entità e l'incidenza di tale attività di culto, il suo riflesso sulla destinazione del bene e, soprattutto, sul carico urbanistico nel senso anzidetto: non è stato, in particolare, analizzato in alcun modo, nonostante la formulazione di una espressa censura sul punto da parte del richiedente, il mutamento, conseguente allo svolgimento di tale attività, dell'insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione, con particolare riferimento agli standard fissati dal D.M. 1444/1968 (cfr. Sez. 3, n. 36104 del 22/09/2011, Armelaní, Rv. 251251; Sez. 3, n. 6599 del 24/11/2011 (dep. 2012), Susinno, Rv. 252016), né accertato se tale eventuale mutamento abbia determinato anche un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852 del 08/05/2013, Pace, non massimata).
Ne consegue la sussistenza del vizio di violazione di legge denunciato dal ricorrente con il primo e il terzo motivo, risultando del tutto mancante l'accertamento in fatto e la relativa motivazione a proposito della entità della attività svolta nell'immobile condotto in locazione e oggetto del provvedimento di sequestro (se tale, cioè, da determinare un mutamento di destinazione da una categoria funzionale all'altra tra quelle indicate nell'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001), e riguardo alla incidenza della stessa sugli standard urbanistici (in misura tale da determinare un aggravio del carico urbanistico e quindi da consentire di ritenere configurabile il reato di cui all'art. 44 d.P.R. 380 del 2001): a tale ultimo riguardo la motivazione dell'ordinanza impugnata risulta priva di riferimenti concreti, in quanto è sganciata da qualsiasi riferimento alla attività svolta nell'immobile, a quella precedente, al raffronto tra esse, e alla incidenza di quella da ultimo svolta sui servizi cosiddetti secondari, in guisa tale da determinare un aggravio del carico urbanistico.
5. L'ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Brescia, rimanendo con ciò assorbiti gli altri motivi di ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2017 n. 34812).

EDILIZIA PRIVATA: La dichiarazione di inizio attività (segnalazione certificata di inizio attività) costituisce un atto soggettivamente e oggettivamente privato con cui l'interessato esercita la sua legittimazione ex lege all'esercizio di attività liberalizzate.
Tale strumento di semplificazione dei rapporti tra cittadino e PP.AA. può essere utilizzato anche ai fini del mutamento di destinazione d’uso degli immobili, ove ricorrano talune condizioni: “il mutamento di destinazione d'uso è assoggettato solo a Dia (ora Scia), purché però intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica.
Di recente, anche il Consiglio di Stato ha affermato che “Se è vero che un mutamento di destinazione d’uso è sempre consentito, a condizione che, prima e dopo il mutamento, si rimanga all’interno della stessa categoria funzionale, ulteriormente coordinando sul piano ermeneutico la portata dei segmenti dispositivi degli artt. 22 e 23-ter D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia) si giunge alla conclusione che, purché si rimanga nella stessa categoria funzionale, è possibile il cambio di destinazione d’uso attraverso una SCIA”.

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... per l'annullamento della nota prot. 22195 del 09.08.2016 con la quale è stata comunicata l'inefficacia della SCIA inerente il cambio di destinazione d'uso da “artigianale” a “commerciale”, senza esecuzione di opere, dell'immobile sito a Scicli in C.da C..., da destinare a MSV (Media Struttura di Vendita) assieme al contiguo locale commerciale;
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Il ricorrente Lo.An. espone di aver presentato in data 03.05.2016 al Comune di Scicli una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) con la quale segnalava l’avvio del cambio di destinazione d’uso -da “artigianale” a “commerciale”- senza realizzazione di opere, di un immobile sito in Scicli, C.da ..., da destinare a Media Struttura di Vendita.
Dopo il completamento dei lavori, con nota del 09.08.2016 (comunicata all’interessato il successivo giorno 16 agosto), lo Sportello unico per le attività produttive del Comune di Scicli ha rilevato che l’intervento proposto non sarebbe ammissibile dal punto di vista della conformità urbanistica, in quanto la destinazione d’uso “commerciale” richiesta confligge con la condizione riportata nella concessione edilizia in sanatoria n. 79/S022182 N del 21/06/2002 rilasciata per l’immobile in questione, che imponeva il mantenimento della destinazione d’uso specificata nel progetto allegato.
In conclusione, l’amministrazione comunale ha ritenuto che la SCIA non abbia prodotto effetti abilitativi e che la destinazione dell’immobile è da intendersi “artigianale”.
...
Il Collegio ritiene di dover confermare la valutazione di fondatezza del ricorso già resa, sulla scorta di un primo esame, nella fase cautelare del giudizio.
In particolare, risulta in via documentale che la nota adottata dal SUAP del Comune di Scicli in data 09.08.2016 -della cui natura provvedimentale deve peraltro dubitarsi, alla luce del fatto che essa contiene l’invito rivolto al destinatario a presentare osservazioni/controdeduzioni, e fissa altresì un termine di conclusione del procedimento decorrente dalla data di notifica della nota stessa; anche se poi, contraddittoriamente, dichiara impugnabile il “provvedimento” innanzi al Tar- sia intervenuta oltre 90 giorni dalla presentazione della SCIA effettuata dal ricorrente.
Risulta, quindi, violato il termine di trenta giorni –quale emerge dal combinato disposto dei commi 3 e 6-bis dell’art. 19 della L. 241/1990 (cd. SCIA in materia edilizia)- entro il quale l’amministrazione può “in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, (…), adotta[re] motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa” (art. 19, co. 3, cit.).
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che “La dichiarazione di inizio attività (segnalazione certificata di inizio attività) costituisce un atto soggettivamente e oggettivamente privato con cui l'interessato esercita la sua legittimazione ex lege all'esercizio di attività liberalizzate” (Cons. Stato, A.P. n. 15/2011). Tale strumento di semplificazione dei rapporti tra cittadino e PP.AA. può essere utilizzato anche ai fini del mutamento di destinazione d’uso degli immobili, ove ricorrano talune condizioni: “il mutamento di destinazione d'uso è assoggettato solo a Dia (ora Scia), purché però intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica” (ex multis, Cass. Pen., III, 26455/2016, Id. 31465/2014).
Di recente, anche il Consiglio di Stato ha affermato che “Se è vero che un mutamento di destinazione d’uso è sempre consentito, a condizione che, prima e dopo il mutamento, si rimanga all’interno della stessa categoria funzionale, ulteriormente coordinando sul piano ermeneutico la portata dei segmenti dispositivi degli artt. 22 e 23-ter D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia) si giunge alla conclusione che, purché si rimanga nella stessa categoria funzionale, è possibile il cambio di destinazione d’uso attraverso una SCIA” (Cons. Stato, VI, 2295/2017).
In conclusione, assorbite le ulteriori censure dedotte, il ricorso va accolto in ragione del ritardo con il quale l’amministrazione comunale è intervenuta per modificare gli effetti prodotti dalla SCIA. Rimane comunque salva, come già indicato nell’ordinanza cautelare, la facoltà per l’amministrazione di esercitare i poteri di vigilanza e di autotutela previsti nell’art. 19, commi 4 e 6-bis, della L. 241/1990 (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 12.07.2017 n. 1773 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I ricorrenti hanno realizzato un cambio di destinazione d’uso (con opere) da deposito/cantina/garage ad abitativo, che avrebbe necessitato del previo rilascio del permesso di costruire, anche in ragione dell’aumento del carico urbanistico che ne deriva.
Sicché, in mancanza del permesso, ovvero in difformità dai titoli già rilasciati, la sanzione della demolizione di cui all’art. 31 del DPR n. 380 del 2001 è del tutto giustificata.
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II. Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
   - Come si evince dal verbale di sopralluogo n. 1 del 25.05.2007 redatto dalla Polizia Municipale e dagli elaborati grafici e fotografici allegati allo stesso, il locali posti ai rispettivi piani seminterrati dei due appartamenti situati al piano terra dell’abitazione bifamiliare di che trattasi, assentiti ad uso ripostiglio, garage, cantina, lavanderia, stenditoio e stireria (come da concessione edilizia n. 8 del 1994 e da autorizzazione in variante conseguita con DIA presentata in data 09.09.1995), sono stati parzialmente trasformati (in epoca imprecisata, sebbene i ricorrenti asseriscano che le modifiche siano state apportate già prima che fosse rilasciato il certificato di abitabilità, ma la circostanza non è dimostrata), anche con la realizzazione di opere edilizie, sino alla completa modifica della destinazione d’uso dell’intero piano ad abitativa.
   - In particolare, nel seminterrato contraddistinto nel verbale di sopralluogo come A1, si riscontra la trasformazione del locale lavanderia in una cucina abitabile piastrellata, dotata di mobilio funzionale allo scopo, con elettrodomestici allacciati alla rete idrica, elettrica e del gas; i locali stenditoio e cantina, anch’essi pavimentati e arredati in maniera funzionale al nuovo utilizzo, sono stati adibiti, rispettivamente, a tinello e camere da letto.
Nel seminterrato contraddistinto nel verbale di sopralluogo come B1, inoltre, completamente pavimentato, il ripostiglio collocato nel locale garage è stato trasformato in un bagno e nel locale lavanderia/stenditoio/stireria sono stati ricavati un ripostiglio e una cucina abitabile interamente arredata e funzionale allo scopo, con gli elettrodomestici allacciati alla rete idrica, elettrica e del gas. In entrambi i seminterrati sono stati realizzati ex novo dei camini in corrispondenza degli ex locali lavanderia.
   - Le suddette modifiche sono state dettagliatamente illustrate nel citato verbale di sopralluogo e in esso sufficientemente indicate anche mediante il rinvio agli elaborati grafici e fotografici allegati, sicché, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, alcun difetto di motivazione è riscontrabile nel provvedimento impugnato, che rinvia per relationem al predetto verbale.
   - Per quanto riguarda, invece, il cambio di destinazione d’uso contestato dall’Amministrazione, è noto che esso sussiste se, a prescindere dalla realizzazione di opere, l’intervento determini una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico o sia idoneo a consentire un uso più intenso dell’edificio, per effetto della moltiplicazione delle unità immobiliari.
Nel caso in esame, non può escludersi che tale incremento si sia verificato, atteso che detto mutamento ha dato luogo ad un piano abitabile in più rispetto a quelli esistenti ed i lavori in questione hanno effettivamente conferito ai locali una destinazione residenziale, essendo essi univocamente volti a rendere gli stessi abitabili e destinati alla stabile permanenza di persone.
   - Ed invero, il piano seminterrato delle due unità abitative è stato interamente dotato di servizi e trasformato in modo da essere suscettibile di un utilizzo anche autonomo rispetto all’abitazione principale (dal che si esclude la sua natura pertinenziale).
In particolare, i locali in parola sono stati interamente arredati e dotati di ogni confort e, come si evince dai rilievi fotografici versati in atti, i mobili e gli oggetti ivi presenti non sono stati meramente depositati (come invece asserito dai ricorrenti), ma organizzati in maniera tale da essere destinati ad un utilizzo quotidiano, contribuendo ad imprimere all’immobile un’oggettiva attitudine funzionale coincidente con quella di una civile abitazione (che non è la stessa attitudine che il bene aveva in precedenza).
Peraltro, dalla nota di trasmissione del verbale di accertamento delle violazioni urbanistiche alla competente Procura della Repubblica da parte dell’Ufficio tecnico comunale (prot. n. 2849 dell’01.06.2007), prodotta in allegato al ricorso, emerge che detti locali sono stati dotati di impianto termo-idraulico, non previsto nel progetto assentito; tale tipologia di intervento costituisce elemento idoneo a confermare ulteriormente la destinazione abitativa dell’immobile.
   - E’ innegabile, quindi, che, nella fattispecie, i ricorrenti abbiano realizzato un cambio di destinazione d’uso (con opere) da deposito/cantina/garage ad abitativo, che avrebbe necessitato del previo rilascio del permesso di costruire, anche in ragione dell’aumento del carico urbanistico che ne deriva (TAR Campania Napoli, sez. IV, 03.02.2015, n. 731; sez. VIII, 16.04.2014, n. 2174; TAR Lazio Roma, sez. I, 09.12.2011, n. 9646). In mancanza del permesso, ovvero in difformità dai titoli già rilasciati, la sanzione della demolizione di cui all’art. 31 del DPR n. 380 del 2001 è del tutto giustificata.
III. Per le suesposte ragioni, il ricorso va respinto (TAR Marche, sentenza 07.06.2017 n. 445 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla trasformare da autorimessa e magazzino in abitazione.
Sono errate le deduzioni circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano terra - originariamente destinato ad autorimessa e a magazzino, che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non può considerarsi semplicemente già tutto a destinazione abitativa in quanto “pertinenza” di un edificio residenziale.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Sicché, deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti”.

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Il ricorso non è fondato e deve essere respinto.
Le opere di cui alla DIA del 19.07.2016, volte, come anticipato, a trasformare autorimessa e magazzino in abitazione con la modifica dei prospetti e la realizzazione di “n. 4 U.I. di SUL maggiore di mq 45” sono, in verità, idonee a mutare radicalmente la destinazione d’uso degli immobili in questione in locali residenziali, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e c) del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1, lettera c e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire, e non di semplice DIA, ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni del ricorrente circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano terra - originariamente destinato ad autorimessa e a magazzino, che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non può considerarsi semplicemente già tutto a destinazione abitativa in quanto “pertinenza” di un edificio residenziale.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, di recente ribadito da questa stessa Sezione (cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 4.04.2017 n. 4225 e 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti” (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 13.04.2017 n. 4577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulle opere eseguite idonee a trasformare il piano interrato originariamente costituito da cantina e garage, in un locale abitabile, con cucina, sala studio e bagno.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. a) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1, lett. c) e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano risultate idonee a trasformare il piano interrato (peraltro oggetto di ampliamento senza titolo) originariamente costituito da cantina e garage, in un locale abitabile, con cucina, sala studio e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano seminterrato, che, potendosi considerare tutta ricompresa nelle categorie funzionali omogenee di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia finirebbe per risultare “urbanisticamente irrilevante”.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “
accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti”.
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Con il ricorso in epigrafe la sig.ra Zu.El. ha chiesto al Tribunale di annullare la determinazione dirigenziale di Roma Capitale n. 551 del 19.09.2013 con cui era stata respinta la sua domanda di condono del 09.12.2004 per l’avvenuta realizzazione al piano seminterrato dell’immobile di via ... n. 70 di un locale non residenziale (cantina) annesso al fabbricato principale per una superficie complessiva di mq 30, nonché tutti gli atti presupposti, conseguenti o comunque connessi e, in particolare, la circolare della Regione Lazio n. 65993/2S/02 del 19.04.2006, il parere della Regione Lazio n. 5224 del 30.04.2010 in merito al condono nelle aree vincolate e la d.d. di Roma Capitale n. 14 del 29.03.2012, richiamate nel provvedimento n. 551/2013.
...
Con i motivi aggiunti la ricorrente ha, inoltre, dedotto, come anticipato, l’illegittimità dell’ordine di ripristino asserendo che nel caso in questione le opere realizzate non avrebbero integrato una ristrutturazione edilizia, bensì di un mero cambio di destinazione d’uso, consentito dalla novella legislativa recata dal cosiddetto “Decreto Sblocca Italia”, mediante l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo Unico dell’edilizia; con tale intervento normativo il legislatore avrebbe introdotto nel sistema il concetto di “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante”, tale solo in caso di passaggio tra le diverse categorie funzionali, espressamente individuate dalla norma; ne conseguirebbe che, essendo il mutamento di destinazione d’uso interno alle categorie funzionali omogenee consentito, nella fattispecie in questione non si sarebbe verificato, quindi, alcun abuso, essendo stata modificata solo la distribuzione interna degli spazi.
Anche tale doglianza non può essere condivisa.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1, lettera c) e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano risultate idonee a trasformare il piano interrato (peraltro oggetto di ampliamento senza titolo) originariamente costituito da cantina e garage, in un locale abitabile, con cucina, sala studio e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano seminterrato, che, potendosi considerare tutta ricompresa nelle categorie funzionali omogenee di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia finirebbe per risultare “urbanisticamente irrilevante”.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, di recente ribadito da questa stessa Sezione (cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti” (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 04.04.2017 n. 4225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia urbanistica ed edilizia, quando sia contestata l'esecuzione di opere in assenza di un valido titolo edilizio, il giudice deve prima di ogni altra cosa accertare l'intervento nella sua integrale sussistenza e consistenza, qualificarlo ai sensi degli artt. 3 e 6, d.P.R. n. 380 del 2001, verificare di conseguenza se per esso è necessario un titolo edilizio e, in caso positivo, individuare quale (permesso di costruire o d.i.a. sostitutiva, ovvero una semplice d.i.a.).
Alla fine di questo percorso ricostruttivo, se accerta che per l'opera, così come realizzata, è necessario il permesso di costruire il giudice non deve "disapplicare" la dichiarazione di inizio attività, perché non è di questo che si tratta; è sufficiente che prenda atto del fatto che l'intervento è stato realizzato in assenza dell'unico titolo che lo consente.
Né rileva l'eventualità che l'opera, così come realizzata, possa esser conforme a quella oggetto della dichiarazione di inizio attività. Allo stesso modo, eventuali mancate osservazioni dei tecnici comunali o di altre autorità non possono escludere la natura illecita della costruzione che in sede penale solo il giudice può e deve autonomamente accertare; eventuali silenzi possono costituire argomento d'accusa per concorsi dolosi o colposi, ma non possono rendere lecito quel che tale non è.
Sicché le numerose pagine della sentenza dedicate alla possibilità per il giudice di disapplicare il permesso di costruire e all'incidenza del rilascio del permesso stesso sulla consapevolezza della natura abusiva dell'opera da parte dei privati, sono del tutto irrilevanti.
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Q
uesta Suprema Corte ha avuto modo di pronunciare alcuni principi -che devono essere qui ribaditi perché in linea con il consolidato orientamento della S.C.- che possono essere così riassunti:
   - «
La realizzazione di opere edilizie necessita di titolo abilitativo riferito all'intervento complessivo e non può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti (...) mentre non risulta che, nella specie, la To. s.r.l., si sia lecitamente determinata, in tempi successivi, ad eseguire singole opere, non programmate sin dall'inizio»;
   - «
La categoria "ristrutturazione edilizia" a fronte del più ristretto ambito di quelle del "risanamento conservativo" e del "restauro" come configurate dal D.P.R. n. 380 del 2001 e dal D.Lgs. n. 42 del 2004, [comporta] la radicale ed integrale trasformazione dei componenti dell'intero edificio, con mutamento della qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti l'aumento delle unità immobiliari nonché l'alterazione dell'originale impianto tipologico - distributivo e dei caratteri architettonici»;
   - «
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d), del cit. T.U., in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione»;
   - «
Non ha rilievo l'entità delle opere eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane per gli interventi:
- di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.);
- di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologia" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c, cit. T.U.).
Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.. Ove il necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili le sanzioni amministrative di cui all'art. 31, cit.  T.U. e quella penale di cui all'art. 44, lett. b)
»;
   - «
Ai fini della individuazione della destinazione turistico-alberghiera di una struttura immobiliare non si deve tenere conto della titolarità della proprietà della stessa, che indifferentemente può appartenere ad un solo soggetto proprietario oppure ad una pluralità di soggetti. Ciò che rileva, invece, è la configurazione della struttura (anche se appartenente a più proprietari) come albergo o residenza turistico-ricettiva».
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Il palazzo, come detto, è immobile di rilevante interesse storico-artistico, soggetto a vincolo per i suoi rilevanti caratteri tipologici e perché di particolare interesse documentario ed ambientale. L'area di sedime ricade in zona omogenea A del Comune, centro storico, di interesse culturale ed ambientale.
Le varie D.i.a. che si sono succedute nel tempo (ben 18), hanno comportato la modifica di destinazione d'uso di gran parte dell'imponente immobile (che occupa un intero isolato) da "residenziale e direzionale" a "commerciale, direzionale, residenziale".
Il che comportava senz'altro la necessità, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio del permesso di costruire o, in alternativa, della d.i.a. sostitutiva di cui all'art. 22, comma 3, lett. a), stesso d.P.R..
L'ulteriore errore nel quale cade il Tribunale è di ritenere sostanzialmente fungibili la d.i.a. di cui all'art. 22, comma 1, d.P.R. n. 380, cit., con quella sostitutiva del permesso di costruire di cui al successivo comma 3 (dal quale quest'ultima ripete natura e funzione).
La cd. Superdia è fungibile ed alternativa al permesso di costruire, non alla semplice DIA (oggi SCIA), rispetto alla quale si pone in rapporto di totale diversità, che ai fini della sussistenza del reato ipotizzato. Seguendo il ragionamento del Tribunale, infatti, il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 non sarebbe per assurdo mai configurabile in caso di opere soggette a permesso di costruire realizzate in costanza di d.i.a. non sostitutiva, ancor più non lo sarebbe quello di cui cui al successivo comma 2-bis, che richiama espressamente ed esclusivamente la denuncia di inizio attività di cui all'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001.
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6. Tanto premesso, i primi tre motivi, in essi assorbito il quarto, sono fondati.
6.1. Il caso in esame ha ad oggetto il Palazzo Tornabuoni-Corsi-Sestini di Firenze (dichiarato di rilevante interesse storico artistico dal Ministro della Pubblica Istruzione il 03/04/1918) e si segnala per il fatto che le opere in contestazione sono state effettuate in base ad titoli edilizi (D.i.a.) che, secondo l'impostazione accusatoria, non lo consentivano.
6.2. Il Tribunale, invertendo completamente i poli del ragionamento ed utilizzando principi di diritto elaborati da questa Suprema Corte in tema, tutt'affatto diverso, di illegittimità del permesso di costruire (titolo del quale invece è contestata proprio la mancanza), trascurando inoltre completamente la sentenza di questa Sezione, n. 8495 del 2012 (di cui oltre si dirà), compie un inammissibile atto di fede nei confronti degli imputati (ma anche degli organismi preposti al controllo della regolarità urbanistica e ambientale degli interventi progettati ed eseguiti) ed abdicando all'irrinunciabile dovere del giudice di controllare la legalità degli atti amministrativi, giunge sostanzialmente ad affermare che le opere potevano essere realizzate in base a semplice d.i.a. sol perché così sostanzialmente avevano attestato i professionisti che avevano redatto gli elaborati tecnici ad essa allegati, con l'autorevole avallo del Comune di Firenze (i cui tecnici, però, sono stati chiamati a rispondere del concorso nel reato ai sensi dell'art. 40, cpv., cod. pen.) e della Soprintendenza che avevano condiviso la qualificazione come "restauro" dei singoli interventi oggetto delle varie dichiarazioni.
6.3. Metodo, come detto, totalmente errato perché, in materia urbanistica ed edilizia, quando sia contestata l'esecuzione di opere in assenza di un valido titolo edilizio, il giudice deve prima di ogni altra cosa accertare l'intervento nella sua integrale sussistenza e consistenza, qualificarlo ai sensi degli artt. 3 e 6, d.P.R. n. 380 del 2001, verificare di conseguenza se per esso è necessario un titolo edilizio e, in caso positivo, individuare quale (permesso di costruire o d.i.a. sostitutiva, ovvero una semplice d.i.a.). Alla fine di questo percorso ricostruttivo, se accerta che per l'opera, così come realizzata, è necessario il permesso di costruire il giudice non deve "disapplicare" la dichiarazione di inizio attività, perché non è di questo che si tratta; è sufficiente che prenda atto del fatto che l'intervento è stato realizzato in assenza dell'unico titolo che lo consente.
Né rileva l'eventualità che l'opera, così come realizzata, possa esser conforme a quella oggetto della dichiarazione di inizio attività. Allo stesso modo, eventuali mancate osservazioni dei tecnici comunali o di altre autorità non possono escludere la natura illecita della costruzione che in sede penale solo il giudice può e deve autonomamente accertare; eventuali silenzi possono costituire argomento d'accusa per concorsi dolosi o colposi, ma non possono rendere lecito quel che tale non è.
6.4. Sicché le numerose pagine della sentenza dedicate alla possibilità per il giudice di disapplicare il permesso di costruire e all'incidenza del rilascio del permesso stesso sulla consapevolezza della natura abusiva dell'opera da parte dei privati, sono del tutto irrilevanti.
6.5. Quanto alla qualificazione dell'intervento è francamente singolare che il Tribunale non accenni nemmeno, quantomeno per confutarli motivatamente, ai principi che, in relazione al medesimo immobile e al medesimo intervento, questa Suprema Corte, investita in sede cautelare dal medesimo PM, pronunciò con la citata sentenza n. 8945 del 20/10/2011 (dep. il 07/03/2012).
6.6. Tali principi -che devono essere qui ribaditi perché in linea con il consolidato orientamento della S.C., totalmente negletto dal Tribunale- possono essere così riassunti:
   6.6.1. <<La realizzazione di opere edilizie necessita di titolo abilitativo riferito all'intervento complessivo e non può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti (...) mentre non risulta che, nella specie, la To. s.r.l., si sia lecitamente determinata, in tempi successivi, ad eseguire singole opere, non programmate sin dall'inizio»;
   6.6.2. «L
a categoria "ristrutturazione edilizia" a fronte del più ristretto ambito di quelle del "risanamento conservativo" e del "restauro" come configurate dal D.P.R. n. 380 del 2001 e dal D.Lgs. n. 42 del 2004, [comporta] la radicale ed integrale trasformazione dei componenti dell'intero edificio, con mutamento della qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti l'aumento delle unità immobiliari nonché l'alterazione dell'originale impianto tipologico - distributivo e dei caratteri architettonici»;
   6.6.3. <<Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d), del cit. T.U., in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione»;
   6.6.4. «Non ha rilievo l'entità delle opere eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane per gli interventi:
- di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.);
- di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologia" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c, cit. T.U.).
Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.. Ove il necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili le sanzioni amministrative di cui all'art. 31, cit.  T.U. e quella penale di cui all'art. 44, lett. b)
»;
   6.6.5. <<Ai fini della individuazione della destinazione turistico-alberghiera di una struttura immobiliare non si deve tenere conto della titolarità della proprietà della stessa, che indifferentemente può appartenere ad un solo soggetto proprietario oppure ad una pluralità di soggetti. Ciò che rileva, invece, è la configurazione della struttura (anche se appartenente a più proprietari) come albergo o residenza turistico-ricettiva».
6.7. La imprescindibile necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza delle modifiche introdotte dall'art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, d.l. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di detti interventi procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico.
6.8. Altrettanto si dica per gli interventi di "restauro e risanamento conservativo".
6.9. Sorvolando sulle personali opinioni del Tribunale in ordine al concetto di restauro, rileva innanzitutto l'errore di diritto che il Giudice compie allorquando, nello sforzo di supportare giuridicamente tali opinioni, trae dal contenuto dell'art. 21, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004, argomento sistematico per affermare che il "restauro", così come definito dal successivo art. 29, comma 4, consente la rimozione o la demolizione, anche con successiva ricostituzione, dei beni culturali, sminuendone però la funzione essenzialmente conservativa e ripristinatoria del bene da restaurare (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 1978 del 18/06/2014, Sgalannbro, Rv. 262002, secondo cui nella categoria degli "interventi di restauro o di risanamento conservativo", per i quali non occorre il permesso di costruire, possono essere annoverate soltanto le opere di recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle quali apportano un consolidamento, un rinnovo o l'inserimento di nuovi elementi costitutivi, a condizione che siano complessivamente rispettate tipologia, forma e struttura dell'edificio).
Resta, in ogni caso, il fatto che gli interventi di restauro e risanamento conservativo richiedono sempre il permesso di costruire quando riguardano immobili ricadenti in zona omogenea A dei quali venga mutata la destinazione d'uso anche all'interno della medesima categoria funzionale.
6.10. Il tema accusatorio, articolato e complesso, imponeva dunque al Giudice di spingere l'indagine ben oltre la semplice conformità delle opere alle d.i.a di volta in volta presentate per il (formale) restauro e risanamento dell'immobile, non mancando mai di perdere di vista il risultato finale, nella sua interezza.
6.11. Il Palazzo Tornabuoni, come detto, è immobile di rilevante interesse storico-artistico, soggetto a vincolo per i suoi rilevanti caratteri tipologici e perché di particolare interesse documentario ed ambientale. L'area di sedime ricade in zona omogenea A del Comune di Firenze, centro storico, di interesse culturale ed ambientale.
6.12. Come riconosce lo stesso Tribunale, le varie D.i.a. che si sono succedute nel tempo (ben 18), hanno comportato la modifica di destinazione d'uso di gran parte dell'imponente immobile (che occupa un intero isolato) da "residenziale e direzionale" a "commerciale, direzionale, residenziale".
6.13. Il che comportava senz'altro la necessità, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio del permesso di costruire o, in alternativa, della d.i.a. sostitutiva di cui all'art. 22, comma 3, lett. a), stesso d.P.R..
6.14. L'ulteriore errore nel quale cade il Tribunale è di ritenere sostanzialmente fungibili la d.i.a. di cui all'art. 22, comma 1, d.P.R. n. 380, cit., con quella sostitutiva del permesso di costruire di cui al successivo comma 3 (dal quale quest'ultima ripete natura e funzione). La cd. Superdia è fungibile ed alternativa al permesso di costruire, non alla semplice DIA (oggi SCIA), rispetto alla quale si pone in rapporto di totale diversità, che ai fini della sussistenza del reato ipotizzato. Seguendo il ragionamento del Tribunale, infatti, il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 non sarebbe per assurdo mai configurabile in caso di opere soggette a permesso di costruire realizzate in costanza di d.i.a. non sostitutiva, ancor più non lo sarebbe quello di cui cui al successivo comma 2-bis, che richiama espressamente ed esclusivamente la denuncia di inizio attività di cui all'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001.
6.15. La sentenza deve perciò essere annullata in relazione al capo A della rubrica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2017 n. 6873).

EDILIZIA PRIVATA: Questa Corte ha già avuto modo di definire la destinazione d'uso quale elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, precisando, altresì, che essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando, appunto, il complessivo assetto territoriale.
E' dunque evidente quale sia l'impatto sul carico urbanistico determinato dalla modifica della destinazione d'uso degli edifici.
Il d.P.R. 380/2001, nell'articolo 10, comma 2, attribuisce alle Regioni il potere di stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinate a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività, pur dovendo tali enti territoriali tenere conto delle disposizioni di principio poste dalla legge statale.
Si è ulteriormente precisato che assume rilevanza, sotto il profilo giuridico, il solo mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, in quanto nell'ambito delle stesse categorie si possono riscontrare mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi, in considerazione delle sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Va altresì tenuto conto di quanto disposto dall'art. 23-ter del d.P.R. 380/2001 (introdotto dalla legge n. 164 del 2014), che individua, quale mutamento rilevante della destinazione d'uso, ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale tra quelle elencate nella medesima disposizione: residenziale; turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale e rurale.
Lo stesso articolo chiarisce che la destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile e che, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Quanto alle modalità di attuazione, la modifica della destinazione d'uso può essere effettuata mediante l'esecuzione di opere (modificazione materiale) o senza esecuzione di opere (modificazione funzionale). Essa, inoltre, può intervenire nella fase di costruzione del manufatto, ovvero su un manufatto già esistente, con conseguenze diverse sotto il profilo sanzionatorio.

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L'art. 23-ter DPR 380/2001 individua come autonoma la categoria "commerciale" rispetto a quella "produttiva—direzionale" nella quale rientrano, oltre, ovviamente, agli insediamenti produttivi propriamente detti, anche gli edifici destinati ad uffici, sedi di enti e simili e non anche le attività prettamente commerciali, perché altrimenti la specifica categoria non avrebbe ragione di esistere.
Tra queste ultime si ritiene debba rientrare quella di "fiera" o "fiera espositiva" in quanto, sebbene nel caso in esame non sia stato specificato in cosa essa effettivamente consista, considerando il significato letterale dell'espressione, quale incontro abituale di venditori e comparatori finalizzati alla vendita o alla pubblicizzazione di eventuali prodotti, essa indubbiamente si colloca nell'ambito delle attività commerciali e non anche in quelle produttive o di prestazione di servizi in genere.
Soccorre in tal senso anche l'opinione espressa dalla giurisprudenza amministrativa, seppure in tema di oneri concessori, laddove ha osservato che "(...) l'attività fieristica espositiva è autonoma e non strettamente asservita o connessa a specifici edifici destinati alla produzione; la medesima attività ha una connotazione prettamente "commerciale" per l'incidenza che determina sul carico urbanistico complessivo in ragione delle conseguenze che comporta la sua presenza sul tessuto urbano in connessione ai flussi di traffico e clientela generati, che sono diversi da quelli propri di un'attività industriale e del tutto corrispondenti a quelli di un'attività commerciale; anche nella disciplina sul commercio la superficie espositiva è a tutti gli effetti equiparata a quella commerciale nell'evidente considerazione dell'assimilabilità tra le superfici sulle quali si svolge l'attività di vendita vera e propria e quelle utilizzate invece a fini espositivi (l'art. 4, comma 7, lett. f), del Dlgs. 31.03.1998, n. 114, reca una definizione completa di superficie di vendita, in quanto ne viene espresso, in positivo l'ambito come "area destinata alla vendita, compresa quella occupata da banchi, scaffalature e simili", ma anche, in negativo, ciò che non costituisce superficie di vendita, ovvero "quella destinata a magazzini, depositi, locali di lavorazione, uffici e servizi", con la conseguenza che anche "la zona di esposizione dei prodotti commercializzati dall'esercizio va inclusa nella superfici di vendita"..
Tali affermazioni vanno pienamente condivise, dovendosi conseguentemente affermare che, ai fini della individuazione della relativa categoria funzionale di cui all'art. 23-ter d.P.R. 380/2001 l'attività fieristica va individuata quale attività commerciale, con la conseguenza che la modifica di destinazione d'uso, mediante opere, di un preesistente complesso immobiliare desinato ad insediamento produttivo richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire.
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Riguardo al momento consumativo del reato urbanistico, se ci si riferisce, in generale, all'esecuzione di opere, può certamente affermarsi che esso ha natura permanente e la sua consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione, che assumono rilevanza, indipendentemente dal tipo ed entità delle opere, per l'oggettiva destinazione alla realizzazione di un manufatto e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva o con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
Con specifico riferimento alla modifica della destinazione d'uso può dirsi, sempre in linea generale, che la consumazione del reato cessa, nel caso in cui non sia attuata mediante l'esecuzione di opere, con il completamento funzionale dell'intervento, quando, cioè, l'immobile è pienamente utilizzabile secondo a nuova destinazione attribuitagli.
Non può invece essere condivisa l'affermazione del Tribunale laddove sembra voglia sostenere che la permanenza del reato è correlata alla sua successiva utilizzazione.
Invero, non costituiscono nuova autonoma manifestazione antigiuridica di mutamento di destinazione, penalmente rilevante, la utilizzazione o gli atti di disposizione del manufatto già realizzato in modo difforme o in assenza di concessione. Tali atti rientrano nella sfera del "post factum" impunibile e degli effetti permanenti di una condotta antigiuridica o consumazione conclusa.
Al contrario, l'utilizzazione dell'immobile successiva alla consumazione del reato assume rilievo ai fini cautelari reali laddove comporti un aggravio del carico urbanistico che deve essere considerata con riferimento all'aspetto strutturale e funzionale dell'opera ed è rilevabile anche nel caso di una concreta alterazione della originaria consistenza sostanziale di un manufatto in relazione alla volumetria, alla destinazione o alla effettiva utilizzazione tale da determinare un mutamento dell'insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione con particolare riferimento agli standard fissati dal D.M. 1444/1968.
Tale orientamento si conforma alla nota decisione delle Sezioni Unite nella quale, ammettendosi la possibilità del sequestro anche a reato urbanistico ormai perfezionato -"purché il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa -che va accertato dal giudice con adeguata motivazione- presenti i requisiti della concretezza e dell'attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell'offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse con l'accertamento irrevocabile del reato"- si individuano, a titolo esemplificativo, quali conseguenze determinate dalla libera disponibilità del manufatto illecitamente edificato, oltre all'aggravio del carico urbanistico, la perpetrazione dell'illecito amministrativo prevista dall'articolo 221 Testo unico leggi sanitarie che, pur depenalizzato, costituisce una situazione illecita ulteriore prodotta dalla libera utilizzazione della cosa che il provvedimento cautelare è finalizzato ad inibire ed il pregiudizio arrecato alle esigenze di vigilanza e controllo del territorio mediante l'adeguato governo pubblico degli usi e delle trasformazioni dello stesso a causa delle alterazioni dell'ordinato ed equilibrato assetto e sviluppo territoriale in danno del benessere complessivo della collettività e della sua attività, il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente.
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2. Ciò posto, va ricordato, con riferimento al primo motivo di ricorso che questa Corte ha già avuto modo di definire la destinazione d'uso quale elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, precisando, altresì, che essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando, appunto, il complessivo assetto territoriale (così, testualmente, Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 24310001).
E' dunque evidente quale sia l'impatto sul carico urbanistico determinato dalla modifica della destinazione d'uso degli edifici.
Il d.P.R. 380/2001, nell'articolo 10, comma 2, attribuisce alle Regioni il potere di stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinate a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività, pur dovendo tali enti territoriali tenere conto delle disposizioni di principio poste dalla legge statale (cfr. Sez. 3, n. 43807 del 05/11/2008, Pollone, non massimata).
Si è ulteriormente precisato (Sez. 3 n. 9894/2009, cit.) che assume rilevanza, sotto il profilo giuridico, il solo mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, in quanto nell'ambito delle stesse categorie si possono riscontrare mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi, in considerazione delle sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Va altresì tenuto conto di quanto disposto dall'art. 23-ter del d.P.R. 380/2001 (introdotto dalla legge n. 164 del 2014), che individua, quale mutamento rilevante della destinazione d'uso, ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale tra quelle elencate nella medesima disposizione: residenziale; turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale e rurale.
Lo stesso articolo chiarisce che la destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile e che, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Quanto alle modalità di attuazione, la modifica della destinazione d'uso può essere effettuata mediante l'esecuzione di opere (modificazione materiale) o senza esecuzione di opere (modificazione funzionale). Essa, inoltre, può intervenire nella fase di costruzione del manufatto, ovvero su un manufatto già esistente, con conseguenze diverse sotto il profilo sanzionatorio.
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5. L'ordinanza impugnata risulta però cogliere nel segno laddove qualifica la modifica di destinazione come operata tra categorie tra loro autonome.
Va a tale proposito rilevato che tale affermazione non viene smentita dal richiamo, operato in ricorso, all'art. 25 del Regolamento Edilizio del Comune di Pastorano, e, segnatamente, alla frase, evidenziata in neretto dalla ricorrente, che con riferimento alla "Zona D industriale ed esistente di progetto" specifica "(...) in tale zona è altresì consentita la costruzione di complessi produttivi di varia natura, di edifici destinati ad uffici amministrativi o commerciali e di edifici per abitazioni purché utilizzati dal solo personale di custodia (...)" risultando, dal tenore letterale della disposizione, che l'aggettivo "commerciali" è chiaramente riferito agli edifici destinati ad uffici, come l'altro "amministrativi", con funzione evidentemente complementare al complesso produttivo, così come le abitazioni, pure realizzabili se destinate al solo personale di custodia.
Neppure risulta condivisibile l'altra affermazione della ricorrente, secondo la quale l'intervento realizzato andrebbe collocato nella categoria produttiva-direzionale prevista dall'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, con la conseguenza che non vi sarebbe stata alcuna modificazione penalmente rilevante.
Invero l'art. 23-ter, come si è detto, individua come autonoma la categoria "commerciale" rispetto a quella "produttiva—direzionale" nella quale rientrano, oltre, ovviamente, agli insediamenti produttivi propriamente detti, anche gli edifici destinati ad uffici, sedi di enti e simili e non anche le attività prettamente commerciali, perché altrimenti la specifica categoria non avrebbe ragione di esistere.
Tra queste ultime si ritiene debba rientrare quella di "fiera" o "fiera espositiva" in quanto, sebbene nel caso in esame non sia stato specificato in cosa essa effettivamente consista, considerando il significato letterale dell'espressione, quale incontro abituale di venditori e comparatori finalizzati alla vendita o alla pubblicizzazione di eventuali prodotti, essa indubbiamente si colloca nell'ambito delle attività commerciali e non anche in quelle produttive o di prestazione di servizi in genere.
Soccorre in tal senso anche l'opinione espressa dalla giurisprudenza amministrativa, seppure in tema di oneri concessori, laddove ha osservato che "(...) l'attività fieristica espositiva è autonoma e non strettamente asservita o connessa a specifici edifici destinati alla produzione; la medesima attività ha una connotazione prettamente "commerciale" per l'incidenza che determina sul carico urbanistico complessivo in ragione delle conseguenze che comporta la sua presenza sul tessuto urbano in connessione ai flussi di traffico e clientela generati, che sono diversi da quelli propri di un'attività industriale e del tutto corrispondenti a quelli di un'attività commerciale; anche nella disciplina sul commercio la superficie espositiva è a tutti gli effetti equiparata a quella commerciale nell'evidente considerazione dell'assimilabilità tra le superfici sulle quali si svolge l'attività di vendita vera e propria e quelle utilizzate invece a fini espositivi (l'art. 4, comma 7, lett. f), del Dlgs. 31.03.1998, n. 114, reca una definizione completa di superficie di vendita, in quanto ne viene espresso, in positivo l'ambito come "area destinata alla vendita, compresa quella occupata da banchi, scaffalature e simili", ma anche, in negativo, ciò che non costituisce superficie di vendita, ovvero "quella destinata a magazzini, depositi, locali di lavorazione, uffici e servizi", con la conseguenza che anche "la zona di esposizione dei prodotti commercializzati dall'esercizio va inclusa nella superfici di vendita: cfr. Tar Abruzzo, Pescara, 09.04.2008, n. 387; Tar Veneto, Sez. III, 03.11.2004 n. 3825 (...)" (TAR Veneto, Sez. II, 13/05/2016, n. 479).
6. Tali affermazioni vanno pienamente condivise, dovendosi conseguentemente affermare che, ai fini della individuazione della relativa categoria funzionale di cui all'art. 23-ter d.P.R. 380/2001 l'attività fieristica va individuata quale attività commerciale, con la conseguenza che la modifica di destinazione d'uso, mediante opere, di un preesistente complesso immobiliare desinato ad insediamento produttivo richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Il motivo di ricorso è, pertanto infondato.
7. Per ciò che concerne, invece, il secondo motivo di ricorso la ricorrente, come si è detto, incentra la sua censura sul fatto che il Tribunale non avrebbe accertato l'incidenza dell'intervento sul carico urbanistico, incidenza che si assume irrilevante, considerata l'originaria destinazione dei fabbricati che, in alcuni periodi, avevano visto la presenza quotidiana di tremila persone tra operai ed impiegati, secondo quanto rilevato dallo stesso Tribunale.
In effetti tale valutazione manca, avendo il Tribunale ritenuto la sussistenza del periculum in mora in considerazione della natura permanente del reato e della conseguente situazione di illiceità "(...) legata alla diversa destinazione attribuita all'area che permane e rivive ogni volta si organizzi una fiera a nulla rilevando che le opere siano ultimate (...)".
Tale affermazione impone alcune considerazioni, anche in considerazione di quanto prospettato nei motivi nuovi.
8. Riguardo al momento consumativo del reato urbanistico, se ci si riferisce, in generale, all'esecuzione di opere, può certamente affermarsi che esso ha natura permanente e la sua consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione, che assumono rilevanza, indipendentemente dal tipo ed entità delle opere, per l'oggettiva destinazione alla realizzazione di un manufatto e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva o con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
Con specifico riferimento alla modifica della destinazione d'uso può dirsi, sempre in linea generale, che la consumazione del reato cessa, nel caso in cui non sia attuata mediante l'esecuzione di opere, con il completamento funzionale dell'intervento, quando, cioè, l'immobile è pienamente utilizzabile secondo a nuova destinazione attribuitagli.
9. Non può invece essere condivisa l'affermazione del Tribunale laddove sembra voglia sostenere che la permanenza del reato è correlata alla sua successiva utilizzazione.
Invero, come questa Corte ha avuto modo di affermare, seppure in un unica pronuncia ormai risalente nel tempo, non costituiscono nuova autonoma manifestazione antigiuridica di mutamento di destinazione, penalmente rilevante, la utilizzazione o gli atti di disposizione del manufatto già realizzato in modo difforme o in assenza di concessione. Tali atti rientrano nella sfera del "post factum" impunibile e degli effetti permanenti di una condotta antigiuridica o consumazione conclusa (Sez. 3, n. 4179 del 20/02/1985, Sciacca, Rv. 16896501).
Al contrario, l'utilizzazione dell'immobile successiva alla consumazione del reato assume rilievo ai fini cautelari reali laddove comporti un aggravio del carico urbanistico che, come questa Corte ha già avuto modo di osservare, deve essere considerata con riferimento all'aspetto strutturale e funzionale dell'opera ed è rilevabile anche nel caso di una concreta alterazione della originaria consistenza sostanziale di un manufatto in relazione alla volumetria, alla destinazione o alla effettiva utilizzazione tale da determinare un mutamento dell'insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione con particolare riferimento agli standard fissati dal D.M. 1444/1968 (Sez. 3, n. 36104 del 22/09/2011, P.M. in proc. Armelani, Rv. 25125101. Conf. Sez. 3, n. 6599 del 24/11/2011 (dep. 2012), Susinno, Rv. 25201601).
Tale orientamento, che va qui ribadito, si conforma alla nota decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12878 del 29/01/2003, P.M. in proc. Innocenti, Rv. 22372101) nella quale, ammettendosi la possibilità del sequestro anche a reato urbanistico ormai perfezionato -"purché il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa -che va accertato dal giudice con adeguata motivazione- presenti i requisiti della concretezza e dell'attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell'offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse con l'accertamento irrevocabile del reato"- si individuano, a titolo esemplificativo, quali conseguenze determinate dalla libera disponibilità del manufatto illecitamente edificato, oltre all'aggravio del carico urbanistico, la perpetrazione dell'illecito amministrativo prevista dall'articolo 221 Testo unico leggi sanitarie che, pur depenalizzato, costituisce una situazione illecita ulteriore prodotta dalla libera utilizzazione della cosa che il provvedimento cautelare è finalizzato ad inibire ed il pregiudizio arrecato alle esigenze di vigilanza e controllo del territorio mediante l'adeguato governo pubblico degli usi e delle trasformazioni dello stesso a causa delle alterazioni dell'ordinato ed equilibrato assetto e sviluppo territoriale in danno del benessere complessivo della collettività e della sua attività, il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente.
Entro tale ambito avrebbe dovuto quindi orientarsi il giudizio del Tribunale, verificando, in primo luogo, se le opere ritenute abusive erano ancora in corso di esecuzione, il che avrebbe, di per sé, giustificato la misura reale al fine di interrompere la consumazione del reato ancora in atto e, in caso di ultimazione delle opere, se l'utilizzazione delle stesse determini le conseguenze indicate nelle pronunce in precedenza richiamate, fatta salva l'ipotesi dell'intervenuta prescrizione del reato ipotizzata nei motivi nuovi
(Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.02.2017 n. 6060).

EDILIZIA PRIVATA: Comporta la condannata per il reato previsto dall’articolo 44, lettera b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 l'aver trasformato un locale destinato a garage e cantina in abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando il vano sottoscala di accesso al piano rialzato.
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Il precedente 24.07.2003 la signora Pa. aveva presentato all’agenzia del territorio di Frosinone una denuncia di variazione, avente a oggetto il mutamento di destinazione d’uso di una delle cantine poste a piano primo sottostrada a “pranzo, cottura, Wc e ripostiglio” e la realizzazione di un porticato di mq. 11 circa e di un ripostiglio (ricavato nel vano sottoscala interno).
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A latere della vicenda relativa al condono si svolgeva peraltro anche un processo penale che si concludeva con la condanna della signora Ve. per aver realizzato le opere in questione senza titolo; in particolare la signora Ve. era condannata per il reato previsto dall’articolo 44, lettera b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (in pratica per aver trasformato un locale destinato a garage e cantina in abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando il vano sottoscala di accesso al piano rialzato) alla pena di mesi uno e giorni venti di arresto e all’ammenda di euro 8.000, con ordine di ripristino dello stato dei luoghi (si vedano la sentenza del Tribunale di Frosinone n. 245 del 27.02.2008, la sentenza della corte d’Appello di Roma n. 7951 del 03.12.2008 e la sentenza n. 42295 del 25.11.2009 con cui la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma le cui statuizioni sono quindi ormai definitive) (TAR Lazio-Latina, sentenza 06.02.2017 n. 69 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla trasformazione del piano soffitta in superficie residenziale, formata da una camera con bagno, rifiniti e abitati, collegati all’abitazione sottostante mediante una scala interna.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. b) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1, lett. c) e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano risultate idonee a trasformare la soffitta in un locale abitabile, con camera da letto e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
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Sono errate le deduzioni dei ricorrenti secondo cui la modificazione dell’uso della soffitta sarebbe interna alle categorie funzionali omogenee di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia e quindi urbanisticamente irrilevante.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “
accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo quindi al costante orientamento della giurisprudenza, deve ritenersi che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti.

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Con ricorso notificato a Roma Capitale il 17.03.2016 e depositato il 01.04.2016 i ricorrenti impugnano la determinazione dirigenziale del municipio 6º di Roma numero 2625 del 2015, notificata il 28.01.2016, con cui è stata disposta la rimozione o demolizione delle opere abusive di ristrutturazione edilizia e cambio di destinazione d’uso da una categoria all’altra, eseguite in assenza del titolo abilitativo.
I ricorrenti espongono di aver acquistato nel 2013 la proprietà di una villa con giardino, composta da un piano terra e un locale sopraelevato dove già era presente un lavatoio con sanitari.
Essi si sono visti notificare la comunicazione di avvio di un procedimento amministrativo in quanto il piano soffitta era stato trasformato in superficie residenziale, formata da una camera con bagno, rifiniti e abitati, collegati all’abitazione mediante una scala interna.
Il procedimento veniva definito con D.D. del 15.04.2015, notificata il 27.04.2015, mediante la quale veniva ingiunta la demolizione degli interventi edilizi abusivi.
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Il provvedimento impugnato è stato adottato in esito all’accertamento, in data 13.10.2015, da parte di agenti della polizia municipale, della inottemperanza alla ingiunzione di demolizione numero 74 del 15.04.2015, notificata il 27.04.2015, riferita a interventi edilizi abusivi consistenti in una ristrutturazione eseguita in assenza del necessario titolo abilitativo.
Si trattava, ad avviso dell’Amministrazione procedente, di un cambio di destinazione d’uso tra diverse categorie generali di cui all’articolo 7, III comma, della legge regionale del Lazio numero 36 del 1987.
In particolare, risulta che nell’unità immobiliare distinta in catasto al foglio 1018, particella 742, subalterno 507, il piano soffitta è stato trasformato in superficie residenziale, formata da una camera, da un bagno, il tutto rifinito e abitato, collegata all’abitazione sottostante mediante una scala interna.
Con il provvedimento impugnato, quindi, è stata disposta la demolizione d’ufficio delle opere di ristrutturazione edilizia abusivamente realizzate, con spese a carico dei proprietari.
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Con il 2º motivo i ricorrenti deducono la illegittimità del procedimento amministrativo ripristinatorio perché non si tratterebbe di ristrutturazione edilizia, bensì di un mero cambio di destinazione d’uso, consentito dalla novella legislativa recata dal cosiddetto “decreto sblocca Italia”, mediante l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo Unico dell’edilizia, con cui è stato introdotto il concetto di mutamento d’uso urbanisticamente rilevante, tale solo in caso di passaggio tra le diverse categorie funzionali, espressamente individuate dalla norma; ne conseguirebbe che il mutamento di destinazione d’uso interno alle categorie funzionali omogenee sarebbe consentito; il comma 3 del citato articolo di legge, inoltre, dispone che le Regioni adeguino la propria legislazione ai principi recati dall’articolo 23-ter entro 90 giorni; decorso tale termine trovano applicazione diretta le disposizioni dell’articolo 23-ter; non avendo la regione Lazio legiferato al riguardo, il cambio di destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale sarebbe ammesso.
Nella fattispecie, quindi, non si sarebbe verificato alcun abuso, essendo stata modificata solo la distribuzione interna degli spazi, illegittimamente contestata con un provvedimento, oltretutto, carente di motivazione.
Anche il 2º motivo è infondato.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere b) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1, lettera c) e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano risultate idonee a trasformare la soffitta in un locale abitabile, con camera da letto e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
Sono errate le deduzioni dei ricorrenti secondo cui la modificazione dell’uso della soffitta sarebbe interna alle categorie funzionali omogenee di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia e quindi urbanisticamente irrilevante.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo quindi al costante orientamento della giurisprudenza, di recente espresso da questo stesso Tribunale amministrativo regionale, deve ritenersi che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti (cfr. TAR Lazio, sez. I, 11/09/2015, n. 11216).
Anche il secondo motivo di impugnazione, quindi, è privo di fondamento.
Ne deriva la reiezione del ricorso, fermo restando che l’Amministrazione, prima di eseguire il provvedimento di demolizione d’ufficio, dovrà valutare se le operazioni di ripristino eseguite dagli interessati siano sufficienti a restituire al locale soffitta la destinazione d’uso originaria (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 30.01.2017 n. 1439 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2016

EDILIZIA PRIVATAIl mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), ma a condizione che intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino, come nel caso in esame, il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
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1. Il ricorso è infondato.
2. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione dell'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, per l'erronea affermazione da parte del Tribunale della prevalenza del mutamento di destinazione impresso al fondo agricolo del ricorrente destinandolo a deposito ed esposizione di automobili in mancanza del permesso di costruire, in quanto ad avviso del ricorrente il Tribunale avrebbe dovuto considerare l'estensione complessiva dell'appezzamento di terreno di sua proprietà, e non la singola particella catastale destinata a deposito ed esposizione di autoveicoli, con la conseguente esclusione del necessario requisito della prevalenza del mutamento, va osservato che l'art. 23-ter d.P.R. 380/2001 stabilisce in proposito che "1. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unita' immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
2. La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile.
3. Le regioni adeguano la propria legislazione ai principi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito
".
Ne consegue l'irrilevanza, nella specie, della indagine sulla prevalenza della destinazione d'uso del fondo, giacché tale accertamento deve essere eseguito solamente in caso di destinazione mista, allo scopo di stabilire quale sia la destinazione d'uso da considerare prevalente, per verificare se vi sia stato un mutamento rispetto ad essa.
Allorquando (come nel caso di specie, nel quale, pacificamente, tutti i fondi di proprietà del ricorrente, avevano destinazione agricola) si sia verificato un mutamento rilevante della originaria univoca destinazione d'uso, in conseguenza di un utilizzo del fondo diverso rispetto a quello originario, tale da assegnare l'immobile ad una diversa categoria funzionale tra quelle elencate nel primo comma dell'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, non occorre compiere alcuna indagine sulla prevalenza della destinazione d'uso dell'immobile, essendo sufficiente, in presenza di destinazione univoca, l'utilizzo diverso del fondo.
Poiché nella vicenda in esame tale mutamento vi è stato, in quanto una porzione, corrispondente a quella sottoposta a sequestro, dei fondi a destinazione agricola di proprietà del ricorrente è stata da questi destinata a deposito ed esposizione di autoveicoli, comportante, evidentemente, l'assegnazione di tale porzione di fondo alla categoria funzionale commerciale, non sussiste la violazione di legge lamentata dal ricorrente, essendo per effetto di tale condotta configurabile il reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001, in conseguenza del suddetto mutamento della destinazione di fondi solo agricoli, tale da assegnarli ad una diversa categoria funzionale (nella specie quella commerciale), in mancanza del permesso di costruire.
Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), ma a condizione che intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino, come nel caso in esame, il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del 24/06/2016, Stellato, Rv. 267106; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv. 260422; Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, Tortora, Rv. 258686) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2016 n. 50503).

EDILIZIA PRIVATA: PUÒ ESSERE ACCERTATO IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO SE L’INTERVENTO EDILIZIO È ANCORA IN CORSO D’OPERA?
Il reato di esecuzione dei lavori in totale difformità dal permesso di costruire (del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma1, lett. b), non presuppone necessariamente il completamento dell’opera, ma è altresì configurabile nel corso dell’esecuzione degli interventi edilizi, allorché la difformità risulti palese durante l’esecuzione dei lavori, in quanto dalle opere già compiute appare evidente la realizzazione di un organismo diverso da quello assentito.
La questione affrontata dalla Cassazione con la sentenza qui esaminata è di particolare interesse e riguarda l’individuazione delle condizioni in base alle quali può essere ritenuto configurabile un mutamento di destinazione d’uso quando ancora l’intervento edilizio non è ultimato.
La vicenda processuale trae origine dalla Corte d’Appello che aveva confermato quella del Tribunale con la quale l’imputato era stato dichiarato colpevole del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), perché quale proprietario committente aveva realizzato in totale difformità dalla concessione edilizia in luogo dei previsti locali di sgombero sottotetto, due ulteriori unità immobiliari con destinazione residenziale prive dell’altezza minima prevista per l’abitabilità, indipendenti rispetto alle sottostanti unità abitative ed accessibili tramite scala esterna e con aperture finestrate, non previste in progetto, che avevano determinato le modifiche dei prospetti.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che l’affermazione di responsabilità era stata basata sulle dichiarazioni dell’agente accertatore che, pur privo delle necessarie conoscenze tecniche specifiche, aveva dichiarato che si era in presenza di un ipotizzabile cambio di destinazione d’uso, senza valutare la documentazione prodotta e le dichiarazioni rese dal responsabile dell’ufficio tecnico comunale che comprovavano la sanabilità dell’opera.
La Cassazione, nell’enunciare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare osservando come era stato accertato che i servizi realizzati (di natura idraulica, elettrica, fognaria) all’interno delle parti del fabbricato destinate ad uso non abitativo fossero inequivocabilmente dimostrativi della diversa destinazione in corso di realizzazione, non assentita dal permesso di costruire e certamente idonea ad incidere sul carico urbanistico, sicché, nella specie, il reato era già sussistente, non occorrendo certamente il completamento degli interventi abusivi per configurarlo.
A tal proposito, i Supremi Giudici hanno fatto applicazione di un principio già affermato dalla Cassazione secondo cui il reato di esecuzione dei lavori in totale difformità dal permesso di costruire (del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. b), non presuppone necessariamente il completamento dell’opera, ma è altresì configurabile nel corso dell’esecuzione degli interventi edilizi, allorché la difformità risulti palese durante l’esecuzione dei lavori, in quanto dalle opere già compiute appare evidente la realizzazione di un organismo diverso da quello assentito (Cass. pen., Sez. III, 20.09.2007, n. 41578, B., in CED, n. 238000; Id., Sez. III, 30.01.2008, n. 13592, P.M. in proc. D., in CED, n. 239837).
Da qui la conclusione degli Ermellini secondo cui in corso d’opera, l’accertamento del mutamento di destinazione d’uso va effettuato sulla base della individuazione di elementi univocamente significativi, propri del diverso uso cui è destinata l’opera e non coerenti con la destinazione originaria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.11.2016 n. 49840 - Urbanistica e appalti 2/2017).

EDILIZIA PRIVATA: Sul cambio di destinazione d'uso da cantina-garage ad abitazione.
Nel caso di specie si è verificato un cambio di destinazione d'uso, realizzato mediante opere edilizie, di alcuni locali da cantina-garage ad abitazione, ovvero dalla categoria d'uso non residenziale alla diversa categoria d'uso residenziale.
Un tale cambio di destinazione, pacificamente realizzato in difformità rispetto alla d.i.a. presentata, configura il reato contestato  -ex art. 44, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001-
trattandosi di un'opera di ristrutturazione edilizia presa in considerazione dalla legislazione della Regione Lazio ai sensi del comma 2 dell'art. 10 del d.P.R n. 380 del 2001. Tale ultima disposizione prevede, infatti, che «le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività».
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Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a d.i.a. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
E, come sottolineato dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte, le sanzioni previste per il cambio di destinazione d'uso risultano giustificate dall'esigenza di scongiurare il pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati dagli strumenti urbanistici in relazione al corretto e ordinato assetto del territorio.
Ne deriva, quanto al caso in esame, che l'intervento edilizio oggetto dell'imputazione avrebbe dovuto essere eseguito con permesso di costruire.
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1. - Con ordinanza del 07.10.2015, il Tribunale di Roma ha annullato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip dello stesso Tribunale ed avente ad oggetto un immobile, in relazione al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il Tribunale ha rilevato, in particolare, che le opere edilizie realizzate in difformità dalla d.i.a. presentata, consistenti nel cambio di destinazione d'uso di due locali, rientrano tra quelle per le quali è richiesta la sola d.i.a. Ad avviso dello stesso Tribunale, il permesso di costruire è necessario per il cambio di destinazione d'uso solo se gli immobili sono ricompresi nelle zone omogenee A, mentre l'immobile in questione è sito in località non sottoposta a vincoli è inserita in zona O dallo strumento urbanistico.
2. - Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma.
Ad avviso del ricorrente, il Tribunale avrebbe omesso di considerare che il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage ad abitazione è avvenuto tra due categorie diverse, da non residenziale a residenziale, ed è dunque inquadrabile tra le ristrutturazioni edilizie "pesanti", tuttora soggetti alla disciplina del permesso di costruire.
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3. - Il ricorso è fondato.
Nel caso di specie si è verificato un cambio di destinazione d'uso, realizzato mediante opere edilizie, di alcuni locali da cantina-garage ad abitazione, ovvero dalla categoria d'uso non residenziale alla diversa categoria d'uso residenziale. Un tale cambio di destinazione, pacificamente realizzato in difformità rispetto alla d.i.a. presentata dall'interessata, configura il reato contestato, trattandosi di un'opera di ristrutturazione edilizia presa in considerazione dalla legislazione della Regione Lazio ai sensi del comma 2 dell'art. 10 del d.P.R n. 380 del 2001. Tale ultima disposizione prevede, infatti, che «le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività».
E la Regione Lazio, con l'art. 7, terzo comma, della legge regionale n. 36 del 1987, nella sua formulazione attualmente vigente, ha stabilito che «le modifiche di destinazione d'uso con o senza opere a ciò preordinate, quando hanno per oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico generale, sono subordinate al rilascio di apposita permesso di costruire, mentre quando riguardano gli ambiti di una stessa categoria sono soggette a denuncia di inizio attività da parte del sindaco».
La disciplina regionale, adottata ai sensi del richiamato comma 2 dell'art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, nel richiedere il permesso di costruire per il mutamento di destinazione d'uso con passaggio dall'una all'altra categoria urbanistica, non fa alcun riferimento alla necessaria inclusione degli immobili in una particolare zona omogenea dello strumento urbanistico. Ed essa prevale, in ogni caso, sulla disciplina generale di cui al precedente comma 1, lett. c), del richiamato art. 10 del d.pr. n. 380 del 2001, a norma del quale sono subordinati al permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino mutamenti della destinazione d'uso, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A.
Si tratta di una disciplina che, nel suo complesso, si pone in armonia con quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di reati edilizi, nel senso che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a d.i.a. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (sez. 3, 24.06.2014, n. 39897, rv. 260422; sez. 3, 13.12.2013, rv. 258686; in senso analogo, sez. 3, 07.05.2015, n. 42453, rv. 265191; sez. 3, 16.10.2014, n. 3953, rv. 262018).
E, come sottolineato dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte, le sanzioni previste per il cambio di destinazione d'uso risultano giustificate dall'esigenza di scongiurare il pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati dagli strumenti urbanistici in relazione al corretto e ordinato assetto del territorio.
Ne deriva, quanto al caso in esame, che l'intervento edilizio oggetto dell'imputazione avrebbe dovuto essere eseguito con permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26455).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante.
Al fine di ritenere configurabile il mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere edilizie sono irrilevanti le modifiche -recentemente apportate dall'art. 17 del d.l. n. 133 del 2014, convertito dalla legge n. 164 del 2014- all'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale, nell'estendere la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso.
E si deve, in particolare, osservare che, per il caso della trasformazione, attraverso opere interne ed esterne, di un immobile da deposito ad uso residenziale, viene in rilievo il disposto del nuovo art. 23-ter, comma 1, del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, in tema di mutamento d'uso urbanisticamente rilevante.

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3. - Il ricorso è inammissibile, perché proposto al di fuori dei limiti fissati dall'art. 325, comma 1, cod. proc. pen..
Esso è infatti basato su censure che -al di là della loro intestazione formale- non sono sostanzialmente riferite a violazioni di legge, ma a pretesi vizi della motivazione. Le censure sono, inoltre, del tutto generiche, perché nel ricorso non si indicano gli elementi concreti sulla base dei quali la conforme valutazione dello stato di fatto operata dal Gip e dal Tribunale dovrebbe essere disattesa.
Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni, deve comunque rilevarsi che -contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso- il Tribunale ha evidenziato, sulla base di numerosi convergenti indizi, sia l'illegittimità macroscopica del permesso di costruire rilasciato sia, in ogni caso, l'evidente non conformità delle opere realizzate a tale permesso.
È sufficiente qui richiamare, innanzitutto, il profilo che il Tribunale ha ritenuto assorbente, ovvero la destinazione del nuovo immobile realizzato a civile abitazione, in violazione dell'accordo del 22.05.2003, con il quale si era autorizzato l'indagato a demolire un fabbricato adibito a deposito e a ricostruire un altro immobile avente uguale tipologia, nonché identici volume e superficie coperta.
E sul punto deve essere richiamato il principio, più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui,
al fine di ritenere configurabile il mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere edilizie sono irrilevanti le modifiche -recentemente apportate dall'art. 17 del d.l. n. 133 del 2014, convertito dalla legge n. 164 del 2014- all'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale, nell'estendere la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso (sez. 3, 16.10.2014, n. 3953, rv. 262018).
E si deve, in particolare, osservare che,
per il caso della trasformazione, attraverso opere interne ed esterne, di un immobile da deposito ad uso residenziale, viene in rilievo il disposto del nuovo art. 23-ter, comma 1, del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale costituisce "mutamento d'uso urbanisticamente rilevante" ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
E non possono essere qui prese in considerazione le asserzioni svolte dalla difesa sul punto, secondo cui dagli atti non emergerebbe che il fabbricato preesistente fosse un deposito agricolo. Si tratta, infatti, di rilievi puramente fattuali, puntualmente smentiti dal Tribunale e, comunque, inammissibili in sede di legittimità.
Né possono essere condivise le considerazioni -anche esse puramente fattuali- svolte dalla difesa relativamente alla reale consistenza dell'immobile effettivamente realizzato, perché la stessa è stata constatata dalla polizia giudiziaria e dal consulente tecnico del pubblico ministero e risulta ampiamente confermata dalla documentazione fotografica in atti. Del resto, la linea difensiva dell'indagato muove, sul punto, dall'erroneo presupposto che la volumetria rappresentata da piani che saranno interrati o seminterrati -e che, peraltro, non risultano tali allo stato in cui si trovano i lavori- non dovrebbe essere considerata ai fini del computo volumetrico totale.
Si tratta, in ogni caso, di valutazioni che potranno essere oggetto di definitivo approfondimento in sede di merito. Ed anzi la ragione giustificativa della previsione dell'articolo 325, comma 1, cod. proc. pen. nel senso di limitare alla sola violazione di legge il ricorso per cassazione avverso il riesame del sequestro probatorio, risiede proprio nell'esigenza -rilevante ai fini dell'economia processuale- di evitare che il giudizio di merito sulla responsabilità penale possa essere anche parzialmente anticipato in sede cautelare (ex plurimis, sez. 3, 09.07.2015, n. 41211; sez. 3, 17.01.2013, n. 24824) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2016 n. 12904 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALo svolgimento dell’attività propria di un’associazione culturale –di carattere ricreativo o formativo, non disgiunto magari da momenti di preghiera– non appare compatibile con la destinazione a laboratorio industriale propria dei locali di cui è causa.
L’art. 23-bis del DPR 380/2001 individua una serie di categorie funzionali autonome e il passaggio dall’una all’altra –anche senza opere edilizie– configura un mutamento di destinazione d’uso rilevante sotto il profilo urbanistico.
Orbene, la categoria “produttiva e direzionale” di cui alla lettera b) del comma 1 dell’articolo citato, nella quale può comprendersi quella a laboratorio industriale, non può consentire attività culturali e formative –in senso lato– che l’associazione asserisce di svolgere.
Anche prima del citato art. 23-bis, del resto, sulla questione del mutamento di destinazione d’uso fra categorie urbanistiche autonome, la giurisprudenza della scrivente Sezione II, a partire dalla sentenza 27.05.2009, n. 3859, fino alle più recenti decisioni, ha ribadito la rilevanza sotto il profilo urbanistico di tale mutamento, che se realizzato senza idoneo titolo edilizio deve senza dubbio reputarsi contra legem.
A tali pronunce, si aggiungano:
- Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2014, n. 4483, che subordina al pagamento del contributo i cambi di destinazione d’uso –anche senza opere edilizie– fra le distinte categorie di cui ai commi primo e secondo dell’art. 19 del DPR 380/2001 (rispettivamente industriali e artigianali da una parte e turistiche, commerciali, direzionali o per servizi dall’altra);
- Consiglio di Stato, sez. VI, 18.04.2013, n. 2153; TAR Lazio, sez. I-quater, 04.10.2012, n. 8297 e TAR Campania, Napoli, sez. VII, 12.07.2012, n. 3382, per la quale il cambio di destinazione d’uso che comporta un aumento di superficie anche in conseguenza della trasformazione da non residenziale a residenziale, è soggetto a permesso di costruire; oltre a TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 06.05.2014, n. 468, per la quale la manutenzione straordinaria è attività limitata al rinnovamento ed alla sostituzione di parti dell’edificio, mentre in caso di trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico la figura corretta per l’inquadramento dell’attività edilizia è quella della ristrutturazione, con necessità del relativo titolo.
Di conseguenza, appare incontestato l’avvenuto mutamento di destinazione d’uso, da quello industriale ad altro di carattere culturale e ricreativo (poco importa se accompagnato da momenti di preghiera da parte di chi accede ai locali).
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La ricorrente afferma nuovamente di non svolgere attività di culto, evidenziando che eventuali manifestazioni occasionali di preghiera non consentono di qualificare il locale come adibito al culto islamico.
Anche tale censura è però priva di pregio: quel che rileva nella presente fattispecie è che i locali di cui è causa –che dovrebbero essere impiegati esclusivamente a laboratorio industriale– sono invece caratterizzati da un notevole afflusso di persone svolgenti attività sicuramente varie (incontri, mostre, lezioni di lingua araba e italiana e anche eventuali occasioni di preghiera), ma in ogni modo non riconducibili, neppure con il più ampio sforzo, all’attività industriale e produttiva.
A questo punto, il richiamo ai principi costituzionali sulla libertà religiosa non appare pertinente, in quanto –lo si ripete nuovamente– non è certamente in discussione la libertà religiosa della comunità mussulmana di Cinisello Balsamo, come quella di altre comunità, ma si impone esclusivamente il rispetto della destinazione d’uso urbanistica dei locali.

