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dossier RUDERI
anno 2022

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di preesistente consistenza nella ricostruzione di un rudere.
Secondo la concezione tradizionale, la figura della “ristrutturazione edilizia” presupponeva la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare provvisto di murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Conseguentemente, era stata sempre esclusa dalla giurisprudenza la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo.
Tuttavia il legislatore, con l’art. 30, primo comma, del d.l. n. 69 del 2013 convertito con legge n. 98 del 2013, ha profondamente innovato la disciplina modificando l’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale stabilisce ora che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi <<…anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza>>.
In sostanza, questa disposizione, qualificando come interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli di ricostruzione, consente di sostituire gli immobili in precedenza andati distrutti con nuovi edifici, e ciò anche nel caso in cui gli strumenti urbanistici vigenti non consentano la realizzazione di nuove costruzioni. Si tutela in questo modo, non solo l’interesse del privato, ma anche l’interesse pubblico volto ad evitare la permanenza di ruderi sul territorio.
Tuttavia, affinché la ricostruzione possa qualificarsi come ristrutturazione, è necessario che il nuovo edificio abbia le stesse dimensioni di quello crollato. Questa limitazione si ricava dall’ultima parte della norma la quale, come visto, richiede che sia possibile accertare la “preesistente consistenza” dell’immobile.
...
Poiché, nel caso concreto, la richiesta di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente è stata respinta proprio in quanto si è ritenuta non dimostrata la preesistente consistenza dell’immobile, per risolvere la controversia in esame, occorre stabilire cosa si intenda per “preesistente consistenza”, quale sia il livello di precisione preteso dalla norma con riguardo a tale elemento e in che modo ne possa essere fornita la dimostrazione.
Per quanto riguarda il primo punto (nozione di “preesistente consistenza”), possono ritenersi condivisibili le conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza secondo cui gli interventi di ripristino di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 sono ammissibili a condizione che siano determinabili le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente (fra cui volumetria, altezza, struttura complessiva), con la conseguenza che anche la mancanza di uno solo di questi elementi determina l’insussistenza del requisito previsto dalla norma. Parimenti condivisibile risulta l’affermazione secondo cui la verifica riguardante gli elementi necessari per determinare la preesistente consistenza non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve invece basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili..
Quando l’edificio crollato è stato realizzato a seguito del rilascio di un titolo edilizio, la preesistente consistenza può essere facilmente dimostrata mediante la produzione di quel titolo e della documentazione progettuale ad esso allegata nella quale sono riportate con precisione le caratteristiche dimensionali del bene.
Il problema si pone però se, come nel caso in esame, l’immobile sia stato edificato in epoca antecedente all’anno 1967, quando la realizzazione di nuove costruzioni non presupponeva il rilascio di un titolo edilizio, non essendo in questo caso possibile disporre della suindicata documentazione.
Ritiene il Collegio che, in queste specifiche ipotesi, l’amministrazione non possa pretendere la produzione di progetti aventi data certa che dimostrino, con assoluta precisione, tutte le caratteristiche dimensionali dell’edificio crollato, posto che questa pretesa renderebbe di fatto inapplicabile la norma di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R n. 380 del 2001 per gli immobili edificati prima dell’anno 1967. Per questi immobili, occorre quindi ammettere la possibilità di fornire in modo diverso la dimostrazione della preesistente consistenza, producendo prove che inevitabilmente non possiedono quel grado di precisione che caratterizza la documentazione progettuale, fermo restando ovviamente che, anche in questo caso, la prova deve comunque riguardare tutte le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente.
La possibilità di fornire prova diversa da quella consistente nella documentazione progettuale (e che inevitabilmente possiede un minor grado di precisione rispetto a quest’ultima) è del resto ammessa anche dalla giurisprudenza sopra richiamata la quale afferma che la prova della preesistente consistenza può essere fornita anche attraverso la produzione di aerofotogrammetrie. Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza del giudice amministrativo, il quale ammette che l’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato può fondarsi anche su documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio distrutto.
Ritiene il Collegio che, nell’apprezzamento di queste diverse prove, l’Amministrazione debba dare applicazione ai principi di buona fede e proporzionalità, tenendo conto anche delle caratteristiche dell’intervento che si intende realizzare, nel senso che il livello di precisione richiesto della prova fornita deve essere proporzionale all’importanza di tale intervento.
Da quanto illustrato discende che, se l’immobile che si intende realizzare ha dimensioni modeste e incide in maniera poco significativa sul carico urbanistico, il permesso di costruire deve essere rilasciato quando dalla documentazione prodotta in sede procedimentale emerga che il manufatto da realizzare avrà sostanzialmente le stesse dimensioni di quello andato distrutto, e ciò anche nel caso in cui non sia possibile risalire con estrema precisione a tutti i dati dimensionali di quest’ultimo.

---------------
... per l'annullamento
   - del provvedimento di Diniego al Permesso di Costruire del 13.11.2017, a firma del Capo Settore Sviluppo del Territorio arch. Da.La., con cui il Comune di Biassono si pronunciava negativamente sull'istanza avanzata dal ricorrente per ottenere un titolo per la ricostruzione del fabbricato (piccolo magazzino) di sua proprietà, sito in -OMISSIS-, parzialmente crollato a seguito di un evento meteorologico (nevicata) verificatosi nel 1985;
   - se di necessità, del preavviso di diniego del 16.10.2017 (prot. 18217), a firma del Capo Ufficio Servizio Edilizia Privata arch. Gi.Bo.;
   - della nota datata 20.12.2017 con cui il Comune respingeva l'istanza di riesame in autotutela del diniego opposto;
   - di ogni altro atto presupposto, antecedente, consequenziale e connesso a quelli che precedono.
...
Con il primo motivo di ricorso, l’interessato –dopo aver rilevato che la sua istanza è stata respinta in quanto, secondo quanto riportato nel provvedimento, non sarebbe stata fornita la prova della reale consistenza dell’edificio crollato– sostiene che l’Amministrazione avrebbe errato nel ritenere che gli interventi di ristrutturazione edilizia da effettuarsi ai sensi dell’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 siano ammessi solo nel caso in cui siano state provate con estrema esattezza tutte le misure dell’immobile andato distrutto.
Aggiunge la parte che, nel corso del procedimento, sarebbero stati peraltro forniti alla stessa Amministrazione tutti gli elementi disponibili (fra cui anche una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ed una aerofotogrammetria risalente all’anno 1973) che, a suo dire, sarebbero sufficienti per determinare le reali dimensioni dell’edificio crollato, e ciò anche considerando che l’immobile sarebbe stato realizzato prima dell’anno 1967, quando non vi era la necessità di conseguire titoli edilizi, e che per questa ragione non esisterebbero attualmente i progetti da cui ricavarne con estrema precisione le esatte misure.
Queste censure sono riprese e sviluppate nel secondo motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente sostiene ancora, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, che l’aerofotogrammetria costituirebbe documento sufficiente per ricavare le dimensioni dell’edificio crollato, tanto più che il rilievo aerofotogrammetrico del territorio comunale sarebbe stato effettuato su incarico all’epoca conferito dallo stesso Comune di Biassono. La decisione assunta dalla pubblica amministrazione sarebbe quindi contraria al principio di collaborazione con il privato cittadino, non avendo il provvedimento di diniego neppure illustrato le ragioni che hanno indotto il Comune a considerare non rilevanti gli elementi probatori prodotti in fase procedimentale dal ricorrente.
Ritiene il Collegio che queste censure siano fondate per le ragioni di seguito esposte.
Secondo la concezione tradizionale, la figura della “ristrutturazione edilizia” presupponeva la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare provvisto di murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Conseguentemente, era stata sempre esclusa dalla giurisprudenza la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo.
Tuttavia il legislatore, con l’art. 30, primo comma, del d.l. n. 69 del 2013 convertito con legge n. 98 del 2013, ha profondamente innovato la disciplina modificando l’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale stabilisce ora che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi <<…anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza>>.
In sostanza, questa disposizione, qualificando come interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli di ricostruzione, consente di sostituire gli immobili in precedenza andati distrutti con nuovi edifici, e ciò anche nel caso in cui gli strumenti urbanistici vigenti non consentano la realizzazione di nuove costruzioni. Si tutela in questo modo, non solo l’interesse del privato, ma anche l’interesse pubblico volto ad evitare la permanenza di ruderi sul territorio.
Tuttavia, affinché la ricostruzione possa qualificarsi come ristrutturazione, è necessario che il nuovo edificio abbia le stesse dimensioni di quello crollato. Questa limitazione si ricava dall’ultima parte della norma la quale, come visto, richiede che sia possibile accertare la “preesistente consistenza” dell’immobile.
Poiché, nel caso concreto, la richiesta di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente è stata respinta proprio in quanto si è ritenuta non dimostrata la preesistente consistenza dell’immobile, per risolvere la controversia in esame, occorre stabilire cosa si intenda per “preesistente consistenza”, quale sia il livello di precisione preteso dalla norma con riguardo a tale elemento e in che modo ne possa essere fornita la dimostrazione.
Per quanto riguarda il primo punto (nozione di “preesistente consistenza”), possono ritenersi condivisibili le conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza secondo cui gli interventi di ripristino di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 sono ammissibili a condizione che siano determinabili le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente (fra cui volumetria, altezza, struttura complessiva), con la conseguenza che anche la mancanza di uno solo di questi elementi determina l’insussistenza del requisito previsto dalla norma. Parimenti condivisibile risulta l’affermazione secondo cui la verifica riguardante gli elementi necessari per determinare la preesistente consistenza non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve invece basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili (cfr. Cass. pen. Sez. III, 28.04.2020, n. 13148; id., 08.10.2015, n. 45147).
Quando l’edificio crollato è stato realizzato a seguito del rilascio di un titolo edilizio, la preesistente consistenza può essere facilmente dimostrata mediante la produzione di quel titolo e della documentazione progettuale ad esso allegata nella quale sono riportate con precisione le caratteristiche dimensionali del bene.
Il problema si pone però se, come nel caso in esame, l’immobile sia stato edificato in epoca antecedente all’anno 1967, quando la realizzazione di nuove costruzioni non presupponeva il rilascio di un titolo edilizio, non essendo in questo caso possibile disporre della suindicata documentazione.
Ritiene il Collegio che, in queste specifiche ipotesi, l’amministrazione non possa pretendere la produzione di progetti aventi data certa che dimostrino, con assoluta precisione, tutte le caratteristiche dimensionali dell’edificio crollato, posto che questa pretesa renderebbe di fatto inapplicabile la norma di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R n. 380 del 2001 per gli immobili edificati prima dell’anno 1967. Per questi immobili, occorre quindi ammettere la possibilità di fornire in modo diverso la dimostrazione della preesistente consistenza, producendo prove che inevitabilmente non possiedono quel grado di precisione che caratterizza la documentazione progettuale, fermo restando ovviamente che, anche in questo caso, la prova deve comunque riguardare tutte le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente.
La possibilità di fornire prova diversa da quella consistente nella documentazione progettuale (e che inevitabilmente possiede un minor grado di precisione rispetto a quest’ultima) è del resto ammessa anche dalla giurisprudenza sopra richiamata la quale afferma che la prova della preesistente consistenza può essere fornita anche attraverso la produzione di aerofotogrammetrie (cfr. Cass. pen. Sent. n. 45147 del 2015 cit.). Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza del giudice amministrativo, il quale ammette che l’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato può fondarsi anche su documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio distrutto (in tal senso, cfr. TAR Lombardia-Brescia, sez. I, 06.07.2020, n. 517; TAR Campania-Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098; TAR Liguria, sez. I, 11.06.2020, n. 364).
Ritiene il Collegio che, nell’apprezzamento di queste diverse prove, l’Amministrazione debba dare applicazione ai principi di buona fede e proporzionalità, tenendo conto anche delle caratteristiche dell’intervento che si intende realizzare, nel senso che il livello di precisione richiesto della prova fornita deve essere proporzionale all’importanza di tale intervento.
Da quanto illustrato discende che, se l’immobile che si intende realizzare ha dimensioni modeste e incide in maniera poco significativa sul carico urbanistico, il permesso di costruire deve essere rilasciato quando dalla documentazione prodotta in sede procedimentale emerga che il manufatto da realizzare avrà sostanzialmente le stesse dimensioni di quello andato distrutto, e ciò anche nel caso in cui non sia possibile risalire con estrema precisione a tutti i dati dimensionali di quest’ultimo.
Venendo ora al caso concreto, va osservato che dalle foto prodotte in sede procedimentale si evince che, nell’area dove si intende realizzare l’intervento, sono ancora presenti i ruderi di alcuni muri perimetrali e di alcune colonne di sostegno della copertura dell’immobile crollato. In quella sede è stata inoltre prodotta una aerofotogrammetria, da cui è possibile ricavare che l’immobile distrutto era un modesto edificio, avente altezza simile a quella degli immobili adiacenti. Dal rilievo fotogrammetrico è altresì possibile ricavare la pendenza delle falde del tetto (cfr. doc. 4 di parte ricorrente).
L’Amministrazione, nel provvedimento impugnato, non spiega le ragioni per le quali si è ritenuto che la documentazione prodotta in sede procedimentale dal ricorrente non sia utile alla prova della preesistente consistenza del manufatto. Solo nelle memorie difensive, il Comune di Biassono ha precisato che ciò si è considerato dirimente ai fini del rigetto dell’istanza è stata la mancata dimostrazione dell’altezza. Anche nelle memorie, tuttavia, non si precisano le ragioni per la quali si è ritenuto che la documentazione prodotta dal ricorrente non sia idonea a dimostrare l’altezza del fabbricato crollato. Queste mancanze sarebbero già sufficienti per dichiarare l’illegittimità del provvedimento.
In ogni caso, il Collegio deve osservare che –poiché il fabbricato che si intende ricostruire è stato realizzato in epoca risalente, prima che vi fosse la necessità di ottenimento del titolo edilizio– non è possibile pretendere la prova assolutamente esatta dei suoi dati dimensionali, fra cui l’altezza, per affermare l’applicabilità dell’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ciò che si sarebbe dovuto infatti verificare, anche considerando lo scarso rilievo dimensionale del fabbricato e la sua concreta destinazione (magazzino), è se il privato, con la documentazione depositata nel procedimento, abbia dimostrato di voler realizzare un immobile avente un’altezza che, in sostanza, non si discosta da quella del bene distrutto così come ricavabile dagli elementi a disposizione (altezza delle colonne di sostegno della copertura, rilievo fotogrammetrico, ecc…).
Per queste ragioni deve essere ribadita la fondatezza delle censure in esame. Il ricorso va pertanto accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.11.2022 n. 2566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASi discute di un rudere ubicato su un’area sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004.
Nel caso di specie, ritiene il Collegio che, in primo luogo non si sia in presenza di un edificio “esistente”, e che, in ogni caso, l’intervento progettato dai ricorrenti non costituisca “ristrutturazione edilizia”, ma “nuova costruzione”, come giustamente ritenuto dall’Amministrazione esistente.
Intanto, appunto, manca un edificio “esistente” da ristrutturare. Certamente è esistito sull’area in questione un edificio in epoca remota, attestato dalla sua iscrizione nel Catasto Napoleonico (1811–1853) e successivamente nel Catasto Lombardo–Veneto (1854–1886); ma già nel cessato Catasto (1887–1904) l’immobile perde la sua identificazione strutturale e catastale precedentemente abbinata alla particella n. 1875 (“edificio con corte di pertinenza di mq 290 di superficie”) e nel Nuovo Catasto (dal 1905 in poi) viene depennato come fabbricato e incorporato con la relativa area di pertinenza nella particella n. 1877 del Catasto Terreni.
In effetti, come attestato dalla documentazione (anche fotografica) in atti, il rudere in questione si riduce a tracce della preesistente muratura perimetrale, ormai inglobate da decenni all’interno della vegetazione arborea che ha completamente colonizzato l’area.
Manca, quindi, il presupposto previsto dall’art. 12.5 del P.T.C. (“edificio esistente”) affinché si possa persino ipotizzare un intervento di ristrutturazione.
Peraltro, è noto che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del dlgs 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di ristrutturazione edilizia e quelli di ripristino di edifici crollati o demoliti (come nel caso di specie) sono ammissibili “soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Così disponeva, infatti, l’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 380/2021 nel testo in vigore alla data di adozione del provvedimento impugnato (“Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del dlgs 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente;”).
La norma è stata mantenuta e anzi resa ancora più stringente nella nuova formulazione introdotta dall'art. 10, comma 1, lett. b), n. 2), D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n. 120, il quale ha previsto che, “con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al dlgs 22.01.2004, n. 42, nonché a quelli ubicati nelle zone omogenee A, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
...
Nel caso di specie, appare oggettivamente impossibile desumere dal rudere attualmente esistente quale fosse la consistenza volumetrica dell’edificio preesistente e, soprattutto, quale fosse la sua sagoma la quale, come detto, in ambito vincolato costituisce un parametro inderogabile da rispettare in sede di ristrutturazione edilizia e di ripristino di immobili demoliti o crollati.
Invero, per sagoma di intende “la conformazione planovolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, così che le sole aperture che non prevedano superfici sporgenti vanno escluse dalla nozione stessa di sagoma”; in sostanza, la sagoma indica la forma della costruzione complessivamente intesa, ovvero il contorno che assume l'edificio.
In tale contesto, la valutazione effettuata dall’Ente Parco circa la configurabilità, nel caso di specie, di una “nuova costruzione” (vietata) e non di una “
ristrutturazione edilizia” (consentita) appare corretta e immune dalle censure di parte ricorrente.
Sicché, in definitiva, in mancanza di documentazione probatoria idonea ad attestare sia la consistenza volumetrica originaria dell’edificio preesistente e sia soprattutto la sagoma dell’edificio preesistente, correttamente è stata esclusa, alla luce delle norme applicate, l’assentitibilità di un intervento di “
ristrutturazione edilizia” all’interno del contesto vincolato per cui è causa, trattandosi di un intervento di “nuova costruzione” espressamente vietato dallo strumento urbanistico attuativo del Parco.
---------------