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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 143 (rectius: 173) del 02.07.2014 prot. n. 41253 del 03.07.2014 a firma del Dirigente del Servizio edilizia privata del Comune di Cinisello Balsamo, nonché di ogni altro atto della procedura, anche non noto, antecedente, conseguente o connesso.
...
FATTO
Con ordinanza n. 173 del 02.07.2014, a firma del Dirigente del Settore Servizi al Territorio, il Comune di Cinisello Balsamo (MI), ingiungeva alla società F.E. Srl quale proprietaria e all’associazione “Comunità Islamica di Cinisello Balsamo” quale locataria (di seguito, per brevità, anche solo “associazione”), il ripristino dello stato dei luoghi e della destinazione d’uso assentita, con riguardo ad abusi edilizi che sarebbero stati commessi sull’immobile sito in via ... n. 11.
Contro l’ordinanza succitata era proposto il presente ricorso, con domanda di sospensiva, per i motivi che possono così essere sintetizzati:
1) carenza di istruttoria in merito alla ritenuta sussistenza del mutamento della destinazione d’uso da industriale a luogo di culto;
2) violazione dell’art. 19 della Costituzione e violazione e falsa applicazione dell’art. 52, comma 3-bis, della LR 12/2005;
3) eccesso di potere sotto il profilo del travisamento dei fatti in merito alla ritenuta sussistenza del mutamento di destinazione d’uso da industriale e luogo di culto, violazione dell’art. 70, comma 2, e 71 della LR 12/2005;
4) eccesso di potere per manifesta illogicità della motivazione, difetto assoluto di motivazione in merito alla correlazione tra il presunto mutamento della destinazione d’uso a luogo di culto e la non realizzazione della rampa interna di accesso al piano rialzato o il frazionamento immobiliare dell’originario edificio, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, violazione e falsa applicazione dell’art. 33 del DPR 380/2001;
5) eccesso di potere per difetto di motivazione e omessa istruttoria, violazione degli articoli 2 e 18 della Costituzione.
Si costituiva in giudizio il Comune intimato, concludendo per il rigetto del gravame.
...
DIRITTO
1. Nel provvedimento impugnato (cfr. il doc. 1 della ricorrente e del resistente), il Comune di Cinisello Balsamo ordina il ripristino dello stato dei luoghi del capannone di via ... n. 11, sulla base del seguente percorso argomentativo:
- la destinazione attuale dell’immobile è ancora quella di laboratorio industriale;
- all’interno sono stati realizzati una serie di interventi edilizi (modifica dei locali al piano rialzato e frazionamento degli uffici al primo e secondo piano);
- nell’immobile si svolge attività di culto o, in ogni caso, attività propria di un’associazione di carattere culturale, comunque non compatibile con la destinazione industriale.
Nell’ordinanza cautelare di primo grado n. 40/2015, la scrivente Sezione II aveva evidenziato che l’utilizzo attuale dell’immobile (luogo di culto o associazione culturale che fosse), non è in ogni modo compatibile con la suddetta destinazione d’uso industriale.
In sede di appello cautelare, il Consiglio di Stato ha disposto la fissazione dell’udienza pubblica in primo grado, con sollecitazione al TAR ad approfondire le questioni sull’accertamento dell’attività effettivamente svolta nei locali in questione.
1.1 Nel primo motivo di ricorso, si denuncia il presunto difetto di istruttoria in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione comunale, che non avrebbe accertato l’effettivo svolgimento dell’attività di culto, posto che l’associazione ricorrente (così testualmente nel gravame), non avrebbe finalità religiose né svolgerebbe attività di culto.
Sull’attività istruttoria svolta dal Comune, preme rilevare che il 15 e il 25.04.2014 erano effettuati due distinti sopralluoghi, nel corso dei quali era accertata l’avvenuta esecuzione, senza titolo edilizio, di taluni interventi, fra i quali la modifica dei locali al piano rialzato e il frazionamento degli uffici posti al primo e al secondo piano, che diventano in tal modo un’unità immobiliare autonoma (cfr. i documenti 4 e 5 della ricorrente, oltre ai documenti dal n. 2 al n. 5 del resistente).
In data 18.04.2014, la Polizia Locale effettuava un accesso ai locali, interpellando alcune persone ivi presenti, le quali confermavano l’avvio di lavori per la predisposizione di un “centro culturale”, oltre che l’effettuazione della preghiera settimanale verso le ore 13.30 (cfr. il doc. 2 del resistente).
Nel corso di un successivo sopralluogo del 25.04.2014 (cfr. il doc. 3 del resistente), all’interno del capannone erano rinvenute un centinaio di persone intenti alla preghiera, mentre da un piccolo palco erano recitate preghiere.
Si evidenzia che, in tale occasione, il vicepresidente dell’associazione riferiva di avere presentato all’ufficio tecnico la documentazione per il cambio d’uso (circostanza questa che non trova però riscontro presso gli uffici comunali).
Le conclusioni dell’attività istruttoria svolta dagli uffici sono riassunte nella scheda di controllo sull’attività urbanistico edilizia, prodotta dal resistente quale suo doc. 5.
Ciò premesso, appare in ogni modo fuori discussione che all’interno dello stabile di via Frisia viene svolta un’attività (che sia o no di culto poco rileva, come meglio sarà precisato), che comporta un notevole afflusso di persone e che non appare in ogni modo compatibile con la destinazione d’uso attuale, cioè –giova ricordarlo– a laboratorio industriale.
La stessa associazione ricorrente, infatti, ammette di svolgere attività di carattere culturale e ricreativo, come si desume sia dallo Statuto (cfr. il doc. 1 della ricorrente) sia dalla rassegna fotografica (cfr. il doc. 2 della ricorrente), che attesta nei locali la presenza di numerose persone –fra cui anche molti bambini– intenti ad attività ricreative o scolastiche.
Lo svolgimento dell’attività propria di un’associazione culturale –di carattere ricreativo o formativo, non disgiunto magari da momenti di preghiera– non appare compatibile con la destinazione a laboratorio industriale propria dei locali di cui è causa.
L’art. 23-bis del DPR 380/2001 individua una serie di categorie funzionali autonome e il passaggio dall’una all’altra –anche senza opere edilizie– configura un mutamento di destinazione d’uso rilevante sotto il profilo urbanistico.
Orbene, la categoria “produttiva e direzionale” di cui alla lettera b) del comma 1 dell’articolo citato, nella quale può comprendersi quella a laboratorio industriale, non può consentire attività culturali e formative –in senso lato– che l’associazione asserisce di svolgere.
Anche prima del citato art. 23-bis, del resto, sulla questione del mutamento di destinazione d’uso fra categorie urbanistiche autonome, la giurisprudenza della scrivente Sezione II, a partire dalla sentenza 27.05.2009, n. 3859, fino alle più recenti decisioni (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 534 e n. 535, entrambe del 26.02.2013, oltre a quella del 18.04.2013, n. 971 ed a quella del 22.10.2014, n. 2527), ha ribadito la rilevanza sotto il profilo urbanistico di tale mutamento, che se realizzato senza idoneo titolo edilizio deve senza dubbio reputarsi contra legem.
A tali pronunce, si aggiungano:
- Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2014, n. 4483, che subordina al pagamento del contributo i cambi di destinazione d’uso –anche senza opere edilizie– fra le distinte categorie di cui ai commi primo e secondo dell’art. 19 del DPR 380/2001 (rispettivamente industriali e artigianali da una parte e turistiche, commerciali, direzionali o per servizi dall’altra);
- Consiglio di Stato, sez. VI, 18.04.2013, n. 2153; TAR Lazio, sez. I-quater, 04.10.2012, n. 8297 e TAR Campania, Napoli, sez. VII, 12.07.2012, n. 3382, per la quale il cambio di destinazione d’uso che comporta un aumento di superficie anche in conseguenza della trasformazione da non residenziale a residenziale, è soggetto a permesso di costruire; oltre a TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 06.05.2014, n. 468, per la quale la manutenzione straordinaria è attività limitata al rinnovamento ed alla sostituzione di parti dell’edificio, mentre in caso di trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico la figura corretta per l’inquadramento dell’attività edilizia è quella della ristrutturazione, con necessità del relativo titolo.
Di conseguenza, appare incontestato l’avvenuto mutamento di destinazione d’uso, da quello industriale ad altro di carattere culturale e ricreativo (poco importa se accompagnato da momenti di preghiera da parte di chi accede ai locali).
Le doglianze contenute nel primo mezzo di gravame devono quindi rigettarsi.
1.2 Nel secondo mezzo, la ricorrente afferma nuovamente di non svolgere attività di culto, evidenziando che eventuali manifestazioni occasionali di preghiera non consentono di qualificare il locale come adibito al culto islamico.
Anche tale censura è però priva di pregio: quel che rileva nella presente fattispecie è che i locali di cui è causa –che dovrebbero essere impiegati esclusivamente a laboratorio industriale– sono invece caratterizzati da un notevole afflusso di persone svolgenti attività sicuramente varie (incontri, mostre, lezioni di lingua araba e italiana e anche eventuali occasioni di preghiera), ma in ogni modo non riconducibili, neppure con il più ampio sforzo, all’attività industriale e produttiva.
A questo punto, il richiamo ai principi costituzionali sulla libertà religiosa non appare pertinente, in quanto –lo si ripete nuovamente– non è certamente in discussione la libertà religiosa della comunità mussulmana di Cinisello Balsamo, come quella di altre comunità, ma si impone esclusivamente il rispetto della destinazione d’uso urbanistica dei locali.
1.3 Le considerazioni sopra svolte ai punti 1.1 e 1.2 possono essere estese anche al terzo motivo, nel quale la ricorrente ribadisce ancora, richiamando gli articoli 70 e 71 della LR 12/2005, di non svolgere attività di culto islamico (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.02.2016 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interpretazione art. 44, comma 12, L.R. n. 12/2005 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 15.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Cambio destinazione d'uso SENZA OPERE EDILIZIE - verifica accessibilità (o meno) dell'unità immobiliare da RESIDENZIALE a DIREZIONALE (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 15.01.2016).

anno 2015

EDILIZIA PRIVATA: L’attività di affittacamere, pur differenziandosi da quella alberghiera per le dimensioni modeste, richiede non solo la cessione del godimento di un locale ammobiliato e provvisto delle necessarie somministrazioni, ma anche la prestazione di servizi personali, quali il riassetto del locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da bagno.
Nel caso di specie non si rinviene la radicale oggettiva diversità tra le due modalità di destinazione denunciate dall’appellante e dunque non è configurabile una falsa rappresentazione in ordine al denunciato cambio di destinazione dell’immobile, per effetto della parziale sovrapposizione tra le due forme di destinazione e dell’ulteriore circostanza che l’eventuale impiego del bene secondo modalità parzialmente diverse da quelle che configurano l’affittacamere comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria.

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4.– L’appello è infondato.
4.1.– L’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza per le seguenti ragioni:
a) la questione della mancanza di opere edilizie nelle sei camere non sarebbe motivo posto a base del provvedimento impugnato;
b) l’indisponibilità giuridica sarebbe conseguenza dei sequestri giudiziari risultanti esistenti all’atto dell’adozione del provvedimento di annullamento impugnato;
c) la non conformità urbanistico-edilizia, conseguente alla pluralità di abusi esistenti sul fabbricato nel corso del 2004;
d) la falsa rappresentazione dei dati di cui alle lettere b) e c) da parte dell’appellata al momento della presentazione della domanda di autorizzazione.
L’appellante critica, inoltre, la sentenza nella parte in cui ha ritenuto assimilabile l’attività di affittacamere a quella alberghiera, in ragione della diversità tipologica delle attività. Inoltre, si rileva come la parte appellata aveva presentato, nel 2004, «istanza di condono edilizio nella quale dichiarava che il fabbricato (…) era da destinarsi ad attività alberghiera, tale essendo la finalità delle opere edili autorizzate senza permesso».
I motivi non sono fondati.
In relazione al punto a), il preteso errore del primo giudice nel valutare un profilo non oggetto del provvedimento impugnato non ha rilevanza ai fini della presente decisione.
In relazione al punto b), a parte l‘effettiva esistenza della perdurante efficacia dei sequestri, tale provvedimenti, come bene mette in rilievo l’appellata, esistevano comunque al momento del rilascio dell’autorizzazione; e non viene indicata alcuna ragione che giustifichi l’annullamento nel 2013.
In relazione al punto c), è sufficiente rilevare che la questione edilizia è stata affrontata in modo indebito dal Comune, come sopra risulta: con la conseguenza che non può, allo stato, costituire valida ragione di annullamento dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività commerciale.
In relazione al punto d), alla luce di quanto esposto non risultano omissioni ingannevoli al momento della domanda di autorizzazione per giustificare l’annullamento dell’atto autorizzatorio rilasciato. Per l’asserita falsità per la mancata comunicazione circa la destinazione dei beni a finalità alberghiera e non di affittacamere, si deve anzitutto rilevare che l'attività di affittacamere, pur differenziandosi da quella alberghiera per le dimensioni modeste, richiede non solo la cessione del godimento di un locale ammobiliato e provvisto delle necessarie somministrazioni (luce, acqua, ecc.), ma anche la prestazione di servizi personali, quali il riassetto del locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da bagno (cfr. Cass., II, 08.11.2010, n. 22665).
Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, deve ritenersi che (a prescindere dall’effettività del mutamento di destinazione e dalla valenza della rinuncia alla domanda di condono da parte dell’appellante, successivamente intervenuta) non sussiste la radicale oggettiva diversità tra le due modalità di destinazione denunciata dall’appellante.
Si tenga conto, inoltre, che la legge della Regione Campania 24.11.2001, n. 17 (Disciplina delle strutture ricettive extralberghiere) dispone che, in caso di gestione delle camere secondo modalità differenti da quelle autorizzate dalla legge, si applicano soltanto sanzioni pecuniarie. In definitiva, non è configurabile una falsa rappresentazione in ordine al denunciato cambio di destinazione dell’immobile, considerata la parziale sovrapposizione tra le due forme di destinazione e la circostanza che l’eventuale impiego del bene secondo modalità parzialmente diverse da quelle che configurano l’”affittacamere” comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria.
5.– Per le ragioni sin qui esposte, i provvedimenti impugnati risultano privi di un’adeguata motivazione e di istruttoria, sono illegittimi e vanno annullati: e il Comune dovrà riesercitare il potere in conformità a quanto considerato dalla presente decisione (
massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.12.2015 n. 5856 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi degli art. 71, comma 1, c-bis) e 72 L.R. n. 12/2005 Lombardia, l’installazione di attrezzature per servizi religiosi in immobili destinati a sede di associazioni le cui finalità siano da ricondurre alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza della condizione rappresentata dall’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati.
Inoltre, che nel caso di specie il mutamento della destinazione d’uso (da negozio a luogo destinato al culto) è avvenuto in assenza del pur necessario titolo edilizio.
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... per la riforma dell'ordinanza 31.07.2015 n. 1506 del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA, resa tra le parti, concernente ripristino originale destinazione d'uso a negozio nei locali di via Tremana 11, Bergamo;
...
- Considerato che ai sensi degli art. 71, comma 1, c-bis) e 72 L.R. n. 12/2005 Lombardia, l’installazione di attrezzature per servizi religiosi in immobili destinati a sede di associazioni le cui finalità siano da ricondurre alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza della condizione rappresentata dall’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati;
- ritenuto, inoltre, che nel caso di specie il mutamento della destinazione d’uso (da negozio a luogo destinato al culto) è avvenuto in assenza del pur necessario titolo edilizio;
- ritenuto, pertanto, che l’appello proposto dal Comune meriti accoglimento, con conseguente rigetto dell’istanza cautelare proposta in primo grado;
- ritenuto che sussistono i presupposti per compensare le spese della fase cautelare;
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
Accoglie l'appello (Ricorso numero: 8729/2015) e, per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, respinge l'istanza cautelare proposta in primo grado.
Ordina che a cura della segreteria la presente ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita fissazione dell'udienza di merito ai sensi dell'art. 55, comma 10, cod. proc. amm. (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 25.11.2015 n. 5254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mutamento di destinazione d'uso del sottotetto.
In tema di reati edilizi, la modifica di destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne.
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette "opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso, precisando che l'esecuzione di opere di aumento della superficie e dei volumi o comunque di realizzazione di impianti tecnologici comportanti una modifica della destinazione d'uso richiede il permesso di costruire.
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lettera b), d.p.r. n. 380 del 2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "
elementi tipologici" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'arti. 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n. 380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di modesta entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
In particolare, la trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è caratterizzata per sua naturale destinazione ad abitazione, costituisce mutamento della destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario il rilascio del permesso di costruire, in assenza della quale il fatto integra l'ipotesi di reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001.
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In tema di reati urbanistici, non ricorrono gli estremi della buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988), quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in conseguenza di una erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di consultare il competente ufficio.
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3.2. A prescindere, poi, dalla novità della doglianza sollevata dal Ma., il tema centrale e risolutivo, al quale sfuggono i ricorrenti, è costituito dal mutamento di destinazione d'uso del sottotetto in conseguenza dei lavori abusivi eseguiti e delle difformità realizzate, in ordine alle quali, nella loro storicità, non vi è neppure contestazione.
Questa Corte ha affermato che, in tema di reati edilizi, la modifica di destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne (Sez. 3, n. 27713 del 20/05/2010, P.M. in proc. Olivieri ed altri, Rv. 247919).
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette "opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso (Sez. 3, n. 47438 del 24/11/2011, Truppi, Rv. 251637), precisando che l'esecuzione di opere di aumento della superficie e dei volumi o comunque di realizzazione di impianti tecnologici comportanti una modifica della destinazione d'uso richiede il permesso di costruire (Sez. 3, n. 37862 del 16/06/2014, PMT in proc. Duranti ed altri, non mass.).
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'articolo 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (articolo 3, comma 1, lettera c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n. 380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di modesta entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243101).
In particolare, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, la trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è caratterizzata per sua naturale destinazione ad abitazione, costituisce mutamento della destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario il rilascio del permesso di costruire, in assenza della quale il fatto integra l'ipotesi di reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 6581 del 19/12/2000, dep. 19/02/2001, Muccio, Rv. 218702; Sez. 3, n. 17359 del 08/03/2007, P.M. in proc. Vazza, Rv. 236493).
I ricorrenti obiettano come tale destinazione non si fosse in concreto realizzata, in quanto non voluta, ma a parte l'istanza di sanatoria tendente a regolarizzare il pregresso abuso, dimostrativa della perpetrazione di esso ed anche della direzione finalistica della condotta, la destinazione della soffitta ad uso abitativo è stata desunta dalla divisione del locale in stanze mediante tre metrature, dall'inserimento di un bagno di grandi dimensioni e munito addirittura vasca idromassaggio e di finiture di pregio, inidonee per un locale di sgombero, dall'apertura di finestre che ne aumentavano la luminosità, dalla modifica dell'impianto elettrico e di quello idrico preesistenti, dall'inserimento addirittura di termosifoni per il riscaldamento, dalla realizzazione di una scala di ampie dimensioni per accedervi, sicché non si comprende cosa altro occorra per dedurre, sulla base di massime di esperienze generalizzate, l'esecuzione di lavori diretti ad assegnare all'immobile una destinazione d'uso diversa da quella originaria.
Né poteva ipotizzarsi la presentazione di qualsiasi variante posto che, al cospetto di una modifica della destinazione d'uso dell'immobile, non sono ammesse varianti stante la chiara preclusione in tal senso desumibile dall'art. 22, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001.
I Giudici del merito hanno pertanto correttamente applicato la normativa urbanistica pervenendo alla conclusione di ritenere ampiamente configurati i reati ascritti anche con riferimento alle altre ipotesi di abuso edilizio indicate nel capo di imputazione e tutte sostanzialmente finalizzate alla modifica della destinazione d'uso del sottotetto, violazione già di per sé autosufficiente per l'affermazione della responsabilità penale e compiuta nell'esclusivo interesse della proprietaria dell'immobile, circostanza che esclude, come sarà più chiaro in seguito, la sua buona fede.
3.2. I ricorrenti hanno eccepito che la responsabilità penale non poteva essere affermata per difetto dell'elemento soggettivo del reato e la proprietaria, committente dei lavori, ha in particolare sostenuto di aver agito in assenza di colpa perché inconsapevole di commettere gli abusi, avendola il direttore dei lavori sempre rassicurata in merito alla esecuzione delle opere non previste nella Dia, dicendole che si trattava di lavori legittimi e regolarizzabili mediante una variante finale, ma tale asserzione non è stata convalidata dalla Corte territoriale che ha osservato che l'imputata, se anche avesse agito fidandosi delle assicurazioni del direttore dei lavori, aveva comunque l'onere di accertare, con la necessaria diligenza, se davvero le opere difformi e non previste nella Dia, di cui ella era ampiamente consapevole, stante la loro macroscopica diversità rispetto al progetto allegato alla Dia stessa, fossero legittime e assentibili.
Dalla testimonianza della figlia della ricorrente si è appreso infatti che la Ra. chiedeva spiegazioni al direttore dei lavori circa le difformità riscontrate sentendosi rispondere che in effetti si trattava di lavori non regolari che però sarebbero stati regolarizzati in seguito.
L'imputata, di fronte alla palese violazione dell'atto abilitativo presentato in Comune (violazioni apprese proprio dal direttore dei lavori), aveva allora il dovere e la concreta possibilità di verificare la correttezza di quanto veniva eseguito rivolgendosi direttamente ai tecnici comunali preposti al controllo dell'attività edilizia.
La Corte distrettuale ha perciò ritenuto provato che l'imputata ha agito in modo negligente anche se il coimputato l'aveva rassicurata ed il fatto che quest'ultimo, a dibattimento, abbia confermato di aver tranquillizzato la Ra. circa la regolarità della procedura che aveva deciso di intraprendere, cioè eseguire delle opere non previste dalla Dia confidando di poterle regolarizzare con una variante finale, non esonera la ricorrente da responsabilità per colpa ed esclude che si sia potuto verificare, in capo ad entrambi i ricorrenti, qualsiasi errore di fatto o errore sulla violazione di norme extrapenali, essendo entrambi perfettamente consapevoli della difformità dei lavori eseguiti rispetto alla Dia presentata.
Questa Corte ha stabilito che, in tema di reati urbanistici, non ricorrono gli estremi della buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988), quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in conseguenza di una erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di consultare il competente ufficio (Sez. 3, n. 36852 del 10/06/2014, Messina, Rv. 259950).
Nel caso di specie, entrambi i ricorrenti erano consapevoli dell'illegittimità dei lavori eseguiti e la Ra. ha inosservato l'obbligo di richiedere un'adeguata informazione per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia (Corte di Cassazione, Sez. penale feriale, sentenza 05.10.2015 n. 39907).

EDILIZIA PRIVATADa soffitta ad alloggio: non basta la Dia. Tar Lazio.
L’ordinanza di demolizione è legittima se per lavori che prevedono un cambio di destinazione d’uso tra due categorie edilizie diverse manca il «permesso di costruire» rilasciato dalla Pa.

L’ha chiarito il TAR Lazio-Roma nella sentenza 11.09.2015 n. 11216, depositata dalla Sez. I-quater, bocciando il ricorso di un privato che chiedeva di annullare l’ordine di demolizione disposto da un Comune per i lavori di ristrutturazione e «risanamento conservativo» di una soffitta di inizio 900 ormai pericolante.
Secondo il ricorrente, tali interventi erano realizzabili con la denuncia di inizio attività (Dia) presentata in base alle norme del Testo unico dell’edilizia (articolo 22, Dpr 380/2001) e l’ordinanza era nulla poiché «il bene preesiste agli interventi di mero risanamento», non essendo cioè un’opera di nuova costruzione per cui è richiesto il permesso di costruire (lettera c, comma 1, articolo 10, Testo unico).
I lavori avevano portato al «cambio di destinazione d’uso da soffitta ad abitativo, e comunque determinanti, anche singolarmente considerate, aumento volumetrico e modifica della sagoma dell’edificio». I giudici hanno spiegato che «in materia edilizia, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d’uso tra due categorie funzionalmente autonome (mutamento d’uso che nella specie si deduce dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a soffitta)».
Il Tar, in pratica, ha precisato come «solo il cambio di destinazione d’uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico)»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).
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MASSIMA
Come accennato in narrativa, è oggetto di controversia la determinazione dirigenziale con cui il Comune di Roma ha ordinato la demolizione di talune opere eseguita senza permesso di costruire su immobile di proprietà della ricorrente, comportanti modifiche delle quote di imposta (sia al colmo che alla gronda), realizzazione di un solaio a forma di “L”, chiusura di porta d’accesso dal pianerottolo, con contestuale apertura di una nuova porta all’interno della soffitta, apertura di finestra–abbaino, lavori di impiantistica.
Sostiene la ricorrente che, essendosi limitata ad eseguire meri interventi di risanamento, tesi alla conservazione del manufatto deterioratosi nel tempo, è illegittimo il provvedimento repressivo, emanato senza tenere in debita considerazione della sufficienza, quale titolo abilitativo, l’avvenuta presentazione di DIA.
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento in esame è stato emesso sulla base di accertamenti tecnici eseguiti dal resistente Comune a seguito della presentazione di DIA per l’esecuzione di lavori edili in locale con destinazione d’uso soffitta, nel corso dei quali è emerso che, oltre ai dichiarati interventi di sostituzione della copertura, senza modifica delle quote d’imposta, di posa in opera di una rampa di scale di accesso alla soffitta e di diversa distribuzione interna,
sono state eseguite una serie di opere sistematicamente volte a determinare in cambio di destinazione d’uso da soffitta ad abitativo, e comunque determinanti, anche singolarmente considerate, aumento volumetrico e modifica della sagoma dell’edificio.
Ed invero, è la stessa relazione tecnica di parte, depositata in atti dalla ricorrente, che evidenzia come a seguito degli interventi ulteriori si sia determinato un incremento volumetrico, con la conseguenza che non può essere qualificato quale opera di ristrutturazione quella parte di interventi edilizi, realizzata in difformità dalla DIA e, dunque, in assenza del prescritto permesso di costruire, avendo comportato un maggiore ingombro a terra e maggiore altezza al piano, con conseguente aumento di volumetria.
Per altrettanto,
non è inquadrabile nelle suddette opere di ristrutturazione la realizzazione dell’abbaino munito di finestra sul tetto del fabbricato in quanto, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide sulla sagoma dell'edificio e rientra quindi nella tipologia della ristrutturazione con mutamento di sagoma, che è subordinata a permesso di costruire, giusta quanto dispone l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In ogni caso, non può sottacersi che le opere eseguite e in corso di esecuzione (quanto alla parte impiantistica) sono idonee a modificare radicalmente la destinazione d’uso della soffitta in locale abitabile, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Ritiene il Collegio che,
in materia edilizia, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si deduce dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a soffitta).
Ed invero,
solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere (che, invece, nel caso in esame sono presenti).
In conclusione, è legittimo il provvedimento impugnato con cui, in applicazione dell’art. 33, comma 1, d.p.r. n. 380/200, è stata ordinata la demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10, comma 1, lett. c), siccome eseguite in assenza di permesso di costruire, ed il ricorso deve essere respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Sulla serie di opere sistematicamente volte a determinare il cambio di destinazione d’uso da soffitta ad abitativo.
La realizzazione di un abbaino, munito di finestra sul tetto del fabbricato, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide sulla sagoma dell'edificio e rientra quindi nella tipologia della ristrutturazione con mutamento di sagoma, che è subordinata a permesso di costruire, giusta quanto dispone l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
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Le opere eseguite e in corso di esecuzione (quanto alla parte impiantistica) sono idonee a modificare radicalmente la destinazione d’uso della soffitta in locale abitabile, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Sicché, in materia edilizia le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si deduce dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a soffitta).
Ed invero, solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere (che, invece, nel caso in esame sono presenti).
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La sig.ra Ta., proprietaria di un immobile sito in Roma, via ... n. 14, impugna l’ordinanza n. 1316 del 24.10.2007, notificata il successivo 30 ottobre, recante l’ingiunzione a demolire le seguenti opere eseguite senza permesso di costruire: “Modifica delle quote d’imposta sia al colmo, sia alla gronda, per m. 0,35 circa. Realizzazione, in epoca imprecisata, di un solaio a forma di “L” delle dimensioni di m. 5,00x1,20 e m. 1,00x1,20. Lavori d’impiantistica in corso, Chiusura porta d’accesso dal pianerottolo e apertura nuova porta all’interno della soffitta. Apertura finestra-abbaino di m. 0,30x1,80”.
Premesso che le opere in questione riguardano il piano di copertura, consistente in un locale soffitta di mq. 29 sempre di esclusiva proprietà della ricorrente, espone in fatto che le opere oggetto dell’ordine di demolizione sono consistite in riparazioni per infiltrazioni idriche provocate dalla preesistenza in loco di un manufatto–lucernaio e, in specie, nella sostituzione dello stesso con una finestra–abbaino, a bocca di lupo e con l’installazione di tegole in guaina isolante e sostituzione di travi in legno.
Contesta, pertanto, che sia stata realizzata una sopraelevazione e che l’opera comprenda l’installazione di impianti idrici, non essendo intenzione della ricorrente di destinare il bene ad uso abitativo.
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Come accennato in narrativa, è oggetto di controversia la determinazione dirigenziale con cui il Comune di Roma ha ordinato la demolizione di talune opere eseguita senza permesso di costruire su immobile di proprietà della ricorrente, comportanti modifiche delle quote di imposta (sia al colmo che alla gronda), realizzazione di un solaio a forma di “L”, chiusura di porta d’accesso dal pianerottolo, con contestuale apertura di una nuova porta all’interno della soffitta, apertura di finestra–abbaino, lavori di impiantistica.
Sostiene la ricorrente che, essendosi limitata ad eseguire meri interventi di risanamento, tesi alla conservazione del manufatto deterioratosi nel tempo, è illegittimo il provvedimento repressivo, emanato senza tenere in debita considerazione della sufficienza, quale titolo abilitativo, l’avvenuta presentazione di DIA.
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento in esame è stato emesso sulla base di accertamenti tecnici eseguiti dal resistente Comune a seguito della presentazione di DIA per l’esecuzione di lavori edili in locale con destinazione d’uso soffitta, nel corso dei quali è emerso che, oltre ai dichiarati interventi di sostituzione della copertura, senza modifica delle quote d’imposta, di posa in opera di una rampa di scale di accesso alla soffitta e di diversa distribuzione interna, sono state eseguite una serie di opere sistematicamente volte a determinare in cambio di destinazione d’uso da soffitta ad abitativo, e comunque determinanti, anche singolarmente considerate, aumento volumetrico e modifica della sagoma dell’edificio.
Ed invero, è la stessa relazione tecnica di parte, depositata in atti dalla ricorrente, che evidenzia come a seguito degli interventi ulteriori si sia determinato un incremento volumetrico, con la conseguenza che non può essere qualificato quale opera di ristrutturazione quella parte di interventi edilizi, realizzata in difformità dalla DIA e, dunque, in assenza del prescritto permesso di costruire, avendo comportato un maggiore ingombro a terra e maggiore altezza al piano, con conseguente aumento di volumetria.
Per altrettanto, non è inquadrabile nelle suddette opere di ristrutturazione la realizzazione dell’abbaino munito di finestra sul tetto del fabbricato in quanto, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide sulla sagoma dell'edificio e rientra quindi nella tipologia della ristrutturazione con mutamento di sagoma, che è subordinata a permesso di costruire, giusta quanto dispone l'art. 10, comma 1, lett. c). d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In ogni caso, non può sottacersi che le opere eseguite e in corso di esecuzione (quanto alla parte impiantistica) sono idonee a modificare radicalmente la destinazione d’uso della soffitta in locale abitabile, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Ritiene il Collegio che, in materia edilizia, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si deduce dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a soffitta).
Ed invero, solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere (che, invece, nel caso in esame sono presenti).
In conclusione, è legittimo il provvedimento impugnato con cui, in applicazione dell’art. 33, comma 1, d.p.r. n. 380/2001, è stata ordinata la demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10, comma 1, lett. c), siccome eseguite in assenza di permesso di costruire, ed il ricorso deve essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 11.09.2015 n. 11216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Modifica destinazione d’uso piazzale esterno quale spazio espositivo delle autovetture in vendita, legate all’attività commerciale esistente (Regione Lombardia - Area Affari Istituzionali - Presidenza, risposta e-mail dell'08.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere sanzionate sono state correttamente qualificate dall’amministrazione procedente come di ristrutturazione edilizia, intendendosi per tale ogni intervento edilizio volto a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, come previsto dall'art. 10, comma 1, lett. e), del DPR 380/2001, che stabilisce espressamente quali interventi, fra quelli qualificabili di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3 dello stesso TU, necessariamente richiedano il previo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, per "ristrutturazione edilizia", di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 380/2001, si intendono quelle opere caratterizzate da una forte rilevanza sul piano della trasformazione edilizia, rispetto alla categoria di ristrutturazione più ampia individuata dall'art. 3 T.U. edilizia, con conseguente assoggettamento al previo rilascio del permesso di costruire; mentre sono qualificabili come di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo solo quegli interventi che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
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Nel caso di specie, l'abuso in questione, considerato nella sua complessità sistematica, è stato correttamente inquadrato nella fattispecie dell'intervento di ristrutturazione edilizia realizzato in assenza di una concessione edilizia, ex art. 9 L. 47/1985 e ex art. 10, comma 1, lett. e), D.P.R. 380/2001, in quanto si è ricavato un organismo diverso da quello preesistente, con mutamento di destinazione d'uso e incremento della volumetria originaria in virtù della tamponatura della preesistente tettoia, dalla quale sono stati ricavati un bagno e una camera da letto, e dell'ampliamento della camera da pranzo mediante abbattimento del muro, con relativa annessione del terrazzo antistante.
Del resto, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile (da soffitta o cantina ad abitazione) è urbanisticamente rilevante e, come tale, necessita di per sé di un titolo edilizio abilitativo; di conseguenza il mutamento de facto della destinazione d'uso integra una situazione di irregolarità, che può ed anzi deve essere rilevata dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di vigilanza.
Infatti, in base all'art. 7, l.reg. 02.07.1987 n. 36, la modifica della destinazione d'uso, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga con o senza opere a tanto preordinate, è subordinata al rilascio di permesso di costruire allorquando, come nel caso di specie, abbia ad oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico.

Il ricorso è infondato.
Come risulta dall'ordine di demolizione impugnato, l'odierna ricorrente ha realizzato un cambio di destinazione d'uso all'interno di un sottotetto di un preesistente locale soffitta in civile abitazione, mediante una sala con angolo cottura delle dimensioni di mt. 5,80x3,80 circa e un'altezza variabile da mt. 1,00 a mt. 2,30 circa. In secondo luogo, una preesistente tettoia è stata tamponata in civile abitazione realizzando una camera da letto delle dimensioni di mt. 5,80x3,80 circa e un'altezza di mt. 2,30 circa ed un bagno delle dimensioni di mt. 1,50x1,50 circa ed un'altezza di mt. 2,30 circa.
Da ultimo, la Sig.ra G. ha provveduto ad ampliare la camera da pranzo abbattendo un muro, con relativa annessione del terrazzo antistante, e realizzando un parapetto di mt. 1,00 di altezza in corrispondenza della ringhiera del balcone.
Ciò premesso, e contrariamente a quanto sostenuto dall'odierna ricorrente, le opere sanzionate sono state correttamente qualificate dall’amministrazione procedente come di ristrutturazione edilizia, intendendosi per tale ogni intervento edilizio volto a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, come previsto dall'art. 10, comma 1, lett. e), del DPR 380/2001, che stabilisce espressamente quali interventi, fra quelli qualificabili di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3 dello stesso TU, necessariamente richiedano il previo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, per "ristrutturazione edilizia", di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 380/2001, si intendono quelle opere caratterizzate da una forte rilevanza sul piano della trasformazione edilizia, rispetto alla categoria di ristrutturazione più ampia individuata dall'art. 3 T.U. edilizia, con conseguente assoggettamento al previo rilascio del permesso di costruire; mentre sono qualificabili come di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo solo quegli interventi che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
Nel caso di specie, l'abuso in questione, considerato nella sua complessità sistematica, è stato correttamente inquadrato nella fattispecie dell'intervento di ristrutturazione edilizia realizzato in assenza di una concessione edilizia, ex art. 9 L. 47/1985 e ex art. 10, comma 1, lett. e), D.P.R. 380/2001, in quanto si è ricavato un organismo diverso da quello preesistente, con mutamento di destinazione d'uso e incremento della volumetria originaria in virtù della tamponatura della preesistente tettoia, dalla quale sono stati ricavati un bagno e una camera da letto, e dell'ampliamento della camera da pranzo mediante abbattimento del muro, con relativa annessione del terrazzo antistante.
Del resto, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile (da soffitta o cantina ad abitazione) è urbanisticamente rilevante e, come tale, necessita di per sé di un titolo edilizio abilitativo; di conseguenza il mutamento de facto della destinazione d'uso integra una situazione di irregolarità, che può ed anzi deve essere rilevata dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di vigilanza. Infatti, in base all'art. 7, l.reg. 02.07.1987 n. 36, la modifica della destinazione d'uso, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga con o senza opere a tanto preordinate, è subordinata al rilascio di permesso di costruire allorquando, come nel caso di specie, abbia ad oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 28.08.2015 n. 10957 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa destinazione ad attività di culto di un locale, la quale impone il rispetto delle pertinenti previsioni urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in cui al locale stesso sia permesso l’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati.
Questo appare non essere il caso, poiché da un lato gli agenti di Polizia Locale non hanno rilevato sul posto alcun afflusso di persone, dall’altro lato, come dichiarato alla camera di consiglio dal responsabile della comunità, al momento l’accesso al locale è riservato ai soci dell’associazione e, come da contratto allegato 3 alla citata relazione, la destinazione al culto è configurata come futura ed eventuale, subordinata all’ottenimento degli assensi amministrativi necessari.
Pertanto il fumus del ricorso sussiste, nel senso che allo stato non può impedirsi che gli associati all’ente ricorrente, nominativamente individuati, accedano alla struttura per professarvi il culto religioso da loro scelto, con esclusione del pubblico accesso.
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... per l’annullamento, previa sospensiva, del provvedimento 24.02.2015 prot. n. U0036176, notificato alla ricorrente in data 06.03.2015, con la quale il Dirigente del servizio interventi edilizi e gestione del territorio del Comune di Bergamo ha ordinato, fra gli altri, al legale rappresentante della Missione della Chiesa di Scientology delle Orobie di ripristinare nei locali siti in Bergamo, alla via Tremana civico 11 la originaria destinazione di uso a negozio;
...
Rilevato:
- che l’associazione ricorrente, di carattere religioso, insorge contro il provvedimento di cui meglio in epigrafe, con il quale si è vista imporre lo sgombero dai locali in questione, sul presupposto che negli stessi si svolga attività di culto (doc. 1 ricorrente, copia ordinanza);
- che tale apprezzamento si fonda su un sopralluogo effettuato in data 27.01.205, il cui tenore è ricostruibile dalla conseguente relazione di servizio del 05.02.2015, prodotta dal Comune il 24.07.2015;
- che la destinazione ad attività di culto di un locale, la quale impone il rispetto delle pertinenti previsioni urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in cui al locale stesso sia permesso l’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati, così come ritenuto, fra le molte, dalla sentenza della Sezione 29.05.2013 n. 522, ove ulteriori rimandi;
- che questo appare non essere il caso, poiché da un lato gli agenti operanti (v. rel. citata) non hanno rilevato sul posto alcun afflusso di persone, dall’altro lato, come dichiarato alla camera di consiglio 04.06.2015 dal responsabile della comunità, al momento l’accesso al locale è riservato ai soci dell’associazione e, come da contratto allegato 3 alla citata relazione, la destinazione al culto è configurata come futura ed eventuale, subordinata all’ottenimento degli assensi amministrativi necessari;
- che pertanto il fumus del ricorso sussiste, nel senso che allo stato non può impedirsi che gli associati all’ente ricorrente, nominativamente individuati, accedano alla struttura per professarvi il culto religioso da loro scelto, con esclusione del pubblico accesso;
- che le spese di fase seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
accoglie la suindicata istanza cautelare e per l’effetto sospende il provvedimento 24.02.2015 prot. n. U0036176 del Dirigente del servizio interventi edilizi e gestione del territorio del Comune di Bergamo. Spese di fase compensate. Fissa per la trattazione del merito la pubblica udienza del 19.10.2016 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 31.07.2015 n. 1506 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche in presenza di un cambio di destinazione d’uso che intervenga all’interno della medesima categoria funzionale la giurisprudenza amministrativa lo ha ritenuto urbanisticamente rilevante ogni qual volta esso abbia comportato un aumento o un aggravamento del carico urbanistico insistente sull’area.
Sicché, nei casi di stabile mutamento di utilizzazione dell'immobile o di porzioni di esso, ascrivibili ad una diversa e più onerosa classe contributiva, occorre garantire un regime contributivo conforme alla nuova tipologia d’uso, non potendo ammettersi che l’intervento si giovi del più favorevole regime contributivo applicato per la destinazione originaria.

4. Del resto pur a voler accedere alla tesi di parte ricorrente circa l’ascrivibilità dell’autorimessa in argomento alla destinazione d’uso commerciale non può comunque predicarsi l’assunta omogeneità con la destinazione ad attività di ristorazione e di accoglienza riconducibile alla diversa categoria funzionale ricettiva come ora disciplinata dalla lett. a) dell’art. 23-bis del t.u.ed. inserito dall’art. 17 del d.l. c.d. sblocca Italia n. 133 del 12.09.2014 che ha introdotto la definizione di ”mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante” come quello comportante il passaggio ad una diversa categoria funzionale tra quelle ivi elencate laddove la categoria funzionale “commerciale” è riportata alla lettera sub c) e quella ricettiva alla diversa lettera sub b) [nella versione applicabile ratione temporis anteriormente alle modifiche apportate dalla legge di conversione n. 164/2014 che ha disgiunto la destinazione turistico ricettiva sub a-bis) dalla residenziale sub a)].
4.1 Peraltro anche in presenza di un cambio di destinazione d’uso che intervenga all’interno della medesima categoria funzionale la giurisprudenza amministrativa lo ha ritenuto urbanisticamente rilevante ogni qual volta esso abbia comportato un aumento o un aggravamento del carico urbanistico insistente sull’area (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 29.01.2009 n. 498). Sicché, nei casi di stabile mutamento di utilizzazione dell'immobile o di porzioni di esso, ascrivibili ad una diversa e più onerosa classe contributiva, occorre garantire un regime contributivo conforme alla nuova tipologia d’uso, non potendo ammettersi che l’intervento si giovi del più favorevole regime contributivo applicato per la destinazione originaria (cfr. Tar Palermo sez. I 10.04.2015 n. 857).
5. Né sotto altro profilo può dirsi percorribile l’opzione sulla cui base la modifica di destinazione in questione intervenendo tra categorie omogenee non abbisognerebbe del previo rilascio del permesso essendo assoggettabile a scia. Al riguardo parte ricorrente non ha espressamente impugnato la nota prot. 23544 dell’08.07.2014 con cui l’amministrazione comunale le contestava l’insussistenza dei requisiti e dei presupposti della scia preventivamente presentata in data 04.06.2014. Sicché non può dolersi della non assoggettabilità dell’intervento in oggetto a permesso di costruire avendo prestato acquiescenza al predetto atto anche tramite il successivo inoltro nel mese di agosto del 2014 dell’istanza di rilascio del permesso di costruire in esame (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 22.07.2015 n. 3872 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACambi d’uso con meno vincoli. Il Consiglio di Stato «liberalizza» i passaggi nella stessa categoria funzionale.
Urbanistica. Impossibile bloccare i mutamenti nell’ambito di un comparto, ma resta il nodo delle discipline locali preesistenti.
«Padroni in casa propria» era lo slogan della legge obiettivo (la n. 443/2001) che allargava la super-Dia a tutta Italia, rendendo così più semplici i lavori di ristrutturazione.
Sembra che il Consiglio di Stato -Sez. IV- abbia preso spunto da qui con la recente sentenza 19.03.2015 n. 1444, riferita all’utilizzo che ciascuno fa dei propri immobili, siano essi ad uso commerciale o terziario (caso considerato dalla decisione), oppure residenziale o produttivo.
Secondo i giudici amministrativi di secondo grado, la disciplina sul mutamento della destinazione d’uso -da ultimo modificata dall’articolo 23-ter del Testo unico edilizia (Dpr 380/2001) introdotto dal decreto Sblocca Italia (Dl 133/2014) e citato dalla decisione in parola- manifesta «evidenti risvolti sulla tutela della proprietà».
Le conseguenze di questa affermazione potrebbero essere notevolissime, atteso che nella materia dell’ordinamento civile (cui afferisce il diritto di proprietà) la potestà legislativa è di esclusiva competenza statale, per cui le leggi approvate dal parlamento non possono essere disattese dalle regioni e, a maggior ragione, dai regolamenti locali come i piani regolatori. Al contrario, se il cambio di destinazione d’uso dovesse appartenere solo alla materia urbanistica, si aprirebbero ancora spazi di autonomia legislativa per le Regioni.
In altre parole, e in concreto, non sarebbero modificabili in sede locale (se non nei limiti stabiliti dalla stessa norma statale) le previsioni dell’articolo 23-ter per cui:
- costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso solo l’utilizzo dell’immobile che comporti l’assegnazione di una diversa categoria funzionale tra residenziale, turistico-ricettiva, produttiva-direzionale, commerciale e rurale;
- il mutamento della destinazione d’uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Di fatto quindi nelle Regioni che non hanno legiferato entro il termine loro assegnato e ormai scaduto (tutte tranne Liguria, Umbria e Toscana) troverebbe diretta applicazione la disciplina nazionale che rende più semplici i cambi d’uso, ammettendoli sempre all’interno della stessa categoria. Non sarebbero dunque salve le leggi regionali esistenti in materia.
Di diverso avviso la Regione Emilia Romagna (si veda articolo a fianco) per cui al contrario le discipline preesistenti -tra cui la propria- resterebbero in vigore.
La precedente giurisprudenza amministrativa non soccorre a sciogliere i dubbi.
Sino all’entrata in vigore dell’articolo 23-ter del Testo unico edilizia, il mutamento delle destinazioni d’uso veniva infatti principalmente trattato all’articolo 10, comma 2, del Testo unico che demanda alle regioni il compito di stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
Le legislazioni regionali sul punto erano dunque piuttosto eterogenee e spesso rinviavano la disciplina di dettaglio agli strumenti urbanistici comunali. Gli unici principi comuni in materia derivavano da primarie nozioni urbanistiche e dall’evoluzione giurisprudenziale. In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che la destinazione d’uso di un fabbricato è quella impressa dal titolo edilizio (Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 09.02.2001 n. 583) e che il mutamento della destinazione impressa ad un fabbricato in favore di altra funzione è ammesso solo se la destinazione che si intende assegnare ricada tra quelle astrattamente ammesse per l’area dallo strumento urbanistico generale (Tar Lombardia, Milano, sezione II, sentenza 07.05.1992, n. 219).
La giurisprudenza ha inoltre precisato come il mutamento di destinazione sia urbanisticamente “rilevante” solamente allorquando sussista un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, ossia aventi diverso regime contributivo in ragione del diverso carico urbanistico.
Con l’articolo 23-ter, il legislatore statale ha evidenziato una maggiore attenzione sul tema e la volontà di porre rimedio all’eterogeneità delle discipline regionali. Ma il tentativo non appare però andato pienamente a buon fine, in ragione dei dubbi interpretativi emersi anche con la sentenza del Consiglio di Stato.
 
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L’adeguamento. La mappa sul territorio. Solo tre le Regioni già allineate alla semplificazione.
Sono solo tre le Regioni che hanno centrato l’obiettivo imposto dal decreto Sblocca Italia di adeguare le proprie leggi sui cambi d’uso alla semplificazione introdotta dal Dl Sblocca Italia: Liguria, Umbria e Toscana.
L’articolo 23-ter del Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001) ha imposto alle Regioni di adeguare la propria legislazione, entro 90 giorni dall’entrata in vigore (termine già decorso), ai principi secondo i quali:
costituisce mutamento «rilevante» della destinazione d’uso di un immobile o di un’unità immobiliare solo l’utilizzo che comporti il passaggio da una ad altra delle categorie funzionali «residenziale», «turistico-ricettiva», «produttiva e direzionale», «commerciale» e «rurale»;
il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
La norma ha altresì disposto che, scaduti i 90 giorni, questi principi avrebbero avuto diretta applicazione. Le autonomie che hanno tempestivamente risposto all’appello del legislatore nazionale sono, appunto, tre. La Liguria è intervenuta con la legge 41/2014, la Toscana, ha ottemperato con la legge sul governo del territorio (Lr 65/2014) e la Regione Umbria recentemente ha approvato la legge 1/2015.
Altre autonomie, come ad esempio, l’Emilia Romagna, in risposta alle richieste di chiarimenti avanzate in relazione agli effetti della disciplina nazionale, sono invece intervenute con semplici note interpretative.
La circolare 11.03.2015 della Regione Emilia Romagna è utile per comprendere i profili di criticità che il dettato normativo nazionale porta con sé.
La Regione Emilia Romagna si è, infatti, limitata ad evidenziare che la disposizione introdotta a livello nazionale, in realtà, non comporta significative innovazioni sul territorio, atteso che il legislatore nazionale, rispetto a i due principi nazionali, ha espressamente fatto salve le diverse discipline contenute nelle leggi regionali.
Così la Regione ha riferito che la diretta applicabilità delle statuizioni nazionali sia possibile solamente nelle Regioni prive di legislazione di dettaglio in materia di cambio d’uso.
Questa lettura, effettivamente confortata del dettato letterale dell’articolo 23-ter (che non manca di rivelare profili di contraddittorietà), chiarisce come l’intento di uniformare la materia, sotteso all’introduzione della nuova disposizione nel corpo del Testo unico sia soggetto a notevoli limitazioni.
Il legislatore potrebbe, dunque, aver mancato l’importante obiettivo di eliminare le disparità ad oggi esistenti tra le discipline previste dalle singole regioni per regolare mutamenti d’uso tra loro identici, salvo che per il territorio sul quale sono posti in essere.
Il contenuto sostanziale della disposizione nazionale ha, comunque, il pregio di distinguere in modo puntuale le singole categorie funzionali e di identificare le modifiche d’uso attuabili liberamente senza incidere sul carico urbanistico esistente e quindi sulla dotazione di aree per servizi
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'attività associativa all’interno di un capannone industriale-artiginale, nel quale si svolgono, privatamente e saltuariamente, preghiere religiose.
La Costituzione italiana sancisce il principio di eguale libertà delle confessioni religiose ed il loro diritto ad organizzarsi secondo i propri statuti. Gli articoli 8 e 19 stabiliscono il dovere dello Stato di salvaguardare la libertà religiosa in un regime di pluralismo confessionale. Ai sensi dell’art. 19 della Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in sintesi estrema, di non pregare a casa propria. Identico precetto si desume dall'ordinamento europeo. La libertà di religione e di culto è riconosciuta anche dall'art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, esecutiva in Italia per la legge 04.08.1955 n. 848.
Infine, il codice penale colpisce con pene anche detentive le offese alle confessioni religiose mediante vilipendio di persone o di cose e il “turbamento di funzioni religiose del culto di una confessione religiosa” senza più distinguere (a partire dalla L. n. 85/2006), ai fini dell’intensità della tutela, tra culto cattolico e altri culti ammessi.
Tutto ciò non toglie che il Comune è titolare del potere di sanzionare l'uso di un locale difforme dalla destinazione urbanistica prevista negli strumenti urbanistici approvati.
L'uso difforme non può tuttavia essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del venerdì o di altra ricorrenza, in quanto per ravvisare la presenza di un luogo di culto in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche è necessario che i locali siano aperti a tutti coloro che vogliano accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte con presenze diffuse, organizzate e stabili.
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L’esistenza di una procedura di selezione dei frequentatori dello stabile e la limitatezza e prevedibilità del loro numero, impedisce di ricondurre il capannone (in questione) alla categoria dei luoghi di culto, caratterizzati, invece, oltre che dalla consacrazione del luogo secondo le liturgie proprie di ogni religione e dall’esercizio, all’interno, di cerimonie religiose con l’assistenza di un ministro del culto anche, e soprattutto, dall’apertura indiscriminata al pubblico dei fedeli.
Ugualmente, non è possibile assimilare l’immobile in questione, destinato ad ospitare i locali di un’associazione culturale-religiosa, le cui attività statutarie sono dirette in favore di un ristretto numero di associati, con gli immobili destinati a “centro culturale”, la cui nozione dal punto di vista urbanistico configura un’opera di interesse collettivo, ossia una categoria logico-giuridica certamente distinta rispetto a quella delle opere pubbliche in senso stretto, ma che tuttavia comprende quegli impianti ed attrezzature che, sebbene non destinati a scopi di stretta cura della p.a., siano idonei a soddisfare bisogni della collettività, ancorché vengano realizzati e gestiti da soggetti privati.
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Di norma, ai fini urbanistici, non rileva l’uso di fatto dell’immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è libero di esplicare; il mutamento d’uso dell’immobile, in assenza di opere edilizie, diviene rilevante, in base all’articolo 32 del D.P.R. n. 380/2001, esclusivamente ove implichi variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, il che si verifica nel caso di passaggio da una autonoma categoria urbanistica all’altra fra quelle previste dal citato D.M..
Quindi, occorre distinguere il caso di specie, di esercizio di un’attività associativa all’interno di un capannone industriale-artiginale, nel quale si svolgono, privatamente e saltuariamente, preghiere religiose, attività espressione dello ius utendi del proprietario ed inidonea a comportare l’assegnazione dell'unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale, da altri e ben diversi casi di mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come destinazione principale o esclusiva l’esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni.
Ciò non toglie che ove l’amministrazione comunale dovesse in futuro accertare, nel corso di eventuali sopralluoghi, l’accesso indiscriminato al predetto capannone o comunque il ripetersi, in più occasioni, di un significativo superamento degli effettivi frequentatori dell’immobile rispetto al numero degli iscritti all’associazione, si verificherebbero i presupposti del mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 86 del 12.06.2014 n. prot. gen. 0018688, con la quale veniva ordinata la chiusura immediata dei locali utilizzati e la sospensione delle attività della ricorrente nell'immobile sito in via ... a Cittadella, in provincia di Padova, notificata in data 12.06.2014, nonché di ogni altro atto presupposto, connesso o successivo.
...
Nel merito il ricorso è infondato.
La Costituzione italiana sancisce il principio di eguale libertà delle confessioni religiose ed il loro diritto ad organizzarsi secondo i propri statuti. Gli articoli 8 e 19 stabiliscono il dovere dello Stato di salvaguardare la libertà religiosa in un regime di pluralismo confessionale. Ai sensi dell’art. 19 della Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in sintesi estrema, di non pregare a casa propria. Identico precetto si desume dall'ordinamento europeo. La libertà di religione e di culto è riconosciuta anche dall'art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, esecutiva in Italia per la legge 04.08.1955 n. 848.
Infine, il codice penale colpisce con pene anche detentive le offese alle confessioni religiose mediante vilipendio di persone o di cose e il “turbamento di funzioni religiose del culto di una confessione religiosa” senza più distinguere (a partire dalla L. n. 85/2006), ai fini dell’intensità della tutela, tra culto cattolico e altri culti ammessi.
Tutto ciò non toglie che il Comune è titolare del potere di sanzionare l'uso di un locale difforme dalla destinazione urbanistica prevista negli strumenti urbanistici approvati.
L'uso difforme non può tuttavia essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del venerdì o di altra ricorrenza, in quanto per ravvisare la presenza di un luogo di culto in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche è necessario che i locali siano aperti a tutti coloro che vogliano accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte con presenze diffuse, organizzate e stabili (cfr. Cons. St., sez. I, parere n. 2489/2014 del 29/07/2014 reso su ricorso straordinario al Capo dello Stato; Tar Lombardia, Brescia, nn. 242/2013 e 522/2013).
Nel caso di specie, tale presupposto, allo stato, non si configura, essendo la partecipazione all’attività dell’associazione ASAR condizionata all’assunzione della qualifica di soci, previa deliberazione assembleare, cui segue il rilascio di una tessera di riconoscimento indispensabile ai fini dell’accesso ai locali dell’associazione (come risulta comprovato dai documenti depositati dalla ricorrente).
D’altra parte, che le persone trovate all’interno del capannone nel corso dei vari accessi della polizia locale fossero tutte appartenenti all’associazione risulta pacificamente ammesso dai verbalizzanti della polizia locale (cfr. informativa del 13.05.2014) e, peraltro, le stesse persone, quando richieste, hanno tutte esibito il tesserino attestante l’iscrizione all’associazione (cfr. verbale del 23.05.2014).
Infine, anche nei momenti di massima affluenza della preghiera del venerdì è stata valutata, approssimativamente, la presenza di non più di una novantina di persone adulte.
Ne deriva che l’esistenza di una procedura di selezione dei frequentatori dello stabile e la limitatezza e prevedibilità del loro numero, impedisce di ricondurre il capannone in questione alla categoria dei luoghi di culto, caratterizzati, invece, oltre che dalla consacrazione del luogo secondo le liturgie proprie di ogni religione e dall’esercizio, all’interno, di cerimonie religiose con l’assistenza di un ministro del culto (elementi questi comunque non ricorrenti nella fattispecie) anche, e soprattutto, dall’apertura indiscriminata al pubblico dei fedeli.
Tale circostanza, in particolare, differenzia la presente fattispecie da quella decisa dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 5778/2011, richiamata dalla difesa del Comune.
Ugualmente, non è possibile assimilare l’immobile in questione, destinato ad ospitare i locali di un’associazione culturale-religiosa, le cui attività statutarie sono dirette in favore di un ristretto numero di associati, con gli immobili destinati a “centro culturale”, la cui nozione dal punto di vista urbanistico configura un’opera di interesse collettivo, ossia una categoria logico-giuridica certamente distinta rispetto a quella delle opere pubbliche in senso stretto, ma che tuttavia comprende quegli impianti ed attrezzature che, sebbene non destinati a scopi di stretta cura della p.a., siano idonei a soddisfare bisogni della collettività, ancorché vengano realizzati e gestiti da soggetti privati.
I centri sociali/culturali che il PRG del Comune di Cittadella colloca in zona a funzione pubblica “F” sono appunto quelli “d’interesse pubblico” che svolgono un servizio d’interesse generale e collettivo in quanto destinati a soddisfare esigenze primarie della generalità dei consociati.
Inoltre, elemento dirimente ai fini dell’inserimento in zona “F” degli edifici che ospitano tali ultime attività è evidentemente la loro indiscriminata apertura al pubblico, che procura un notevole carico urbanistico.
Al contrario, nel caso di specie, il servizio offerto dall’associazione ASAR interessa una ristretta cerchia di cittadini e non si estende oltre la sfera privatistica dei suoi associati, i soli autorizzati a frequentare l’immobile dalla prima condotto in locazione; come accade in qualsiasi altra associazione culturale privata che svolge la propria attività in locali non aperti al pubblico.
Ciò premesso, occorre quindi ricordare che di norma, ai fini urbanistici, non rileva l’uso di fatto dell’immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è libero di esplicare; il mutamento d’uso dell’immobile, in assenza di opere edilizie, diviene rilevante, in base all’articolo 32 del D.P.R. n. 380/2001, esclusivamente ove implichi variazione degli standard previsti dal Decreto Ministeriale 02.04.1968, il che si verifica nel caso di passaggio da una autonoma categoria urbanistica all’altra fra quelle previste dal citato D.M..
Quindi, occorre distinguere il caso di specie, di esercizio di un’ attività associativa all’interno di un capannone industriale-artiginale, nel quale si svolgono, privatamente e saltuariamente, preghiere religiose, attività espressione dello ius utendi del proprietario ed inidonea a comportare l’assegnazione dell'unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale, da altri e ben diversi casi di mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come destinazione principale o esclusiva l’esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni (cfr. Cons. St. n. 5778/2011).
Ciò non toglie che ove l’amministrazione comunale dovesse in futuro accertare, nel corso di eventuali sopralluoghi, l’accesso indiscriminato al predetto capannone o comunque il ripetersi, in più occasioni, di un significativo superamento degli effettivi frequentatori dell’immobile rispetto al numero degli iscritti all’associazione, si verificherebbero i presupposti del mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.
Alla luce di quanto finora esposto risulta irrilevante la mancata iscrizione dell’associazione “ASAR” nel registro delle associazioni di promozione sociale di cui alla L. 383/2000, non necessitando l’associazione di ottenere, in forza di tale iscrizione, deroghe alla normativa urbanistica; il che differenzia la presente fattispecie da quella decisa da questa sezione con sentenza n. 801/2012 e da quella presa in considerazione dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 181/2013, sentenze citate dalla difesa del Comune.
In conclusione, per le sopra esposte ragioni, il provvedimento impugnato risulta illegittimo, in quanto fondato sul presupposto di un abusivo mutamento di destinazione d’uso, in realtà, allo stato, non sussistente.
Il ricorso deve essere quindi accolto con l’annullamento dell’atto impugnato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 27.01.2015 n. 91 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2014

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza rispetto all'interpretazione dell'art. 10 L. n. 10/1977, ora art. 19 D.P.R. 380/2001, relativamente all'esonero dal contributo, è stata sempre restrittiva, ritenendo che la norma esoneri dalla corresponsione del contributo solo i fabbricati strettamente complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica.
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Con riferimento più specifico a fattispecie analoghe a quella qui in esame, la giurisprudenza ha peraltro chiarito che: “Si configura l'ipotesi di mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante, come tale soggetto al preventivo rilascio del titolo concessorio, ogni volta che, variando il soggetto che utilizza l'immobile e conseguentemente l'attività che in esso viene svolta, quest'ultima comporti un maggiore carico urbanistico derivante dal passaggio ad una diversa categoria funzionale” (nella fattispecie è stato ritenuto urbanisticamente rilevante l'utilizzo di un capannone industriale come magazzino per gestione di prodotti finiti, essendo quest'ultima un'attività da considerare non come produttiva ma di intermediazione commerciale e come tale legata quindi al ciclo della commercializzazione).

Il ricorso deve essere ritenuto infondato nella parte in cui si contesta la debenza delle somme richieste dal Comune in ragione del cambio di destinazione d’uso del fabbricato già costruito, dovendosi ritenere che l’amministrazione abbia qui operato una corretta e vincolata applicazione del disposto dell’art. 19 del D.P.R. 380/2001 e della Convenzione per l’attuazione del Piano per gli insediamenti produttivi, stipulata tra il Comune di Vescovana e la CO.SE.CON. il 16.11.2004.
Ed infatti il permesso di costruire del 01.01.2005 è stato rilasciato alla Prologis, dante causa delle odierne ricorrenti, sul presupposto della destinazione industriale del realizzando edificio “destinato a deposito di merci e materiali vari”; tant’è che tale rilascio è stato subordinato dall’amministrazione al pagamento della sola “quota del contributo per oneri di urbanizzazione relativa all’incidenza per opere necessarie al trattamento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi”.
Ciò in virtù dell’esonero dal pagamento del contributo per costo di costruzione previsto dall’art. 19, comma 1, D.P.R. 380/2001 a beneficio delle costruzioni destinate alle attività industriali, ed in conformità alla Convenzione del 16.11.2004, che aveva posto a carico della società lottizzante (CO.SE.CON.) il soddisfacimento degli oneri di urbanizzazione per gli interventi aventi destinazione industriale.
Appare altresì evidente che nel momento in cui, in conseguenza del mutamento della proprietà, l’attività di immagazzinaggio di merci svolta nel capannone in questione non è più legata ad una attività industriale, produttiva di beni, bensì ad una attività esclusivamente commerciale come quella indiscutibilmente svolta da D.M.O., allora si viene a configurare un mutamento di destinazione d’uso del fabbricato in questione rilevante a fini urbanistici.
Ed infatti, l’attività di commercio al minuto e all’ingrosso (di prodotti per la casa, profumi, bigiotteria, cartoleria, vestiario etc...) svolta da D.M.O. si estende e comprende anche la fase di deposito di tali prodotti all’interno del magazzino in questione, il quale costituisce una componente dell’organizzazione dell’impresa commerciale esercitata da D.M.O..
La giurisprudenza, peraltro, rispetto all'interpretazione dell'art. 10 L. n. 10/1977, ora art. 19 D.P.R. 380/2001, relativamente all'esonero dal contributo, è stata sempre restrittiva, ritenendo che la norma esoneri dalla corresponsione del contributo solo i fabbricati strettamente complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica (Consiglio Stato, Sez. V, 21.10.1998, n. 1512; cfr. TAR Lombardia Milano, Sez. II, 11.02.2002, n. 495).
Con riferimento più specifico a fattispecie analoghe a quella qui in esame, la giurisprudenza ha peraltro chiarito che: “Si configura l'ipotesi di mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante, come tale soggetto al preventivo rilascio del titolo concessorio, ogni volta che, variando il soggetto che utilizza l'immobile e conseguentemente l'attività che in esso viene svolta, quest'ultima comporti un maggiore carico urbanistico derivante dal passaggio ad una diversa categoria funzionale” (nella fattispecie è stato ritenuto urbanisticamente rilevante l'utilizzo di un capannone industriale come magazzino per gestione di prodotti finiti, essendo quest'ultima un'attività da considerare non come produttiva ma di intermediazione commerciale e come tale legata quindi al ciclo della commercializzazione) cfr. C.d.S. sez. V 27.12.2011 n. 6411.
Non si può dubitare, dunque, della rilevanza sotto il profilo del carico urbanistico del mutamento di destinazione d'uso da industriale a commerciale.
Sulla base di tali presupposti, il Comune non poteva che operare una vincolata applicazione dell’art. 19, comma 3, del D.P.R. 380/2001, a tenore del quale, qualora la destinazione d’uso delle opere per le quali si è goduto del pagamento di una minore contribuzione in relazione all’uso industriale-artigianale venga comunque modificata, con o senza attività edilizia, nel decennio successivo alla ultimazione dei lavori, il titolare sarà tenuto al pagamento del contributo di costruzione nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione impressa, con riferimento temporale al momento dell’intervenuta variazione.
E, d’altra parte, nel medesimo senso è da leggersi il punto “J” delle premesse della Convenzione di attuazione del piano per gli insediamenti produttivi, secondo cui: “con la cessione del Comune di Vescovana delle aree a standards primari e secondari, l’esecuzione delle relative opere ed attrezzature e con le modalità previste dalla Convenzione stipulata in data odierna, si adempie al soddisfacimento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria per gli interventi aventi destinazione industriale. Per quanto concerne le destinazioni d’uso commerciali e direzionali, la differenza dell’onerosità delle opere di urbanizzazione secondarie, a conguaglio, verrà versata dagli assegnatari al Comune al momento del rilascio del permesso a costruire. Il contributo per il costo di costruzione, se e dove previsto, e la quota relativa all’asporto rifiuti e l’impatto ambientale, sarà versata dai soggetti attuatari degli interventi edilizi al Comune al momento del rilascio dei permessi a costruire”.
Pertanto, anche sulla base degli accordi convenzionali il passaggio delle costruzioni industriali ad una destinazione commerciale avrebbe comportato il pagamento del conguaglio per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Pertanto, il primo motivo di ricorso deve essere ritenuto infondato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 18.12.2014 n. 1537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul cambio di destinazione d’uso senza opere da residenza a uffici.
(a) il caso in esame è regolato dal principio di liberalizzazione delle destinazioni d’uso stabilito dagli art. 51 e 52 della LR 12/2005. In mancanza di espressi divieti contenuti nello strumento urbanistico, il passaggio a un diverso tipo di utilizzazione deve ritenersi sempre ammissibile;
(b) questo non significa però che sia anche a costo zero. In realtà, la liberalizzazione delle destinazioni d’uso non assicura da sola la gratuità del passaggio da una destinazione all’altra. Per ottenere questo risultato sono necessarie tre condizioni:
   (1) il cambio deve essere effettivamente senza opere;
   (2) la nuova destinazione d’uso non deve alterare il fabbisogno di aree a standard;
   (3) il cambio deve distanziarsi temporalmente dai lavori che comportano il versamento del contributo di costruzione (nuova edificazione, ristrutturazione);
(c) nello specifico, la prima condizione (assenza di opere) non è posta in dubbio. Se il Comune avesse accertato nuove opere avrebbe potuto richiamare l’art. 44, comma 12, della LR 12/2005, che impone il conguaglio rispetto alla nuova destinazione d’uso, limitatamente alla parte di edificio interessata dai lavori;
(d) per quanto riguarda la seconda condizione (invarianza del fabbisogno di aree a standard), il provvedimento impugnato afferma che il cambio di destinazione d’uso comporterebbe un maggiore carico urbanistico. Questa formula si può interpretare nel senso che la presenza di uffici in luogo della precedente abitazione renderebbe necessario acquisire nuove aree a standard o inserire nuovi servizi di interesse pubblico in quelle esistenti. Si tratta però di un’affermazione imprecisa e generica;
(e) l’imprecisione consiste nel mettere in relazione il fabbisogno di standard urbanistici e gli oneri di urbanizzazione, che sono e devono invece rimanere concetti separati, trattandosi di costi che hanno titoli diversi e si sommano tra loro. Non è possibile chiedere il pagamento degli oneri di urbanizzazione affermando (o sottintendendo) che sono dovuti per adeguare gli standard urbanistici;
(f) la genericità dell’affermazione del Comune emerge dal fatto che i maggiori standard ipotizzati non sono descritti in dettaglio. Il provvedimento impugnato sembra ritenere ovvio che in un passaggio come quello in esame la nuova destinazione d’uso richieda maggiori aree a standard.
Un simile onere economico non può tuttavia essere imposto sulla base di semplici presunzioni. L’art. 51, comma 2, della LR 12/2005 affida al PGT il compito di individuare in quali casi i cambi destinazione d'uso, se attuati con opere edilizie, comportino una variazione del fabbisogno di aree a standard.
Per i cambi senza opere il successivo comma 3 precisa che l’adeguamento delle aree a standard è necessario esclusivamente quando la nuova destinazione d’uso preveda l’insediamento di esercizi commerciali non costituenti esercizi di vicinato. Anche volendo lasciare aperta la possibilità che, per particolari esigenze pubbliche, l’adeguamento sia necessario in ulteriori casi, si tratterebbe comunque di fattispecie da disciplinare puntualmente all’interno del PGT;
(g) per quanto riguarda infine la terza condizione (adeguato intervallo temporale), l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 fissa in dieci anni dall’ultimazione dei lavori il periodo entro il quale l’amministrazione può chiedere l’integrazione del contributo di costruzione con riferimento alla nuova destinazione d’uso. Nel caso in esame tale termine è ampiamente scaduto;
(h) si osserva in proposito che l’integrazione del contributo di costruzione è un diritto potestativo pubblico che attiene al rapporto intercorrente tra l’amministrazione e il proprietario dell’edificio. Tale rapporto è soggetto a riequilibrio qualora l’edificio, entro dieci anni dalla fine dei lavori (costruzione o ristrutturazione), acquisti stabilmente una destinazione d’uso che, se introdotta fin dall’inizio, avrebbe incrementato il costo del titolo edilizio.
L’adeguamento funziona peraltro in una sola direzione, perché se poi si ritorna a una destinazione meno onerosa l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 non contempla alcun obbligo di rimborso. Oltre i dieci anni dalla fine dei lavori il proprietario può invece effettuare il cambio senza subire conseguenze economiche. La norma tende infatti a disincentivare i comportamenti opportunistici, che non si possono più presumere dopo un così lungo intervallo temporale.

... per l'annullamento del provvedimento del dirigente della Divisione Gestione del Territorio prot. n. U0012300-Pg del 09.02.2007, con il quale è stato determinato il contributo per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria in relazione al cambio di destinazione d’uso da residenza a uffici in un edificio di via S. Francesco d’Assisi;
...
1. La ricorrente L.C.M. è comproprietaria nel Comune di Bergamo di una unità immobiliare di 207,31 mq collocata al terzo piano di un edificio (mappale n. 2732) situato in via S. Francesco d’Assisi.
2. In data 08.02.2007 la ricorrente ha comunicato al Comune il cambio di destinazione d’uso senza opere da residenza a uffici. Non è contestato che la prima destinazione sussistesse fin dal momento della realizzazione dell’edificio, che è risalente nel tempo (almeno cento anni, secondo la ricorrente).
3. Il dirigente della Divisione Gestione del Territorio con provvedimento del 09.02.2007 ha stabilito che, trattandosi di una variazione comportante un maggiore carico urbanistico, doveva essere versato il contributo di costruzione, e precisamente gli oneri di urbanizzazione primaria (€ 6.614,42) e quelli di urbanizzazione secondaria (€ 3.301,19). Gli importi corrispondono alla differenza tra gli oneri della nuova destinazione d’uso e quelli della destinazione originaria.
4. Contro il suddetto provvedimento la ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 14.04.2007 e depositato il 20.04.2007.
Le censure possono essere sintetizzate e ordinate come segue:
(i) violazione dell’art. 52, comma 3, della LR 11.03.2005 n. 12, che prevede il versamento del contributo di costruzione corrispondente alla nuova destinazione d’uso solo per le variazioni effettuate entro i dieci anni successivi all'ultimazione dei lavori;
(ii) manifesta irragionevolezza, in quanto il cambio di destinazione d’uso senza opere, da un lato, non altera il fabbisogno di aree a standard, e dall’altro, essendo subordinato a semplice comunicazione preventiva, non è collegato a un titolo edilizio che imponga il versamento del contributo di costruzione. Oltre all’annullamento del provvedimento impugnato è stato chiesto il risarcimento del danno.
5. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso, ed evidenziando che la ricorrente non ha mai versato l’importo richiesto.
6. Con memoria depositata il 26.09.2014 la ricorrente ha rinunciato alla domanda risarcitoria, confermando la mancata riscossione coattiva dell’importo richiesto.
7. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) il caso in esame è regolato dal principio di liberalizzazione delle destinazioni d’uso stabilito dagli art. 51 e 52 della LR 12/2005. In mancanza di espressi divieti contenuti nello strumento urbanistico, il passaggio a un diverso tipo di utilizzazione deve ritenersi sempre ammissibile;
(b) questo non significa però che sia anche a costo zero. In realtà, la liberalizzazione delle destinazioni d’uso non assicura da sola la gratuità del passaggio da una destinazione all’altra. Per ottenere questo risultato sono necessarie tre condizioni:
   (1) il cambio deve essere effettivamente senza opere;
   (2) la nuova destinazione d’uso non deve alterare il fabbisogno di aree a standard;
   (3) il cambio deve distanziarsi temporalmente dai lavori che comportano il versamento del contributo di costruzione (nuova edificazione, ristrutturazione);
(c) nello specifico, la prima condizione (assenza di opere) non è posta in dubbio. Se il Comune avesse accertato nuove opere avrebbe potuto richiamare l’art. 44, comma 12, della LR 12/2005, che impone il conguaglio rispetto alla nuova destinazione d’uso, limitatamente alla parte di edificio interessata dai lavori;
(d) per quanto riguarda la seconda condizione (invarianza del fabbisogno di aree a standard), il provvedimento impugnato afferma che il cambio di destinazione d’uso comporterebbe un maggiore carico urbanistico. Questa formula si può interpretare nel senso che la presenza di uffici in luogo della precedente abitazione renderebbe necessario acquisire nuove aree a standard o inserire nuovi servizi di interesse pubblico in quelle esistenti. Si tratta però di un’affermazione imprecisa e generica;
(e) l’imprecisione consiste nel mettere in relazione il fabbisogno di standard urbanistici e gli oneri di urbanizzazione, che sono e devono invece rimanere concetti separati, trattandosi di costi che hanno titoli diversi e si sommano tra loro. Non è possibile chiedere il pagamento degli oneri di urbanizzazione affermando (o sottintendendo) che sono dovuti per adeguare gli standard urbanistici;
(f) la genericità dell’affermazione del Comune emerge dal fatto che i maggiori standard ipotizzati non sono descritti in dettaglio. Il provvedimento impugnato sembra ritenere ovvio che in un passaggio come quello in esame la nuova destinazione d’uso richieda maggiori aree a standard.
Un simile onere economico non può tuttavia essere imposto sulla base di semplici presunzioni. L’art. 51, comma 2, della LR 12/2005 affida al PGT il compito di individuare in quali casi i cambi destinazione d'uso, se attuati con opere edilizie, comportino una variazione del fabbisogno di aree a standard.
Per i cambi senza opere il successivo comma 3 precisa che l’adeguamento delle aree a standard è necessario esclusivamente quando la nuova destinazione d’uso preveda l’insediamento di esercizi commerciali non costituenti esercizi di vicinato. Anche volendo lasciare aperta la possibilità che, per particolari esigenze pubbliche, l’adeguamento sia necessario in ulteriori casi, si tratterebbe comunque di fattispecie da disciplinare puntualmente all’interno del PGT;
(g) per quanto riguarda infine la terza condizione (adeguato intervallo temporale), l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 fissa in dieci anni dall’ultimazione dei lavori il periodo entro il quale l’amministrazione può chiedere l’integrazione del contributo di costruzione con riferimento alla nuova destinazione d’uso. Nel caso in esame tale termine è ampiamente scaduto;
(h) si osserva in proposito che l’integrazione del contributo di costruzione è un diritto potestativo pubblico che attiene al rapporto intercorrente tra l’amministrazione e il proprietario dell’edificio. Tale rapporto è soggetto a riequilibrio qualora l’edificio, entro dieci anni dalla fine dei lavori (costruzione o ristrutturazione), acquisti stabilmente una destinazione d’uso che, se introdotta fin dall’inizio, avrebbe incrementato il costo del titolo edilizio.
L’adeguamento funziona peraltro in una sola direzione, perché se poi si ritorna a una destinazione meno onerosa l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 non contempla alcun obbligo di rimborso. Oltre i dieci anni dalla fine dei lavori il proprietario può invece effettuare il cambio senza subire conseguenze economiche. La norma tende infatti a disincentivare i comportamenti opportunistici, che non si possono più presumere dopo un così lungo intervallo temporale.
8. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento del provvedimento impugnato. Occorre poi prendere atto della rinuncia alla domanda risarcitoria (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 10.12.2014 n. 1358 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATABed & breakfast senza permessi. Non è cambio di destinazione d’uso, niente stop per regolamento. Spazi privati. Anche gli asili nido possono essere allestiti nell’appartamento nel rispetto delle regole comuni.
Aguzzare l'ingegno e inventarsi un mestiere, soprattutto quando le offerte di lavoro sono ridotte al lumicino, può rivelarsi la scelta giusta. Se poi l'impiego in questione si svolge direttamente a casa e comporta investimenti contenuti, l'idea comincia a essere davvero appetibile. È il caso dei bed and breakfast e degli asili nido famiglia, due modi intelligenti per guadagnare utilizzando l'alloggio in cui si risiede, sia esso di proprietà o in affitto.
Il bed and breakfast è un'attività a carattere saltuario, svolta a conduzione familiare da privati che utilizzano parte della propria casa per offrire un servizio di alloggio e prima colazione. In condominio non è necessaria l'approvazione dell'assemblea, a meno che gli atti notarili di acquisto o il regolamento condominiale non vietino espressamente questo tipo di attività, differente dalla pensione o dall'affittacamere.
Con la sentenza 20.11.2014 n. 24707, confermando la decisione della Corte d'appello, la Corte di Cassazione -Sez. II civile- ha inoltre stabilito che l'attività di b&b è consentita anche in presenza di un regolamento condominiale che vieti, come nel caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato». Secondo il giudice di appello «l'utilizzo degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di destinazione d'uso ai fini urbanistici» e, cosa ancora più importante, proprio la definizione di “civile abitazione” citata nel regolamento, risulta essere un presupposto fondamentale per lo svolgimento dell'attività di b&b.
Il condòmino può anche realizzare tutte le opere che ritiene opportune, a patto che non provochino danni alle cose comuni o pregiudizi alle proprietà esclusive altrui.
Per prima cosa, occorre recarsi allo Sportello unico della attività produttive del Comune d'appartenenza e compilare la Scia, la segnalazione certificata di inizio attività. Non serve nessuna iscrizione alla sezione speciale del registro delle imprese, mentre devono essere rispettati alcuni requisiti, come quelli igienico-sanitari previsti dal regolamento edilizio e dal regolamento d'igiene comunale, oltre alla normativa vigente in materia di sicurezza e di somministrazione di cibi e bevande. In linea di massima, anche se ogni regione detta le proprie regole, è necessario che le stanze abbiano dimensioni adeguate e siano presenti due servizi igienici (se l'attività si svolge in più di una stanza). E ancora occorre garantire: l'accesso diretto alle camere da letto destinate agli ospiti; il cambio di biancheria almeno tre volte alla settimana (e all'arrivo do ogni nuovo ospite) e la pulizia quotidiana dei servizi.
Il responsabile dell'attività, oltre a registrare le presenze e comunicarle alle autorità di pubblica sicurezza, è tenuto a sottoscrivere una polizza assicurativa di responsabilità civile, per eventuali danni arrecati agli ospiti. Le tariffe, sono decise liberamente e vanno comunicate alla Provincia, che ogni anno redige un elenco dettagliato con le strutture ricettive operanti nel territorio di competenza.
Per quanto riguarda gli asili nido in famiglia, bisogna prestare un po' più di attenzione al regolamento condominiale. Qualora, ad esempio, non siano consentiti «assembramenti o passaggi più o meno consistenti di persone che possano determinare un disturbo per la collettività condominiale», anche se non esplicitamente indicato il servizio può essere vietato.
Appurata la possibilità di iniziare l'attività in condominio, occorre presentare il progetto a Comune e Asl, con la descrizione dettagliata della propria attività. Anche in questo caso ci sono dei requisiti da rispettare e, come per i b&b, ogni regione ha dettato le proprie norme. A cominciare dai locali in cui si svolge il servizio: c'è bisogno di uno spazio per l'accoglienza; un'area gioco protetta; una zona riposo con lettini separata dal resto della casa; un bagno con fasciatoio e una cucina dove preparare i pasti.
In Trentino, la regione italiana dove il nido famiglia è più diffuso, il responsabile dell'attività è obbligato a seguire un corso di formazione da 250 ore, con lezioni in aula e tirocinio pratico. Solitamente, si possono accudire fino a un massimo di sei bambini e i costi variano dai 3 ai 6 euro all'ora, senza nessuna quota d'iscrizione.
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In sintesi
01 IL REGOLAMENTO
Con la sentenza 24707 del 20.11.2014 la Cassazione ha inoltre stabilito che l’attività di b&b è consentita anche in presenza di un regolamento condominiale che vieti, come nel caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato»
02 NIENTE PARTITA IVA
L’attività di bed and breakfast non è considerata un vero e proprio lavoro e quindi non necessita di iscrizione alla Camera di Commercio e apertura di partita Iva
03 LA SOSPENSIONE
Il responsabile dell’attività è però obbligato a sospenderla per tre mesi l’anno, anche non consecutivi, e affittare un numero massimo di tre camere per sei posti letto.
04 L’ASILO NIDO
Un po’ più complesso è avviare un nido famiglia. In molti casi è obbligatorio un titolo di studio, in altri è sufficiente seguire un corso ad hoc
Non è sempre necessario costituire un’impresa o far parte di una cooperativa: se, ad esempio, ad avviare l’asilo è una famiglia, basterà una scrittura privata tra le famiglie associate. Attenzione al regolamento: se, esempio, non siano consentiti «assembramenti o passaggi più o meno consistenti di persone che possano determinare un disturbo per la collettività condominiale», anche se non esplicitamente indicato il servizio può essere vietato
 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.12.2014).
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MASSIMA
Non è illegittimo adibire l’abitazione privata condominiale ad attività commerciale di “affitta camere”, purché non si dimostri l’effettivo pregiudizio in danno ai vicini di casa.
Le disposizioni contenute nel regolamento condominiale che si risolvano nella compressione delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti, devono essere espressamente e chiaramente manifestate dal testo o, comunque, devono risultare da una volontà desumibile in modo non equivoco da esso.
L’interpretazione del giudice di merito del regolamento condominiale è insindacabile dalla Cassazione salvo vizi logici. E il giudice di appello, nel caso di specie, con ragionamento «coerente» e «logico» ha ritenuto che il regolamento non vietasse l’attività ricettiva «tenuto conto che la destinazione a civile abitazione costituisce il presupposto per la utilizzazione di una unità abitativa ai fini dell’attività di bed and breakfast».
Una affermazione coerente anche con il regolamento regionale del Lazio n. 16 del 2008, in cui si chiarisce che l’utilizzo degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di destinazione d’uso ai fini urbanistici
(link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di mutamento di destinazione d'uso, anche senza opere, da artigianale a commerciale, trattandosi di un cambiamento implicante il passaggio ad una categoria funzionale autonoma, avente diverso carico urbanistico va rilevato che ai sensi dell'art. 19, d.P.R. n. 380 del 2001, il sopravvenuto mutamento della destinazione d'uso, anche in assenza di interventi, comporta comunque l'insorgenza del presupposto imponibile per la debenza del contributo dovuto, compreso quello relativo al costo di costruzione.
Ciò a maggior ragione se, come nel caso in esame, il cambio di destinazione è avvenuto con opere. E’ noto come il contributo relativo al costo di costruzione sia il corrispettivo dovuto in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si riveli produttiva di vantaggi economici per il suo autore; situazione, questa, che si verifica anche nel caso di mutamento d'uso, intendendo per tale ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che determini comunque un aumento del c.d. carico urbanistico.
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In caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio è un principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, la cui "ratio", come chiarito dalla giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la modifica della destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del richiedente".
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Nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato dal ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia di intervento da una classe contributiva originaria e meno "pesante" (artigianale) ad un'altra tipologia (commerciale), non solo diversa ma anche più gravosa in termini di carico urbanistico.
Si è trattato, cioè, di un cambio di destinazione d'uso intervenuto tra categorie autonome, quella artigianale e quella commerciale, che ha comportato un aumento del carico urbanistico con conseguente mutamento degli "standard".
Presupposto, questo, sufficiente a giustificare la richiesta di contributo per oneri di urbanizzazione.
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I provvedimenti relativi alla determinazione degli oneri concessori e dell'oblazione non necessitano di motivazione in ordine alla somma indicata, in quanto risultano da un mero calcolo materiale da effettuarsi sulla base di puntuali indicazioni normative, senza che in proposito residui un margine di discrezionalità.
Non è pertanto configurabile, a carico dell'Amministrazione, un onere di specificare le ragioni della decisione adottata, sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente.

1.2 Con riguardo alla qualificazione delle modifiche oggetto dell’istanza come mero cambio di destinazione d’uso con opere, la tesi di parte ricorrente non può essere condivisa. Difatti, nel caso di mutamento di destinazione d'uso, anche senza opere, da artigianale a commerciale, trattandosi di un cambiamento implicante il passaggio ad una categoria funzionale autonoma, avente diverso carico urbanistico va rilevato che ai sensi dell'art. 19, d.P.R. n. 380 del 2001, il sopravvenuto mutamento della destinazione d'uso, anche in assenza di interventi, comporta comunque l'insorgenza del presupposto imponibile per la debenza del contributo dovuto, compreso quello relativo al costo di costruzione (Tar Veneto 26.11.2012 1445).
Ciò a maggior ragione se, come nel caso in esame, il cambio di destinazione è avvenuto con opere. E’ noto come il contributo relativo al costo di costruzione sia il corrispettivo dovuto in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si riveli produttiva di vantaggi economici per il suo autore; situazione, questa, che si verifica anche nel caso di mutamento d'uso, intendendo per tale ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che determini comunque un aumento del c.d. carico urbanistico (CdS Sez. IV 14.10.2011 n. 5539).
1.3 Riguardo l’affermazione di parte ricorrente per cui gli oneri avrebbero dovuto essere rapportati al cambio di destinazione d’uso e non alla nuova costruzione, il Collegio osserva come, in caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio sia un principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, la cui "ratio", come chiarito dalla giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la modifica della destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del richiedente" (CdS sez. V, 07.12.2010, n. 8620, 30.08.2013 n. 426).
Né la delibera di Consiglio Comunale n. 177 del 28.05.1979, citata dal ricorrente e allegata al ricorso, può essere interpretata nel senso di superare tale fondamentale principio, nella parte in cui prescrive l’abbattimento del costo di costruzione del 50% in caso di ristrutturazione con cambio di destinazione d’uso e senza modifica di strutture portanti.
Ancora, non possono essere applicati gli oneri di urbanizzazione previsti nella delibera di Giunta Comunale n. 2449 del 29.11.1994 per il caso di ristrutturazione edilizia con cambio di destinazione. Difatti, la presenza di un cambio di destinazione d’uso da artigianale a commerciale, con il corredato aumento di carico urbanistico che caratterizza quest’ultima destinazione, indubbiamente lascia la possibilità all’Amministrazione di valutare se, ai fini della determinazione degli oneri, risulti prevalente il cambio di destinazione o il tipo di intervento (si veda in materia il condivisibile ragionamento in Tar Piemonte 27.03.2013 n. 381).
Come nota il Comune, in caso contrario si creerebbe un cortocircuito logico che renderebbe i cambi di destinazione senza opere, in presenza di aumento di carico urbanistico, più costosi di quelli con opere, qualora quest’ultimi fossero riconducibili allo sconto previsto per le ristrutturazioni dalla citata delibera 177/1979. Correttamente, il Comune ha quindi qualificato il cambio di destinazione da artigianale a commerciale come “nuova costruzione”, anche tenuto che la precedente costruzione, con destinazione artigianale non era tenuta al pagamento del costo di costruzione, con conseguente pagamento degli oneri “per differenza” ai sensi dell’art. 2 lett. f) del Regolamento Comunale.
1.4 Nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato dal ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia di intervento da una classe contributiva originaria e meno "pesante" (artigianale) ad un'altra tipologia (commerciale), non solo diversa ma anche più gravosa in termini di carico urbanistico. Si è trattato, cioè, di un cambio di destinazione d'uso intervenuto tra categorie autonome, quella artigianale e quella commerciale, che ha comportato un aumento del carico urbanistico con conseguente mutamento degli "standard". Presupposto, questo, sufficiente a giustificare la richiesta di contributo per oneri di urbanizzazione.
2 Ancora, con riguardo all’affermato calcolo errato dell’oblazione per avere computato metri cubi in eccesso, va specificato che i provvedimenti relativi alla determinazione degli oneri concessori e dell'oblazione non necessitano di motivazione in ordine alla somma indicata, in quanto risultano da un mero calcolo materiale da effettuarsi sulla base di puntuali indicazioni normative, senza che in proposito residui un margine di discrezionalità. Non è pertanto configurabile, a carico dell'Amministrazione, un onere di specificare le ragioni della decisione adottata, sicché l'interessato può solo contestare l'erroneità dei conteggi effettuati dall'ente (da ultimo Tar Lazio Roma 18.02.2014 n. 2015).
Nel caso in esame, i calcoli effettuati dal Comune sono contestati con calcoli di parte (depositati unitamente al ricorso) che risultano generici, dato che il Comune medesimo ha depositato la documentazione fornita dal ricorrente per la sanatoria, ove i vani dei quali il ricorrente chiede lo scorporo in quanto ingressi comuni ad altre parti di edificio non sono stati indicati e scorporati (tavole 7 e 9). Il calcolo è stato quindi correttamente effettuato sulla base della documentazione presentata dal ricorrente medesimo, in allegato all’istanza di sanatoria (TAR Marche, sentenza 06.10.2014 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione d'uso senza realizzazione di opere.
La ragione per la quale il cambio di destinazione d'uso senza realizzazione di opere non costituisce un'attività del tutto priva di vincoli risiede nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate le regole generali finalizzate ad assicurare il corretto e ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati della strumentazione urbanistica, potendo risultare pregiudicato anche l'interesse patrimoniale dell'ente, perché gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere il rilascio dei titoli edilizi contro il pagamento di un minore contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la destinazione originaria senza corrispondere i maggiori oneri che derivano dal maggiore carico urbanistico (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2014 n. 39897 - tratto da www.lexambiente.it).
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SENTENZA
3.2. - Venendo ora all'esame del primo motivo di ricorso -relativo al fatto se l'uso foresteria costituisse un mutamento d'uso da alberghiero ad abitativo e se tale mutamento d'uso fosse compatibile con le previsioni degli strumenti urbanistici regionali e comunali- deve rilevarsi che lo stesso non è fondato. Quanto alla compatibilità del mutamento d'uso con la previsione degli strumenti urbanistici comunali, deve farsi richiamo a quanto appena sopra rilevato.
Quanto al sistema normativo regionale, deve sottilinearsi che lo stesso non contiene previsioni che si discostino dai principi applicabili a livello nazionale, secondo cui
il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a d.i.a. (ora s.c.i.a.) purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (sez. 3, 13 dicembre 2013, n. 5712/2014, rv. 258686).
Nella Regione Marche, la materia del mutamento della destinazione d'uso nell'ambito di diverse categorie urbanistiche -che implichi, in altri termini, una variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444- è disciplinata dagli artt. 5 e 6 della legge regionale n. 14 del 1986 in senso conforme a quanto previsto in materia dall'art. 32, comma 1, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001. Il richiamato art. 6 della legge reg. n. 14 del 1986 prevede, in particolare, che la variazione di destinazione d'uso può essere consentita dai comuni attraverso la predisposizione degli strumenti urbanistici in ambiti determinati dalle singole zone previste dall'art. 2 del richiamato d.m. 02.04.1968, n. 1444.
E l'ulteriore disciplina regionale si concentra sul profilo -diverso da quello in esame- del mutamento di destinazione d'uso attraverso la realizzazione di opere edilizie, che è comunque regolamentato in modo analogo (v., in particolare, l'art. 2, comma 4, della legge reg. n. 22 del 2009, più volte modificato, il quale, in tutte le sue diverse formulazioni, richiama anche per tale fattispecie, la compatibilità con la destinazione di uso prevista dagli strumenti urbanistici e il rispetto degli standard urbanistici di cui al richiamato decreto ministeriale).
Quanto all'evoluzione della disciplina statale riguardante la materia del cambio di destinazione d'uso di immobili o di parti di immobili, è sufficiente fare richiamo alla analitica disamina contenuta nella richiamata sentenza n. 5712 del 2014 (oltre che in sez. 3, 20.01.2009, n. 9894, rv. 243102).
Quanto ai principi attualmente applicabili, va comunque ribadito che
la ragione per la quale il cambio di destinazione d'uso senza realizzazione di opere non costituisce un'attività del tutto priva di vincoli risiede nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate le regole generali finalizzate ad assicurare il corretto e ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati della strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato, 25.05.2012, n. 759), potendo risultare pregiudicato anche l'interesse patrimoniale dell'ente, perché gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere il rilascio dei titoli edilizi contro il pagamento di un minore contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la destinazione originaria senza corrispondere i maggiori oneri che derivano dal maggiore carico urbanistico.
Infatti,
la destinazione d'uso individua il bene sotto l'aspetto funzionale, in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dagli strumenti urbanistici in base a standard diversi sotto il profilo qualitativo e quantitativo proprio seconda della diversità delle destinazioni di zona.
L'unico caso in cui il mutamento della destinazione d'uso senza opere può essere liberamente consentito è, dunque, quello in cui vi sia una totale omogeneità tra la categoria urbanistica di partenza e quella conseguente al mutamento stesso, in modo che non vi sia alcun aggravamento del carico urbanistico esistente.
Ed è evidente che
la modificazione della destinazione d'uso da alberghiera a foresteria non interviene affatto fra due categorie urbanistiche omogenee, perché la locazione ad uso foresteria rientra in tutto e per tutto nella destinazione abitativa, pur rispondendo ad esigenze di destinazione dell'immobile al temporaneo alloggio di soggetti diversi dal conduttore.
Infatti,
la distinzione fra locazione abitativa e locazione ad uso foresteria fatta propria dalla disciplina civilistica risponde ad esigenze di tipo sociale legate al "diritto alla casa" e non assume alcuna rilevanza ai fini penali, perché si tratta comunque in entrambi i casi di locazioni finalizzate a soddisfare esigenze abitative che si differenziano solo sul piano soggettivo, con identico carico urbanistico: da un lato, le esigenze dello stesso conduttore; dall'altro, le esigenze di ospiti o dipendenti del conduttore.

EDILIZIA PRIVATA: Trasformazione con opere di sottotetto in residenza abitabile.
La trasformazione, con opere, del sottotetto in residenza abitabile, comporta certamente la modifica delle relative superfici che si trasformano da superfici non residenziali in superfici residenziali, qualificando così il regime edilizio della relativa modifica di destinazione d'uso come ristrutturazione edilizia soggetta a permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.09.2014 n. 37841 - tratto da www.lexambiente.it).
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SENTENZA
3.1.
Si contesta all'imputato di aver modificato la destinazione d'uso del sottotetto della propria abitazione rendendolo, con opere, abitabile.
3.2. Si legge, nell'impugnata sentenza, che
tale modifica era stata ottenuta mediante tramezzature, la posa in opera di pavimenti, rivestimenti, impianti tecnologici, installazione di servizi igienici.
3.3. Il ricorrente non contesta la circostanza, ma ritiene il fatto penalmente irrilevante, trattandosi di modifica di destinazione d'uso che la legge regionale Campania 19/2011 non annovera tra gli interventi soggetti a permesso di costruire.
3.4. Il rilievo è infondato.
3.5. In base all'art. 10, comma 2, d.P.R. 380/2001 «Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività».
3.6. L'art. 2 (Interventi edilizi subordinati a denuncia di inizio attività), legge regionale Campania, 28.11.2011, n. 19, disciplina nei seguenti termini il regime urbanistico delle modifiche di destinazione d'uso: «1. Possono essere realizzati in base a semplice denuncia di inizio attività: (...) f) i mutamenti di destinazione d'uso di immobili o loro parti, che non comportino interventi di trasformazione dell'aspetto esteriore, e di volumi e di superfici; la nuova destinazione d'uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee.
2. Per i beni sottoposti ai vincoli di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, la realizzazione degli interventi previsti dal comma 1) è subordinata al rilascio dell'autorizzazione da parte delle Amministrazioni preposte alla tutela dei vincoli stessi, se prescritta. (...)
5. Il mutamento di destinazione d'uso senza opere, nell'àmbito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee, è libero.
6. Il mutamento di destinazione d'uso, con opere che incidano sulla sagoma dell'edificio o che determinano un aumento piano volumetrico, che risulti compatibile, con le categorie edilizie previste per le singole zone omogenee è soggetto a permesso di costruire.
7. Il mutamento di destinazione d'uso, con opere che incidano sulla sagoma, sui volumi e sulle superfici, con passaggio di categoria edilizia, purché tale passaggio sia consentito dalla norma regionale, è soggetto a permesso di costruire. 8. Il mutamento di destinazione d'uso nelle zone agricole -zona E- è sempre soggetto a permesso di costruire
».
3.7.
Non rileva se la modifica della destinazione d'uso avvenga o meno con opere; è sufficiente, in quest'ultimo caso, che vi siano modifiche delle superfici perché l'intervento sia soggetto a permesso di costruire.
3.8. Per verificare quale sia il regime edilizio delle «superfici» è necessario, quando non vi provvedano gli atti o le leggi regionali, far riferimento ai decreti ministeriali che, nel tempo, in attuazione delle norme di cui agli artt. 6, legge 28.01.1977, n. 10, (oggi art. 16, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), hanno definito i criteri in base ai quali stabilire le caratteristiche degli alloggi e calcolare gli oneri concessori dovuti a titolo di «costo di costruzione».
3.9. Orbene, le soffitte e, in genere, i locali sottotetto non destinati a uso residenziale non costituiscono «superficie utile» e sono disciplinati diversamente.
3.10. Il panorama normativo di riferimento è chiaro nel distinguere la «superficie utile» dalla «superficie non residenziale».
3.11. Già in base al DM 02.08.1969 Min. Lav. Pub. "Caratteristiche delle abitazioni di lusso", «Le case composte di uno o più piani costituenti unico alloggio padronale avente superficie utile complessiva superiore a mq. 200 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine) ed aventi come pertinenza un'area scoperta della superficie di oltre sei volte l'area coperta» (art. 5); ai sensi del successivo art. 6, «le singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a mq. 240 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine)».
3.12. Il D.M. 26.04.1991 Min. Lav. Pub. "Aggiornamento dei limiti massimi di costo per gli interventi di edilizia sovvenzionata residenziale pubblica, ai sensi della legge 05.08.1978, n. 457, determinati dal Comitato esecutivo per l'edilizia residenziale" distingue la «superficie utile abitabile (Su)», nella quale è compresa la superficie del pavimento degli alloggi misurata al netto dei muri perimentali e di quelli interni, delle soglie di passaggio da un vano all'altro, degli sguinci di porte e finestre (art. 1, lett. d), dalla «superficie non residenziale (Snr)», nella quale è compresa la superficie risultante dalla somma delle superfici di pertinenza dell'alloggio quali logge, balconi, cantinole e soffitte e di quelle di pertinenza dell'organismo abitativo quali androne d'ingresso, porticati liberi, volumi tecnici, centrali termiche ed altri locali a servizio della residenza, misurate al netto dei muri perimentali e di quelli interni (così anche il DM 05/08/1994, art. 6, recepito dalla Regione Campania nel Decreto Dirigenziale reg. 26.09.2012, n. 265, Limiti di costo per interventi di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, pubblicato nel B.U. Campania 08/10/2012, n. 65, richiamato dall'art. 8, Decreto Dirigenziale reg. 14.01.2009, n. 7, Aggiornamento limiti di costo per interventi di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, pubblicato nel B.U. 16.03.2009, n. 18).
3.13. L'art. 2, D.M. 10/05/1977 Min. Lav. Pubb. "Determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici", così definisce la «Superficie complessiva (Sc)»: «La superficie complessiva, alla quale, ai fini della determinazione del costo di costruzione dell'edificio, si applica il costo unitario a metro quadrato, è costituita dalla somma della superficie utile abitabile di cui al successivo art. 3 e dal 60 per cento del totale delle superfici non residenziali destinate a servizi e accessori (Snr), misurate al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre (Sc = Su + 60 per cento Snr). Le superfici per servizi ed accessori riguardano: a) cantinole, soffitte, locali motore ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni, centrali termiche, ed altri locali a stretto servizio delle residenze; b) autorimesse singole o collettive; c) androni di ingresso o porticati liberi; d) logge e balconi. I porticati di cui al punto c) sono esclusi dal computo della superficie complessiva qualora gli strumenti urbanistici ne prescrivano l'uso pubblico».
L'art. 3 così definisce la «Superficie utile abitabile (Su): Per superficie utile abitabile si intende la superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e di balconi» 3.14. E' evidente, pertanto, che
la trasformazione, con opere, del sottotetto in residenza abitabile, comporta certamente la modifica delle relative superfici che si trasformano da superfici non residenziali in superfici residenziali, qualificando così il regime edilizio della relativa modifica di destinazione d'uso come ristrutturazione edilizia soggetta a permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001, cit..
3.15. Ne consegue che sussistono i reati di cui ai capi A e B della rubrica.

EDILIZIA PRIVATA: Modifica della destinazione d'uso originaria.
L'esecuzione di opere interne che trasformino l'originaria destinazione di un locale (nella specie un locale cantina destinato a mini-appartamento) integra la fattispecie penale laddove priva di permesso per costruire.
Solo laddove la modificazione della destinazione d'uso non sia costituita da opere (anche interne) può ritenersi sufficiente la semplice D.I.A. (oggi S.C.I.A.)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.09.2014 n. 36730 - tratto da e link a www.lexambiente.it).
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SENTENZA
4. Per quanto, poi, riguarda l'aspetto legato alle modifiche di destinazione d'uso, è assolutamente concorde la giurisprudenza di questa Corte Suprema nell'affermare che l'esecuzione di opere interne che trasformino l'originaria destinazione di un locale (nella specie un locale cantina destinato a mini-appartamento) integra la fattispecie penale laddove priva di permesso per costruire (Sez. F. 30.08.2012 n. 43885, Moscatelli, Rv. 253585; v. anche Sez. 3^ 11.12.2008 n. 28277. Zaccari, 242165;idem 20.01.2009, n. 98, Tralallo, 243101). Solo laddove la modificazione della destinazione d'uso non sia costituita da opere (anche interne) può ritenersi sufficiente la semplice D.I.A. (oggi S.C.I.A.) (Sez. 3^ 13.12.2013 n. 5712, Tortora, Rv. 258686). A tali criteri di ispirato il Tribunale che ha correttamente valutato le risultanze delle indagini e conferito al fatto una qualificazione giuridica assolutamente corretta.

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 19, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone, in modo affatto chiaro, che "Qualora la destinazione d'uso delle opere indicate nei commi precedenti...venga comunque modificata nei dieci anni successivi all'ultimazione dei lavori, il contributo di costruzione è dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata con riferimento al momento dell'intervenuta variazione".
La disposizione si riferisce in modo omnicomprensivo al contributo di costruzione, come definito dal precedente art. 16, senza distinzione tra le sue componenti, e quindi tanto alla quota parte riferibile agli oneri di urbanizzazione, quanto a quella relativa al costo di costruzione, e trova giustificazione nel diverso regime, più favorevole per gli immobili a destinazione industriale o artigianale (per i quali ai sensi del precedente comma 1 è dovuto contributo limitato ai soli oneri urbanizzativi) e più gravoso per gli immobili a destinazione turistica, commerciale, direzionale e a servizi (per cui invece ai sensi del comma secondo, oltre agli oneri urbanizzativi è dovuto un contributo commisurato anche al costo di costruzione, sebbene nella più ridotta misura ivi specificata, pari al 10% del costo di costruzione documentato).
Ne consegue che, come chiarito da questa Sezione, la quota parte relativa al costo di costruzione è comunque dovuta "...anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons. Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160; vedi anche 14.10.2011, n. 5539, quest'ultima peraltro nel senso che anche la sola variazione di destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria, da commercio all'ingrosso a commercio al dettaglio, giustifica il pagamento del contributo, anche per la quota afferente al costo di costruzione).
D'altro canto, è indiscutibile che il mutamento di destinazione d'uso, ancorché senza opere edilizie, da una tipologia utilizzativa artigianale ad altra commerciale implica un mutamento del carico urbanistico, connesso ai ben diversi flussi di traffico e clientela, nonché della redditività, e quindi dei vantaggi economici connessi alla destinazione e all'attività.
In relazione all'incontestato mutamento della destinazione d'uso comportante passaggio da una ad altra tipologia e/o categoria edilizia, d'altra parte, il Comune non era tenuto a supportare la propria richiesta con alcuna motivazione specifica, essendo sufficiente il richiamo al presupposto giuridico-fattuale, ciò che implica il superamento anche dei rilievi introdotti con la memoria di replica a prescindere dalla loro ritualità, contestata dal difensore dell'Amministrazione in sede di discussione.

Binario S.p.A., con sede in Padova, in forza di contratto di locazione finanziaria con Italease Network S.p.A., ha acquisito un capannone, ubicato in Padova, al corso Stati Uniti (distinto in catasto a foglio n. 9 particella n. 461), realizzato in base al permesso di costruire n. 348 del 28.09.2005, e successive varianti, con specifica destinazione artigianale, comunicando quindi il mutamento di destinazione d'uso da artigianale a commerciale (parte all'ingrosso e parte al dettaglio).
Con note del 174808 del 25.07.2012 e n. 192751 del 20.08.2012 (quest'ultima rettificativa delle somme richieste) il Comune di Padova, rilevato che anche in assenza di opere edilizie il mutamento di destinazione d'uso implicava trasformazione della categoria edilizia e aumento del carico urbanistico, ha richiesto il pagamento, a titolo di differenza sul contributo di costruzione dovuto, della complessiva somma di € 372.239,81 (di cui € 304.843,56 per costo di costruzione e € 67,396,26 per oneri urbanizzativi).
Con il ricorso in primo grado la società ha proposto cumulative domande di annullamento e accertamento, sostenendo che il costo di costruzione non sia dovuto in assenza di opere edilizie.
...
Nel merito l'appello è destituito di fondamento giuridico e deve essere rigettato.
L'art. 19, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone, in modo affatto chiaro, che "Qualora la destinazione d'uso delle opere indicate nei commi precedenti...venga comunque modificata nei dieci anni successivi all'ultimazione dei lavori, il contributo di costruzione è dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata con riferimento al momento dell'intervenuta variazione".
La disposizione si riferisce in modo omnicomprensivo al contributo di costruzione, come definito dal precedente art. 16, senza distinzione tra le sue componenti, e quindi tanto alla quota parte riferibile agli oneri di urbanizzazione, quanto a quella relativa al costo di costruzione, e trova giustificazione nel diverso regime, più favorevole per gli immobili a destinazione industriale o artigianale (per i quali ai sensi del precedente comma 1 è dovuto contributo limitato ai soli oneri urbanizzativi) e più gravoso per gli immobili a destinazione turistica, commerciale, direzionale e a servizi (per cui invece ai sensi del comma secondo, oltre agli oneri urbanizzativi è dovuto un contributo commisurato anche al costo di costruzione, sebbene nella più ridotta misura ivi specificata, pari al 10% del costo di costruzione documentato).
Ne consegue che, come chiarito da questa Sezione, la quota parte relativa al costo di costruzione è comunque dovuta "...anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons. Stato, Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160; vedi anche 14.10.2011, n. 5539, quest'ultima peraltro nel senso che anche la sola variazione di destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria, da commercio all'ingrosso a commercio al dettaglio, giustifica il pagamento del contributo, anche per la quota afferente al costo di costruzione).
D'altro canto, è indiscutibile che il mutamento di destinazione d'uso, ancorché senza opere edilizie, da una tipologia utilizzativa artigianale ad altra commerciale implica un mutamento del carico urbanistico, connesso ai ben diversi flussi di traffico e clientela, nonché della redditività, e quindi dei vantaggi economici connessi alla destinazione e all'attività.
In relazione all'incontestato mutamento della destinazione d'uso comportante passaggio da una ad altra tipologia e/o categoria edilizia, d'altra parte, il Comune non era tenuto a supportare la propria richiesta con alcuna motivazione specifica, essendo sufficiente il richiamo al presupposto giuridico-fattuale, ciò che implica il superamento anche dei rilievi introdotti con la memoria di replica a prescindere dalla loro ritualità, contestata dal difensore dell'Amministrazione in sede di discussione.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi o eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.09.2014 n. 4483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogenee.
Il carattere abusivo dell'opera e la necessità del permesso di costruire sono elementi sufficienti, ai sensi dell’applicata disposizione normativa di cui all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, a rendere legittima l'adozione dell'impugnata ordinanza di demolizione.
Infine, <<il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai fini della legittimità dell'ordine demolitorio>>.

In relazione al secondo, si deve osservare che le suindicate caratteristiche dei manufatti realizzati ne imponevano l’assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Oltre alla già citata giurisprudenza del giudice amministrativo, si veda, altresì, Cassazione penale, Sez. III, 8/03/2007, n. 17359, secondo cui <<la destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogenee>>).
Non sussistono quindi i lamentati vizi, in quanto il carattere abusivo dell'opera e la necessità del permesso di costruire sono elementi sufficienti, ai sensi dell’applicata disposizione normativa di cui all’art. 31 D.P.R. n. 380/2001, a rendere legittima l'adozione dell'impugnata ordinanza di demolizione.
In ordine alla richiesta di applicazione della sanzione pecuniaria, si deve poi in contrario osservare che <<il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che un eventuale pregiudizio può avere rilievo solo in sede di esecuzione e non rileva ai fini della legittimità dell'ordine demolitorio>> (cfr. C.d.S., sez. V, 05.09.2011, n. 4982; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 05.08.2013, n. 4056)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.08.2014 n. 4476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa divisione ed il frazionamento di un immobile in due unità, autonomamente utilizzabili e con distinti ingressi e servizi, costituisce ristrutturazione edilizia che, comportando mutamento di destinazione d'uso e comunque un evidente maggiore carico urbanistico, giustifica il pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Ad analoghe conclusioni è altresì giunta la giurisprudenza penale (a conferma della qualificazione in termini di principio della materia edilizio–urbanistica) laddove, proprio in relazione a lavori finalizzati a suddividere un preesistente fabbricato in due unità immobiliari, mediante opere di diversa distribuzione interna e modifiche di porte e finestre esterne, si è ritenuto integrato il reato di costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001 n. 380) l'esecuzione di interventi di ristrutturazione edilizia incidenti sul carico urbanistico realizzati mediante d.i.a. semplice, in quanto attività edilizia eseguibile esclusivamente in base alla d.i.a. alternativa al permesso di costruire.
In generale, per una corretta qualificazione dell’intervento edilizio occorre guardare non solo alla mera opera materiale bensì al complessivo risultato ottenuto mediante la stessa, per cui anche semplici interventi edilizi interni che danno vita ad un'unica vasta unità immobiliare ovvero a due nuove unità in luogo dell’unica precedente provocano una diversa utilizzazione dell'area interessata ed una sensibile variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.

Sul secondo versante, la correttezza della qualificazione posta a base della determinazione comunale trova il proprio dirimente sostegno nella palese sussistenza di un aumento del c.d. carico urbanistico, a fronte della consistenza dell’intervento progettato.
In proposito, costituisce opinione prevalente, condivisa dal Collegio ed integrante un’indicazione di principio tale da fungere da ausilio ermeneutico anche per le discipline regionali e locali, la considerazione in base alla quale la divisione ed il frazionamento di un immobile in due unità, autonomamente utilizzabili e con distinti ingressi e servizi, costituisce ristrutturazione edilizia che, comportando mutamento di destinazione d'uso e comunque un evidente maggiore carico urbanistico, giustifica il pagamento degli oneri di urbanizzazione (CdS 2838/2012).
Ad analoghe conclusioni è altresì giunta la giurisprudenza penale (a conferma della qualificazione in termini di principio della materia edilizio–urbanistica) laddove, proprio in relazione a lavori finalizzati a suddividere un preesistente fabbricato in due unità immobiliari, mediante opere di diversa distribuzione interna e modifiche di porte e finestre esterne, si è ritenuto integrato il reato di costruzione edilizia abusiva (art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001 n. 380) l'esecuzione di interventi di ristrutturazione edilizia incidenti sul carico urbanistico realizzati mediante d.i.a. semplice, in quanto attività edilizia eseguibile esclusivamente in base alla d.i.a. alternativa al permesso di costruire (cfr. ad es. Cass. Pen. 20350/2010).
In generale, per una corretta qualificazione dell’intervento edilizio occorre guardare non solo alla mera opera materiale bensì al complessivo risultato ottenuto mediante la stessa, per cui anche semplici interventi edilizi interni che danno vita ad un'unica vasta unità immobiliare ovvero a due nuove unità in luogo dell’unica precedente provocano una diversa utilizzazione dell'area interessata ed una sensibile variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.
Nel caso de quo, la suddivisione dell’unità immobiliare in due immobili distinti appare pacifica, con la conseguenza che il relativo impatto urbanistico ne impone una qualificazione che, a norma della pianificazione comunale vigente, comporta la necessaria presentazione di uno strumento urbanistico attuativo, senza poter quindi seguire la strada tentata da parte ricorrente della c.d. d.i.a. semplice (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 21.07.2014 n. 1155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Titolo abilitativo necessario per il mutamento di destinazione d'uso.
Il mutamento di destinazione d'uso è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché però intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica; mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2014 n. 31465 - tratto da www.lexambiente.it).
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SENTENZA
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Risulta pacificamente (non venendo contestato neppure dalla difesa) che
gli imputati avevano realizzato in zona agricola un immobile a due elevazioni fuori terra, su una superficie coperta di mq. 150 circa, destinandolo a civile abitazione, mentre il titolo abilitativo prevedeva la costruzione di un fabbricato per ricovero di macchine agricole.
Hanno quindi accertato i Giudici di merito che
la costruzione realizzata aveva una destinazione completamente diversa da quella assentita (da uso agricolo ad uso abitativo) -cfr. anche pag. 2 sent. Trib.; e, sulla base di tale accertamento, hanno, correttamente, ritenuto che, pur non essendo stato effettuato alcun ampliamento di volume né opere edilizie aggiuntive, fosse necessario permesso di costruire, essendo il mutamento di destinazione avvenuto tra categorie non omogenee.
La giurisprudenza di questa Corte ha, invero, costantemente ritenuto che il mutamento della destinazione d'uso che comportasse una traslazione non precaria dell'immobile da una ad un'altra categoria urbanistica (uso residenziale, uso agricolo, uso industriale, uso commerciale) richiedesse, ai sensi del combinato disposto degli artt. 8, 25 e 26 L. 28.02.1985 n. 47, il rilascio di concessione edilizia, stante l'incidenza sui carichi urbanistici (Cass. sez. 3 n. 45119 del 22.11.2001).
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, da individuarsi tenendo conto della destinazione indicata nell'ultimo titolo abilitativo relativo all'immobile ovvero della sua tipologia, nonché delle attitudini funzionali che il bene stesso viene ad acquisire. Sicché il mutamento di destinazione d'uso è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché però intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica; mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Cfr. Cass. pen. Sez. 3 n. 5712 del 13.12.2013; conf. Cass. pen. n. 4943 del 2012 Rv. 251984; Cass. n. 9894 del 2009 Rv. 243102).
2.1. Improprio ed inconferente è il richiamo della sentenza della Corte Costituzionale n. 73 del 1991 che aveva, piuttosto, ritenuto che, dalla normativa statale in materia edilizia (artt. 8, 25 e 26 L. 47/1985) emergesse che la modifica funzionale della destinazione d'uso degli immobili, non connessa all'esecuzione di interventi edilizi, fosse assoggettata al regime dell'autorizzazione, ma solo subordinatamente ad un preventivo apprezzamento di insieme del territorio diretto a valutare se dalle mutate utilizzazioni potessero effettivamente derivare situazioni di incompatibilità con il tessuto urbanistico, apprezzamento possibile in sede di pianificazione comunale. Tanto che dichiarava la illegittimità costituzionale dell'art. 76, primo comma, punto 2 L.Reg. Veneto 27.06.1985 n. 61, come modificato dall'art. 15, legge reg. Veneto 11.03.1986 n. 9, per contrasto con l'art. 117 Cost., in quanto, in difformità del principio della legislazione statale, assoggettava i suddetti mutamenti di destinazione d'uso, direttamente ed indiscriminatamente, ad autorizzazione.

EDILIZIA PRIVATA: Finalità della destinazione d'uso.
La destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti urbanistici aveva, come nella specie, soltanto una funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogene.
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2014 n. 20773 - tratto da www.lexambiente.it).
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SENTENZA
4. Quanto alla doglianza circa la realizzazione di lavori che non avrebbero comportato difformità plano-volumetriche rispetto a quelli assentiti, i ricorrenti reclamano l'applicabilità della fattispecie di cui all'art. 10, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 in relazione all'art. 2, comma 1, lett. f), della legge regione Campania 28.11.2001, n. 19 giungendo a sostenere come, nel caso di specie, non fosse necessario né il permesso di costruire e né l'equipollente dichiarazione di inizio di attività disciplinata dall'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001.
La Corte territoriale ha correttamente osservato che le opere edilizie le quali, come nella specie, comportano una modifica della destinazione d'uso richiedono il preventivo rilascio del permesso di costruire; lo stesso art. 2 legge regionale Campania n. 19 del 2001 prevede che i mutamenti di destinazione d'uso di immobili o loro parti, non siano subordinati alla semplice Dia quando importino, come nella specie, aumenti di superfici abitabili (si è trattato di 100 mq) ovvero solo quando siano compatibili con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee, condizione questa che, nel caso di specie, non è stato provato che ricorresse.
Sul punto, i ricorrenti non hanno affatto replicato con la conseguenza che il motivo di ricorso è del tutto generico.
Questa Corte, in precedenti decisioni, ha peraltro più volte affrontato la questione concernente l'evoluzione della disciplina riguardante la materia del cambio di destinazione d'uso di immobili o di loro parti soprattutto con riferimento a casi più complessi, che esulano dalla fattispecie, in cui il cambio d'uso avvenga senza l'esecuzione di opere.
E' qui sufficiente ricordare che l'art. 10, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ribadendo le previsioni contenute nell'art. 2, comma 60, legge n. 662 del 1996, dispone che le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o meno a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di attività.
Per quanto qui interessa, la Regione Campania, con la legge 28.11.2001, n. 19, art. 2, modificata dalla L.R. 22.12.2004, n. 16, ha stabilito che possono essere realizzati in base a semplice denunzia d'inizio attività (oggi SCIA) "i mutamenti di destinazione d'uso d'immobili o loro parti, che non comportino interventi di trasformazione dell'aspetto esteriore, e di volumi e superfici", aggiungendo che "la nuova destinazione d'uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee" (comma 1, lett. f).
Questa Corte ha chiarito che
la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo).
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale (Sez. 3, n. 24096 del 07/03/2008, Desimine; Sez. 3, Sentenza n. 35177 del 12/07/2001, dep. 21/10/2002. Cinquegrani Rv. 222740).
E' perciò necessario dimostrare che -a condizioni esatte ossia in presenza di opere che non comportino interventi di trasformazione dell'aspetto esteriore, e di volumi e superfici- il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità nel senso che il mutamento sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, di regola, un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Nel caso di specie, i Giudici del merito hanno accertato che il sottotetto di proprietà degli imputati era stato trasformato abusivamente in un'unità abitativa attraverso l'esecuzione di lavori edili (tramezzature e impianti), ricavandone un appartamento composto da cucina, salone, due camere da letto e due bagni.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte
la destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti urbanistici aveva, come nella specie, soltanto una funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogene (Sez. 3, n. 17359 del 08/03/2007, P.M. in proc. Vazza, Cc. Rv. 236493).

EDILIZIA PRIVATA: La variazione d’uso funzionale “realizzata in parziale difformità ai titoli abilitativi”, non può essere assimilata (in assenza di contestazione circa la realizzazione di opere edili) agli interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire, interventi considerati dall’art. 34 del D.P.R. e per i quali la stessa norma prevede la rimozione o la demolizione a spese dei responsabili dell’abuso.
Pertanto, appare evidente come il richiamo all’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, operato dall’Amministrazione per imporre un uso corretto dell’immobile, sia del tutto inappropriato.

Il ricorso è fondato.
Non è dubbio che i ricorrenti utilizzino, per abitarvi, un immobile sito in zona artigianale e destinato dallo strumento urbanistico ad uso non residenziale (ufficio).
Il Comune di Ostuni, pertanto, verificata l’intervenuta variazione d’uso realizzata in parziale difformità al titolo abilitativo, ha ritenuto, per un verso, di dover ordinare ai responsabili, ex art. 34 del D.P.R., di adeguare la situazione di fatto dell’immobile alla situazione di diritto, d’altro canto, di applicare la sanzione amministrativa pecuniaria di € 2.582,00, prevista dall’art. 47 della legge regionale n. 56/1980 (da lire 1.000.000. a lire 5.000.000).
Ora, appare evidente come il richiamo all’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, operato dall’Amministrazione per imporre un uso corretto dell’immobile, sia del tutto inappropriato.
Nella fattispecie infatti, contrariamente a quanto sembra desumersi dal provvedimento impugnato, la variazione d’uso funzionale “realizzata in parziale difformità ai precitati titoli abilitativi”, non può essere assimilata (in assenza di contestazione circa la realizzazione di opere edili) agli interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire, interventi considerati dall’art. 34 del D.P.R. e per i quali la stessa norma prevede la rimozione o la demolizione a spese dei responsabili dell’abuso.
Sicché, ferma restando la possibilità dell’Amministrazione di regolare la destinazione d’uso degli immobili, è fuor di dubbio che nella specie siano stati utilizzati strumenti impropri sotto il profilo normativo (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 12.05.2014 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di cambio di destinazione d'uso necessita distinguere tra:
   I) mutamento d'uso “funzionale” di un locale, inteso quale variazione di destinazione degli immobili non implicante la realizzazione di opere edilizie, per il quale non è necessario il permesso di costruire: difatti, lo stesso è espressione dello “ius utendi” e non già dello “ius aedificandi”;
   II) mutamento di destinazione d'uso non già funzionale, bensì “strutturale” (e, cioè, connesso e conseguente all'esecuzione di opere) il quale, al contrario, necessita di apposito titolo concessorio il cui difetto legittima la demolizione delle opere stesse: al riguardo si è osservato che in detta evenienza rileva il profilo risultante dalla combinazione dei due elementi individuati (il mutamento di destinazione d'uso del fabbricato interessato ai lavori e la realizzazione di opere a quello finalizzata) sicché andranno considerate abusive, qualora realizzate in assenza del titolo edilizio, non solo le opere di costruzione vere e proprie ma anche quei lavori interni che, per quanto modesti, appaiono necessari a rendere possibile la nuova destinazione.

Con riguardo alle ulteriori censure che attengono al merito della sanzione edilizia irrogata, occorre distinguere e, per cogliere le ragioni della decisione giova premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento che attiene al mutamento di destinazione, come tratteggiato dalla giurisprudenza di questo Tribunale (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 23.02.2011 n. 1072; Sez. II, 14.03.2006 n. 2931).
L’istituto in argomento ha trovato una prima organica disciplina nella L. 28.02.1985 n. 47.
Secondo l’autorevole lettura offerta dalla Corte Costituzionale (sentenza 11.02.1991 n. 73), la precitata legge, per quel che riguarda il mutamento di destinazione, all'art. 8 ne prevedeva l'assoggettabilità al regime della concessione se connessa a variazioni essenziali “del progetto”, comportanti variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968.
Doveva, quindi, ritenersi esclusa dal regime della concessione ogni ipotesi di mutamento di destinazione non connessa con modifiche strutturali dell'immobile.
Viceversa, il mutamento di destinazione comunque accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il quale non sia altrimenti prevista la concessione), anche se solo interno, era invece assoggettato dall'art. 26 della L. 47/1985 al regime dell'autorizzazione, ciò desumendosi dall'eccezione ivi espressamente prevista rispetto al regime ordinario delle opere interne.
Del mutamento di destinazione senza opere, si occupava, invece, l'ultimo comma dell'art. 25 della legge statale citata che attribuiva alle Regioni il potere di fissare con legge i casi in cui il mutamento di destinazione d'uso, anche senza opere, può essere soggetto a concessione oppure ad autorizzazione.
In seguito, nel novellato quadro ordinamentale, l’art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
La Regione Campania, ai sensi dell'art. 2 della L.Reg. 28.11.2001 n. 19, ha previsto che possono essere realizzati in base a semplice denunzia d'inizio attività, tra gli altri, “i mutamenti di destinazione d'uso d'immobili o loro parti, che non comportino interventi di trasformazione dell'aspetto esteriore, e di volumi e superfici”.
Viceversa, restano soggetti a permesso di costruire i mutamenti di destinazione d'uso, con opere che incidono sulla sagoma dell'edificio o che determinano un aumento volumetrico, che risulti compatibile, con le categorie edilizie previste per le singole zone omogenee (comma 6) quelli con opere che incidano sulla sagoma, sui volumi e sulle superfici, con passaggio di categoria edilizia, purché tale passaggio sia consentito dalla norma regionale (comma 7) ovvero quelli programmati nelle zone agricole - zona E (comma 8).
Di contro, ai sensi del comma 5, il mutamento di destinazione d'uso senza opere, nell'ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee, è libero.
Tali principi sono stati espressi anche da questa Sezione (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 10.11.2010 n. 23752) che ha distinto tra:
I) mutamento d'uso “funzionale” di un locale, inteso quale variazione di destinazione degli immobili non implicante la realizzazione di opere edilizie, per il quale non è necessario il permesso di costruire: difatti, lo stesso è espressione dello “ius utendi” e non già dello “ius aedificandi” (TAR Lazio, Latina, 04.05.2010 n. 686);
II) mutamento di destinazione d'uso non già funzionale, bensì “strutturale” (e, cioè, connesso e conseguente all'esecuzione di opere) il quale, al contrario, necessita di apposito titolo concessorio il cui difetto legittima la demolizione delle opere stesse: al riguardo si è osservato che in detta evenienza rileva il profilo risultante dalla combinazione dei due elementi individuati (il mutamento di destinazione d'uso del fabbricato interessato ai lavori e la realizzazione di opere a quello finalizzata) sicché andranno considerate abusive, qualora realizzate in assenza del titolo edilizio, non solo le opere di costruzione vere e proprie ma anche quei lavori interni che, per quanto modesti, appaiono necessari a rendere possibile la nuova destinazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 16.04.2014 n. 2174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl mutamento di destinazione d’uso senza opere deve intendersi, in via di principio, subordinato a s.c.i.a. potendo, comunque, implicare, sia pure in assenza di attività costruttive, una non irrilevante trasformazione dell’assetto urbanistico-edilizio acquisito dal territorio.
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Al livello delle fonti normative statali, l'art. 32, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, qualifica come ‘variazione essenziale’ –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 con la demolizione e la riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d'uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal d.m. n. 1444/1968.
Appare, quindi, evidente, in primis, che il mutamento di destinazione d'uso, anche senza attività costruttive, non può integrare, di per sé, un’operazione urbanistico-edilizia per così dire ‘neutra’, affrancata dall’assoggettamento a qualsivoglia titolo abilitativo.
Ed appare evidente, altresì, che la sua realizzazione abusiva non possa legittimarsi esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo l'amministrazione verificare se essa non abbia inciso anche sul carico urbanistico di zona.
In questo senso, si è ritenuto che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, il mutamento di destinazione d'uso è rilevante, se avviene fra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, dovendosi, in tal caso, vagliare l’eventuale aggravio del carico urbanistico e la connessa trasformazione edilizia, produttiva di vantaggi economici derivanti dall'innovata utilizzazione, anche senza opere.

Venendo ora a scrutinare il ricorso, ragioni di coerenza logico-espositiva che verranno ad appalesarsi compiutamente in appresso inducono ad anteporre l’esame delle censure rivolte al rilievo di assenza di s.c.i.a., formulato nell’impugnata nota del 26.01.2012, prot. n. 2687.
6.1. Al riguardo, giova, in primis, rammentare che –a smentita degli assunti di parte ricorrente– il mutamento di destinazione d’uso senza opere deve intendersi, in via di principio, subordinato a s.c.i.a. (cfr. Cass. civ., sez. II, 22.11.2004, n. 22041), potendo, comunque, implicare, sia pure in assenza di attività costruttive, una non irrilevante trasformazione dell’assetto urbanistico-edilizio acquisito dal territorio.
6.2. Né vale addurre, in contrario al superiore approdo, il tenore dell’invocato art. 2, comma 5, della l.r. Campania n. 19/2001: “Il mutamento di destinazione d’uso senza opere –recita la richiamata norma legislativa regionale–, nell’ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee, è libero”.
Ora, tale disposizione deve essere interpretata alla luce del suo stesso tenore logico-letterale, nonché dei principi fondamentali e delle più generali regole rivenienti dalla legislazione statale.
In particolare, il citato 2, comma 5, della l.r. Campania n. 19/2001, se, da un lato, qualifica espressamente come “libero” il cambio destinazione d’uso senza opere, d’altro lato, ne circoscrive l’ammissibilità alle sole “categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee”.
Nel contempo, al livello delle fonti normative statali, l'art. 32, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, qualifica come ‘variazione essenziale’ –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 con la demolizione e la riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d'uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal d.m. n. 1444/1968.
Appare, quindi, evidente, in primis, che il mutamento di destinazione d'uso, anche senza attività costruttive, non può integrare, di per sé, un’operazione urbanistico-edilizia per così dire ‘neutra’, affrancata dall’assoggettamento a qualsivoglia titolo abilitativo.
Ed appare evidente, altresì, che la sua realizzazione abusiva non possa legittimarsi esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo l'amministrazione verificare se essa non abbia inciso anche sul carico urbanistico di zona.
In questo senso, si è ritenuto che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, il mutamento di destinazione d'uso è rilevante, se avviene fra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, dovendosi, in tal caso, vagliare l’eventuale aggravio del carico urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546) e la connessa trasformazione edilizia, produttiva di vantaggi economici derivanti dall'innovata utilizzazione, anche senza opere (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Ciò posto, nella specie, l’art. 37 del regolamento edilizio comunale di Maddaloni stabilisce che i locali interrati possono essere adibiti unicamente a cantine, depositi, magazzini, autorimesse e impianti termici a servizio dell’edificio.
Ebbene, risulta innegabile che il passaggio da una simile vocazione funzionale a quella di palestra implichi incremento del carico urbanistico dovuto alla presenza di persone impegnate in attività sportive.
In considerazione di ciò, non può, in via di principio, disconoscersi all’amministrazione il potere di verificare la compatibilità del divisato mutamento di destinazione d’uso con le disposizioni urbanistiche locali, oltre che con le condizioni di sicurezza, igiene e salubrità ex art. 23, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 (vieppiù indefettibili nella controversa di adibizione a palestra, e solo parzialmente acclarate nella nota dell’ASL di Caserta, prot. n. 601/UOPC, del 12.04.2012, depositata in giudizio il 07.12.2013): potere –questo– che, per essere in concreto esercitabile, richiede necessariamente (almeno) una preventiva segnalazione (appunto, s.c.i.a.) da parte dell’interessato, finalizzata a informare i competenti uffici dell’iniziativa assunta.
6.3. In mancanza di una simile segnalazione, volta a consentire i suindicati controlli di compatibilità, è, dunque, da reputarsi legittimo l’ordine di ripristino impartito dal Comune di Maddaloni, siccome inteso ad evitare un (formalmente) illecito e (materialmente) irreversibile cambio di destinazione d’uso (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.07.2012, n. 2146)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.03.2014 n. 1881 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul cambio di destinazione d’uso da deposito/garage a palestra.
A norma dell'art. 32, comma 4, della l. n. 383/2000, “la sede delle associazioni di promozione sociale ed i locali nei quali si svolgono le relative attività sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 … indipendentemente dalla destinazione urbanistica”.
L'intrinseca meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di promozione sociale ha indotto, dunque, il legislatore a prevedere facilitazioni non soltanto sul piano fiscale, ma anche su quello amministrativo, con specifico riguardo agli aspetti urbanistici, proprio allo scopo di agevolare l'individuazione delle sedi e dei locali dove svolgere le attività istituzionali.
In virtù della emanata disciplina agevolativa, le sedi e i locali in parola sono, quindi, ubicabili:
   a) in tutte le parti del territorio urbano, stante la loro compatibilità con ogni destinazione d'uso urbanistico rilevante ai sensi del d.m. n. 1444/1968;
   b) a prescindere dalla destinazione d'uso impressa specificamente e funzionalmente rispetto al singolo fabbricato.
Da quanto sopra discende l'illegittimità della nota comunale, laddove esclude la configurabilità del divisato cambio di destinazione d’uso da deposito/garage a palestra, poiché in contrasto con l’art. 37 del regolamento edilizio comunale.
Sostenere, infatti, che l’operazione posta in essere dal ricorrente non sia compatibile con la destinazione dei piani interrati unicamente a cantine, depositi, magazzini, autorimesse e impianti termici a servizio dell’edificio, vuol dire disconoscere la portata derogatoria del citato art. 32, comma 4, della l. n. 383/2000, con conseguente palese illegittimità della correlativa determinazione amministrativa.