... per l'annullamento:
   - del provvedimento di diniego n. 365 Prot. del 06.02.2019, con il quale il Parco dei Colli ha rigettato l'istanza per l'ottenimento di decreto di conformità al Piano di Coordinamento del Parco e conseguente autorizzazione paesaggistica di intervento di ristrutturazione di edificio di antica formazione ai sensi dell'art. 146 del D.lgs. n. 42/2004;
   - di ogni altro atto presupposto, consequenziale e comunque connesso, nonché, di eventuali atti medio tempore intervenuti e non conosciuti.
...
1. Con il primo motivo, la parte ricorrente ha dedotto vizi di “Violazione e/o falsa applicazione delle Norme Tecniche di Attuazione al Piano delle Regole - Capo II – Definizioni Urbanistiche – 2.1 parametri edificatori - del Piano di Gestione del Territorio del Comune di Ponteranica; dell’art. 12, comma 3 e 5, L.R. 8/1991 - Norme Tecniche di Attuazione del Piano di Coordinamento del Parco dei Colli di Bergamo; dell’art. 146 comma del D.lgs. n. 42/2004; Contraddittorietà tra più atti. Eccesso di potere per travisamento ed erronea valutazione dei fatti”:
   - il provvedimento impugnato ed il presupposto parere della Commissione per il Paesaggio sarebbero illegittimi nella parte in cui hanno ritenuto non assentibile l’intervento di ristrutturazione edilizia proposto dai ricorrenti sul presupposto che, allo stato, sarebbe impossibile la verifica della sagoma dell’edificio originario, di modo che l’intervento costituirebbe una “nuova costruzione”, non ammissibile in zona ex art. 12, comma 3, delle TTA del PTC del Parco;
   - tali valutazioni sarebbero erronee e illegittime perché in contrasto con le opposte considerazioni formulate dal Comune di Ponteranica nella nota del 09.01.2018, con la quale è stata accertata la “precedente esistenza del fabbricato e l’esatta identificazione planivolumetrica”, sulla scorta della documentazione storico-fotografica allegata dai richiedenti alla propria istanza;
   - nel formulare tali valutazioni, il Comune di Ponteranica ha fatto applicazione del punto V dell’art. 2.1. delle NTA del proprio PGT (in materia di “Volume degli edifici (mc)”, laddove si prevede che “Il volume degli edifici di antica formazione divenuti ruderi, dovrà essere dimostrato attraverso il rinvenimento delle murature perimetrali ancora esistenti, nonché da documentazione probatoria (accatastamenti, fotografie, relazioni storiche) attestante la consistenza planivolumetrica e la destinazione d’uso preesistente.”;
   - il provvedimento impugnato sarebbe pertanto in contrasto con la normativa applicata dal Comune di Ponteranica, in forza della quale quest’ultimo ha riconosciuto l’esistenza planivolumetrica delle rimanenze edilizie del vecchio Borgo di Rosciano e la facoltà per i ricorrenti di attuarne la ristrutturazione edilizia;
   - in definitiva, l’intervento richiesto dai ricorrenti avrebbe dovuto essere assentito ai sensi dell’art. 12, comma 5, delle NTA del PTC del Parco (L.R. 8/1991), il quale ammette gli interventi di ristrutturazione edilizia degli edifici esistenti.
La censura, osserva il Collegio, non può essere condivisa.
1.1. Si discute di un rudere ubicato su un’area di proprietà dei ricorrenti ricompresa all’interno del perimetro del Parco dei Colli di Bergamo e sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004. In particolare, l’area in questione è inclusa nella Zona C 1 “zona a parco agricolo forestale”, disciplinata dall’art. 12 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.T.C. del Parco dei Colli di Bergamo (approvato con L.R. 13.04.1991 n. 8). Tale norma prevede che nella zona a parco agricolo-forestale (C1) “sono vietate le nuove costruzioni” (art. 12.1); sono invece consentiti, previo parere del consorzio, gli interventi –tra l’altro– di “ristrutturazione edilizia (…) degli edifici esistenti” (art. 12.5).
1.2. Nel caso di specie, ritiene il Collegio che, in primo luogo non si sia in presenza di un edificio “esistente”, e che, in ogni caso, l’intervento progettato dai ricorrenti non costituisca “ristrutturazione edilizia”, ma “nuova costruzione”, come giustamente ritenuto dall’Amministrazione esistente.
1.3. Intanto, appunto, manca un edificio “esistente” da ristrutturare. Certamente è esistito sull’area in questione un edificio in epoca remota, attestato dalla sua iscrizione nel Catasto Napoleonico (1811–1853) e successivamente nel Catasto Lombardo–Veneto (1854–1886); ma già nel cessato Catasto (1887–1904) l’immobile perde la sua identificazione strutturale e catastale precedentemente abbinata alla particella n. 1875 (“edificio con corte di pertinenza di mq 290 di superficie”) e nel Nuovo Catasto (dal 1905 in poi) viene depennato come fabbricato e incorporato con la relativa area di pertinenza nella particella n. 1877 del Catasto Terreni.
In effetti, come attestato dalla documentazione (anche fotografica) in atti, il rudere in questione si riduce a tracce della preesistente muratura perimetrale, ormai inglobate da decenni all’interno della vegetazione arborea che ha completamente colonizzato l’area.
Manca, quindi, il presupposto previsto dall’art. 12.5 del P.T.C. (“edificio esistente”) affinché si possa persino ipotizzare un intervento di ristrutturazione.
1.4. Peraltro, è noto che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di ristrutturazione edilizia e quelli di ripristino di edifici crollati o demoliti (come nel caso di specie) sono ammissibili “soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Così disponeva, infatti, l’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 380/2021 nel testo in vigore alla data di adozione del provvedimento impugnato (“Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente;”).
La norma è stata mantenuta e anzi resa ancora più stringente nella nuova formulazione introdotta dall'art. 10, comma 1, lett. b), n. 2), D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n. 120, il quale ha previsto che, “con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, nonché a quelli ubicati nelle zone omogenee A, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
1.5. Nel caso di specie, appare oggettivamente impossibile desumere dal rudere attualmente esistente quale fosse la consistenza volumetrica dell’edificio preesistente e, soprattutto, quale fosse la sua sagoma.
1.6. Sulla consistenza volumetrica dell’edificio preesistente il parere preventivo reso dal Responsabile dell’Area tecnica del Comune di Ponteranica nella fase istruttoria del procedimento de quo perviene a conclusioni meramente congetturali, laddove ritiene di potere risalire alla consistenza volumetrica del fabbricato originario assumendo come parametri di riferimento la superficie del fabbricato desumibile dalle tracce perimetrali dell’attuale rudere, e un’altezza “virtuale” pari a 3 metri, “non essendo dimostrabile la consistenza dei piani e quindi l’altezza”.
1.7. Ma se già questa valutazione deduttiva e congetturale appare alquanto opinabile, è oggettiva e indiscutibile l’impossibilità di desumere dall’attuale stato del rudere quale fosse la sagoma dell’edificio preesistente, la quale, come detto, in ambito vincolato, costituisce un parametro inderogabile da rispettare in sede di ristrutturazione edilizia e di ripristino di immobili demoliti o crollati.
Per sagoma di intende “la conformazione planovolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, così che le sole aperture che non prevedano superfici sporgenti vanno escluse dalla nozione stessa di sagoma” (Cassazione penale, sez. III, 20/05/2015, n. 20846); in sostanza, la sagoma indica la forma della costruzione complessivamente intesa, ovvero il contorno che assume l'edificio.
Nel caso di specie, della sagoma originaria non vi è traccia nella documentazione in atti, sia nella progettazione di parte ricorrente sia nelle –pur benevoli– valutazioni del tecnico comunale.
1.8. In tale contesto, la valutazione effettuata dall’Ente Parco circa la configurabilità, nel caso di specie, di una “nuova costruzione” (vietata) e non di una “ristrutturazione edilizia” (consentita) appare corretta e immune dalle censure di parte ricorrente.
1.9. Né si rinviene alcun contrasto tra il diniego espresso dall’Ente Parco e il parere favorevole espresso dal tecnico del Comune di Ponteranica, tenuto conto:
   - che nella valutazione della sussistenza dei presupposti per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica all’interno del proprio territorio, l’Ente Parco è tenuto ad applicare le previsioni del proprio strumento urbanistico, e non è condizionata dalle valutazioni -eventualmente diverse- svolte al riguardo da altri enti con riguardo ad altri piani o strumenti regolatori;
   - che lo stesso tecnico comunale, nel ritenere la “coerenza” del progetto di ristrutturazione rispetto allo strumento urbanistico comunale, ha comunque richiamato espressamente la necessità del rispetto delle norme urbanistiche e ambientali sovraordinate del “superiore PTC Parco”, e quindi dell’”ottenimento dell’atto amministrativo (Decreto) di compatibilità per la ricostruzione del rudere, allo stesso PTC Parco (…) rilasciato dall’Ente parco preposto”;
   - che in ogni caso, il provvedimento dell’Ente Parco appare coerente anche con le previsioni della strumentazione urbanistica del Comune di Ponteranica, tenuto conto che quest’ultima prevede che la volumetria degli edifici di antica formazione divenuti ruderi possa essere desunta in via deduttiva in presenza di due condizioni, entrambe insussistenti nella specie in esame, vale a dire:
1) murature perimetrali ancora esistenti;
2) documentazione probatoria (quali accatastamenti, fotografie, relazioni storiche) attestante la consistenza planovolumetrica e la destinazione d’uso preesistente; nel caso di specie, della muratura perimetrale restano solo tracce sparute e inglobate da vegetazione ultradecennale, e soprattutto manca del tutto documentazione probatoria relativa alla preesistente consistenza volumetrica del fabbricato, tanto che lo stesso tecnico comunale l’ha dovuta dedurre in via meramente congetturale.
1.10 In definitiva, alle stregua di tali considerazioni, ritiene il Collegio che, in mancanza di documentazione probatoria idonea ad attestare sia la consistenza volumetrica originaria dell’edificio preesistente e sia soprattutto la sagoma dell’edificio preesistente, correttamente sia stata esclusa, alla luce delle norme applicate, l’assentitibilità di un intervento di “ristrutturazione edilizia” all’interno del contesto vincolato per cui è causa, trattandosi di un intervento di “nuova costruzione” espressamente vietato dallo strumento urbanistico attuativo del Parco.
1.11. D’altra parte, la semplice visione dei rendering tridimensionali del progetto di parte ricorrente (doc. 7, pag. 20) induce a dubitare fortemente che l’edificio in progetto costituisca la “riproduzione fedele della casa colonica così come appariva fini dai primi anni dell’’800”.
La censura in esame va quindi disattesa (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 02.11.2022 n. 1068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo il diniego della richiesta "ristrutturazione edilizia" circa la ricostruzione di un immobile diruto poiché materialmente non possibile determinarne, con certezza, l’ingombro planivolumetrico ed il sedime.
La disciplina regionale, in accordo con quanto previsto dal Legislatore nazionale, estende il concetto di ristrutturazione edilizia all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un'indagine tecnica.
La giurisprudenza ha chiarito che l'accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell'edificio diruto.
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come ristrutturazione edilizia, che l’originaria consistenza dell’edificio sia individuabile sulla base di riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili; ove, invece non sia possibile l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura) attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, scatta la qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione.
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Secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato già richiamato, «affinché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv. con l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario che sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”».
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Come già rammentato, il discrimine perché possa parlarsi di ristrutturazione edilizia e non di nuova costruzione –ad eccezione delle ipotesi di premialità contemplate all’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001– è da rintracciarsi proprio il rispetto delle preesistenti volumetrie.
Ciò, del resto, in linea con gli arresti giurisprudenziali per i quali la ristrutturazione edilizia «presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire; non è sufficiente quindi che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione».
Altresì, «spetta alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte dimensioni e sagoma. I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono essere idonei a consentire l’esatta configurazione di ciò che si asserisce era già esistente, dovendosi in caso contrario parlare di nuova costruzione … è quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata».

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3. E’ controversa la legittimità del diniego opposto dal Comune di Città della Pieve all’istanza proposta dal sig. Le. per il rilascio di un permesso di costruire per opere di ristrutturazione edilizia consistenti nella «ricostruzione di un edificio con la medesima sagoma e volumetria dell’esistente» (così nella Relazione tecnica, doc. 10 di parte ricorrente), ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. d), della l.r. n. 1 del 2015.
L’odierno ricorrente, che ha acquistato il complesso immobiliare nel 2012, ha chiesto al Comune di Città della Pieve la ricostruzione di un manufatto non più esistente –già dalla data dell’acquisto, considerato che dal 2007 l’area è accatastata quale “prato”– producendo la documentazione richiamata in fatto a riprova della preesistenza dello stesso e della sua consistenza.
L’Amministrazione comunale ha negato il rilascio del permesso di costruire in quanto: «la documentazione progettuale allegata all’istanza contiene una ricostruzione planimetria dell’ingombro a terra del preesistente edificio basata sulla materializzazione di coordinate topografiche fornite dall’Agenzia del Territorio, Ufficio Provinciale di Perugia e da rinvenimenti di alcuni “tratti di fondazione in loco, mentre la ricostruzione delle parti in elevazione è stata desunta esclusivamente dalla documentazione fotografica allegata alle precedenti pratiche edilizie depositate agli atti di questo Ufficio Tecnico e da una foto aerea risalente al volo del 17.10.1984 … pertanto … sulla scorta della documentazione allegata all’istanza, la ricostruzione dell’ingombro volumetrico del fabbricato indicata nelle tavole grafiche progettuali sia stata eseguita sulla base di elementi che non dimostrino inequivocabilmente ed oggettivamente la preesistente consistenza del fabbricato».
Di conseguenza, l’intervento proposto è stato ritenuto non conforme alla vigente normativa in quanto non qualificabile come “ristrutturazione edilizia”.
4. I primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente e si presentano infondati, anche alla luce delle risultanze della verificazione disposta dal Collegio, per quanto di seguito esposto.
4.1. Giova rammentare che ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. d), della l.r. n. 1 del 2015 (nel testo vigente ratione temporis), negli interventi di “ristrutturazione edilizia” sono altresì ricompresi «quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza».
La previsione normativa riprende la definizione di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, per cui «[c]ostituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza».
Pertanto la disciplina regionale, in accordo con quanto previsto dal Legislatore nazionale, estende il concetto di ristrutturazione all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un'indagine tecnica (in tal senso cfr., ex multis, C.d.S., sez. VI, 03.10.2019, n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020, n. 631); la giurisprudenza ha chiarito che l'accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell'edificio diruto (in tal senso cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098; TAR Liguria, 11.06.2020, n. 364; Cass. pen., sez. III, 28.04.2020, n. 13148).
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come ristrutturazione, che l’originaria consistenza dell’edificio sia individuabile sulla base di riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili (Cass. pen, sez. III, 25.06.2015, n. 26713; Cass. pen., sez. III, 30.09.2014, n. 40342); ove, invece non sia possibile l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura) attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, scatta la qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione (cfr. C.d.S., sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014, n. 5174; C.d.S., sez. I, parere 27.05.2020 n. 1095; TAR Veneto, sez. II, 09.07.2021, n. 910).
La disciplina regionale, all’art. 22, comma 4, del reg. reg. n. 2 del 2015, è intervenuta a specificare quanto sopra, disponendo che «[q]uando l'edificio non è individuabile nella sua interezza originaria, perché parzialmente diruto, la sua consistenza, in assenza di chiari elementi tipologici e costruttivi è definita da elementi sufficienti a determinare la consistenza edilizia e l'uso dei manufatti, quali:
   a) studi e analisi storico-tipologiche supportate anche da documentazioni catastali o archivistiche;
   b) documentazione fotografica che dimostri la consistenza originaria dell'edificio;
   c) atti pubblici di compravendita;
   d) certificazione catastale
».
4.2 Come già rammentato, il Collegio ha ritenuto di disporre verificazione «al fine di accertare se -alla luce degli elementi prodotti in sede procedimentale dall’odierno ricorrente e considerato il disposto degli artt. 7, comma 1, l.r. n. 1 del 2015 e 22 del reg. reg. n. 2 del 2015- sia possibile determinare in modo oggettivo la consistenza dell’immobile demolito (ingombro planivolumetrico e sedime) e se la stessa corrisponda con quanto dichiarato in sede di istanza di titolo abilitativo edilizio».
Nella relazione depositata in data 31.03.2022 il Verificatore, dato conto dell’esame degli atti di causa e di quanto emerso dall’incontro con le parti nel corso delle operazioni di verifica, ha evidenziato che:
   - dall’esame delle istanze presentate dal dante causa dell’odierno ricorrente nel 1983 «si è riscontrata la totale mancanza di quegli elaborati grafici (piante, prospetti e sezioni) che normalmente sono parte integrante dei titoli abilitativi e che avrebbero potuto dare certezza sulla consistenza del fabbricato rurale al tempo»;
   - per quanto attiene al censimento del bene al Catasto Fabbricati dell’Agenzia delle Entrate «lo stesso risulta essere stato registrato solo al Catasto Terreni e, quindi, privo dei grafici indicanti le destinazioni d’uso di ogni locale e relative altezze»;
   - dall’esame della restante documentazione (fotografie, mappe storiche e rilievi) sono emerse incongruità, per cui «l’estratto di mappa catastale non corrisponde con certezza allo stato dei luoghi relativi agli anni ‘80», non essendo inoltre possibile «una valida lettura delle altezze»;
   - «non essendo presenti riprese fotografiche di tutti i prospetti che rappresentino per intero il bene, non è possibile conoscere tutte le effettive altezze del fabbricato, sia in gronda che al colmo, indispensabili per poter ricostruirne la sagoma».
In conclusione, il Verificatore ha evidenziato che «dall’esame complessivo della documentazione e per quanto sopra esposto, [si] ritiene che non sia oggettivamente possibile determinare con certezza l’ingombro planivolumetrico e del sedime dell’edificio né, tanto meno, se quanto dichiarato in sede di istanza di titolo abilitativo edilizio possa corrispondere con le reali fattezze dell’immobile preesistente», confermando in tal modo quanto affermato dal Comune circa l’impossibilità di definire la consistenza del preesistente manufatto e disvelando l’infondatezza delle censure attoree.
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato già richiamato, «affinché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv. con l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario che sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”» (TAR Veneto, sez. II, 09.07.2021, n. 910; cfr. C.d.S., sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014, n. 5174; Id., sez. I, parere 27.05.2020, n. 1095).
Non si presentano meritevoli di condivisione le contestazioni mosse dalla difesa attorea all’attività ed alle risultanze della verificazione.
Va evidenziato, in primo luogo, che l’ordinanza istruttoria non prevedeva la necessità dell’effettuazione di un sopralluogo, rimettendone la facoltà alla valutazione del tecnico incaricato, posto che le valutazioni del verificatore dovevano essere effettuate sulla base delle risultanze degli atti di causa; inoltre, risulta essere stato comunque garantito il contraddittorio con le parti, che però nulla hanno ritenuto di aggiungere a quanto già depositato in atti (cfr. verbale del 28.03.2022).
Né può condividersi l’affermazione di parte ricorrente circa l’ultroneità dell’accertamento delle altezze del manufatto preesistente, stante l’asserita sufficienza della verifica della S.U.C. (superficie utile coperta) riferibile al preesistente manufatto al fine della comparazione con quella progettualmente dichiarata dall’odierno ricorrente.
Come già rammentato, il discrimine perché possa parlarsi di ristrutturazione edilizia e non di nuova costruzione –ad eccezione delle ipotesi di premialità contemplate all’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001– è da rintracciarsi proprio il rispetto delle preesistenti volumetrie (cfr. da ultimo TAR Puglia, Bari, sez. III, 28.10.2021, n. 1571).
Ciò, del resto, in linea con gli arresti giurisprudenziali per i quali la ristrutturazione edilizia «presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire; non è sufficiente quindi che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione» (TAR Campania, Salerno, sez. II, 08.07.2021 n. 1680; TAR Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 18.12.2020, n. 530; C.d.S., sez. VI, 05.12.2016, n. 5106).
La giurisprudenza amministrativa ha anche recentemente ribadito che «spetta alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte dimensioni e sagoma. I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono essere idonei a consentire l’esatta configurazione di ciò che si asserisce era già esistente, dovendosi in caso contrario parlare di nuova costruzione … è quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 5174 del 21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza n. 1167 del 26.09.2017).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata
» (C.G.A.R.S., sez. giur., 07.02.2022, n. 163; C.d.S., sez. IV, 17.09.2019, n. 6188) (TAR Umbria, sentenza 01.10.2022 n. 723 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza si è già espressa nel senso che un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
E viepiù l’intervento non può rientrare tra gli “interventi di restauro e di risanamento conservativo” che sono quelli rivolti a “conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità, mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi…”, considerato quanto già esposto sulla impossibilità di apprezzare l’effettiva consistenza del manufatto preesistente, che già nel 1973 era allo stato di rudere, privo di copertura e con murature ampiamente crollate e considerato che lo stesso è stato oggetto di successivi interventi abusivi che ne hanno radicalmente modificato la consistenza.
Invero, la finalità “del restauro e del risanamento conservativo è quella di rinnovare l'organismo edilizio in modo sistematico e globale, pur sempre però nel rispetto (perché sempre di conservazione si tratta) dei suoi elementi essenziali tipologici, formali e strutturali” e “la ricostruzione di un rudere non può rientrare, a livello concettuale, nell'ambito della categoria del "restauro e risanamento conservativo", alla stregua della caratterizzazione di quest'ultima, secondo quanto stabilito dal riportato art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001…omissis…Il concetto di costruzione esistente postula, invero, la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l'intervento edificatorio sulla stessa non costituisce trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione”.
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Le censure di cui i primi quattro motivi di ricorso, che si esaminano congiuntamente in quanto tra loro connesse, con cui si lamenta, in sostanza, il difetto di motivazione e di istruttoria del provvedimento impugnato e la asserita contraddittorietà con precedenti determinazioni con riferimento alla erronea qualificazione dell’intervento in questione da parte dell’amministrazione comunale, non sono fondate secondo quanto segue.
Diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, infatti, l’intervento in questione non può essere qualificato come di restauro e risanamento conservativo ex art. 3, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 e neppure di ristrutturazione edilizia ex lett. d) del medesimo articolo, dal momento che il manufatto cui si riferiscono gli interventi e che si assume di voler “ricostruire”, eliminando le superfetazioni e riportandolo alla “consistenza originaria” di cui alle tavole allegate all’istanza risalente al 1973, in realtà già nel 1973 era un edificio privo di copertura e con murature ampiamente crollate, come si ricava dalla relativa pratica da cui emerge anche che la Soprintendenza ha espresso parere contrario all’approvazione del progetto presentato nel 1973 “per alterazione paesistica”, per cui già allora non era possibile raggiungere un significativo grado di sicurezza sui limiti dimensionali e morfologici dell’originario manufatto che ora si vorrebbe “risanare”. L’impossibilità di apprezzare l’effettiva consistenza del manufatto preesistente conduce già ad escludere nel caso di specie la configurabilità di un intervento di “ristrutturazione edilizia” e viepiù di “risanamento e restauro conservativo”.
La ristrutturazione edilizia, infatti, ricomprende ex art. art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001, nella dizione pro tempore vigente, anche gli interventi volti “al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, con la precisazione che con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni “gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
E la giurisprudenza si è già espressa nel senso che un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6188 del 2019).
E viepiù l’intervento non può rientrare tra gli “interventi di restauro e di risanamento conservativo” che sono quelli rivolti a “conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità, mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi…”, considerato quanto già esposto sulla impossibilità di apprezzare l’effettiva consistenza del manufatto preesistente, che già nel 1973 era allo stato di rudere, privo di copertura e con murature ampiamente crollate e considerato che lo stesso è stato oggetto di successivi interventi abusivi che ne hanno radicalmente modificato la consistenza.
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Come anche di recente ribadito dal Consiglio di Stato (cfr. sent. n. 6455 del 2020) la finalità “del restauro e del risanamento conservativo, infatti, è quella di rinnovare l'organismo edilizio in modo sistematico e globale, pur sempre però nel rispetto (perché sempre di conservazione si tratta) dei suoi elementi essenziali tipologici, formali e strutturali” e “la ricostruzione di un rudere non può rientrare, a livello concettuale, nell'ambito della categoria del "restauro e risanamento conservativo", alla stregua della caratterizzazione di quest'ultima, secondo quanto stabilito dal riportato art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001…omissis…Il concetto di costruzione esistente postula, invero, la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l'intervento edificatorio sulla stessa non costituisce trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.09.2022 n. 5565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ambito della ristrutturazione va esteso all'ipotesi della ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire alla consistenza iniziale. Tuttavia, per quanto allargato, il concetto di ristrutturazione non può ontologicamente prescindere dall'apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione. Questo è rappresentato, a norma della definizione generale dettata dall'art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, dalla "trasformazione" di organismi edilizi, la quale presuppone che l'intervento si riferisca a una porzione di territorio a sua volta già compiutamente trasformata.
Detto altrimenti: “Con particolare riferimento alla ricostruzione di un rudere, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente sostanza, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente. In particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”.

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È infondato anche il settimo motivo [Violazione di legge (art. 146 D.lgs. 42/2004 in relazione all’art. 3, D.P.R. 380/2001 e ss.mm.ii.) – Eccesso di potere (difetto di motivazione - illogicità - contraddittorietà - difetto di istruttoria - travisamento – sviamento - straripamento di potere) - Incompetenza], con cui si afferma l’erroneità delle argomentazioni poste a fondamento del parere.
In particolare, secondo la ricorrente, l’intervento andrebbe qualificato come risanamento conservativo e consolidamento o come ristrutturazione.
Tuttavia, secondo la stessa giurisprudenza richiamata in ricorso: “L'ambito della ristrutturazione va esteso all'ipotesi della ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire alla consistenza iniziale. Tuttavia, per quanto allargato, il concetto di ristrutturazione non può ontologicamente prescindere dall'apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione. Questo è rappresentato, a norma della definizione generale dettata dall'art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, dalla "trasformazione" di organismi edilizi, la quale presuppone che l'intervento si riferisca a una porzione di territorio a sua volta già compiutamente trasformata” (TAR Toscana, Firenze, Sez. III, 06/09/2021, n. 1151).
Detto altrimenti: “Con particolare riferimento alla ricostruzione di un rudere, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente sostanza, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente. In particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente” (TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater, 06/11/2018, n. 10729) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 13.06.2022 n. 1655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPresupposto degli interventi di restauro e di intervento conservativo è che sia possibile rispettare gli originari elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio, al fine di conservare l’organismo edilizio e assicurarne la funzionalità. Il risanamento conservativo costituisce un’interventi di recupero sul patrimonio edilizio esistente, onde postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, in modo da poterla individuare come costruzione esistente, di modo che l'intervento edificatorio sulla stessa non costituisca trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione.
Le nozioni di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia, costituendo interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, postulano pertanto la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e coperture. E ciò senza considerare, nella prospettiva assunta dall’Amministrazione, che detti presupposti sono richiesti perfino per la ristrutturazione, attività diversa e più incisiva, come sopra illustrato, dal restauro e dal risanamento conservativo.
Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio demolito costituisce nuova opera. “La ricostruzione dei ruderi di cui non si riesca a provare l’originaria consistenza, ovvero dei quali siano venuti a mancare tutti gli elementi idonei a verificarne sagoma e volumi va intesa invece come nuova costruzione soggetta alle comuni regole edilizie”.
La dimostrazione della preesistenza del fabbricato nella sua consistenza originaria e con le caratteristiche volumetriche e architettoniche proprie del manufatto che si vuole risanare è impedita anche se manca uno solo degli elementi da cui desumere l’originaria consistenza come quello relativo all’altezza (desumibile dalla copertura). “La ricostruzione di un rudere non è riconducibile nell'alveo della ristrutturazione edilizia laddove il manufatto sia costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, oppure sia presente solo parte della predetta muratura e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, atteso che lo stesso, in tale stato, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”.
Per quanto riguarda gli interventi di ripristino di edifici diruti, “occorre distinguere l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque, di ristrutturazione) dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso, gli interventi in questione non possono essere classificati come interventi di restauro e risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare)”.
La giurisprudenza, pertanto, ritiene rilevante la misurazione di ogni dimensione del precedente fabbricato per ritenere il medesimo esistente e quindi restaurabile e risanabile.
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In ogni caso, anche a ritenere che il Piano paesaggistico ammetta la ristrutturazione, ai sensi dell’art. 3, comma 4, della l.r. n. 20 del 2000 (pure richiamata nel preambolo del provvedimento impugnato), istitutiva del Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento, in relazione alla Zona I archeologica non sono ammesse nuove costruzioni e interventi di ristrutturazione ma “possono essere autorizzati, nel rispetto dell'ambiente archeologico e paesaggistico, soltanto: a) (omissis); b) (omissis); c) (omissis) d) gli interventi di manutenzione ordinaria, restauro e risanamento conservativo di cui all'articolo 20, lettere a) e b), della legge regionale 27.12.1978, n. 71”, che regola la materia urbanistica sul territorio siciliano.
La normativa archeologica richiama quindi la nozione urbanistico-edilizia di restauro e risanamento conservativo.
Ai sensi dell’art. 20, lett. c), della legge regionale urbanistica n. 71 del 1978 sono definiti interventi di restauro e di risanamento conservativo “quelli rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio”. In base alla medesima disposizione si distingue il restauro e risanamento conservativo così come sopra definito dalla ristrutturazione di cui alla successiva lett. d (“quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”).
La definizione (dettata in materia urbanistica ed edilizia, e fatta propria dalla l.r. n. 20 del 2000, istitutiva del Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento) di restauro e risanamento conservativo contenuta nella legge regionale n. 71 del 1978 è riproposta con la lett. c), art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001, recepito nell’ordinamento regionale con il rinvio dinamico di cui all’art. 1 l.r. n. 16 del 2016.
Secondo detta disciplina sono interventi di restauro e di risanamento conservativo “gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio”.
Anche in forza dell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 detti interventi (di restauro e risanamento conservativo) si distinguono dagli interventi di ristrutturazione edilizia di cui alla successiva lett. d) dell’art. 3 (modificata dall'art. 1, comma 1, lett. a), del d.lgs. 27.12.2002 n. 301 e dall'art. 30, comma 1, lett. a), del d.l. 21.06.2013 n. 69).
Per molti dei corpi compresi nel progetto controverso l’Amministrazione ha motivato il diniego qualificando gli interventi come nuove costruzioni e facendo riferimento alla sopra richiamata normativa che vieta nell’area interessata la realizzazione di nuove costruzioni.
La giurisprudenza amministrativa ha infatti affermato che “In materia urbanistica sono interventi di nuova costruzione quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, non rientranti fra gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia” (Cons. St., sez. II, 22.04.2021 n. 3264).
Alla qualificazione in termini di nuova costruzione di molti degli interventi proposti ha contribuito la constatazione dell’impossibilità di ricostruire la consistenza del manufatto originario, che rende non classificabile come restauro e risanamento conservativo l’intervento progettato.
In presenza di detta constatazione, è recessivo il richiamo alla circolare della Soprintendenza 21.03.2014 n. 13879, con la quale è stato affermato che rimane “affidato al responsabile del giudizio di ciascuna Soprintendenza l’accertamento e la verifica della sussistenza di elementi fisici e documenti che diano l’assoluta consistenza originaria dell’edifico da ricostruire”, ma dopo aver precisato che un fabbricato privo di mura perimetrali, strutture orizzontali e manto di copertura “non può essere considerato edificio e, pertanto, non può essere oggetto di ristrutturazione, ma soltanto di nuova costruzione” (in termini anche la precedente nota 03.06.2013 n. 27162).
In tale contesto la circolare del 2014 contiene un riferimento a una pronuncia del Consiglio di Stato la quale, in relazione alla ricostruzione dei ruderi, ha stabilito, quale presupposto generale, la necessità di poter determinare i connotati essenziali del precedente manufatto sulla base dei muri perimetrali e delle strutture orizzontali e di copertura, al fine di non qualificare l’intervento edilizio come nuova costruzione. Nella stessa occasione, dopo avere precisato che “nel caso contrario potrebbe essere discutibile la possibilità di evidenziare la consistenza”, ha ritenuto che “la parziale mancanza fisica dei connotati essenziali di un edificio può essere superata se è possibile darne evidenza certa”.
In base alla richiamata (risalente) giurisprudenza, a parte che detta possibilità è ricondotta a una mancanza parziale dei connotati, è comunque richiesta un’evidenza certa dei caratteri essenziale dell’edificio, che nel caso di specie l’Amministrazione ha ritenuto non essere stata raggiunta.
Presupposto degli interventi di restauro e di intervento conservativo è infatti che sia possibile rispettare gli originari elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio, al fine di conservare l’organismo edilizio e assicurarne la funzionalità. Il risanamento conservativo costituisce un’interventi di recupero sul patrimonio edilizio esistente, onde postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, in modo da poterla individuare come costruzione esistente, di modo che l'intervento edificatorio sulla stessa non costituisca trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione (Cons. St., sez. II, 24.10.2020 n. 6455).
Le nozioni di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia, costituendo interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, postulano pertanto la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e coperture. E ciò senza considerare, nella prospettiva assunta dall’Amministrazione, che detti presupposti sono richiesti perfino per la ristrutturazione, attività diversa e più incisiva, come sopra illustrato, dal restauro e dal risanamento conservativo.
Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio demolito costituisce nuova opera. “La ricostruzione dei ruderi di cui non si riesca a provare l’originaria consistenza, ovvero dei quali siano venuti a mancare tutti gli elementi idonei a verificarne sagoma e volumi va intesa invece come nuova costruzione soggetta alle comuni regole edilizie” (CGARS 07.11.2019 n. 949).
La dimostrazione della preesistenza del fabbricato nella sua consistenza originaria e con le caratteristiche volumetriche e architettoniche proprie del manufatto che si vuole risanare è impedita anche se manca uno solo degli elementi da cui desumere l’originaria consistenza come quello relativo all’altezza (desumibile dalla copertura). “La ricostruzione di un rudere non è riconducibile nell'alveo della ristrutturazione edilizia laddove il manufatto sia costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, oppure sia presente solo parte della predetta muratura e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, atteso che lo stesso, in tale stato, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente” (Cons. St., sez. IV, 17.09.2019 n. 6188).
Per quanto riguarda gli interventi di ripristino di edifici diruti, “occorre distinguere l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque, di ristrutturazione) dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso, gli interventi in questione non possono essere classificati come interventi di restauro e risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare)” (Cons. St., sez. VI, 02.09.2020 n. 5350).
La giurisprudenza, pertanto, ritiene rilevante la misurazione di ogni dimensione del precedente fabbricato per ritenere il medesimo esistente e quindi restaurabile e risanabile (CGARS, sentenza 11.04.2022 n. 444 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla ricostruzione di un rudere.
Per costante e tralatizia giurisprudenza del giudice amministrativo, spetta alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte dimensioni e sagoma.
I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono essere idonei a consentire l’esatta configurazione di ciò che si asserisce era già esistente, dovendosi in caso contrario parlare di nuova costruzione.
Nella presente fattispecie manca la prova delle dimensioni e della sagoma del preesistente fabbricato.
Il concetto di rudere che consentirebbe una legittima ricostruzione è stato definito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato: “E' quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata”.
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1.Il signor Se.Ir. ricorre in appello per chiedere la riforma della sentenza emessa dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, in data 05.12.2018.
2. L’odierna parte appellante, unitamente al coniuge, si era rivolta al giudice amministrativo per chiedere l’annullamento dell'ordinanza di demolizione n. 82 del 21.11.2016 emanata dal Comune di Mascali.
L’ordine di demolizione aveva ad oggetto opere edilizie realizzate sul terreno sito in Mascali, Via ... n. ..., individuato in catasto al foglio 3 part. 128 di proprietà dei coniugi Se.Ir. e Ma.Za..
Le opere venivano così descritte: “un fabbricato composto da un piano terra, della superficie di mq. 126,88, desitanto a civile abitazione realizzato in cls armato (fondazioni, pilastri, travi e solaio in latero-c.a.) ed un parte della copertura e a tetto in legno rifinito con manto di tegole; da un piano primo-sottotetto della superficie di mq. 97,50 realizzato con struttura portante in cls armato (pilastri e travi) e copertura in legno rifinita con manto di tegole, altro manufatto destinato a deposito, della superficie di mq. 89,38, realizzato con struttura in ferro, copertura in lamierino e parzialmente completato con muratura perimetrale in blocchi di cls”.
3. Il ricorso, proposto da Se.Ir. e Ma.Za., veniva affidato ad un unico motivo nel quale venivano articolate censure di violazione di legge, eccesso di potere, difetto di motivazione, con le quali parte ricorrente contestava che il Comune di Mascali aveva erroneamente qualificato le opere realizzate in assenza di titolo edilizio mentre si tratterebbe di lavori di restauro e recupero di un precedente ed esistente fabbricato per il quale i coniugi appellanti avevano presentato "istanza al comune di Mascali per il recupero e ricostruzione del vecchio fabbricato".
...
16. Per completezza di decisione il Collegio rileva che merita conferma anche l’assunto del primo giudice che ha ritenuto infondate nel merito le doglianze sottoposte al suo giudizio con il ricorso di primo grado e sostanzialmente riproposte con l’atto di gravame.
L’assunto difensivo fondamentale è che nella presente fattispecie le opere sarebbero da qualificare come opere di restauro e recupero di un precedente ed esistente fabbricato.
Per costante e tralatizia giurisprudenza del giudice amministrativo spetta alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte dimensioni e sagoma.
I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono essere idonei a consentire l’esatta configurazione di ciò che si asserisce era già esistente, dovendosi in caso contrario parlare di nuova costruzione.
Nella presente fattispecie manca la prova delle dimensioni e della sagoma del preesistente fabbricato.
Il concetto di rudere che consentirebbe una legittima ricostruzione è stato definito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.
E' quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 5174 del 21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza n. 1167 del 26.09.2017).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata
” (Cons. St., sez. IV sent. 17.09.2019, n. 6188)
Nell’atto di compravendita, più volte richiamato da parte appellante a sostegno delle proprie argomentazioni si legge di “insistenti ruderi di fabbricato rurale”.
Nell’ordinanza di demolizione, frutto del verbale di sopralluogo, si descrive quanto realizzato nei seguenti termini: “un fabbricato composto da un piano terra, della superficie di mq. 126,88, destinato a civile abitazione realizzato in cls. armato (fondazioni, pilastri, travi e solaio in latero-c.a.) ed un parte della copertura e a tetto in legno rifinito con manto di tegole; da un piano primo- sottotetto della superficie di mq. 97,50 realizzato con struttura portante in cls. armato (pilastri e travi) e copertura in legno rifinita con manto di tegole, altro manufatto destinato a deposito, della superficie di mq. 89,38, realizzato con struttura in ferro, copertura in lamierino e parzialmente completato con muratura perimetrale in blocchi di cls.” .
E’ da condividere la parte della sentenza impugnata ove si afferma che: “in ogni caso, a prescindere da ogni questione sulla tipologia di opere risulta dirimente la circostanza che nessun titolo edilizio risulta rilasciato per le opere in questione con conseguente legittimità dell'ordine di demolizione delle opere abusivamente realizzate”.
17. Sulla base della considerazione appena esplicitata il Collegio ritiene, conseguentemente, infondati anche gli ulteriori profili di doglianza riproposti con l’atto di appello (CGARS, sentenza 07.02.2022 n. 163 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIntegra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d.Lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura.
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1.3. Il terzo motivo -con cui si contesta la sussunzione degli interventi edilizi nella nozione di nuova costruzione anziché in quella di manutenzione straordinaria- è, del pari, inammissibile, dal momento che trattasi di censura già sollevata e motivatamente disattesa dalla Corte d'appello.
Quest'ultima ha rilevato (pag. 5) che, dall'esame delle pratiche amministrative e delle relazioni tecniche riguardanti interventi nelle medesime aree di cui si discute, il fabbricato descritto in imputazione coinciderebbe con un vecchio e diruto manufatto rurale presente nella medesima particella catastale che, al momento in cui venne redatta la relazione tecnica citata, doveva ancora essere oggetto di ristrutturazione al fine di renderlo idoneo alla destinazione di casa-vacanza.
Dunque il fabbricato non sarebbe il risultato di un mero intervento di manutenzione straordinaria, comunicato con C.I.L.A. e riguardante un diverso immobile, bensì di un vero e proprio intervento di nuova costruzione, per il quale erano necessari sia il permesso di costruire che l'autorizzazione paesaggistica, essendovi stato anche un aumento di volume (come ben evidenziato a pag. 3 della sentenza di primo grado).
Dunque, deve ritenersi che la Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione del principio in base al quale integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d.Lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Rv. 260552)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.02.2022 n. 3763).

anno 2021

EDILIZIA PRIVATADal punto di vista generale, nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale.
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L’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69, conv. nella l. 09.08.2013 n. 98, nel modificare l’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 cit., in tema di ristrutturazione edilizia, ha previsto che rientrino in tale nozione anche gli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
Per effetto di tale modifica legislativa, può ritenersi ormai superato l’orientamento giurisprudenziale, maturato nel vigore del testo originario del citato articolo, che riteneva necessaria, ai fini della qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune componenti essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura, posto che essa ha esteso l’ambito della ristrutturazione anche alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire ad una consistenza iniziale.
Tuttavia, anche dopo la novella de qua risulta comunque necessario che la consistenza iniziale dell’edificio in rovina sia dimostrata tanto sotto il profilo dell’an –ossia che un certo immobile sia esistito– tanto sotto quello del quantum, inteso come destinazione d’uso ed ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato, potendo la prova della esatta consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei, essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili, tra i quali documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto.
Pertanto, sebbene in astratto sia divenuto ammissibile un intervento di ristrutturazione edilizia consistente nella ricostruzione di un rudere, anche dopo il sopravvenire dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. n. 69 del 2013, conv. nella l. n. 98 del 2013, è comunque indispensabile in concreto la fornitura di una prova oggettiva dell’esatta consistenza originaria dell’antica costruzione.
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E' noto che in materia urbanistica incombe sul privato l’onere della prova dell’ultimazione di un’opera entro una certa data, al fine di dimostrare, ad esempio, che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui, ratione temporis, non era richiesto un atto di assenso, in quanto realizzata legittimamente senza titolo, essendo egli l’unico soggetto che ha la disponibilità di documenti e di elementi di prova e che può dimostrare con ragionevole certezza l’epoca di realizzazione del manufatto.
Nel caso che ci occupa, parte ricorrente non ha assolto all’onere probatorio in argomento, perché a sostegno delle proprie ragioni cita, innanzitutto, le dichiarazioni rese dal procedente proprietario del terreno, oltre che di altri soggetti, che offrono una ricostruzione dei fatti palesemente discordante con i dati oggettivi utilizzati dall’Amministrazione, sui quali non potrebbero prevalere neppure se fossero trasfuse in una testimonianza.
Sicché,
non avendo parte ricorrente apportato al processo quantomeno un principio di prova utile a sollevare fondati dubbi sull’esattezza del quadro fattuale ricostruito dal Comune resistente, non sussistono i presupposti per disporre una verificazione, come pur da ella richiesto.
Al riguardo, infatti, è noto che ad una situazione di assoluta carenza probatoria non può porsi rimedio con l’attività istruttoria giudiziale, giacché una tale opzione si tradurrebbe nell’inversione del principio dell’onere della prova come regolato dagli artt. 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., e ciò ancorché nel processo amministrativo il sistema probatorio sia retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, in considerazione dell’assetto non paritetico dei rapporti fattuali e giuridici intercorrenti tra il privato e l’Amministrazione; pertanto, affinché possano essere attivati i poteri istruttori giudiziali, la parte ricorrente deve quantomeno avanzare un principio di prova a sostegno delle proprie deduzioni.