Innanzitutto, a norma del citato art. 32, comma 4, della l. n. 383/2000, “la sede delle associazioni di promozione sociale ed i locali nei quali si svolgono le relative attività sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 … indipendentemente dalla destinazione urbanistica”.
L'intrinseca meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di promozione sociale (fra le quali va annoverata, non essendo ciò materia di contestazione fra le parti, anche la Energy Planet 2003) ha indotto, dunque, il legislatore a prevedere facilitazioni non soltanto sul piano fiscale, ma anche su quello amministrativo, con specifico riguardo agli aspetti urbanistici, proprio allo scopo di agevolare l'individuazione delle sedi e dei locali dove svolgere le attività istituzionali.
In virtù della emanata disciplina agevolativa, le sedi e i locali in parola sono, quindi, ubicabili:
a) in tutte le parti del territorio urbano, stante la loro compatibilità con ogni destinazione d'uso urbanistico rilevante ai sensi del d.m. n. 1444/1968;
b) a prescindere dalla destinazione d'uso impressa specificamente e funzionalmente rispetto al singolo fabbricato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.01.2013, n. 181; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 05.06.2008, n. 1653; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.07.2013, n. 1911; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 18.10.2013, n. 1404).
Da quanto sopra discende l'illegittimità della nota del 24.04.2012, prot. n. 12194, laddove esclude la configurabilità del divisato cambio di destinazione d’uso da deposito/garage a palestra, poiché in contrasto con l’art. 37 del regolamento edilizio comunale.
Sostenere, infatti, che l’operazione posta in essere dal ricorrente non sia compatibile con la destinazione dei piani interrati unicamente a cantine, depositi, magazzini, autorimesse e impianti termici a servizio dell’edificio, vuol dire disconoscere la portata derogatoria del citato art. 32, comma 4, della l. n. 383/2000, con conseguente palese illegittimità della correlativa determinazione amministrativa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.03.2014 n. 1881 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D'USO SENZA OPERE ED INDIVIDUAZIONE DEL CORRETTO TITOLO ABILITATIVO.
Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a DIA (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in esame, ad analizzare il regime giuridico richiesto, a seguito dell’evoluzione normativa e dell’interpretazione giurisprudenziale, per quella categoria di interventi edilizi che comportino il cd. mutamento di destinazione d’uso di un’unità immobiliare.
La vicenda processuale trae origine da un decreto di sequestro preventivo che era stato disposto con riferimento ad una serie di reati urbanistici, edilizi e paesaggistici nei confronti di un soggetto cui era stato addebitato di avere, quale legale rappresentante di una società che aveva in gestione una struttura alberghiera, variato la destinazione d'uso delle pertinenze dell'hotel, trasformando i locali, che in precedenza erano adibiti a deposito e lavanderia, in camere per gli ospiti e ciò in assenza del permesso di costruire e del necessario nulla osta paesaggistico.
Il Tribunale del riesame adito, nel respingere l’istanza di dissequestro, aveva osservato come, in mancanza di un titolo che autorizzasse il mutamento della destinazione d'uso, fosse ampiamente configurato il fumus dei reati posti a fondamento del provvedimento cautelare, tanto più che risultava un espresso diniego del comune rispetto ad una istanza dell'interessato avanzata per sanare ex post il già realizzato mutamento della destinazione d'uso dei locali, mutamento che, secondo il Tribunale, avrebbe dovuto necessariamente comportare, per adattare i locali originariamente destinati a deposito e lavanderia in camere per ospiti dell'albergo, anche la realizzazione di opere eseguite in assenza di permesso. In presenza poi di un aggravio del carico urbanistico, desumibile dal considerevole aumento della ricettività alberghiera quale diretta conseguenza del realizzato mutamento della destinazione d'uso, doveva ritenersi integrato, ad avviso del tribunale del riesame, anche il periculum in mora, derivando da ciò la conferma del decreto di sequestro preventivo.
L’ordinanza del tribunale veniva impugnata davanti alla Cassazione, sostenendosi che, in base alla normativa regionale, secondo la quale gli interventi edilizi che non comportino trasformazione dell'aspetto esteriore e dei volumi e di superfici possono essere realizzati con semplice DIA, sicché il mutamento di destinazione d'uso senza opere nell'ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee è libero; da ciò ne sarebbe derivato, dunque, che mentre il mutamento di destinazione da lavanderia -deposito in struttura ricettiva richiederebbe il permesso di costruire non svolgendosi- all'interno di categorie compatibili alle zone territoriali omogenee, tale permesso non sarebbe richiesto qualora il mutamento della destinazione d'uso senza opere rientri nell'ambito di categorie compatibili alla medesima zona territoriale omogenea.
La Cassazione ha però dichiarato inammissibile il ricorso ritenendolo manifestamente infondato. Ed invero, hanno osservato sul punto i giudici della Suprema Corte, non è sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne ma occorre dimostrare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, come nella specie, un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Ed allora, nell’affermare il principio di cui in massima quanto all’individuazione del titolo abilitativo necessario, deve ritenersi giuridicamente  rilevante solo il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal  punto di vista urbanistico, atteso che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.02.2014 n. 5712 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2014).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d'uso, senza opere, assume valore giuridicamente rilevante solo quando si verifichi un passaggio tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, mentre è giuridicamente irrilevante allorquando il cambio di destinazione non determini un tale passaggio, salvo che nei centri storici dove il mutamento della destinazione d'uso rileva anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
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La ragione per la quale il cambio di destinazione d'uso senza realizzazione di opere non costituisce un'attività del tutto priva di vincoli risiede nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate le regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto ed inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica, potendo risultare pregiudicato anche l'interesse patrimoniale dell'ente perché gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere il rilascio di un titolo edilizio che sconta il pagamento di un minor contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la destinazione d'uso originaria senza corrispondere i maggiori oneri che derivano dal maggior carico urbanistico.
Questa Corte ha chiarito che
la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Perciò
non è sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne ma occorre dimostrare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, come nella specie, un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Va quindi conclusivamente ribadito che
è giuridicamente rilevante solo il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Ne consegue che
il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
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La diversa destinazione dei locali lavanderia-deposito in camere d'albergo, per la diversità di tipologia degli ambienti, aveva di certo comportato, secondo il Collegio cautelare, anche l'esecuzione di opere quantomeno interne di adattamento ed in ogni caso determinato un consistente aggravio del carico urbanistico, avendo la struttura aumentato significativamente la sua ricettività ed avendo, senza permesso di costruire, realizzato nuovi vani abitabili, alterando la consistenza originaria del manufatto in conseguenza dell'avvenuto cambio di destinazione incidente sul carico urbanistico
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L'incidenza di un immobile sul carico urbanistico va valutata secondo indici concreti e può essere rappresentata, a titolo esemplificativo, dalla consistenza dell'insediamento edilizio, dal numero di nuclei familiari presenti, dall'incremento della domanda di strutture, opere collettive e dotazione minima di spazi pubblici per abitante, dalla necessità di salvaguardare l'ambiente e la staticità dei luoghi e, infine, dalla possibilità che le opere non ancora ultimate siano portate a compimento e le unità non ancora abitate siano occupate.
Perciò
la sussistenza del pericolo derivante dalla libera disponibilità del bene pertinente al reato va parametrata alla reale compromissione degli interessi attinenti al territorio ed ad ogni altro dato utile a stabilire in che misura il godimento e la disponibilità attuale della cosa da parte dell'indagato o di terzi possa implicare una effettiva ulteriore lesione del bene giuridico protetto, ovvero se l'attuale disponibilità del manufatto costituisca un elemento neutro sotto il profilo della offensività.
Invero,
la nozione di "carico urbanistico", deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento primario, ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro svolte. Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio. Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti del diritto urbanistico, tra i quali:
   a) gli standards urbanistici di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444, che richiedono l'inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone;
   b) la sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento;
   c) il parallelo esonero da contributo di quelle opere che non comportano nuovo insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione.

Il carico urbanistico deve quindi intendersi come rapporto tra insediamenti e servizi in un determinato territorio, attesa la potenziale incidenza di un insediamento abitativo sulla distribuzione degli impianti urbanistici e dei servizi pubblici, con la conseguenza che il suo aggravamento non è altro che l'effetto che viene prodotto da una condotta ulteriore rispetto alla semplice consumazione del reato e, cioè, dall'incidenza indebita che l'insediamento primario produce su quello secondario in termini di domanda di strutture ed opere collettive.
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2. Il primo ed il secondo motivo, essendo tra loro strettamente collegati, possono essere congiuntamente trattati.
Il Tribunale distrettuale, sulla base degli atti di causa, ha accertato che i locali in sequestro, precedentemente adibiti a deposito e a lavanderia, sono stati trasformati in camere per gli ospiti dell'albergo, con conseguente modificazione della destinazione d'uso, in assenza del rilascio dei necessari titoli abilitativi.
Il Collegio cautelare ha tratto ulteriore conferma di ciò dal fatto che lo stesso ricorrente aveva chiesto, senza ottenere il permesso, di essere autorizzato al cambio di destinazione ad uso ricettivo delle opere in sequestro ed il Tribunale del riesame ha ricavato, anche da ciò, solido argomento per ritenere, da un lato, la sussistenza del fumus commissi delicti dei reati urbanistici e paesaggistici, in considerazione anche dei vincoli esistenti sulla zona, e la esistenza, dall'altro, del periculum in mora in considerazione dell'aggravamento del carico urbanistico che il mutamento della destinazione d'uso dell'immobile aveva comportato.
L'assunto del ricorrente è che, avuto anche riguardo alla normativa regionale, non necessitava il rilascio di alcun titolo abilitativo perché il cambio d'uso sarebbe intervenuto, quanto ai parametri urbanistici, entro categorie omogenee, essendo stati investiti dalla trasformazione i locali in precedenza destinati ad abitazione per i dipendenti che, senza il ricorso ad opera alcuna, sarebbero stati destinati a camere di albergo per gli ospiti.
A prescindere che un tale assunto cozza inevitabilmente con i precedenti comportamenti concludenti avviati dallo stesso ricorrente, che pure aveva avvertito la necessità di essere autorizzato al cambio di destinazione d'uso, va precisato che oggetto del sequestro, per quanto indicato nel dispositivo del titolo cautelare, sono i locali, già destinati a deposito e lavanderia, di pertinenza dell'albergo de quo (con riferimento ai quali è lo stesso ricorrente ad ammettere che, in caso di cambio d'uso, sarebbe stato necessario il previo rilascio del titolo abilitativo) e non dunque le altre parti dell'edificio, cui pure il ricorrente accenna nel ricorso e che pertanto esulano dal petitum cautelare.
3. Ciò posto, è tuttavia utile delineare, in breve, l'evoluzione della disciplina riguardante la materia del cambio di destinazione d'uso di immobili o di loro parti al solo fine di meglio cogliere le specificità relative ai casi in cui il cambio d'uso avvenga senza l'esecuzione di opere (ulteriore profilo di doglianza sostenuto dal ricorrente).
3.1. L'art. 2, comma 60, della legge 23.12.1996, n. 662, novellando l'art. 25, ultimo comma, della legge 28.02.1985, n. 47, disponeva che le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione.
L'art. 10, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ribadendo le previsioni contenute nell'art. 2, comma 60, legge n. 662 del 1996, dispone che le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o meno a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di attività.
3.2. In particolare la Regione Campania, con la legge 28.11.2001, n. 19, art. 2, modificata dalla L.R. 22.12.2004, n. 16, ha stabilito che possono essere realizzati in base a semplice denunzia d'inizio attività (oggi SCIA) "i mutamenti di destinazione d'uso d'immobili o loro parti, che non comportino interventi di trasformazione dell'aspetto est
eriore, e di volumi e superfici", aggiungendo che "la nuova destinazione d'uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee" (comma 1, lett. f).
Inoltre, per quanto qui interessa, ha stabilito che "il mutamento di destinazione d'uso senza opere, nell'ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee, è libero" (comma 5).
Ne consegue che il mutamento di destinazione d'uso, senza opere, assume valore giuridicamente rilevante solo quando si verifichi un passaggio tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, mentre è giuridicamente irrilevante allorquando il cambio di destinazione non determini un tale passaggio, salvo che nei centri storici dove il mutamento della destinazione d'uso rileva anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243102).
La ragione per la quale il cambio di destinazione d'uso senza realizzazione di opere non costituisce un'attività del tutto priva di vincoli risiede nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate le regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto ed inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Cons. Stato n. 759 del 25.05.2012), potendo risultare pregiudicato anche l'interesse patrimoniale dell'ente perché gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere il rilascio di un titolo edilizio che sconta il pagamento di un minor contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la destinazione d'uso originaria senza corrispondere i maggiori oneri che derivano dal maggior carico urbanistico.
Questa Corte ha chiarito che la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo).
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale (Sez. 3, n. 24096 del 07/03/2008, Desimine; Sez. 3, Sentenza n. 35177 del 12/07/2001, dep. 21/10/2002. Cinquegrani Rv. 222740).
Perciò non è sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne ma occorre dimostrare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, come nella specie, un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Va quindi conclusivamente ribadito che è giuridicamente rilevante solo il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Ne consegue che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
4. Chiarita dunque la ratio essendi del provvedimento impugnato, che perciò non merita le censure contro di esso dirette, avendo correttamente statuito la configurabilità del fumus dei reati urbanistici e paesaggistici in quanto, contrariamente all'assunto del ricorrente, il mutamento della destinazione d'uso è stato effettuato proprio con riferimento a categorie tra loro incompatibili, con la conseguenza che l'intervento richiedeva, per la sua conformità al diritto, l'assenso dell'autorità di governo del territorio e di quella preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, va precisato, per delimitare il campo d'indagine devoluto a questa Corte dalle ulteriori prospettazioni contenute nel ricorso, che in questa materia, a norma dell'art. 325 cod. proc. pen., il ricorso per cassazione può essere proposto solo per violazione di legge, nella cui nozione, secondo l'orientamento prevalente di questa Corte, rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali, ma non l'illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell'art. 606 stesso codice (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, Ferazzi, Rv. 226710), né tanto meno il travisamento del fatto non risultante dal testo del provvedimento, sicché le argomentazioni del ricorrente tendenti a censurare l'iter logico seguito dal Tribunale per giungere alla conferma del decreto di sequestro preventivo sono inammissibili in questa sede.
In ogni caso, il censurato difetto di motivazione non si apprezza sotto alcun profilo avendo il Tribunale distrettuale puntualmente confutato le argomentazioni del ricorrente ritenendo che il fumus dei reati fosse ulteriormente corroborato dalla presenza in atti del diniego (del 06.07.2012) del Comune di Castellabate alla richiesta di sanatoria ex post del mutamento di destinazione d'uso dei locali.
Va aggiunto, per inciso, che l'Ufficio tecnico comunale aveva espressamente contestato che il mutamento della destinazione d'uso potesse ritenersi libero, ai sensi dell'art. 5, comma 2, L.R. n. 19 del 2001, tanto sul presupposto che l'immobile ricade all'interno del Piano di recupero (zona A), essendo perciò assoggettato alla normativa edilizia vigente che non prevede tra le destinazioni d'uso compatibili con la singola zona omogenea, cui ricade il fabbricato, né quella ad attrezzature ricettive alberghiere né tanto meno quella ad attrezzature para alberghiere.
5. Sicché la diversa destinazione dei locali lavanderia-deposito in camere d'albergo, per la diversità di tipologia degli ambienti, aveva di certo comportato, secondo il Collegio cautelare, anche l'esecuzione di opere quantomeno interne di adattamento ed in ogni caso determinato un consistente aggravio del carico urbanistico, avendo la struttura aumentato significativamente la sua ricettività ed avendo, senza permesso di costruire, realizzato nuovi vani abitabili, alterando la consistenza originaria del manufatto in conseguenza dell'avvenuto cambio di destinazione incidente sul carico urbanistico, configurandosi perciò anche le esigenze cautelari sottese al sequestro.
Nel pervenire a tali conclusioni, il Tribunale si è attenuto alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 11544 del 27/11/2012; Sez. 3, n. 6599 del 24/11/2011; Sez. 3, n. 40033 del 18/10/2011; Sez. U., n. 12878 del 20/03/2003), secondo cui l'incidenza di un immobile sul carico urbanistico va valutata secondo indici concreti e può essere rappresentata, a titolo esemplificativo, dalla consistenza dell'insediamento edilizio, dal numero di nuclei familiari presenti, dall'incremento della domanda di strutture, opere collettive e dotazione minima di spazi pubblici per abitante, dalla necessità di salvaguardare l'ambiente e la staticità dei luoghi e, infine, dalla possibilità che le opere non ancora ultimate siano portate a compimento e le unità non ancora abitate siano occupate.
Perciò la sussistenza del pericolo derivante dalla libera disponibilità del bene pertinente al reato va parametrata alla reale compromissione degli interessi attinenti al territorio ed ad ogni altro dato utile a stabilire in che misura il godimento e la disponibilità attuale della cosa da parte dell'indagato o di terzi possa implicare una effettiva ulteriore lesione del bene giuridico protetto, ovvero se l'attuale disponibilità del manufatto costituisca un elemento neutro sotto il profilo della offensività.
Come le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito (Sez. U., n. 12878 del 20/03/2003, cit.), la nozione di "carico urbanistico", deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento primario, ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro svolte. Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio. Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti del diritto urbanistico, tra i quali:
   a) gli standards urbanistici di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444, che richiedono l'inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone;
   b) la sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento;
   c) il parallelo esonero da contributo di quelle opere che non comportano nuovo insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione.
Il carico urbanistico deve quindi intendersi come rapporto tra insediamenti e servizi in un determinato territorio, attesa la potenziale incidenza di un insediamento abitativo sulla distribuzione degli impianti urbanistici e dei servizi pubblici, con la conseguenza che il suo aggravamento non è altro che l'effetto che viene prodotto da una condotta ulteriore rispetto alla semplice consumazione del reato e, cioè, dall'incidenza indebita che l'insediamento primario produce su quello secondario in termini di domanda di strutture ed opere collettive.
Ciò è quello che si è puntualmente verificato nel caso di specie, come il Giudice di merito ha congruamente spiegato, richiamando il numero non irrilevante di camere di albergo, aperte e destinate al pubblico, ricavate attraverso il mutamento della destinazione d'uso dei precedenti locali, in considerazione della consistenza quantitativa degli spazi diversamente utilizzati come desumibili dalle planimetrie in atti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.02.2014 n. 5712
).

EDILIZIA PRIVATA: IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO ESEGUITO MEDIANTE REALIZZAZIONE DI “OPERE INTERNE” È RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA.
Le cosiddette "opere interne", non più previste nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, su un’interessante questione relativa alla possibilità di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia la realizzazione di opere interne, volte a comportare un mutamento della destinazione d’uso di un immobile.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d'appello confermava la sentenza del tribunale che aveva condannato alcuni cittadini cinesi per i reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), e artt. 93 e 95 dello stesso D.P.R. in relazione ad intervento di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire. In particolare, l’esecuzione dell’intervento edilizio era consistito nel frazionamento di un capannone con pareti in cartongesso. L’imputata si era quindi rivolta alla Cassazione, lamentandosi del fatto che i lavori eseguiti non fossero qualificabili come interventi di ristrutturazione edilizia e, dunque, non soggetti a permesso di costruire.
La Cassazione ha, però, respinto il ricorso, affermando il principio di cui in massima, osservando, con riferimento al caso in esame, che era stata accertata l'intervenuta realizzazione, sin dal primo sopralluogo presso l'unità immobiliare in questione, di lavori volti a suddividere la stessa in tre distinte unità, a loro volta suddivise in sette locali, ciascuno dotato di servizio igienico oltre ad una cucina, destinati in parte ad abitazione ed in parte a laboratori: di qui la corretta deduzione in ordine alla sussistenza di un intervento di ristrutturazione edilizia, comportante un parziale mutamento di destinazione d'uso da produttiva residenziale, in assenza del necessario permesso di costruire ovvero, in alternativa, della cosiddetta “super DIA” (sulla necessità di tale, alternativo, titolo abilitativo nelle ipotesi di ristrutturazione edilizia attuata mediante mutamento di destinazione d’uso, v.: Cass., sez. III, 24.11.2011, n. 47438, in CED Cass., n. 251637) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2014 n. 5455 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2014).

EDILIZIA PRIVATA: L'esecuzione di lavori interni volti suddividere l'unità immobiliare esistente in tre distinte unità, a loro volta suddivise in sette locali, ciascuno dotato di servizio igienico oltre ad una cucina, destinati in parte ad abitazione ed in parte a laboratori, concreta la sussistenza di un intervento di ristrutturazione edilizia, comportante un parziale mutamento di destinazione d'uso da produttiva a residenziale, in assenza del necessario permesso di costruire ovvero, in alternativa, della cosiddetta "super D.i.a.".
Invero, le cosiddette "opere interne", non più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380 come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero, come nella specie, mutamento di destinazione d'uso.
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5. Anche il ricorso di Xi.Ch. è manifestamente infondato.
Quanto alla doglianza inerente l'avvenuta realizzazione di null'altro che di opere interne, la Corte territoriale ha in realtà posto in rilievo l'intervenuta realizzazione, sin dal primo sopralluogo presso l'unità immobiliare in questione, di lavori volti suddividere la stessa in tre distinte unità, a loro volta suddivise in sette locali, ciascuno dotato di servizio igienico oltre ad una cucina, destinati in parte ad abitazione ed in parte a laboratori; di qui la corretta deduzione in ordine alla sussistenza di un intervento di ristrutturazione edilizia, comportante un parziale mutamento di destinazione d'uso da produttiva a residenziale, in assenza del necessario permesso di costruire ovvero, in alternativa, della cosiddetta "super D.i.a."; va infatti ricordato che le cosiddette "opere interne", non più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380 come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero, come nella specie, mutamento di destinazione d'uso (da ultimo, Sez. 3, n. 47438 del 24/11/2011, Truppi, Rv. 251637; Sez. 3, n. 27713 del 20/05/2010, P.M. in proc. Olivieri ed altro, Rv. 247919) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2014 n. 5455
).

anno 2013

EDILIZIA PRIVATA: M. Viviani e A. Bagnasco, La ristrutturazione con modifica di destinazione d’uso secondo l’ultimo comma dell’art. 9 DPR n. 380/2001 (29.12.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità concessione edilizia in deroga per realizzazione di ambulatorio medico privato.
Se è pur vero che il titolo è stato richiesto per la realizzazione di un manufatto destinato ad accogliere l’attività di medico di base del Servizio Sanitario Nazionale (in relazione al quale potrebbe essere non implausibile la sussistenza di un interesse pubblico all’assistenza nei confronti dei pazienti), è d’altra parte indubitabile che il vulnus alla disciplina urbanistico–edilizia inflitto con la concessione in deroga non risulta giustificato dalla duratura destinazione (a servizio sanitario) dell’immobile: quest’ultimo, infatti, non solo è (e resta privato) e nella esclusiva disponibilità dell’interessato anche quanto all’uso, non essendo stato apposto alcun vincolo ragionevole durata o di destinazione (di interesse pubblico), ma altresì nulla impedisce che, anche prima della naturale conclusione dell’attività professionale del proprietario, l’immobile possa essere ceduto a terzi e/o concretamente utilizzato per un’attività ovvero per una finalità esclusivamente privata.
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Al riguardo si rammenta la distinzione tra l’ambulatorio, che identifica una struttura aziendale, aperta, spersonalizzata ed organizzata imprenditorialmente in vista dell’affluenza di un pubblico indeterminato, in cui prevale l’aspetto organizzativo su quello professionale, e lo studio medico, connotato dal prevalente apporto professionale mediante esercizio professionale dell’attività sanitaria: solo nei confronti del primo (ambulatorio) è astrattamente ipotizzabile la ricorrenza del presupposto dell’interesse pubblico preminente idoneo a giustificare il rilascio della concessione edilizia in deroga.
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Nel merito l’appello è infondato, il che consente di prescindete dall’esame delle ulteriori eccezioni preliminari, sollevate in primo grado e non esaminate per assorbimento, ma espressamente riproposte in appello.
Come emerge dalla documentazione in atti, non è contestato che il dott. -OMISSIS- presentò in data 23.09.1980 una richiesta di concessione edilizia in deroga per l’ampliamento del fabbricato sito in Asolo, via S. Caterina (in catasto, sez. B, foglio n. IV, mapp. n. 654) ad uso ambulatorio medico.
Con delibera n. 89 del 02.10.1980 il Consiglio comunale di Asolo espresse al riguardo parere favorevole, in ragione della particolare rilevanza sociale e di pubblica utilità dell’iniziativa, incaricando contestualmente il sindaco di richiedere alla Regione Veneto il prescritto nulla–osta ai sensi dell’art. 3 della legge 21.12.1955, n. 1357; in data 14.01.1984 veniva poi effettivamente rilasciato il richiesto titolo edilizio in deroga n. 93/1980 per la realizzazione di un ambulatorio medico, essendo intervenuto in data 08.11.1983 (prot. 1150) anche il nulla–osta dei Beni Ambientali di Treviso.
E’ altresì pacifico, mancando sul punto qualsiasi contestazione tra le parti, che l’immobile, il cui ampliamento ad uso ambulatorio medico è stato consentito con il contestato titolo edilizio, ricadeva nella zona A del Comune di Asolo, all’interno della quale, ai sensi dell’allora vigente piano regolatore (art. 13), gli interventi edilizi erano subordinati all’approvazione di piani particolareggiati, potendo, in difetto degli stessi, essere consentiti, sempre previo apposito titolo concessorio, solo la manutenzione ordinaria e straordinaria; gli interventi sui parametri esterni, purché non interessino spostamenti di aperture e modifiche dei materiali di facciata; risanamenti interni di carattere igienico o distributivo, purché non comportino sostanziali modifiche strutturali e tipologiche; restauri conservativi e demolizioni di corpi di fabbrica interni privi di valore architettonico.
Il successivo art. 27 (ex 29) del piano regolatore prevedeva la possibilità di derogare alle relative previsioni, ove ricorressero “particolari motivi di pubblico interesse, di decoro cittadino e di igiene”.
Per completezza deve aggiungersi che l’art. 80 (rubricato “Deroghe”) dell’allora vigente legge regionale 02.05.1980, n. 40 (“Norme per l’assetto e l’uso del territorio”) stabiliva che “Il piano regolatore può dettare disposizioni che consentano al Sindaco di rilasciare concessioni in deroga alle norme e alle previsioni urbanistiche generali quando riguardino edifici e/o impianti pubblici o di interesse pubblico, purché non abbiano per oggetto la modificazione delle destinazioni di zona. In tali casi il rilascio della concessione deve essere preceduto da deliberazione favorevole del consiglio comunale”.
Benché la predetta legge sia stata sostituita dalla successiva legge regionale 27.06.1985, n. 61 (anch’essa disciplinante l’assetto e l’uso del territorio), l’art. 80 di quest’ultima, pur esso rubricato “Deroghe”, riporta ai primi due commi delle disposizioni del tutto identiche a quelle della precedente legge n. 40 del 1980.
Ciò precisato, la Sezione ritiene che la sentenza impugnata sfugga alle critiche che le sono state appuntate.
Il rilascio della concessione in deroga, sia nelle previsioni del piano regolatore generale che secondo le ricordate disposizioni della legislazione regionale, costituisce una facoltà eccezionale riconosciuta all’amministrazione comunale per il perseguimento di un interesse pubblico preminente, a prescindere dalla circostanza che si tratti di un’attività di edificazione di carattere privato: il solo predetto interesse pubblico consente infatti di disapplicare una norma con riferimento ad una fattispecie concreta che pure presenta tutti gli elementi per essere assoggettata alla disciplina di carattere generale (C.d.S., sez. V, 23.07.2009, n. 4664; 02.04.2006, n. 439).
In ragione della natura eccezionale (del rilascio) della concessione edilizia in deroga i relativi presupposti (in particolare proprio la ricorrenza di un interesse pubblico preminente) devono essere accertati in modo puntuale e rigoroso, così come le norme che la ammettono devono essere interpretate in senso restrittivo (pena lo stravolgimento della sua stessa ratio), come del resto ha sottolineato la giurisprudenza (C.d.S., sez. V, 11.01.2006, n. 46), evidenziando che la concessione in deroga costituisce un provvedimento eccezionale ed a contenuto singolare, assunto cioè per soddisfare specifici interessi pubblici sulla base di valutazioni contingenti e dotate di eccezionalità che giustificano nella situazione concreta l’inosservanza delle disposizioni contenute negli atti di programmazione.
E’ stato anche precisato che per edificio di interesse pubblico, ai fini del rilascio della concessione in droga (nel caso di specie ex art. 16 della legge 06.08.1967, n. 765) deve intendersi ogni manufatto edilizio idoneo per caratteristiche intrinseche o per destinazione funzionale a soddisfare interessi di rilevanza pubblica (C.d.S., sez. IV, 23.05.1988, n. 434).
Applicando tali condivisibili e consolidati principi al caso in esame, non sussistevano i presupposti per il rilascio del titolo edilizio in deroga per la realizzazione dell’immobile in questione, non essendo del resto stata fornita dall’amministrazione una adeguata e convincente valutazione (dell’esistenza) dell’interesse pubblico preminente.
Se è pur vero, infatti, che il titolo è stato richiesto per la realizzazione di un manufatto destinato ad accogliere lo studio del ricorrente, esercente l’attività di medico di base del Servizio Sanitario Nazionale (in relazione al quale potrebbe essere non implausibile la sussistenza di un interesse pubblico all’assistenza nei confronti dei pazienti), è d’altra parte indubitabile che il vulnus alla disciplina urbanistico–edilizia inflitto con la concessione in deroga non risulta giustificato dalla duratura destinazione (a servizio sanitario) dell’immobile: quest’ultimo, infatti, non solo è (e resta privato) e nella esclusiva disponibilità dell’interessato anche quanto all’uso, non essendo stato apposto alcun vincolo ragionevole durata o di destinazione (di interesse pubblico), ma altresì nulla impedisce che, anche prima della naturale conclusione dell’attività professionale del proprietario, l’immobile possa essere ceduto a terzi e/o concretamente utilizzato per un’attività ovvero per una finalità esclusivamente privata.
Al riguardo si rammenta la distinzione (Cass. Civ., sez. II, 19.03.2010, n. 6719) tra l’ambulatorio, che identifica una struttura aziendale, aperta, spersonalizzata ed organizzata imprenditorialmente in vista dell’affluenza di un pubblico indeterminato, in cui prevale l’aspetto organizzativo su quello professionale, e lo studio medico, connotato dal prevalente apporto professionale mediante esercizio professionale dell’attività sanitaria: solo nei confronti del primo (ambulatorio) è astrattamente ipotizzabile la ricorrenza del presupposto dell’interesse pubblico preminente idoneo a giustificare il rilascio della concessione edilizia in deroga
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.12.2013 n. 6136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Imprenditore agricolo oneri concessori e variante da agricola a residenziale.
La mancanza del requisito dell’imprenditore agricolo a titolo principale è sufficiente a ritenere dovuto il contributo concessorio e insussistente il diritto alla esenzione, legato a ipotesi tassative.
Inoltre, va aggiunto che ai fini del mutamento di destinazione d’uso (nella specie, da agricola a residenziale) si ritiene che comporti aumento del carico urbanistico il passaggio tra due categorie funzionalmente autonome, in quanto il mutamento di destinazione d’uso, in sé, nella specie, a differenza di quanto sostiene l’appellata, comporta un maggiore carico urbanistico, al quale si correla la imposizione di pagamento.

Occorre ora esaminare la correttezza del ragionamento del primo giudice, contestato dall’appello, sulla base sia degli accertamenti effettuati sulla natura dell’intervento che sulla base della disciplina normativa sulla dovutezza del contributo.
In fatto, la verificazione ha dato modo di accertare che:
a) l’intervento (che secondo il Comune è consistito nella demolizione e ricostruzione del preesistente edificio ubicato in zona agricola ed individuato come fabbricato rurale di rilevante valore dal Piano regolatore con contestuale cambio di destinazione di uso poiché la nuova costruzione oggetto di sanatoria non avrebbe più destinazione agricola ma residenziale) deve essere qualificato come ristrutturazione edilizia e non come restauro e risanamento conservativo; b) non sussistono elementi univoci nel senso che esso avrebbe comportato mutamenti di destinazione d’uso, anche se le previsioni divisorie interne e le modifiche alle aperture esistenti non pregiudicano tale possibilità; c) non si può ritenere dalla documentazione esistente che sussista il requisito dell’imprenditore agricolo a titolo principale e anzi, deve ritenersi, tale qualifica non sussiste.
La legge invocata 28/01/1977, n. 10 all’articolo 9 prevede (prevedeva perché trattasi di articolo abrogato dall'articolo 136, comma 1, lettera c), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 01.01.2002; tuttavia applicabile ratione temporis, poiché l’intervento è degli anni novanta e il ricorso originario dell’anno 1998) che il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto per (lettera a) le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12, L. 09.05.1975, n. 153.
Si intende quindi (tra tante, si veda Consiglio Stato sez. V, 30.08.2005, n. 4424) che l'esonero dal pagamento degli oneri concessori per gli edifici destinati alla conduzione del fondo e alle esigenze dell'imprenditore agricolo, stabilito dalla lett. a), art. 9, l. n. 10 del 1977, spetta soltanto a tutti i soggetti che esercitino l'attività agricola a titolo principale, tanto persone fisiche che persone giuridiche.
Pertanto, una volta accertata la insussistenza della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale, l’esenzione è del tutto ingiustificata, né si giustifica l’accoglimento motivato sulla base di una asserita disparità di trattamento con situazione, invero del tutto differente, di un altro soggetto, anch’egli proprietario di un edificio unifamiliare (che però ricade in zona diversamente classificata dal PRG), che non sarebbe esonerato da tale obbligazione, a fronte di un intervento edilizio medesimo avente le medesime caratteristiche.
A meno di non incorrere in una interpretazione arbitraria, si deve soltanto accertare, a tal fine –salvo valutare altresì la natura dell’intervento realizzato– se sussiste il requisito della imprenditore agricolo a titolo principale (che è oggetto di una specifica disciplina, ora a seguito della c.d. Legge di orientamento sull’imprenditore agricolo), in quanto solo in tal caso sussiste il diritto (e invero ovviamente la ragione legislativa) alla esenzione del contributo di concessione per le opere da realizzare in zona agricola.
Con riguardo alla effettiva natura dell’intervento, è evidente che non possa essere accolta la tesi della parte appellata, riproposta in memoria, secondo cui si tratterebbe nella specie soltanto di restauro o risanamento conservativo.
Sia sufficiente osservare come in relazione alla natura di ristrutturazione dell’intervento si sono espressi con chiarezza sia la verificazione sia lo stesso primo giudice, che ha accolto il ricorso, come visto, sulla base di diverso iter logico interpretativo. Né, al riguardo, l’appellata ha fornito argomenti in grado di sovvertire le conclusioni del verificatore.
La caratteristica degli interventi di mero restauro è quella di essere effettuati mediante interventi che non comportano l’alterazione delle caratteristiche edilizie dell’immobile da restaurare, rispettando gli elementi formali e strutturali dell’immobile stesso, dovendosi privilegiare la funzione di ripristino della individualità originaria dell’immobile (Cassazione penale, III, 01.09.2009, n. 33536), mentre la ristrutturazione edilizia si caratterizza per essere idonea ad introdurre un quid novi rispetto al precedente assetto dell’edificio.
Nella specie è stato demolito il secondo corpo di fabbrica e parzialmente ricostruito con pareti portanti dal piano terra al piano primo a sostegno del solaio e le opere realizzate sono tali da essere definite variazioni essenziali recanti il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio; il verificatore aggiunge che non è da escludersi –e anzi tutte le circostanze di fatto portano a ritenerlo probabile- il successivo mutamento di destinazione d’uso da agricolo a residenziale.
La mancanza del requisito dell’imprenditore agricolo a titolo principale è sufficiente a ritenere dovuto il contributo concessorio e insussistente il diritto alla esenzione, legato a ipotesi tassative.
Inoltre, va aggiunto che ai fini del mutamento di destinazione d’uso (nella specie, da agricola a residenziale) si ritiene che comporti aumento del carico urbanistico il passaggio tra due categorie funzionalmente autonome, in quanto il mutamento di destinazione d’uso, in sé, nella specie (per tali considerazioni, si veda di recente tra varie Cons. Stato, V, 30.08.2013, n. 4326) a differenza di quanto sostiene l’appellata, comporta un maggiore carico urbanistico, al quale si correla la imposizione di pagamento
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.12.2013 n. 6005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, da definirsi esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra “categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico”, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico; parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione, anche senza opere.
Deve quindi riconoscersi in capo alle Amministrazioni locali il potere, in caso di mutamento d’uso senza opere edilizie in contrasto con le previsioni urbanistiche, di ordinare la rimessione in pristino, per evitare un illecito ed irreversibile cambio di destinazione urbanistica non accompagnato da adeguate misure per fare fronte all'aumentato carico urbanistico.

Secondo la giurisprudenza di questo Tribunale, la specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere letta e interpretata alla luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più generali risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) e anche dalla stessa legge regionale 12/2005.
Quest’ultima, in particolare, all’art. 51, comma 1, se da una parte ammette in via di principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento urbanistico generale (“...salvo quelle eventualmente escluse dal PGT…”).
L’art. 52, comma 2, del resto, prevede per i mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti mutamenti siano “...conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria …”. Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR 380/2001, qualifica come “variazione essenziale”, sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino, il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, da definirsi esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra “categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico”, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.7.2010, n. 4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione, anche senza opere (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Deve quindi riconoscersi in capo alle Amministrazioni locali il potere, in caso di mutamento d’uso senza opere edilizie in contrasto con le previsioni urbanistiche, di ordinare la rimessione in pristino, per evitare un illecito ed irreversibile cambio di destinazione urbanistica non accompagnato da adeguate misure per fare fronte all'aumentato carico urbanistico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 15.10.2013 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE’ vero che il Consiglio di Stato con decisione n. 525/1982 ha affermato che allo stato della legislazione del ’42, pur tenendo conto delle modifiche del ’67 (legge 06.08.1967, n. 765), del ’68 (legge 19.11.1968, n. 1187) e del ’77 (legge 28.01.1977, n. 10) si possa ritenere incontroversa l’irrilevanza urbanistica del mero uso degli immobili, con conseguente non necessità di concessione o autorizzazione.
E’ parimenti pacifico che il quadro, sia normativo che giurisprudenziale, sia poi mutato: la giurisprudenza ha evidenziato la non irrilevanza dei mutamenti in questione sul piano urbanistico, avuto in particolare riguardo alle differenti dotazioni di standards, riconducibili alle varie tipologie d'uso degli immobili stessi, anche inseriti nella medesima zona territoriale omogenea.
L'art. 25, u.c., della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso nell'art. 10, comma 2, del T.U., approvato con D.P.R. n. 380/2001 cit.) ha rinviato la soluzione della complessa tematica in ambito locale, disponendo che siano le leggi regionali a stabilire "quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti" debbano essere subordinati a concessione (oggi permesso di costruire) e quali a mera autorizzazione, con ciò profilando comunque la necessità di un regime minimo di regolazione.

E’ vero che, come sostengono gli appellanti, il Consiglio di Stato con decisione 525/1982 del 28.07.1982 ha affermato che allo stato della legislazione del ’42, pur tenendo conto delle modifiche del ’67 (legge 06.08.1967, n. 765), del ’68 (legge 19.11.1968, n. 1187) e del ’77 (legge 28.01.1977, n. 10) si possa ritenere incontroversa l’irrilevanza urbanistica del mero uso degli immobili, con conseguente non necessità di concessione o autorizzazione; ed è altresì vero che, sulla base di tale affermazione, il Consiglio di Stato ha annullato la variante al PRG di Roma approvata nel ’79 nella parte in cui conteneva prescrizioni concernenti la zona B che imponevano limiti al cambiamento di destinazione d’uso (da residenziale a non residenziale).
Non v’è quindi dubbio che all’indomani della decisione demolitoria, il mutamento di destinazione d’uso senza opere fosse da considerare attività dal punto di vista urbanistico/edilizio non necessitante di alcun titolo, salvi i controlli in ordine all’abitabilità, o al legittimo esercizio dell’attività (cfr. pagg. 45 e 46 della decisione).
E’ parimenti pacifico che il quadro, sia normativo che giurisprudenziale, sia poi mutato: la giurisprudenza ha evidenziato la non irrilevanza dei mutamenti in questione sul piano urbanistico, avuto in particolare riguardo alle differenti dotazioni di standards, riconducibili alle varie tipologie d'uso degli immobili stessi, anche inseriti nella medesima zona territoriale omogenea (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24).
L'art. 25, u.c., della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso nell'art. 10, comma 2, del T.U., approvato con D.P.R. n. 380/2001 cit.) ha rinviato la soluzione della complessa tematica in ambito locale, disponendo che siano le leggi regionali a stabilire "quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti" debbano essere subordinati a concessione (oggi permesso di costruire) e quali a mera autorizzazione, con ciò profilando comunque la necessità di un regime minimo di regolazione (al riguardo Cons. St., sez. IV, 29.05.2008, n. 2561) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Destinazione d'uso e strumenti di pianificazione.
La destinazione d’uso è un elemento che qualifica la connotazione dell’immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto l’aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
Soltanto gli strumenti di pianificazione, generali ed attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la destinazione d’uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi.
L’organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull’organizzazione dei servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione ottimale del territorio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2013 n. 38005 - tratto da www.lexambiente.it).
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SENTENZA
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Modica, con sentenza del 15.06.2012, ha affermato la responsabilità penale di Fa.Gi. in ordine ai reati di cui:
   - all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380/2001 [per avere effettuato il cambio di destinazione d'uso di un fabbricato, originariamente destinato a "magazzino e locale tecnico" in "officina di elettrauto ed ufficio e deposito ricambi dell'attività di elettrauto" in contrasto con le previsioni del piano regolatore generale vigente nel Comune di Ispica, che destinava la zona ad usi agricoli indifferenziati (zona E) - acc. il 05.02.2009);
   - agli artt. 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001 [per avere iniziato la costruzione di una tettoia avente superficie di mq. 22,31, in pilastrini e travetti in ferro, senza la preventiva autorizzazione dell'ufficio del Genio civile] e, unificati i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81 cpv. cod. pen., lo ha condannato alla pena complessiva di euro 12.000,00 di ammenda, ordinando la demolizione della tettoia ai sensi dell'art. 98 del T.U. n. 380/2001.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il Fa., il quale ha eccepito, sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione:
   - la insussistenza e la inconfigurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, poiché l'intervento edilizio contestato (per il quale in data 19.03.2008 era stata presentata domanda di autorizzazione edilizia per manutenzione ordinaria e straordinaria) avrebbe riguardato un immobile "a destinazione libera", in quanto costruito in epoca anteriore sia all'emanazione delle norme che hanno introdotto l'istituto della licenza edilizia sia all'adozione del P.R.G. del Comune di Ispica, che ha posto le previsioni di zonizzazione che si assumono violate;
   - la illegittimità dell'ordine di demolizione della tettoia, erroneamente correlato alla contestata violazione della normativa antisismica;
   - la carenza assoluta di motivazione in ordine al mancato riconoscimento di circostanze attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena.
CONSIDERATO IN DIRITTO
...
2. Il ricorso, invece, deve essere rigettato nel resto.
2.1
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione dell'immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
Soltanto gli strumenti di pianificazione, generali ed attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la destinazione d'uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso e le modifiche non consentite di queste una gestione ottimale del territorio.

Deve ricordarsi, comunque, che
il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico (ciò che si è appunto verificato nel caso in esame), tenuto conto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistici (anche ai fini contributivi), stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria [vedi Cons. Stato, Sez. V: 03.01.1998, n. 24 e 13.02.1993, n.  245; nonché Cass., Sez. III: 07.12.2006, n. 594/2007 e 22.11.2001, n. 45119].
2.2
Per individuare in concreto il mutamento della precedente destinazione d'uso, merita adesione il principio affermato dalla giurisprudenza amministrativa [vedi, ad esempio, Cons. Stato, Sez. V: 24.10.1996, n. 1268 e 03.01.2001, n. 3] secondo il quale deve tenersi conto:
   - della destinazione indicata nell'ultima licenza o concessione edilizia relativa all'edificio [vedi C. Stato, sez. V, 09.02.2001, n. 583] oppure della tipologia dell'immobile, dovendo considerarsi irrilevante la utilizzazione di fatto;
   - delle attitudini funzionali che il bene stesso viene ad acquisire attraverso l'esecuzione dei nuovi lavori.

La normativa da applicarsi all'intervento modificativo (anche per la determinazione del contributo di costruzione e per l'eventuale conguaglio del contributo originariamente versato) è quella vigente al momento in cui detto intervento viene attuato -in base al principio tempus regit actum- sicché può ritenersi "libero" soltanto il mutamento senza modifiche di carattere edilizio intervenuto nella vigenza della legge n. 1150/1942, come modificata dalla legge n. 765/1967, che non imponeva alcuna previa autorizzazione nel caso in cui il cambio di destinazione venisse attuato senza opere.
Nella fattispecie in esame, invece, il mutamento di destinazione è stato attuato in epoca successiva all'entrata in vigore sia della legge statale n. 10/1977 sia della normativa regionale e di quella comunale di recepimento, sicché per l'intervento effettivamente eseguito in nessun caso poteva intervenire alcun valido titolo abilitante, stante il contrasto con le previsioni di piano e, conseguentemente, con la determinazione degli standard.

EDILIZIA PRIVATA: In tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il potere-dovere del giudice di ordinare, ai sensi dell'art. 98, 3° comma, del d.P.R. n. 380/2001, la demolizione dell'immobile in caso di condanna per i reati previsti dallo stesso T.U. sussiste soltanto con riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le violazioni meramente formali.
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SENTENZA
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Modica, con sentenza del 15.06.2012, ha affermato la responsabilità penale di Fa.Gi. in ordine ai reati di cui:
   - all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380/2001 [per avere effettuato il cambio di destinazione d'uso di un fabbricato, originariamente destinato a "magazzino e locale tecnico" in "officina di elettrauto ed ufficio e deposito ricambi dell'attività di elettrauto" in contrasto con le previsioni del piano regolatore generale vigente nel Comune di Ispica, che destinava la zona ad usi agricoli indifferenziati (zona E) - acc. il 05.02.2009);
   - agli artt. 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001 [per avere iniziato la costruzione di una tettoia avente superficie di mq. 22,31, in pilastrini e travetti in ferro, senza la preventiva autorizzazione dell'ufficio del Genio civile] e, unificati i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81 cpv. cod. pen., lo ha condannato alla pena complessiva di euro 12.000,00 di ammenda, ordinando la demolizione della tettoia ai sensi dell'art. 98 del T.U. n. 380/2001.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il Fa., il quale ha eccepito, sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione:
   - la insussistenza e la inconfigurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, poiché l'intervento edilizio contestato (per il quale in data 19.03.2008 era stata presentata domanda di autorizzazione edilizia per manutenzione ordinaria e straordinaria) avrebbe riguardato un immobile "a destinazione libera", in quanto costruito in epoca anteriore sia all'emanazione delle norme che hanno introdotto l'istituto della licenza edilizia sia all'adozione del P.R.G. del Comune di Ispica, che ha posto le previsioni di zonizzazione che si assumono violate;
   - la illegittimità dell'ordine di demolizione della tettoia, erroneamente correlato alla contestata violazione della normativa antisismica;
   - la carenza assoluta di motivazione in ordine al mancato riconoscimento di circostanze attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Solo il secondo motivo di ricorso è fondato e deve essere accolto.
In tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, infatti, il potere-dovere del giudice di ordinare, ai sensi dell'art. 98, 3° comma, del d.P.R. n. 380/2001, la demolizione dell'immobile in caso di condanna per i reati previsti dallo stesso T.U. sussiste soltanto con riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le violazioni meramente formali, quale quella contestata nella fattispecie in esame [vedi Cass., Sez. III: 03.07.2007, n. 37322, Borgia; 19.12.2003, n. 48685, Munafò; 17.01.2001, n. 317, Di Ienno; 15.03.1994, n. 3113, Campisi].
La sentenza impugnata, conseguentemente, deve essere annullata senza rinvio, limitatamente all'ordine di demolizione in essa disposto, che va eliminato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2013 n. 38005 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALe controversie relative al pagamento di contributi per il rilascio delle concessioni edilizie riguardano diritti soggettivi concernenti un rapporto obbligatorio pecuniario e non interessi legittimi: esse non sottostanno, pertanto, ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di prescrizione che, nel caso di contributi di concessione, risultano essere decennali.
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Il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé ma nella necessità di redistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità eque per la comunità–, con la conseguenza che anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
Al contrario qualora il mutamento di destinazione d’uso non determina l’incremento del carico urbanistico il pagamento dei relativi oneri non è dovuto, essendo privo di causa.

... per l'accertamento del diritto delle Società ricorrenti alla restituzione degli importi dalle stesse corrisposti al Comune di Cattolica per oneri di urbanizzazione e monetizzazione di due posti auto per il rilascio del permesso di costruire per il cambio di destinazione d'uso da "commercio al dettaglio" - B 2.1- ad “artigianato dei servizi alla persona" B3.1 di n. 2 unità immobiliari ubicate in Cattolica;
...
Le società ricorrenti, rispettivamente proprietaria del fabbricato e conduttrice dell’immobile, presentavano una richiesta di rilascio di permesso di costruzione per ottenere il cambio di destinazione d’uso da “negozio” a “centro benessere-solarium”.
Su richiesta del Comune provvedevano al pagamento della somma quantificata dallo stesso per “monetizzazione” di numero due posti auto “P3”.
Ritenendo non dovuto il pagamento dei suddetti oneri con il presente ricorso hanno chiesto la restituzione delle somme pagate, oltre agli interessi legali.
Si è costituito in giudizio il Comune intimato che ha controdedotto alle avverse doglianze, ed ha eccepito l’inammissibilità del ricorso sotto vari profili e, comunque, concluso per il rigetto dello stesso.
La causa è stata trattenuta in decisione all’odierna udienza.
Va, preliminarmente, respinta l’eccezione di difetto di legittimazione passiva, sulla quale insiste il comune con la memoria di costituzione in quanto il pagamento non sarebbe stato effettuato dagli attuali ricorrenti.
Va, infatti, rilevato che la richiesta del permesso di costruzione è stata avanzata dall’attuale ricorrente così come il titolo edilizio è stato alla stessa rilasciato.
Anche il pagamento degli oneri quantificati dal Comune, quale condizione per il rilascio del titolo edilizio, è stato richiesto all’attuale ricorrente.
La circostanza che il pagamento sia avvenuto, su incarico dei ricorrenti e, quindi, quale pagamento riferibile alle società ricorrenti (quindi in nome e per conto), accettato dal Comune, da parte di una terza società (che le ricorrenti indicano quale conduttrice) non significa che il pagamento non sia riferibile, quale pagamento rappresentativo, ai titolare del permesso di costruzione ai quali, quindi, spetta l’azione per la restituzione di quanto eventualmente indebitamente corrisposto.
Va, altresì, respinta l’eccezione di tardività dell’azione proposta. Infatti, le controversie relative al pagamento di contributi per il rilascio delle concessioni edilizie riguardano diritti soggettivi concernenti un rapporto obbligatorio pecuniario (TAR Potenza Basilicata, sez. I, 08.03.2013, n. 126) e non interessi legittimi: esse non sottostanno, pertanto, ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di prescrizione (Cons. di Stato, Sez. IV, 04.11.2011, n. 5852 e Sez. V, 06.12.1999, n. 2056) che, nel caso di contributi di concessione, risultano essere decennali (Consiglio di Stato, sez. VI, 31.05.2013, n. 2996).
A tal fine, pertanto, è perfettamente ammissibile l’utilizzo dello strumento processuale dell’azione di accertamento (TAR Potenza Basilicata, sez. I, 08.03.2013, n. 126) e della conseguente condanna la restituzione degli importi eventualmente dovuti perché indebitamente pagati.
Nel merito in linea di diritto va osservato che, per costante giurisprudenza (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 10.06.2010 n. 1787; TAR Lombardia, Brescia, 07.11.2005 n. 1115), il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé ma nella necessità di redistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime –secondo modalità eque per la comunità–, con la conseguenza che anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
Al contrario qualora il mutamento di destinazione d’uso non determina l’incremento del carico urbanistico il pagamento dei relativi oneri non è dovuto, essendo privo di causa.
Nel caso concreto, come previsto nel titolo edilizio, il cambio di destinazione è avvenuto dalla categoria B2.1. “Commercio al dettaglio”, alla categoria B3.1. “Artigianato dei servizi alla persona” per i quali è prevista la dotazione di parcheggi pertinenziali (P2 e P3).
L’articolo 3.3. delle Norme di Attuazione del PRG, prodotte in giudizio dal Comune, per quanto concerne la tabella di parcheggi pertinenziali, oggetto del presente giudizio, non prevede alcun incremento del carico urbanistico essendo previsto “1 p.a. ogni 40 mq. Di SC, tutti di tipo P3” per entrambi gli usi.
E’, infatti, lo stesso titolo edilizio che richiede la monetizzazione di due posti auto P3 per il cambio di destinazione d’uso in parola.
Come rilevato dalla giurisprudenza (TAR Bologna, sez. I, 239/2012), al cambio di destinazione d’uso segue la corresponsione di un contributo di urbanizzazione pari alla differenza tra gli oneri dovuti per la destinazione originaria e quelli eventualmente più elevati della nuova destinazione d’uso, risolvendosi altrimenti la riscossione di una somma maggiore in un pagamento privo di causa.
Poiché nel caso in esame tale presupposto non ricorre, non essendo previsti per i parcheggi P3, per il cambio di destinazione in parola, alcun incremento di carico urbanistico, sussiste l’obbligo di restituzione ai ricorrenti di quanto versato a tale titolo.
Detta somma andrà, poi, incrementata degli interessi legali dalla data di proposizione della domanda giudiziale fino al soddisfo (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.12.2006 n. 2901) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 06.09.2013 n. 601 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio è principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, la cui “ratio”, come chiarito dalla giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la modifica della destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del richiedente".
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Qualora la concessione edilizia sia stata rilasciata senza l'onere di contributi di urbanizzazione ex art. 18, u.c., l. 28.01.1977 n. 10 è poi legittima la richiesta del Comune di quei contributi per il rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativa a interventi in variante rispetto al progetto originario essendo stato determinato un incremento del peso urbanistico.

Osserva la Sezione che, in caso di cambio di destinazione d'uso l'obbligo di corrispondere il contributo concessorio è principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della legge n. 10/1977, ribadito dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, la cui “ratio”, come chiarito dalla giurisprudenza, è da ricercare nell'esigenza "di evitare che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la modifica della destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del richiedente" (Cons. di Stato, sez. V, 07.12.2010, n. 8620).
E, nella specie, il mutamento di destinazione d'uso attuato dalla ricorrente ha comportato il passaggio della tipologia di intervento da una classe contributiva originaria e meno "pesante" (industriale, appunto) ad un'altra tipologia (commerciale), non solo diversa ma anche più gravosa in termini di carico urbanistico. Si è trattato, cioè, di un cambio di destinazione d'uso intervenuto tra categorie autonome, quella industriale e quella commerciale, che ha comportato un aumento del carico urbanistico con conseguente mutamento degli “standard”. Presupposto, questo, sufficiente, per giurisprudenza unanime, a giustificare la richiesta di contributo per oneri di urbanizzazione.
Trattandosi in ogni caso di un supplemento di contributo urbanistico, l'importo dovuto dalla società ricorrente doveva in ogni caso essere pari alla differenza tra il contributo previsto per la nuova destinazione direzionale ricreativa e quello relativo alla precedente destinazione industriale, ove integralmente versato.
Ma nel caso che occupa, essendo la prima licenza per lavori edilizi anteriore alla entrata in vigore della l. n. 10/1977, non era dovuta la corresponsione di oneri, anche ai sensi dell’art. 18 della legge stessa, e non era scomputabile alcuna somma in precedenza pagata a tale titolo da quanto dovuto a seguito dell’effettuato mutamento di destinazione d’uso.
Prima della entrata in vigore di detta legge non era infatti previsto il pagamento di alcun onere di urbanizzazione o per costo di costruzione, introdotti con gli artt. 5 e 6 della legge suddetta, ed essi non potevano essere stati virtualmente scontati.
Del resto la giurisprudenza è da tempo orientata nel senso che qualora la concessione edilizia sia stata rilasciata senza l'onere di contributi di urbanizzazione ex art. 18, u.c., l. 28.01.1977 n. 10 è poi legittima la richiesta del Comune di quei contributi per il rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativa a interventi in variante rispetto al progetto originario (Consiglio Stato, sez. V, 04.09.2000, n. 4662) essendo stato determinato un incremento del peso urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.08.2013 n. 4326 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi edilizi che comportano modifiche alla destinazione d’uso del fabbricato sul quale incidono, nonché un aumento della superficie dello stesso, non possono essere ricondotti alla categoria della manutenzione straordinaria.
Anche la giurisprudenza, si è orientata nel senso di ritenere che se le opere determinano la modifica di destinazione d’uso ovvero un aumento di superficie dell’immobile, esse vanno qualificate quale intervento di ristrutturazione edilizia.
L’art. 27, primo comma, lett. c), della l.r. 11.03.2005 n. 12, al contrario del citato art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, nel fornire la definizione degli interventi di manutenzione straordinaria, non pone il limite del mantenimento della destinazione d’uso né quello dell’aumento di superficie. Ritiene tuttavia il Collegio che la lacuna contenuta nella legge regionale vada colmata attraverso l’applicazione delle norme statali, posto che queste ultime, nella parte in cui definiscono le categorie di interventi edilizi, vanno considerate quali espressione di principi fondamentali della materia (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 309 del 23.11.2011), e che, quindi, una diversa interpretazione porrebbe inevitabilmente il citato art. 27 in contrasto con l’art. 117, comma terzo, Cost.
Deve pertanto ritenersi che, anche per la normativa regionale, le opere che determinano il cambio di destinazione d’uso o un aumento di superficie dell’immobili su cui incidono vanno qualificate quali interventi di ristrutturazione edilizia.

In base all’art. 3, comma primo, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, possono considerarsi interventi di manutenzione straordinaria “…le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.
Come si vede questa norma è chiara nell’affermare che gli interventi edilizi che comportano modifiche alla destinazione d’uso del fabbricato sul quale incidono, nonché un aumento della superficie dello stesso, non possono essere ricondotti alla categoria della manutenzione straordinaria.
Anche la giurisprudenza, in applicazione di questa norma, si è orientata nel senso di ritenere che se le opere determinano la modifica di destinazione d’uso ovvero un aumento di superficie dell’immobile, esse vanno qualificate quale intervento di ristrutturazione edilizia (cfr. ex multis TAR Emilia Romagna Parma sez. I, 25.05.2011 n. 154).
L’art. 27, primo comma, lett. c), della l.r. 11.03.2005 n. 12, al contrario del citato art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, nel fornire la definizione degli interventi di manutenzione straordinaria, non pone il limite del mantenimento della destinazione d’uso né quello dell’aumento di superficie. Ritiene tuttavia il Collegio che la lacuna contenuta nella legge regionale vada colmata attraverso l’applicazione delle norme statali, posto che queste ultime, nella parte in cui definiscono le categorie di interventi edilizi, vanno considerate quali espressione di principi fondamentali della materia (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 309 del 23.11.2011), e che, quindi, una diversa interpretazione porrebbe inevitabilmente il citato art. 27 in contrasto con l’art. 117, comma terzo, Cost.
Deve pertanto ritenersi che, anche per la normativa regionale, le opere che determinano il cambio di destinazione d’uso o un aumento di superficie dell’immobili su cui incidono vanno qualificate quali interventi di ristrutturazione edilizia
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.07.2013 n. 1985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel nostro ordinamento, ai sensi del noto art. 19 della Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in sintesi estrema, di non pregare a casa propria.
Identico precetto, va aggiunto per completezza, si desume dall’ordinamento europeo, cui ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. il nostro si conforma: in primo luogo, la libertà di religione e di culto è riconosciuta anche dall’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in Italia per la l. 04.08.1955 n. 848; in secondo luogo, la libertà di religione è riconosciuta anche dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza, 07.12.2000, che come è noto ha ora il medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
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Il Comune è senz’altro titolare dell’astratto potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del venerdì o di altra ricorrenza. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza già richiamata e dalla prassi, per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano”.
Allo stesso modo, si ribadisce, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica, e anche di altri culti, può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di istituti, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto accertato dall’autorità, attraverso una corretta e completa istruttoria.

... per l’annullamento, previa sospensione, del provvedimento 24.09.2012 prot. n. 3329 e n. 54/2012 del registro ordinanze, notificato il 01.10.2012, con il quale il Responsabile dell’area tecnica del Comune di Cologne ha ingiunto all’Associazione Dialogo e Convivenza il divieto di effettuare attività di culto (preghiera del venerdì) presso il locale seminterrato del condominio Edera, sito in Cologne alla via ..., a decorrere dalla data di notifica;
...
Ciò posto, va ribadito il rilievo valorizzato per cui nel nostro ordinamento, ai sensi del noto art. 19 della Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in sintesi estrema, di non pregare a casa propria. Identico precetto, va aggiunto per completezza, si desume dall’ordinamento europeo, cui ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. il nostro si conforma: in primo luogo, la libertà di religione e di culto è riconosciuta anche dall’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in Italia per la l. 04.08.1955 n. 848; in secondo luogo, la libertà di religione è riconosciuta anche dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza, 07.12.2000, che come è noto ha ora il medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
In tal senso, la difesa del Comune intimato ha continuato a fondarsi su un presupposto diverso, che però all’evidenza non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del provvedimento che dice altro. Il Comune deduce infatti che il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune è senz’altro titolare dell’astratto potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del venerdì o di altra ricorrenza. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza già richiamata e che qui si riproduce –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi, che pure si torna a citare –in tal senso il parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere stesso).
Allo stesso modo, si ribadisce, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica, e anche di altri culti, può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di istituti, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto accertato dall’autorità, attraverso una corretta e completa istruttoria.
Va quindi accolta la domanda di annullamento del provvedimento 24.09.2012 prot. n. 3329 per cui è causa, e rimane da scrutinare se vada accolta la contestuale domanda risarcitoria, che è espressamente qualificata (ricorso, p. 9 settimo rigo dal basso) come relativa a un danno non patrimoniale da liquidare secondo equità (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.05.2013 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d’uso rilevante.
Il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico; parimenti è stato affermato dalla giurisprudenza che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico.
In altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza l’esecuzione di opere edilizie. Appare poi, altresì, evidente che il passaggio da una prevalente destinazione produttiva ad una prevalentemente residenziale o terziaria implica il passaggio ad un’autonoma categoria funzionale, con incremento del carico urbanistico dovuto alla presenza di persone stabilmente residenti nell’immobile.
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La categoria urbanistica di industria, in quanto assoggettata ad un regime contributivo agevolato, è categoria di stretta interpretazione e "concerne strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica".

Fermo restando quanto sopra, giova in ogni caso ricordare che lo scrivente TAR ha già chiarito (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 24.10.2012, n. 2593 e 27.07.2012, n. 2146), che la specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere letta ed interpretata alla luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più generali risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche dalla stessa legge regionale 12/2005: si verte, infatti, nella materia del “governo del territorio”, oggetto di potestà legislativa regionale concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3°, della Costituzione, con conseguente necessità di rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1° citato, se da una parte ammette in via di principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1°, del DPR 380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire un’operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza l’esecuzione di opere edilizie (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539, con le pronunce in essa richiamate ed anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Appare poi, altresì, evidente che il passaggio da una prevalente destinazione produttiva ad una prevalentemente residenziale o terziaria implica il passaggio ad un’autonoma categoria funzionale, con incremento del carico urbanistico dovuto alla presenza di persone stabilmente residenti nell’immobile (cfr. sul punto anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.05.2009, n. 3859, che in relazione al citato art. 32 delle NTA ha espressamente statuito che: <<...rispetto alla destinazione produttiva la destinazione terziaria o residenziale si caratterizza sotto una serie di profili tutt’altro che secondari: comporta il pagamento di un contributo di costruzione più elevato e il conferimento di standard urbanistici in misura maggiore>>).
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La giurisprudenza, peraltro, chiamata a pronunciarsi in tema di cambi di destinazione d'uso, ha avuto modo di chiarire che la categoria urbanistica di industria, in quanto assoggettata ad un regime contributivo agevolato, è categoria di stretta interpretazione e "concerne strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica" (Cons. Stato, sez. V, 19.06.2012 n. 3561; cfr. altresì Cons. Stato, Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; TAR Sardegna, 27.10.2003, n. 1299) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.04.2013 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACds: per il cambio di destinazione serve l'ok del comune.
Non basta la Scia. Da magazzino a bar? Se permesso.
Il carico urbanistico che grava su di un bar è certamente superiore a quello che può interessare un magazzino. Di conseguenza la modifica della destinazione d'uso tra le due diverse categorie deve essere formalmente autorizzata dal Comune e non è sufficiente la presentazione di una denuncia di inizio attività (ora Scia); e ciò, anche se non sono state apportate modifiche all'immobile.

Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 18.04.2013 n. 2153 ha chiarito che il cambio di destinazione non può essere riportato alla medesima classe del magazzino originariamente autorizzato dal Comune, posto che, come è evidente, ben diverse sono le caratteristiche proprie dell'uno e dell'altro utilizzo e, di conseguenza, diversi sono i parametri ai quali deve essere conformata l'opera edilizia all'uno o all'altro dedicata.
Senza contare che la diversa tipologia del carico urbanistico proprio della destinazione a sala ristorante e bar rispetto a quello proprio del magazzino non consentono l'assenso mediante semplice procedura di Dia, che l'art. 57, comma 14, della legge regionale della Calabria 19/2002, consente per il mutamento della destinazione d'uso, alla specifica condizione che dalla stessa non derivi la necessità di dotazioni aggiuntive di standard e servizi pubblici e privati. Nel caso specifico, è stato ritenuto illegittimo il comportamento dell'Ente nel non aver accertato se dal mutamento realizzato derivasse la necessità di dotazioni aggiuntive, ovvero se risultasse il rispetto degli standard urbanistici.
Nonostante tale circostanza, tuttavia, non è stata accolta la richiesta di risarcimento del danno presentata dalla ricorrente originaria, posto che la relativa domanda era sfornita di prova circa la sussistenza del dolo o della colpa dell'Amministrazione. Ciò in quanto il danno non è rilevabile dal mero atto illegittimo, che comporterebbe l'identificazione della illegittimità con il danno, mentre la domanda di risarcimento è, anche nel processo amministrativo, regolata dal principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ., in base al quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve indicare e provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (articolo ItaliaOggi dell'11.05.2013).