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Avendo, poi, parte ricorrente argomentato anche sull’infondatezza di tali ragioni ostative, si esamina nel merito la questione della consistenza e dell’epoca di realizzazione del manufatto oggetto di intervento.
Sul punto si osserva che, dal punto di vista generale, nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Lazio, Latina, sez. I, 30.03.2021 n. 207; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 29.03.2021 n. 2085; TAR Lazio, Latina, sez. I, 13.07.2020 n. 271; TAR Piemonte, sez. II, 27.03.2013 n. 390; TAR Umbria, sez. I, 02.11.2011 n. 354).
Nel caso di specie, come si evince dalla lettura del verbale di sopralluogo del 12.02.2014, il fabbricato rurale del quale i ricorrenti hanno previsto la demolizione e ricostruzione è stato individuato in sito grazie alla presenza di tracce di muratura in pietrame, collocate su un’area in cui non esistono opere di urbanizzazione di nessun tipo e che è raggiungibile solo percorrendo sentieri che si diramano dalla strada sterrata di accesso alla proprietà. Le suddette tracce hanno consentito di identificare un perimetro dell’edificio diruto che è discordante con quanto rappresentato dall’ing. M.C. nella d.i.a. del 21.01.2013 e nelle successive integrazioni documentali.
In particolare, è stato accertato che le murature de quibus non presentano segni di fondazione e/o ringrossi e che, confrontando i rilievi aerofotogrammetrici degli anni 1955, 1984, 1997 e 2004 con la mappa catastale del 1923, utilizzata a fini di perimetrazione per l’apposizione del vincolo idrogeologico, le tracce del fabbricato rurale distinto in catasto al foglio n. 18, particella n. (ex) 223, risultano meno evidenti già nel 1997. Inoltre, è emerso che il suddetto manufatto rurale di appena mq 17 ha poi generato un immobile distinto in catasto al foglio n. 18, particella n. 1125, di ben mq 76, come da scheda del 23.03.2012, e che l’ampliamento della consistenza iniziale può ritenersi posteriore al 2011, alla luce del raffronto tra la citata aerofotogrammetria e le ortofoto geo-referenziate fornite dal Corpo forestale dello Stato.
Tali circostanze appaiono decisive in senso ostativo all’ammissibilità dell’intervento de quo nonostante la modifica normativa ricordata da parte ricorrente ed intervenuta dopo la diffida del 22.02.2013, ma prima dell’ordine di demolizione del 04.03.2014.
Infatti, l’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69, conv. nella l. 09.08.2013 n. 98, nel modificare l’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 cit., in tema di ristrutturazione edilizia, ha previsto che rientrino in tale nozione anche gli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
Per effetto di tale modifica legislativa, può ritenersi ormai superato l’orientamento giurisprudenziale, maturato nel vigore del testo originario del citato articolo, che riteneva necessaria, ai fini della qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune componenti essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura, posto che essa ha esteso l’ambito della ristrutturazione anche alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire ad una consistenza iniziale (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 06.7.2020 n. 517; in termini Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2019 n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020 n. 631).
Tuttavia, anche dopo la novella de qua risulta comunque necessario che la consistenza iniziale dell’edificio in rovina sia dimostrata tanto sotto il profilo dell’an –ossia che un certo immobile sia esistito– tanto sotto quello del quantum, inteso come destinazione d’uso ed ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato, potendo la prova della esatta consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei, essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili, tra i quali documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 06.07.2020 n. 517; TAR Liguria, sez. I, 11.06.2020 n. 364).
Pertanto, sebbene in astratto sia divenuto ammissibile un intervento di ristrutturazione edilizia consistente nella ricostruzione di un rudere, anche dopo il sopravvenire dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. n. 69 del 2013, conv. nella l. n. 98 del 2013, è comunque indispensabile in concreto la fornitura di una prova oggettiva dell’esatta consistenza originaria dell’antica costruzione.
Ebbene, nel caso che ci occupa l’esigenza di una simile dimostrazione è già presente nella diffida del 22.02.2013, ove si fa riferimento alla “mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare”, ma è compiutamente esplicitata nel verbale del 12.02.2004, successivo all’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. n. 69 cit., in cui la consistenza iniziale del fabbricato rurale diruto è fatta risalire a data anteriore al 1923 ed è fissata in mq 17, laddove il nuovo accatastamento del 23.03.2012 e la d.i.a. del 21.01.2013 si riferiscono a una superficie di mq 76.
Così ricostruiti i termini della vicenda all’esame, è noto che in materia urbanistica incombe sul privato l’onere della prova dell’ultimazione di un’opera entro una certa data, al fine di dimostrare, ad esempio, che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui, ratione temporis, non era richiesto un atto di assenso, in quanto realizzata legittimamente senza titolo, essendo egli l’unico soggetto che ha la disponibilità di documenti e di elementi di prova e che può dimostrare con ragionevole certezza l’epoca di realizzazione del manufatto (ex multis: Cons. Stato, sez. VI, 20.01.2020 n. 454; sez. II, 24.07.2019 n. 5220; TAR Lazio, Latina, sez. I, 30.03.2021 n. 207; sez. I, 08.06.2020 n. 194; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 03.06.2019 n. 2986).
Nel caso che ci occupa, parte ricorrente non ha assolto all’onere probatorio in argomento, perché a sostegno delle proprie ragioni cita, innanzitutto, le dichiarazioni rese dal procedente proprietario del terreno, oltre che di altri soggetti, prodotte in atti il 13.11.2014, che offrono una ricostruzione dei fatti palesemente discordante con i dati oggettivi utilizzati dall’Amministrazione, sui quali non potrebbero prevalere neppure se fossero trasfuse in una testimonianza (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Lazio, Latina, sez. I, 13.07.2020 n. 271).
Nessuna prova oggettiva è stata, poi, addotta da parte ricorrente in ordine al fatto che la maggiore consistenza accatastata dopo l’acquisto del fondo nel 2011 e dichiarata in d.i.a. risalga effettivamente al 1952, epoca nella quale non era richiesto il preventivo rilascio di concessione edilizia per gli interventi di ampliamento e nuova costruzione ed anche successiva al 1950, soglia cronologica rilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 4, comma 1, lett. d), l.reg. n. 21 cit., che è preclusa per i manufatti antecedenti. Infatti, l’unico dato oggettivo e documentale su tali punti è costituito dal sopralluogo condotto il 07.02.2014, dalle aerofotogrammetrie e dalla cartografia poste dal Comune di Gaeta a fondamento delle proprie determinazioni, che dimostrano la risalenza del manufatto rurale diruto a data anteriore al 1923 una sua consistenza di soli mq 17 e non di mq 76, come dichiarato dall’ing. M.C. Si tratta, quindi, di dati del tutto incompatibili con quelli del ben più esteso immobile realizzato, asseritamente in ricostruzione, sulla base della d.i.a. del 21.01.2013, anche tenendo conto della facoltà di ampliamento previste dall’art. 4, comma 1, lett. d), l.reg. n. 21 cit.
A smentire la correttezza dell’accertamento operato dall’Amministrazione non vale neppure la perizia tecnica a firma dell’ing. Wa.So. prodotta in atti il 14.11.2014 e che, a dire di parte ricorrente, lascerebbe emergere “macroscopici errori ed approssimazioni” dei rilievi utilizzati dal Comune e dal Corpo forestale dello Stato.
In realtà, tale perizia, che investe anche la questione se l’area in parola sia mai stata percorsa dal fuoco negli anni 2007 e 2012, dedica alla questione che ci occupa il § 3 (pag. 5-6), ove si afferma che:
   a) l’epoca di costruzione dell’edificio diroccato è databile intorno agli anni 50 del secolo scorso a cagione dei materiali e della tecnica costruttiva impiegata (pietrame locale e malta bastarda con tecnica a secco), i quali “mostrerebbero chiaramente un invecchiamento di oltre 50 anni”;
   b) le reali dimensioni del fabbricato non sono apprezzabili dalle foto satellitari per la presenza della vegetazione locale che ostacola l’esatto rilievo, rinviandosi contestualmente sul punto alla dichiarazione del precedente proprietario B.M.
Tuttavia, a ben vedere, sia l’epoca di costruzione sia la maggiore consistenza del fabbricato in tal modo ipotizzate non appaiono sostenute da specifiche evidenze utili a minare la credibilità dell’accertamento operato dall’Amministrazione, atteso che, innanzitutto, un invecchiamento dei ruderi di oltre 50 anni è pienamente compatibile con la datazione dell’immobile indicata dal Comune di Gaeta e riportata a data anteriore al 1923. Inoltre, la perizia tralascia di considerare che l’Amministrazione non è giunta alle proprie conclusioni esclusivamente in via cartolare, cioè mediante la valutazione di materiale fotografico e di mappe, perché, come si evince dal verbale del 12.02.2014, la considerazione di detti documenti è successiva all’accesso ai luoghi ed alle misurazioni ivi eseguite da personale dall’Amministrazione civica e dal Corpo forestale dello Stato il 07.02.2014, in presenza dell’ing. M.C. nella sua qualità di proprietario e direttore dei lavori.
Al riguardo si rileva che, peraltro, detto sopralluogo si è tenuto poco dopo che l’area di interesse era stata ripulita dalla vegetazione, operazione questa che parte ricorrente dichiara essere stata compiuta in occasione dell’accatastamento nel 2012 e della presentazione della d.i.a. nel 2013 (cfr. pag. 11 della memoria del 13.11.2021), sì che le considerazioni sul punto svolte dal tecnico di parte per sollevare dubbi sulla risoluzione delle foto satellitari, in realtà, non possono obliterare gli accertamenti eseguiti sul posto e con una vegetazione ridotta rispetto a quella esistente al momento delle riprese da satellite o da aereo. Inoltre, resta inteso che il riferimento operato dal perito alla dichiarazione del precedente proprietario non può certo conferire alla relazione tecnica alcuna oggettiva attendibilità sul punto.
Stante quanto sopra, non avendo parte ricorrente apportato al processo quantomeno un principio di prova utile a sollevare fondati dubbi sull’esattezza del quadro fattuale ricostruito dal Comune resistente, non sussistono i presupposti per disporre una verificazione, come pur da ella richiesto.
Al riguardo, infatti, è noto che ad una situazione di assoluta carenza probatoria non può porsi rimedio con l’attività istruttoria giudiziale, giacché una tale opzione si tradurrebbe nell’inversione del principio dell’onere della prova come regolato dagli artt. 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., e ciò ancorché nel processo amministrativo il sistema probatorio sia retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, in considerazione dell’assetto non paritetico dei rapporti fattuali e giuridici intercorrenti tra il privato e l’Amministrazione; pertanto, affinché possano essere attivati i poteri istruttori giudiziali, la parte ricorrente deve quantomeno avanzare un principio di prova a sostegno delle proprie deduzioni (TAR Lazio, Roma, sez. II, 26.06.2020 n. 7232; sez. II, 08.01.2020 n. 133; conf.: Cons. Stato, sez. IV, 04.01.2018 n. 36; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 26.09.2019 n. 845; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 02.07.2018 n. 4375).
In definitiva, può ritenersi accertato che l’intervento edificatorio in questione sia consistito nella realizzazione di una nuova costruzione in zona agricola e non in una ristrutturazione edilizia nella forma della ricostruzione di un rudere, poiché la consistenza e la collocazione cronologica per esso dichiarate dal ricorrente nella d.i.a. del 21.01.2013 e nella successiva integrazione documentale si sono rivelate non corrette, non essendo sorrette da elementi oggettivi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’antico edificio da recuperare mediante le speciali facoltà edificatorie consentite dall’art. 4, comma 1, lett. d), l.reg. n. 21 cit. (TAR Lazio-Latina, sentenza 27.12.2021 n. 700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAÈ stato affermato da autorevole giurisprudenza che vi è ristrutturazione edilizia quando “la stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma –in quest’ultimo caso– con ricostruzione, se non fedele (per effetto della modifica apportata al testo unico dal dlgs 27.12.2002 n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente”.
In base alla normativa statale di principio, dunque, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio preesistente –intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale– configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Nel caso di specie, non solo non si interviene su un singolo edificio ma si muta pesantemente la configurazione planivolumetrica complessiva dell’intera area, quindi si è in presenza di ristrutturazione urbanistica la quale sussiste allorquando, come nel caso in esame, l’intervento è “rivolto a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con un altro diverso”.
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Afferma ancora la giurisprudenza che “l’esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate”.
È stato, altresì, precisato che “il criterio discretivo tra l’intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione è costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di variazioni del volume, dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia. Tali criteri hanno un ancora maggiore pregio interpretativo a seguito dell’ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto proprio perché non vi è più il limite della ‘fedele ricostruzione’ si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i volumi, per cui la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell’edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi”.
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V - Con il primo motivo del ricorso introduttivo, è contestata la presunta violazione degli artt. 1 e 4 della L.R. 30.07.2009 n. 14, in quanto il progetto presentato risulterebbe in deroga rispetto alle previsioni urbanistiche comunali, come consentito, secondo l’argomentare della ricorrente, dalle richiamate norme regionali e, pertanto, non necessitante del preventivo strumento urbanistico attuativo.
Con il terzo motivo del gravame introduttivo, è altresì rilevata la presunta violazione dell’art. 3, comma 1, lett. f), del T.U. dell’edilizia n. 380/2001. Si tratterebbe, a dire della ricorrente, di un intervento straordinario di demolizione e ricostruzione da realizzare in deroga “alla destinazione, agli indici e altri parametri dello strumento di pianificazione”.
Sennonché, la realizzazione in deroga degli interventi di demolizione e ricostruzione è ammessa dall’art. 1 della L.R. n. 14/2009 con riferimento esclusivo agli indici e ai parametri relativi alla volumetria espressa. Inoltre, l’art. 4 della medesima legge regionale sul “Piano Casa” ammette interventi di demolizione e ricostruzione di edifici residenziali e non residenziali, con incremento volumetrico con chiaro riferimento alle ipotesi di ristrutturazione edilizia, non per la ristrutturazione urbanistica.
Nel caso di specie, invece, si è in presenza di un complessivo cambio di destinazione dell’area interessata che da produttiva diviene residenziale-commerciale, con inevitabile aggravio del peso urbanistico a causa dei nuovi insediamenti abitativi. Inoltre, viene progettato un edificio destinato ad attività commerciali, vale a dire una media struttura di vendita. Infine, è posta la necessità di strutturare una nuova viabilità interna, in relazione alla ridefinizione del layout della zona.
Si tratta, con ogni evidenza, di un insieme di interventi rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con un altro e diverso disegno della zona, del lotto e della rete stradale interna.
È stato affermato da autorevole giurisprudenza che vi è ristrutturazione edilizia quando “la stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma –in quest’ultimo caso– con ricostruzione, se non fedele (per effetto della modifica apportata al testo unico dal decreto legislativo 27.12.2002 n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente” (cfr.: Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2014 n. 2397; id., sez. IV, 30.03.2013, n. 2972).
In base alla normativa statale di principio, dunque, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio preesistente –intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale– configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Nel caso di specie, non solo non si interviene su un singolo edificio ma si muta pesantemente la configurazione planivolumetrica complessiva dell’intera area, quindi si è in presenza di ristrutturazione urbanistica la quale sussiste allorquando, come nel caso in esame, l’intervento è “rivolto a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con un altro diverso” (cfr.: Cons. Stato, IV sezione, 01.09.2015 n. 4077; idem sez. V, 16.12.2010 n. 8948).
L’espressa convinzione della sussistenza di una ristrutturazione urbanistica, quindi l’inapplicabilità dell’art. 1 della L.R. n. 9/2014 in ordine alla deroga, impone il rispetto delle previsioni di cui allo strumento urbanistico generale, secondo il quale, nella zona B/4, vi è necessità dello strumento urbanistico attuativo e non può procedersi al rilascio diretto del permesso.
Afferma ancora la giurisprudenza che “l’esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate” (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 29.02.2012 n. 1177; idem, IV, 13.10.2010 n. 7486).
È stato, altresì, precisato che “il criterio discretivo tra l’intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione è costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di variazioni del volume, dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia. Tali criteri hanno un ancora maggiore pregio interpretativo a seguito dell’ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto proprio perché non vi è più il limite della ‘fedele ricostruzione’ si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i volumi, per cui la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell’edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 09.08.2018, n. 4880)” (cfr.: Cons. Stato, sez. II, 20.05.2019, n. 3208).
L’intervento edilizio proposto dalla ricorrente e denegato dal Comune resistente non può considerarsi alla stregua di una mera istanza di incremento volumetrico, mercé l’utilizzo della L.R. n. 9/2014. L’iniziativa privata in esame, contiene, difatti, da un lato, la richiesta dell’incremento volumetrico (soltanto per il quale la legge consente di procedere in deroga agli strumenti urbanistici locali) ma, al contempo, ridisegna l’impatto urbanistico dell’area il cui progetto non può che essere sottoposto alle norme comunali che impediscono il rilascio diretto del permesso.
Infondate, in conclusione, appaiono la prima e la terza censura riferite alla violazione della L.R. n. 14/2009 e del T.U. sull’edilizia (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 28.10.2021 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come noto, per qualificare l'intervento di ricostruzione di un rudere come ristrutturazione è necessario e sufficiente che l'originaria consistenza dell'edificio sia accertabile nei suoi elementi essenziali, con adeguato grado di sicurezza, sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili cioè di organismo edilizio dotato delle mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
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5.- Non meritano positiva considerazione nemmeno i motivi di gravame (dal n. III al n. VIII) di carattere urbanistico-edilizio, con cui i ricorrenti lamentano in particolare la violazione dell’art. 5.7 del RUE che prevedrebbe un generale divieto di nuovi allevamenti intensivi nel territorio rurale e consentirebbe di intervenire solamente sugli allevamenti “esistenti” posto che, a loro dire, il progetto in questione non avrebbe ad oggetto un allevamento esistente bensì un rudere.
In ogni caso, a detta dei ricorrenti, non sarebbe comunque consentito un ampliamento del 20% dell’impianto preesistente a norma del secondo comma del richiamato art. 5.7. RUE per essere l’attuale capacità produttiva pari a zero.
5.1. - L’assunto dei ricorrenti, per quanto diffusamente argomentato, muove da un’erronea lettura delle disposizioni del RUE approvato con delibera del Consiglio dell’Unione n. 15 del 24.05.2018.
Per quel che qui rileva giova richiamare le seguenti disposizioni:
   a) l’art. 5.1. comma 2, del RUE prevede che “Il RUE disciplina, sulla base della ricognizione effettuata sull’intero territorio rurale intercomunale, le trasformazioni del patrimonio edilizio esistente privo di interesse storico architettonico, culturale e testimoniale”;
   b) il secondo periodo della stessa norma specifica poi che il patrimonio esistente è “disciplinato, oltre che dalle presenti Norme, da quanto indicato negli elaborati R.D. che ne definiscono le specifiche condizioni di trasformazione”;
   c) l’art. 5.3.2. del RUE, rubricato “Interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente”, permette il recupero del patrimonio edilizio esistente avente, tra le altre, la destinazione d’uso N.1.3b (ovvero, allevamenti zootecnici intensivi), se “con regolare titolo abilitativo per la destinazione d’uso in essere alla data di adozione del RUE”.
5.2. - Da tale normativa emerge, che, in via generale, ai fini del RUE, non è rilevante se i fabbricati appartenenti al patrimonio esistente che deve essere recuperato siano o meno a quel momento “attivi”, ovvero in grado di esplicare la propria funzione, ma è sufficiente che questi esistano, che siano stati oggetto di ricognizione da parte del RUE, anche a mezzo della Scheda R.D., e che questi abbiano regolare titolo abilitativo per la specifica destinazione d’uso alla data di adozione del RUE.
L’art. 5.7., che disciplina la fattispecie specifica degli allevamenti zootecnici intensivi, si limita a muoversi all’interno di tali prescrizioni di carattere generale, precludendo la realizzazione di nuovi impianti, ma al contempo permettendo di “recuperare” gli impianti esistenti (concetto del tutto distinto da “attivi”), attraverso loro ristrutturazione e/o ampliamento fino al 20%.
Come già evidenziato seppur sommariamente in sede cautelare, la su indicata disciplina consente in un’evidente ottica di recupero del patrimonio esistente, il recupero degli impianti appunto “esistenti” da un punto di vista urbanistico-edilizio e non già “attivi” ovvero in funzione, essendo verosimile che l’impianto in questione sia stato dismesso se non nel 1983 comunque dalla prima metà degli anni ottanta, essendosi dunque richiesta la semplice esistenza dei fabbricati in uno con la specifica destinazione urbanistica.
La scheda RD n. 041-459 (pur impugnata dai ricorrenti) che ai sensi dell’art. 5.1 del RUE “Ambiti e aree del territorio rurale” disciplina il patrimonio edilizio ritenuto esistente, conferma -diversamente da quanto argomentato dai ricorrenti- che l’Amministrazione comunale ha ritenuto “esistente” il complesso immobiliare di cui si discute (pur definendone mediocre lo stato di conservazione) con classificazione “N1.3b” ed esclusione della delocalizzazione.
5.3. - Giova debitamente evidenziare come lo stesso RUE abbia individuato gli insediamenti da delocalizzare in quanto posti in ambiti caratterizzati da determinate fragilità (ambiti agricoli periurbani; ambiti compresi entro una fascia di 500 mt. dal perimetro di territorio urbanizzato e urbanizzabile; fasce di espansione inondabili), elencandoli appositamente all’art. 5.10, “Interventi di delocalizzazione e riqualificazione del comparto zootecnico”, senza farvi rientrare il complesso immobiliare di cui si discute, a conferma della volontà del pianificatore di consentire il mantenimento della destinazione ad allevamento zootecnico intensivo e la ristrutturazione edilizia.
5.4. - Sul punto non può poi negarsi la circostanza fattuale secondo cui i fabbricati in questione non siano classificabili quali meri ruderi.
Come noto, per qualificare l'intervento di ricostruzione di un rudere come ristrutturazione è necessario e sufficiente che l'originaria consistenza dell'edificio sia accertabile nei suoi elementi essenziali, con adeguato grado di sicurezza, sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili (ex multis TAR Lombardia Brescia, sez. I, 06.07.2020, n. 517; Consiglio di Stato, sez. VI, 03.10.2019, n. 6654) cioè di organismo edilizio dotato delle mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura (ex multis TAR Puglia-Bari sez. III, 09.04.2018, n. 53; Consiglio di Stato, sez. II, 15.12.2020, n. 8035).
Dalla documentazione anche fotografia depositata in giudizio si evince che i fabbricati facenti parte dell’allevamento “esistente” presentano ancora le pareti perimetrali in muratura (o lo scheletro) mentre alcuni presentano la stessa copertura o quantomeno lo scheletro originariamente in eternit, si da poterne ricostruire l’ingombro planivolumetrico e l’originaria consistenza.
5.5. - In definitiva deve dunque affermarsi che i fabbricati facente parte dell’allevamento dismesso nella prima metà degli anni ottanta sono “esistenti” ai sensi del RUE, delle schede RD ai sensi del RUE stesso e della destinazione d’uso impressa sui titoli edilizi.
5.6. - In secondo luogo quanto in particolare al IV motivo di gravame, in linea con quanto previsto dagli artt. 11 e 79 del PTCP, l’art. 5.7. secondo comma del RUE consente quanto agli allevamenti zootecnici “esistenti” l’ampliamento fino al 20% della “capacità produttiva esistente”, ampliamento utilizzato nel progetto autorizzato.
Parte ricorrente quale prova della capacità produttiva esistente allega denuncia delle variazioni nello stato e nelle rendite dei terreni presentata il 21.09.1990 dal titolare pro tempore dell’allevamento avicolo, in cui si dichiara una capacità produttiva di soli 55.000 animali l’anno, nonché dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà del custode (sino al 1982) del preesistente allevamento.
Va anzitutto evidenziata l’irrilevanza di tal ultima dichiarazione essendo le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà -per giurisprudenza consolidata- non utilizzabili nel processo amministrativo, potendo costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti, non risultano ex se idonei a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione (ex plurimis Consiglio di Stato sez. II, 05.02.2021, n. 1109). Non rilevante appare invero la stessa denuncia delle variazioni nello stato e nelle rendite dei terreni presentata il 21.09.1990, trattandosi di denuncia esclusivamente a fini fiscali (art. 32, c. 2, lett. b, T.U.I.R.).
Appare invece ad avviso del Collegio necessaria sia per le argomentazioni sopra esposte (punti 5.2 - 5.5.) che per l’obiettiva difficoltà del calcolo dell’originaria capacità produttiva, una interpretazione logico funzionale dell’art. 5.7. secondo comma del RUE che colleghi il concetto “capacità produttiva esistente” alla potenzialità di produzione desumibile dalla superficie utile allevabile ovvero dalla superficie destinata specificatamente alla produzione.
Pure in questo caso, ad avviso del Collegio, è comunque dirimente il dato dell’esistenza dell’allevamento intesa come complesso immobiliare e non come attività, con la conseguenza che il computo della capacità produttiva concretamente effettuato, seppur “virtuale” e non analitico, era di fatto l’unico plausibile, essendo peraltro la superficie di allevamento un dato certo ed immodificabile nel tempo, certificato nella stessa SCIA del 15.12.2014 presentata al Comune di San Mauro Pascoli avente ad oggetto i lavori di manutenzione straordinaria di rimozione della copertura dei capannoni in eternit.
5.7. - Inoltre, è altresì infondato l’assunto dei ricorrenti secondo cui il complesso edilizio in questione avrebbe perso nel tempo la propria destinazione d’uso, rilevando unicamente ex art. 10-bis L.R. n. 15/2013 la destinazione prevista dai titoli edilizi conformemente alla disciplina urbanistica, nel caso di specie incontrovertibilmente ad allevamento zootecnico intensivo.
5.8. - Sono dunque infondati il terzo, quarto, quinto ed ottavo motivo del ricorso (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 18.08.2021 n. 756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn conformità al consolidato (e condiviso) orientamento della giurisprudenza, si deve ritenere che gli interventi ricostruttivi, sussumibili nel novero della ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. d), D.p.r. n. 380/2001 (in esito alle novità apportate con d.l. n. 69/2013, convertito dalla l. n. 98/2013), presuppongono “un minimo di preesistenza edificata, ossia un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Il concetto di costruzione esistente presuppone la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve, cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione.
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Ad avviso del Collegio nella fattispecie difetta il presupposto oggettivo di applicazione dell’art. 7, co. 8-bis l.r. Campania n. 19/2009, come novellata con l.r. n. 5/2011, conformemente a quanto ritenuto, sul punto, dall’estensore del provvedimento impugnato.
In base a tale disposizione, “è consentito il recupero edilizio soltanto agli aventi titolo alla data di entrata in vigore della presente legge, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, mediante intervento di ricostruzione in sito, di edifici diruti e ruderi, purché…”.
Ora, in conformità al consolidato (e condiviso) orientamento della giurisprudenza, si deve ritenere che gli interventi ricostruttivi, sussumibili nel novero della ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. d), D.p.r. n. 380/2001 (in esito alle novità apportate con d.l. n. 69/2013, convertito dalla l. n. 98/2013), presuppongono “un minimo di preesistenza edificata, ossia un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura (Cons. Stato, sez. II, n. 8035 del 15.12.2020). Il concetto di costruzione esistente presuppone la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve, cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione” (da Consiglio di Stato, 26.12.2020, n. 8337; cfr. Cons. Stato, 10.02.2004, n. 475 e 15.03.1990, n. 293; più di recente, sez. II, 24.10.2020, n. 6455).
Nella fattispecie, il manufatto indicato nell’atto d’acquisto (come anche nei registri catastali) non si presenta all’attualità nello stato di rudere, bensì in quello di rovine, trattandosi di meri “resti di mura” (cfr., sulla distinzione fra ruderi e rovine, Consiglio di Stato, 10.02.2004, n. 475; conf., Tar Bolzano, 07.03.2006, n. 97). Dal corredo fotografico allegato alla perizia di parte, versata in atti il 17.03.2014, si evince infatti che, allo stato, non è presente null’altro che uno spigolo/porzione di un muro.