EDILIZIA PRIVATAAi fini di ritenere integrato un cambio di destinazione d’uso è sufficiente che sia intervenuto un “completamento funzionale”, nel senso che le opere, pur non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali e con le caratteristiche idonee ad assolvere la funzione cui sono destinate: in altri termini, l’immobile deve risultare già fornito di opere indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello asserito, in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria destinazione.
Proprio questa è la situazione che si è venuta a determinare nel caso di specie, laddove nel vano de quo sono sicuramente presenti opere funzionali ad una destinazione (lavanderia) diversa da quella originaria (cantina).

Ai fini di ritenere integrato un cambio di destinazione d’uso –secondo la giurisprudenza– è sufficiente che sia intervenuto un “completamento funzionale”, nel senso che le opere, pur non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali e con le caratteristiche idonee ad assolvere la funzione cui sono destinate: in altri termini, l’immobile deve risultare già fornito di opere indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello asserito, in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria destinazione (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, n. 12734 del 2005; TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, n. 837 del 2007).
Proprio questa è la situazione che si è venuta a determinare nel caso di specie, laddove nel vano de quo sono sicuramente presenti opere funzionali ad una destinazione (lavanderia) diversa da quella originaria (cantina) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il sopravvenire di una disciplina urbanistica, in assenza di atti di assensi del Comune a istanze di mutamento di destinazione, non può ex se mutare le destinazioni formalizzate a catasto.
Infatti il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie catastali possono anche aversi mutamenti di fatto, ma che, come tali, sono irrilevanti sul piano urbanistico.
In un caso identico la giurisprudenza aveva espressamente ricordato come l'abuso eventualmente commesso dal proprietario -che destina a scopi commerciali una parte di un immobile con destinazione industriale- non vale in alcun caso ad imprimere allo stesso una destinazione formale diversa da quella risultante cartolarmente.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque soltanto quello che interviene legittimamente tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, posto che il mutamento di fatto, da “produttivo" ad attività di commercio all'ingrosso -o anche al dettaglio- non configura come un mutamento di destinazione d'uso giuridicamente ed urbanisticamente rilevante.

Di fronte alla qualificazione catastale in cat. D/1, irrilevante appare poi in ogni caso che la destinazione “di fatto” sarebbe tra quelle ammissibili in zona BB dalle sopravvenute previsioni urbanistiche, in quanto riconducibile alla “funzione di servizi”, ed in particolare tra quelle previste all’articolo 43. 4.7 lett. a) n.d.a. del PUC “connettivo urbano”.
Il sopravvenire di una disciplina urbanistica, in assenza di atti di assensi del Comune a istanze di mutamento di destinazione, non può ex se mutare le destinazioni formalizzate a catasto.
Infatti il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie catastali possono anche aversi mutamenti di fatto (cfr. Consiglio Stato, sez. V 22.03.2010 n. 1650), ma che, come tali, sono irrilevanti sul piano urbanistico.
In un caso identico la giurisprudenza aveva espressamente ricordato come l'abuso eventualmente commesso dal proprietario -che destina a scopi commerciali una parte di un immobile con destinazione industriale- non vale in alcun caso ad imprimere allo stesso una destinazione formale diversa da quella risultante cartolarmente (cfr. Consiglio Stato sez. V 11.06.2003 n. 3295).
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque soltanto quello che interviene legittimamente tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, posto che il mutamento di fatto, da “produttivo" ad attività di commercio all'ingrosso -o anche al dettaglio- non configura come un mutamento di destinazione d'uso giuridicamente ed urbanisticamente rilevante (cfr. Consiglio Stato sez. V 13.02.1993 n. 245) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1712 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa trasformazione di un magazzino e di un deposito in superfici commerciali e la previsione, al primo piano, di uffici in luogo di locali residenziali configurano modifiche della destinazione d'uso rilevanti, intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti incidenti sul carico urbanistico.
Correttamente, l’amministrazione ha escluso che l’intervento possa qualificarsi quale “manutenzione straordinaria", proprio in considerazione della previsione di una modifica della destinazione d'uso di alcune porzioni dell’immobile.
Invero, ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. b), sono opere di manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici” a condizione, però, che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Il Collegio non condivide la tesi del ricorrente secondo cui le opere previste in progetto sarebbero riconducibili alla manutenzione straordinaria in forza delle previsione di cui all’art. 51, l. reg. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “i mutamenti di destinazione d'uso, conformi alle previsioni urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere edilizie, non mutano la qualificazione dell’intervento”.
La normativa regionale, invero, deve essere interpretata alla luce dei principi fondamentali della materia “governo del territorio”, quali sono le definizioni delle categorie di interventi edilizi dettate all’art. 3, d.P.R. n. 380/2001 (C. Cost., 23.11.2011, n. 309).

Con il provvedimento prot. n. 7842 del 28.8.2011 e con il provvedimento prot. n. 7838 del 28.02.2011 il Comune di Gallarate ha rigettato, rispettivamente, l’istanza di autorizzazione paesaggistica e l’istanza di permesso di costruire presentate dal sig. C.Z., ritenendo che l’intervento edilizio proposto, poiché prevede un cambio di destinazione d'uso e l’esecuzione di opere non qualificabili quale manutenzione straordinaria, si ponga in contrasto con il piano di governo del territorio, adottato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 57 del 04.10.2010 ed ha quindi disposto l’applicazione delle misure di salvaguardia, ai sensi dell’art. 13, c. 12, l. reg. Lombardia n. 12/2005.
In particolare, l’amministrazione ha ravvisato un contrasto con l’art. 71 del piano delle regole, norma che, negli ambiti territoriali a trasformazione urbanistica, in pendenza della approvazione dei piani attuativi o degli atti di programmazione negoziata, consente unicamente interventi di conservazione degli edifici esistenti sino alla manutenzione straordinaria come definita dall’art. 27, c. 1, lett. b), (e, nella versione definitiva, sino alla ristrutturazione), senza modifica della destinazione d'uso.
...
L’art. 71 del piano delle regole è chiaro nel vietare modificazioni della destinazione d'uso nelle more della approvazione dei piani attuativi.
Nel caso di specie, la realizzazione di mutamenti della destinazione d'uso è chiaramente evincibile dalla descrizione delle opere, contenuta nell’istanza di permesso di costruire e dalle tavole ad essa allegate.
Né può obiettarsi, come fa il ricorrente, che si tratti di meri “spostamenti di usi esistenti”: la trasformazione di un magazzino e di un deposito in superfici commerciali e la previsione, al primo piano, di uffici in luogo di locali residenziali configurano modifiche della destinazione d'uso rilevanti, intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti incidenti sul carico urbanistico.
Correttamente, inoltre, l’amministrazione ha escluso che l’intervento possa qualificarsi quale “manutenzione straordinaria", proprio in considerazione della previsione di una modifica della destinazione d'uso di alcune porzioni dell’immobile.
Invero, ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. b), sono opere di manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici” a condizione, però, che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso.
Il Collegio non condivide la tesi del ricorrente secondo cui le opere previste in progetto sarebbero riconducibili alla manutenzione straordinaria in forza delle previsione di cui all’art. 51, l. reg. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “i mutamenti di destinazione d'uso, conformi alle previsioni urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere edilizie, non mutano la qualificazione dell’intervento”.
La normativa regionale, invero, deve essere interpretata alla luce dei principi fondamentali della materia “governo del territorio”, quali sono le definizioni delle categorie di interventi edilizi dettate all’art. 3, d.P.R. n. 380/2001 (C. Cost., 23.11.2011, n. 309).
In ogni caso, nella fattispecie oggetto del presente giudizio, la qualificazione dell’intervento non assume rilievo decisivo (la nuova versione dell’art. 71 del piano delle regole consente, invero, anche gli interventi di ristrutturazione edilizia): ciò che rileva è, piuttosto, la realizzazione di mutamenti di destinazione d'uso, chiaramente vietata dal piano di governo del territorio.
Poiché, quindi, l’intervento edilizio in questione prevede un mutamento di destinazione d'uso, esso si pone in contrasto con l’art. 71 del piano delle regole del p.g.t.: legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha dato applicazione alle misure di salvaguardia ed ha sospeso ogni determinazione sulla domanda di permesso di costruire, conformemente alla previsione di cui all’art. 36, l. reg. Lombardia n. 12/2005.
Il provvedimento non è viziato da difetto di motivazione, indicando chiaramente nel cambio di destinazione d'uso la ragione per la quale le opere non sono qualificabili quale manutenzione straordinaria e si pongono in contrasto con le previsioni del p.g.t. adottato.
Non sussiste parimenti la violazione dell’art. 38, l. reg. Lombardia n. 12/2005: la norma pone in capo al responsabile del procedimento la facoltà di richiedere modifiche, ma solo nel caso in cui queste siano di modesta entità, circostanza che non ricorre nel caso di specie.
Né è causa di illegittimità del provvedimento impugnato la richiesta di integrazioni documentali sugli aspetti paesaggistici del progetto, necessaria stante l’inclusione del Comune di Gallarate nel Piano Lombardo del Ticino.
Non è poi configurabile il vizio di eccesso di potere -per contraddittorietà rispetto ai precedenti atti comunali assunti nel corso del procedimento- il quale presuppone l’esercizio di un potere discrezionale, nella specie insussistente.
In considerazione della natura vincolata del potere esercitato e della correttezza del contenuto dispositivo del provvedimento impugnato, le lamentate violazioni degli artt. 10-bis, 7 della l. n. 241/1990 e degli artt. 36 e 37, l. Regione Lombardia n. 12/2005 (poiché il provvedimento prot. 7837 del 28.2.2011 sarebbe stato sottoscritto dal funzionario responsabile del procedimento e non dal dirigente capo del servizio), anche ove fondate, non causerebbero l’annullamento del provvedimento impugnato, così come previsto all’art. 21-octies, l. n. 241/1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.03.2013 n. 760 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio destinazione d'uso in Lombardia - Commento al parere della Regione Lombardia del 10.01.2013 (16.03.2013 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Mutamento della destinazione d’uso senza opere edilizie (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, risposta e-mail del 20.07.2012 + ulteriore e complementare risposta e-mail del 10.01.2013).
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Lo scorso 23.07.2012 abbiamo pubblicato l'interessante quesito redatto dall'U.T. di un comune bergamasco con annessa risposta regionale.
Tuttavia, lo stesso comune ha richiesto -dopo poche settimane- un ulteriore chiarimento in materia [circa il fatto che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 309 del 23.11.2011 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui disapplica l’art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia)] ... e la relativa risposta del 10.01.2013 è sopra linkata.
11.03.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d’uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce un’attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l’uso del territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica.
Il cambio di categoria edilizia, da residenziale a terziario -comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione di standards, specie di parcheggi- rende ininfluente la circostanza che tale modifica avvenga o meno con l’effettuazione di opere edilizie.
La giurisprudenza, dunque, afferma la necessità della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per tale tipologia di interventi, al posto della DIA; la DIA è invece sufficiente laddove il semplice cambio di destinazione d’uso sia stato effettuato senza opere evidenti in quanto non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto dell’area.
Più precisamente la Cassazione ha sancito che in materia edilizia, le opere interne hanno proprie peculiari caratteristiche -rispetto agli interventi di trasformazione del patrimonio edilizio esistente, ovvero di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia- devono pertanto essere considerate nel loro complesso onde stabilirne il regime urbanistico applicabile, con la conseguenza che occorre la concessione edilizia allorché esse determinino un mutamento della destinazione d’uso o diano origine ad un organismo in tutto o in parte nuovo.
La nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee.
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Nella specie, il cambio di destinazione d’uso è avvenuto tra categorie diverse e cioè da residenziale a terziario e ciò, comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione di standards, specie di parcheggi, rende ininfluente la circostanza che tale modifica sia avvenuta o meno con l’effettuazione di opere edilizie.

E’ controversa nel presente giudizio la legittimità del provvedimento con il quale la resistente amministrazione comunale di Avellino ha sanzionato, con l’ingiunzione del ripristino dello stato dei luoghi, il mutamento di destinazione d’uso dell’appartamento di proprietà del ricorrente, sito al secondo piano di via ..., siccome adibito, senza preventiva autorizzazione, a studio commerciale in luogo dell’originaria destinazione residenziale.
L’ordinanza è contestata dal ricorrente che oppone l’esistenza di un mero mutamento funzionale dell’immobile, realizzato senza opere edilizie, in conformità alla normativa urbanistica vigente nel 1997, epoca dell’avvenuto mutamento.
In sostanza, i ricorrenti invocano la costante giurisprudenza del Giudice Amministrativo (sin da Cons. Stato, sez. IV, 27.07.1982, n. 525) secondo cui «il semplice cambio di destinazione d'uso, effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio ricade» (così TAR Lazio-Roma, sez. I-quater, 24.05.2011, n. 4622);
Sostengono che, all'epoca dell'indicato cambiamento di destinazione d'uso (da residenziale a studio professionale) la Regione Campania non aveva ancora legiferato in materia e, comunque, l’attività di studio professionale impressa all’immobile fin dal 1977 era conforme alle previsioni dell'allora vigente Piano Regolatore Generale di Avellino, siccome ricadente in zona “B - residenziale”.
La tesi attorea, pur finemente esposta e doviziosamente argomentata, non ha pregio atteso che la giurisprudenza ha chiarito che:
- il cambio di destinazione d’uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce un’attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l’uso del territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Cons. St. Sez. I 25.05.2012 n. 759; Cons. St. Sez. V 10.07.2003 n. 4102; 03.01.1998 n. 24; 28.05.2010 n. 3420);
- il cambio di categoria edilizia, da residenziale a terziario -comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione di standards, specie di parcheggi- rende ininfluente la circostanza che tale modifica avvenga o meno con l’effettuazione di opere edilizie. La giurisprudenza, dunque, afferma la necessità della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) per tale tipologia di interventi, al posto della DIA; la DIA è invece sufficiente laddove il semplice cambio di destinazione d’uso sia stato effettuato senza opere evidenti in quanto non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto dell’area. Più precisamente la Cassazione ha sancito che in materia edilizia, le opere interne hanno proprie peculiari caratteristiche -rispetto agli interventi di trasformazione del patrimonio edilizio esistente, ovvero di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia- devono pertanto essere considerate nel loro complesso onde stabilirne il regime urbanistico applicabile, con la conseguenza che occorre la concessione edilizia allorché esse determinino un mutamento della destinazione d’uso o diano origine ad un organismo in tutto o in parte nuovo (cfr. Cass. Pen., sez. III, 15.03.2002, n. 19378);
- la nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee (cfr. Cons. St., sez. V, 07.09.2004, n. 5867);
Nella specie, il cambio di destinazione d’uso è avvenuto tra categorie diverse e cioè da residenziale a terziario e ciò, comportando diverso carico urbanistico e connessa dotazione di standards, specie di parcheggi, rende ininfluente la circostanza che tale modifica sia avvenuta o meno con l’effettuazione di opere edilizie (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 08.03.2013 n. 580 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano”.
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera sia non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire.

... per l'annullamento del provvedimento 97149/12 P.G. adottato in data 07.11.2012 dal Responsabile del Settore “Sportello Unico dell’Edilizia” del Comune di Brescia attraverso il quale è stato ordinato all’Associazione Culturale Al-Noor Brescia – Italia di ripristinare la destinazione d’uso autorizzata “commerciale” nell’unità immobiliare sita in via F.lli Bonardi n. 9, piano terra, individuabile al NCT fg. 26, part. 132 sub. 12, con l’avvertimento che “per poter utilizzare in futuro i locali a Centro Culturale e/o a sede associativa e centro di culto, dovrà essere richiesto ed ottenuto il necessario permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-bis, L.R. 11.03.2005 n. 12, così come previsto dalle norme regionali sopradescritte, ed una nuova certificazione di agibilità”, nonché di ogni atto presupposto, connesso e conseguente.
...
Il ricorso risulta fondato.
L’Amministrazione comunale, una volta preso conoscenza dell’atto costitutivo e dello statuto dell’Associazione islamica qui ricorrente, è pervenuta dunque alla conclusione che l’utilizzo dei locali richiederebbe, anche in assenza di lavori, il rilascio del permesso di costruire.
Tale tesi non può essere condivisa.
La fattispecie all’esame è assai simile a quella definita dal TAR Milano, Sez. 2° con la sentenza ex art. 60 c.p.a. n. 6415 del 23.9.2010, alle cui motivazioni si rinvia ex art. 74 c.p.a. (Per comodità del lettore si riporta il punto centrale della sentenza: <<di per sé le opere oggetto dell’istanza non rivelano, in alcun modo, la volontà dell’associazione ricorrente di attuare una destinazione del fabbricato ad “attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”, ai sensi dell’art. 71, l. Regione Lombardia n. 12/2005, piuttosto che a propria sede.
Il fabbricato non può, difatti, essere qualificato, per effetto di tali interventi, quale immobile destinato al culto, all’abitazione dei ministri del culto o del personale di servizio, ovvero ad attività di formazione religiosa.
La fattispecie non rientra neppure nell’ipotesi di cui all’art. 71, c. 1, lett. c, della l. Regione Lombardia n. 12/2005: in essa sono, difatti, ricompresi “gli immobili adibiti ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e similari che non abbiano fini di lucro” unicamente se tali attività vengano svolte “nell’esercizio del ministero pastorale”.
Il rifacimento di coperture di pavimentazione, il ripristino di intonaci, la sistemazione di pilastri in cartongesso, l’imbiancatura dei locali, la realizzazione di impianti igienico–sanitari ed elettrici non palesano, di per sé, in alcun modo, la volontà di realizzare un luogo di culto né di esercitare nell’immobile un’attività connessa all’esercizio del ministero pastorale, attività che, oltretutto, non rientra tra quelle indicate nello statuto dell’associazione “Centro Culturale Pace”;
- né quanto sostenuto dall’amministrazione circa l’essere il Centro Culturale “emanazione di una confessione religiosa” assume alcun rilievo, non potendo dedursi dalla natura e dall’orientamento religioso del proprietario di un immobile la volontà di imprimere ad esso una particolare destinazione d’uso.
La stessa difesa dell’amministrazione comunale ammette che l’immobile non è una moschea ma “un luogo di riunione ed assistenza riservato alla comunità religiosa islamica”: il fatto che i servizi prestati dall’associazione siano rivolti ad una comunità appartenente ad una determinata confessione religiosa, ma dichiaratamente erogati al solo scopo di promuoverne l’integrazione e l’inserimento nella società, non rivela affatto la volontà di destinare i locali in cui essa ha la propria sede a luogo di culto o comunque ad attività connesse all’esercizio del ministero pastorale, come richiede l’art. 71 della l. Regione Lombardia n. 12/2005;
- parimenti, la circostanza che vi possa essere stato, in passato, un uso di fatto dell’immobile anche quale luogo di culto e di preghiera, non è indicativa di un intento di modificare la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa rispetto a quella di sede del Centro Culturale;
- la volontà di attuare una particolare destinazione d'uso -nel caso di specie ad “attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”- deve, invero, trovare una corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere realizzate e non può essere inferita dall’uso di fatto che possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. Tar Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665), tanto più quando l’istanza di sanatoria non faccia riferimento alcuno ad una destinazione di tipo religioso
.>>).
Va soggiunto che la Sezione, con la recente ordinanza cautelare n. 483 del 31.10.2012, ha svolto le seguenti ulteriori considerazioni: <<… nel nostro ordinamento, vigente il noto art. 19 della Costituzione, conforme del resto all’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nessun soggetto può ordinare ad altro di non pregare a casa propria (cfr. ricorso, p. 9 dal dodicesimo rigo). Del resto, la difesa del Comune intimato è incentrata su un presupposto diverso, che ben può essere quello che storicamente ha ispirato l’azione dell’ente, ma all’evidenza non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del provvedimento che dice altro.
Assume infatti il Comune che il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante. In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune ha senz’altro il potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera.
Infatti, come risulta dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera sia non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire;
>> (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.03.2013 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel nostro ordinamento, vigente il noto art. 19 della Costituzione, conforme del resto all’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nessun soggetto può ordinare ad altro di non pregare a casa propria. 
Assume infatti il Comune che il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune ha senz’altro il potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera sia non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire.

L’Amministrazione comunale, una volta preso conoscenza dell’atto costitutivo e dello statuto dell’Associazione islamica qui ricorrente, è pervenuta dunque alla conclusione che l’utilizzo dei locali richiederebbe, anche in assenza di lavori, il rilascio del permesso di costruire.
Tale tesi non può essere condivisa.
La fattispecie all’esame è assai simile a quella definita dal TAR Milano, Sez. 2° con la sentenza ex art. 60 c.p.a. n. 6415 del 23.09.2010, alle cui motivazioni si rinvia ex art. 74 c.p.a. (Per comodità del lettore si riporta il punto centrale della sentenza: <<di per sé le opere oggetto dell’istanza non rivelano, in alcun modo, la volontà dell’associazione ricorrente di attuare una destinazione del fabbricato ad “attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”, ai sensi dell’art. 71, l. Regione Lombardia n. 12/2005, piuttosto che a propria sede.
Il fabbricato non può, difatti, essere qualificato, per effetto di tali interventi, quale immobile destinato al culto, all’abitazione dei ministri del culto o del personale di servizio, ovvero ad attività di formazione religiosa.
La fattispecie non rientra neppure nell’ipotesi di cui all’art. 71, c. 1, lett. c, della l. Regione Lombardia n. 12/2005: in essa sono, difatti, ricompresi “gli immobili adibiti ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e similari che non abbiano fini di lucro” unicamente se tali attività vengano svolte “nell’esercizio del ministero pastorale”.
Il rifacimento di coperture di pavimentazione, il ripristino di intonaci, la sistemazione di pilastri in cartongesso, l’imbiancatura dei locali, la realizzazione di impianti igienico–sanitari ed elettrici non palesano, di per sé, in alcun modo, la volontà di realizzare un luogo di culto né di esercitare nell’immobile un’attività connessa all’esercizio del ministero pastorale, attività che, oltretutto, non rientra tra quelle indicate nello statuto dell’associazione “Centro Culturale Pace”;
- né quanto sostenuto dall’amministrazione circa l’essere il Centro Culturale “emanazione di una confessione religiosa” assume alcun rilievo, non potendo dedursi dalla natura e dall’orientamento religioso del proprietario di un immobile la volontà di imprimere ad esso una particolare destinazione d’uso.
La stessa difesa dell’amministrazione comunale ammette che l’immobile non è una moschea ma “un luogo di riunione ed assistenza riservato alla comunità religiosa islamica”: il fatto che i servizi prestati dall’associazione siano rivolti ad una comunità appartenente ad una determinata confessione religiosa, ma dichiaratamente erogati al solo scopo di promuoverne l’integrazione e l’inserimento nella società, non rivela affatto la volontà di destinare i locali in cui essa ha la propria sede a luogo di culto o comunque ad attività connesse all’esercizio del ministero pastorale, come richiede l’art. 71 della l. Regione Lombardia n. 12/2005;
- parimenti, la circostanza che vi possa essere stato, in passato, un uso di fatto dell’immobile anche quale luogo di culto e di preghiera, non è indicativa di un intento di modificare la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa rispetto a quella di sede del Centro Culturale;
- la volontà di attuare una particolare destinazione d'uso -nel caso di specie ad “attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”- deve, invero, trovare una corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere realizzate e non può essere inferita dall’uso di fatto che possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. Tar Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665), tanto più quando l’istanza di sanatoria non faccia riferimento alcuno ad una destinazione di tipo religioso.
>>).
Va soggiunto che la Sezione, con la recente ordinanza cautelare n. 483 del 31.10.2012, ha svolto le seguenti ulteriori considerazioni: <<… nel nostro ordinamento, vigente il noto art. 19 della Costituzione, conforme del resto all’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nessun soggetto può ordinare ad altro di non pregare a casa propria (cfr. ricorso, p. 9 dal dodicesimo rigo). Del resto, la difesa del Comune intimato è incentrata su un presupposto diverso, che ben può essere quello che storicamente ha ispirato l’azione dell’ente, ma all’evidenza non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del provvedimento che dice altro.
Assume infatti il Comune che il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune ha senz’altro il potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera sia non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire;
>>.
Le spese di giudizio, liquidate come da dispositivo, vanno poste -alla stregua del principio victusvictori- a carico della resistente Amministrazione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.03.2013 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Risposta a quesito interpretativo su ristrutturazione con modifica di destinazione d’uso con opere (Regione Emilia Romagna, parere 08.02.2013 n. 35234 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: INDIVIDUAZIONE DEL MOMENTO CONSUMATIVO NEL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO.
Nei casi in cui si proceda al mutamento di destinazione d’uso di un immobile mediante l’esecuzione di opere il cui scopo è quello di renderlo utilizzabile per finalità diverse da quelle originarie, la trasformazione dovrà ritenersi ultimata con il completamento delle opere medesime, quando, cioè, l’uso del manufatto secondo la nuova destinazione sia effettivamente possibile.
Particolarmente interessante la questione oggetto di attenzione da parte della Cassazione nella vicenda in esame, in cui la Corte affronta, sotto un diverso angolo visuale, il tema del mutamento di destinazione d’uso di un’unit immobiliare, in particolare fissando con chiarezza quando deve ritenersi ‘‘ultimato’’ l’illecito intervento edilizio.
La vicenda processuale segue alla condanna, confermata in appello, nei confronti di un imputato cui era stato addebitato di aver modificato l’originaria destinazione d’uso di un locale sottotetto da locale di sgombero a locale ad uso abitativo, con realizzazione di opere e ampliamento volumetrico non assentibile, realizzazione del locale sottotetto con pendenza delle falde del 37% in luogo del 35% assentito, con conseguente maggiore altezza al colmo, il tutto in assenza di permesso di costruire o, comunque, in difformità totale dal permesso di costruire e da quanto disposto dall’art. 6, comma 2, delle Norme Tecniche di attuazione del PRG del Comune.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione la difesa, sostenendo, per quanto di interesse in questa sede, che la Corte d’appello avrebbe erroneamente individuato la data di consumazione del reato facendo riferimento alla realizzazione di impianti all’interno del locale, mentre la modifica dell’originaria destinazione d’uso avrebbe dovuto considerarsi perfezionata nel momento in cui era avvenuta la realizzazione delle falde con pendenza superiore rispetto a quanto previsto, poiché sarebbe tale intervento ad aver reso urbanisticamente rilevante la volumetria del sottotetto.
La prospettazione difensiva, pur suggestiva, è stata però disattesa dagli Ermellini che hanno, sul punto, respinto il ricorso.
In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che nei casi in cui, come nella fattispecie, si proceda al mutamento di destinazione d’uso di un immobile mediante l’esecuzione di opere il cui scopo è quello di renderlo utilizzabile per finalità diverse da quelle originarie, la trasformazione dovrà ritenersi ultimata con il completamento delle opere medesime, quando, cioè, l’uso del manufatto secondo la nuova destinazione sia effettivamente possibile.
In applicazione di tale principio si è rilevato che, nel caso in esame, la Corte d’appello aveva rilevato che, all’atto del sequestro, le opere interne al sottotetto e destinate a renderlo abitabile erano ancora in corso di esecuzione, tanto che oltre a non essere stati ancora installati ‘‘importanti elementi strutturali’’, quali luci e condizionatori, mancava anche una scala di accesso ai locali e veniva utilizzata una scala mobile a pioli per accedere attraverso un foro praticato sul pavimento, costituente l’unica via di ingresso dall’ultimo piano del fabbricato al sottotetto. Da qui, dunque, la corretta interpretazione fattane dai giudici di merito.
In giurisprudenza, si noti che la Cassazione, già in passato aveva avuto modo di operare una interessante distinzione, precisando che, il mutamento di destinazione d’uso può essere materiale, quando si realizzi attraverso l’esecuzione di opere edili sull’immobile preesistente, ovvero soltanto funzionale, quando avvenga con una semplice modificazione dell’utilizzo, che non comporti trasformazioni materiali: solo il mutamento funzionale richiede, per essere integrato, l’effettiva modifica della destinazione dell’immobile, mentre il mutamento materiale si consuma sin dall’inizio dei lavori edilizi finalizzati al cambio di destinazione, purché tale finalizzazione sia desumibile attraverso mezzi probatori di natura logica o storica (v., Cass. pen., sez. VI, 28.10.1999, n. 12271, in Ced Cass., n. 214527) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2013 n. 6298 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 5/2013).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica della destinazione d'uso e momento consumativo del reato urbanistico.
Nei casi in cui si proceda al mutamento di destinazione d'uso di un immobile mediante l'esecuzione di opere il cui scopo è quello di renderlo utilizzabile per finalità diverse da quelle originarie, la trasformazione dovrà ritenersi ultimata con il completamento delle opere medesime, quando, cioè, l’uso del manufatto secondo la nuova destinazione sia effettivamente possibile (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2013 n. 6298 - tratto da www.lexambiente.it).
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SENTENZA
4. Il ricorso è inammissibile perché basato su motivi manifestamente infondati.
Occorre in primo luogo rilevare che non risulta in contestazione la natura dell'intervento eseguito che, da quanto emerge dall'esame del ricorso e del provvedimento impugnato, si è concretato nell'innalzamento delle falde di un sottotetto e l'esecuzione di opere interne, quali la realizzazione di un bagno, la predisposizione di punti luce e di attacchi per impianti di condizionamento (pag. 3 del ricorso e pag. 4 della sentenza).
Neppure è contestato che l'intervento possa qualificarsi come modifica dell'originaria destinazione d'uso di un preesistente volume tecnico in unità abitativa in assenza di titolo abilitativo.
Ciò che i ricorrenti ritengono meritevole di censura è, invece, la individuazione del momento consumativo del reato, che essi ritengono coincidente con l'innalzamento delle falde del tetto e che, al contrario, la Corte del merito colloca in un momento successivo, quello della ultimazione delle opere interne, specificando che, essendo intervenuto il sequestro preventivo delle opere ancora in corso di realizzazione il 02.03.2006, è da tale data che decorre il termine di prescrizione del reato.
5. Date tali premesse, deve ricordarsi che, in linea generale, si è già avuto modo di precisare che
la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale
(così, testualmente, Sez. III n. 9894, 05.03.2009).
Più recentemente, si è osservato che
l'accertamento del mutamento di destinazione d'uso in corso d'opera deve effettuarsi sulla base della individuazione di elementi univocamente significativi, propri, del diverso uso cui è destinata l'opera e non coerenti con la destinazione originaria (Sez. III n. 8282, 09.03.2011).
6. Ciò posto, appare evidente che
nei casi in cui, come nella fattispecie, si proceda al mutamento di destinazione d'uso di un immobile mediante l'esecuzione di opere il cui scopo è quello di renderlo utilizzabile per finalità diverse da quelle originarie, la trasformazione dovrà ritenersi ultimata con il completamento delle opere medesime, quando, cioè, l'uso del manufatto secondo la nuova destinazione sia effettivamente possibile.
Date tali premesse, deve rilevarsi che, nel caso in esame, con accertamento in fatto supportato da adeguata motivazione, in quanto tale, non sindacabile in questa sede, la Corte territoriale ha rilevato che, all'atto del sequestro, le opere interne al sottotetto e destinate a renderlo abitabile erano ancora in corso di esecuzione, tanto che oltre a non essere stati ancora installati «importanti elementi strutturali», quali luci e condizionatori, mancava anche una scala di accesso ai locali e veniva utilizzata una scala mobile a pioli per accedere attraverso un foro praticato sul pavimento, costituente l'unica via di ingresso dall'ultimo piano del fabbricato al sottotetto.
La sentenza impugnata risulta pertanto, sul punto, del tutto immune da censure.

EDILIZIA PRIVATA: "Servizi religiosi" e normativa urbanistica.
Con sentenza 04.01.2013 n. 21 il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, si pronuncia sull’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005, che ammette la realizzazione di “nuove attrezzature per i servizi religiosi” esclusivamente nelle aree classificate a standard fino all’approvazione del piano dei servizi, giudicando indimostrato, nel caso di specie, che una richiesta di permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso avanzata da un’associazione di diritto privato per la realizzazione di un centro culturale possa rientrare in tale definizione ed essere sottoposta a tale disciplina.
L’Unione Comunità islamica valtellinese è un’associazione che ha come scopo statutario “la realizzazione di iniziative utili sia a promuovere la conoscenza dell’Islam in Italia che a rendere più autenticamente islamica la vita delle famiglie musulmane in Italia”.
Proprietaria di un immobile a Sondrio, presenta in Comune una richiesta di permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso “per l’adeguamento degli spazi attualmente destinati a palestra per la realizzazione di un centro culturale con relativi servizi”.
Il Comune, con preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. 241/1990, rappresenta la mancanza del parere di conformità alla normativa antincendio (ex art. 2 d.p.r. 37/1998), assimilando l’attività dell’associazione a quella dei “locali di spettacolo e trattenimento in genere con capienza superiore a 100 posti” (n. 83 dell’allegato al d.m. 16.02.1982).
Successivamente, il Comune comunica il diniego definitivo di permesso di costruire, fondato essenzialmente su ragioni di natura urbanistica, asserendo il contrasto del progetto con le previsioni di PRG relative alla zona B1 e la violazione dell’art. 72, co. 4-bis, della l.r. 12/2005.
Tuttavia, sostiene il TAR,
non è stato dimostrato che la destinazione richiesta dall’Associazione sia riconducibile alle “nuove attrezzature per i servizi religiosi” di cui all’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005 e, di conseguenza, non è possibile stabilire la compatibilità della destinazione richiesta con quelle ammesse nella zona di ubicazione dell’immobile da parte della pianificazione comunale.
In particolare, il giudice amministrativo rileva e censura la discrasia tra preavviso di diniego e diniego definitivo: quest’ultimo, come detto, fa riferimento a questioni urbanistiche di cui il preavviso di diniego non fa menzione, con ciò integrando una violazione dell’art. 10-bis l. 241/1990.
Scopo precipuo del preavviso di diniego, ove correttamente effettuato, è quello di garantire un apporto in funzione collaborativa da parte dell’interessato nel procedimento amministrativo. Nella vicenda in esame, invece, l’amministrazione (“in modo parziale e incompleto”) ha omesso di riferire in via preliminare sulle possibili problematiche di carattere urbanistico, pregiudicando così l’apporto collaborativo dell’Unione Comunità islamica valtellinese.
Un apporto del richiedente sarebbe stato sicuramente auspicabile e avrebbe potuto fare maggior chiarezza sulla natura dell’Unione, in funzione della corretta individuazione della normativa applicabile.
L’Associazione ricorrente, infatti, in quanto associazione di diritto privato non qualificabile come confessione religiosa, nega che, ai fini urbanistici, la sua attività e le sue strutture possano rientrare nel novero dei “servizi religiosi” ex art. 72, co. 4-bis. Tuttavia, nella richiesta di permesso di costruire, essa stessa si definisce a volte come “associazione culturale”, altre volte come “luogo di culto”.
Similmente il Comune, che a fini urbanistici considera l’associazione islamica alla stregua dei “servizi religiosi”, sotto il profilo della normativa antincendio assimila l’attività dell’Unione a quella dei “locali di spettacolo e trattenimento in genere”.
Il TAR accoglie pertanto il ricorso e annulla il diniego di permesso di costruire; sulla richiesta presentata dall’Unione islamica l’amministrazione “dovrà ripronunciarsi mediante riesercizio del potere previo il concreto coinvolgimento in sede procedimentale dell’Associazione”.
Resta così assorbito il motivo con cui la ricorrente chiedeva di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005 in riferimento agli artt. 17–20 Cost. (libertà di riunione, di associazione, libertà religiosa) (link a http://studiospallino.blogspot.it).

anno 2012

EDILIZIA PRIVATALa destinazione d’uso:
- caratterizza funzionalmente l’immobile ed è segnata dagli strumenti urbanistici di pianificazione o di attuazione della pianificazione, nell’ambito delle categorie generali di uso urbanistico previste dalle norme vigenti;
- non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile – quale individuata nel titolo edilizio – senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori;
- solo in caso di assenza o indeterminatezza del titolo edilizio è ritraibile dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento o da altri documenti probanti.
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Il mutamento di destinazione d’uso senza opere assume rilievo solo se si sostanzia in un mutamento urbanistico-edilizio ovvero solo se sconvolge l’assetto dell’area in cui è ricaduto l’intervento edilizio.
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Il mutamento di destinazione d’uso è ammesso solo se compatibile con la caratterizzazione urbanistica impressa all’area in cui è ubicato l’immobile.

Ritenuto, peraltro, pacifico che la destinazione d’uso:
- caratterizza funzionalmente l’immobile ed è segnata dagli strumenti urbanistici di pianificazione o di attuazione della pianificazione, nell’ambito delle categorie generali di uso urbanistico previste dalle norme vigenti;
- secondo un costante orientamento giurisprudenziale, non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile – quale individuata nel titolo edilizio – senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n. 219 e TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, sentenza 07.09.2012 n. 537);
- solo in caso di assenza o indeterminatezza del titolo edilizio è ritraibile dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento o da altri documenti probanti;
Ritenuto che, per costante orientamento giurisprudenziale (ex multis Cons. Stato, sez. V, 23.2.2000 n. 949, TAR Liguria, sez. I, 28.01.2004 n. 102, TAR Veneto, Sez. III, 13.11.2001 n. 3699, Cass. Penale, Sez. III, 01.10.1997 n. 3104 e, più di recente, TAR Lazio, sez. II, 07.10.2005 n. 8002, TAR Abruzzo, sede l'Aquila, 02.04.2009 n. 236 e TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.05.2011, n. 4622), il mutamento di destinazione d’uso senza opere assume rilievo solo se si sostanzia in un mutamento urbanistico-edilizio ovvero solo se sconvolge l’assetto dell’area in cui è ricaduto l’intervento edilizio;
Ritenuto, in ogni caso, che il mutamento di destinazione d’uso è ammesso solo se compatibile con la caratterizzazione urbanistica impressa all’area in cui è ubicato l’immobile (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 13.12.2012 n. 1346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio: poiché l’entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d’uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e quindi l’obbligo della relativa corresponsione degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell’ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori.
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Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata accompagnata da un’alterazione del carico urbanistico, tenendo conto che l’aggregazione di cui si discute ha interessato due appartamenti aventi già in precedenza destinazione direzionale.
In ogni caso, in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali (nella fattispecie, i locali incorporati erano adibiti ad ufficio) l’amministrazione –per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione– deve dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evinca il maggior carico urbanistico addebitabile alla nuova destinazione.
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La giurisprudenza è dell’avviso che gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia.
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
Nella fattispecie le modifiche effettuate inducono ad ascrivere l’intervento edilizio nel genus della ristrutturazione, poiché si assiste alla riallocazione e al rinnovato dimensionamento di alcuni vani esistenti (taluni dei quali adibiti a nuove funzioni come “sterilizzazione” e “deposito”) nonché al rifacimento degli impianti tecnologici e dei servizi igienici. Sono quindi ravvisabili i tratti distintivi della ristrutturazione, per il duplice elemento del recupero dello spazio e della diversità e “non alterità” dell’organismo che si viene a realizzare rispetto a quello originario, dato che gli ambienti mantengono una sostanziale omogeneità rispetto ai precedenti quanto ai loro principali caratteri identificativi (collocazione, sagoma, altezza, volumetria): in buona sostanza si compie una modifica totale o parziale dell’edificio, che in positivo è rappresentata dalla creazione di un organismo “diverso” dal precedente, ed in negativo dal fatto che per effetto delle opere non vengono sensibilmente alterati i volumi, le superfici, le dimensioni o la tipologia del fabbricato.
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L’obbligazione contributiva per costo di costruzione è a-causale e si correla alla produzione di ricchezza connessa all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria.
Il contributo afferente al costo di costruzione, a norma dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato in rapporto alle caratteristiche, alle tipologie delle costruzioni e delle loro destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre fare riferimento all’art. 16 del D.P.R. 380/2001).
Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di rinnovo degli elementi costitutivi di un immobile mediante la realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della ristrutturazione dell’edificio.

I ricorrenti lamentano l’erronea determinazione del contributo di urbanizzazione da parte dell’amministrazione in sede di rilascio del titolo abilitativo.
Nell’ambito di un tipico giudizio di accertamento, è opportuno esaminare separatamente i presupposti per l’applicazione degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione.
Sottolinea anzitutto il Collegio che –contrariamente a quanto affermato dal Comune resistente– parte ricorrente ha lamentato (classificando il proprio intervento come restauro e risanamento conservativo - pag. 4 del gravame introduttivo) l’assenza di un maggiore carico urbanistico a seguito dell’ampliamento dello studio dentistico originario.
Va ribadito sul tema che il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (cfr. per tutti TAR Puglia Bari, sez. III – 10/02/2011 n. 243). Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio: poiché l’entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d’uso possa non comportare aggravi di carico urbanistico e quindi l’obbligo della relativa corresponsione degli oneri; al contrario è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell’ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e correlativamente siano dovuti gli oneri concessori (TAR Lazio Roma, sez. II – 14/11/2007 n. 11213).
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata accompagnata da un’alterazione del carico urbanistico, tenendo conto che l’aggregazione di cui si discute ha interessato due appartamenti aventi già in precedenza destinazione direzionale. In ogni caso, come sostenuto di recente (cfr. sentenze Sezione 02/03/2012 n. 355; 24/08/2012 n. 1467) in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali (i locali incorporati erano adibiti ad ufficio) l’amministrazione –per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione– avrebbe dovuto dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evinceva il maggior carico urbanistico addebitabile alla nuova destinazione (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV – 04/05/2009 n. 3604).
Nel caso concreto la difesa dell’amministrazione ha evidenziato –nella memoria finale– che il raddoppio delle sale dedicate a gabinetto dentistico provoca una maggiore domanda di servizi, senza tuttavia raffrontare la situazione attuale (studio dentistico ampliato) con quella concretamente preesistente. Al riguardo non è sufficiente il paragone con una media struttura di vendita (la quale avrebbe maggiore capacità di attrazione di clientela di due esercizi di vicinato sommati tra loro): si tratta infatti di una struttura del settore commerciale (soggetta ad una disciplina specifica sugli standard necessari) caratterizzata da una superficie ben maggiore (oltre 250 mq.).
Deve in conclusione ritenersi indebitamente preteso l’importo di € 15.312,81, da restituire alla parte ricorrente.
A differenti conclusioni deve pervenirsi con riguardo al costo di costruzione.
Come ha già sottolineato questo Tribunale (cfr. sentenza sez. I – 19/04/2011 n. 582) la giurisprudenza è dell’avviso che gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia (cfr. TAR Molise – 27/03/2009 n. 99; Consiglio di Stato, sez. V – 17/12/1996 n. 1551).
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V – 18/10/2002 n. 5775; Consiglio di Stato, sez. V – 23/05/2000 n. 2988).
Nella fattispecie le modifiche effettuate inducono ad ascrivere l’intervento edilizio nel genus della ristrutturazione, poiché (dall’analisi della planimetria in atti) si assiste alla riallocazione e al rinnovato dimensionamento di alcuni vani esistenti (taluni dei quali adibiti a nuove funzioni come “sterilizzazione” e “deposito”) nonché al rifacimento degli impianti tecnologici e dei servizi igienici. Sono quindi ravvisabili i tratti distintivi della ristrutturazione, per il duplice elemento del recupero dello spazio e della diversità e “non alterità” dell’organismo che si viene a realizzare rispetto a quello originario, dato che gli ambienti mantengono una sostanziale omogeneità rispetto ai precedenti quanto ai loro principali caratteri identificativi (collocazione, sagoma, altezza, volumetria): in buona sostanza si compie una modifica totale o parziale dell’edificio, che in positivo è rappresentata dalla creazione di un organismo “diverso” dal precedente, ed in negativo dal fatto che per effetto delle opere non vengono sensibilmente alterati i volumi, le superfici, le dimensioni o la tipologia del fabbricato (sentenza TAR Brescia – 11/06/2004 n. 646).
Posta questa premessa, osserva il Collegio che l’obbligazione contributiva per costo di costruzione è a-causale e si correla alla produzione di ricchezza connessa all’utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria (TAR Campania Salerno, sez. II – 11/06/2002 n. 459). Il contributo afferente al costo di costruzione, a norma dell’art. 6 della L. 10/1977, è determinato in rapporto alle caratteristiche, alle tipologie delle costruzioni e delle loro destinazioni ed ubicazioni (oggi occorre fare riferimento all’art. 16 del D.P.R. 380/2001). Ne deriva, quindi, che nell’ipotesi di rinnovo degli elementi costitutivi di un immobile mediante la realizzazione di opere, sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della ristrutturazione dell’edificio (sentenza Sezione 02/03/2012 n. 355): pertanto l’esazione è stata correttamente pretesa dal Comune.
In conclusione il ricorso è parzialmente fondato e deve essere accolto nella parte in cui il Comune ha erroneamente richiesto la quota di oneri di urbanizzazione (€ 15.312,81), che devono essere restituiti. Sulla somma vanno calcolati gli interessi i quali decorrono –trattandosi di azione di ripetizione di indebito– dalla data di proposizione della domanda giudiziale, dovendosi presumere la buona fede dell’amministrazione resistente in assenza di dimostrazione contraria, mentre non spetta la rivalutazione monetaria trattandosi di indebito oggettivo il quale genera solo l’obbligazione di restituzione degli interessi a norma dell’art. 2033 del c.c. (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II – 05/05/2004 n. 1620; TAR Lazio Roma, sez. I – 19/01/1999 n. 99; Consiglio di Stato, sez. V – 30/10/1997 n. 1207). Non spetta alcuna altra somma a titolo risarcitorio, in difetto della dimostrazione di danni ulteriori e diversi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 20.11.2012 n. 1818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo relativo al costo di costruzione (art. 6, legge n. 10/1977), definibile acausale, è riconducibile all'attività costruttiva ex se considerata e, correlandosi direttamente all'uso edificatorio del suolo ed ai potenziali vantaggi economici che ne discendono, è sostanzialmente configurabile alla stregua dei prelievi di natura paratributaria ed è sempre dovuto in presenza di una trasformazione edilizia del territorio ed in conseguenza della produzione di ricchezza connessa alla sua utilizzazione.
Al contrario l'imposizione del contributo di urbanizzazione (art. 5, L. n. 10/1977) -il quale non ha natura di controprestazione in rapporto sinallagmatico, rispetto al rilascio della concessione edilizia, ma è assimilabile ai corrispettivi di diritto pubblico di natura non tributaria, che svolgono funzione recuperatoria non commisurata né all'utile dell'operazione né al vantaggio del concessionario– presenta natura causale e risponde ad una diversa ratio, che va individuata nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle opere medesime, in modo più equo per la comunità.
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Da quanto sopra discende che, nell'ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un immobile senza la realizzazione di opere, mentre non sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della realizzazione dell'edificio, per la parte, invece, che attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione d'uso del manufatto, dovendosi ritenere, per contro, che tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico urbanistico.
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Il cambio di destinazione d'uso, da locale a uso industriale a locale ad uso commerciale, ha certamente conferito all'immobile di proprietà della società ricorrente un'utilizzazione autonoma e produttiva, in relazione alla quale si giustifica il pagamento delle spese di urbanizzazione derivanti dal maggior carico urbanistico che esso comporta per effetto della nuova destinazione.
Invero, la giurisprudenza ha più volte affermato che la richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione, in sede di rilascio della concessione edilizia, deve ritenersi illegittima ogni volta che non sia ravvisabile un aumento del carico urbanistico a seguito del realizzato intervento edilizio; e, correlativamente, legittima nel caso in cui si sia verificata una variazione in aumento del carico medesimo, giacché in tale evenienza sussiste il presupposto che giustifica l'imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile.

Con riferimento alle ulteriori censure va premesso che a fronte della modificazione della destinazione d'uso di un manufatto edilizio, la possibilità dello stesso di essere assoggettato a sanatoria (o condono edilizio) è subordinata al pagamento degli oneri concessori, vale a dire alla corresponsione di un contributo commisurato sia all'incidenza delle spese di urbanizzazione, sia al costo di costruzione.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che il contributo relativo al costo di costruzione (art. 6, legge n. 10/1977), definibile acausale, è riconducibile all'attività costruttiva ex se considerata e, correlandosi direttamente all'uso edificatorio del suolo ed ai potenziali vantaggi economici che ne discendono, è sostanzialmente configurabile alla stregua dei prelievi di natura paratributaria ed è sempre dovuto in presenza di una trasformazione edilizia del territorio ed in conseguenza della produzione di ricchezza connessa alla sua utilizzazione; al contrario l'imposizione del contributo di urbanizzazione (art. 5, L. n. 10/1977) -il quale non ha natura di controprestazione in rapporto sinallagmatico, rispetto al rilascio della concessione edilizia, ma è assimilabile ai corrispettivi di diritto pubblico di natura non tributaria, che svolgono funzione recuperatoria non commisurata né all'utile dell'operazione né al vantaggio del concessionario (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 27.09.1994, n. 7874)– presenta natura causale e risponde ad una diversa ratio, che va individuata nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle opere medesime, in modo più equo per la comunità (cfr. TAR Veneto, 17.06.2002, n. 2877; id., Sez. II, 12.05.1994, n. 394; TAR Salerno, Sez. II, 23.05.2003, n. 548; TAR Toscana, Sez. III, 11.08.2004, n. 3181).
Da quanto sopra discende che, nell'ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un immobile senza la realizzazione di opere, mentre non sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della realizzazione dell'edificio, per la parte, invece, che attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione d'uso del manufatto, dovendosi ritenere, per contro, che tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico urbanistico (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 13.11.2001, n. 3699).
Con riferimento al caso specifico va rilevato che il cambio di destinazione d'uso, da locale a uso industriale a locale ad uso commerciale, ha certamente conferito all'immobile di proprietà della società ricorrente un'utilizzazione autonoma e produttiva, in relazione alla quale si giustifica il pagamento delle spese di urbanizzazione derivanti dal maggior carico urbanistico che esso comporta per effetto della nuova destinazione (cfr. TAR Veneto Sez. II Sent., 12.07.2007, n. 2438; TAR Lazio sez. II 17.05.2005, n. 3844).
Invero, la giurisprudenza ha più volte affermato che la richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione, in sede di rilascio della concessione edilizia, deve ritenersi illegittima ogni volta che non sia ravvisabile un aumento del carico urbanistico a seguito del realizzato intervento edilizio; e, correlativamente, legittima nel caso in cui si sia verificata una variazione in aumento del carico medesimo, giacché in tale evenienza sussiste il presupposto che giustifica l'imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se maggiori, dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile (confr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611; id., Sez. V, 15.09.1997, n. 959; TAR Milano, Sez. II, 02.10.2003, n. 4502; TAR Bologna, Sez. II, 19.02.2001, n. 157 e 07.05.1999, n. 259; TAR Veneto, n. 2877/2002, cit.).
Nel caso di specie, l’incremento del carico urbanistico costituisce dato pacifico, al pari della sussistenza dell’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione, risultando controverso unicamente il metodo di liquidazione degli stessi
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 14.11.2012 n. 1221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere letta ed interpretata alla luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più generali risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche dalla stessa legge regionale 12/2005: si verte, infatti, nella materia del “governo del territorio”, oggetto di potestà legislativa regionale concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, con conseguente necessità di rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1, citato, se da una parte ammette in via di principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR 380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico; parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza l’esecuzione di opere edilizie.

Questo TAR ha chiarito (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.07.2012, n. 2146), che la specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere letta ed interpretata alla luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più generali risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche dalla stessa legge regionale 12/2005: si verte, infatti, nella materia del “governo del territorio”, oggetto di potestà legislativa regionale concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, con conseguente necessità di rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale.
La legislazione regionale, all’art. 51, comma 1, citato, se da una parte ammette in via di principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1, del DPR 380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.7.2010, n. 4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione del bene immobile, anche senza l’esecuzione di opere edilizie (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539, con le pronunce in essa richiamate ed anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.10.2012 n. 2593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica di destinazione d'uso e ristrutturazione urbanistica.
La modifica di destinazione d’uso che determina un impatto urbanistico rilevante, anche se incidente sul medesimo sedime, configura una ipotesi di ristrutturazione urbanistica e non di semplice ristrutturazione edilizia realizzabile mediante denuncia di inizio attività.

Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con sentenza 19.10.2012 n. 2563, torna sull’annosa questione relativa alla possibilità per i privati di ricomprendere le opere di demolizione e ricostruzione tra le ristrutturazioni edilizie realizzabili mediante la presentazione della sola dia.
Nel caso in esame i giudici amministrativi hanno ritenuto legittimo il provvedimento con il quale l’amministrazione comunale ordinava di non effettuare le trasformazioni previste dalla dia “in quanto esso è rivolto a sostituire l’esistente tessuto urbanistico ed edilizio con altro sostanzialmente diverso, senza peraltro rispettare la previsione del P.R.G. vigente.”.
La pronuncia in commento si fonda sulla distinzione tra la nozione di ristrutturazione edilizia, prevista dall’art. 3, comma 1, lett. d), del Dpr n. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia) e quella di ristrutturazione urbanistica, dettata dalla lettera f) della stessa norma.
La sentenza in esame richiama in primo luogo la giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale: “il concetto di ristrutturazione di un edificio preesistente presuppone che non si tratti di opere implicanti radicali interventi di adattamento delle strutture interne eseguite per creare nuovi vani o volumi, in quanto l’aumento di questi ultimi determina a sua volta un maggiore carico urbanistico di cui l’amministrazione non può non tenere conto in sede di approvazione del progetto stesso (cfr. C.d.S. sez. 5^ 10.08.2000 n. 4397).”; successivamente in relazione al caso di specie, considera che: “il progetto presentato dalla società ricorrente realizza all’evidenza –il Collegio ne ha preso visione in contraddittorio anche nel corso della discussione in udienza- un intervento di ristrutturazione urbanistica dell’area, in quanto esso interviene su alcuni capannoni di proprietà della società ricorrente attraverso un insieme di opere volte a trasformare le strutture preesistenti da immobili ad uso produttivo in immobili ad uso misto, attraverso la creazione di una serie di appartamenti residenziali e relativi giardini di pertinenza nonché di un certo numero di laboratori.
Tutto ciò anche con la prevista demolizione e ricostruzione di alcuni dei fabbricati e con lo svuotamento di porzioni di immobili, onde ricavare adeguati rapporti aeroilluminanti
.”
In conclusione, deve ritenersi che la realizzazione di interventi che comportano una diversa destinazione d’uso delle strutture edilizie, determinando conseguentemente una sostanziale modifica della morfologia del lotto di riferimento non possono essere assentiti mediante lo strumento edilizio della denuncia di inizio attività (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica.
Nel caso di specie, il capannone di proprietà della ricorrente è stato in concreto adibito ad un uso (commerciale) incompatibile con l’assetto urbanistico (agricolo) di zona, e dunque correttamente esso è stato sanzionato con l’ordine di ripristino.
Come giustamente ha osservato la difesa comunale, la tesi di parte ricorrente, se portata alle sue estreme conseguenze, condurrebbe alla inammissibile conclusione per cui chiunque, pagando una semplice sanzione pecuniaria, sarebbe legittimato a stravolgere le linee di pianificazione dettate dall’amministrazione, mutando a suo piacimento la destinazione di un determinato sito.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato sez. I, 25.05.2012 n. 759; in senso conforme Cons. Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24; Cons. Stato, V, 28.05.2010, n. 3420) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 19.10.2012 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune.
Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica.

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 2480 in data 02.08.1996, con la quale il sindaco del Comune di Grugliasco ha disposto il ripristino della destituzione d'uso agricola di un capannone di proprietà della ricorrente.
...
Con il secondo motivo la ricorrente sostiene che i mutamenti d’uso realizzati senza opere strutturali sarebbero soggetti a semplice sanzione pecuniaria e non ad obblighi di ripristino.
Anche tale censura non può essere condivisa.
La normativa richiamata dalla ricorrente non è conferente al caso di specie, perché concerne ipotesi di mutamenti funzionali di destinazione d’uso realizzati nel rispetto delle previsioni urbanistiche di zona, benché in assenza di un titolo abilitativo: sicché in tali ipotesi la sanzione pecuniaria punisce l’assenza del titolo, ma non legittima alcun abuso, anzi presuppone la compatibilità urbanistica anche della nuova destinazione d’uso.
Nel caso di specie, invece, il capannone di proprietà della ricorrente è stato in concreto adibito ad un uso (commerciale) incompatibile con l’assetto urbanistico (agricolo) di zona, e dunque correttamente esso è stato sanzionato con l’ordine di ripristino.
Come giustamente ha osservato la difesa comunale, la tesi di parte ricorrente, se portata alle sue estreme conseguenze, condurrebbe alla inammissibile conclusione per cui chiunque, pagando una semplice sanzione pecuniaria, sarebbe legittimato a stravolgere le linee di pianificazione dettate dall’amministrazione, mutando a suo piacimento la destinazione di un determinato sito.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato sez. I, 25.05.2012 n. 759; in senso conforme Cons. Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24; Cons. Stato, V, 28.05.2010, n. 3420) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 19.10.2012 n. 1110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Valutazione tecnico-economica immobile abusivo.
Il mutamento di destinazione d’uso da cantina ad abitazione comporta, indipendentemente dalla realizzazione o meno di opere ad esso preordinate, un aggravamento degli standards urbanistici e, pertanto, necessita di permesso di costruire secondo quanto previsto dagli artt. 16 e 17, lettera a), l.r. n. 15/2008 “Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia”.
La norma regionale richiamata deve essere interpretata in senso coerente con la normativa nazionale (d.p.r. n. 380/2001) per cui la valutazione “tecnico-economica”, è insita nell’accertamento di abusività del manufatto dovendosi, invece, escludere l’esistenza di un potere discrezionale in capo agli organi comunali in quanto incompatibile con il carattere vincolato del provvedimento di demolizione quale è prefigurato dal d.p.r. n. 380/2001 (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 18.10.2012 n. 8645 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQualora si versi nell’ambito di un mutamento di destinazione d'uso di carattere strutturale, cioè connesso e conseguente all'esecuzione di opere, il permesso di costruire è necessario.
Pertanto devono considerarsi abusive non solo le opere di costruzione vere e proprie, ma anche i lavori interni che, per quanto modesti (e non è il caso in esame, nel quale al contrario gli interventi all’esterno ed all’interno appaiono significativi), si rendono indispensabili per rendere possibile la nuova destinazione.

Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, con orientamento condiviso dal Collegio, qualora si versi nell’ambito di un mutamento di destinazione d'uso di carattere strutturale, cioè connesso e conseguente all'esecuzione di opere, il permesso di costruire è necessario (cfr. recente Tar Campania, Napoli, Sez. III, 07.02.2011, n. 735). Pertanto devono considerarsi abusive non solo le opere di costruzione vere e proprie, ma anche i lavori interni che, per quanto modesti (e non è il caso in esame, nel quale al contrario gli interventi all’esterno ed all’interno appaiono significativi), si rendono indispensabili per rendere possibile la nuova destinazione.
Ne consegue che, nel caso in cui locali sottotetto siano stati destinati a locali di civile abitazione, è legittimo l'ordine di demolizione (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.10.2012 n. 1804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 53, c. 2, della legge regionale lombarda n. 12/2005 deve essere letta unitamente alle disposizioni del testo unico dell’edilizia ed alle altre previsioni dalla legge regionale n. 12/2005 che disciplinano i mutamenti di destinazione d'uso.
L’abusiva realizzazione di un mutamento di destinazione d'uso che non sia conforme alle previsioni urbanistiche è, difatti, sanzionata con la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi dall’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, in quanto intervento eseguito in assenza di permesso di costruire.
Né un tale permesso potrebbe comunque essere rilasciato, stante l’assenza di conformità con le destinazioni di zona.
La l.reg. Lombardia n. 12/2005 non incide su tale previsione: l’art. 52, c. 2 esclude, difatti, la necessità del permesso di costruire ed assoggetta a preventiva comunicazione dell'interessato unicamente i mutamenti di destinazione d'uso di immobili non comportanti la realizzazione di opere edilizie “che siano conformi alle previsioni urbanistiche comunali”.
La previsione di cui all’art. 53, c. 2, l. reg. Lombardia n. 12/2005 non può quindi essere interpretata, come vorrebbe la ricorrente, quale norma di sanatoria, pena la sua incostituzionalità, per contrasto con i principi dettati dal testo unico dell’edilizia.
Essa deve essere quindi intesa quale sanzione aggiuntiva a quella ripristinatoria prevista dall’art. 31, d.P.R. n. 380/2001.

La questione centrale oggetto del presente ricorso attiene alla interpretazione dell’art. 53, c. 2, l.reg. Lombardia n. 12/2005, ai sensi del quale “qualora il mutamento di destinazione d'uso senza opere edilizie, ancorché comunicato ai sensi dell'articolo 52, comma 2, risulti in difformità dalle vigenti previsioni urbanistiche comunali, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari all'aumento del valore venale dell'immobile o sua parte, oggetto di mutamento di destinazione d'uso, accertato in sede tecnica e comunque non inferiore a mille euro”.
Ad avviso della ricorrente, tale norma consentirebbe la sanatoria di mutamenti di destinazione d'uso che non siano conformi alle previsioni dello strumento urbanistico, dietro pagamento della sola sanzione pecuniaria.
La ricorrente afferma inoltre l’ammissibilità, nel caso di specie, del richiesto intervento di mutamento di destinazione d'uso, in quanto esso sarebbe in linea con le previsioni del nuovo piano di governo del territorio, adottato in epoca antecedente alla presentazione dell’istanza di mutamento di destinazione d'uso.
Il Collegio non condivide le argomentazioni della ricorrente.
È incontestata la non conformità del mutamento di destinazione d'uso richiesto dalla ricorrente con le previsioni dello strumento urbanistico vigente.
In mancanza di tale presupposto, indispensabile perché l’intervento possa essere ritenuto ammissibile, non assume rilievo la circostanza che l’intervento sia consentito dal nuovo piano di governo del territorio che, alla data di adozione del provvedimento, era solamente adottato.
Non può, poi, condividersi la lettura parziale dell’art. 53, c. 2, della legge regionale lombarda n. 12/2005, proposta dalla ricorrente.
Tale norma deve difatti essere letta unitamente alle disposizioni del testo unico dell’edilizia ed alle altre previsioni dalla legge regionale n. 12/2005 che disciplinano i mutamenti di destinazione d'uso.
L’abusiva realizzazione di un mutamento di destinazione d'uso che non sia conforme alle previsioni urbanistiche è, difatti, sanzionata con la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi dall’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, in quanto intervento eseguito in assenza di permesso di costruire.
Né un tale permesso potrebbe comunque essere rilasciato, stante l’assenza di conformità con le destinazioni di zona.
La l.reg. Lombardia n. 12/2005 non incide su tale previsione: l’art. 52, c. 2 esclude, difatti, la necessità del permesso di costruire ed assoggetta a preventiva comunicazione dell'interessato unicamente i mutamenti di destinazione d'uso di immobili non comportanti la realizzazione di opere edilizie “che siano conformi alle previsioni urbanistiche comunali”.
La previsione di cui all’art. 53, c. 2, l. reg. Lombardia n. 12/2005 non può quindi essere interpretata, come vorrebbe la ricorrente, quale norma di sanatoria, pena la sua incostituzionalità, per contrasto con i principi dettati dal testo unico dell’edilizia.
Essa deve essere quindi intesa quale sanzione aggiuntiva a quella ripristinatoria prevista dall’art. 31, d.P.R. n. 380/2001.
In questa situazione, non assume neppure rilevanza la verifica sul rispetto degli standard da parte del Comune, la quale rileva unicamente in relazione ai mutamenti compatibili con le destinazioni di zona, ma, non, come nella specie, nel caso di cambiamenti del tutto contrastanti con la vigente zonizzazione (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 03.01.1998, n. 24).
Per le ragioni esposte, il provvedimento di rigetto del cambio di destinazione d'uso ed il diniego di agibilità sono quindi da ritenersi adeguatamente motivati con il richiamo alla non conformità con le previsioni dello strumento urbanistico vigente ed all’art. 52, c. 2, l.reg. Lombardia n. 12/2005 che assoggetta a preventiva comunicazione dell'interessato unicamente i mutamenti di destinazione d'uso di immobili che siano conformi alle previsioni urbanistiche comunali.
La legittimità di tale motivo è sufficiente giustificazione del provvedimento impugnato, sicché è irrilevante la contestazione in ordine alla necessità di realizzare o meno opere edilizie (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.10.2012 n. 2467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl mutamento di destinazione d'uso di una porzione dell'immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito della categoria della "ristrutturazione edilizia".
Coerentemente, anche le attività che “non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, non possono rientrare nella esimente di cui all’art. 149, 1° comma lett. a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura eccezionale della relativa disposizione, in quanto prefigurativa di una specifica deroga al regime autorizzatorio ordinario– non pare lecito fornire arbitrarie interpretazioni estensive: arg. ex art. 14 prel.), per difetto del (concorrente e necessario) requisito tipologico (id est, per la argomentata non sussumibilità nella categoria di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, di consolidamento statico e restauro conservativo).

Contrariamente a quanto prospettato dal gravame, il mutamento di destinazione d'uso di una porzione dell'immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito della categoria della "ristrutturazione edilizia", come si evince, del resto, dall'esplicito riferimento a tale tipologia di intervento presente nell'art. 10 comma 1° lettera c) d.p.r. n. 380/2001 (in termini, TAR Lazio Roma, sez. I, 20.09.2011, n. 7432, TAR Sardegna, sez. II, 06.10.2008, n. 1822), come tale sussumibile nella tipologia 3 di cui all’allegato 1 della l. n. 326/2003, che preclude la possibilità di sanatoria per il caso di sussistenza del vincolo di cui all’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47.
Coerentemente, anche le attività che “non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, non possono, come auspicato, rientrare nella esimente di cui all’art. 149, 1° comma lett. a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura eccezionale della relativa disposizione, in quanto prefigurativa di una specifica deroga al regime autorizzatorio ordinario– non pare lecito fornire arbitrarie interpretazioni estensive: arg. ex art. 14 prel.), per difetto del (concorrente e necessario) requisito tipologico (id est, per la argomentata non sussumibilità nella categoria di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, di consolidamento statico e restauro conservativo) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca il quadro normativo in materia di mutamenti di destinazione d'uso lo si può riassumere come di seguito riportato.
Prima della legge n. 47/1985, la giurisprudenza amministrativa si era attestata nel senso di ritenere illegittime le disposizioni contenute negli strumenti urbanistici che prevedessero limitazioni del mutamento di destinazione d'uso degli immobili attuato senza opere edilizie, con l'ulteriore corollario che il mutamento dell'uso così attuato non era soggetto alla preventiva acquisizione della concessione edilizia, né dell'autorizzazione edilizia.
Tale assetto mutava per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 47/1985. Infatti, dal combinato disposto degli articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente disciplina:
a) erano soggetti a regime concessorio soltanto i mutamenti di destinazione d'uso che intervenivano tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, atteso che all'interno della stessa categoria potevano realizzarsi mutamenti di fatto privi di incidenza sui carichi urbanistici;
b) il mutamento di destinazione d'uso accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il quale non fosse altrimenti prevista la concessione), anche se solo interno, era assoggettato al regime dell'autorizzazione, stante l'espressa previsione dell'applicabilità del regime delle opere interne (di cui all'art. 26, comma 1, della legge n. 47/1985) alle opere che "non modifichino la destinazione d'uso delle costruzioni";
c) il mutamento di destinazione d'uso senza opere era regolato dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, il quale demandava al legislatore regionale il compito di stabilire "criteri e modalità cui dovranno attenersi i comuni, all'atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l'eventuale regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, della destinazione d'uso degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione".
La situazione mutava ulteriormente a seguito della novella apportata all'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, dall'art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, secondo il quale "le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione".
La disposizione in esame, nel delegare definitivamente alle Regioni la disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso -e così la facoltà di poter applicare una disciplina uniforme, tanto per quelli di carattere strutturale, quanto per quelli di carattere funzionale- introduceva la facoltà di sottoporre a concessione edilizia i mutamenti d'uso maggiormente significativi, ovvero quelli comportanti un maggiore impatto sull'assetto urbanistico-territoriale (secondo la suddivisione del territorio in zone residenziali ''A'', ''B'' e ''C'', produttive ''D'', agricole ''E'', e destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale ''F'', operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice autorizzazione, quelli attuati all'interno della medesima categoria funzionale.
Da ultimo l'art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni stabiliscano con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.