La mancanza del presupposto oggettivo di applicazione richiesto dall’art. 7, co. 8-bis, l.r. Campania n. 19/2009 determina la legittimità del provvedimento impugnato, anche in relazione al motivo di ricorso sub 3.4, posto che tale ragione è stata ritualmente esposta nella comunicazione ex art. 10-bis l. n. 241/1990, consentendo altresì l’assorbimento degli ulteriori profili dedotti dalla p.a. e censurati dai ricorrenti (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 04.08.2021 n. 1881 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAffinché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv. con l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario che sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”.
Nel caso di specie, il ricorrente non ha assolto all’onere probatorio che grava su colui debba dimostrare la preesistente consistenza del fabbricato andato distrutto o demolito, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza, “...gli interventi sul patrimonio edilizio esistente presuppongono necessariamente un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura ovvero la possibilità di individuare l’edificio preesistente nella sua identità strutturale, quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità; declinandosi altrimenti l’intervento come volto a realizzare una nuova costruzione e non la ricostruzione di un precedente immobile”.
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Il succitato provvedimento negativo si sottrae a tutte le censure mosse dal ricorrente.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato, condiviso dal Collegio, affinché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv. con l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario che sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizianel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014, n. 5174; Consiglio di Stato, I Sezione, parere del 27.05.2020 n. 1095).
Il provvedimento impugnato ha fatto corretta applicazione, al caso di specie, dei suesposti principi.
Le fonti storiche allegate dal ricorrente alla domanda di premesso di costruire (fotografie che raffigurano l’immobile ad una certa distanza; pianta catastale; articoli di giornale e una sentenza che ricostruiscono il fatto di sangue avvenuto in prossimità del fabbricato nel 1926; dichiarazioni di terzi che confermano l’esistenza del predetto fabbricato) non offrono sicuri elementi per ricostruire con un sufficiente grado di attendibilità i parametri edilizi fondamentali dell’edificio diruto, ormai da circa novant’anni.
Dall’istruttoria svolta, e in particolare dagli esiti del sopralluogo svolto dai tecnici comunali il 18.05.02018, documentando fotograficamente lo stato dei luoghi, è emersa l’impossibilità di ricostruire con certezza la consistenza originaria del fabbricato crollato sin dagli anni ’30 del secolo scorso (nella relazione di sopralluogo di legge, in particolare, che “...1) Non ci sono tracce planimetriche dell'esistenza del vecchio edificio riportato nelle due foto storiche prodotte dal sig. Re.Gi., per la pratica edilizia tendente a chiederne la ricostruzione in sito.
- Sono accertabili sassi per lo più derivanti dal generale dissesto e crollo delle vecchie "marogne" presenti in sito e che delimitano le balze in pendio.
- Ci sono tre spezzoni dì stipiti di porta o di finestra, con cardini, ma al riguardo non si ha la certezza che effettivamente siano appartenuti al fabbricato in questione.
- Alcune pietre paiono essere state in qualche maniera sistemate in fila, e mancano gli angolari murari che il tecnico geom. Ca. ha rappresentato sui suoi disegni nello stato di fatto.
- Non c'è nessun elemento che consenta di verificare le dimensioni planimetriche di quella che si vorrebbe essere una precedente costruzione nel punto individuato dalla mappa catastale.
- Non sono verificabili le dimensioni del fabbricato riportate nella mappa catastale mancando ogni elemento verificabile...
”).
L’impossibilità di ricostruire con un sufficiente grado di attendibilità la preesistente consistenza dell’immobile crollato ormai da circa novant’anni è desumibile anche dal fatto che nelle tre richieste di titolo edilizio presente dal ricorrente, dal 2016 al 2020, egli ha prospettato tre diversi dimensionamenti del fabbricato originario:
   - nella pratica edilizia n. 194/2016 le dimensioni dell’immobile sono state calcolate in: lunghezza 10 metri, larghezza 5 metri ed altezza matematicamente calcolata in 5,57 metri;
   - nella pratica edilizia n. 230/2017, le dimensioni che precedono sono state dapprima confermate e poi modificate con progetto (appena abbozzato) allegato alla nota del 31.05.2018, che prevedeva una base di 9,80 x 4,10 metri ed un’altezza calcolata di 4,51 metri;
   - nella pratica edilizia n. 22/2020, oggetto dell’impugnativa all’esame, la base dell’edificio è stata individuata in 10,00/10.02 x 5,10/5,15 metri, con altezza calcolata di 5,74 metri.
Il ricorrente non ha, in definitiva, assolto all’onere probatorio che grava su colui debba dimostrare la preesistente consistenza del fabbricato andato distrutto o demolito, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza, “...gli interventi sul patrimonio edilizio esistente presuppongono necessariamente un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura ovvero la possibilità di individuare l’edificio preesistente nella sua identità strutturale, quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità; declinandosi altrimenti l’intervento come volto a realizzare una nuova costruzione e non la ricostruzione di un precedente immobile” (Cons. Stato Sez. II, 24.10.2020, n. 6455).
A ciò si aggiunga che, secondo quanto risulta dagli atti, i luoghi sono stati modificati, attraverso la perimetrazione della base del presunto edificio, mediante il collocamento di sassi e pietre varie, rendendo viepiù impossibile approfondire e verificare ulteriormente l’originario stato dei luoghi.
L’obiettiva impossibilità di verificare la consistenza dell’immobile diruto, accertata nel corso del sopralluogo del maggio 2018, giustifica il superamento delle valutazioni operate dal Comune, previo parere favorevole vincolante della Soprintendenza. nelle precedenti autorizzazioni paesaggistiche rilasciate sulla base di una ricostruzione dell’effettiva consistenza dell’immobile diruto che si sono rivelate difformi rispetto alla realtà accertata sul luogo dai tecnici comunali.
Del resto, si osserva che l’autorizzazione paesaggistica, pur essendo un provvedimento prodromico al rilascio del titolo edilizio, non esaurisce l’ambito d’indagine necessario ad assentire l’intervento, che dal punto di vista edilizio deve essere scrutinato secondo le coordinate desumibili dall’articolo 3, comma 1, lett. d), del T.U. Edilizia e dai principi elaborati dalla giurisprudenza formatasi in materia.
Nel caso in esame, dagli atti di causa, si evince che l’intervento non presentava criticità sotto il profilo della compatibilità con la tutela paesaggistica, ma, come correttamente rilevato dal Comune, non poteva essere qualificato come ristrutturazione edilizia, attesa l’impossibilità di stabilire con un sufficiente grado di certezza i parametri edilizi fondamentali dell’edificio diruto da circa novant’anni, presupposto essenziale ai fini della qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia.
Il provvedimento impugnato è immune dalle censure dedotte anche laddove ha riscontrato la mancanza dei requisiti previsti dall’articolo 12 del DPR n. 380/2001 per il rilascio del permesso di costruire, in relazione alle opere di urbanizzazione primaria concernenti la sistemazione della strada comunale denominata “strada comunale di Mirabello”.
La documentazione prodotta dal ricorrente è stata, infatti, ritenuta dal Comune inidonea rispetto all’obiettivo di realizzare una strada percorribile in sicurezza per raggiungere l’abitazione oggetto d’intervento, con valutazione che il Collegio reputa sorretta da adeguata istruttoria, non affetta da travisamento del fatto né altrimenti illegittima.
Per tutto quanto sin qui esposto, il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.07.2021 n. 910 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer univa giurisprudenza, l’onere della prova dell’epoca di realizzazione di un’opera edilizia incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
Tale prova non è stata fornita dall’interessato non potendosi a tal fine ritenere sufficiente le risalenti risultanze catastali in quanto tali dati non costituiscono fonte di prova certa sulla situazione di fatto esistente sul piano immobiliare, rappresentando l’accatastamento un adempimento di tipo fiscale-tributario, che fa stato ad altri fini, senza assurgere a strumento idoneo —al di là di un mero valore indiziario— per evidenziare la reale consistenza degli immobili interessati e la relativa conformità alla disciplina urbanistico-edilizia. Parte ricorrente non ha, invero, fornito alcun elemento a comprova della legittima edificazione della preesistenza.
Come chiarito anche dal Giudice d’Appello, deve escludersi che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
L’impossibilità di apprezzare la consistenza del manufatto preesistente determina in radice l’esclusione della configurabilità di un intervento di “ristrutturazione edilizia”, venendo in rilievo un intervento di nuova costruzione.
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3. La domanda di sanatoria ordinaria ha, infatti, ad oggetto un intervento di ristrutturazione di un manufatto composto dal solo piano terra avente la consistenza di circa 40 mq., con contestuale richiesta di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004.
3.1. Le deduzioni di parte ricorrente muovono dalla preesistenza del manufatto, originariamente di maggiore consistenza ma in gran parte diroccato, che sarebbe asseritamente stato sottoposto ad un mero intervento di recupero.
3.2. Come emerge dalla documentazione versata in atti e, segnatamente, dal provvedimento gravato, l’amministrazione ha rigettato la domanda di sanatoria ordinaria in considerazione dell’assenza di evidenze a comprova sia della legittimità della preesistenza asserita sia della effettiva pregressa edificazione dell’immobile, tenuto conto, in specie, dei rilievi aerofotogrammetrici esaminati nell’ambito dell’istruttoria svolta, tali da evidenziare l’avvenuta edificazione del manufatto nel periodo intercorrente tra l’11.08.2014 ed il 03.11.2015.
3.3. Per univa giurisprudenza (il che esime da citazioni specifiche) l’onere della prova dell’epoca di realizzazione di un’opera edilizia incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
3.4. Tale prova non è stata fornita dall’interessato non potendosi a tal fine ritenere sufficiente le risalenti risultanze catastali in quanto tali dati non costituiscono fonte di prova certa sulla situazione di fatto esistente sul piano immobiliare, rappresentando l’accatastamento un adempimento di tipo fiscale-tributario, che fa stato ad altri fini, senza assurgere a strumento idoneo —al di là di un mero valore indiziario— per evidenziare la reale consistenza degli immobili interessati e la relativa conformità alla disciplina urbanistico-edilizia (cfr., ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 09/02/2015, n. 631). Parte ricorrente non ha, invero, fornito alcun elemento a comprova della legittima edificazione della preesistenza.
3.5. Contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, inoltre, l’istruttoria svolta dall’amministrazione, adeguatamente approfondita, ha fatto emergere che il manufatto oggetto della domanda di sanatoria non risulta dai rilievi aerofotogrammetrici esaminati, circostanza, questa, che, oltre ad ulteriormente evidenziare l’inadeguatezza delle allegazioni probatorie di parte del ricorrente consente di rilevare un ulteriore rilevante profilo.
3.6. Come chiarito anche dal Giudice d’Appello, deve escludersi che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare (cfr., ex multis, Cons. St., 17.09.2019, n. 6188). In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata (Cons. St., sez. V, sentenza n. 1025 del 15.03.2016).
3.7. L’impossibilità di apprezzare la consistenza del manufatto preesistente determina in radice l’esclusione della configurabilità di un intervento di “ristrutturazione edilizia”, venendo in rilievo un intervento di nuova costruzione (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 14.06.2021 n. 4047 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo condivisa giurisprudenza:
   - <<Rientrano nella definizione di "ristrutturazione edilizia" le opere di demolizione e di fedele ed originale ricostruzione della parte in muratura d'un preesistente edificio pericolante o di compromessa stabilità, le quali, per questa stessa loro natura, non implicano alcun impatto negativo sull'interesse paesaggistico della zona -consistendo quest'ultimo nella tutela e nella conservazione dell'aspetto esteriore dei luoghi, con specifico riferimento alla conservazione dei caratteristici tipi edilizi esistenti-, né di conseguenza determinano la violazione dell'autorizzazione resa dall'autorità>>; ed, ancora,
   - <<Per qualificare l'intervento di ricostruzione di un rudere come ristrutturazione, è necessario e sufficiente che l'originaria consistenza dell'edificio sia accertabile nei suoi elementi essenziali, con adeguato grado di sicurezza, sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili>>.
Secondo quanto rilevato in tale sentenza alla luce della modifica legislativa dell'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, intervenuta ad opera dell'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, conv. in l. n. 98 del 2013, può ritenersi ormai superato l'orientamento giurisprudenziale maturato nel vigore del testo originario del citato articolo, che riteneva necessaria, ai fini della qualificazione dell'intervento come ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune componenti essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
La novella legislativa ha difatti esteso l'ambito della ristrutturazione alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire ad una consistenza iniziale. La giurisprudenza richiede poi che la consistenza iniziale debba essere dimostrata tanto sotto il profilo dell'an (ossia che un certo immobile sia esistito) tanto sotto il profilo del quantum, inteso come destinazione d'uso ed ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato.
La sentenza in esame ammette la possibilità che la prova della esatta consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei, possa essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili..
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Quanto sopra rilevato potrebbe valere nel caso in cui si intendesse offrire una dimostrazione che le opere contestate sono state realizzate in un arco temporale in cui non si richiedeva alcun titolo abilitativo edilizio ovvero il titolo era stato, all’epoca, rilasciato e le opere successive siano mero recupero e ripristino di volumi e superfici a lui legittimamente edificati.
Ma non sembra ciò essere avvenuto nel caso in esame.
Al riguardo con ordinanza n. 707 del 16.05.2017 questa sezione riteneva l’istanza cautelare meritevole di accoglimento ai fini del riesame da parte dell’Amministrazione comunale, alla luce delle circostanze allegate e della documentazione depositata dal ricorrente, al tempo stesso onerando la predetta Amministrazione di depositare agli atti della causa l’esito dell’istruttoria e di tutta la documentazione ritenuta utile in esito al riesame.
In ottemperanza alla predetta ordinanza, il Comune procedente ha depositato una articolata relazione istruttoria resa dal Settore Pianificazione Urbanistica del Comune di Ercolano prot. n. 30181 del 05/06/2017, con relativi allegati tecnico-giuridici, costituiti da pertinente documentazione fotografica descrittiva dello stato attuale dello immobile, nonché da rilievi catastali relativi allo stato originario dello stesso cespite, in uno allo stralcio della normativa urbanistica e paesaggistica vigente e riconducibile alla zona interessata dalle contestate opere edilizie.
Ciò ha condotto la Sezione, con successiva ordinanza n. 1865 del 29.11.2017, a respingere l’istanza cautelare dopo aver considerato che: <<alla luce della documentazione depositata dall’amministrazione comunale in esito all’ordinanza n. 707/2017, ….. emerge che il manufatto oggetto di contestazione, sia per diverso posizionamento -in quanto occupante una parte dell’originaria area di sedime del fabbricato esistente al 1940 e riportata nella relativa scheda di accatastamento- sia per le modalità costruttive e la tipologia di materiale utilizzato e riscontrato sui luoghi (realizzazione di opere in cemento armato), appare costituire non un mero ampliamento del manufatto originario, bensì un edificio difforme ed eseguito ex novo rispetto al comodo rurale preesistente sul terreno di cui alla p.lla 421 ex 19>>.
Approfondendo la predetta Relazione istruttoria si apprende che in sede di sopralluogo, effettuato in data 03.02.2017, come da documentazione fotografica allegata “si riscontrano lavori in corso per la realizzazione ex novo di un manufatto allo stato grezzo, con struttura portante in c.a. (travi di fondazioni, pilastri e solai di copertura, quest'ultimi in parte già realizzati ed in parte con sola orditura di putrelle), muratura esterna di tompagno e divisori interni, nel mentre non risultano visibili strutture inerenti un vecchio manufatto”.
In merito alla preesistenza di un manufatto risalente al 1940, da ricerche di Ufficio si è evidenziato che catastalmente nell'area in argomento è riportato un fabbricato rurale di mq. 40, individuato nel NCT al fg. 14 del Comune di Ercolano, particella n. 421, ex n 19 all'impianto meccanografico del 12.02.1985 (allegati nn. 3 e 4).
Il manufatto, riscontrato in sede di sopralluogo, di forma rettangolare, occupa tutta l'area posta in fondo al giardino, anche quella a confine con l'ex Bosco Reale ove è posizionato il manufatto riportato nel mappale catastale. Le modalità di costruzione del nuovo manufatto, che è realizzato anche sull'area di sedime del manufatto riportato in catasto, non possono considerarsi un ampliamento del vecchio manufatto e ciò per tipologia di materiali (muri in c.a., struttura in c.a.) e soprattutto per la presenza di travi di fondazioni in c.a., la cui realizzazione ha dovuto comportare di fatto la demolizione di quanto preesistente e quindi dal punto di vista urbanistico l'intervento consistite nella demolizione di un manufatto preesistente e la costruzione di un nuovo e diverso manufatto (per dimensioni, per tipologia di materiali).
Inoltre a pag. 5 del ricorso si afferma: "Verso la prima metà del mese di gennaio 2017, a seguito delle avverse condizioni metereologiche verificatesi durante i mesi di dicembre 2016 e gennaio 2017, (all. 7 della CTP) nonché all'avanzato stato di degrado in cui versavano gli immobili riportati nella scheda di accatastamento n. 10304079 del 10.02.1940, (documentazione fotografica all. 7 CTP) i solai degli stessi collassarono, creando così il crollo di gran parte delle murature perimetrali; successivamente al crollo parziale degli immobili sopra descritti, il sig. Ve., intervenne —in assenza di nessun titolo abilitativo—per rimuovere le parti ancora pericolanti e ricostruire il tutto.", confermando di fatto quanto già detto in precedenza.
Si comprende, allora la ragione per la quale –contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente che fa riferimento a preesistenze del manufatto- nel provvedimento impugnato si rileva che “le opere abusive in parola costituiscono costruzione ex novo che quindi anche esse ricadono negli interventi di “nuova costruzione” di cui all'art. 10, comma I, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, per il quale si richiede il permesso di costruire".
Nel caso in cui si voglia tener conto del solo manufatto esistente (che si ribadisce essere una demolizione e ricostruzione) -prosegue la Relazione- l'intervento effettuato su di esso rientra nella tipologia degli "interventi di ristrutturazione edilizia", giusta articolo 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380/2001 (allegato n. 5) che così recita: "interventi di ristrutturazione edilizia, gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente".
Secondo condivisa giurisprudenza: <<Rientrano nella definizione di "ristrutturazione edilizia" le opere di demolizione e di fedele ed originale ricostruzione della parte in muratura d'un preesistente edificio pericolante o di compromessa stabilità, le quali, per questa stessa loro natura, non implicano alcun impatto negativo sull'interesse paesaggistico della zona -consistendo quest'ultimo nella tutela e nella conservazione dell'aspetto esteriore dei luoghi, con specifico riferimento alla conservazione dei caratteristici tipi edilizi esistenti-, né di conseguenza determinano la violazione dell'autorizzazione resa dall'autorità>> (Consiglio di Stato sez. V, 15/01/1997, n. 45); ed, ancora, <<Per qualificare l'intervento di ricostruzione di un rudere come ristrutturazione, è necessario e sufficiente che l'originaria consistenza dell'edificio sia accertabile nei suoi elementi essenziali, con adeguato grado di sicurezza, sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili>> (TAR Brescia, (Lombardia) sez. I, 06/07/2020, n. 517).
Secondo quanto rilevato in tale sentenza alla luce della modifica legislativa dell'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, intervenuta ad opera dell'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, conv. in l. n. 98 del 2013, può ritenersi ormai superato l'orientamento giurisprudenziale maturato nel vigore del testo originario del citato articolo, che riteneva necessaria, ai fini della qualificazione dell'intervento come ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune componenti essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
La novella legislativa ha difatti esteso l'ambito della ristrutturazione alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire ad una consistenza iniziale. La giurisprudenza richiede poi che la consistenza iniziale debba essere dimostrata tanto sotto il profilo dell'an (ossia che un certo immobile sia esistito) tanto sotto il profilo del quantum, inteso come destinazione d'uso ed ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato.
La sentenza in esame ammette la possibilità che la prova della esatta consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei, possa essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili. Ne consegue che il Comune resistente ha correttamente applicato le disposizioni del Testo Unico sull’edilizia e il provvedimento impugnato, diversamente da quanto dedotto, non necessitava di alcuna motivazione ulteriore, anche in virtù del fatto che gli abusi accertati ricadono in territorio soggetto a vincoli paesaggistici.
Sotto il profilo più strettamente paesaggistico, mette conto evidenziare come l’impugnato provvedimento è stato emanato, dopo aver considerato che l'intero territorio comunale di Ercolano, inoltre, è soggetto ai vincoli del vigente P.R.G., approvato con D.P.R. Campania n. 2376 del 14.05.1975, pubblicato sulla G.U. n. 177 del 1975, e del Piano Territoriale Paesistico dei Comuni Vesuviani, approvato con D.M. BB.AA.CC. del 04.07.2002, pubblicato sulla G.U. del 18.09.2002, serie generale n. 219.
L'immobile in argomento ricade nel vigente P.R.G. in zona omogenea "Intensiva esistente" e nel P.T.P. Comuni Vesuviani in zona "P.I. — Protezione Integrale".
A tal proposito, proprio in relazione alle prescrizioni imposte dal citato PTP dei Comuni Vesuviani, va ribadito che l’area su cui ricadono le opere realizzate dal ricorrente, oltre che essere ricompresa nella zonizzazione "P.I. Protezione Integrale”, è, altresì, disciplinata dall’ art. 7, 6° comma, delle Norme Tecniche di Attuazione del predetto Piano paesistico, secondo cui “... la ristrutturazione edilizia, con riferimento all’ art. 31, lett. d), 457/1978, (trasposto nell’ art. 3, 1° comma, DPR 380/2001), dovrà ammettersi soltanto per gli edifici di recente impianto (realizzazione dopo il 1945), con l’esclusione degli edifici di valore storico-artistico ed ambientale paesistico nonché di quelli di cui ai punti 2 e 3 dell’art. 1 L. n. 1497/1939” (cfr. art. 7, 6° comma, delle NTA del PTP dei Comuni Vesuviani, così come testualmente richiamato alla pag. 2, penultimo capoverso della allegata Relazione istruttoria comunale del 05/06/2017).
Sicché, come puntualmente rappresentato e dedotto nella richiamata Relazione istruttoria comunale, tenuto conto della circostanza secondo cui, come rilevabile dalla scheda di accatastamento n. 10304079 del 10/02/1940, l’edificio preesistente, ricadente in proprietà Ve., è stato costruito in periodo antecedente al 1940, consegue evidente la non autorizzabilità delle contestate opere di ristrutturazione edilizie, in quanto aventi ad oggetto un fabbricato realizzato antecedentemente all’anno 1945 e, dunque, non assoggettabile, sotto il profilo paesaggistico, ai predetti interventi di demolizione con ricostruzione.
Infine, secondo giurisprudenza condivisa, stante l’effettivo impatto che le opere edilizie realizzate ingenerano sul bene tutelato, a legittimare l’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi è sufficiente la realizzazione di interventi di “nuova costruzione”, realizzati in totale assenza del titolo abilitativo edilizio in zona peraltro assoggettata a vincoli paesaggistici ed al D.L.vo 42/2004 e s.m. ed i., richiamato nelle premesse dell'ordine demolitorio (cfr. TAR Roma, sez. I, 04/05/2016, n. 5114) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.04.2021 n. 2730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale.
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... per l’annullamento dell’ordinanza urbanistica n. 1, prot. n. 813, del 09.03.2011, notificata il 02.04.2011, con cui è stato ingiunto ai ricorrenti di ripristinare lo stato dei luoghi, in relazione all’avvenuta realizzazione di una pista sterrata lunga circa m. 300 e larga circa m. 2,40, con scarpate dell’altezza variabile tra m 0,2 e m 1,00, giacente sui terreni distinti in catasto al foglio n. 11, mappali nn. 179, 404, 96, 403, 223, 405, 371 e 95, tutti sottoposti a tutela idrogeologica e paesaggistica.
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   Considerato che nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Lazio, Latina, sez. I, 13.07.2020 n. 271; TAR Piemonte, sez. II, 27.03.2013 n. 390; TAR Umbria, sez. I, 02.11.2011 n. 354);
   Ritenuto che, pertanto, la richiesta istruttoria in argomento non sia utilmente valutabile, poiché non è possibile provare per testi fatti che si pongano in contrasto con le risultanze oggettive poste dalla p.a. a fondamento del provvedimento impugnato e segnatamente con gli esiti degli accertamenti svolti in luogo da personale del Corpo forestale dello Stato e dell’Amministrazione civica resistente, che in data 19.01.2011 hanno appurato, tra l’altro, che “i lavori sono di recente realizzazione in quanto il terreno delle scarpate non si è ancora inerbito e la terra sembra essere stata movimentata da poco tempo”, dunque circostanze incompatibili con la ricostruzione di un semplice intervento manutentivo che i ricorrenti vorrebbero comprovare per testimoni (TAR Lazio-Latina, sentenza 30.03.2021 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo vigente ratione temporis, disponeva che tra gli “interventi di ristrutturazione edilizia” erano ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione, con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica.
In ordine all’interpretazione di tale norma è più volte intervenuta la giurisprudenza amministrativa, la quale ha chiarito che il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, con la conseguenza che la ricostruzione su ruderi o su un edificio che risulta da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce a tutti gli effetti una nuova opera, che, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesaggistiche vigenti al momento della riedificazione.
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Il ricorso, che ha ad oggetto un diniego di sanatoria per la ricostruzione di un rudere ubicato in zona agricola, va rigettato.
Invero, l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo vigente ratione temporis, disponeva, per quanto d’interesse, che tra gli “interventi di ristrutturazione edilizia” erano ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione, con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica.
In ordine all’interpretazione di tale norma è più volte intervenuta la giurisprudenza amministrativa, la quale ha chiarito che il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, con la conseguenza che la ricostruzione su ruderi o su un edificio che risulta da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce a tutti gli effetti una nuova opera, che, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesaggistiche vigenti al momento della riedificazione (Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2019, n. 5588, 25.06.2013, n. 3456 e 13.10.2010, n. 7476).
Nella specie il diniego è stato motivato con riferimento al fatto che non era stata data adeguata dimostrazione della reale consistenza e conformazione della sagoma dell’immobile da ricostruire, non essendo, all’uopo, sufficiente, il mero rinvenimento di parti di muratura o di tracce di fondazioni più o meno vetuste, in mancanza di altri elementi certi.
Trattasi di una puntuale motivazione, che non è stata scalfita dalle osservazioni procedimentali del ricorrente, il quale si è limitato a fare riferimento alla documentazione fotografica prodotta, da cui risultavano parti di fondazioni nei lati sud e ovest, nonché a un saggio dal lato nord, da cui emergeva la sottostante muratura di fondazione; né ulteriori elementi probatori sono stati forniti nel corso del giudizio.
Concludendo, per le ragioni suesposte, il ricorso è infondato e va rigettato (TAR Sicilia-Palermo Sez. II, sentenza 11.02.2021 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn conformità a un indirizzo giurisprudenziale consolidatissimo, grava sulla parte privata l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per conseguire la sanatoria di un abuso edilizio, a partire dall’epoca della sua realizzazione e dall’effettiva consistenza delle opere realizzate.
Gli elementi probatori necessari a documentare l’attività realizzata si trovano infatti nella disponibilità dell’autore degli abusi, di modo che la distribuzione dell’onere probatorio risponde al principio della vicinanza alla prova, da tempo invalso in ambito processualcivilistico e oggi espressamente recepito dall’art. 64, co. 1, c.p.a..
Ne deriva che spetta all’interessato provare che l’intervento abusivo abbia riguardato un fabbricato preesistente, come pure dimostrare la consistenza originaria di quest’ultimo.
La prova, peraltro, non può essere data attraverso autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive rese dallo stesso autore dell’abuso, ovvero dai tecnici incaricati da costui, le quali sono sprovviste di valore certificativo o probatorio nei confronti dell’amministrazione procedente e, al più, possono concorrere alla formazione di un più ampio quadro indiziario, se unite ad altri e affidabili riscontri oggettivi.
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Per inciso, anche a voler prestare piena fede a dette dichiarazioni, potrebbe considerarsi dimostrata la preesistenza delle fondazioni, ovvero di “mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici”, vale a dire, nella migliore delle ipotesi, dei resti di una costruzione non meglio identificata e identificabile nelle sue componenti essenziali.
L’intervento, come anche sostenuto dalla difesa comunale, finirebbe così per atteggiarsi a ricostruzione di un rudere, pacificamente riconducibile nell’alveo della nuova opera soggetta a permesso di costruire.