La conclusione che precede è, del resto, l’unica coerente con il quadro normativo di riferimento in materia di mutamenti di destinazione d'uso, che giova di seguito riassumere (in termini, da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII, 22.02.2012, n. 885).
Prima della legge n. 47/1985, la giurisprudenza amministrativa (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28.07.1982, n. 525) si era attestata nel senso di ritenere illegittime le disposizioni contenute negli strumenti urbanistici che prevedessero limitazioni del mutamento di destinazione d'uso degli immobili attuato senza opere edilizie, con l'ulteriore corollario che il mutamento dell'uso così attuato non era soggetto alla preventiva acquisizione della concessione edilizia, né dell'autorizzazione edilizia.
Tale assetto mutava per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 47/1985. Infatti, dal combinato disposto degli articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente disciplina:
a) erano soggetti a regime concessorio soltanto i mutamenti di destinazione d'uso che intervenivano tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, atteso che all'interno della stessa categoria potevano realizzarsi mutamenti di fatto privi di incidenza sui carichi urbanistici;
b) il mutamento di destinazione d'uso accompagnato da qualsiasi intervento edilizio (per il quale non fosse altrimenti prevista la concessione), anche se solo interno, era assoggettato al regime dell'autorizzazione, stante l'espressa previsione dell'applicabilità del regime delle opere interne (di cui all'art. 26, comma 1, della legge n. 47/1985) alle opere che "non modifichino la destinazione d'uso delle costruzioni";
c) il mutamento di destinazione d'uso senza opere era regolato dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, il quale demandava al legislatore regionale il compito di stabilire "criteri e modalità cui dovranno attenersi i comuni, all'atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l'eventuale regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, della destinazione d'uso degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione".
La situazione mutava ulteriormente a seguito della novella apportata all'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47/1985, dall'art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, secondo il quale "le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione".
La disposizione in esame, nel delegare definitivamente alle Regioni la disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso -e così la facoltà di poter applicare una disciplina uniforme, tanto per quelli di carattere strutturale, quanto per quelli di carattere funzionale- introduceva la facoltà di sottoporre a concessione edilizia i mutamenti d'uso maggiormente significativi, ovvero quelli comportanti un maggiore impatto sull'assetto urbanistico-territoriale (secondo la suddivisione del territorio in zone residenziali ''A'', ''B'' e ''C'', produttive ''D'', agricole ''E'', e destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale ''F'', operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice autorizzazione, quelli attuati all'interno della medesima categoria funzionale.
Da ultimo l'art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni stabiliscano con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Destinazione d'uso di immobile.
La destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (tratto da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 17.09.2012 n. 566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori.
Va premesso che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (v., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n. 219) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 07.09.2012 n. 537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica di destinazione ed aggravio del carico urbanistico.
L'aggravio urbanistico va considerato in relazione alla interezza della condotta ed alle finalità perseguite con le realizzazioni abusive. Il mutamento di destinazione dell'area attraverso la realizzazione delle opere contestate comporta evidentemente l'inadeguatezza delle strutture (strade, fognature, elettrificazione, ecc.) che non possono non essere diverse tra un'area “verde" ed una adibita a scopo produttivo per le diverse esigenze delle stesse (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.08.2012 n. 33353 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decreto sviluppo. Cambi d'uso e manutenzione straordinaria senza permessi.
Per gli immobili d'impresa si amplia l'edilizia libera. Le incertezze interpretative frenano però l'applicazione.
I DUBBI/ Le modifiche urbanistiche non possono interessare i fabbricati che non sono ancora adibiti alle attività produttive.

Il legislatore nazionale torna a occuparsi dell'attività edilizia libera, con l'articolo 13-bis del Dl 83/2012, introdotto dalla legge di conversione in attesa di pubblicazione sulla «Gazzetta»). Dopo le significative modificazioni già apportate alla materia dal Dl 40/2010, la nuova norma amplia ulteriormente il novero degli interventi per la cui esecuzione non è necessario un titolo abilitativo, inserendo al secondo comma dell'articolo 6 del Dpr 380/2001 la lettera e-bis), specificamente rivolta agli immobili utilizzati per lo svolgimento di attività imprenditoriali, nel cui ambito, stante la generalità (o genericità) del termine, possono ragionevolmente ricomprendersi di fatto tutti gli immobili non destinati alla residenza (capannoni e negozi, ad esempio).
Da domani, quindi, sarebbe sufficiente una semplice comunicazione al Comune sia per realizzare «le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa», sia per effettuare «le modifiche della destinazione d'uso» di questi locali.
La disposizione solleva varie perplessità, innanzitutto per il ricorso alla locuzione "modifiche interne" senza alcuna ulteriore specificazione tipologica. Appare azzardato ipotizzare che il legislatore abbia inteso consentire cambiamenti anche di tipo strutturale, oppure interventi riconducibili al novero della ristrutturazione o del restauro e risanamento conservativo, poiché in tal caso verrebbe a delinearsi una incongrua disparità di trattamento e il sospetto di incostituzionalità della previsione. Infatti, solo i proprietari di immobili adibiti ad attività imprenditoriali risulterebbero esentati dalla necessità di un titolo abilitativo per queste categorie di interventi.
È quindi preferibile una lettura costituzionalmente orientata, che riconduca le modifiche interne nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria ammessi dal comma 2, lettera a), che già contempla «l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne»; anche in questo caso con ovvia esclusione delle opere di tipo strutturale –per le quali è richiesto in via generale il titolo abilitativo– e senza alcun mutamento di destinazione d'uso, trattandosi di modifiche edilizie relative a fabbricati comunque già adibiti a esercizio di impresa. Ma con questa più prudente chiave interpretativa, la previsione finisce con lo svuotarsi di contenuto sostanziale.
Anche la seconda parte della disposizione desta incertezze, nella misura in cui prevede la possibilità di effettuare «modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa». Trattandosi di misure teoricamente volte a favorire le iniziative produttive, la norma avrebbe forse dovuto adoperare il termine "da adibirsi", così sancendo la possibilità di utilizzare a esercizio di impresa spazi in precedenza destinati ad altro uso. Inoltre, se i locali sono (già) adibiti ad attività imprenditoriale, la modifica d'uso non potrà che avvenire nell'ambito della stessa tipologia ed essere di tipo funzionale, quindi senza l'esecuzione di opere. Diversamente si ricadrebbe in un'ipotesi interpretativa sperequata e di dubbia costituzionalità, esentando i soli proprietari imprenditori dall'obbligo del previo titolo abilitativo (che nelle zone omogenee "A" è il permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, primo comma, lettera c), Testo unico).
Secondo la giurisprudenza (si veda ad esempio Consiglio di Stato, Sezione V, 1650/2010, 498/2009; Tar Lazio-Roma, 4622/2011; Cassazione penale, Sezione III, 20350/2010) il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico costruttivi, stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria. Peraltro, in questo caso, la modifica d'uso non dovrebbe comportare il pagamento di un ulteriore contributo di costruzione.
La previsione, dunque, dovrebbe essere letta e interpretata tenendo presente le possibili ripercussioni del mutamento d'uso sui parametri urbanistici e sulle volumetrie massime assentibili in relazione agli indici della zona, così come individuati dai piani regolatori generali, nonché i limiti di carattere generale posti per l'attività edilizia che può essere eseguita in assenza di pianificazione urbanistica, specie per ciò che attiene alle destinazioni produttive (articolo 9, testo unico).
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Le nuove definizioni
Le tipologie di attività edilizia libera dopo l'intervento del decreto sviluppo nell'articolo 6 del Testo unico dell'edilizia
ARTICOLO 6, COMMA 1 - Attività edilizia totalmente libera
● lettera a) - manutenzione ordinaria;
● lettera b) - eliminazione di barriere architettoniche senza realizzazione di rampe, di ascensori esterni o altri manufatti che alterino la sagoma dell'edificio;
● lettera c) - opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo, eseguite in aree esterne al centro edificato, di carattere geognostico, ad esclusione di attività di ricerca di idrocarburi;
● lettera d) - movimenti di terra strettamente pertinenti all'esercizio dell'attività agricola e delle pratiche agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari;
● lettera e) - serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell'attività agricola
ARTICOLO 6, COMMA 2 - Attività edilizia libera previa comunicazione inizio lavori
● lettera a) - manutenzione straordinaria, compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, che non riguardi parti strutturali dell'edificio, non aumenti il numero delle unità immobiliari e non incrementi i parametri urbanistici;
● lettera b) - opere dirette a soddisfare esigenze contingenti e temporanee e da rimuovere al cessare della necessità, comunque, entro novanta giorni;
● lettera c) - pavimentazione e finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, contenute entro l'indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati;
● lettera d) - pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici, da realizzare al di fuori delle zone A (centri storici);
● lettera e) - aree ludiche senza fini di lucro ed elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici;
● lettera e-bis) - modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa e modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa
ARTICOLO 6, COMMA 4, PRIMO E SECONDO PERIODO - Attività edilizia libera previa comunicazione inizio lavori, trasmissione dati identificativi dell'impresa esecutrice dei lavori e relazione tecnica, con elaborati progettuali, asseverante la conformità a strumenti urbanistici e regolamenti edilizie e non necessità di titolo abilitativo
● interventi articolo 6, comma 2, lettera a) - manutenzione straordinaria, compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, che non riguardi parti strutturali dell'edificio, non aumenti il numero delle unità immobiliari e non incrementi i parametri urbanistici;
● lettera e-bis) - modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa e modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa (con dichiarazione di conformità da parte dell'Agenzia per le imprese, su sussistenza requisiti)
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SEMPLIFICAZIONI/ Via anche i nullaosta da allegare
L'articolo 13-bis abroga l'intero comma 3 dell'articolo 6 del Dpr 380/2001, facendo venire meno l'obbligo generalizzato di allegare alla comunicazione di inizio dei lavori «le autorizzazioni eventualmente obbligatorie ai sensi delle normative di settore», per tutti gli interventi di cui al comma 2.
Con le contestuali modifiche apportate al comma 4, questo onere permane solo nel caso degli interventi di cui alla lettera a) e alla nuova lettera e-bis), per i quali andranno comunicati i dati identificativi dell'impresa cui si intende affidare la realizzazione dei lavori, nonché una relazione, redatta da un tecnico abilitato. Questi dovrà prima dichiarare di non avere rapporti di dipendenza con l'impresa, né con il committente, quindi asseverare, sotto la propria responsabilità, che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi e che non è necessario il titolo abilitativo.
Infine, per i soli interventi di cui alla lettera e-bis), dovranno essere trasmesse le dichiarazioni di conformità da parte dell'Agenzia per le imprese concernenti la realizzazione, la trasformazione, il trasferimento e la cessazione dell'esercizio del l'attività di impresa.
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INTERVENTO/ Sui tecnici gravano oneri impropri
Per comprendere appieno la portata delle ultime modifiche in tema di attività edilizia libera introdotte dall'articolo 13-bis della legge di conversione del decreto-sviluppo occorrerà attendere un chiarimento giurisprudenziale, se non legislativo. Sino ad allora la complessità delle questioni dovrebbe suggerire ai professionisti di agire con la massima prudenza e di interpretare in senso restrittivo le nuove disposizioni.
Essi vengono chiamati dall'articolo 6, comma 4, del Testo unico dell'edilizia non solo ad asseverare che i lavori progettati siano conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti (e sin qui il compito sarebbe relativamente facile, potendosi fare affidamento su fonti certe e provenienti dalla stessa amministrazione), ma anche a certificare al Comune -e a garantire al committente- che la normativa statale e regionale non prevede il rilascio di un titolo abilitativo per l'intervento che si intende eseguire.
In tal modo, ai tecnici abilitati risulta assegnato un compito esegetico della portata applicativa della norma che non solo li espone a rilevanti responsabilità di natura civile, penale e professionale, ma, soprattutto, che istituzionalmente non compete loro. La funzione interpretativa della norma, infatti, non può che spettare al giudice chiamato ad applicarla, oppure al legislatore che l'ha formulata, operando un chiarimento quando incerta si presenta l'enunciazione normativa o il suo ambito di operatività.
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Le competenze. La Consulta ha chiarito che è il legislatore nazionale a fissare il regime delle autorizzazioni.
Alle Regioni spazi limitati per incidere sui titoli abilitativi.
LA RIPARTIZIONE/ Sulla materia del governo del territorio ancora incerti i confini della potestà normativa suddivisa tra Stato e governi locali.

L'articolo 6, comma 6, lettera a), del Testo unico dell'edilizia stabilisce che le Regioni a statuto ordinario possono estendere la disciplina dell'attività edilizia libera a interventi edilizi ulteriori rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2. La previsione ripropone la tematica dei rapporti tra il Dpr 380/2001 e le leggi regionali in materia, dopo le modifiche del titolo V della Costituzione e solleva dubbi che non vengono sedati –ma semmai ampliati– dal decreto sviluppo di quest'anno.
Norma di riferimento è l'articolo 2 del Testo unico, il cui comma 1 dispone che le Regioni a statuto ordinario «esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel Testo unico». Inoltre (comma 3) le disposizioni, anche di dettaglio, del Testo unico, e attuative dei principi di riordino in esso contenuti, operano direttamente nei riguardi delle medesime Regioni, fino a quando queste non adeguino la propria legislazione a tali principi.
La prima difficoltà, quindi, è quella di circoscrivere la categoria dei principi di riordino e capire in cosa si differenzino dai principi fondamentali. Il Consiglio di Stato (adunanza plenaria del 07.04.2008, n. 2) ha rilevato come il legislatore nazionale, attraverso il Testo unico, ha proceduto al complessivo riordino della materia, assegnando alle disposizioni in esso contenute carattere di norme di principio, con la conseguente abrogazione delle disposizioni regionali con esse confliggenti. Pertanto «fino al l'adeguamento delle Regioni a statuto ordinario alle norme di principio recate nel Testo unico, le norme aventi tale portata in questo contenute sono destinate a prevalere sulle prime».
Anche l'adeguamento del legislatore regionale dovrà però comunque avvenire nel rispetto dei principi fondamentali, che, a loro volta, non sono chiaramente indicati dal Dpr 380/2001, bensì solo desumibili dal Testo unico. Sul punto la Corte costituzionale, con la sentenza 309/2011 ha ribadito che nella normativa di principio in materia di governo del territorio vanno ricondotte tutte le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi. Con l'ulteriore conseguenza che «a fortiori sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali».
Per la Consulta, quindi, l'intero corpo normativo statale si fonda sulla definizione degli interventi edilizi e l'individuazione delle relative categorie spetta al legislatore nazionale. Sarà quindi arduo il compito del legislatore regionale che volesse estendere la disciplina dell'attività edilizia libera a interventi tipologicamente diversi da quelli previsti dalla norma statale, poiché l'esclusione per un intervento dalla necessità del titolo abilitativo potrebbe incorrere nella violazione dell'articolo 117, comma 3 della Costituzione e dei limiti posti alla legislazione concorrente nella materia del governo del territorio (articolo Il Sole 24 Ore del 13.08.2012).

EDILIZIA PRIVATALa sanzione pecuniaria prevista dall’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 (il doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione delle opere abusive) si deve intendere nel senso che la base di calcolo è costituita dall’incremento di valore acquisito dall’immobile per effetto delle innovazioni introdotte.
Quando la modifica consiste nell’adattamento dei locali a una nuova destinazione d’uso l’incremento è dato dalla differenza tra il valore della nuova utilizzazione e quello dell’uso precedente. Poiché si guarda al risultato e non ai mezzi, non ha particolare rilievo il costo dei materiali impiegati.
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In materia edilizia vi sono abusi maggiori (v. art. 31-32-33 del DPR 380/2001) e abusi minori (v. art. 37 del DPR 380/2001), e all’interno di ciascuna categoria si possono individuare abusi sostanziali, così definiti perché normalmente non sanabili con il rilascio successivo del titolo edilizio, e abusi formali, che sono tali in quanto ammettono il rilascio di un titolo edilizio a posteriori.
Gli abusi maggiori (ad esempio, una nuova costruzione senza titolo edilizio) possono essere sanati se esiste la conformità urbanistica (v. art. 36 del DPR 380/2001), gli abusi minori seguono la stessa regola (v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001) ma possono, a certe condizioni, essere sanati anche se non vi è la conformità urbanistica. In quest’ultima ipotesi la somma di denaro pagata non è soltanto una sanzione per la mancata tempestiva richiesta del titolo edilizio ma costituisce principalmente il corrispettivo (o, dal punto di vista dell’amministrazione, il risarcimento) per il fatto che sono mantenuti fermi i risultati dell’intervento edilizio nonostante il contrasto con la disciplina urbanistica;
Per questa ragione la sanatoria degli abusi minori privi di conformità urbanistica è correlata all’aumento del valore venale dell’immobile (v. art. 37, comma 1, del DPR 380/2001, art. 53, comma 2, della LR 12/2005). Quando sussiste la conformità urbanistica la sanzione è invece calcolata in altro modo (v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001).
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Con riferimento al cambio di destinazione d’uso occorre fare un’ulteriore precisazione. Questa fattispecie è inserita da tempo tra gli interventi edilizi minori sottoposti a DIA (v. art. 4, commi 7 e 13, del DL 05.10.1993 n. 398), ma se il cambio implica un incremento dello standard urbanistico si realizza una variazione essenziale da inquadrare tra gli abusi maggiori (v. art. 8, comma 1-a, della legge 47/1985, art. 32, comma 1-a, del DPR 380/2001, art. 54, comma 1-a, della LR 12/2005). Dunque esiste una graduazione all’interno di questa tipologia di abuso che, in mancanza di conformità urbanistica, può condurre all’applicazione di tre diverse discipline sanzionatorie:
(1) abuso maggiore con obbligo di remissione in pristino nel caso di insufficienza dello standard urbanistico;
(2) abuso minore con obbligo di pagamento di una somma pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile se sono state effettuate opere edilizie (v. art. 37, comma 1, del DPR 380/2001);
(3) abuso minore con obbligo di pagamento di una somma pari all'aumento del valore venale dell'immobile se non sono state realizzate opere edilizie (v. art. 53, comma 2, della LR 12/2005).

... per l'annullamento del provvedimento del dirigente dell’Area Servizi al Territorio prot. n. 5904 del 12.03.2001, con il quale, in relazione al cambio di destinazione d’uso dell’immobile situato in via Malogno (mappale n. 31), è stata inflitta una sanzione pecuniaria pari a € 79.017,91 ai sensi dell’art. 3 comma 2 della LR 15.01.2001 n. 1; ...
...
Sulle questioni proposte dalle parti si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) in primo luogo, non sembra che la ricorrente abbia un particolare interesse ad affermare l’inapplicabilità della LR 1/2001. All’epoca del cambio di destinazione d’uso non esisteva una disciplina regionale specifica per questo tipo di infrazioni, e pertanto doveva essere applicato, in quanto norma generale sugli abusi edilizi minori, l’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 (v. ora l’art. 37, comma 1, del DPR 06.06.2001 n. 380). Tale norma, letta in collegamento con l’art. 26 della legge 47/1985, è riferibile anche ai lavori di adattamento interni comportanti modiche alla destinazione d’uso, come nel caso in esame;
(b) la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 (il doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione delle opere abusive) si deve intendere nel senso che la base di calcolo è costituita dall’incremento di valore acquisito dall’immobile per effetto delle innovazioni introdotte. Quando la modifica consiste nell’adattamento dei locali a una nuova destinazione d’uso l’incremento è dato dalla differenza tra il valore della nuova utilizzazione e quello dell’uso precedente. Poiché si guarda al risultato e non ai mezzi, non ha particolare rilievo il costo dei materiali impiegati;
(c) dunque la sanzione dell’art. 10, comma 1, della legge 47/1985 è confrontabile con quella dell’art. 3, comma 2, della LR 1/2001 (v. ora l’art. 53, comma 2, della LR 11.03.2005 n. 12), e dal confronto si desume che la ricorrente trae un vantaggio dall’applicazione di quest’ultima, in quanto l’onere economico è dimezzato;
(d) in proposito si osserva che questo risultato (ossia una sanzione pari all'aumento del valore venale e non al doppio di tale aumento) è stato raggiunto perché il Comune ha ritenuto che la modifica della destinazione d’uso sia stata conseguita senza opere edilizie (appunto la fattispecie che l’art. 3, comma 2, della LR 1/2001 ha staccato dalla previsione generale dell’art. 10, comma 1, della legge 47/1985). Se invece il Comune avesse qualificato come opere edilizie i lavori eseguiti dalla ricorrente si sarebbe applicata la sanzione corrispondente alla tipologia delle innovazioni in concreto poste in essere (v. art. 3, comma 1, della LR 1/2001, art. 53, comma 1, della LR 12/2005), ossia nel caso specifico proprio la sanzione ex art. 10, comma 1, della legge 47/1985;
(e) cadono quindi le censure della ricorrente contro il presunto fraintendimento degli interventi eseguiti al primo piano dell’edificio in questione. In realtà il Comune ha giudicato irrilevanti le partizioni in cartongesso e si è (correttamente) concentrato sul cambio di destinazione d’uso. Della presenza di un cambio di destinazione d’uso non si può dubitare se si mettono a confronto da un lato la zonizzazione e il certificato di agibilità (incentrati sull’uso industriale-artigianale) e dall’altro l’attività svolta in concreto (poliambulatorio);
(f) non possono essere condivise neppure le censure che tendono a porre in risalto il comportamento contraddittorio degli uffici comunali. Una certa mancanza di coordinamento è evidente, perché quando il Comune ha imposto la sanzione pecuniaria per il cambio di destinazione d’uso stava già riscuotendo da oltre due anni l’imposta sulla pubblicità relativa all’attività di poliambulatorio e di fisioterapia. Tuttavia non esiste alcuna contraddizione tra questi provvedimenti: la sanzione pecuniaria è infatti il prezzo che il privato è tenuto a pagare per consolidare un cambio di destinazione d’uso senza opere in contrasto con le norme urbanistiche, precisamente la fattispecie disciplinata dall’art. 3, comma 2, della LR 1/2001;
(g) per chiarire meglio questo punto occorre posizionare la vicenda in questione nel quadro generale: in materia edilizia vi sono abusi maggiori (v. art. 31-32-33 del DPR 380/2001) e abusi minori (v. art. 37 del DPR 380/2001), e all’interno di ciascuna categoria si possono individuare abusi sostanziali, così definiti perché normalmente non sanabili con il rilascio successivo del titolo edilizio, e abusi formali, che sono tali in quanto ammettono il rilascio di un titolo edilizio a posteriori.
Gli abusi maggiori (ad esempio, una nuova costruzione senza titolo edilizio) possono essere sanati se esiste la conformità urbanistica (v. art. 36 del DPR 380/2001), gli abusi minori seguono la stessa regola (v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001) ma possono, a certe condizioni, essere sanati anche se non vi è la conformità urbanistica. In quest’ultima ipotesi la somma di denaro pagata non è soltanto una sanzione per la mancata tempestiva richiesta del titolo edilizio ma costituisce principalmente il corrispettivo (o, dal punto di vista dell’amministrazione, il risarcimento) per il fatto che sono mantenuti fermi i risultati dell’intervento edilizio nonostante il contrasto con la disciplina urbanistica;
(h) per questa ragione la sanatoria degli abusi minori privi di conformità urbanistica è correlata all’aumento del valore venale dell’immobile (v. art. 37, comma 1, del DPR 380/2001, art. 53, comma 2, della LR 12/2005). Quando sussiste la conformità urbanistica la sanzione è invece calcolata in altro modo (v. art. 37, comma 4, del DPR 380/2001);
(i) con riferimento al cambio di destinazione d’uso occorre fare un’ulteriore precisazione. Questa fattispecie è inserita da tempo tra gli interventi edilizi minori sottoposti a DIA (v. art. 4, commi 7 e 13, del DL 05.10.1993 n. 398), ma se il cambio implica un incremento dello standard urbanistico si realizza una variazione essenziale da inquadrare tra gli abusi maggiori (v. art. 8, comma 1-a, della legge 47/1985, art. 32, comma 1-a, del DPR 380/2001, art. 54, comma 1-a, della LR 12/2005). Dunque esiste una graduazione all’interno di questa tipologia di abuso che, in mancanza di conformità urbanistica, può condurre all’applicazione di tre diverse discipline sanzionatorie:
   (1) abuso maggiore con obbligo di remissione in pristino nel caso di insufficienza dello standard urbanistico;
   (2) abuso minore con obbligo di pagamento di una somma pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile se sono state effettuate opere edilizie (v. art. 37, comma 1, del DPR 380/2001);
   (3) abuso minore con obbligo di pagamento di una somma pari all'aumento del valore venale dell'immobile se non sono state realizzate opere edilizie (v. art. 53, comma 2, della LR 12/2005);
(j) il Comune ha deciso di collocare il comportamento della ricorrente nella terza categoria, nonostante le osservazioni contenute nella relazione del 14.04.2000 sulla diversa quantificazione delle aree a standard per gli insediamenti produttivi e per quelli direzionali;
(k) questa decisione è in effetti più vantaggiosa per la ricorrente, in quanto permette di conservare la nuova destinazione d’uso pagando una sanzione pecuniaria (e, tra le sanzioni ipotizzabili, quella minore), ma è irragionevole e sproporzionata nella parte in cui non consente alla ricorrente di liberarsi dalla sanzione rinunciando al cambio di destinazione d’uso.
Il Comune avrebbe invece dovuto porre alla ricorrente un’alternativa: pagare la somma richiesta e proseguire nell’utilizzazione dell’immobile come poliambulatorio (eventualmente adeguando le aree a standard, ma su questo i provvedimenti impugnati non si soffermano) oppure rimettere in pristino i locali abbandonando ogni utilizzazione diversa da quella industriale-artigianale.
Non spetta infatti all’amministrazione la scelta sul modo migliore di soddisfare l’interesse dei privati quando vi sono due opzioni ugualmente idonee a tutelare l’interesse pubblico (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 09.08.2012 n. 1443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, da definirsi esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico; parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione, anche senza opere.

La specifica disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso deve essere letta ed interpretata alla luce dei principi fondamentali e delle disposizioni più generali risultanti dalla legislazione statale (DPR 380/2001) ed anche dalla stessa legge regionale 12/2005.
Quest’ultima, in particolare, all’art. 51, comma 1°, se da una parte ammette in via di principio il passaggio da una destinazione all’altra, fa espressamente salve le esclusioni previste dallo strumento urbanistico generale (<<…salvo quelle eventualmente escluse dal PGT>>).
L’art. 52, comma 2°, del resto, prevede per i mutamenti d’uso senza opere edilizie un obbligo di semplice comunicazione all’Amministrazione, purché i suddetti mutamenti siano <<…conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria>>.
Quanto alla normativa statale, l’art. 32, comma 1°, del DPR 380/2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 del DPR 380/2001 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal DM 02.04.1968, n. 1444.
Appare quindi evidente che il mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere edilizie, non può costituire una operazione edilizia o urbanistica per così dire “neutra”, da definirsi esclusivamente attraverso il pagamento di una sanzione pecuniaria, dovendo l’Amministrazione verificare se il cambio d’uso non abbia inciso anche sul carico urbanistico della zona.
In questo senso appare orientata anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il mutamento di destinazione d’uso è rilevante se avviene fra <<categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico>>, dovendosi in tal caso verificare la variazione del carico urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546, con la giurisprudenza ivi richiamata); parimenti è stato affermato che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, rileva il passaggio dell’immobile ad una categoria funzionalmente autonoma dal punto di vista urbanistico, con conseguente aumento del carico; in altri termini si configura una “trasformazione edilizia” quando la stessa sia produttiva di vantaggi economici connessi all’utilizzazione, anche senza opere (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.10.2011, n. 5539, con le pronunce in essa richiamate ed anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2011, n. 468).
Nel caso di specie, la disciplina urbanistica del PRG di Lissone esclude che nella zona B3 di cui è causa sia possibile la destinazione residenziale: in tal senso si vedano l’art. 16.5.4 delle NTA che individua le destinazioni compatibili con quella principale produttiva, l’art. 20 delle NTA, che attribuisce alla zona B3 una caratteristica essenzialmente produttiva industriale e artigianale e l’art. 22 delle NTA, che per la zona B3 ammette attività compatibili e complementari con quella primaria produttiva (cfr. doc. 3 del resistente nel ricorso 1930/2011).
Dal combinato disposto delle norme tecniche citate, è agevole concludere che la destinazione residenziale non è possibile nella zona B3, se non per la sola ipotesi della residenza del custode in misura massima del 16.67% della s.l.p. (superficie lorda di pavimento).
Appare poi evidente che il passaggio dalla destinazione produttiva a quella residenziale implica il passaggio ad una autonoma categoria funzionale, con incremento del carico urbanistico dovuto alla presenza di persone stabilmente residenti nell’immobile.
Deve quindi riconoscersi in capo alle Amministrazioni locali il potere, in caso di mutamento d’uso senza opere edilizie in contrasto con le previsioni urbanistiche, di ordinare la rimessione in pristino, per evitare un illecito ed irreversibile cambio di destinazione urbanistica non accompagnato da adeguate misure per fare fronte all’aumentato carico urbanistico.
Alla luce di quanto sopra esposto, devono respingersi le censure contenute nel ricorso RG 1930/2011 contro la nota comunale dell’11.4.2011, nella quale, pur dandosi avviso dell’avvio del procedimento sanzionatorio per gli abusi edilizi riscontrati (interventi eseguiti in difformità dalle DIA del 2007 e del 2010), viene sostanzialmente negato il cambio di destinazione d’uso dei locali, richiesto dall’esponente con istanza del 28.03.2011 (cfr. doc. 6 della ricorrente).
In ordine all’accertamento dell’abuso, si richiama il verbale di sopralluogo del 06.04.2011 con l’allegata documentazione fotografica (cfr. doc. 15 del resistente nel ricorso 1930/2011), dal quale risulta in maniera inequivocabile che all’interno delle unità immobiliari di cui è causa sono stati realizzati bagni completi di sanitari e la predisposizione per le cucine; si tratta di interventi che rivelano con sufficiente chiarezza il cambio d’uso intervenuto negli ambienti, destinati senza dubbio alla permanenza continua di persone ed alla residenza e non certo all’attività produttiva (sull’accertamento del cambio di destinazione d’uso, che può essere desunto anche da elementi indiziari, purché univoci, si vedano: Cassazione penale, sez. III, 26.01.2011, n. 9282 e TAR Lombardia, Milano, 29.04.2011, n. 1105).
L’istruttoria svolta appare quindi adeguata, così come non si ravvisa alcuna violazione dell’obbligo di motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.07.2012 n. 2146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADECRETO SVILUPPO/ In azienda opere edili senza vincoli. Ammesso anche il cambio di destinazione d'uso dei locali adibiti alle attività.
VIA I PALETTI/ Gli interventi edilizi interni (sia in muratura che prefabbricati) sono sottratti al passaggio burocratico in Comune.

Novità per i fabbricati adibiti a esercizio d'impresa, nei quali possono essere realizzate modifiche interne di carattere edilizio o mutamenti di destinazione d'uso senza alcun titolo abilitativo.
Lo consente l'articolo 13-bis del decreto legge «sviluppo» (n. 83 del 22.06.2012), che amplia una previsione valida in precedenza solo per la manutenzione straordinaria, le pavimentazioni, i pannelli solari, le aree ludiche e le opere temporanee.
Dal giugno 2012, quindi, gli interventi edilizi interni (sia in muratura che prefabbricati) sono sottratti al passaggio burocratico del Comune, perché sono equiparati alle opere libere, che non esigono titoli edilizi. L'innovazione non riguarda le aree produttive scoperte, né quelle (quali le tettoie) che ricadono in zone prive di delimitazioni e che quindi non presentano caratteristiche di zone «interne».
In aggiunta alle opere di carattere edilizio, sono disciplinati in modo innovativo anche i mutamenti di destinazione d'uso dei locali adibiti a esercizio di impresa: ciò significa che all'interno di un immobile di impresa i singoli locali (uffici, magazzini, depositi, servizi) possono trasmigrare da una destinazione all'altra.
Le nuove libertà riguardano non solo le aree produttive, ma in generale le destinazioni ad esercizio di impresa, quindi qualsiasi intervento di tipo produttivo purché interno all'attività.
Sino a oggi la materia era regolata dalla circolare del ministero Lavori pubblici n. 1918 del 16.11.1977 in tema di opere da realizzare all'interno di stabilimenti industriali. Questa circolare riguardava tuttavia soprattutto gli elementi tecnologici, quali cabine, canalizzazioni, serbatoi baracche, palloni pressostatici chioschi, pali, passerelle basamenti e tettoie di protezione.
Si tratta di elementi di libera realizzazione purché non in contrasto con aspetti ambientali igienico sanitari e comunque senza incremento di densità (aumento di addetti).
Solo in casi particolari (come stabilito dal Tar Parma 537/2003) si riusciva a superare le previsioni dei Comuni, ottenendo la suddivisione di un ampio capannone attraverso tramezzature interne e l'ampliamento del numero degli accessi; spesso poi la modifica interna era, per il Comune, un'occasione per esigere il pagamento di oneri di concessione, quanto meno su una delle due frazioni di capannone ottenuta sezionando la precedente unità.
Questi problemi sembrano ora superati dal decreto legge del 2012, norma che va oltre gli aspetti della tecnica produttiva (le innovazioni necessarie per esigenze tecnologiche e di sicurezza), poiché vengono agevolate anche le modifiche di stampo edilizio e le destinazioni d'uso.
Un limite all'agevolazione può tuttavia desumersi dal comma 4 dell'articolo 6 del Dpr 380/2001, introdotto dal l'articolo 13-bis del decreto legge 83/2012: subito dopo aver reso liberi gli interventi nei luoghi produttivi, il legislatore prevede che l'interessato debba comunicare al Comune l'inizio dei lavori, i dati dell'impresa esecutrice e una relazione tecnica di data certa, con elaborati progettuali, a firma di un professionista abilitato.
Il tecnico deve asseverare, sotto la propria responsabilità, che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti e che per essi la normativa statale e regionale non prevede il rilascio di un titolo abilitativo.
Sembra quindi che il nuovo comma 4 dell'articolo 6 del Dpr 380/2001 (richiedendo l'asseverazione) contrasti con il precedente comma 2, lettera e-bis (che parla di esecuzione senza alcun titolo abilitativo). Ciò accade proprio ora che la Corte costituzionale (164 del 27.06.2012) ha sancito la supremazia della legislazione nazionale in materia di Scia rispetto alle più severe norme locali.
In ogni caso, la liberalizzazione delle opere interne in edifici produttivi e quella dei cambi di destinazione vede entrare in azione le agenzie per le Imprese (regolate dalla legge 112/2008, articolo 38, comma 3), le quali devono certificare (su richiesta degli interessati) la sussistenza dei requisiti e i presupposti per considerare le modifiche interne e quelle di destinazione d'uso conformi al decreto legge 83/2012.
Anche in tal caso, quindi, la maggiore snellezza della procedura è attuata chiedendo un ausilio ai privati.
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Tutte le misure di snellimento antiburocrazia
Le novità introdotte dal decreto sviluppo incidono profondamente sull'attività edilizia, liberalizzando
le procedure soprattutto se i lavori si svolgono all'interno delle unità produttive
SPORTELLO UNICO
Lo sportello unico per l'edilizia diventa il punto di riferimento obbligato per tutti gli atti «riguardanti il titolo abitativo e l'intervento edilizio oggetto dello stesso». Lo sportello fornisce una risposta tempestiva in luogo di tutte le Pa comunque coinvolte.
Tutti gli atti dovranno essere gestiti da questa struttura, e altri uffici comunali o altre amministrazioni coinvolte dal procedimento non potranno trasmettere autonomamente «ai richiedenti» atti autorizzatori, pareri, nulla osta o consensi.
PERMESSO DI COSTRUIRE
Per il rilascio del permesso di costruire, rientra nelle competenze dello sportello unico l'acquisizione, diretta o tramite conferenza di servizi, di pareri di amministrazioni finora escluse. Tra queste, Regione, Difesa e autorità sui vincoli idrogeologici.
Il responsabile dello sportello unico ha l'obbligo di indire la conferenza di servizi se entro sessanta giorni dalla domanda manca ancora qualche nulla osta o c'è il dissenso di qualche amministrazione.
STOP ALLA DUPLICAZIONE DI DOCUMENTI
Scatta un taglio consistente della documentazione richiesta per tutti gli interventi, compresi quelli minori fatti in casa, grazie all'acquisizione d'ufficio dei documenti già in possesso degli uffici pubblici, come documenti catastali o variazioni di mappa.
In base alle nuove disposizioni contenute nella versione definitiva del Dl Sviluppo le amministrazioni «non possono richiedere attestazioni, comunque denominate, o perizie, sulla veridicità e l'autenticità di tali documenti, informazioni e dati».
LAVORI NELLE IMPRESE
Novità importanti nei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, nei quali possono essere realizzate modifiche interne di carattere edilizio o mutamenti di destinazione d'uso senza alcun titolo abilitativo. Lo consente l'articolo 13-bis del Dl "sviluppo".
Dal giugno 2012 tutti gli interventi edilizi interni sono sottratti al passaggio burocratico del Comune, perché sono equiparati alle opere libere, che non esigono titoli edilizi. Prima erano esclusi solo manutenzione straordinaria, pannelli solari e aree ludiche.
CAMBI DI DESTINAZIONI D'USO IN AZIENDA
Vengono regolati anche i mutamenti di destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio di impresa: all'interno di un immobile d'impresa i singoli locali (uffici, magazzini, depositi, servizi) possono trasmigrare da una destinazione all'altra.
Le nuove libertà riguardano non solo le aree produttive, ma in generale tutte le destinazioni ad esercizio di impresa, quindi anche qualsiasi intervento di tipo produttivo purché interno all'attività (articolo Il Sole 24 Ore del 26.07.2012).

EDILIZIA PRIVATA: La destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori.
Va premesso che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (v., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.
05.1992 n. 219).
Tale principio, d’altra parte, risulta codificato anche nella legislazione della Regione Emilia-Romagna, laddove è previsto che la “destinazione d’uso in atto dell’immobile o dell’unità immobiliare è quella stabilita dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o l’ultimo intervento e recupero o, in assenza o indeterminatezza del titolo, dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento ovvero da altri documenti probanti” (art. 26, comma 3, legge reg. n. 31/2002) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 24.07.2012 n. 520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere edilizie autorizzate, l'uso diverso legittima la demolizione.
E' legittima l'ordinanza di demolizione di opere la cui destinazione, sebbene cristallizzata nel provvedimento abilitativo, è mutata nel corso del tempo a cagione di un diverso utilizzo da parte degli interessati.

Il deducente, proprietario di due posti auto ubicati nel piano interrato di un immobile situato nel centro cittadino, ha gravato l’ordinanza con cui il Comune aveva ingiunto, ai sensi dell’art. 9, comma 1, della L.R. (Emilia Romagna) n. 23/2004, la demolizione di alcuni interventi realizzati per la chiusura dei “…box auto destinati al solo utilizzo privato …”, nonché il ripristino della destinazione degli stessi a “… spazi per sosta e parcheggi pubblici in interrato”.
In particolare, ha contestato l’erroneità del presupposto secondo cui tutti i posti auto di quell’edificio avrebbero costituito, sebbene privati, parcheggi funzionali alle attività terziarie e direzionali insediate negli edifici del comparto realizzato con precedente piano particolareggiato e che, quindi, avrebbero rappresentato “spazi per sosta e parcheggi pubblici in interrato”, ovvero spazi destinati a operare come strutture aperte non suddivise in box.
Invero, ha addotto che la concessione edilizia rilasciata riguardava l’esecuzione di lavori di “interrato sottopiazza a uso parcheggi di pertinenza” e che le convenzioni urbanistiche a suo tempo stipulate tra il Comune e il soggetto attuatore del piano particolareggiato non contemplavano il diritto di uso pubblico dei posti-auto.
Il Collegio di Bologna ha dichiarato l’infondatezza del gravame.
In argomento ha dapprima rammentato che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto: “… la nozione di <<uso>> urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile – quale individuata nel titolo edilizio – senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori” (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001, n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005, n. 85; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992, n. 219).
D’altra parte, ha osservato come il menzionato principio sia stato codificato anche nella legislazione della regione Emilia Romagna, laddove, all’art. 26, comma 3, L.R. n. 31/2002, è previsto che: “… la destinazione d’uso in atto dell’immobile o dell’unità immobiliare è quella stabilita dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o l’ultimo intervento e recupero o, in assenza o indeterminatezza del titolo, dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento ovvero da altri documenti probanti”.
Sicché, con riferimento alla vicenda, il giudicante ha sottolineato che, al momento di richiesta del rilascio della concessione edilizia per i lavori di «interrato sottopiazza ad uso parcheggi di pertinenza», l’amministrazione comunale aveva istruito la pratica e acquisito l’avviso positivo del Settore gestione controlli trasformazioni urbanistiche, nonché il parere favorevole della Commissione edilizia.
Tali atti istruttori avevano evidentemente rappresentato gli elementi costitutivi della volontà della civica P.A. di assentire i predetti interventi, con la conseguenza che mediante il rilascio del relativo titolo abilitativo si fosse inteso destinare quei posti-auto al soddisfacimento delle necessità di parcheggio degli utenti della attività direzionali insediate nel comparto, indipendentemente dall’uso che poi in concreto fosse stato fatto da parte degli interessati.
Pertanto, la circostanza per cui, a distanza di un considerevole arco di tempo, le caratteristiche strutturali di quelle aree erano state modificate in termini tali (trasformazione in veri e propri “box auto” chiusi) da renderle oggettivamente inidonee all’uso a suo tempo autorizzato, a opinione dell’adito Tribunale aveva giustificato l’intervento repressivo dell’amministrazione ex art. 9, comma 1, L.R. n. 23/2004; quest’ultima diposizione, non a caso, prevede espressamente che: ”… lo Sportello unico per l’edilizia, quando accerti l’inizio o l’esecuzione di opere, realizzate senza titolo o in difformità dallo stesso, su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti, a vincolo di inedificabilità o destinate a opere e spazi pubblici … ordina l’immediata sospensione dei lavori e ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso di provvedere entro novanta giorni alla demolizione delle opere e al ripristino dello stato dei luoghi …”.
Né a differenti conclusioni s’è giunti con riferimento alla doglianza formulata dall’interessato secondo cui l’omessa trascrizione del vincolo (pubblico) nei registri immobiliari avrebbe determinato l’inopponibilità dello stesso ai terzi acquirenti del bene.
In realtà il Collegio ha precisato che, essendo il vincolo di destinazione d’uso il risultato dell’efficacia costitutiva del rilascio della concessione edilizia, le limitazioni connesse a tale destinazione si sarebbero risolte in una qualità obiettiva del suolo che, proprio perché formata da un provvedimento amministrativo, sarebbe stata opponibile anche ai terzi acquirenti, fatti salvi i rimedi giurisdizionali e amministrativi azionabili nei confronti del titolo abilitativo eventualmente illegittimo.
D’altro canto, ha rilevato che la tutela dei terzi sarebbe stata comunque assicurata con la pacifica accessibilità agli atti urbanistico/edilizi del Comune e con la conseguente possibilità di conoscenza della destinazione d’uso impressa a ogni singolo immobile oggetto di interesse dei consociati, secondo modalità che garantiscono un’adeguata pubblicità e quindi una sufficiente circolazione delle informazioni.
In virtù di quanto illustrato, il G.A. di Bologna ha respinto il ricorso, contestualmente dichiarando la legittimità della gravata ordinanza di demolizione (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 24.07.2012 n. 520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Mutamento della destinazione d’uso senza opere edilizie (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, risposta e-mail del 20.07.2012).
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Pubblichiamo l'interessante quesito redatto dall'U.T. di un comune bergamasco con annessa risposta.
La questione non è affatto chiara, tant'é che da un'indagine -ancorché non approfondita- con alcuni UTC lombardi se ne sono sentite di cotte e di crude circa il modus operandi ...
Adesso, però, si spera che con questa risposta regionale si possa avere -d'ora in avanti- un comportamento uniforme sull'intero territorio regionale.
23.07.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATA: Centri culturali islamici: in quali zone del PRG possono collocarsi? La questione delle associazioni di promozione sociale.
Nel caso esaminato dalla sentenza 11.06.2012 n. 801 del TAR Veneto, Sez. II, il comune ha diffidato un centro culturale islamico a usare un immobile in modo difforme dalla destinazione d'uso risultante dal certificato di agibilità conseguito per il medesimo immobile (capannone destinato ad attività produttivo-artigianale).
Il TAR ha ritenuto che le disposizioni del PRG non consentano destinazioni d'uso diverse da quelle produttivo-artigianali e ha concluso che le attività destinate al culto e/o ad associazioni culturali o religiose non possono trovare collocazione in questa zona, ma possono essere svolte nelle zone a ciò destinate dal P.R.G., ai sensi dell’art. 30 delle N.T.A.
IL TAR non ha ritenuto applicabile la disposizione dell'art. 32 della legge 383 del 2000 che stabilisce che le attività delle associazioni di promozione sociale sono compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica, in quanto non è stato conseguito il formale riconoscimento come associazione di promozione sociale: "che, invero, ai sensi dell’art. 7 della normativa invocata è prevista l’iscrizione delle associazioni di promozione sociale in appositi registri, su scala nazionale o regionale a seconda del livello di operatività delle associazioni, e ai sensi del successivo art. 8 è prescritto che al fine di usufruire dei benefici di cui alla legge de qua è necessario conseguire l’iscrizione nei suddetti registri, nazionali o regionali; atteso che l’associazione ricorrente non ha fornito alcuna documentazione a tale specifico riguardo, non dimostrando l’iscrizione nel registi di cui alla L. n. 383/2000, diversa essendo la documentazione proveniente dall’Agenzia delle Entrate ai sensi e per gli effetti di cui al D.lgs. n. 460/1997" (commento tratto da e link a http://venetoius.myblog.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Ordinanze contingibili e urgenti (divieto di utilizzo di locale seminterrato adibito a luogo di culto).
La giurisprudenza ha costantemente affermato il principio secondo cui deve escludersi l'illegittimità del provvedimento amministrativo, fondato su una pluralità di autonomi motivi, quando ne esista almeno uno idoneo a sostenere l'atto stesso.
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Una volta provato, come è avvenuto attraverso i sopralluoghi per il procedimento edilizio e i controlli della Polizia Locale, che l’immobile (ndr: magazzino) viene utilizzato quale luogo di culto, da un numero di persone che, con alta probabilità, supera sistematicamente le 150 unità, l’adozione di un provvedimento di inibizione dell’uso dei locali si configura come atto dovuto, atteso che l’esigenza di garantire luoghi di ritrovo salubri e sicuri è ragione sufficiente a giustificare l’adozione di un provvedimento contingibile e urgente, volto a prevenire ed eliminare ogni possibile pericolo imprevedibile che può nascere da un assembramento di persone in luoghi chiusi.

Oggetto del presente ricorso è il provvedimento con cui il Comune di Legnano ha disposto il divieto di utilizzare il seminterrato di un immobile, sede di una associazione culturale, per le riunioni o gli incontri di preghiera.
Il provvedimento è qualificato come ordinanza contingibile ed urgente, ex art. 54 TUEL, ed è stato adottato a seguito di una istruttoria che verte sia sul profilo sanitario sia su quello della sicurezza.
L’Amministrazione già in precedenza aveva rilevato la violazione di disposizioni edilizie e aveva quindi ordinato la demolizione delle opere, con un provvedimento mai gravato e divenuto quindi inoppugnabile.
Due sono quindi i procedimenti, conclusisi con atti distinti: il procedimento edilizio, al cui esito si ordina la demolizione delle opere realizzate senza titolo; il procedimento de quo, relativo all’uso dell’immobile, utilizzo che contrasta, non solo con la destinazione dei locali (magazzino), ma anche con la disciplina igienico-sanitaria e con le norme di prevenzione incendi: stante quindi le accertate violazioni l’Amministrazione ha adottato un provvedimento ex art. 54 TUEL, per la evidente necessità di “tutelare la pubblica incolumità e sicurezza” di coloro che occupano l’immobile.
Così qualificato l’atto impugnato, il Collegio ritiene che i profili di illegittimità rilevati siano infondati, per cui si può prescindere dall’esame delle eccezioni preliminari sollevate dalla difesa dell’Amministrazione.
Alla base dell’ordine di non utilizzare l’immobile vi sono gli accertamenti della Polizia Locale, che in più occasioni (in particolare il 29.3.2010, 21.5.2010, 6.8.2010 e 3.9.,2010), ha verificato l’ingresso continuo di persone, anche fino a 400.
Poco rileva la circostanza, contestata da parte ricorrente, che vi sarebbe un via vai costante e quindi che non sarebbe provato l’esatto numero di persone presenti contestualmente nell’immobile: è infatti un dato accertato durante tutti i sopralluoghi, che intorno alle 12.30, più di 100 persone entrano nell’immobile, vi stanziano fino alle 15.30 e in questo lasso di tempo continuano ad entrare altri soggetti.
Questa situazione di fatto ha portato l’Amministrazione ad adottare l’ordinanza qui gravata, per la violazione della normativa igienico-sanitaria e di quella antincendio.
Va premesso, prima dell’esame dei singoli motivi, che il provvedimento in esame è un atto plurimotivazionale ed è quindi sufficiente la legittimità di un solo motivo per rendere legittimo il provvedimento. Al proposito occorre ricordare -perché utile nell'esame della fattispecie- che la giurisprudenza ha costantemente affermato il principio secondo cui deve escludersi l'illegittimità del provvedimento amministrativo, fondato su una pluralità di autonomi motivi, quando ne esista almeno uno idoneo a sostenere l'atto stesso (Cons. Stato sez. VI, 19.08.2009, n. 4975; 17.09.2009, n. 5544; 05.07.2010, n. 4243).
Nella prima censura, lamenta parte ricorrente l’errata applicazione delle disposizioni del regolamento di igiene, in quanto l’ASL farebbe riferimento ad una situazione ancora da accertare.
Il motivo non ha pregio.
Come sopra detto non può essere messo in dubbio che nel seminterrato stanzino un certo numero di persone: è quindi corretto il richiamo alle norme del Regolamento locale di igiene che per i locali seminterrati impone una serie di prescrizioni nel caso di permanenza di persone, requisiti assenti nel caso di specie: infatti ai sensi dell’art 3.6.4 la permanenza nei locali seminterrati è consentita a condizione che vi siano adeguate condizioni di altezza, di superficie e di aereoilluminazione. L’art 3.6.9 detta prescrizioni per le dimensioni delle scale; l’art 3.8.1. impone poi per i locali di ritrovo una cubatura pari a 4 mc. per ogni utente e almeno due servizi per ogni 200 utilizzatori.
La violazione di queste prescrizioni è stata accertata non solo dal Comune in sede di procedimento edilizio, ma anche dall’ASL nella nota del 27.04.2010, in cui vengono indicate le condizioni necessarie nell’ipotesi di uso dell’immobile “come locali di ritrovo”, circostanza che l’Autorità sanitaria ritiene debba essere accertata dall’Amministrazione Comunale.
Pertanto l’Autorità Sanitaria non si è limitata ad un richiamo generico di norme regolamentari, come sostenuto da parte ricorrente, ma ha indicato con precisione le norme che devono essere rispettate per l’uso dell’immobile quale luogo di ritrovo, demandando all’Amministrazione Comunale l’accertamento di questo profilo.
Il provvedimento richiama anche il parere dei Vigili del Fuoco del 03.06.2010, dove si afferma che i locali potrebbero avere i requisiti di sicurezza e salubrità a condizione che la capienza non superi le 150 unità, le uscite di sicurezza siano dotate di adeguata segnaletica e vi sia la documentazione prevista dal d.lgs. 81/2008.
Ma nello stesso parere si da atto che le vie di uscita non sono dotate di segnaletica e che il locale può avere i requisiti di sicurezza, solo se “la capienza massima non superi le 150 unità”.
Una volta quindi provato, come è avvenuto attraverso i sopralluoghi per il procedimento edilizio e i controlli della Polizia Locale, che l’immobile viene utilizzato quale luogo di culto, da un numero di persone che, con alta probabilità, supera sistematicamente le 150 unità, l’adozione di un provvedimento di inibizione dell’uso dei locali si configura come atto dovuto, atteso che l’esigenza di garantire luoghi di ritrovo salubri e sicuri è ragione sufficiente a giustificare l’adozione di un provvedimento contingibile e urgente, volto a prevenire ed eliminare ogni possibile pericolo imprevedibile che può nascere da un assembramento di persone in luoghi chiusi.
Per tali ragioni, l’ordinanza resiste alla prima censura e la motivazione igienico sanitaria e di sicurezza è sufficiente a sorreggere il provvedimento (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 08.06.2012 n. 1618 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La lottizzazione abusiva presuppone opere (c.d. lottizzazione materiale) o iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione cartolare) che comportano una trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche.
Al fine di valutare un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare necessaria una visione d'insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell'attività edilizia realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all'attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione
Proprio in quanto sussiste lottizzazione abusiva in tutti i casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la programmazione del territorio, deve rilevarsi che la verifica dell'attività edilizia realizzata nel suo complesso può condurre a riscontrare un illegittimo mutamento della destinazione all'uso del territorio autoritativamente impressa anche nei casi in cui le variazioni apportate incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 che impone di affermare che integra un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita adeguamento degli standards. Invero, il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica ed edilizia" e non quello di "opera comportante trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende che il mutamento di destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi insistono e può altresì comportare nuovi interventi di urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni, lo si ribadisce, deve quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva, appunto, a garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire.
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Può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto) ma anche soltanto un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standards e rimarcare che, avuto riguardo alla tipologia dei reiterati abusivi intereventi realizzati, ove unitariamente considerati, questa è l’evenienza realizzatasi nel caso di specie.
In sostanza: da un modesto immobile di minima consistenza, attraverso una pluralità di opere abusive, poste in essere con sistematicità, ed in spregio anche ai decreti di sequestro via via emessi dall’Autorità amministrativa e giudiziaria (si veda il capo di imputazione sotteso alla sentenza ex art. 444 cpp, laddove è stato contestato il delitto di violazione di sigilli aggravata ex art. 349 cpv cp) si è realizzato un piccolo albergo munito financo di piscina.
La giurisprudenza della Corte di cassazione penale è ormai stabilmente orientata all’affermazione di detto principio.
Si rammenta in proposito (la fattispecie è speculare a quella in esame) quanto ripetutamente sostenuto da questa giurisprudenza, cioè che: “In materia edilizia, il reato di lottizzazione abusiva mediante modifica della destinazione d'uso da alberghiera a residenziale è configurabile, nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico generale consenta l'utilizzo della zona ai fini residenziali, in due casi:
a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato alla stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad immobili residenziali;
b) quando la destinazione d'uso residenziale comporti un incremento degli "standards" richiesti per l'edificazione alberghiera e tali "standars" aggiuntivi non risultino reperibili ovvero reperiti in concreto.”.
In detta pronuncia, in particolare, si è condivisibilmente affermato che il problema della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche alla stregua della legislazione urbanistica regionale in materia di classificazione delle categorie funzionali della destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni della pianificazione comunale, alle quali deve essere raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in particolare, “può integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento della destinazione d'uso di un immobile che alteri il complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto alla individuazione di siffatta "alterazione", che l'organizzazione del territorio comunale si attua con il coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità di servizi.
L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli standards di zona.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin da epoca risalente affermato dalla giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato ha rimarcato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede" (nella specie è stato affermato che legittimamente un Comune aveva respinto l'istanza per il cambio di destinazione d'uso di un complesso immobiliare, relativamente ad uso esclusivamente residenziale, del tutto incompatibile con la destinazione di zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), del in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
L'art. 30 del D.P.R. 380/2001, al comma 1, dispone che: "si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio".
Appare evidente che la lottizzazione abusiva presuppone opere (c.d. lottizzazione materiale) o iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione cartolare) che comportano una trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche.
Al fine di valutare un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare necessaria una visione d'insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell'attività edilizia realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all'attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione
Proprio in quanto sussiste lottizzazione abusiva in tutti i casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la programmazione del territorio, deve rilevarsi, ad avviso del Collegio, che la verifica dell'attività edilizia realizzata nel suo complesso può condurre a riscontrare un illegittimo mutamento della destinazione all'uso del territorio autoritativamente impressa anche nei casi in cui le variazioni apportate incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 che impone di affermare che integra un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita adeguamento degli standards. Come già affermato dalla giurisprudenza di merito il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica ed edilizia" e non quello di "opera comportante trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende, ad avviso del Collegio, che il mutamento di destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi insistono e può altresì comportare nuovi interventi di urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni, lo si ribadisce, deve quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva, appunto, a garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire.
Tenuto conto della natura del provvedimento impugnato in primo grado (ordinanza di sospensione per lottizzazione abusiva) cadono quindi tutte le censure fondate sulla mancata definizione delle domande di condono dei singoli –e reiterati- abusi realizzati, in quanto non incidenti sulla riscontrabilità di una condotta lottizzatoria materiale abusiva.
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Deve per ulteriore conseguenza affermarsi che può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto) ma anche soltanto un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standards e rimarcare che, avuto riguardo alla tipologia dei reiterati abusivi intereventi realizzati, ove unitariamente considerati, questa è l’evenienza realizzatasi nel caso di specie.
In sostanza: da un modesto immobile di minima consistenza, attraverso una pluralità di opere abusive, poste in essere con sistematicità, ed in spregio anche ai decreti di sequestro via via emessi dall’Autorità amministrativa e giudiziaria (si veda il capo di imputazione sotteso alla sentenza ex art. 444 cpp, laddove è stato contestato il delitto di violazione di sigilli aggravata ex art. 349 cpv cp) si è realizzato un piccolo albergo munito financo di piscina.
La giurisprudenza della Corte di cassazione penale è ormai stabilmente orientata all’affermazione di detto principio.
Si rammenta in proposito (la fattispecie è speculare a quella in esame) quanto ripetutamente sostenuto da questa giurisprudenza, cioè che: “In materia edilizia, il reato di lottizzazione abusiva mediante modifica della destinazione d'uso da alberghiera a residenziale è configurabile, nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico generale consenta l'utilizzo della zona ai fini residenziali, in due casi:
a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato alla stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad immobili residenziali;
b) quando la destinazione d'uso residenziale comporti un incremento degli "standards" richiesti per l'edificazione alberghiera e tali "standars" aggiuntivi non risultino reperibili ovvero reperiti in concreto
.” (Cassazione penale, sez. III, 07.03.2008, n. 24096).
In detta pronuncia, in particolare, si è condivisibilmente affermato che il problema della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche alla stregua della legislazione urbanistica regionale in materia di classificazione delle categorie funzionali della destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni della pianificazione comunale, alle quali deve essere raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in particolare, “può integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento della destinazione d'uso di un immobile che alteri il complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto alla individuazione di siffatta "alterazione", che l'organizzazione del territorio comunale si attua con il coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità di servizi.
L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli standards di zona
.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin da epoca risalente affermato dalla giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato (sez. 5^, 03.01.1998, n. 24) ha rimarcato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede" (nella specie è stato affermato che legittimamente un Comune aveva respinto l'istanza per il cambio di destinazione d'uso di un complesso immobiliare, relativamente ad uso esclusivamente residenziale, del tutto incompatibile con la destinazione di zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), del in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
La dedotta circostanza che, a particolari condizioni, possa conseguirsi la sanatoria degli immobili abusivamente edificati -(principio costantemente affermato dalla Corte di Cassazione: “In tema di reati edilizi, l'inapplicabilità della disciplina sul condono edilizio prevista dall'art. 39 L. 23.12.1994, n. 724 al reato di lottizzazione abusiva (art. 18 L. 28.02.1985 n. 47), non esclude l'applicabilità di tale disciplina ai singoli manufatti abusivamente eseguiti, i quali sono suscettibili di condono previa valutazione globale dell'attività lottizzatoria secondo il meccanismo previsto dal combinato disposto degli articoli 29 e 35, comma tredicesimo, L. 28.02.1985, n. 47.” -Cassazione penale, sez. III, 21.11.2007, n. 9982; e confermato pure dalla giurisprudenza amministrativa di merito: si veda TAR Campania Napoli, sez. II, 27.08.2010, n. 17263)- non inficia la legittimità dell’ordinanza di sospensione gravata, posto che lo stesso principio non può precludere all’amministrazione comunale la ravvisabilità di una fattispecie di lottizzazione materiale abusiva, né l’adozione dei provvedimenti ad essa consequenziali.
Nel caso di specie peraltro, la fattispecie “unica” racchiude in realtà due condotte parimenti illegali: la abusiva edificazione di svariati manufatti (lottizzazione materiale) e la avvenuta adibizione degli stessi, unitamente al pregresso ed originario corpo di fabbrica, ad attività incompatibile (lottizzazione abusiva mercé modifica della destinazione d’uso) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.06.2012 n. 3381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' pacifico che possa parlarsi di opere di manutenzione straordinaria tutte le volte in cui il rifacimento di alcune parti di un manufatto preesistente, nel senso sopra indicato, non comporti variazioni plano-volumetriche delle stesse, laddove, per contro, interventi edilizi che determinino un aumento delle altezze e un mutamento di destinazione d'uso vanno qualificati come “ristrutturazione edilizia".
Pertanto, seppur il rifacimento o il puro rinnovo di un manufatto preesistente possa essere inquadrato nella categoria della manutenzione straordinaria, ciò presuppone la mancata alterazione di volumi e superfici: in sostanza, deve sussistere un duplice requisito, funzionale e strutturale, consistente sia nella finalità delle opere che nel rispetto dell’obbligo di cui sopra.

Orbene, è pacifico che possa parlarsi di opere di manutenzione straordinaria tutte le volte in cui il rifacimento di alcune parti di un manufatto preesistente, nel senso sopra indicato, non comporti variazioni plano-volumetriche delle stesse, laddove, per contro, interventi edilizi che determinino un aumento delle altezze e un mutamento di destinazione d'uso vanno qualificati come “ristrutturazione edilizia” (Tar Lecce, sez. III, 29.09.2011 n. 1694; Tar Lazio, sez. I, 01.08.2011 n. 6834).
Pertanto, seppur il rifacimento o il puro rinnovo di un manufatto preesistente possa essere inquadrato nella categoria della manutenzione straordinaria, ciò presuppone la mancata alterazione di volumi e superfici: in sostanza, deve sussistere un duplice requisito, funzionale e strutturale, consistente sia nella finalità delle opere che nel rispetto dell’obbligo di cui sopra (Tar Napoli, sez. II, 01.04.2011 n. 1902; Cons. St., sez. IV, 22.03.2007 n. 1388) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta tale dovere allorché sussista tale carico, che va riscontrato anche in caso di divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità, con distinti ingressi e servizi.
Anche in tale ipotesi, consistente nella divisione e frazionamento di una unità immobiliare in due o più unità, stante l’autonoma utilizzabilità delle stesse, si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono dovuti i relativi oneri.
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Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione interessi globalmente l'edificio -con variazioni riguardanti nella loro interezza le parti esterne ed interne del fabbricato- ma è soltanto sufficiente che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico «socio-economico» che l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori dovuti ad una divisione o frazionamento dell'immobile in due unità o fra due o più proprietari

La giurisprudenza di questo Consesso ha già chiarito che il generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta tale dovere allorché sussista tale carico, che va riscontrato anche in caso di divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità, con distinti ingressi e servizi (così Consiglio di Stato, IV, 29.04.2004, n. 2611; per esempio, nel senso che in caso di mutamento di destinazione d'uso siano dovuti gli oneri concessori, Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4014).
Anche in tale ipotesi, consistente nella divisione e frazionamento di una unità immobiliare in due o più unità, stante l’autonoma utilizzabilità delle stesse, si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono dovuti i relativi oneri.
D’altronde, che i lavori realizzati abbiano prodotto due distinte e, come tali, fruibili, unità immobiliari costituisce ammissione della stessa parte appellante.
Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione interessi globalmente l'edificio -con variazioni riguardanti nella loro interezza le parti esterne ed interne del fabbricato- ma è soltanto sufficiente che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico «socio-economico» che l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori dovuti ad una divisione o frazionamento dell'immobile in due unità o fra due o più proprietari (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2838 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La casa non è uno studio. Trasformazione illegittima se non è dichiarata. Sentenza del Tar Lazio sulla destinazione d'uso degli immobili privati.
L'appartamento da residenza privata diventa studio professionale. Se ne accorge la polizia municipale che fa scattare l'abbattimento delle opere, abusive perché eseguite senza il permesso di costruire, sempre necessario quando si altera la destinazione d'uso dell'immobile.
È quanto emerge dalla sentenza 26.03.2012 n. 2832, pubblicata dalla Sez. I-quater del TAR Lazio-Roma.
Titolo necessario. Niente da fare per i proprietari dell'immobile trasformato in una zona di pregio di Roma: gli interventi realizzati dovranno essere rimossi. È la polizia municipale ad accorgersi di quanto sta avvenendo nell'appartamento: il contratto di affitto al nuovo inquilino, una società, parla inequivocabilmente di «locazione ad uso studio professionale» e i vigili accertano che la cucina è smantellata, seppure non del tutto, per far posto alle scrivanie con tanto di impianti elettrici, telematici e di climatizzazione tipici di un ufficio.
E i proprietari non dispongono del titolo edilizio: scatta allora il provvedimento del Comune che ordina la riduzione in pristino. È vero, la concessione non risulta sempre necessaria: se ne può ben fare a meno quando i lavori non consistono in interventi evidenti che alternano il territorio. Ma in questo caso l'immobile ricade in zona «A» del piano regolatore della Capitale, che impone la titolarità del permesso di costruire.
Proprietari smentiti. Bocciata su tutto il fronte la linea difensiva dei titolari dell'appartamento. È esclusa infatti la violazione di legge ed eccesso di potere con riguardo all'errata applicazione e allo sviamento della normativa di riferimento. Non si configura la denunciata illegittimità della determinazioni comunali per mancato rispetto della preventiva acquisizione dell'accertamento e del parere di cui all'articolo 33, commi 2 e 4, dpr 380/2001. I provvedimenti adottati dal Comune non sono affatto spropositati: la documentazione dell'amministrazione esclude che nello stop allo studio «abusivo» si possa configurare un eccesso di potere per travisamento dei fatti o un'ingiustizia «grave e manifesta» a carico dei proprietari dell'immobile.
Confermata, insomma, la demolizione delle opere abusive determinata dal «mutamento di destinazione d'uso dell'immobile da abitazione e ufficio privato con eliminazione del vano cucina e installazione di impianti telematici, elettrico e di condizionamento» rilevato dall'amministrazione (articolo ItaliaOggi del 13.04.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d'uso, effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non necessita di concessione edilizia qualora non sconvolga l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio ricade.
Nella fattispecie in esame si controverte della legittimità della determinazione dirigenziale di demolizione opere abusive adottata dal Comune a fronte del mutamento di destinazione d’uso di un'immobile da abitazione e ufficio privato con eliminazione del vano cucina e installazione di impianti telematici, elettrico e di condizionamento.
Il Collegio ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale a tenere del quale il semplice cambio di destinazione d'uso, effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio ricade (cfr, tra le tante, Cons. Stato, sez. V., 23.02.2000 n. 949, TAR Liguria, sez. I, 28.01.2004 n. 102, TAR Veneto, Sez. III, 13.11.2001 n. 3699, Cass. Penale, Sez. III, 01.10.1997 n. 3104 e, più di recente, TAR Lazio, sez. II, 07.10.2005 n. 8002 e TAR Abruzzo, sede l'Aquila, 02.04.2009 n. 236).
Nel caso in esame, tuttavia, il giudice preso atto che si ricade in zona A di PRG ha rigettato il ricorso in quanto il mutamento da residenza a studio privato abbisognava di permesso a costruire (art. 10, comma 1, lett. c) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 26.03.2012 n. 2832 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento della destinazione.
Il mutamento della destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, qualora venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'art. 3, 1° comma, lett. d), del TU. 380/2011, in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.03.2012 n. 8945 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'utilizzazione di un immobile ad ufficio pubblico non ne determina la modificazione della destinazione d'uso.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha affermato che l’utilizzazione di fatto di un immobile ad ufficio pubblico in forza di un contratto di diritto privato non può essere fonte di modificazione della destinazione d’uso derivante questa, infatti, da provvedimenti classificatori di natura autoritativa non modificabili o estinguibili da determinazioni negoziali: queste, per loro natura -contratto di locazione– hanno incorporata in sé una logica transitoria (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.02.2012 n. 1148 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la Corte di Cassazione anche il cambio d'uso senza opere abusivo è reato, salvo tra categorie omogenee.
La sentenza 08.02.2012 n. 4943 della III Sez. penale della Corte di Cassazione, si occupa del cambio d'uso senza opere.
Scrive la Cassazione che la modificazione della destinazione d'uso di un immobile, anche senza opere, in contrasto con quanto previsto dagli strumenti urbanistici integra la fattispecie contravvenzionale di cui alla lettera a) dell'art. 44 del Dpr 380/2001.
Fa eccezione il caso in cui le modificazioni siano poste in essere tra categorie omogenee.
Nel caso in esame, un'area agricola era stata abusivamente destinata a campo di volo da parte di una associazione di appassionati (tratto da e link a http://venetoius.myblog.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica destinazione di uso.
Nell'ipotesi in cui si abbia una modificazione della destinazione d'uso dell'immobile rispetto a quella preesistente, senza la realizzazione di opere, e salva l'ipotesi di modificazioni poste in essere tra categorie omogenee è configurabile la fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 44, primo comma lett. a), del DPR n. 380/2001, che ripete sostanzialmente la formulazione dell'art. 20, lett. a), della L. n. 47/1985, stante la inosservanza delle prescrizioni dello strumento urbanistico, allorché detta modificazione risulti incompatibile con le previsioni in esso contenute (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2012 n. 4943 - tratto da www.lexambiente.it).

anno 2011

EDILIZIA PRIVATA: A. Frigo, Cambio di destinazione d'uso di un annesso rustico ai sensi dell'articolo 4, comma 9, del D.L. n. 70 del 2011 (cd. decreto sviluppo) (link a http://venetoius.myblog.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Cambio di destinazione d'uso in violazione del P.R.G. - Sanzione Amministrativa - Valore degli immobili - Perizia di stima - Discrezionalità tecnica - Legittimità.
2. Cambio di destinazione d'uso in violazione del P.R.G. - Sanzione Amministrativa - Valore degli immobili - Osservatorio del Mercato Immobiliare - Organismo pubblico - Legittimità.