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2.1.1. Il ricorso è infondato.
L’art. 2, co. 1, della legge regionale toscana n. 53/2004 ammette a sanatoria straordinaria le opere e gli interventi sottoposti a concessione edilizia, ovvero a denuncia di inizio di attività, che siano stati realizzati con variazioni essenziali dal titolo abilitativo o, comunque, in difformità rispetto ad esso, anche se non conformi agli strumenti urbanistici; nonché le opere e gli interventi sottoposti a denuncia di inizio attività realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo, anche se non conformi agli strumenti urbanistici.
Il legislatore toscano nell’esercizio delle sue prerogative (cfr. Corte Cost., 28.06.2004, n. 196) ha dunque escluso dal “terzo condono”, per quanto qui interessa, gli interventi soggetti al regime della concessione edilizia/permesso di costruire realizzati in assenza del titolo. E, come riferito inizialmente, il diniego qui impugnato si fonda proprio sulla ritenuta inammissibilità a sanatoria dell’intervento realizzato dalla ricorrente, qualificato dal Comune in termini di “costruzione ex novo”, in quanto tale bisognosa di concessione/permesso di costruire, nella specie mai richiesto e rilasciato.
La qualificazione dell’intervento riveste pertanto, ai fini della decisione, un ruolo dirimente e preliminare rispetto agli ulteriori temi controversi.
Il Comune desume che si sarebbe in presenza di una nuova costruzione dalla stessa istanza di sanatoria e dalla relazione tecnica alla stessa allegata, che si limitano a riportare la descrizione del manufatto abusivo nel suo stato attuale e finale, senza alcun riferimento a un’attività di restauro di un fabbricato preesistente. E già nel contraddittorio procedimentale, originato dalle osservazioni al preavviso di diniego, aveva appunto rilevato come l’istanza di condono non facesse alcuna menzione di preesistenze edilizie.
Di contro, la ricorrente sostiene che nell’istanza di sanatoria non si parlerebbe mai di nuova costruzione, e che la prova della preesistenza sarebbe stata fornita con la relazione tecnico-amministrativa del 19.04.2012, trasmessa al Comune a integrazione della pratica e successivamente unita alle osservazioni formulate a norma dell’art. 10-bis l. n. 241/1990, ove si attesta l’ubicazione del manufatto “nel medesimo luogo ove risultavano mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici", come attestato peraltro da atto pubblico di compravendita del 14.12.1999 (trascritto a Grosseto il 28.12.1999 RGN 18757, registrato ad Orbetello il 30.12.1999 al n. 597) intercorso tra la società ‘Is.Ro. di Ma. E.C. s.a.s.” e la sig.ra An.An. (...)”.
Nella medesima relazione tecnico-amministrativa si legge altresì che la costruzione “risulta essere stata riedificata su fondazioni comunque preesistenti (restituzione in pristino)”.
Ricostruiti nel dettaglio gli argomenti delle parti, il collegio in primo luogo ricorda che –in conformità a un indirizzo giurisprudenziale consolidatissimo, dal quale non vi è ragione di discostarsi– grava sulla parte privata l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per conseguire la sanatoria di un abuso edilizio, a partire dall’epoca della sua realizzazione e dall’effettiva consistenza delle opere realizzate. Gli elementi probatori necessari a documentare l’attività realizzata si trovano infatti nella disponibilità dell’autore degli abusi, di modo che la distribuzione dell’onere probatorio risponde al principio della vicinanza alla prova, da tempo invalso in ambito processualcivilistico e oggi espressamente recepito dall’art. 64, co. 1, c.p.a..
Ne deriva che spetta all’interessato provare che l’intervento abusivo abbia riguardato un fabbricato preesistente, come pure dimostrare la consistenza originaria di quest’ultimo. La prova, peraltro, non può essere data attraverso autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive rese dallo stesso autore dell’abuso, ovvero dai tecnici incaricati da costui, le quali sono sprovviste di valore certificativo o probatorio nei confronti dell’amministrazione procedente e, al più, possono concorrere alla formazione di un più ampio quadro indiziario, se unite ad altri e affidabili riscontri oggettivi (fra le molte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.04.2020, n. 2660; id., sez. II, 18.03.2020, n. 1929; id., sez. IV, 01.04.2019, n. 2115).
Nel caso in esame, le sole dichiarazioni asseverate riferibili alla ricorrente o ai suoi tecnici sono quelle originariamente contenute nella pratica di sanatoria (l’istanza di condono e la relazione tecnica allegata), che, come si è visto, si limitano a descrivere lo stato attuale del fabbricato e non fanno riferimento a preesistenze, né qualificano l’intervento nei termini pretesi dalla signora An. (restauro e risanamento conservativo).
La relazione tecnico-amministrativa dell’aprile 2012 e le osservazioni al preavviso di diniego riferiscono, dal canto loro, che la preesistenza del fabbricato sarebbe attestata dal contratto di acquisto della proprietà, risalente al 14.12.1999, ma l’affermazione non può essere verificata, stante la mancata produzione in giudizio del contratto, che pure deve presumersi nella disponibilità della ricorrente.
Del pari, non è stata prodotta la relazione di accompagnamento a un’istanza a suo tempo presentata da certo arch. Te. ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, anch’essa citata nelle osservazioni ex art. 10-bis e nella relazione tecnico-amministrativa, e che confermerebbe l’avvenuta riedificazione del fabbricato su fondazioni preesistenti.
Facendo applicazione dell’indirizzo interpretativo richiamato da principio, gli elementi probatori a disposizione –che si riducono a dichiarazioni provenienti dalla stessa parte interessata o dai suoi professionisti di fiducia– sono del tutto inadeguati a dimostrare la preesistenza del fabbricato.
Per inciso, anche a voler prestare piena fede a dette dichiarazioni, potrebbe considerarsi dimostrata la preesistenza delle fondazioni, ovvero di “mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici”, vale a dire, nella migliore delle ipotesi, dei resti di una costruzione non meglio identificata e identificabile nelle sue componenti essenziali. L’intervento, come anche sostenuto dalla difesa comunale, finirebbe così per atteggiarsi a ricostruzione di un rudere, pacificamente riconducibile nell’alveo della nuova opera soggetta a permesso di costruire (cfr. TAR Toscana, sez. III, 22.02.2019, n. 286).
Né vale sostenere, da parte della ricorrente, che attraverso la nozione di rudere il Comune abbia inteso integrare a posteriori la motivazione dell’atto impugnato. Ribadito che la preesistenza del fabbricato non è stata dimostrata, gli argomenti difensivi spesi dal Comune sono volti (non a integrare il provvedimento impugnato, ma) a evidenziare come gli unici elementi ricavabili dalla relazione tecnico-amministrativa della ricorrente non permettano di risalire a una preesistenza definita nei suoi elementi costitutivi, di modo che, a tutto voler concedere, non ne risentirebbe la qualificazione dell’intervento in termini di nuova costruzione.
2.1.2. In forza di tutto quanto precede, il ricorso non può trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.01.2021 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2020