1. Non sussistendo radicale diversità tra la destinazione commerciale e quella terziaria, risulta legittima la perizia di stima del valore degli immobili effettuata dell'Agenzia del Territorio che, essendo espressione di discrezionalità tecnica è censurabile soltanto in caso di evidenti errori o macroscopiche illogicità, non riscontrabili nel caso di specie, risultando conseguente legittima la sanzione amministrativa impugnata.
2. Non è viziata da difetto di motivazione la perizia di stima del valore degli immobili dell'Agenzia del Territorio che richiama i dati dell'Osservatorio del Mercato Immobiliare, senza sottoporli ad adeguata valutazione, in quanto l'Osservatorio è un organismo pubblico, istituito presso l'Amministrazione Finanziaria ai fini di agevolare l'attività di stima degli immobili svolta dall'Agenzia del Territorio le cui valutazioni, seppure non vincolanti, hanno carattere di ufficialità (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.11.2011 n. 2649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: EDIFICI DI CULTO – SEDI DI ASSOCIAZIONI CULTURALI ISLAMICHE – PREVALENZA DELL’ATTIVITA’ DI PREGHIERA – DETERMINA MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO – NECESSITA’ DI PERMESSO DI COSTRUIRE - SUSSISTE.
In tema di edilizia cultuale, qualora un immobile non risulti utilizzato in via esclusiva quale luogo di culto, ma come sede di un’Associazione culturale islamica (nella specie ubicata in un negozio), in linea di principio non sarebbe possibile affermare la sussistenza di un’incompatibilità edilizio-urbanistica della destinazione d’uso dell’immobile medesimo, salvo che le circostanze di fatto non inducano a ritenere che l’attività ivi prevalentemente svolta sia quella della preghiera congregazionale, espressamente prevista dallo Statuto dell’Associazione culturale, e quest’ultima non sia in grado di provare il prevalente svolgimento di attività diverse da quelle proprie della preghiera.
LEGGE URBANISTICA DELLA LOMBARDIA – EDIFICI DI CULTO – NECESSITA’ DI PERMESSO DI COSTRUIRE ANCHE PER MUTAMENTI DI DESTINAZIONE D’USO SENZA OPERE – INCOSTITUZIONALITA’ PER DISCRIMINAZIONE – NON SUSSISTE.
L’art. 52, comma 3-bis della L.R. della Lombardia 11.03.2005 n. 12, che dispone la necessità del rilascio del permesso di costruire per i “mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali”, non si presta a dubbi di costituzionalità o di discriminazione, poiché esso, trovando applicazione in relazione all’intera categoria delle “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi … gli immobili (comunque) destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali”, si propone di controllare i mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione con riflessi di rilevante impatto urbanistico.

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La sentenza resa in primo grado va riformata e –per l’effetto– il ricorso ivi proposto va respinto.
Il Collegio ribadisce in tal senso che, come evidenziato anche nella recente ordinanza cautelare n. 2008 dd. 10.05.2011, se un immobile non risulta sia utilizzato in via esclusiva quale luogo di culto (diritto, questo, il cui esercizio è comunque garantito anche ai non cittadini a’ sensi e nei limiti dell’art. 19 Cost.), in linea di principio non è possibile affermare la sussistenza di un’incompatibilità edilizio-urbanistica della destinazione d’uso dell’immobile medesimo, il quale peraltro consterebbe sia a tutt’oggi nella specie adibito a “negozio”, anche se poi divenuto sede dell’Associazione Culturale Da’awa.
L’esame dello statuto di tale Associazione e delle circostanze di fatto documentate sino alla predetta data del 23.07.2011 convincono tuttavia il Collegio della circostanza che, a differenza del caso definito in sede cautelare da questa stessa Sezione mediante l’anzidetta ordinanza n. 2008 del 2001, nella fattispecie non risulta materialmente comprovato lo svolgimento da parte della Associazione medesima di attività diverse da quelle proprie della preghiera, nondimeno reputata in via del tutto apodittica dal TAR come accessoria e marginale nel contesto degli scopi statutari perseguiti da Da’awa.
In effetti, nell’estrema genericità dei pur commendevoli scopi di carattere generale enunciati dallo statuto di Da’awa (“rafforzare il legame di fratellanza umana tra comunità e i cittadini locali attraverso lo scambio culturale, la collaborazione sociale, la vicinanza civile all’interno di un quadro di rispetto e di integrazione”; “essere un elemento di una area di convivenza e di pace, promuovendo una condotta morale che porti alla pratica del bene”; “far rivivere gli insegnamenti del Profeta - Sunna e la rivelazione Divina - Corano”), la specifica attività di “organizzare preghiere individuali e collettive” assume all’evidenza un carattere non occasionale ma del tutto preminente: e ciò inderogabilmente impone, pertanto, l’applicazione nella specie dell’art. 52, comma 3-bis della L.R. 11.03.2005 n. 12 come introdotto dall’art. 1 della L.R. 14.07.2006 n. 12, laddove si dispone la necessità del rilascio del permesso di costruire per i “mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali”.
Né va sottaciuto che l’art. 70 e ss. della medesima L.R. 12 del 2005 reca una specifica disciplina urbanistica per i luoghi di culto e che, medio tempore, lo ius superveniens contenuto nell’art. 71, comma 1, lett. c–bis, della L.R. 11.03.2005 n. 12, così come inserito dall’art. 12 della L.R. 21.02.2011 n. 3, ha comunque ricondotto nella categoria delle “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi … gli immobili (comunque) destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali”.
In tale contesto, pertanto, la trasformazione –inoppugnabilmente avvenuta nella specie– del preesistente “negozio” in luogo preminentemente adibito a culto non poteva che richiedere, anche a prescindere dalla concomitantemente contestata realizzazione al piano seminterrato di un tavolato interno, il rilascio del titolo edilizio abilitante al mutamento della destinazione d’uso dei relativi locali.
Né la disciplina contenuta nel testé citato art. 52, comma 3-bis, della L.R. 12 del 2005 come introdotto dall’art. 1 della L.R. 12 del 2006 può reputarsi incostituzionale secondo la prospettazione svolta in tal senso dagli appellati.
Secondo questi ultimi, infatti, tale disciplina violerebbe:
- l’art. 2 Cost. (riconoscimento costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali; tra i diritti inviolabili dell’uomo vi è il diritto alla preghiera religiosa ed al culto);
- l’art. 3 Cost. (violazione del principio d’eguaglianza e ragionevolezza in quanto sarebbe chiara la discriminazione che la Regione Lombardia pone a coloro che vogliano destinare i locali, anche senza opere, a luogo di culto -necessità di operare con permesso di costruire- rispetto a tutti gli altri cittadini che vogliano effettuare un mutamento di destinazione d'uso d’altro genere -il permesso di costruire non necessita- è sufficiente la denuncia d’inizio attività, o la semplice comunicazione);
- l’art. 8 Cost. (libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge);
- l’art. 9 Cost. (promozione dello sviluppo della cultura);
- gli artt. 18 e 19 Cost. (a mezzo della contestata disciplina regionale si inciderebbe e si annullerebbe il diritto di associarsi liberamente ed il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa al fine di farne propaganda -anche a mezzo di associazioni culturali- ed anche per esercitare in pubblico ed in privato il proprio culto);
- l’art. 20 Cost. (si violerebbe il divieto costituzionale di non porre speciali limitazioni legislative per ogni forma d’attività dell’associazione con fine di culto);
- e, da ultimo, l’art. 21 Cost. (si inciderebbe e si annullerebbe il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero costituito anche dall’esercizio del culto.
Il Collegio a tale ultimo riguardo evidenzia che lo stesso giudice di primo grado ha convenuto che l’art. 52, comma 3-bis della L.R. 12 del 2005 per la sua collocazione e la sua ratio è palesemente volto al controllo di mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come destinazione principale o esclusiva l’esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, le quali richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni: se non altro agli effetti dell’altrettanto necessario e conseguente rilascio del certificato di agibilità (cfr. art. 23 e ss. del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380) dell’immobile destinato al nuovo uso, nonché della parimenti necessaria e conseguente pratica di prevenzione incensi di cui al D.P.R. 12.01.1998 n. 37 di competenza dei Vigili del Fuoco.
Pertanto non sussiste, nel contesto del medesimo comma 3-bis, alcuna discriminazione di carattere politico-culturale e religioso, anche per il fatto che la disciplina sopradescritta è uniformemente applicata ad ogni luogo di culto, anche cattolico, nonché ad ogni centro sociale, di qualsivoglia tendenza socio-politica, al fine di salvaguardare l’incolumità di tutti coloro che frequentano tali luoghi di riunione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.10.2011 n. 5778 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: Variazione di destinazione d'uso dell'immobile - Istanza - Diniego - Adozione - Sindaco - Vizio di incompetenza - Competenza del Dirigente - Ipotesi di ordinaria attività gestionale. (D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 107).
L'istanza di variazione di destinazione d'uso dell'immobile, non rientrando nell'ambito della definizione di obiettivi e programmi o della verifica della rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa, integra una ipotesi di ordinaria attività gestionale, come tale affidata, in virtù del principio della separazione fra livello di indirizzo politico e gestionale, alla generale competenza del Dirigente in quanto apice della struttura burocratica.
Qualora, dunque, il provvedimento di diniego sull'istanza suddetta sia stato adottato dal Sindaco ha luogo una ipotesi di vizio di incompetenza per violazione dell'art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui contempla una previsione generale che attribuisce ai dirigenti tutti i compiti non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo, ivi compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'Amministrazione verso l'esterno (TAR Valle d'Aosta, sentenza 20.10.2011 n. 68 - massima tratta da www.diritto24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il costo di costruzione c'è. Dall'ingrosso al dettaglio, il commerciante paga. Sentenza del Consiglio di stato: l'onere rimane, anche senza lavori edilizi.
Il costo di costruzione previsto dagli oneri di urbanizzazione imposti ai commercianti dalla legge cosiddetta «Bucalossi» è dovuto in quota corrispondente anche se nei locali non sono stati effettuati interventi edilizi per consentire il passaggio dalla vendita all'ingrosso a quella al dettaglio.
Lo precisa la sentenza 14.10.2011 n. 5539 dalla IV Sez. del Consiglio di Stato.
Trasformazione e vantaggio. L'impresa che ha sede nell'area urbana destinata all'industria e all'artigianato è «pizzicata» dal Comune: il cambio di destinazione d'uso realizzato nei locali con il «via» alla vendita al dettaglio non risulta autorizzato nell'ambito della concessione ottenuta. Scatta così la rideterminazione degli oneri di urbanizzazione, primaria e secondaria. Che tuttavia il commerciante non contesta.
Ciò che non vuole pagare l'azienda, che per ironia della sorte vende prodotti per l'edilizia, sono i costi di costruzione. E la motivazione è che non sono stati realizzati lavori per aprire la vendita al pubblico: l'ampiezza della superficie «dedicata» non è cambiata. Ma la censura non coglie nel segno.
È vero: il contributo relativo al costo di costruzione di cui alla legge Bucalossi è riconducibile all'attività costruttiva considerata in sé. Ma attenzione, si tratta di un prelievo che ha natura paratributaria: il corrispettivo è comunque dovuto in presenza di una «trasformazione edilizia» produce vantaggi economici connessi all'utilizzazione. E ciò indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere. Con il passaggio dall'ingrosso al dettaglio si verifica un mutamento d'uso rilevante nell'esercizio commerciale: si tratta, infatti, di due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e la trasformazione determina comunque un aumento del cosiddetto «carico urbanistico».
Scorporo impossibile. La mancata realizzazione di opere edilizie all'interno dei locali è irrilevante. Il passaggio dall'ingrosso al dettaglio comporta maggiori oneri sociali delle opere di urbanizzazione e fa perciò insorgere il presupposto imponibile per la debenza del contributo concessorio comprensivo della quota relativa al costo di costruzione: ne consegue che l'utilizzatore del beneficio deve pagare la differenza tra gli oneri di urbanizzazione già corrisposti per la destinazione d'uso originaria e quelli, se più elevati come nel caso di specie, dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile.
E il contributo concessorio così rideterminato comprende necessariamente anche il costo di costruzione (articolo ItaliaOggi del 18.10.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d'uso - Variazione degli standard - Configurabilità come nuova costruzione - Sussiste.
Il mutamento di destinazione d'uso da locali senza permanenza di persone in locali abitabili rientra nel concetto di nuova costruzione, che riguarda non soltanto la realizzazione di un manufatto su area libera, ma include ogni intervento di ristrutturazione che renda un manufatto oggettivamente diverso da quella preesistente. Detta oggettiva diversità sussiste ogniqualvolta si abbia un mutamento di destinazione d'uso che implichi la variazione degli standard, poiché detta destinazione d'uso rappresenta in elemento determinante della tipologia del manufatto (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.10.2011 n. 2426 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disposizione di cui all'art. 52, comma 3-bis, L.R. 12/2005 della Lombardia vuole evitare che -attraverso la liberalizzazione dei cambi di destinazione d'uso stabilita dall'art. 51 della LR 12/2005- siano realizzate innovazioni di grande impatto sul tessuto urbano senza un preventivo esame da parte dell'amministrazione.
Anche in presenza non di un luogo espressamente destinato all’esercizio del culto islamico, ma solo di un luogo di raduno di immigrati di religione islamica con finalità meramente culturali e non cultuali comunque trova applicazione (configurandosi alternativamente l’ipotesi del “centro sociale”, inteso come luogo di aggregazione di una cospicua entità di soggetti aventi interessi comuni) la suddetta norma regionale che richiede il rilascio di specifico titolo edilizio, nella specie non richiesto.

La L.R. 11.03.2005 n. 12, al comma 3-bis dell’art. 52 (recante la rubrica ”Mutamenti di destinazione d'uso con e senza opere edilizie”) espressamente dispone che: “I mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire”.
La Sezione (cfr. la sentenza 14.09.2010 n. 3522 ) ha già avuto modo di rilevare che tale disposizione vuole evitare che -attraverso la liberalizzazione dei cambi di destinazione d'uso stabilita dall'art. 51 della LR 12/2005- siano realizzate innovazioni di grande impatto sul tessuto urbano senza un preventivo esame da parte dell'amministrazione.
Va rilevato che quand’anche dovesse accedersi alla tesi di parte ricorrente, -secondo cui nella fattispecie non si sarebbe in presenza di un luogo espressamente destinato all’esercizio del culto islamico, ma solo di un luogo di raduno di immigrati di religione islamica con finalità meramente culturali e non cultuali- ciò non di meno comunque trova applicazione (configurandosi alternativamente l’ipotesi del “centro sociale”, inteso come luogo di aggregazione di una cospicua entità di soggetti aventi interessi comuni) la suddetta norma regionale che richiede il rilascio di specifico titolo edilizio, nella specie non richiesto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 22.09.2011 n. 1320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d'uso - Oneri di urbanizzazione - Supplemento di contributo urbanistico - In caso di aumento del carico urbanistico - Legittimità.
In caso di mutamento della destinazione d'uso dell'immobile -nel caso di specie da residenza a studio medico- che comporti un incremento del carico urbanistico è legittima la richiesta della P.A. circa la corresponsione di un supplemento del contributo pari alla differenza tra il contributo previsto per la nuova destinazione e quello relativo alla precedente (cfr. TAR Milano, sent. n. 2989/2006, 1115/2005, 1100/2005, 145/2005) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.09.2011 n. 2236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nuova costruzione - Nozione - In caso di mutamento di destinazione d'uso con variazione degli standard - Sussiste.
La realizzazione di un nuovo insediamento non consegue necessariamente ad una nuova edificazione, ben potendo configurarsi anche ove venga mutata la destinazione d'uso di edificio già esistente -nel caso di specie creazione di insediamento non residenziale derivante da insediamento residenziale- (cfr. TAR Milano, sent. n 1069/2011) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.09.2011 n. 2236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La destinazione urbanistica della zona non rileva ai fini del cambio di destinazione d'uso dell’immobile ivi localizzato, che ha assunto una utilizzazione economica diversa (quella commerciale), che giustifica il pagamento delle spese di urbanizzazione ai sensi dell'art. 9, lett. b), della L. n. 10/1977.
Con il secondo motivo si sostiene che il cambio di destinazione d'uso dell'immobile, da magazzino ad attività commerciale, non avrebbe giustificato il pagamento delle spese di urbanizzazione per la nuova destinazione perché l'immobile ricadrebbe in zona M/2 destinata ad attrezzature di servizi generali e locali, e quindi, il mutamento di destinazione non era soggetto a concessione edilizia ma a mera autorizzazione.
La censura è infondata perché la destinazione urbanistica della zona non rileva ai fini del cambio di destinazione d'uso dell’immobile ivi localizzato, che ha assunto una utilizzazione economica diversa (quella commerciale), che giustifica il pagamento delle spese di urbanizzazione ai sensi dell'art. 9, lett. b), della L. n. 10/1977
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.09.2011 n. 4906 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento funzionale della destinazione d’uso da residenziale a professionale - Presupposto - Modifiche della tipologia costruttiva o dell’organizzazione interna degli spazi.
Per poter parlare di un mutamento funzionale della destinazione d'uso di un immobile da residenziale a professionale -direzionale, occorre riferirsi alle oggettive caratteristiche dei locali interessati dall’intervento di trasformazione, dovendosi escludere tale mutamento quando l’utilizzazione lavorativa dei locali non abbia comportato una modifica della tipologia costruttiva o, quantomeno, dell'organizzazione interna degli spazi (TAR Parma Emilia Romagna, sez. 1^ 26.11.2009, n. 792, sentenza che richiama anche: TRGA Trentino-Alto Adige, Trento, 07.05.2009, n. 150).
Diversamente opinando si dovrebbe invero concludere che anche lo svolgimento di un'attività professionale svolta senza alcun apparato organizzativo e strumentale nello studio della propria abitazione, ne comporta la trasformazione in immobile ad uso direzionale (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 01.07.2011 n. 1110 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Mutamento di destinazione d'uso - Potere della P.A. di limitare una destinazione ammessa - Legittimità ex art. 41, Costituzione.
2. Mutamento di destinazione d'uso - Incremento di valore degli immobili - Stima dell'Agenzia del Territorio - E' atto endoprocedimentale - Conseguenze - Necessità di notifica all'Agenzia del Territorio - Non sussiste.
1.
E' configurabile in capo al Comune il potere di introdurre, oltre al divieto tout court della destinazione d'uso in relazione ad una determinata area, anche una limitazione percentuale della medesima destinazione, benché ammessa: tale diversificazione funzionale delle aree, attraverso la quale l'autorità investita della pianificazione contempera la molteplicità di interessi convergenti in subiecta materia, è giustificata dall'art. 41 della Costituzione e dal suo riferimento alla utilità sociale quale limite alla libertà d'iniziativa economica privata (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 167/2009; Cons. di Stato, sent. n. 894/2011).
2. In materia di rilevazioni di incremento di valore degli immobili nel passaggio da una destinazione d'uso ad un'altra, la stima dell'Agenzia del Territorio costituisce atto interno, non direttamente lesivo, e pertanto impugnabile solo unitamente al provvedimento che irroga la sanzione: ciò esclude la configurabilità dell'Agenzia del Territorio come contraddittore necessario (cfr. TAR Milano, sent. n. 468/2011, n. 1546/2010).
(tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.06.2011 n. 1730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Quesiti in merito al frazionamento di unità immobiliari e al cambio di destinazione d’uso.
Il Comune pone dei quesiti sul frazionamento di unità immobiliari e sul cambio di destinazione d’uso delle stesse, eseguiti senza esecuzione di opere edilizie o tramite interventi riconducibili ad attività di manutenzione straordinaria, in ordine ai quali si osserva quanto segue (Regione Marche, parere 06.06.2011 n. 188/2011).

EDILIZIA PRIVATA: Residenza a ufficio: senza opere cambio d'uso regolare.
Il semplice cambio di destinazione d'uso, effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l’assetto dell’area in cui l’intervento edilizio ricade. Dagli atti depositati in giudizio risulta, per tabulas, che si tratta di un cambio di destinazione d’uso senza opere (da residenziale a funzionale).
Come noto, è stato affermato in giurisprudenza che il semplice cambio di destinazione d'uso, effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non abbisogna di concessione edilizia qualora non sconvolga l'assetto dell'area in cui l'intervento edilizio ricade (cfr, tra le tante, Cons. Stato, sez. V., 23.02.2000 n. 949, TAR Liguria, sez. I, 28.01.2004 n. 102, TAR Veneto, Sez. III, 13.11.2001 n. 3699, Cass. Penale, Sez. III, 01.10.1997 n. 3104 e, più di recente, TAR Lazio, sez. II, 07.10.2005 n. 8002 e TAR Abruzzo, sede l'Aquila, 02.04.2009 n. 236).
Sul punto, la Regione Lazio non ha legiferato in materia, né con l’ultima l.r. 38/1999, né con la precedente l.r. 36/1987.
Nella fattispecie in esame, il mutamento da residenza a ufficio non comporta alcun aggravio né una oggettiva modificazione nell'assetto urbanistico-edilizio della zona, dal che consegue che detta attività non è soggetta al previo rilascio della concessione edilizia (ora permesso di costruire) (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 24.05.2011 n. 4622 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nuova costruzione - Nozione - In caso di mutamento di destinazione d'uso con variazione degli standard - Sussiste.
Il concetto di nuova costruzione riguarda non soltanto la realizzazione di un manufatto su area libera, ma include, altresì, ogni intervento di ristrutturazione che renda un manufatto oggettivamente diverso da quello preesistente: in particolare, tale oggettiva diversità sussiste ogniqualvolta si abbia un mutamento di destinazione d'uso che implichi la variazione degli standard, poiché detta destinazione d'uso rappresenta un elemento determinante della tipologia del manufatto (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 4256/2008; TAR Milano, sent. n. 1787/2010; TAR Torino, sent. n. 940/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.04.2011 n. 1069 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Richiesta di pagamento del costo di costruzione - Cambio di destinazione d'uso - Nuova destinazione ammessa dalle N.T.A. - Categorie edilizie autonome - Vincolo di strumentalità - Irrilevanza - Legittimità.
Se il cambio di destinazione d'uso di un immobile, ancorché compatibile nella medesima zona omogenea, è intervenuto tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, e, quindi, ha integrato una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, è soggetta al regime oneroso, indipendentemente dalla tipologia delle opere.
Di conseguenza, risultando altresì irrilevante la rappresenta strumentalità della nuova destinazione di parte delle aree (espositiva) alla pregressa destinazione sussistente nella restante parte di edificio (produttiva), risulta legittima la richiesta di pagamento del costo di costruzione impugnata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.03.2011 n. 740 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio d'uso gratis solo se non cresce il carico urbanistico. L'esenzione degli oneri «segue» la necessità della dotazione di servizi.
Il cambio d'uso non è sempre "gratuito", ma non solo. Il pagamento del contributo di costruzione è uno degli snodi critici della materia edilizia e, nel corso degli anni, una nutrita giurisprudenza ha chiarito gli aspetti più problematici della materia, specie per quel che riguarda la natura giuridica del contributo, le varie ipotesi di esenzione e i presupposti per il suo pagamento in relazione alla tipologia dell'intervento che si intende realizzare.
La definizione di «carico».
A quest'ultimo riguardo il Tar Lombardia-Brescia, Sez. I, con la recente sentenza 03.03.2011 n. 375, affronta una delle questioni di maggior rilievo nella materia, quella del cambio di destinazione d'uso, anche se attuato in assenza di interventi costruttivi, qualora questo determini comunque un aumento del cosiddetto «carico urbanistico».
Questo concetto non è definito dalla legislazione vigente, ma la giurisprudenza della Cassazione l'ha individuato come «l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio» (Sezioni unite penali, 20.03.2003, sentenza n. 12878).
In altri termini, poiché ogni insediamento umano è costituito da un elemento primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi, eccetera), è necessario proporzionare questo primo elemento a quello cosiddetto secondario o di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas), in relazione al numero degli abitanti insediati e alle caratteristiche delle attività svolte in quello stesso territorio.
Proprio partendo da questa considerazione, i giudici bresciani, richiamando propri precedenti orientamenti (n. 145/2005, n. 646/2004 e n. 34/1998) rilevano come il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione vada ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi nel l'area di riferimento (rete viaria, fognature eccetera), che sia indotta dalla destinazione d'uso concretamente impressa al manufatto. Questo perché una diversa utilizzazione dell'edificio rispetto a quella stabilita nel l'originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.
Il pagamento degli oneri si giustifica quindi con la necessità di ridistribuire –in modo equo per la comunità– i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla loro presenza. Il contributo di urbanizzazione infatti, secondo il Consiglio di Stato (sezione V, n. 2359/2009 e n. 2258/2006), pur non avendo natura tributaria, costituisce comunque «un corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del costruttore, connesso al rilascio della concessione edilizia, a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae».
Il mutamento rilevante.
Da questi elementi la sentenza del Tar Lombardia fa derivare che il presupposto imponibile si verifica in tutti i casi di «mutamento rilevante» della destinazione d'uso dalla quale derivi un maggior carico urbanistico, con conseguente necessità per l'interessato di pagare la differenza tra gli oneri di urbanizzazione già corrisposti per la destinazione d'uso originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa al l'immobile (ad esempio, la trasformazione di un albergo in un edificio residenziale).
Quanto al concetto di «mutamento rilevante», la pronuncia chiarisce un elemento importante, specificando che lo stesso sussiste in tutti i casi di «passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le modifiche di destinazione d'uso senza opere non sono soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l'esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell'operazione».
Di conseguenza, ciò che assume rilievo ai fini del pagamento non è la necessità o meno di un titolo abilitativo per l'attività di trasformazione edilizia che si vuole realizzare (permesso di costruire o Dia): il presupposto impositivo si può verificare anche nel caso di mutamento di destinazione d'uso del fabbricato di tipo «funzionale», cioè senza alcuna esecuzione di opere (si veda anche anche Tar Campania-Napoli n. 6271/2008, citata nella scheda a destra) (articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento della destinazione d'uso di edifici - Lottizzazione abusiva materiale - Configurabilità - Fattispecie: modifica della destinazione da sottotetti a mansarde.
Rientra nel concetto giuridico di lottizzazione abusiva materiale, anche l’esecuzione dei lavori che determinano un mero mutamento della destinazione d'uso di edifici, già esistenti, da cui derivi la necessità di nuovi interventi di urbanizzazione (Cass. 15/02/2007, n. 6396). Fattispecie: configurabilità del reato di lottizzazione abusiva conseguente alla modifica della destinazione da sottotetti a mansarde. (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2011 n. 6892 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Destinazione d'uso; mutamento; assenza di lavori edili; concessione edilizia; non necessarietà; modifiche prospettiche; ampliamento dell'immobile; titolo abilitativo.
Il mutamento di destinazione d'uso degli immobili in assenza di lavori edili, purché compatibile con la destinazione di zona, non è assoggettato a concessione edilizia, in quanto costituisce espressione non già dello ius aedificandi, bensì dello ius utendi.
La circostanza di cui innanzi, e la conseguente non necessità del titolo abilitativo, deve, tuttavia, escludersi ogni qualvolta il richiedente, formulando istanza di condono ai sensi della L. n. 47 del 1985, indichi nel medesimo modello il cambio di destinazione d'uso e le modifiche prospettiche, le quali non solo implicano necessariamente delle opere, in quanto incidenti sulla forometria esterna del fabbricato, ma per di più appaiono strutturalmente finalizzate proprio alla diversa utilizzazione dell'immobile medesimo (nella specie come albergo e non più come abitazione), nonché, in altro modello, la necessità di un ampliamento (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.02.2011 n. 236 - tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Mutamento di destinazione d'uso - Divieto di introdurre limiti quantitativi alla presenza di destinazioni complementari a fianco di quelle principali - Illegittimità.
2. Mutamento di destinazione d'uso - Incremento di valore degli immobili - Stima dell'Agenzia del Territorio - E' atto endoprocedimentale - Conseguenze - Onere di impugnabilità della stima - Non sussiste.
1. In materia di disciplina dei mutamenti delle destinazioni d'uso degli immobili, ai sensi dell'art. 1, comma 2, L.R. 1/2001 -norma oggi abrogata, ma sostanzialmente confluita nell'art. 51, comma 1, lett. d), L.R. 12/2005- da un lato, è consentito ai comuni di escludere in toto determinate destinazioni: dall'altro, tuttavia, tale norma non può essere intesa come divieto di introdurre limiti quantitativi alla presenza di destinazioni complementari a fianco di quella o quelle identificate come principali.
2. In materia di rilevazioni di incremento di valore degli immobili nel passaggio da una destinazione d'uso ad un'altra, la stima dell'Agenzia del Territorio costituisce atto interno, non direttamente lesivo, e pertanto impugnabile solo unitamente al provvedimento che irroga la sanzione: ciò esclude la configurabilità dell'Agenzia del Territorio come contraddittore necessario (cfr. TAR Milano, sent. n. 1546/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.02.2011 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Contributi e oneri - Rimborso della differenza tra oneri concessori versati per il terziario e minori oneri dovuti per l'abitativo - Impossibilità.
Una volta che l'intervento edilizio sia stato realizzato in base a permesso di costruire chiesto dall'interessato e questi ne abbia successivamente mutata la destinazione d'uso, non è dovuto alcun rimborso della differenza tra oneri concessori versati per il terziario e (minori) oneri dovuti per l'abitativo: infatti, nessuna norma prevede la restituzione degli oneri (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.02.2011 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: TAR Milano: mutamento di destinazione d'uso, rimangono le percentuali.
Il TAR di Milano ha affermato che, pur nel regime della L.R. 12/2005, lo strumento urbanistico può prevedere limitazioni percentuali alle destinazioni d'uso ammissibili nelle diverse zone. Ciò alla luce di un'interpretazione estensiva dell'ultimo inciso contenuto nell'art. 51 primo comma della L.R. 12/2005: "salve quelle escluse dal PGT" significa che lo strumento urbanistico può derogare al principio per cui le destinazioni d'uso ammissibili (principali, complementari e accessorie), coesistono senza limitazioni percentuali.
L’art. 51 della legge regionale n. 12/2005 dispone (secondo e terzo comma): “I comuni indicano nel PGT in quali casi i mutamenti di destinazione d’uso di aree e di edifici, attuati con opere edilizie, comportino un aumento ovvero una variazione del fabbisogno di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale di cui all’articolo 9. Per i mutamenti di destinazione d’uso non comportanti la realizzazione di opere edilizie, le indicazioni del comma 2 riguardano esclusivamente i casi in cui le aree o gli edifici siano adibiti a sede di esercizi commerciali non costituenti esercizi di vicinato ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 31.03.1998, n. 114”.
Queste disposizioni -peraltro rivolte ai futuri PGT- riguardano i mutamenti di destinazione d’uso ammessi, non quelli esclusi dallo strumento urbanistico. Esse riproducono infatti l’art. 1, comma 3, della previgente l.r. n. 1 del 2001, che in termini pressoché identici recitava: “I comuni indicano, altresì, attraverso lo strumento urbanistico generale, in quali casi i mutamenti di destinazione d'uso di aree e di edifici, ammissibili ai sensi del comma 2, attuati con opere edilizie, comportino un aumento ovvero una variazione del fabbisogno di standard; per quanto riguarda i mutamenti di destinazione d'uso ammissibili, non comportanti la realizzazione di opere edilizie, le suddette indicazioni riguarderanno esclusivamente i casi in cui le aree o gli edifici vengano adibiti a sede di esercizi commerciali non costituenti esercizi di vicinato ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera d), del d.lgs. 31.03.1998, n. 114”.
Quanto all’art. 54 della legge regionale, il fatto che i mutamenti di destinazione che non determinino carenza di aree per servizi e attrezzature di interesse generale non costituiscano variazione essenziale, non esclude la sanzionabilità dei mutamenti di destinazione che si pongano in contrasto con lo strumento urbanistico (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.02.2011 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d'uso - Finalità - Mutamento d'uso funzionale - Variazione su immobile senza opere - Assenza del titolo - Illegittimità dell'ordine di demolizione - Variazioni con opere - Necessità del titolo - Legittimità dell'ordine di demolizione - Impugnativa - Infondatezza.
Il mutamento di destinazione d'uso consiste nel variare la destinazione cui l'immobile è urbanisticamente destinato. Esso può essere realizzato con opere, ed in tal caso è soggetto a licenza o concessione ovvero a semplice autorizzazione, a seconda del tipo di intervento, o senza opere ed in tal caso è soggetto a semplice autorizzazione. Ai fini del legittimo mutamento d'uso "funzionale" di un locale, inteso quale variazione di destinazione dell'immobile non implicante la realizzazione di opere edilizie, non essendo richiesta concessione edilizia, è illegittimo l'ordine sindacale di demolizione, motivato con l'assenza o la difformità di idoneo titolo concessorio. Viceversa, l'ipotesi di un mutamento di destinazione d'uso non già funzionale, bensì strutturale, ovvero connesso e conseguente all'esecuzione di opere, necessita di apposita concessione il cui difetto legittima la demolizione delle opere stesse.
Orbene, nel caso in esame, risulta infondato il gravame promosso dalla ricorrente per l'annullamento del provvedimento con cui il Comune resistente le ordinava la demolizione di tre manufatti, perché realizzati in assenza sia del titolo edilizio che del titolo paesistico -quest'ultimo necessario essendo il predetto Comune sottoposto alle norme del Piano Territoriale Paesistico approvato con D.M. del 04.07.2002, pubblicato in G.U. serie generale n. 219 del 19.09.2002-, giacché risultava che i predetti manufatti, diversamente da quanto asseriva la ricorrente, presentavano caratteristiche difficilmente riconducibili a quelle precedenti, con la conseguenza che vi era stata un'attività edilizia manipolativa che doveva necessariamente qualificarsi come illecita e, quindi, abusiva in quanto posta in essere senza i succitati titoli (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.02.2011 n. 735 - tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Immobile abusivo ultimato - Mancanza del certificato di abitabilità - Sequestro - Art. 221 T.U. delle leggi sanitarie - Art. 321 c.p.p..
In materia di reati edilizi o urbanistici, ai fini della sequestrabilità preventiva di un immobile abusivo già ultimato, può considerarsi come antigiuridica l'implicazione proveniente dalla perpetrazione dell'illecito amministrativo sanzionato dall'art. 221 del T.U. delle leggi sanitarie (divieto di abitare gli edifici sforniti di certificato di agibilità), che, pur non potendosi inquadrare nella nozione di "agevolazione della commissione di altri reati", certamente integra una situazione illecita ulteriore prodotta dalla condotta (la libera utilizzazione della cosa) che il provvedimento cautelare è finalizzato ad inibire (Cass., Sez. III, 16.11.2004, n. 44433 e sez. IV, 19.04.2007, n. 15845).
Mutamento di destinazione d'uso materiale - Configurabilità - Immobile abusivo - I lavori eseguiti ripetono le caratteristiche di illegittimità.
Deve ritenersi realizzato un mutamento di destinazione d'uso materiale (e non meramente ‘funzionale’), quando l'innovazione avviene attraverso l'esecuzione di opere edilizie ad essa finalizzate. Inoltre, i lavori eseguiti, riguardano un immobile preesistente non edificato legittimamente, per il quale pende procedura di condono non ancora definita, sicché ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera alla quale sono intimamente connessi e costituiscono abusiva prosecuzione della stessa.
Reati edilizi o urbanistici - Disponibilità del manufatto - Profilo della offensività e misura cautelare - Valutazione del giudice.
In tema di reati edilizi o urbanistici, spetta al giudice di merito, con adeguata motivazione, compiere una attenta valutazione del pericolo derivante da libero uso della cosa pertinente all'illecito penale.
In particolare, vanno approfonditi la reale compromissione degli interessi attinenti al territorio ed ogni altro dato utile a stabilire in che misura il godimento e la disponibilità attuale della cosa, da parte dell'indagato o di terzi, possa implicare una effettiva ulteriore lesione del bene giuridico protetto, ovvero se l'attuale disponibilità del manufatto costituisca un elemento neutro sotto il profilo della offensività.
In altri termini, il giudice deve determinare in concreto, il livello di pericolosità che la utilizzazione della cosa appare in grado di raggiungere in ordine all'oggetto della tutela penale, in correlazione al potere processuale di intervenire con la misura preventiva cautelare (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.02.2011 n. 3885 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Contributi e oneri concessori - Mutamenti di destinazione d'uso - Necessità.
2. Contributi e oneri concessori - Previsione di distinte sottocategorie di destinazioni d'uso con diversi importi dei contributi concessori - Legittimità.

1. La necessità di corrispondere i contributi concessori anche per i mutamenti di destinazione d'uso è principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della Legge n. 10 del 1977, al fine di evitare che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la modifica della destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del richiedente e, di contro, con l'aggravio urbanistico già valutato in sede di fissazione di quel regime contributivo.
2. Deve ritenersi legittima la suddivisione delle categorie di destinazione d'uso in più sottocategorie o sottofunzioni, con diversa onerosità dal punto di vista dei contributi di costruzione, laddove ciò sia giustificato da significative diversità del carico urbanistico implicato dall'una o dall'altra di esse, tale da giustificare diverse modulazioni di calcolo del contributo concessorio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.01.2011 n. 240 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2010

EDILIZIA PRIVATA: Concessione edilizia e licenza di abitabilità - Destinazione d'uso - Mutamento senza opere edili - Non occorre - Condizione.
Il cambio di destinazione d'uso di un immobile senza opere edilizie non costituisce immutazione urbanistica ai sensi dell'art. 1,1. 28.01.1977 n. 10 ed è, pertanto, soggetto ad autorizzazione, non già a concessione, ma esclusivamente a condizione che non implichi situazioni di incompatibilità con le previsioni funzionali di zona ed il piano regolatore non diversifichi gli indici di edificazione a seconda delle destinazioni (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.12.2010 n. 8620 - tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: VECCHI CONDONI.
È legittimo il provvedimento con il quale, in sede di rilascio di una concessione in sanatoria in base ai condoni del 1985 e del 1994 per aver mutato senza opere edilizie da commercio all'ingrosso a commercio al minuto la destinazione d'uso di un fabbricato in zona D (destinata ad «attività produttive»), è stato chiesto il pagamento del conguaglio degli oneri concessori per il mutamento della destinazione d'uso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.12.2010 n. 8620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005 - Mutamenti di destinazione d'uso - Attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico - Necessità di verificare le dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni - Sussiste - Associazione culturale con fine religioso - Applicabilità dell'art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005 - Non sussiste, se il fine religioso è accessorio e marginale nel contesto degli scopi statutari.
2. Art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005 - Mutamenti di destinazione d'uso - Rilevanza ai fini urbanistici dell'uso di fatto dell'immobile - Non sussiste.

1. L'art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005, per la sua collocazione e la sua ratio, è palesemente volto al controllo di mutamenti di destinazione d'uso suscettibili, per l'afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come destinazione principale o esclusiva l'esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni.
La norma non pare quindi applicabile nel caso in cui l'immobile venga utilizzato da un'associazione culturale in cui il fine religioso rivesta carattere di accessorietà e di marginalità nel contesto degli scopi statutari.
2. Non rileva di norma ai fini urbanistici l'uso di fatto dell'immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è libero di esplicare (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.10.2010 n. 7050 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione d'uso - Mancanza di conformità urbanistica.
E' respinto il ricorso per l'accertamento del silenzio formatosi sull'istanza con la quale è stata chiesta l'approvazione del cambio di destinazione d'uso di alcune unità immobiliari.
Sulla base dei chiarimenti forniti dal comune su una questione simile si ritiene che la mancanza di conformità urbanistica non può essere superata semplicemente richiamando la liberalizzazione dei cambi di destinazione d'uso prevista in via generale dall'art. 51, comma 1, della l.r. n. 12/2005 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 22.10.2010 n. 4109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impugnazione provvedimento sanzionatorio - Cambio di destinazione d'uso in difformità dalle previsioni urbanistiche comunali - Piano attuativo - Infungibilità delle destinazioni - Legittimità.
In presenza della previsione di un piano attuativo che pone un limite quantitativo alle varie destinazioni, non si può affermare la piena fungibilità delle diverse destinazioni e la conseguente libertà di modificare la destinazione d'uso degli immobili (anche tra quelle ammesse dal P.R.G. per la zona in questione), passando così da una destinazione all'altra, senza una modifica del piano stesso.
Conseguentemente risulta legittimo il provvedimento impugnato con il quale l'Amministrazione ha sanzionato la violazione di una disposizione urbanistica di dettaglio, mentre nessuna rilevanza ha la modalità con cui il cambio di destinazione viene realizzato, aspetto che attiene al profilo edilizio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.10.2010 n. 7032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: N. D'Angelo, Modifica di destinazione d'uso: titoli abilitativi e trattamento sanzionatorio (Ufficio Tecnico n. 9/2010).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d'uso - Creazione di luoghi di culto o centri sociali - Presupposti - Usi di fatto - Irrilevanza - Fattispecie.
La volontà di attuare una particolare destinazione d'uso -nel caso di specie ad "attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi"- deve trovare una corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere realizzate e non può essere inferita dall'uso di fatto che possa, in precedenza, essere stato posto in essere, tanto più quando l'istanza di sanatoria non faccia riferimento alcuno ad una destinazione di tipo religioso (cfr. TAR, Milano, sent. n. 4665/2009) -nel caso di specie il TAR ha annullato il diniego di rigetto di sanatoria del Comune ritenendo che le opere oggetto della domanda consistessero, principalmente, nel rifacimento della pavimentazione, nel ripristino degli intonaci, nel rivestimento dei pilastri con cartongesso, nella imbiancatura dei locali, nella realizzazione di impianti igienico-sanitari ed elettrici e non rivelassero, in alcun modo, la volontà dell'associazione ricorrente di attuare una destinazione del fabbricato ad "attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi", ai sensi dell'art. 71, l. Regione Lombardia n. 12/2005 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenze 23.09.2010 nn. 6415 e 6416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lombardia, sulla localizzazione dei luoghi di culto di diversa confessione religiosa e sul cambio della destinazione d'uso, anche senza opere, per ricavare un luogo di culto.
In sede di elaborazione degli strumenti urbanistici i comuni, qualora ricevano richieste di localizzazione di luoghi di culto, possono legittimamente porsi soltanto il problema dell’effettiva esigenza di queste infrastrutture in relazione al numero di soggetti interessati (anche su scala sovracomunale se per le ridotte distanze o per altri motivi risulti verosimile che il bacino potenziale è più ampio del territorio comunale: v. art. 72, comma 3, della LR 12/2005).
Una volta accertata l’esigenza di un luogo di culto la localizzazione deve essere necessariamente conforme alla proposta presentata, qualora i promotori del progetto abbiano la disponibilità degli immobili, in quanto una diversa soluzione, coinvolgendo diritti di terzi, equivarrebbe di fatto a un diniego arbitrario.
Un diniego legittimo deve basarsi invece sull’inidoneità del sito proposto, secondo le normali valutazioni urbanistiche. In questa fase la convenzione con i promotori del progetto non è necessaria, almeno in via generale, in quanto riguarda, come si è visto sopra al punto 14, le concrete modalità di realizzazione o sistemazione dell’edificio.
Niente impedisce naturalmente che già nel corso della stesura degli strumenti urbanistici si raggiungano intese per rimuovere eventuali ostacoli o per creare le condizioni per l’inserimento del luogo di culto nella programmazione urbanistica.
E' necessario esaminare le censure che si riferiscono specificamente al cambio di destinazione d’uso finalizzato alla realizzazione di un luogo di culto.
Si tratta delle censure contenute nel sesto e nel settimo motivo di ricorso, che richiedono una valutazione congiunta. Gli argomenti proposti non sono condivisibili per le ragioni esposte qui di seguito:
(a) innanzitutto non sono ravvisabili profili di illegittimità costituzionale nell’art. 52, comma 3-bis, della LR 12/2005, che impone l’obbligo del permesso di costruire solo per i cambi di destinazione d’uso relativi ad alcuni edifici particolari (luoghi di culto, centri sociali).
La norma vuole evitare che attraverso la liberalizzazione dei cambi di destinazione d’uso stabilita dall’art. 51 della LR 12/2005 siano realizzate innovazioni di grande impatto sul tessuto urbano senza un preventivo esame da parte dell’amministrazione.
L’obiettivo è ragionevole, e non appare discriminatorio proprio per l’indubbia rilevanza sociale di questo tipo di edifici, che rende preferibile il controllo preventivo all’eventuale remissione in pristino;
(b) è corretto quanto afferma la ricorrente circa la prevalenza delle qualificazioni del DPR 380/2001 (disciplina nazionale omogenea con riflessi penali) quando si tratta di applicare le misure repressive degli abusi edilizi.
Il fatto che l’art. 52 comma 3-bis della LR 12/2005 richieda il permesso di costruire anche per i cambi di destinazione d’uso senza opere non consente di equiparare l’abuso della ricorrente a quelli disciplinati dagli art. 31 e 33 del DPR 380/2001 (nuova costruzione, variazioni essenziali, ristrutturazione pesante).
A proposito della ristrutturazione pesante si osserva che in base all’art. 10, comma 1, lett. c), del DPR 380/2001 può essere considerato tale solo il cambio di destinazione d’uso negli immobili compresi nelle zone omogenee A;
(c) la repressione del cambio di destinazione d’uso operato dalla ricorrente non deve quindi partire dal dato formale (necessità del permesso di costruire) ma da quello sostanziale (si tratta di un intervento senza opere);
(d) anche con questa precisazione non è però possibile arrivare alla sanatoria disciplinata dall’art. 53, comma 2, della LR 12/2005. Questa norma stabilisce che il cambio di destinazione d'uso senza opere si può sanare con il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria anche quando risulti in contrasto con le previsioni urbanistiche comunali.
Il confronto con l’art. 52, comma 2, della LR 12/2005 chiarisce tuttavia che la sanatoria non è possibile quando manchi la conformità alla normativa igienico-sanitaria, il che è in effetti ragionevole se si considera il livello sovraordinato degli interessi pubblici collegati a quest’ultima (in particolare l’interesse alla salute e alla sicurezza collettiva);
(e) nel caso dei luoghi di culto, come si è visto sopra al punto 14, le questioni igienico-sanitarie sono una parte rilevante del contenuto della convenzione prevista dall’art. 70, comma 2, della LR 12/2005.
Un cambio di destinazione d’uso senza opere relativo a un luogo di culto non è quindi sanabile con il meccanismo ordinario dell’art. 53, comma 2, della LR 12/2005 proprio perché, mancando la convenzione, manca la regolamentazione che è considerata indispensabile per l’introduzione di un uso non solo diverso da quello precedente ma del tutto particolare e in grado di incidere in modo significativo sul contesto sociale;
(f) la convenzione potrebbe essere stipulata anche a posteriori con effetto sanante, ma appare comunque legittima la decisione del Comune di bloccare immediatamente gli effetti del cambio di destinazione d’uso per il tempo necessario a valutare la situazione e in attesa della presentazione di una richiesta di permesso di costruire da parte della ricorrente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.09.2010 n. 3522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esecuzione del giudicato - Decorso del termine assegnato - Nomina di un Commissario.
Il Comune deve eseguire il giudicato della sentenza che autorizza il cambio di destinazione d'uso da abitazione a laboratorio medico e la trasformazione di un garage interrato in locale commerciale.
La decisione fa sorgere a carico dell'amministrazione comunale l'obbligo di adeguare la situazione di fatto degli immobili a quella di diritto; ne consegue l'ordine di dar esecuzione al giudicato, con l'avvertenza che, in caso di inutile decorso del termine assegnato, si procederà alla nomina di un commissario ad acta che adotti, in sostituzione dell'amministrazione inadempiente, i provvedimenti necessari per l'ottemperanza al giudicato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.07.2010 n. 4841 - massima tratta da www.diritto24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Giudizio di ottemperanza - Esecuzione delle sentenze recanti l'autorizzazione al cambio di destinazione d'uso da abitazione a laboratorio medico e la concessione in sanatoria per la trasformazione di un garage interrato in locale commerciale - Inottemperanza - Obbligo della P.A. di dare esecuzione al giudicato - Nomina di un commissario ad acta in caso di ulteriore inadempimento.
E' fondato e meritevole di accoglimento il ricorso esperito per l'esecuzione del giudicato formatosi in merito all'annullamento della concessione edilizia recante l'autorizzazione al cambio di destinazione d'uso da abitazione a laboratorio medico e della concessione in sanatoria rilasciata per la trasformazione di un garage interrato in locale commerciale ed artigianale, ove, a seguito della notificazione della sentenza al Comune, sia stata constatata l'inerzia della P.A. in ordine all'esecuzione della decisione.
La sentenza fa sorgere a carico dell'amministrazione comunale l'obbligo di adeguare la situazione di fatto degli immobili a quella di diritto; ne consegue, in accoglimento della pronuncia, l'ordine di dar esecuzione al giudicato con l'avvertenza che in caso di inutile decorso del termine assegnato si procederà alla nomina di un commissario ad acta che adotti, in sostituzione dell'amministrazione inadempiente i provvedimenti necessari per l'ottemperanza al giudicato (massima tratta da www.diritto24.ilsole24ore.com - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.07.2010 n. 4841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento della destinazione del fabbricato da residenziale a terziario, realizzato senza opere edilizie, non è soggetto a concessione edilizia ma resta pur sempre subordinato al pagamento dei maggiori oneri di urbanizzazione.
In ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un immobile non accompagnata dalla realizzazione di opere, non sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della realizzazione dell'edificio
(ndr: fattispecie ante L.R. n. 12/2005).
Questo Tribunale (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.02.1999 n. 611) ha escluso che sia soggetto al rilascio della concessione in sanatoria il cambio di destinazione d’uso in assenza di opere edilizie (c.d. cambio di destinazione d’uso funzionale).
E’ infatti noto che, secondo giurisprudenza consolidata, il mutamento di destinazione d’uso degli immobili non accompagnato da lavori edili costituisce espressione dello ius utendi e non dello ius aedificandi ed è pertanto escluso dall’ambito delle attività soggette a concessione edilizia (cfr., ex pluribus, CdS V 18/01/1988 n. 8; id., IV 23/11/1985 n. 551; id., 01/10/1993 n. 818; TAR Lombardia I n. 1782/1996, II nn. 66/88, 596/1993, 439/1995, 664/96, 127/1997, 1184/1998, III n. 441/1993).
La fattispecie non si presta quindi ad essere disciplinata dall’art. 13 della l. n. 47/1985, così come ha disposto il Comune.
Il mutamento della destinazione del fabbricato da residenziale a terziario, realizzato senza opere edilizie, non è quindi soggetto a concessione, ma resta pur sempre subordinato al pagamento dei maggiori oneri contributivi.
Infatti non esiste un collegamento necessario tra il rilascio di un titolo concessorio in sanatoria ed il pagamento degli oneri di urbanizzazione. La giurisprudenza (TAR Lombardia, Brescia, 10.03.2005, n. 145) ha chiarito che il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità (cfr. TAR Veneto, sez. II – 13/11/2001 n. 3699).
Pertanto, anche nel caso della modificazione della destinazione d'uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione (cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Brescia 23/01/1998 n. 34).
Analogamente l’art. 5 c. 2 della L.R. 60/1977 stabilisce che le modificazioni delle destinazioni d'uso comportano, per quanto attiene all'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, un contributo commisurato sia alla eventuale maggior somma determinata in relazione alla nuova destinazione rispetto a quella che sarebbe dovuta per la destinazione precedente.
Tuttavia, a differenza di quanto effettuato dal Comune, non può applicarsi la quantificazione degli oneri prevista dall’art. 13 della L. 47/1985, che prevede il raddoppio degli oneri di urbanizzazione, in quanto il pagamento di tale contributo prescinde dal rilascio del titolo abilitativo in sanatoria.
Ne consegue che il provvedimento comunale deve essere annullato con riferimento alle somme pagate a titolo di oneri di urbanizzazione in quanto l’amministrazione ha provveduto alla quantificazione secondo disposizioni non applicabili al caso di specie e dovrà provvedere ad una nuova determinazione conformandosi a quanto previsto dall’art. 5, c. 2, della L.R. 60/1977.
Deve inoltre accogliersi il motivo di ricorso nella parte in cui contesta il pagamento del contributo di costruzione.
Questa sezione ha infatti stabilito che in ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un immobile non accompagnata dalla realizzazione di opere, “non sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della realizzazione dell'edificio” (TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 04.05.2009 n. 3604; TAR Lazio Roma, sez. II, 17.05.2005, n. 3844).
Infatti, il contributo relativo al costo di costruzione (art. 6 L. 28.01.1977 n. 10) è riconducibile all'attività costruttiva ex se considerata e, correlandosi direttamente all'uso edificatorio del suolo e ai potenziali vantaggi economici che ne discendono, è sostanzialmente configurabile alla stregua dei prelievi di natura paratributaria ed è dovuto solo in presenza di una trasformazione edilizia del territorio e in conseguenza della produzione di ricchezza connessa alla sua utilizzazione.
Avendo nel caso in questione la ricorrente provveduto, verosimilmente, al pagamento del costo di costruzione al momento del rilascio della concessione con destinazione residenziale si deve escludere la debenza di questa voce contribuitiva per il cambiamento di destinazione d’uso senza opere (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.06.2010 n. 1787 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla variazione d'uso, senza opere, della destinazione di un terreno in contrasto con le norme igienico-sanitarie.
L’eventuale possibilità di qualificare l’uso del terreno -per cui è causa- come mutamento di destinazione di uso senza opere non comporta di per sé che la sanzione pecuniaria prevista dalla legge per tale abuso sia l’unica applicabile, così come sostenuto dalla difesa della parte ricorrente.
Tale conseguenza sarebbe esclusa comunque ai sensi della normativa nazionale, in quanto per gli articoli 31 e 32 del T.U. 380/2001 un mutamento di destinazione d’uso comporterebbe pur sempre una variazione essenziale, soggetta a rimessione in pristino attraverso la cessazione dell’attività vietata: così per tutte in giurisprudenza sul principio TAR Liguria, sez. I, 29.10.2008 n. 1862.
Si deve poi, comunque, considerare la disciplina del cambio di destinazione d’uso senza opere così come risulta dalla l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12.
All’art. 52 di essa si prevede che i “mutamenti di destinazione d'uso di immobili non comportanti la realizzazione di opere edilizie, purché conformi alle previsioni urbanistiche comunali ed alla normativa igienico-sanitaria” si possono lecitamente realizzare con semplice comunicazione all’ente; all’art. 53 si prevede poi una sanzione per il mutamento di destinazione senz’opere illegittimo: ”Qualora il mutamento di destinazione d'uso senza opere edilizie, ancorché comunicato ai sensi dell'articolo 52, comma 2, risulti in difformità dalle vigenti previsioni urbanistiche comunali, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria…”.
Tale sanzione però non è esaustiva, anche a prescindere da quanto sancito dalla normativa nazionale di cui al § precedente, perché non prevede il caso, del tutto possibile e verificatosi nella specie, in cui l’asserito mutamento, oltre che non conforme alla normativa urbanistica, risulti in aggiunta contrario anche alle norme igienico sanitarie.
In tale ultimo caso, secondo logica, la sanzione non potrebbe essere comunque che quella della cessazione dell’attività e della rimessione in pristino, perché altrimenti –sempre beninteso prescindendo dalla normativa nazionale- si ingenererebbe il paradosso per cui qualsiasi attività vietata per ragioni di igiene e salute pubblica si potrebbe liberamente proseguire, al solo prezzo di una sanzione pecuniaria, ove essa configurasse mutamento di uso senza opere di un qualsiasi immobile, mentre si potrebbe inibire se posta in essere occasionalmente come uso di fatto, ovvero in una fattispecie oggettivamente meno grave (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 30.04.2010 n. 1658 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio - Sanatoria - Mutamenti di destinazione d'uso senza opere - Art. 32, comma 27, D.L. n. 269/2001 - Vincolo a carattere relativo - Art. 32 L. n. 47/1985 - Mutamenti di destinazione d'uso meramente funzionali - Possibilità di sanatoria - Sussiste, previo riconoscimento di compatibilità con il vincolo da parte dall'Autorità competente.
Il rinvio operato dall'art. 32, comma 27, D.L. n. 269/2001 all'art. 32 L. n. 47/1985 (che disciplina le ipotesi di abuso in presenza di vincolo a carattere relativo, superabili cioè sulla base di un giudizio di compatibilità con il vincolo) e la preclusione della sanatoria per le opere abusive realizzate su immobili soggetti a vincolo monumentale inducono a ritenere che gli interventi abusivi realizzati senza opere (come i mutamenti di destinazione d'uso meramente funzionali) sono suscettibili di sanatoria quante volte siano dalla competente autorità riconosciuti compatibili con il vincolo gravante sull'immobile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.04.2010 n. 1213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso in cui il mutamento di destinazione d'uso di un immobile, realizzato attraverso opere interne, abbia impresso all'immobile stesso un'effettiva nuova e diversa destinazione rispetto a quella originaria, occorre la concessione edilizia.
Gli interventi edilizi effettuati all’interno dell’immobile di cui trattasi (consistenti nella demolizione e ricostruzione di tramezzi, predisposizione di impianti idrici, elettrici e di condizionamento e deumidificazione, nell’esecuzione di opere necessarie alla coibentazione acustica del locale a piano terra, nella predisposizione delle opere necessarie per la costruzione di un soppalco per il collocamento dell’impianto delle luci di scena e di amplificazione sonora) hanno comportato il mutamento di destinazione di uso dello stesso senza il previo rilascio del relativo necessario titolo autorizzatorio e perciò solo erano da considerarsi legittimamente come opere edilizie abusive senza concessione edilizia e pertanto passibili di demolizione.

Secondo consolidata e condivisa giurisprudenza, nel caso in cui il mutamento di destinazione d'uso di un immobile, realizzato attraverso opere interne, abbia impresso all'immobile stesso un'effettiva nuova e diversa destinazione rispetto a quella originaria, occorre la concessione edilizia (Consiglio Stato, sez. V, 11.05.2004, n. 2954 e TAR Campania Napoli, Sez. VI, 17.04.2008, n. 2320).
Nel caso di specie il mutamento di destinazione di uso si è concretizzato con la realizzazione di opere edilizie interne per cui, indipendentemente dal rispetto o meno degli standards urbanistici, era necessario il previo rilascio di un titolo edilizio e, comunque, non rileva la mancata attuazione in sede regionale dell’ult. co. dell’art. 25 della L. n. 47/1985, come invece prospettato in ricorso.
Ai sensi dell’ult. co. della richiamata norma, rubricata “Semplificazione delle procedure”, “Le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti, connessi e non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione”.
Tuttavia la circostanza che la norma statale di cui all'art. 25, ultimo comma, della L. n. 47/1985, ammetta espressamente la possibilità che il mutamento di destinazione senza trasformazioni fisiche dell'immobile possa essere subordinato non solo ad autorizzazione (o a denuncia di inizio di attività), ma persino a concessione edilizia, evidenzia il dovere di attribuire una notevole rilevanza sul piano urbanistico ai cambiamenti che possono apportarsi alla utilizzazione degli immobili.
La finalità di tale disciplina, dunque, che deve essere dettata con legge regionale, può individuarsi nella esigenza di individuazione delle differenti ipotesi di mutamenti di destinazione degli immobili, al fine precipuo di stabilire quali provvedimenti debbano essere richiesti nei singoli casi; ne consegue che la mancanza di disciplina regionale, non può dirsi tale da indurre a sostenere che il cambiamento di destinazione costituisca una attività del tutto "libera" e priva di vincoli non potendo comportare, una simile lacuna legislativa, la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso del territorio nel singolo comune; una diversa soluzione non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali in parola, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica, come già in precedenza osservato dalla giurisprudenza (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.05.2008, n. 2561).
In senso contrario a quanto dedotto non vale il richiamo insistente effettuato da parte della difesa della società ricorrente alle recenti statuizioni della Corte di Cassazione Penale relativamente ai reati contestati alla stessa in ordine ai lavori effettuati all’interno dei locali di cui trattasi; ed infatti è sufficiente rilevare come, premesso che trattasi di piani distinti, con le citate decisioni si è confermata la circostanza che nei locali siano stati effettuate opere interne (che non hanno comportato modifiche né alla sagoma dell’edificio né ai prospetti del medesimo né, infine, hanno arrecato pregiudizio alla statica dell’immobile).
Gli interventi edilizi effettuati all’interno dell’immobile di cui trattasi (consistenti nella demolizione e ricostruzione di tramezzi, predisposizione di impianti idrici, elettrici e di condizionamento e deumidificazione, nell’esecuzione di opere necessarie alla coibentazione acustica del locale a piano terra, nella predisposizione delle opere necessarie per la costruzione di un soppalco per il collocamento dell’impianto delle luci di scena e di amplificazione sonora) hanno comportato il mutamento di destinazione di uso dello stesso (tanto è vero che proprio a tal fine era stata presentata una istanza di rilascio della concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell’art. 13 della L. n. 4771985, rigettata dal competente ufficio con il provvedimento dirigenziale n. 1292/1993, mai impugnato dalla società ricorrente) senza il previo rilascio del relativo necessario titolo autorizzatorio e perciò solo erano da considerarsi legittimamente come opere edilizie abusive senza concessione edilizia e pertanto passibili di demolizione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 26.04.2010 n. 8493 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d'uso - Da agricolo a residenziale - Illegittimità - Non sussiste - Fattispecie.
La locazione di una unità abitativa ad un soggetto non impiegato in attività agricola non può ritenersi idonea a configurare quel cambio di destinazione d'uso, ancorché senza opere, che l'art. 53 della legge n. 12 del 2005 intende sanzionare in relazione ad un immobile agricolo edificato in epoca anteriore all'entrata in vigore della stessa legge regionale n. 93/1980 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2010 n. 131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mutamento della destinazione d'uso senza l'esecuzione di opere edilizie.
Il mutamento abusivo di destinazione di uso di un immobile senza l’esecuzione di opere edilizie, realizzato in contrasto con le previsioni degli strumenti urbanistici normativi o amministrativi (regolamenti edilizi, atti di concessione, ecc.), deve comportare una traslazione non precaria dall’una all’altra delle categorie urbanistiche considerate dalla normativa vigente (uso residenziale, uso agricolo, uso industriale, uso commerciale) (in tal senso, ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 17, lett. a), l. n. 10 del 1977, Cassazione penale, sez. III, 29.02.1984).
Il mutamento di destinazione di uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico (in tal senso, Consiglio di Stato, V, 13.02.1993, n. 245 e Cassazione penale, III sezione, 27.09.2007, n. 35640) e nella specie l’interprete deve rifarsi alla normativa statale e regionale antecedente alla legge regionale Piemonte n. 19 del 1999.
Le destinazioni autonome sopra richiamate sono evincibili (così Consiglio Stato, V, 448 depositata in data 05.02.2007) dal decreto del Ministro dei lavori pubblici n. 1444 del 1968, dalla legge n. 10 del 1977 e dall’art. 12, comma 2, punto 4) della l.r. Piemonte n. 56 del 1977 (nel testo vigente ratione temporis al momento di presentazione della domanda di condono)
Il mutamento di destinazione di uso viene per esempio escluso nel caso di mutamento del tipo di attività industriale (Consiglio Stato, V, 21.12.1992, n. 1547).
Nel caso di mutamento abusivo senza opere edilizie della destinazione di un immobile, il rilascio della concessione in sanatoria è ammesso solo quando, sulla base di elementi obiettivi, sia possibile verificare in concreto l’uso diverso da quello assentito (in tal senso, Consiglio Stato, IV, 09.09.2009, n. 5416)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.01.2010 n. 45 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2009

EDILIZIA PRIVATA: Sull'esecuzione di opere edilizie finalizzate a mutare la destinazione d'uso di un laboratorio artigianale a centro sociale nonché ad attività di culto.
In seguito a sopralluogo il Comune ha contestato: la formazione di una nuova parete a tutta altezza in cartongesso, lunga 3,60 metri, che divide il locale principale dai servizi igienici; il posizionamento all’esterno del fabbricato, sul fronte che prospetta sulla pubblica via, di due unità esterne di climatizzazione ad un’altezza di m. 2,75; il cambiamento d’uso dell’immobile, destinato a centro sociale nonché ad attività di culto, che si svolgono ogni settimana il venerdì.
Ritenuto che le opere abusive configurino un intervento di manutenzione straordinaria, che l’installazione delle unità esterne di condizionamento non sia regolamentare (dovendo le medesime essere sistemate sulla copertura), e che il cambio di destinazione d’uso richieda il rilascio del permesso di costruire (ex art. 52, comma 3-bis, legge regionale n. 12 del 2005), il Comune, con ordinanza 26.08.2009 n. 109, preceduta da avviso di avvio del procedimento cui l’Associazione ha dato seguito con proprie osservazioni, ha ingiunto la demolizione delle opere abusive e il ripristino della destinazione d’uso artigianale antecedente l’attuale destinazione a luogo di culto, con preavviso di acquisizione dell’immobile in caso di inottemperanza.
Il ricorso, cui resiste il Comune, è fondato.
Va esaminata in via prioritaria, per ragioni logiche, la questione se il cambio di destinazione d’uso richiedesse o meno, nel caso de quo, il permesso di costruire.
L’art. 52, comma 3-bis, della legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge sul governo del territorio) stabilisce che “I mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire”.
Il comma 3-bis è stato introdotto dalla legge regionale 14.07.2006 n. 12 (art. 1, comma 1, lett. m), e non è applicabile prima della sua entrata in vigore.
Nel caso in esame, sebbene non vi sia prova della data in cui sono state eseguite le opere contestate dal Comune, e sebbene solo il contratto di locazione stipulato in data 14.04.2008 (e non anche quello antecedente, stipulato nell’ottobre 2005) preveda la destinazione dell’immobile a “circolo ricreativo”, è verosimile che tale destinazione risalga a data anteriore all’introduzione della norma, come si desume dalla nota del 29.10.2005 con la quale il Comune, nell’interloquire con il ricorrente, che aveva formulato una richiesta di utilizzo del campo sportivo, indirizzava la propria risposta al Centro, nella sede di piazza Dante 7.
Ne consegue che la norma de qua non è applicabile al caso in esame.
Gli abusi edilizi commessi dal ricorrente (realizzazione di un tramezzo e posizionamento irregolare delle unità esterne di condizionamento), in quanto finalizzati al mutamento di destinazione d’uso, vanno riguardati e valutati dunque sotto un’altra prospettiva, tenendo conto:
(a) che la disciplina regionale in materia distingue il regime dei mutamenti di destinazione d’uso secondo che siano conformi o non conformi alle previsioni urbanistiche (cfr. artt. 52 e 53 legge regionale n. 12 del 2005);
(b) che lo stesso Comune ha qualificato le opere abusive come opere di manutenzione straordinaria;
(c) che le opere di manutenzione straordinaria richiedono una semplice d.i.a., la cui mancanza non può dar luogo all’acquisizione dell’immobile (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.12.2009 n. 6226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione è consentito in entrambe le fattispecie normative del restauro-risanamento conservativo e della ristrutturazione: nella prima ipotesi soffre pur sempre la limitazione della compatibilità con gli elementi tipologici, formali e strutturali del fabbricato.
La Sezione ritiene che, conformemente al parere del responsabile del settore edilizia privata del comune di Genova (doc. 9 delle produzioni 05.11.2009 di parte resistente), a seguito della presentazione della D.I.A. in variante in data 01.06.2007, l’intervento proposto debba qualificarsi come ristrutturazione, comportando il cambio di destinazione d’uso di gran parte dell’immobile (segnatamente, i piani dal terzo al settimo) mediante la realizzazione e l’inserimento di nuovi elementi edilizi, anche esterni (tra i quali le scale esterne di sicurezza in ferro sul retro ed il nuovo accesso per la scuola al terzo piano), che alterano l'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile.
Tali trasformazioni appaiono senz’altro incompatibili con il concetto di restauro e risanamento conservativo, che presuppone invece, ex art. 3, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, il rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo edilizio, mediante la realizzazione di opere che ne lascino inalterata la struttura.
Né rileva che, secondo una consolidata giurisprudenza (per la quale cfr., da ultimo, TAR Puglia, II, 01.03.2004, n. 910), la modifica della preesistente destinazione d’uso non sia astrattamente incompatibile con il concetto di risanamento conservativo.
Difatti, come correttamente evidenziato dalla difesa del comune, il mutamento di destinazione, che in linea di principio è consentito in entrambe le fattispecie normative del restauro-risanamento conservativo e della ristrutturazione, nella prima ipotesi soffre pur sempre la limitazione, imposta direttamente dalla norma, della compatibilità con gli elementi tipologici, formali e strutturali del fabbricato (Cons. di St., V, 06.07.2002, n. 3728).
E poiché l'intervento in questione non era diretto -come vuole la definizione dettata dalla norma e lo stesso significato proprio dei termini "recupero" e "risanamento"- a conservare l'organismo edilizio, ma aveva lo scopo di trasformare l'immobile al solo fine di adattarlo alla progettata diversa destinazione d'uso (ancorché compatibile), non può residuare alcun dubbio circa la qualificazione dello stesso nell’ambito della ristrutturazione edilizia, con conseguente assoggettamento a contributo di costruzione
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 09.12.2009 n. 3565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO.
Ristrutturazione – Presupposti - Mutamento di destinazione d'uso di un immobile - Deve essere autorizzato mediante rilascio del permesso di costruire - Fattispecie.
Gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia prevista dall'art. 31, lett. d), legge n. 457 del 1978, (Cons. St., sez. V, 17.12.1996, n. 1551) e, quindi, ove vi sia sostanziale modifica della destinazione preesistente, concretano il mutamento di destinazione d’uso.
Da ciò consegue che il mutamento di destinazione d'uso di un immobile deve essere autorizzato mediante rilascio del permesso di costruire, qualora sia effettuato mediante opere, o qualora comporti un mutamento tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, in tali casi integrando una modificazione edilizia che incide sul carico urbanistico (v. TAR Campania-NA - Sez. III, 18/09/2008 n. 10351; TAR Puglia-BA - Sez. I, 10/06/2008 n. 1415; TAR Sicilia-CT - Sez. I, 04/01/2008 n. 55, TAR Piemonte Sez. I, 28/03/2006 n. 1560).
Con riferimento al cambio di destinazione d'uso, la giurisprudenza ha escluso la necessità di permesso a costruire solo allorquando un organismo edilizio assicura la fisionomia e conservazione della destinazione d'uso, della collocazione e delle caratteristiche fisiche identificative dell'originario manufatto (Cons. Stato, V, 08.08.2003 n. 4593).
Nel caso di specie gli interventi previsti comportavano una trasformazione della realtà strutturale, oltre che della fruibilità edilizia dell’immobile, dato che da un unico locale si ricava un piccolo appartamento dotato di tutti i comforts, dando luogo ad un organismo ben diverso da quello preesistente (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 15.10.2009 n. 2302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Mutamento di destinazione d'uso - Creazione di luoghi di culto o centri sociali - Presupposti - Destinazione permanente a diversa funzione.
2. Mutamento di destinazione d'uso - Creazione di luoghi di culto o centri sociali - Presupposti - Usi di fatto - Irrilevanza.
3. Utilizzo della propria residenza per riunioni di adepti, a scopo religioso, culturale, associativo - Illecito edilizio ex art. 31 D.P.R. n. 380/2001 - Inconfigurabilità.
4. Utilizzo della propria residenza per riunioni di adepti, a scopo religioso, culturale, associativo - Immissione di rumori eccedenti i limiti imposti dalla legge e dalla convivenza civile - Giurisdizione G.O.

1. Il mutamento di destinazione rilevante ai fini della creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali è quello che altera, sia pure senza opere, la funzione originaria dell'immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa. In tal caso l'immobile perde la destinazione originariamente assentita per assumere la funzione diversa che gli viene assegnata.
2. Altra cosa è l'uso di fatto dell'immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è libero di esplicare: la destinazione d'uso impressa a determinati locali dal titolo autorizzativo non riguarda, infatti, le attività umane che vi si svolgono, ossia i c.d. usi di fatto (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 949/2000; n. 77/1997).
3. L'utilizzo della propria residenza per riunioni di adepti, a scopo religioso, culturale, associativo in genere, non è di per sé sufficiente a configurare un illecito edilizio suscettibile di essere sanzionato ai sensi dell'art. 31 D.P.R. n. 380/2001 (t.u. edilizia); né lo è lo svolgimento saltuario di pratiche di culto in un luogo strutturato e destinato ad abitazione.
4. In caso di disturbo derivante da pratiche di culto ovvero in caso di intollerabile immissione di rumori eccedenti i limiti imposti dalla legge e dalla convivenza civile, sussiste in capo al soggetto disturbato la facoltà di adire il giudice ordinario qualora, in relazione all'afflusso di persone e al disturbo cagionato in occasione delle suddette cerimonie religiose, si registrino immissioni moleste che eccedono la normale tollerabilità (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.09.2009 n. 4665 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vanno ricondotte al comune, e non alla regione, le scelte urbanistiche, in esito alle quali i mutamenti di destinazione d'uso possono essere soggetti a concessione. E' legittimo quindi, il provvedimento con cui un comune ha stabilito l'obbligo di pagare il contributo per oneri di urbanizzazione, in corrispondenza del cambio di destinazione d'uso di un immobile (da abitazione ad ufficio), effettuato senza opere edilizie.
La questione sottoposta all’esame del Collegio riguarda la valenza –sul piano urbanistico– del mutamento di destinazione d’uso di unità o complessi immobiliari, senza effettuazione di opere edilizie e della possibilità, o meno, di ritenere dovuti per interventi del tipo indicato i contributi per oneri di urbanizzazione, anche quando la normativa regionale non richieda per gli interventi stessi il titolo abilitativo, una volta denominato “concessione edilizia” e –nel nuovo testo unico– “permesso di costruire”.
Sia nella precedente che nell’attuale normativa in effetti (articoli 3, 5, 6 della legge 28.01.1977, n. 10 e 16 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380) alle nuove edificazioni e ad altri interventi, comunque soggetti ai titoli abilitativi sopra specificati, corrisponde il pagamento di un contributo, commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione.
La natura giuridica del predetto contributo è quella di prestazione patrimoniale imposta, anche indipendentemente dall’utilità specifica del singolo concessionario, comunque tenuto a concorrere alla spesa pubblica per le infrastrutture –strade, fognature, illuminazione, parcheggi, ma anche scuole, uffici, centri commerciali ecc.– che debbono accompagnare ogni nuovo insediamento edificatorio (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez. V, 06.05.1997, n. 462. 16.04.1986, n. 225 e 06.10.1986, n. 504). E’ anche evidente che la destinazione d’uso degli immobili condiziona le esigenze infrastrutturali, da tempo individuate dalla normativa sotto forma di standards urbanistici, in base al D.M. 02.04.1968, n. 1444 e all’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, nel testo introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765. In connessione con i principi generali, sopra sommariamente enunciati, è stato a lungo dibattuto in giurisprudenza il problema dei mutamenti di destinazione d’uso degli immobili, effettuabili senza opere edilizie, essendo evidente –pur in assenza di una materiale trasformazione del territorio– la non irrilevanza dei mutamenti in questione sul piano urbanistico (tenuto conto in particolare delle differenti dotazioni di standards, riconducibili alle varie tipologie d’uso degli immobili stessi, anche inseriti nella medesima zona territoriale omogenea: cfr. al riguardo Cons. St., sez. IV, 29.05.2008, n. 2561).
L’art. 25, u.c., della legge 28.02.1985, n. 47 (ora trasfuso nell’art. 10, comma 2, del T.U., approvato con D.P.R. n. 380/2001 cit.) ha rinviato la soluzione della complessa tematica in ambito locale, disponendo che siano le leggi regionali a stabilire “quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti” dovessero essere subordinati a concessione (oggi permesso di costruire) e quali a mera autorizzazione (potendosi identificare con tale terminologia –non del tutto propria, data la natura comunque autorizzatoria dei titoli abilitativi in questione: cfr. al riguardo, per il principio, Corte Cost. 21.04.1983, n. 127– i mutamenti di destinazione d’uso di minore impatto sul territorio, assimilabili agli interventi edilizi, di norma non soggetti ad oneri).
In rapporto alle diverse normative, conseguentemente emanate dalle Regioni, alcune linee di indirizzo sono state espresse dalla Corte Costituzionale, che –con sentenze nn. 73 in data 11.02.1991 (riferita all’art. 76, comma 1 della legge della Regione Veneto 27.06.1985, n. 61) e 259 del 23.07.1997, riferita all’art. 2, comma 1, della legge della Regione Emilia Romagna 08.11.1988, n. 46)– ha indicato i seguenti principi:
a) riconducibilità al Comune, e non alla Regione, delle scelte urbanistiche, in esito alle quali i mutamenti di destinazione d’uso possono essere soggetti a concessione;
b) riconoscimento per la Regione, in forza della competenza concorrente che le è propria, del compito di stabilire criteri e modalità, cui i Comuni debbono attenersi in sede di predisposizione degli strumenti urbanistici;
c) non assoggettabilità con legge regionale dei mutamenti di destinazione d’uso senza opere a concessione, anziché a semplice autorizzazione, per l’intero territorio comunale.
Nella situazione in esame, si tratta di stabilire i corretti parametri applicativi della legge della Regione Lombardia 15.01.2001, n. 1, che all’art. 2, comma 2 dispone quanto segue: “I mutamenti di destinazione d’uso di immobili, conformi alle previsioni urbanistiche comunali e non comportanti la realizzazione di opere edilizie, sono soggetti esclusivamente a preventiva comunicazione dell’interessato al Comune, ad esclusione di quelli riguardanti unità immobiliari o parti di esse, la cui superficie lorda di pavimento non sia superiore a 150 metri quadrati, per i quali la comunicazione non è richiesta”.
Il precedente art. 1 della medesima legge regionale prevede, altresì, che i Comuni indichino nello strumento urbanistico le destinazioni d’uso non ammissibili nelle diverse aree omogenee e definiscano nello strumento urbanistico le necessarie variazioni del fabbisogno di standards, relativamente ai mutamenti d’uso ammissibili attuati con opere edilizie, ovvero anche non comportanti la realizzazione di tali opere, se riferiti ad uso commerciale “non costituente esercizio di vicinato”.
Una interpretazione costituzionalmente orientata della citata legge –tenuto conto dei principi in precedenza esposti– non può comunque escludere un autonomo apprezzamento comunale, in merito all’impatto urbanistico di qualsiasi mutamento di destinazione d’uso ed implica dunque, ad avviso del Collegio, che i mutamenti in questione –anche ove effettuabili senza opere e compatibili con la destinazione di zona, per immobili di non minimale consistenza (oltre 150 mq)– non siano soggetti a specifico assenso comunale e non possano essere inibiti a chi vi abbia interesse: quanto sopra, tuttavia, non senza che sia possibile integrare la riscossione dei contributi, corrispondenti agli oneri di urbanizzazione, da parte dei Comuni interessati, cui competono la valutazione e l’eventuale integrazione degli standards urbanistici presenti sul territorio, ove gli assetti originari finiscano per subire variazioni di rilievo (come nel caso in cui una zona a prevalente vocazione abitativa finisca per trasformarsi –fenomeno non raro in aree centrali dei nuclei urbani– in zona ad uso prioritario di tipo direzionale, con esigenze diverse, ad esempio, in tema di parcheggi ed altri servizi connessi).
Se è vero, infatti, che la Regione non potrebbe imporre ai Comuni la sottoposizione dei mutamenti di destinazione d’uso al medesimo titolo abilitativo, previsto per le nuove costruzioni (Corte Cost. nn. 73/1991 e 259/1997 cit.), è anche vero che la Regione stessa non avrebbe titolo per precludere alle Amministrazioni comunali –preposte all’individuazione delle destinazioni, compatibili con le singole aree omogenee, nonché alla relativa disciplina– l’acquisizione dei contributi per oneri di urbanizzazione, nella misura per legge dovuta (a norma, per quanto qui interessa, dell’art. 4 della legge regionale 05.12.1977, n. 60).
Nella situazione in esame, pertanto, legittimamente il Comune appellato ha richiesto l’integrazione del contributo, ovvero la differenza fra l’ammontare dovuto per oneri di urbanizzazione, corrispondenti all’uso ufficio, e la minor somma già in precedenza corrisposta per l’uso abitativo: quanto sopra, non quale nuova autorizzazione a titolo oneroso, ma quale mera commutazione, ammissibile ex lege, della tipologia di riferimento dell’autorizzazione originaria (cfr. anche al riguardo, per il principio, art. 19, comma 3, del D.Lgs. 06.06.2001, n. 378, nonché –per un caso solo parzialmente diverso– Cons. St., sez. IV, 14.04.2006, n. 2163).
Una diversa linea interpretativa potrebbe comportare una generalizzata elusione dell’ammontare del contributo di cui trattasi da parte di costruttori ed altri operatori economici, interessati a versare il contributo stesso nella misura minore, potendo poi usufruire di un gratuito mutamento di destinazione d’uso, il cui maggior carico infrastrutturale determinerebbe un onere, gravante in via esclusiva sulla finanza pubblica.
Non appare contrastante con la logica delle conclusioni, in precedenza raggiunte, la diversa regolamentazione dei mutamenti di destinazione d’uso, che riguardino singole unità immobiliari di superficie inferiore a 150 mq.: una liberalizzazione circoscritta a queste ultime appare, infatti, giustificata sia dall’indifferenza, sul piano urbanistico, di nuovi insediamenti direzionali di così modesta entità (in corrispondenza, per lo più, a studi professionali con limitato numero di addetti), sia da una certa “intercambiabilità” di destinazione, che è sembrato opportuno riservare a dette articolazioni immobiliari minori, più facilmente integrabili nel territorio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.08.2009 n. 5059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della L.R. n. 12/2005: 3^ lezione - Cambi di destinazione d'uso (Geometra Orobico n. 6/2009).

EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie in materia di ristrutturazione - Opere interne.
Le opere interne e gli interventi di ristrutturazione edilizia, come pure quelli di manutenzione ordinaria o straordinaria, ogniqualvolta comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie d'interventi funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea, come ad esempio quella industriale o residenziale, richiedono il permesso di costruire.
Gli stessi interventi di ristrutturazione o manutenzione, comportanti modificazioni della destinazione d'uso nell'ambito di categorie omogenee, qualora siano realizzati fuori del centro storico richiedono solo la denuncia di inizio attività.
Inoltre, la c.d. lottizzazione cd. materiale non presuppone necessariamente il compimento di opere su un suolo inedificato, ma può verificarsi anche attraverso la modificazione della destinazione d'uso di un edificio già esistente (Cass. sez. III, sentenza n. 6990 del 2006) (massima tratta da www.studiospallino.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.05.2009 n. 20149).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento d’uso di cui è causa è avvenuto senza esecuzione di alcuna opera edilizia e, all’epoca dei fatti, non era ancora stata promulgata per la Regione Lombardia, la legge cui l’art. 25, u. co., L. 28.02.1985 n. 47 rinvia, al fine di stabilire quali mutamenti siano da subordinare a concessione e quali ad autorizzazione.
Ciò premesso, dopo le sentenze della Corte Costituzionale 11/02/1991 n. 73 e 31.12.1993 n. 498, è pacifico in giurisprudenza che -avendo l'art. 25 citato stabilito che il mutamento di destinazione d'uso, realizzato senza opere edilizie, va sottoposto, nei casi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge regionale, a semplice autorizzazione e non a concessione edilizia- in mancanza di apposita legge regionale, vale il principio che il mutamento di destinazione d'uso funzionale dei singoli edifici è, in linea generale, libero.
La giurisprudenza amministrativa si mostra, pertanto, incline a ritenere sottratti al potere di pianificazione urbanistica, i mutamenti di destinazione d'uso meramente funzionali, in quanto manifestazioni del diritto di proprietà e di impresa.
Conseguentemente, per il cambiamento di destinazione riconducibile a quello contestato all’odierna ricorrente, non può che essere registrata la presa di posizione, applicabile ratione temporis ai fatti per cui è causa, secondo cui lo stesso non è assoggettabile né a concessione e, neppure, ad autorizzazione edilizia.
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Va chiarito come, se da un lato, la circostanza che le modifiche di destinazione d'uso senza opere non siano soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporti, ipso jure, l'esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell'operazione, dall’altro, affinché il mutamento di destinazione possa giustificare l’imposizione dei ridetti oneri, sia necessario accertare se il mutamento in questione realizzi o meno un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
Ne deriva, quindi, che, in ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un immobile non accompagnata dalla realizzazione di opere, “mentre non sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della realizzazione dell'edificio; per la parte, invece, che attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione d'uso del manufatto. Deve, per contro, ritenersi che tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico urbanistico”.

Rileva il Collegio che:
a) in punto di fatto, risulta incontroverso tra le parti che il mutamento d’uso di cui è causa, sia avvenuto senza esecuzione di alcuna opera edilizia;
b) in punto di diritto, all’epoca dei fatti non era ancora stata promulgata per la Regione Lombardia, la legge cui l’art. 25, u. co., L. 28.02.1985 n. 47 rinvia, al fine di stabilire quali mutamenti siano da subordinare a concessione e quali ad autorizzazione;
c) sempre in punto di diritto, dopo le sentenze della Corte Costituzionale 11/02/1991 n. 73 e 31.12.1993 n. 498, è pacifico in giurisprudenza che -avendo l'art. 25 citato stabilito che il mutamento di destinazione d'uso, realizzato senza opere edilizie, va sottoposto, nei casi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge regionale, a semplice autorizzazione e non a concessione edilizia- in mancanza di apposita legge regionale, vale il principio che il mutamento di destinazione d'uso funzionale dei singoli edifici è, in linea generale, libero.
La giurisprudenza amministrativa si mostra, pertanto, incline a ritenere sottratti al potere di pianificazione urbanistica, i mutamenti di destinazione d'uso meramente funzionali, in quanto manifestazioni del diritto di proprietà e di impresa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.07.1982, n. 525; id. 13.06.1987, n. 365; sez. V 18.01.1988 n. 8).
Conseguentemente, per il cambiamento di destinazione riconducibile a quello contestato all’odierna ricorrente, non può che essere registrata la presa di posizione, applicabile ratione temporis ai fatti per cui è causa, secondo cui lo stesso non è assoggettabile né a concessione e, neppure, ad autorizzazione edilizia (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23.11.1985, n. 551; id., 16.05.1986, n. 341; id., 01.10.1993, n. 818; nonché, di recente, TAR Veneto, Sez. II, 13.11.2001, n. 3699; TAR Lazio, sez. II, 03.03.2008 n.1973).
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Quanto ai pretesi oneri di urbanizzazione, il Collegio osserva quanto segue.
Nel caso di modificazione della destinazione d'uso senza opere edilizie, cui sia ascrivibile un maggior carico urbanistico, sarebbe senz’altro integrato il presupposto che giustifica l'imposizione, al titolare del bene, del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa. E, tuttavia, rileva il Collegio come occorra, da parte pubblica, fornire un adeguato riscontro di tale maggior carico urbanistico ascrivibile alla nuova destinazione.
In altri termini, riepilogando sul punto, va chiarito come, se da un lato, la circostanza che le modifiche di destinazione d'uso senza opere non siano soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporti, ipso jure, l'esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell'operazione, dall’altro, affinché il mutamento di destinazione possa giustificare l’imposizione dei ridetti oneri, sia necessario accertare se il mutamento in questione realizzi o meno un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici (cfr., in tal senso, TAR Lombardia Brescia, 07.11.2005 , n. 1115).
Ne deriva, quindi, che, in ipotesi di variazione di destinazione d'uso di un immobile non accompagnata dalla realizzazione di opere, “mentre non sussiste il presupposto per il pagamento della parte di contributo afferente al costo di costruzione, da riferire al dato oggettivo della realizzazione dell'edificio; per la parte, invece, che attiene agli oneri di urbanizzazione, può sussistere il presupposto del pagamento, occorrendo avere riguardo all'eventuale aumento del carico urbanistico indotto dalla nuova destinazione d'uso del manufatto. Deve, per contro, ritenersi che tali oneri non siano dovuti ove non sia riscontrabile alcuna variazione in aumento del carico urbanistico” (così TAR Lazio Roma, sez. II, 17.05.2005 , n. 3844)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 04.05.2009 n. 3604 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quesito 8 - In merito al concetto di ultimazione delle opere abusive ai fini dell'applicabilità della normativa in materia di condono edilizio, con specifico riguardo alla fattispecie del mutamento di destinazione d'uso (Geometra Orobico n. 4/2009).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Verbale di sopralluogo - Natura provvedimentale - Non sussiste - Inammissibilità.
2. Accertamento illegittimità del mutamento destinazione d'uso - Diritto soggettivo - Non sussiste - Inammissibilità.

1. E' inammissibile il ricorso avverso il verbale con cui il Comune si è limitato a comunicare le risultanze di un sopralluogo in quanto, non contenendo alcuna determinazione, tale atto non ha natura provvedimentale.
2. L'azione di accertamento dell'illegittimità del mutamento di destinazione d'uso è inammissibile in quanto nel processo amministrativo l'azione di accertamento può trovare spazio in sede di giurisdizione esclusiva solo quando da parte dell'istante viene fatta valere una posizione di diritto soggettivo, non sussistente nel caso di domanda volta a conseguire un provvedimento sanzionatorio rispetto al quale il ricorrente non vanta una posizione di diritto soggettivo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.04.2009 n. 3585).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo l'operato del comune che, in presenza di una diversità di destinazione d'uso dell'immobile, determina la liquidazione dei contributi urbanistici in base ai parametri previsti per la categoria di destinazione prevalente.
Risulta che l’unità immobiliare, prima destinata a negozio (attività commerciale), è stata frazionata e trasformata internamente (con opere) al fine di adibirla in parte ad uffici ed in parte ad ambulatorio veterinario.
Ciò posto l’intervento di cui si tratta si configura come modifica della destinazione d’uso con opere.
In tal caso l'esistenza di un’attività edilizia finalizzata alla modificazione dell’edificio comporta uno iatus con la precedente situazione consentendo l'imposizione di contributi ( si veda C. St. V 1208 del 30.10.1997; V Sez. 06.06.1996 n. 666, che affermano essere è legittimo l'operato del Comune che, in presenza di una diversità di destinazione d'uso dell'immobile, determina la liquidazione in base ai parametri previsti per la categoria di destinazione prevalente; TAR Brescia, n. 251/23.04.2001 che afferma la rilevanza ai fini della determinazione dei contributi urbanistici, della destinazione d’uso degli immobili, in quanto gli oneri sottesi all' intervento edilizio sono giustificati dai costi e dai vantaggi reciproci che derivano alla collettività e al concessionario dalla trasformazione del territorio).
In giurisprudenza è stato poi ripetutamente affermato che il mutamento della destinazione d'uso necessita di concessione edilizia e comporta l'obbligo di corrispondere al comune il contributo nella misura rapportata alla nuova destinazione.
Inoltre la legislazione nazionale e regionale in materia di contributi lasciano alla Regione ampi margini di discrezionalità nell’individuazione dei presupposti degli oneri di urbanizzazione e non prevedono l’esenzione degli interventi edilizi di trasformazione di volumi preesistenti ( Si veda C. St. IV, n. 2163/2006).
Occorre ricordare che la nozione del contributo per oneri di urbanizzazione, in giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, V Sez., 23.05.1997 n. 529) è definita come "un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché l'uso dà la giustificazione giuridica dell'an debeatur, mentre le modalità dell'uso danno la ragione del quantum".
La causa giuridica della debenza del contributo va ricercata quindi anche nell'utilità che la nuova costruzione trae dalle opere di urbanizzazione già esistenti (sent. TAR BZ n. 59/2000).
Quindi, anche con riferimento a quanto elaborato in giurisprudenza (cfr. CS, Sez. V, 23.05.1997 n. 529) i contributi di urbanizzazione non sono strettamente riferiti all’impatto del singolo intervento, essendo rimessa all’autorità preposta l’individuazione della tipologia degli interventi edilizi da assoggettare al contributo in relazione all’insieme dei benefici connessi all’urbanizzazione complessiva, ivi compresa quella preesistente, relativa all’intera zona (TAR Emilia-Romagna, Sez. II, sentenza 06.04.2009 n. 395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire. Conformità al vigente P.R.G..
E’ chiesto parere in merito ai possibili rimedi esperibili da un Comune che abbia rilasciato un permesso di costruire sulla base di un erroneo presupposto, consistente in un elaborato progettuale risultato non conforme al vigente P.R.G. (Regione Piemonte, parere 44/2009 - tratto da www.regione.piemonte.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie - Permesso di costruire - Art. 3, 1° c., lett. d), T.U. n. 380/2001.
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia (art. 3, 1° comma, lett. d), del T.U. n. 380/2001), in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione.
Destinazione di un immobile - Concetto di uso urbanistico.
La destinazione di un immobile non si identifica con l'uso che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con quella impressa dal titolo abilitativo assentito.
Ciò significa che "il concetto di uso urbanisticamente rilevante è ancorato alla tipologia strutturale dell'immobile, quale individuata nell'atto di concessione, senza che esso possa essere influenzato da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori" (TAR Lombardia-Milano, Sez. 1, 07.05.1992, n. 219; C.d.S. Sez. V, 09.02.2001, n. 583).
Cambio della destinazione d'uso di un fabbricato - Strumento urbanistico - Alterazione di equilibri prefigurati - Insanabilità.
La richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede. (Consiglio di Stato Sez. V, 03.01.1998, n. 24) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2009 n. 9894 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: PRG - Destinazione d'uso urbanistico - Atto di destinazione specifica - Controllo della destinazione d'uso degli immobili - Modalità - D.M. n. 1444/1968.
Lo strumento urbanistico rappresenta l'atto di destinazione generica ed esso trova attuazione nelle prescrizioni imposte dal titolo che abilita a costruire, quale atto di destinazione specifica che vincola il titolare ed i suoi aventi causa. Possono conseguentemente distinguersi: una destinazione d'uso urbanistico, riferita alle categorie specificate dalla legge e dal D.M. n. 1444/1968; una destinazione d'uso edilizio, che attiene al singolo edificio ed alle sue capacità funzionali.
Duplice è, dunque, l'esigenza correlata al controllo della destinazione d'uso degli immobili: da un lato quella di assicurare tutela alla zonizzazione funzionale, dall'altro quella di consentire l'applicazione della normativa sugli standards, regolatrice della differenziazione infrastrutturale del territorio. Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2009 n. 9894 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica della destinazione d’uso.
La destinazione di un immobile non si identifica con l'uso che in concreto ne fa il soggetto che lo utilizza, ma con quella impressa dal titolo abilitativo assentito (ovviamente quando tale titolo sussista e sia determinato sul punto). Ciò significa che il concetto di uso urbanisticamente rilevante è ancorato alla tipologia strutturale dell'immobile, quale individuata nell'atto di concessione, senza che esso possa essere influenzato da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori.
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia (secondo la definizione fornita dall'art. 3. l° comma, lett. d), del T.U. n. 380/2001), in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione.
Un'interpretazione coerente della disposizione di cui all'art. 10, l° comma, lett. c), del T.U. n. 380/2001 può aversi soltanto allorché si ritenga che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni d'uso compatibili" già considerate dall'art 3, l° comma, lett. c) dello stesso T.U. (nella descrizione della tipologia del restauro e risanamento conservativo). Soltanto un'interpretazione siffatta consente di mantenere coerenza al sistema. Una diversa conclusione, nel senso della generalizzata esclusione, fuori dei centri storici, del limite dell'immodificabilità delle destinazioni d'uso, si porrebbe infatti in incoerente contrasto con tutta la disciplina degli interventi specificati dall'art. 3 del T.U. n. 380/2001 (ove finanche la manutenzione straordinaria, non può comportare "modifiche della destinazione d'uso") (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2009 n. 9894 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quesito 6 - In merito al mutamento di destinazione d'uso di un immobile che lo renda utilizzabile per finalità diverse rispetto a quelle originari (Geometra Orobico n. 2/2009).

EDILIZIA PRIVATA: Quesito 1 - In merito al mutamento di destinazione d'uso con opere ed alla necessità del permesso di costruire per la ristrutturazione edilizia - In merito alla necessità del permesso di costruire che non può essere derogata dalla legislazione regionale (Geometra Orobico n. 2/2009).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica destinazione d’uso mediante opere.
In ordine al mutamento di destinazione d'uso di un immobile attraverso la realizzazione di opere edilizie si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia (secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d) del T.U. n.380/2001), in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di modesta entità, porta pur sempre alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione.
Non ha rilievo l'entità delle opere eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane per gli interventi:
   - di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (art. 3, comma l, lett. b) T.U. 380/2001);
   - di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma l, lett. c), T.U. n. 380/2001).
Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di nuova costruzione" ai sensi dell'art. 3 comma 1, lett. e) del T.U. n. 380/2001. Ove il necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili le sanzioni amministrative di cui all'art. 31 del T.U. n. 380/2001 e quella penale di cui all'art. 44, lett. b) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.02.2009 n. 8847 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Ingiunzione sindacale ex art. 7 della legge n. 47/1985 di ripristino della destinazione industriale di porzione di fabbricati - Interesse all'impugnazione - In caso di chiusura dell'intero complesso industriale - sussiste .
2. Mutamento di destinazione d'uso senza opere edilizie - Assenza di legge regionale - Non è soggetto a potere di pianificazione urbanistica.

1. Sussiste l'interesse ad impugnare un'ingiunzione sindacale di ripristino della destinazione industriale da parte della società ingiunta anche nel caso in cui l'intero complesso industriale sia stato chiuso posto che tale circostanza non è sufficiente ad escludere il conseguimento di un risultato vantaggioso.
2. In applicazione dell'art. 25 u.c. Legge 28.02.1985 n. 47 che stabilisce che il mutamento di destinazione d'uso, realizzato senza opere edilizie, va sottoposto, nei casi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge regionale, a semplice autorizzazione e non a concessione edilizia, in mancanza di apposita legge regionale, vale il principio che il mutamento di destinazione d'uso funzionale dei singoli edifici è in linea generale libero, ovvero non è soggetto a potere di pianificazione urbanistica (cfr. Corte Costituzionale 11.02.1991 n. 73; 31.12.1993 n. 498) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.02.2009 n. 1342).

EDILIZIA PRIVATA: Quesito 7 - Sul cambio di destinazione d'uso effettuato con lo spostamento di porte e finestre esterne nonché con tramezzatura interna e sulla necessità o meno di ravvisare un mutamento urbanistico-edilizio del territorio (Geometra Orobico n. 1/2009).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica della destinazione d’uso.
Per quanto concerne la modifica della destinazione d'uso, a parte il potere attribuito alle regioni di stabilire quali mutamenti debbano essere sottoposti al permesso di costruire e quali alla denuncia d'inizio attività, è comunque richiesto il permesso di costruire allorché il mutamento si riferisce ad immobili compresi nelle zone omogenee A) o comunque allorché comportino interventi che modifichino la sagoma o il volume del manufatto preesistente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.01.2009 n. 3445 - link a www.lexambiente.it).

anno 2008

EDILIZIA PRIVATA: E' legittima la rideterminazione degli oo.uu. nel caso di mutamento della destinazione d'uso da residenza a studio professionale.
Premesso che nel caso di mutamento della destinazione d'uso gli oneri sono dovuti solo nel caso di maggiore incidenza del carico urbanistico e limitatamente alla differenza, va precisato che nel caso in esame i ricorrenti hanno mutato la destinazione d'uso senza opere edilizie di locali di proprietà da residenza a studio dentistico e a studio medico.
A tale proposito va osservato che il principio del supplemento del contributo urbanistico nel caso di cambio di destinazione d'uso ai sensi dell'art. 10, ultimo comma, della legge n. 10/1977 trova applicazione allorché si realizzi una destinazione d'uso compresa in una classe contributiva diversa e più onerosa della precedente, ossia tale che, se la concessione fosse stata richiesta fin dall'origine per la nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno favorevole regime contributivo urbanistico (cfr. Cons. Stato – Sez. V^ - n. 198 del 16.03.1987).
La disposta rideterminazione dei suddetti contributi discende dal fatto del mutamento della destinazione d'uso di alcuni locali da residenza a studio dentistico e a studio medico, per cui legittimamente il Comune ha proceduto in tal senso, atteso che il pagamento del contributo per oneri concessori va corrisposto allorché sia ravvisabile, a seguito dell'intervento edilizio, un aumento del carico urbanistico, con conseguente mutamento degli standard (cfr. TAR Lazio – Sez. II^ - n. 54 del 04.01.2005) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 22.10.2008 n. 3257 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Destinazione d’uso da commerciale a direzionale: norme applicabili e titolo.
In materia edilizia, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea.
La norma di cui al D.M. 02.04.1968, art. 5, comma 1, n. 2, unifica gli insediamenti di carattere commerciale a quelli di carattere direzionale al solo esclusivo fine di determinare i cd. servizi di residenza (rapporti tra spazi coperti e spazi pubblici da destinare alle attività collettive, a verde pubblico e a parcheggio), ferma restando, tuttavia, l’autonomia funzionale tra le due categorie edilizie.
Nel procedimento di denuncia di inizio di attività, disciplinato dall'art. 23 T.U. 06.06.2001 n. 380, la scadenza del termine perentorio di trenta giorni preclude all'Autorità comunale competente l'esercizio del suo potere di controllo a fini inibitori (previsto dal comma 6, in relazione al comma 1), ma non impedisce l'esercizio del suo ordinario potere sanzionatorio-repressivo per ogni trasformazione edilizia contrastante con la disciplina urbanistica. Rimane pertanto impregiudicato il potere-dovere del Comune e dell'Autorità giudiziaria di intervenire sul piano sanzionatorio nel caso in cui l'intervento realizzato a seguito della presentazione della denuncia di inizio di attività, risulti sottoposto a permesso di costruire
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 06.10.2008 n. 1822 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie in materia di ristrutturazione - Mutamento di destinazione d’uso.
In materia edilizia, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea (massima tratta da www.studiospallino.it - TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 06.10.2008 n. 1822 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quando il mutamento della destinazione d'uso necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire.
In materia edilizia, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea (cfr: Cons. Stato, Sez. V, 11.05.2004, n. 2954) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 06.10.2008 n. 1822 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica della destinazione d’uso.
In ordine al mutamento di destinazione d'uso di un immobile attraverso la realizzazione di opere edilizie, effettuato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante lo sua esistenza si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia (secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d) del T.U. n. 380/2001), in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di modesta entità, porta pur sempre alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione.
Non ha rilievo l'entità delle opere eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane per gli interventi: di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (art. 3, comma 1, lett. b), T.U. 380/2001; di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c, T.U. n. 380/2001)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.09.2008 n. 35383 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Ordine di rimessione in pristino - Cambio di destinazione d'uso - Prova -Legittimità.
2. Ordine di rimessione in pristino - Cambio di destinazione d'uso - Mancata effettuazione di opere edilizie - Irrilevanza.
3. Ordine di rimessione in pristino - Cambio di destinazione d'uso - Indeterminatezza del dispositivo dell'ordine - Non sussiste.

1. Con riferimento allo stato di fatto di un locale con destinazione d'uso cantina, un rapporto dei vigili urbani che da atto di come, in verità, lo stesso sia stato trasformato in una cucina per la presenza di lavello, finiture, allacciamenti a luce, acqua e riscaldamento contiene elementi univoci (da considerare complessivamente) della trasformazione del locale, atteso che ciò che è decisivo per qualificare un intervento sotto il profilo urbanistico edilizio è la oggettiva idoneità del locale ad una certa destinazione. Non essendo il Comune tenuto, in mancanza di fatti nuovi, ad effettuare un secondo sopralluogo, risulta legittimo il provvedimento di rimessione in pristino adottata.
2. Con riferimento ad un ordine di rimessione in pristino di un locale, con destinazione cantina, trasformato in cucina, il Comune non è tenuto a replicare in modo specifico alla deduzione sulla mancata effettuazione di opere edilizie, non essendo necessario, in astratto, che siano poste in essere opere per realizzare un mutamento di destinazione d'uso.
3. E' legittimo il provvedimento impugnato perché non sussiste la dedotta indeterminatezza del dispositivo dello stesso, in quanto la rimessione in pristino (che è il contenuto predeterminato dalla legge del provvedimento in esame) di un locale, assoggettato abusivamente a modifica di destinazione d'uso, si effettua ripristinando le condizioni di idoneità oggettiva del locale alla destinazione d'uso pregressa
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.07.2008 n. 2988).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento della destinazione d’uso - Limiti della disciplina regionale (Sicilia) - Artt. 31, 44 e 10, c. 2 e 3 del D.P.R. n. 380/2001.
In materia urbanistica le disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali stabiliti dalla legislazione nazionale e, conseguentemente devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi (cass. pen. sez. III sent. del 15/06/2006). Deve quindi escludersi, in ossequio al principio di legalità, che la scelta di criminalizzare o meno una certa condotta possa attribuirsi alla Regione. Del resto la formulazione dell'art. 10, commi 2 e 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 consente alle Regioni l'esercizio di una flessibilità normativa nella direzione di ampliare l'area applicativa del permesso di costruire ma non determina un ampliamento del potere delle Regioni tale da consentire di eliminare una sanzione penale in una parte del territorio nazionale. E' conforme all'indicato principio la motivazione del giudice di merito che, richiamando l'art. 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, con riferimento all'art. 44 dello stesso d.p.r., (Cass. pen. 15/03/2002, n. 19378) abbia rilevato che, il mutamento di destinazione d'uso degli immobili, effettuato con opere interne, è possibile senza il previo rilascio di concessione edilizia purché detta modificazione intervenga entro categorie omogenee quanto a parametri urbanistici, atteso che la modificazione di destinazione d'uso giuridicamente e penalmente rilevante è quella che avviene tra macrocategorie, in quanto comporta il mutamento degli standard urbanistici e la variazione del carico urbanistico.
Trasformazione edilizia ed urbanistica - Mutamento di destinazione di uso - Competenza esclusiva attribuita alla Regione Siciliana - Limiti della disciplina regionale - L n. 37/1985 - Art. 36 c. 1 L.R. Sicilia n. 71/1978 - Fattispecie.
In materia urbanistica la Legge n. 37 del 1985, nonostante la competenza esclusiva attribuita alla Regione Siciliana, deve comunque rispettare i principi fondamentali della legislazione nazionale e, quindi, deve essere interpretata in modo da non collidere con detti principi generali. Inoltre, l'art. 36, comma 1, della legge regionale n. 71 del 1978 sottopone a concessione edilizia qualsivoglia attività comportante trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio comunale, nonché il mutamento di destinazione di uso degli immobili. Nella specie, gli imputati, in possesso di concessione edilizia a titolo gratuito ex art. 9 della legge n. 10 del 1977 per le opere da realizzare nelle zone agricole, - ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12 della legge 09.05.1975, n. 1537 avevano modificato arbitrariamente la destinazione di uso del capannone da adibire a deposito di macchine agricole, realizzando un'attività commerciale di autocarrozzeria, con stravolgimento della normale destinazione urbanistica dell'immobile e con notevole aggravamento del territorio.
Abuso edilizio - Data di commissione del reato - Onere della prova.
In tema di abuso edilizio/urbanistico, non basta la mera affermazione da parte dell'imputato a far ritenere che il reato sia stato commesso in epoca antecedente all'accertamento e neppure a determinare l'incertezza sulla data di commissione del reato idonea a far scattare la presunzione "in dubio pro reo", atteso che in base al principio generale ciascuno deve fornire la prova di quanto afferma (v. Cass. pen. sez. III sent. 17/04/2000, n. 10562, Fretto S) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.07.2008 n. 31135 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Limiti disciplina regionale e destinazione d’uso.
In materia urbanistica le disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali stabiliti dalla legislazione nazionale e, conseguentemente devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi. Deve quindi escludersi, in ossequio al principio di legalità, che la scelta di criminalizzare o meno una certa condotta possa attribuirsi alla Regione. Del resto la formulazione dell'art. 10, commi 2 e 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 consente alle Regioni l'esercizio di una flessibilità normativa nella direzione di ampliare l'area applicativa del permesso di costruire ma non determina un ampliamento del potere delle Regioni tale da consentire di eliminare una sanzione penale in una parte del territorio nazionale.
E' conforme all'indicato principio la motivazione del giudice di merito che, richiamando l'art. 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, con riferimento all'art. 44 dello stesso d.p.r., abbia rilevato che, secondo consolidata giurisprudenza il mutamento di destinazione d'uso degli immobili, effettuato con opere interne, è possibile senza il previo rilascio di concessione edilizia purché detta modificazione intervenga entro categorie omogenee quanto a parametri urbanistici, atteso che la modificazione di destinazione d'uso giuridicamente e penalmente rilevante è quella che avviene tra macrocategorie, in quanto comporta il mutamento degli standard urbanistici e la variazione del carico urbanistico (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.07.2008 n. 31135 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Attività edilizia - Cambio di destinazione d'uso senza opere edilizie - Autorizzazione - Non occorre - Fattispecie.
2. Misure repressive - Inapplicabilità - Solo per opere realizzate in epoca in cui la normativa non richiedeva assenso edilizio.
3. Misure repressive - Termine di decadenza o prescrizione - Non sussiste - Affidamento del privato - Inconfigurabilità.
4. Processo amministrativo - Rapporti con il processo penale - Sentenza penale di assoluzione - Rilevanza nei giudizi amministrativi - Limite.

1. In tema di variazione d'uso di un immobile senza opere edilizie, qualora l'impiego del l'immobile - nella fattispecie: box - come deposito di cose o di merci non sia preordinato allo svolgimento diretto di un'attività in situ che richieda un'autorizzazione ad hoc, ma attenga ad un uso di fatto che il proprietario fa della cosa propria, tale impiego non rileva per il diritto (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 77/1997): non occorre pertanto alcuna autorizzazione per la variazione d'uso (nella fattispecie vigeva l'art. 25, ult. comma Legge 47/1985 prima delle modifiche introdotte dal D.L. 498/1993).
2. Un'opera abusiva, anche risalente nel tempo, non può ritenersi perciò solo inamovibile, a meno che non si provi che è stata realizzata in epoca in cui la normativa generale e locale non richiedeva assenso edilizio alcuno, o che ha beneficiato di un condono edilizio, in assenza del quale si applicano le ordinarie sanzioni (art. 40 Legge n. 47/1985).
3. La vetustà dell'opera abusiva non esclude il potere di controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia, in quanto l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate.
4. Il proscioglimento in sede penale dei ricorrenti, rinviati a giudizio per costruzione senza concessione edilizia non comporta l'illegittimità dell'eventuale ordinanza di demolizione, in quanto il proscioglimento in sede penale vincola il Giudice Amministrativo solo relativamente alla materialità dei fatti accertati, ma non preclude una diversa valutazione della fattispecie ai fini dell'applicazione delle sanzioni edilizie di carattere amministrativo
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.06.2008 n. 2045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e modifica della destinazione d’uso (residenza turistico alberghiera).
Può configurare il reato di lottizzazione abusiva la modifica di destinazione d'uso di un complesso alberghiero, realizzata attraverso la vendita di singole unità immobiliari a privati, allorché (indipendentemente dal regime proprietario della struttura) non sussiste una organizzazione imprenditoriale preposta alla gestione dei servizi comuni ed alla concessione in locazione dei singoli appartamenti compravenduti secondo le regole comuni del contratto di albergo, atteso che in tale ipotesi le singole unità perdono la loro originaria destinazione d'uso alberghiera per assumere quella residenziale. Si ha lottizzazione abusiva allorquando il frazionamento anzidetto si ponga in contrasto con specifiche previsioni dello strumento urbanistico generale, come ad esempio nel caso in cui detto strumento, nella zona in cui è stato costruito l'albergo, non preveda utilizzabilità diversa da quella turistico-alberghiera. Nel caso in cui lo strumento urbanistico generale consenta una utilizzabilità anche residenziale può configurarsi lottizzazione abusiva sia allorquando il complesso alberghiero sia stato edificato alla stregua di previsioni derogatorie (ad esempio a divieti di edificabilità, limitazioni plano-volumetriche, distanze etc.) non estensibili ad immobili residenziali sia allorquando la destinazione d'uso residenziale comporti un incremento degli standards richiesti per l'edificazione alberghiera (con riferimento anche ai parcheggi privati di cui all'art. 41-sexies della legge n. 1150/1942) e tali standards aggiuntivi non risultino reperibili ovvero reperiti in concreto.
Il problema della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche alla stregua della legislazione urbanistica regionale in materia di classificazione delle categorie funzionali della destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni della pianificazione comunale, alle quali deve essere raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata trasformazione del territorio. Può integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento della destinazione d'uso di un immobile che alteri il complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto alla individuazione di siffatta "alterazione", che l'organizzazione del territorio comunale si attua con il coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità di servizi. L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli standards di zona (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.06.2008 n. 24096 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quesito 10 - Sulla sussistenza o meno di un mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante nel caso in cui un appartamento destinato ad abitazione venga adibito a studio professionale (Geometra Orobico n. 5/2008).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Attività edilizia - Modifiche di superficie e destinazione d'uso - Ristrutturazione edilizia - Sussistenza - Concessione edilizia - Necessità.
2. Condono edilizio ex Legge 47/1985 - Domanda - Inesatta rappresentazione della realtà su un presupposto essenziale - Ipotesi di domanda dolosamente infedele ex art. 40 L. 47/1985 - Sussiste - Silenzio assenso - Inconfigurabilità.
3. Procedimento amministrativo - Preavviso di diniego - Violazione art. 10-bis Legge 241/1990 - Illegittimità - Quando sussiste.
4. Condono edilizio ex Legge 47/1985 - Requisiti per l'ottenimento - Prova - Onere del richiedente.

1. Le opere edilizie comportanti la realizzazione di nuove unità abitative ed il mutamento di destinazione d'uso, pur se giustificate da esigenze di rinnovamento e di restauro, costituiscono ristrutturazione edilizia -e non manutenzione straordinaria- e, pertanto, necessitano di concessione edilizia; in particolare, la realizzazione di tramezzi interni, propedeutici alla realizzazione di nuovi vani, e la creazione di servizi igienici non sono riconducibili al concetto di manutenzione straordinaria.
2. Nel disciplinare la formazione del silenzio assenso sulle domande di condono, gli artt. 35-40 della Legge 47/1985 indicano quale elemento in presenza del quale il silenzio assenso non può formarsi, la dolosa infedeltà della domanda; pertanto il silenzio assenso di cui all'art. 40, il quale prevede che, decorso il termine perentorio di 24 mesi dalla presentazione della domanda, la stessa si intende accolta, non si applica laddove la dichiarazione resa dalla parte in sede di presentazione della domanda di condono non sia ritenuta vera all'esito dell'istruttoria (cfr. TAR Palermo, sentenza. n. 2369/2006).
3. La violazione dell'art. 10-bis Legge 241/1990, secondo cui il diniego deve essere preceduto dal preavviso di rigetto, non produce ex se l'illegittimità del provvedimento terminale, dovendo detta disposizione essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, il quale, laddove il ricorrente sollevi determinati vizi di natura formale, impone al Giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato (cfr. TAR Lecce., sent. n. 1385/2006; sent. n. 5633/2005).
4. Spetta a colui che richiede la sanatoria dimostrare di avere i requisiti per ottenere il provvedimento richiesto e, quindi, anche quello di provare la situazione esistente
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.05.2008 n. 1802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAComune di Sora - parere in merito al mutamento di destinazione d'uso senza opere in assenza di piano urbanistico attuativo del P.R.G. (Regione Lazio, parere 04.04.2008 n. 126867 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento dell'uso funzionale (senza opere) di un immobile con un maggior carico urbanistico sconta il pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Ad avviso della costante giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. V – 26/07/1984 n. 592; TAR Catania – 31/07/1979 n. 408), il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la ragione del quantum (Consiglio di Stato, sez. V – 23/05/1997 n. 529).
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita nell’originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico (Sentenza Sezione 11/06/2004 n. 646; TAR Lombardia Milano, sez. II – 02/10/2003 n. 4502; Consiglio Stato, sez. V – 25/05/1995 n. 822).
Il Collegio osserva, in termini generali, che il fondamento del contributo di urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità (cfr. TAR Veneto, sez. II – 13/11/2001 n. 3699).
Pertanto, anche nel caso della modificazione della destinazione d'uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione (cfr., in tal senso, sentenza Sezione 23/01/1998 n. 34).
Un diverso ragionamento sarebbe evidentemente inaccettabile, dal momento che gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere ed ottenere una concessione edilizia che sconta il pagamento di un minor contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente la destinazione d'uso originaria senza pagare i più elevati oneri che derivano dal maggior carico urbanistico.
Nella specie il mutamento di destinazione –da residenziale a direzionale– è riconducibile ad una classe diversa e più onerosa della precedente tale che, se la concessione fosse stata richiesta fin dall’origine per la nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno favorevole regime contributivo urbanistico: ai fini del calcolo dei cd. standard, uno studio per l’attività professionale di dottore commercialista assume la consistenza di un distinto ed autonomo centro d'attrazione, non riconducibile alle esigenze di normale vivibilità delle zone residenziali, ed è pertanto fonte di un maggiore carico urbanistico (Consiglio Stato – sez. V, 19.05.1998 n. 626).
A fronte dell’accertato mutamento di destinazione d’uso, l’amministrazione ha legittimamente provveduto a calcolare di nuovo il quantum dovuto in relazione al diverso carico urbanistico derivante dall’insediamento di un’attività di tipo direzionale piuttosto che di una residenza, tenuto presente che, come già illustrato, il contributo di urbanizzazione non è geneticamente collegato al rilascio di una nuova concessione edilizia, ma rappresenta la compartecipazione posta a carico del titolare dell’alloggio alle utilità derivanti dalla presenza delle opere di urbanizzazione (cfr. Sentenza Sezione 13/06/2002 n. 957) (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 10.03.2005 n. 145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' materia non soggetta al potere di pianificazione urbanistica i mutamenti di destinazione d'uso meramente funzionali, in quanto manifestazioni del diritto di proprietà e di impresa; conseguentemente, le attività in questione sono state ritenute non assoggettate né a concessione né ad autorizzazione edilizia.
La giurisprudenza amministrativa si è decisamente orientata nel senso di ritenere materia non soggetta al potere di pianificazione urbanistica i mutamenti di destinazione d'uso meramente funzionali, in quanto manifestazioni del diritto di proprietà e di impresa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.07.1982, n. 525; id. 13.06.1987, n. 365); conseguentemente, le attività in questione sono state ritenute non assoggettate né a concessione né ad autorizzazione edilizia (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23.11.1985, n. 551; id., 16.05.1986, n. 341; id., 01.10.1993, n. 818).
Tale principio è stato sostanzialmente confermato dalla legge 28.02.1985, n. 47, che, in sede di emanazione di una nuova disciplina dell'attività edilizia, ha considerato rilevanti i mutamenti di destinazione d'uso ove realizzati mediante l'esecuzione di opere (cfr., in particolare, art. 8, primo comma, lett. a), in tema di variazioni essenziali al progetto approvato e art. 26, primo comma, in materia di opere interne). Peraltro, l'art. 25, ultimo comma, di detta L. n. 47 del 1985 ha introdotto una importante novità, prevedendo per le Regioni la possibilità di fissare con legge criteri e modalità per l'eventuale regolamentazione da parte dei Comuni, in ambiti determinati del territorio, delle destinazioni d'uso degli immobili e per la eventuale sottoposizione delle loro variazioni ad autorizzazione del sindaco.
Tale norma stabiliva, quindi, una riserva di legge regionale finalizzata ad una eventuale disciplina comunale dei mutamenti di destinazione d'uso e alla loro sottoposizione a controllo, ancorché realizzati senza l'esecuzione di opere edilizie.
La Corte costituzionale ha, al riguardo, precisato che "la modifica funzionale della destinazione, non connessa all'esecuzione di interventi edilizi, può essere assoggettata soltanto al regime dell'autorizzazione, e solo dopo che i criteri, dettati dall'apposita legge regionale prevista dall'art. 25 citato, siano filtrati ed attuati in sede di pianificazione urbanistica comunale" (sent. 11.02.1991, n. 73).
In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa, la quale ha più volte affermato che la rilevanza di variazioni di destinazioni d'uso meramente funzionali è subordinata alla previa fissazione con legge regionale di criteri e modalità per l'eventuale esercizio del potere di regolamentazione comunale in ambiti territoriali determinati (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 18.01.1988, n. 8; id., 20.02.1990, n. 163), restando altrimenti attività libera (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30.06.1998, n. 998; Sez. V, 10.03.1999, n. 231; id., 23.02.2000, n. 949).
Sulla materia è nuovamente intervenuto il legislatore con l'art. 2, comma 60, della legge 23.12.1996, n. 662, applicabile "ratione temporis" al caso in esame, che ha sostituito l'ultimo comma del predetto art. 25 con la seguente disposizione: "Le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti subordinare a concessione, e quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione".
Dalla nuova formulazione della norma emerge, da un lato, l'equiparabilità, in sede di normazione regionale, dei mutamenti di destinazione d'uso strutturali a quelli meramente funzionali, che possono essere assoggettati a concessione edilizia ovvero ad autorizzazione; dall'altro, che la disciplina della materia è riservata alla esclusiva competenza delle Regioni, essendo stato eliminato ogni riferimento alla regolamentazione urbanistica comunale, con la conseguenza che, in mancanza di una diversa disciplina regionale, il mutamento di destinazione d'uso senza opere costituisce tuttora attività edilizia libera (cfr. Cons. Stato, sez. II; par. 05.11.2003, n. 2199/2002).
Tanto premesso va osservato in conclusione che il mutamento di destinazione d'uso, che consiste nel mutare l'uso per il quale l'immobile è urbanisticamente destinato, se realizzato con opere è, quindi, soggetto a previa licenza o concessione ovvero a semplice autorizzazione, mentre, se realizzato senza opere, può essere liberamente posto in essere, se non diversamente disposto dalla Regione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 03.03.2008 n. 1973 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione d'uso con opere edilizie - Oneri di urbanizzazione - Portata.
Il cambio di destinazione d'uso oggetto di concessione edilizia, accompagnato da interventi edilizi interni, comporta l'imposizione di oneri integrativi di urbanizzazione, solo quando determina una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico, ma non quando la modificazione intervenga entro categorie omogenee quanto a parametri urbanistici e non comporta la variazione del carico urbanistico (nel caso di specie il TAR ha ritenuto che il cambio di destinazione d'uso del locale interrato da cantina a deposito commerciale non fosse urbanisticamente rilevante, dal momento che ab origine lo stesso era utilizzato come locale accessorio a locali commerciali e come tale svolgeva già la funzione di magazzino) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.02.2008 n. 404 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d'uso di immobile in zona vincolata - Modifiche interne - Esistenza di permesso di costruire per uso diverso - Difformità totale - Reati - Configurabilità.
In tema di violazioni edilizie e paesaggistiche, il mutamento della destinazione d'uso di un immobile in zona vincolata, realizzato mediante modifiche interne tali da renderlo idoneo ad un uso residenziale, diverso da quello originariamente assentito, integra sia il reato di esecuzione di lavori in difformità totale dal permesso di costruire, che quello di esecuzione di lavori su beni paesaggistici in assenza di autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.01.2008 n. 4555 - link a www.lexambiente.it).

anno 2007

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva - Rilevabilità - Cambio di destinazione d'uso - Contratti preliminari di compravendita - Art. 30 D.P.R. n. 380/2001.
In presenza di specifici elementi rilevatori della volontà di procedere al mutamento di destinazione delle unità immobiliari, non vale, richiamare l'astratto dato normativo che, peraltro, certamente non legittima alcuna forma di arbitraria immutazione.
Sicché, l'ipotesi di lottizzazione abusiva, di cui all'art. 30 d.P.R. 06.06.2001 n. 380, è configurabile anche in relazione ad un complesso immobiliare già edificato attraverso il cambio di destinazione d'uso rilevabile dalla stipula di contratti preliminari di compravendita, come quelli aventi ad oggetto unità abitative destinate a residenza privata e facenti parte di un complesso originariamente autorizzato per lo svolgimento di attività alberghiera.
Lottizzazione abusiva - Rilevabilità - Modifica di destinazione d'uso di immobili oggetto di un piano - Frazionamento di un complesso immobiliare - Originaria destinazione d'uso alberghiera.
In materia urbanistica, configura il reato di lottizzazione abusiva la modifica di destinazione d'uso di immobili oggetto di un piano di lottizzazione attraverso il frazionamento di un complesso immobiliare di modo che le singole unità perdano la originaria destinazione d'uso alberghiera per assumere quella residenziale, atteso che tale modificazione si pone in contrasto con lo strumento urbanistico costituito dal piano di lottizzazione (Sez. 3, n. 6990 del 29/11/2005 Rv. 233552) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.04.2007 n. 13687 - link a www.ambientediritto.it).

anno 2006

EDILIZIA PRIVATA: 1. Mutamento di destinazione d'uso - Oneri di urbanizzazione - Pagamento - Aumento del carico urbanistico.
2. Mutamento di destinazione d'uso - Modalità di utilizzo del bene - Funzionalità acquisite.

1. In sede di rilascio della concessione edilizia, al quale consegua il mutamento di destinazione d'uso dell'immobile, il pagamento del contributo per oneri di urbanizzazione va corrisposto ogni qual volta si rinvenga, a seguito dell'intervento edilizio, un aumento del carico urbanistico.
2. Al fine di accertare se vi sia stato un mutamento di destinazione d'uso, bisogna considerare non solo la modalità di utilizzo del bene, quanto, soprattutto, le funzionalità da esso acquisite in forza degli interventi edilizi (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.12.2006 n. 2989 - massima tratta da www.solom.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Cerveteri - Parere in merito alla sanabilità del cambio di destinazione d'uso da agricolo a residenziale ed altre casistiche (Regione Lazio, parere 10.11.2006 n. 133863 di prot.).

anno 2005

EDILIZIA PRIVATAIl contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la ragione del quantum.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita nell’originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.
In termini generali, il fondamento del contributo di urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità.
Pertanto, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione.
Un diverso ragionamento sarebbe evidentemente inaccettabile, dal momento che gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere ed ottenere una concessione edilizia che sconta il pagamento di un minor contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente la destinazione d'uso originaria senza pagare i più elevati oneri che derivano dal maggior carico urbanistico.
Se è comunque indispensabile l’esame della fattispecie concreta per accertare se il nuovo insediamento o la nuova opera abbia determinato un incremento nella domanda di strutture ed opere collettive, nella specie il mutamento di destinazione –da residenziale ad ufficio– è riconducibile ad una classe diversa e più onerosa della precedente tale che, se la concessione fosse stata richiesta fin dall’origine per la nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno favorevole regime contributivo urbanistico: ai fini del calcolo dei cd. standard, l’ufficio di un’attività d’impresa assume la consistenza di un distinto ed autonomo centro d'attrazione, non riconducibile alle esigenze di normale vivibilità delle zone residenziali, ed è pertanto fonte di un maggiore carico urbanistico.
In definitiva, a fronte dell’accertato mutamento di destinazione d’uso l’amministrazione ha legittimamente provveduto a calcolare di nuovo il quantum dovuto in relazione al diverso carico urbanistico

La censura è priva di pregio.
Ad avviso della costante giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. V – 26/07/1984 n. 592; TAR Catania–31/07/1979 n. 408), il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la ragione del quantum (Consiglio di Stato, sez. V – 23/05/1997 n. 529).
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita nell’originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico (Sentenza Sezione 11/06/2004 n. 646; TAR Lombardia Milano, sez. II – 02/10/2003 n. 4502; Consiglio Stato, sez. V – 25/05/1995 n. 822).
In termini generali, il fondamento del contributo di urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità (cfr. TAR Veneto, sez. II – 13/11/2001 n. 3699).
Pertanto, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione (cfr., in tal senso, sentenze Sezione 10/03/2005 n. 145 e 23/01/1998 n. 34).
Un diverso ragionamento sarebbe evidentemente inaccettabile, dal momento che gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere ed ottenere una concessione edilizia che sconta il pagamento di un minor contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente la destinazione d'uso originaria senza pagare i più elevati oneri che derivano dal maggior carico urbanistico.
Se è comunque indispensabile l’esame della fattispecie concreta per accertare se il nuovo insediamento o la nuova opera abbia determinato un incremento nella domanda di strutture ed opere collettive (TAR Piemonte, sez. I – 04/12/1997 n. 821; Consiglio di Stato, sez. V – 29/01/2004 n. 295), nella specie il mutamento di destinazione –da residenziale ad ufficio– è riconducibile ad una classe diversa e più onerosa della precedente tale che, se la concessione fosse stata richiesta fin dall’origine per la nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno favorevole regime contributivo urbanistico: ai fini del calcolo dei cd. standard, l’ufficio di un’attività d’impresa assume la consistenza di un distinto ed autonomo centro d'attrazione, non riconducibile alle esigenze di normale vivibilità delle zone residenziali, ed è pertanto fonte di un maggiore carico urbanistico (Consiglio Stato, sez. V – 19/05/1998 n. 626).
In definitiva, a fronte dell’accertato mutamento di destinazione d’uso l’amministrazione ha legittimamente provveduto a calcolare di nuovo il quantum dovuto in relazione al diverso carico urbanistico (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 07.11.2005 n. 1115).

anno 2004

EDILIZIA PRIVATA: Lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso.
La giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato due indirizzi ermeneutici: secondo il primo, andrebbero assoggettati a titolo abilitativo solo gli interventi di portata -simultaneamente– urbanistica ed edilizia.
Invero, osservano i fautori della tesi in esame, l’uso congiunto delle due espressioni (urbanistica ed edilizia) nel citato articolo escluderebbe l’assoggettamento al previo rilascio del titolo degli interventi che, pur non mancando di impatto urbanistico, siano privi di consistenza materiale di opere edilizie.
Secondo l’opposto indirizzo, l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 sulla edificabilità dei suoli, che pone la regola della soggezione a concessione di ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, non comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle consistenti in una modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 31/01/2001, n. 343; Cons. Stato, sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato, sez. V, 01/03/1993, n. 319; tale orientamento è condiviso anche dalla giurisprudenza ordinaria: cfr. Cass. pen., 14/10/1988; Cass. pen., sez. III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., sez. VI, 24/07/1997, n. 8520).
La giurisprudenza favorevole a tale tesi ha aggiunto che l’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 impone al soggetto attuatore di munirsi di concessione edilizia per ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o solo funzionale (cfr. la recente Cons. Stato, sez. VI, 26/09/2003, n. 5502).
Pertanto, è soggetto a concessione edilizia ogni intervento sul territorio, preordinato alla perdurante modificazione dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opere in muratura (Cons. Stato, sez. V, 06/04/1998, n. 415; cfr. altresì: <<la concessione edilizia è richiesta sia quando vi sia la realizzazione di opere murarie, sia quando si intenda realizzare un intervento sul territorio che, pur non richiedendo opere in muratura, comporti la perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo>> Cons. Stato, sez. V, 14/12/1994, n. 1486; Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2003, n. 419).
E’ ben vero che, secondo un precedente citato dall’appellante, questo Consesso ha ritenuto che non integra l'ipotesi di trasformazione urbanisticamente rilevante del territorio, soggetta a concessione ex art. 1 l. n. 10 del 1977, l'intervento materialmente consistente nella mera ripulitura di un terreno parzialmente erboso, con ripristino di una recinzione preesistente e spargimento di ghiaia, a nulla rilevando, sotto il profilo urbanistico, la conseguente utilizzazione del suolo così ripulito e riordinato all'esposizione di autovetture a scopi commerciali (Cons. Stato, sez. IV, 08/03/1983, n. 103).
Tuttavia, alla luce dell’orientamento condiviso dal Collegio, deve ritenersi che lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati).
Tale indirizzo, peraltro, risulta corroborato dalla risalente interpretazione del Giudice penale, secondo cui deve ritenersi soggetto a concessione lo spianamento di un terreno agricolo ed il riporto di sabbia e ghiaia, al fine di ottenerne un piazzale per deposito e smistamento di autocarri e containers (Cass. pen., 09/06/1982; cfr. altresì <<è legittimo il provvedimento del sindaco che ordini la riduzione in pristino di un'area destinata, in base al piano regolatore, a verde pubblico, che sia stata coperta di ghiaia, per essere destinata a parcheggio>> Cons. Stato, sez. II, 15/02/1989, n. 18/1989).
Per esigenze di completezza si osserva che la tesi abbracciata dal Collegio sembra, oggi, avere un testuale riscontro nel nuovo Testo unico in materia edilizia –D.P.R. n. 380/2001- (che non ha certo potenzialità applicativa e di risoluzione del caso in esame, ma che può rappresentare un valido ausilio interpretativo, specie ove “codifica” un orientamento giurisprudenziale pregresso): l’art. 3, in materia di definizione degli interventi edilizi, assoggetta a permesso di costruire –ascrivendole al genus delle nuove costruzioni- <<la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato>> (lett. e.3) e <<la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato>> (e.7); si tratta, come è facile rilevare, di interventi privi di connotazione strettamente edilizia e, nondimeno, assoggettati a titolo abilitativo (oggi permesso di costruire).
Significativa è, poi, la previsione dell’art. 10, comma 2, secondo cui <<Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività>>
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2004 n. 7324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).