EDILIZIA PRIVATALa ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire.
Non è sufficiente, quindi, che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione.

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... per l'annullamento, previa sospensiva, del diniego permesso di costruire n. 117 del 25.09.2019 del Comune dell’Aquila;
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Viene in decisione il ricorso avverso il diniego opposto all’istanza di rilascio del permesso titolo in sanatoria con cambio di destinazione d’uso di un piccolo manufatto in legno, che la ricorrente afferma di aver ricostruito in sostituzione di un preesistente volume in muratura, del quale, prima della demolizione, restavano alcuni muri perimetrali ed era visibile la linea di appoggio della falda di copertura sul muro perimetrale di un adiacente fabbricato.
Preliminarmente deve essere chiarito che, come eccepito dal Comune, non hanno alcun rilievo ai fini del decidere le critiche mosse dalla ricorrente all’annullamento del permesso di costruire rilasciato per la fedele ricostruzione di un preesistente fabbricato già adibito ad uso commerciale e alla pedissequa ordinanza di demolizione.
Infatti sia l’annullamento, sia la pedissequa ordinanza di demolizione non sono stati impugnati.
Pertanto il procedimento avviato ad istanza della ricorrente per la sanatoria dell’intervento edilizio, ormai privo di titolo legittimante, si inquadra nel modello tipico delineato dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001 dell’accertamento di conformità che presuppone la dimostrazione della doppia conformità dell’intervento edilizio, alla normativa vigente sia al momento in cui fu realizzato, sia alla data del rilascio del titolo in sanatoria.
Secondo quanto sostenuto nel ricorso il nuovo manufatto sarebbe la replica dell’immobile -del quale sono visibili nelle ortofoto in atti (all. 5 della memoria del 03.11.2020) i resti di mura perimetrali- non già, come invece asserito nel provvedimento di diniego, della baracca di lamiere di minori volume e superficie in quanto in parte appoggiata e in parte interna al perimetro del fabbricato originario.
Su tale evidenza il tribunale ha accolto l’istanza cautelare, riservando al merito l’accertamento della corrispondenza dei parametri plano-volumetrici del nuovo edificio rispetto a quelli del manufatto preesistente, requisito indispensabile che il diniego impugnato ritiene insussistente, per potersi qualificare l’intervento come ristrutturazione ammessa sul sedime e con i distacchi originari e non nuova costruzione soggetta al rispetto delle distanze previste per la zona urbanistica ove ricade l’area interessata dall’intervento.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che “La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire. Non è sufficiente quindi che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione” (Consiglio di Stato, sez. VI, 05/12/2016, n. 5106).
Sulla base di detto orientamento il diniego gravato appare carente in punto di istruttoria e di motivazione perché non considera che i muri superstiti del preesistente manufatto sono assemblati con pietre e mattoni –come è evidente dalle ortofoto in atti- e pertanto non può escludersi che il manufatto del quale facevano parte, sia stato realizzato in epoca precedente al 1967 in regime di edilizia libera e dunque assistito da un titolo legittimante.
Sempre in via presuntiva, contrariamente a quanto affermato nel diniego, neppure può escludersi che il nuovo fabbricato abbia un volume non eccedente quello del preesistente manufatto in muratura.
Il Comune si è infatti concentrato erroneamente sul confronto fra il volume del manufatto oggetto di sanatoria e quello della baracca in lamiere che non ha alcuna rilevanza ai fini del procedimento di accertamento di conformità richiesto dalla ricorrente.
L’istanza si sanatoria, come del resto l’istanza di rilascio del permesso di costruire annullato, ha ad oggetto, come si evince chiaramente dalle osservazioni endoprocedimentali a firma del tecnico incaricato (all. 21 del ricorso), la verifica di conformità dell’edificio realizzato in sostituzione del più ampio e più risalente manufatto in muratura, il cui volume peraltro si sarebbe potuto accertare prendendo in considerazione il perimetro delineato dai muri superstiti e la linea di ammorsamento della copertura ancorata al fabbricato adiacente, ancora visibile sul muro perimetrale (cfr. ortofoto precedenti al sisma del 2009 – all. 5 del ricorso).
Con specifico riferimento a detta linea di ammorsamento è presumibile che si trattasse proprio e univocamente della copertura del manufatto crollato, non essendovi elementi per inferire che su detta linea fosse ancorato un preesistente balcone o camminamento esterno, in quanto detto muro perimetrale è completamente privo di aperture.
In conclusione nessuna delle motivazioni addotte a sostegno del diniego resiste alle censure dedotte nel ricorso:
   - non la mancata dimostrazione della legittimità dell’esistente, ovvero la conformità al regime urbanistico del fabbricato preesistente all’intervento di demolizione perché il Comune ha erroneamente individuato l’immobile “ante demolizione” nella baracca in lamiere e non nel manufatto in pietra presumibilmente preesistente al 1967, che sia nell’istanza di rilascio del permesso di costruire, sia nell’istanza di sanatoria viene indicato come il volume preesistente oggetto di ricostruzione;
   - non per contrasto con l’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 per la ricostruzione con diverso volume, perché il volume preesistente è stato calcolato nel diniego impugnato sulle dimensioni della baracca di lamiere e non su quelle del preesistente fabbricato in muratura che la ricorrente ha inteso demolire e ricostruire riproducendone le dimensioni presumibilmente accertabili sulla base dei muri superstiti e della quota della copertura misurabile dalla linea di ancoraggio all’edificio adiacente;
   - non per contrasto con l’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 per il mancato rispetto delle distanze dai confini e dalla strada, perché il Comune non ha considerato, che trattandosi di demolizione e ricostruzione, l’area di sedime e, quindi, anche le distanze da osservare sono quelle originarie del manufatto in muratura, ai sensi dell’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 vigente ratione temporis e dell’art. 46 delle NTA del PRG del Comune dell’Aquila che, per gli interventi d demolizione e ricostruzione nella zona residenziale delle frazioni, ove ricade l’area interessata dall’intervento edilizio in esame, ammette la conservazione delle distanze preesistenti e la ricostruzione sul ciglio stradale, esclusi gli aggetti e le proiezioni sugli spazi pubblici
(TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 18.12.2020 n. 530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa questione del rilievo da dare alla fatiscenza del patrimonio edilizio preesistente ai fini della configurabilità di un singolo intervento come incidente sullo stesso, e non “nuova costruzione”, è già stata affrontata più volte da questo Consiglio di Stato, con riferimento a quel particolare tipo di attività edilizia che, con neologismo urbanistico ormai diffuso a livello di disciplina comunale, va sotto la definizione di “ripristino filologico”.
Esso si connota nel complesso delle attività, in verità anche di eliminazione di volumetrie mediante abbattimento di eventuali superfetazioni, per riportare alla consistenza “storica” complessi ormai diruti, o irrimediabilmente manomessi.
Non essendo il “ripristino filologico” una categoria edilizia definita, alla quale possa ascriversi una determinata disciplina normativa, il relativo inquadramento necessita di un’indagine specifica che abbia riguardo al risultato che si intende conseguire, ma anche alla “base di partenza” dell’intervento.
La giurisprudenza amministrativa sviluppatasi proprio con riferimento a tale tipologia di intervento, riconducibile a seconda dei casi a risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia, ribadisce comunque come in entrambi i casi si tratti di interventi di recupero sul patrimonio edilizio “esistente”, traslati nell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal previgente art. 31 della legge n. 457/1978, che già li contemplava. La loro finalità di “conservazione”, seppur lato sensu intesa, postula dunque pur sempre la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Il concetto di costruzione esistente presuppone a sua volta la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve, cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione.
In buona sostanza, il rilascio di un titolo edilizio per procedere alla ristrutturazione è subordinato alla possibilità di individuare, in maniera pressoché certa, l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro del fabbricato su cui intervenire. Solo se è chiara la base di partenza, è possibile discutere l’entità e la qualità delle modifiche apportabili senza travalicare i limiti definitori della ristrutturazione.
Costituisce pertanto vera e propria costruzione ex novo e non già ristrutturazione, né tanto meno restauro o risanamento conservativo e, come tale, è soggetta a concessione edilizia secondo le regole urbanistiche vigenti al momento dell’istanza del privato, «la ricostruzione di un intero fabbricato, diruto da lungo tempo e del quale residuavano, al momento della presentazione dell’istanza del privato, solo piccole frazioni dei muri, di per sé inidonee a definire l’esatta volumetria della preesistenza, in quanto l’effetto ricostruttivo così perseguito mira non a conservare o, se del caso, a consolidare un edificio comunque definito nelle sue dimensioni, né alla sua demolizione e fedele ricostruzione […] bensì a realizzarne uno del tutto nuovo e diverso».
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8. Il Collegio ritiene l’appello fondato, e come tale da accogliere.
9. La Sezione ritiene che la vicenda ruoti intorno a due nozioni essenziali: da un lato, la definizione di ristrutturazione edilizia e la conseguente riconducibilità alla stessa di un’attività di “recupero”, inteso in senso etimologico, di un antico complesso, solo in parte ancora empiricamente percepibile, in altra invece “intuibile”, in ragione delle poche vestigia residue di crolli generalizzati dovuti all’usura del tempo; dall’altro, le regole rivenienti dalla legge regionale n. 20 del 1998, col preciso intento di agevolare gli interventi di conversione in strutture ricettive di vecchi fabbricati tipici dell’antica architettura rurale della zona (trulli, masserie e simili).
Afferma il primo giudice che i confini della ristrutturazione edilizia, per come definita all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001, sono diversi nell’ipotesi in cui essa si concretizzi nella ricostruzione, previa demolizione, rispetto a quella in cui, invece, non si demolisca alcunché. In tale seconda ipotesi non è infatti necessario rispettare i limiti originari di sagoma e di volume. Da qui, la ritenuta insufficienza istruttoria da parte del Comune che non avrebbe adeguatamente valutato la documentazione fornita allo scopo di attestare la preesistenza di corpi di fabbrica.
10. La ricostruzione non è sufficiente a fotografare la peculiarità della fattispecie, limitandosi ad un’analisi definitoria teorica al punto da inserirvi, quale elemento di forza, la non necessità di demolire previamente alcunché, essendo gli edifici in controversia già a terra.
Né assume rilievo il distinguo che il primo giudice ha inteso enfatizzare tra ristrutturazione c.d. “leggera” e ristrutturazione “pesante”, riveniente dal combinato disposto tra l’art. 3, lett. d), del T.U.E., che declina la relativa definizione in termini generali, e l’art. 10, che ritaglia al suo interno i casi in cui per le modifiche intervenute (alla sagoma, al volume, ai prospetti, alle superfici e, nelle zone omogenee A, anche alla destinazione d’uso) si rende necessario il permesso di costruire.
Nel caso di specie, infatti, come ribadito dall’appellata nelle proprie memorie, essa non rivendica la possibilità di realizzare la progettualità proposta mediante semplice d.i.a. (oggi s.c.i.a.); la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione, ancorché “pesante” costituisce il necessario grimaldello per accedere ai benefici della legge regionale n. 20 del 1998, approcciandosi ad una destinazione d’uso per la quale gli indici di fabbricabilità previsti dalle N.T.A. del P.R.G. sono diversi e le limitazioni, anche funzionali, alla edificabilità del suolo, strumentali alla realizzazione della struttura ricettiva.
In sintesi, l’angolazione prospettica dalla quale va riguardata la vicenda non è quella degli effetti dell’attività di recupero, bensì della configurazione dell’immobile da recuperare, recte, ancora prima, della esistenza “materiale” dell’immobile stesso, le cui “cubature virtuali” devono traslare nella nuova edificazione, in quanto continuativa della precedente.
11. La questione del rilievo da dare alla fatiscenza del patrimonio edilizio preesistente ai fini della configurabilità di un singolo intervento come incidente sullo stesso, e non “nuova costruzione”, è già stata affrontata più volte da questo Consiglio di Stato, con riferimento a quel particolare tipo di attività edilizia che, con neologismo urbanistico ormai diffuso a livello di disciplina comunale, va sotto la definizione di “ripristino filologico”.
Esso si connota nel complesso delle attività, in verità anche di eliminazione di volumetrie mediante abbattimento di eventuali superfetazioni, per riportare alla consistenza “storica” complessi ormai diruti, o irrimediabilmente manomessi.
Non essendo il “ripristino filologico” una categoria edilizia definita, alla quale possa ascriversi una determinata disciplina normativa, il relativo inquadramento necessita di un’indagine specifica che abbia riguardo al risultato che si intende conseguire, ma anche alla “base di partenza” dell’intervento.
12. La giurisprudenza amministrativa sviluppatasi proprio con riferimento a tale tipologia di intervento, riconducibile a seconda dei casi a risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia, ribadisce comunque come in entrambi i casi si tratti di interventi di recupero sul patrimonio edilizio “esistente”, traslati nell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal previgente art. 31 della legge n. 457/1978, che già li contemplava. La loro finalità di “conservazione”, seppur lato sensu intesa, postula dunque pur sempre la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Il concetto di costruzione esistente presuppone a sua volta la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve, cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.02.2004, n. 475 e 15.03.1990, n. 293; più di recente, sez. II, 24.10.2020, n. 6455).
In buona sostanza, il rilascio di un titolo edilizio per procedere alla ristrutturazione è subordinato alla possibilità di individuare, in maniera pressoché certa, l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro del fabbricato su cui intervenire. Solo se è chiara la base di partenza, è possibile discutere l’entità e la qualità delle modifiche apportabili senza travalicare i limiti definitori della ristrutturazione.
Costituisce pertanto vera e propria costruzione ex novo e non già ristrutturazione, né tanto meno restauro o risanamento conservativo e, come tale, è soggetta a concessione edilizia secondo le regole urbanistiche vigenti al momento dell’istanza del privato, «la ricostruzione di un intero fabbricato, diruto da lungo tempo e del quale residuavano, al momento della presentazione dell’istanza del privato, solo piccole frazioni dei muri, di per sé inidonee a definire l’esatta volumetria della preesistenza, in quanto l’effetto ricostruttivo così perseguito mira non a conservare o, se del caso, a consolidare un edificio comunque definito nelle sue dimensioni, né alla sua demolizione e fedele ricostruzione […] bensì a realizzarne uno del tutto nuovo e diverso» (Cons. Stato, Sez. V, 03.04.2000, n. 1906; id., 15.04.2004, n. 2142, 01.12.1991, n. 2021, 10.03.1997, n. 240 e 04.11.1994, n. 1261).
13. Né può addebitarsi al Comune alcuna carenza di istruttoria, tenuto altresì conto che l’onere probatorio della consistenza del complesso immobiliare gravava interamente sul privato richiedente.
I documenti prodotti, infatti, quali le mappe del catasto onciario e del catasto urbano, gli elaborati grafici del P.R.G. e le riprese aeree originali, da un lato confermano l’incontestata presenza in loco del manufatto; dall’altro rilevano l’effettivo stato di macerie, talvolta addirittura di singoli massi facenti presumibilmente parte di mura fondanti, ma nulla dicono della effettiva consistenza del fabbricato, alla cui ricostruzione si addiviene pertanto solo con un corposo sforzo di fantasia, ispirandosi alle caratteristiche morfologiche comuni a quella specifica tipologia.
Quanto alla relazione “sulla preesistenza planovolumetrica della masseria Gh.” redatta dai progettisti di parte in data 02.03.2009 per riscontrare la richiesta di integrazione istruttoria avanzata dagli uffici comunali, a prescindere dalle interessanti digressioni storiche sulle masserie in genere e su quella di cui è causa, in particolare, essa nulla aggiunge alla ricostruzione della base “obiettiva” su cui si è fondata l’ipotesi progettuale. Molti elementi architettonici vengono richiamati per evocare il tipico assetto delle masserie e, quindi, presumibilmente, anche di quella di cui è causa; ma sul piano descrittivo non può che darsi atto, almeno con riferimento ad una consistente parte del complesso, che gli edifici sono pressoché totalmente abbattuti.
In particolare, nel breve paragrafo rubricato proprio “documentazione comprovante la volumetria da ricostruire” si fa riferimento ai “resti delle fondamenta in situ” e alle riprese fotografiche aeree originali: le quali peraltro, una volta prodotte (in prima battuta non erano state neppure allegate alla relazione) non forniscono alcun elemento integrativo di conoscenza, consentendo una visione vaga, e per linee piane, piuttosto che per spessori.
Infine, si dà atto che alcune strutture originarie sono “quasi totalmente” crollate (es., i vani con copertura a tetto a doppia falda, ovvero i “voluminosi corpi di fabbrica, risalenti ai primi del ‘900”). Di alcune di esse si ipotizza la presenza, elencandole descrittivamente (“sicuramente vi erano”), quali quelle per la lavorazione e lo stoccaggio dei prodotti caseari, i vani per alloggi del massaro e dei lavoratori, braccianti agricoli, ecc. Ne emerge un quadro descrittivo di sicura suggestione storica, ma assai scarsa aderenza alla realtà fattuale, che tenta di ricostruire, non descrive per come è, valorizzando anche il futuro utilizzo di materiali e tecniche architettoniche idonee ad evocarne le presumibili sembianze originarie.
14. Da quanto detto emerge la correttezza del diniego opposto dal Comune di Lecce alla richiesta di permesso di costruire per ristrutturazione edilizia, riferita peraltro al complesso nella sua interezza e non limitata, come forse sarebbe stato più opportuno, alle sole parti dello stesso effettivamente insistenti ancora in loco. A ciò consegue anche l’inapplicabilità della invocata legge regionale n. 20 del 1998, avente ad oggetto le sole attività di consolidamento, restauro e ristrutturazione di edifici rurali variamente denominati, rientranti nel regime giuridico della l. 01.06.1939, n. 1089, da destinare a strutture ricettive.
Ne consegue altresì anche quella delle N.T.A. invocate dall’appellata, in quanto riferite al recupero di cubature da destinare a ricettività, non estensibili alla normale attività edilizia consentita in ragione della destinazione (agricola) della zona. Di tutto ciò peraltro si dava dettagliato conto nel preavviso di diniego del 24.05.2010, evidenziando come con la progettualità complessiva proposta si sarebbe realizzato un aumento della volumetria esistente, così ponendosi comunque in contrasto con il più volte richiamato art. 1 della l.r. 22.07.1998, n. 20, che la vieta, almeno in riferimento alle aree superficiarie.
15. Che tale sia la cornice ordinamentale corretta nella quale calare l’odierna fattispecie è confermato altresì dal tenore letterale della legge regionale.
Il richiamo ivi contenuto al rispetto comunque della volumetria fuori terra “esistente”, evoca dunque la necessità che se ne possa computare l’esatta consistenza; la necessità di salvaguardare prospetti e caratteristiche architettoniche e artistiche dell’immobile, egualmente ne implica la piena visualizzazione. La ratio, dunque, appare quella di recuperare da situazioni di degrado il patrimonio storico-culturale di settore, laddove esso ancora sussista, non ricostruirlo ex novo, seppur con modalità quanto più rispettose possibile della loro plausibile configurazione effettiva.
16. Per quanto sopra detto l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, deve essere riformata la sentenza n. 1023 del 2011 della sez. staccata di Lecce del TAR per la Puglia, con conseguente reiezione del ricorso n.r.g. 1829/2010 e conferma della determina del 14.07.2010, di diniego del permesso di costruire richiesto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 15.12.2020 n. 8035 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale.
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4.2 Neppure è suscettibile di condivisione il secondo motivo di ricorso, posto che, all’esito dell’istruzione probatoria disposta dal collegio su richiesta del ricorrente, gli elementi emersi attraverso l’assunzione delle testimonianze de quibus non sono in grado di superare le risultanze oggettive offerte dal Comune di Pontinia.
Al riguardo è sufficiente ricordare che nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Piemonte, sez. II, 27.03.2013 n. 390; TAR Umbria, sez. I, 02.11.2011 n. 354).
Nella specie, i dati oggettivi versati dall’Amministrazione offrono una ricostruzione dei fatti non collimante con la prova testimoniale (peraltro di due sui tre testi indicati), in quanto le fotografie satellitari dell’area di cui è causa, risalenti al 2002, 2004 e 2019, dimostrano l’esistenza del manufatto in questione soltanto a partire da quest’ultimo anno, con la conseguenza che la prova dell’epoca di realizzazione della suddetta autorimessa resiste al dato desumibile dalle suddette testimonianze (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511) (TAR Lazio-Latina, sentenza 13.07.2020 n. 271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001, nel testo modificato dall'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013, conv. in L. n. 98 del 2013, ricomprende fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli "volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.” Il successivo comma 2 dispone che “Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi (…)”.
La legge 98/2013 ha superato la previgente nozione di ristrutturazione, che non ricomprendeva gli interventi finalizzati a ricostruire edifici allo stato di rudere, sul presupposto che la demolizione e successiva ricostruzione richiedesse necessariamente la sussistenza di un immobile da ristrutturare.
La novella legislativa, infatti, “ha allargato il concetto di ristrutturazione all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un'indagine tecnica.
L'accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell'edificio diruto”.
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come ristrutturazione, che l’originaria consistenza dell’edificio sia individuabile sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili.
Il vincolo della intellegibilità delle caratteristiche del fabbricato demolito non include invece alcun limite in relazione alla maggiore o minore risalenza nel tempo dell’intervento di demolizione.
In definitiva,
la qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione scatta ove sia impossibile l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura), attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.
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... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 9887 di data 28.09.2016, di diniego dell’istanza di autorizzazione del piano attuativo presentata per un intervento di ricostruzione di fabbricato preesistente.
...
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
L'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001, nel testo modificato dall'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013, conv. in L. n. 98 del 2013, ricomprende fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli "volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.” Il successivo comma 2 dispone che “Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi (…)”.
La legge 98/2013 ha superato la previgente nozione di ristrutturazione, che non ricomprendeva gli interventi finalizzati a ricostruire edifici allo stato di rudere, sul presupposto che la demolizione e successiva ricostruzione richiedesse necessariamente la sussistenza di un immobile da ristrutturare.
La novella legislativa, infatti, “ha allargato il concetto di ristrutturazione all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un'indagine tecnica (in tal senso cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 03.10.2019, n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020, n. 631).
L'accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell'edificio diruto (in tal senso cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098)
.” (TAR Liguria Sez. I, 11.06.2020, n. 364; conforme Cass. pen. Sez. III, 28.04.2020, n. 13148).
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come ristrutturazione, che l’originaria consistenza dell’edificio sia individuabile sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili (Cass. pen. Sez. III, 25.06.2015, n. 26713; Cass. pen. Sez. III, 30.09.2014, n. 40342).
Il vincolo della intellegibilità delle caratteristiche del fabbricato demolito non include invece alcun limite in relazione alla maggiore o minore risalenza nel tempo dell’intervento di demolizione.
L’intervento di ricostruzione proposto dai ricorrenti mira a ricostruire un edificio demolito presumibilmente negli anni ‘50, la cui consistenza è evincibile sia dallo stato dei luoghi (conformazione della corte e segni presenti sulla muratura del fabbricato adiacente) sia dalle mappe del cessato catasto fabbricati, dal N.C.U.E. vigente e dalle schede catastali risalenti all’anno 1994. Da tali elementi è possibile rilevare la consistenza planimetrica del fabbricato originario.
La documentazione fotografica storica prodotta anche nel presente giudizio è invece idonea ad attestarne la consistenza volumetrica e le caratteristiche costruttive.
Inoltre il permesso di costruire del 1972, secondo le allegate tavole prodotte in giudizio, già prevedeva la ricostruzione dell’immobile.
Sicché la consistenza originaria dell’edificio può dirsi accertabile.
La qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione scatta -infatti- ove sia impossibile l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura), attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, circostanza che qui non si verifica. Il fabbricato previsto ha infatti una sagoma, un ingombro ed un impatto che risultano nella sostanza del tutto coincidenti con la situazione pregressa.
Né in specie, trattandosi di area vincolata, l’intervento deve considerarsi precluso in relazione alla prevista riduzione dell’altezza originaria dell’edificio, atteso che la sagoma originaria è stata mantenuta e l’allineamento con l’edificio limitrofo è stato introdotto modificando il progetto originario, al fine di corrispondere ad una specifica prescrizione imposta dalle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo paesistico, e quindi mira ad una più efficace tutela dello stesso.
Priva di pregio risulta anche la motivazione allegata dal comune in relazione all’interesse pubblico al mantenimento della destinazione della corte ad area di sosta privata, atteso che detta valutazione risulta inidonea a superare la ricorrenza dei presupposti di applicazione del disposto normativo richiamato dai ricorrenti. Così come il richiamo alle previsioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi, sulle quali prevale –per espressa disposizione normativa– la qualificazione operata dal TU.
Per le esposte considerazioni, in accoglimento dei motivi I, III e V e con assorbimento dei restanti motivi di gravame, il ricorso va accolto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 06.07.2020 n. 517 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACome ha chiarito la giurisprudenza, mentre in precedenza la riedificazione di un rudere era qualificata come nuova costruzione, la novella legislativa del 2013 ha allargato il concetto di ristrutturazione edilizia all’ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un’indagine tecnica.
L’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto.
In proposito, prive di pregio sono le deduzioni della difesa civica, secondo cui le risultanze catastali e la dichiarazione sostitutiva sarebbero totalmente sfornite di qualsivoglia valore probatorio.
Infatti, è certamente vero che l’accatastamento fa stato solo ai fini fiscali. Tuttavia, dati, planimetrie e mappe catastali possono comunque costituire un elemento di prova in ordine alla situazione degli immobili, specialmente se, come nella specie, si inseriscano in modo coerente nel materiale probatorio acquisito agli atti.
Parimenti, in materia di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, la giurisprudenza ha chiarito che le stesse, seppur non sufficienti, da sole, a costituire piena prova, possono comunque assumere valore indiziario, contribuendo a formare un quadro complessivo di elementi concordanti.
In generale, sull’ammissibilità delle dichiarazioni scritte di terzi, si richiama la consolidata giurisprudenza civile in materia di prove c.d. atipiche, tra cui Cass. n. 792/2020 e n. 17932/2015, secondo cui tali scritti, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, sono rimessi alla libera valutazione del giudice e possono fornire utili elementi di convincimento, con la precisazione che tale orientamento, in quanto espressione di principi generali, risulta applicabile al processo amministrativo ex art. 39, comma 1, c.p.a..
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... per l’annullamento del provvedimento del Comune di Varazze prot. n. 24276 del 26.10.2016, comunicato in data 11.11.2016, recante diniego di permesso di costruire per demolizione e ricostruzione, con cambiamento di destinazione d’uso, di fabbricato diruto;
...
1. Con i motivi I), II) e III) della narrativa in fatto, la società ricorrente si duole che il Comune, in base ad una scorretta interpretazione dell’art. 2, comma 1, lett. b), della L.R. n. 49/2009, avrebbe negato rilievo alla determinazione del volume del magazzino diroccato effettuata dal proprio tecnico, travisando le risultanze documentali ed i calcoli conseguentemente eseguiti.
Le censure sono fondate.
1.1. Al fine di promuovere l’adeguamento ed il rinnovo del patrimonio edilizio, la L.R. n. 49/2009 (c.d. Piano casa) consente una serie di interventi in deroga ai piani urbanistici comunali, tra i quali la demolizione e ricostruzione di fabbricati, con possibilità di incremento fino al 35% della volumetria esistente (art. 7, comma 1).
In virtù dell’art. 2, comma 1, lett. b), della medesima L.R. n. 49/2009 è suscettibile di intervento edilizio (nella specie, di demo-ricostruzione) anche l’edificio diruto, vale a dire quello “di cui parti, anche significative e strutturali, siano andate distrutte nel tempo ma di cui sia possibile documentare l’originario inviluppo volumetrico complessivo e la originaria configurazione tipologica, a fini della sua ricostruzione”.
La formulazione della norma è sostanzialmente analoga a quella dell’art. 3, comma 1, lett. d), del d.p.r. n. 380/2001, nel testo modificato dall’art. 30 del d.l. n. 69/2013, conv. in l. n. 98/2013, che ricomprende fra gli interventi di ristrutturazione anche quelli “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Come ha chiarito la giurisprudenza, mentre in precedenza la riedificazione di un rudere era qualificata come nuova costruzione, la novella legislativa del 2013 ha allargato il concetto di ristrutturazione all’ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un’indagine tecnica (in tal senso cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 03.10.2019, n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020, n. 631).
L’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto (in tal senso cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098).
1.2. In applicazione dei richiamati principi, ritiene il Collegio che la deducente abbia prodotto plurimi e coerenti elementi che, oltre a costituire una chiara testimonianza del manufatto sul territorio, permettono di individuarne in maniera attendibile la pregressa effettiva consistenza.
In particolare, i seguenti documenti consentono di accertare dimensioni e caratteristiche dell’edificio da ripristinare:
   - la visura catastale della particella 244 del foglio 49 (doc. 10 ricorrente), classata quale ente urbano con superficie di mq. 29;
   - la mappa catastale del foglio 49 (doc. 2 ricorrente), dalla quale risulta che sulla particella 244 insisteva un fabbricato con antistante corte scoperta;
   - i rilievi fotografici del rudere (doc. 6 ricorrente), nei quali sono visibili, seppur rovinate a terra, tre delle quattro colonne in cemento armato e le tegole del tetto in laterizio alla marsigliese;
   - le fotografie storiche (doc. 4 ricorrente), che, pur riprendendo il rustico a lunga distanza, consentono comunque di tratteggiarne la sagoma;
   - le aerofotogrammetrie del 1975 (doc. 5 ricorrente), nelle quali risulta distintamente riconoscibile il tetto a due falde con copertura in tegole marsigliesi;
   - la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà delle due precedenti proprietarie (doc. 10 ricorrente), le quali hanno attestato che il magazzino aveva una pianta di circa mt. 5 x 5, era coperto da un tetto a due falde e aveva un’altezza massima di mt. 3,5.
In proposito, prive di pregio sono le deduzioni della difesa civica, secondo cui le risultanze catastali e la dichiarazione sostitutiva sarebbero totalmente sfornite di qualsivoglia valore probatorio.
Infatti, è certamente vero che l’accatastamento fa stato solo ai fini fiscali. Tuttavia, dati, planimetrie e mappe catastali possono comunque costituire un elemento di prova in ordine alla situazione degli immobili (in argomento cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 16.04.2015, n. 1957; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 22.05.2020, n. 5424; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 05.05.2020, n. 780), specialmente se, come nella specie, si inseriscano in modo coerente nel materiale probatorio acquisito agli atti (in generale, sulla sinergia tra risultanze catastali ed assetto urbanistico-edilizio del territorio, cfr. Cons. St., sez. II, 08.04.2020, n. 2326).
Parimenti, in materia di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, la giurisprudenza ha chiarito che le stesse, seppur non sufficienti, da sole, a costituire piena prova, possono comunque assumere valore indiziario, contribuendo a formare un quadro complessivo di elementi concordanti (in tal senso cfr., ex aliis, Cons. St., sez. VI, 19.10.2018, n. 5988; TAR Liguria, sez. I, 27.05.2020, n. 327; TAR Piemonte, sez. II, 10.01.2018, n. 45; in generale, sull’ammissibilità delle dichiarazioni scritte di terzi, si richiama la consolidata giurisprudenza civile in materia di prove c.d. atipiche, tra cui Cass. n. 792/2020 e n. 17932/2015, secondo cui tali scritti, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, sono rimessi alla libera valutazione del giudice e possono fornire utili elementi di convincimento, con la precisazione che tale orientamento, in quanto espressione di principi generali, risulta applicabile al processo amministrativo ex art. 39, comma 1, c.p.a.).
Pertanto, sulla base delle risultanze documentali sopra indicate e delle misurazioni eseguite in loco (essendo le colonne crollate ma ancora sostanzialmente integre), il tecnico della ricorrente ha individuato la pianta del fabbricato in un rettangolo di mt. 5,27 x 4,05, con una superficie di mq. 21,34, ed ha conseguentemente calcolato il volume dell’edificio preesistente in mc. 67,01 (cfr. la tavola 5 di progetto, doc. 8 ricorrente).
La planimetria catastale prodotta dal Comune (doc. 8 resistente), lungi dal porsi in contrasto con la suddetta ricostruzione, ne costituisce anzi piena conferma, in quanto raffigura, sulla particella 244, sia il manufatto con pianta rettangolare, avente base e altezza di dimensioni quasi uguali, sia il cortile antistante.
Tale elaborato planimetrico risulta quindi perfettamente concordante con i risultati delle misurazioni del professionista, che, come si è detto, ha determinato la superficie della pianta del manufatto in mq. 21,34, nell’ambito della maggior superficie dell’intero mappale pari a mq. 29, in quanto comprendente anche la corte esterna.
Né la suddetta planimetria contrasta con la dichiarazione delle danti causa, secondo cui la pianta dell’edificio era di circa mt. 5 x 5, dal momento che proprio tale elaborato catastale dimostra che la base e l’altezza della pianta avevano dimensioni quasi uguali, sì da risultare visivamente molto simili ai lati di un quadrato.
Per quanto riguarda l’altezza del fabbricato, i tre pilastri in c.l.a. presenti in situ misurano mt. 3 e, pertanto, comprovano che tale era l’altezza di gronda. L’altezza di colmo è stata invece individuata dal tecnico in circa mt. 3,5, partendo dal dato oggettivo che l’inclinazione delle tegole marsigliesi non è mai inferiore al 30% e procedendo alla ricostruzione grafica sulla base di tale parametro (cfr. doc. 10 ricorrente).
Anche la rappresentazione del tetto, quindi, coincide perfettamente con la dichiarazione delle precedenti proprietarie, secondo cui la copertura aveva un’altezza massima di mt. 3,5.
Infine, come osservato da parte ricorrente, il Comune ha travisato l’elaborato predisposto dal professionista, in quanto ha ritenuto che questi abbia incluso nel computo del volume anche l’area corrispondente alla corte esterna. Dalla tavola n. 5 (doc. 8 ricorrente) risulta invece palese che il perito ha correttamente quantificato la cubatura del manufatto preesistente, prendendo come base la sola pianta di mq. 21,34 (e non l’intera superficie del mappale di mq. 29).
È pertanto evidente che il tecnico della deducente ha ricostruito la volumetria dell’edificio diroccato in maniera attendibile e tecnicamente verificabile, sulla base di documenti e dati oggettivi.
Per contro, il diniego dell’amministrazione resistente si fonda su un’erronea lettura del progetto presentato dall’esponente e si risolve, in sostanza, in un’interpretazione abrogante dell’art. 2, comma 1, lett. b), della L.R. n. 49/2009.
2. In relazione a quanto precede, il ricorso si appalesa fondato e va, dunque, accolto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 11.06.2020 n. 364 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre in precedenza la riedificazione di un rudere era qualificata come nuova costruzione, la novella legislativa del 2013 ha allargato il concetto di ristrutturazione all’ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un’indagine tecnica.
L’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto.
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certamente vero che l’accatastamento fa stato solo ai fini fiscali. Tuttavia, dati, planimetrie e mappe catastali possono comunque costituire un elemento di prova in ordine alla situazione degli immobili, specialmente se, come nella specie, si inseriscano in modo coerente nel materiale probatorio acquisito agli atti.
Parimenti, in materia di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, la giurisprudenza ha chiarito che le stesse, seppur non sufficienti, da sole, a costituire piena prova, possono comunque assumere valore indiziario, contribuendo a formare un quadro complessivo di elementi concordanti (in generale, sull’ammissibilità delle dichiarazioni scritte di terzi, si richiama la consolidata giurisprudenza civile in materia di prove c.d. atipiche secondo cui tali scritti, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, sono rimessi alla libera valutazione del giudice e possono fornire utili elementi di convincimento, con la precisazione che tale orientamento, in quanto espressione di principi generali, risulta applicabile al processo amministrativo ex art. 39, comma 1, c.p.a.).

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1. Con i motivi I), II) e III) della narrativa in fatto, la società ricorrente si duole che il Comune, in base ad una scorretta interpretazione dell’art. 2, comma 1, lett. b) della L.R. n. 49/2009, avrebbe negato rilievo alla determinazione del volume del magazzino diroccato effettuata dal proprio tecnico, travisando le risultanze documentali ed i calcoli conseguentemente eseguiti.
Le censure sono fondate.
1.1. Al fine di promuovere l’adeguamento ed il rinnovo del patrimonio edilizio, la L.R. n. 49/2009 (c.d. Piano casa) consente una serie di interventi in deroga ai piani urbanistici comunali, tra i quali la demolizione e ricostruzione di fabbricati, con possibilità di incremento fino al 35% della volumetria esistente (art. 7, comma 1).
In virtù dell’art. 2, comma 1, lett. b), della medesima L.R. n. 49/2009 è suscettibile di intervento edilizio (nella specie, di demo-ricostruzione) anche l’edificio diruto, vale a dire quello “di cui parti, anche significative e strutturali, siano andate distrutte nel tempo ma di cui sia possibile documentare l’originario inviluppo volumetrico complessivo e la originaria configurazione tipologica, a fini della sua ricostruzione”.
La formulazione della norma è sostanzialmente analoga a quella dell’art. 3, comma 1, lett. d), del d.p.r. n. 380/2001, nel testo modificato dall’art. 30 del d.l. n. 69/2013, conv. in l. n. 98/2013, che ricomprende fra gli interventi di ristrutturazione anche quelli “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Come ha chiarito la giurisprudenza, mentre in precedenza la riedificazione di un rudere era qualificata come nuova costruzione, la novella legislativa del 2013 ha allargato il concetto di ristrutturazione all’ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un’indagine tecnica (in tal senso cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 03.10.2019, n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020, n. 631).
L’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto (in tal senso cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098).
1.2. In applicazione dei richiamati principi, ritiene il Collegio che la deducente abbia prodotto plurimi e coerenti elementi che, oltre a costituire una chiara testimonianza del manufatto sul territorio, permettono di individuarne in maniera attendibile la pregressa effettiva consistenza.
In particolare, i seguenti documenti consentono di accertare dimensioni e caratteristiche dell’edificio da ripristinare:
   - la visura catastale della particella 244 del foglio 49 (doc. 10 ricorrente), classata quale ente urbano con superficie di mq. 29;
   - la mappa catastale del foglio 49 (doc. 2 ricorrente), dalla quale risulta che sulla particella 244 insisteva un fabbricato con antistante corte scoperta;
   - i rilievi fotografici del rudere (doc. 6 ricorrente), nei quali sono visibili, seppur rovinate a terra, tre delle quattro colonne in cemento armato e le tegole del tetto in laterizio alla marsigliese;
   - le fotografie storiche (doc. 4 ricorrente), che, pur riprendendo il rustico a lunga distanza, consentono comunque di tratteggiarne la sagoma;
   - le aerofotogrammetrie del 1975 (doc. 5 ricorrente), nelle quali risulta distintamente riconoscibile il tetto a due falde con copertura in tegole marsigliesi;
   - la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà delle due precedenti proprietarie (doc. 10 ricorrente), le quali hanno attestato che il magazzino aveva una pianta di circa mt. 5 x 5, era coperto da un tetto a due falde e aveva un’altezza massima di mt. 3,5.
In proposito, prive di pregio sono le deduzioni della difesa civica, secondo cui le risultanze catastali e la dichiarazione sostitutiva sarebbero totalmente sfornite di qualsivoglia valore probatorio.
Infatti, è certamente vero che l’accatastamento fa stato solo ai fini fiscali. Tuttavia, dati, planimetrie e mappe catastali possono comunque costituire un elemento di prova in ordine alla situazione degli immobili (in argomento cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 16.04.2015, n. 1957; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 22.05.2020, n. 5424; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 05.05.2020, n. 780), specialmente se, come nella specie, si inseriscano in modo coerente nel materiale probatorio acquisito agli atti (in generale, sulla sinergia tra risultanze catastali ed assetto urbanistico-edilizio del territorio, cfr. Cons. St., sez. II, 08.04.2020, n. 2326).
Parimenti, in materia di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, la giurisprudenza ha chiarito che le stesse, seppur non sufficienti, da sole, a costituire piena prova, possono comunque assumere valore indiziario, contribuendo a formare un quadro complessivo di elementi concordanti (in tal senso cfr., ex aliis, Cons. St., sez. VI, 19.10.2018, n. 5988; TAR Liguria, sez. I, 27.05.2020, n. 327; TAR Piemonte, sez. II, 10.01.2018, n. 45; in generale, sull’ammissibilità delle dichiarazioni scritte di terzi, si richiama la consolidata giurisprudenza civile in materia di prove c.d. atipiche, tra cui Cass. n. 792/2020 e n. 17932/2015, secondo cui tali scritti, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, sono rimessi alla libera valutazione del giudice e possono fornire utili elementi di convincimento, con la precisazione che tale orientamento, in quanto espressione di principi generali, risulta applicabile al processo amministrativo ex art. 39, comma 1, c.p.a.).
Pertanto, sulla base delle risultanze documentali sopra indicate e delle misurazioni eseguite in loco (essendo le colonne crollate ma ancora sostanzialmente integre), il tecnico della ricorrente ha individuato la pianta del fabbricato in un rettangolo di mt. 5,27x4,05, con una superficie di mq. 21,34, ed ha conseguentemente calcolato il volume dell’edificio preesistente in mc. 67,01 (cfr. la tavola 5 di progetto, doc. 8 ricorrente).
La planimetria catastale prodotta dal Comune (doc. 8 resistente), lungi dal porsi in contrasto con la suddetta ricostruzione, ne costituisce anzi piena conferma, in quanto raffigura, sulla particella 244, sia il manufatto con pianta rettangolare, avente base e altezza di dimensioni quasi uguali, sia il cortile antistante.
Tale elaborato planimetrico risulta quindi perfettamente concordante con i risultati delle misurazioni del professionista, che, come si è detto, ha determinato la superficie della pianta del manufatto in mq. 21,34, nell’ambito della maggior superficie dell’intero mappale pari a mq. 29, in quanto comprendente anche la corte esterna.
Né la suddetta planimetria contrasta con la dichiarazione delle danti causa, secondo cui la pianta dell’edificio era di circa mt. 5x5, dal momento che proprio tale elaborato catastale dimostra che la base e l’altezza della pianta avevano dimensioni quasi uguali, sì da risultare visivamente molto simili ai lati di un quadrato.
Per quanto riguarda l’altezza del fabbricato, i tre pilastri in c.l.a. presenti in situ misurano mt. 3 e, pertanto, comprovano che tale era l’altezza di gronda. L’altezza di colmo è stata invece individuata dal tecnico in circa mt. 3,5, partendo dal dato oggettivo che l’inclinazione delle tegole marsigliesi non è mai inferiore al 30% e procedendo alla ricostruzione grafica sulla base di tale parametro (cfr. doc. 10 ricorrente).
Anche la rappresentazione del tetto, quindi, coincide perfettamente con la dichiarazione delle precedenti proprietarie, secondo cui la copertura aveva un’altezza massima di mt. 3,5.
Infine, come osservato da parte ricorrente, il Comune ha travisato l’elaborato predisposto dal professionista, in quanto ha ritenuto che questi abbia incluso nel computo del volume anche l’area corrispondente alla corte esterna. Dalla tavola n. 5 (doc. 8 ricorrente) risulta invece palese che il perito ha correttamente quantificato la cubatura del manufatto preesistente, prendendo come base la sola pianta di mq. 21,34 (e non l’intera superficie del mappale di mq. 29).
È pertanto evidente che il tecnico della deducente ha ricostruito la volumetria dell’edificio diroccato in maniera attendibile e tecnicamente verificabile, sulla base di documenti e dati oggettivi.
Per contro, il diniego dell’amministrazione resistente si fonda su un’erronea lettura del progetto presentato dall’esponente e si risolve, in sostanza, in un’interpretazione abrogante dell’art. 2, comma 1, lett. b), della L.R. n. 49/2009.
2. In relazione a quanto precede, il ricorso si appalesa fondato e va, dunque, accolto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 11.06.2020 n. 364 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPerché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”.
In mancanza di sufficienti elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza originaria dell’edificio da consolidare ed eventuali ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
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8.1 Con l’unico ordine di doglianze, la ricorrente contesta il diniego di permesso di costruire in sanatoria impugnato laddove avrebbe erroneamente qualificato l’intervento edilizio di cui alla istanza del 02.09.2016 come “nuova costruzione”, omettendo di fare applicazione della disciplina vigente in materia di ristrutturazioni edilizie e di interventi di restauro e risanamento conservativo.
8.2 La censura è priva di pregio.
8.3 Per indirizzo giurisprudenziale consolidato, pienamente condiviso dal Collegio, perché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizianel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014, n. 5174).
In mancanza di sufficienti elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza originaria dell’edificio da consolidare ed eventuali ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.03.2016, n. 1025).
8.4 Traslando i superiori principi all’odierno gravame, le conclusioni cui perviene il provvedimento di diniego impugnato sfuggono alle proposte censure.
Ed invero, l’intervento edilizio oggetto della istanza di sanatoria presentata dalla ricorrente aveva le caratteristiche di una nuova costruzione ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380 del 2001 e non di una ristrutturazione edilizia.
In tal senso depongono le risultanze degli accertamenti istruttori eseguiti dall’Amministrazione procedente, e segnatamente il verbale di sopralluogo compiuto in data 06.09.2016 da personale dello Sportello Unico Edilizia e della Polizia Municipale, da cui si evince che “sul rudere oggetto dei lavori e nell’adiacente corte, in luogo di un mero consolidamento delle strutture murarie si realizzavano opere murarie prima non esistenti. In particolare la porzione sud del rudere veniva ricostruita ed elevata uniformemente fino alla quota massima di ml. 4,50 dal piano di calpestio (ml. 5,90 misurati dal piede della scarpata sud, sottostante) ricostruendo una consistente parte del paramento murario. La struttura realizzata si configura come struttura muraria in elevazione (superiore a m. 3) e non come consolidamento di muratura esistente di cui alla iniziale CILA prot. 35034/2016)”. Dal medesimo verbale risulta che sulla struttura muraria in elevazione veniva realizzato un pergolato di 19,18 mq, inserito in un contesto di opere di sistemazione del terreno fatte di nuova pavimentazione, gradini e muri perimetrali.
Dalla documentazione fotografica della Polizia Municipale, acquisita al procedimento e versata in atti, si evince altresì che prima dell’intervento edilizio oggetto della istanza di sanatoria esisteva in loco esclusivamente il rudere di una porzione di muro sul solo lato sud di un vecchio fabbricato. Poiché tale rudere, per caratteristiche dimensionali, non permetteva di risalire all’originaria consistenza del vecchio fabbricato (ampiezza ed altezza), ne discende, in ossequio ai ricordati indirizzi giurisprudenziali, l’impossibilità di fare nella specie applicazione della disciplina della ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001.
In altri termini, come correttamente dedotto dal Ministero riferente, la ricostruzione di un rudere può essere ascritta alla ristrutturazione edilizia soltanto se preesistano all’intervento le caratteristiche dimensionali e strutturali dell’organismo edilizio originario che si intende recuperare. Non nei casi in cui, come nella vicenda controversa, il rudere consisteva nella rimanenza di un muro perimetrale, insistente soltanto su uno dei quattro lati, privo di copertura e di strutture orizzontali. In tale evenienza, deve essere difatti negata in radice la stessa preesistenza di un organismo edilizio e, pertanto, deve ritenersi preclusa l’applicazione della disciplina relativa alle ristrutturazioni edilizie.
8.5 Per gli argomenti che precedono, l’Amministrazione comunale ha correttamente qualificato l’intervento edilizio oggetto dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria come “nuova costruzione”, facendo conseguente applicazione della relativa disciplina sulle distanze dai confini e dai fabbricati (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 08.06.2020 n. 1095 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il “ripristino” di edifici, per integrare ristrutturazione edilizia, richiede l’esistenza almeno di un rudere o comunque di resti attestanti la passata presenza dell’edificio e comportanti un impegno di suolo ancora in essere, a prescindere dalla loro incapacità di rivelare la consistenza originaria dell’immobile, cui sia necessario pervenire attraverso un’indagine storico-tecnica.
Nel vigore del testo originario dell’art. 3 DPR 380/2001, la giurisprudenza riteneva che, per aversi ristrutturazione edilizia, fosse comunque necessaria la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a farlo giudicare presente nella realtà materiale. La ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio, veniva pertanto ricondotta nell’alveo della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come tale.
Tale indirizzo sembra destinato al superamento alla luce dell’intervento legislativo che ha esteso l’ambito della ristrutturazione alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire alla consistenza iniziale. Tuttavia, il collegio ritiene che, per quanto allargato, il concetto di ristrutturazione non possa ontologicamente prescindere quantomeno dall’apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione e che è rappresentato, a norma della definizione generale dettata dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001, dalla “trasformazione” di organismi edilizi, la quale presuppone che l’intervento si riferisca a una porzione di territorio a sua volta già compiutamente trasformata.
Connaturata alla ristrutturazione edilizia è la ragion d’essere del recupero e della riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, strumentale alla sempre più avvertita esigenza di contenere il consumo di suolo. E tale è la ratio sottesa allo stesso art. 30 del d.l. n. 69/2013, come si ricava dai lavori preparatori e, segnatamente, dalla relazione illustrativa del decreto-legge, che dà conto della volontà del legislatore di estendere il campo applicativo della ristrutturazione, includendovi anche la ricostruzione degli edifici crollati o demoliti, proprio in vista dell’obiettivo di evitare per quanto possibile l’ulteriore consumo del territorio (“Al fine di favorire la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente ed evitare ulteriore consumo del territorio, si agevolano gli interventi di ristrutturazione edilizia volti a ricostruire un edificio con il medesimo volume dell'edificio demolito, ma anche con sagoma diversa dal precedente, e si ricomprendono tra gli interventi di demolizione e ricostruzione classificati come interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”).
Se così è, il testo novellato dell’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 deve essere letto nel senso che il “ripristino” di edifici, per integrare ristrutturazione, richieda l’esistenza almeno di un rudere o comunque di resti attestanti la passata presenza dell’edificio e comportanti un impegno di suolo ancora in essere, a prescindere dalla loro incapacità di rivelare la consistenza originaria dell’immobile, cui sia necessario pervenire attraverso un’indagine storico-tecnica.

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2.4. Il ricorso è infondato.
2.4.1. Il provvedimento impugnato riposa su un assunto di fondo: che l’intervento proposto dalla società ricorrente debba essere qualificato in termini di nuova costruzione, e non di ristrutturazione edilizia, avuto riguardo alla situazione di fatto consolidatasi a seguito dell’avvenuta demolizione o crollo, sin dalla seconda metà degli anni ’60, del ponticello preesistente.
Sul punto specifico, la ricorrente invoca di contro l’art. 3, co. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001, che, nel testo modificato dall’art. 30 del d.l. n. 69/2013, ammetterebbe la ricostruzione anche degli edifici crollati o demoliti dei quali non siano rimaste tracce, a condizione che sia possibile risalire alla loro consistenza originaria e indipendentemente dal tempo trascorso dal crollo o dalla demolizione.
In effetti, a seguito della novella del 2013, l’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 include fra gli interventi di ristrutturazione edilizia il “ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, all’ulteriore condizione, per gli immobili sottoposti a vincoli, che sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente.
Correlativamente, l’art. 134, co. 1, della legge urbanistica toscana n. 65/2014 qualifica oggi come interventi di “ristrutturazione edilizia ricostruttiva” quelli consistenti nel “ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e configurazione” (lett. h), dai quali distingue “il ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e configurazione, attraverso interventi di ricostruzione comportanti modifiche della sagoma originaria, laddove si tratti di immobili sottoposti ai vincoli di cui al Codice” (lett. i).
Nel vigore del testo originario dell’art. 3 cit., la giurisprudenza riteneva che, per aversi ristrutturazione edilizia, fosse comunque necessaria la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a farlo giudicare presente nella realtà materiale. La ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio, veniva pertanto ricondotta nell’alveo della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come tale (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 05.12.2016, n. 5106, e i numerosi precedenti ivi citati).
Tale indirizzo sembra destinato al superamento alla luce dell’intervento legislativo che ha esteso l’ambito della ristrutturazione alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire alla consistenza iniziale. Tuttavia, il collegio ritiene che, per quanto allargato, il concetto di ristrutturazione non possa ontologicamente prescindere quantomeno dall’apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione e che è rappresentato, a norma della definizione generale dettata dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001, dalla “trasformazione” di organismi edilizi, la quale presuppone che l’intervento si riferisca a una porzione di territorio a sua volta già compiutamente trasformata (da ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 04.02.2020, n. 907).
Connaturata alla ristrutturazione edilizia è la ragion d’essere del recupero e della riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, strumentale alla sempre più avvertita esigenza di contenere il consumo di suolo. E tale è la ratio sottesa allo stesso art. 30 del d.l. n. 69/2013, come si ricava dai lavori preparatori e, segnatamente, dalla relazione illustrativa del decreto-legge, che dà conto della volontà del legislatore di estendere il campo applicativo della ristrutturazione, includendovi anche la ricostruzione degli edifici crollati o demoliti, proprio in vista dell’obiettivo di evitare per quanto possibile l’ulteriore consumo del territorio (“Al fine di favorire la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente ed evitare ulteriore consumo del territorio, si agevolano gli interventi di ristrutturazione edilizia volti a ricostruire un edificio con il medesimo volume dell'edificio demolito, ma anche con sagoma diversa dal precedente, e si ricomprendono tra gli interventi di demolizione e ricostruzione classificati come interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”).
Se così è, il testo novellato dell’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 deve essere letto nel senso che il “ripristino” di edifici, per integrare ristrutturazione, richieda l’esistenza almeno di un rudere o comunque di resti attestanti la passata presenza dell’edificio e comportanti un impegno di suolo ancora in essere, a prescindere dalla loro incapacità di rivelare la consistenza originaria dell’immobile, cui sia necessario pervenire attraverso un’indagine storico-tecnica.
La conclusione non è smentita dalla giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, la quale, pur tratteggiando in termini generali i nuovi confini della ristrutturazione edilizia a seguito del d.l. n. 69/2013, nel caso concreto si trova a fare applicazione della disciplina anteriore e perciò non approfondisce in fatto il tema della consistenza dei resti della costruzione crollata (tema irrilevante ai fini di quella decisione, stante la tradizionale equivalenza fra “rudere” ed “edificio non più esistente” stabilita dall’interpretazione pretoria nel regime ante d.l. n. 69/2013: cfr. Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2019, n. 6654, la quale, per di più, riguarda il caso di un edificio ricostruito nella quasi immediatezza del crollo) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.05.2020 n. 631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASembra opportuno richiamare l'evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di "ristrutturazione" avente ad oggetto un "rudere".
Prima della modifica legislativa intervenuta nel 2013, la formulazione dell'art. 3 D.P.R. n. 380/2001 non apriva alla possibilità di ricondurre la ricostruzione di un rudere entro la nozione di ristrutturazione, venendo al contrario qualificata come intervento del tutto nuovo per il quale, pertanto, doveva ritenersi indefettibile la sussistenza del permesso di costruire.
In seguito alla modifica del suddetto art. 3, lett. d), con il c.d. Decreto "del fare" (D.L. n. 69/2013), il concetto di ristrutturazione è stato ampliato, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ai sensi del D.lgs. n. 42/2004, introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
La disposizione in esame, nella formulazione attualmente vigente, definisce come "interventi di ristrutturazione edilizia" quelli «rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del dlgs 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
Il testo della norma consente di individuare due distinte ipotesi di ristrutturazione:
   - la prima attiene ad una tipologia di intervento che può comportare il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, nonché l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti;
   - la seconda, invece, considera la possibilità della demolizione e ricostruzione nel rispetto dell'originaria volumetria ed, in presenza di vincolo, anche della sagoma.
La giurisprudenza amministrativa ha denominato la prima ristrutturazione "conservativa" e la seconda ristrutturazione "ricostruttiva".
Questa Corte, inoltre, ha avuto modo di precisare che, considerata la disciplina vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Diversamente, sono assoggettati alla procedura semplificata della SCIA gli interventi aventi ad oggetto opere non rientranti in zona paesaggisticamente vincolata, rispettando la preesistente volumetria, anche ove venga modificata la sagoma dell'edificio.
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2.2. Deduce il ricorrente, con il secondo motivo, il vizio di cui all'art. 606, lett. b) c.p.p. in relazione agli artt. 3, co. 1, lett. b) e/o d), 10, 22, 23 D.P.R. n. 380/2001, nella parte in cui si disapplicano i criteri imposti dalla predetta normativa, ai fini del riconoscimento della tipologia di ristrutturazione de quo senza variazione di volume.
Si censura, in quanto contrario all'art. 3, co. 1, lett. b) e/o d), D.P.R. n. 380/2001, l'apprezzamento operato dal giudice del riesame circa la non riconducibilità dell'intervento edilizio alla tipologia della "manutenzione straordinaria" e/o della "ristrutturazione edilizia" in conseguenza della diversità di sagome dell'edificato risultante dai lavori eseguiti. Sia la lett. b) che la lett. d) del summenzionato art. 3 escluderebbero, infatti, l'apprezzabilità della sagoma ai fini della qualificazione dell'intervento quale manutenzione straordinaria o ristrutturazione edilizia. Elemento da valutare sarebbe infatti la sola volumetria.
Erroneamente, pertanto, il Tribunale di Messina avrebbe posto in essere una comparazione tra la forma della pianta e la superficie della stessa, essendo tali parametri sconosciuti alla disciplina di riferimento sopra richiamata. Il ricorrente richiama, inoltre, l'art. 10, d.P.R. n. 380/2001 il quale, nel catalogare gli interventi subordinati a permesso di costruire, vi riconduce le ristrutturazioni che "comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici" ovvero che "non comportino modificazioni della sagoma" relativamente agli immobili "sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42". Tra questi ultimi non rientrerebbe quello oggetto del presente giudizio.
In ogni caso, ad avviso del ricorrente, ove vi fosse stata una modifica della volumetria tra l'esistente ed il ristrutturato, l'intervento sarebbe da ritenere legittimo in ragione dell'avvenuta presentazione della SCIA ai sensi dell'art. 23, co. 1, lett. a), D.P.R. n. 380/2001. L'ordinanza sarebbe dunque illegittima nella parte in cui sostituisce all'accertamento circa la corrispondenza della volumetria il parametro della superficie e della sagoma.
...
5. Non merita accoglimento anche il secondo motivo del ricorso.
Sembra opportuno richiamare l'evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di "ristrutturazione" avente ad oggetto un "rudere".
Prima della modifica legislativa intervenuta nel 2013, la formulazione dell'art. 3 D.P.R. n. 380/2001 non apriva alla possibilità di ricondurre la ricostruzione di un rudere entro la nozione di ristrutturazione, venendo al contrario qualificata come intervento del tutto nuovo per il quale, pertanto, doveva ritenersi indefettibile la sussistenza del permesso di costruire (Cass., Sez. III, 26.10.2007, n. 45240; Cass., Sez. III, 23.01.2007, n. 15054; Cass., Sez. III, 13.01.2006, n. 20776).
In seguito alla modifica del suddetto art. 3, lett. d), con il c.d. Decreto "del fare" (D.L. n. 69/2013), il concetto di ristrutturazione è stato ampliato, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ai sensi del D.lgs. n. 42/2004, introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
La disposizione in esame, nella formulazione attualmente vigente, definisce come "interventi di ristrutturazione edilizia" quelli «rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
Il testo della norma consente di individuare due distinte ipotesi di ristrutturazione:
   - la prima attiene ad una tipologia di intervento che può comportare il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, nonché l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti;
   - la seconda, invece, considera la possibilità della demolizione e ricostruzione nel rispetto dell'originaria volumetria ed, in presenza di vincolo, anche della sagoma.
La giurisprudenza amministrativa ha denominato la prima ristrutturazione "conservativa" e la seconda ristrutturazione "ricostruttiva" (Cons. di Stato, Sez. V, 05.12.2014, n. 5988).
Questa Corte, inoltre, ha avuto modo di precisare che, considerata la disciplina vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Diversamente, sono assoggettati alla procedura semplificata della SCIA gli interventi aventi ad oggetto opere non rientranti in zona paesaggisticamente vincolata, rispettando la preesistente volumetria, anche ove venga modificata la sagoma dell'edificio (Cass., Sez. III, 03.06.2014, n. 40342) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.04.2020 n. 13148).

EDILIZIA PRIVATA: Integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d.lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura.
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Né assume rilievo la deduzione difensiva che sul luogo della edificazione esistesse "un rudere", in quanto i Giudici di merito hanno rimarcato che non risultava fornita la prova né dell'esistenza del vecchio fabbricato né della sua consistenza, che sarebbe dovuta rimanere inalterata nella sagoma e nel volume.
Va ricordato che questa Corte ha affermato che integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d.lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Rv. 260552 - 01) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.04.2020 n. 12388).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla possibilità di ricostruire fabbricati non più esistenti di cui non si conoscono le altezze originarie - Comune di Spigno Saturnia (Regione Lazio, nota 23.01.2020 n. 62118 di prot.).

anno 2019

EDILIZIA PRIVATACiò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele", comunque rispettosa della volumetria e, nell'ipotesi di immobili vincolati, anche della sagoma della costruzione preesistente.
Infatti, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente.
È stato affermato in proposito che “La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire”; non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi analoghi la giurisprudenza ha preteso che l'immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà materiale).
Del resto la c.d. demo-ricostruzione -ovvero un'incisiva forma di recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia- tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere.
L'attività di ricostruzione di ruderi deve considerarsi, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi perduto i caratteri dell'entità urbanistico-edilizia originaria sia in termini strutturali che funzionali; imprescindibile condizione perché sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato, è che tale accertamento venga effettuato con il massimo rigore e si fondi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie, etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente, e non dunque "studi storici" o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato.
In definitiva, non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; bisogna procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio.
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... per l'annullamento, previa sospensione, del provvedimento 20/06/2018 prot. n. 2748 di diniego della richiesta di permesso di costruire prot. n. 1665 dell’11/04/2018; del preavviso di diniego 29/05/2018 prot. n. 2387, nonché degli atti presupposti.
...
1. Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce la violazione dell’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001, della Legge n. 241/1990, nonché l’eccesso di potere per difetto dei presupposti e di istruttoria.
2. Il Collegio, preso atto della rinuncia di parte ricorrente all’applicazione dell’art. 7, comma 8-bis, della L.R. n. 19/2009 e della concentrazione del provvedimento di diniego sul rimanente motivo, ritiene in via preliminare, quanto alla normativa rilevante ai fini del decidere, di osservare che il D.L. n. 69/2013 (conosciuto anche come "Decreto del fare"), convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 98/2013, intervenendo sul DPR n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), ha considerevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
Oggi gli interventi di ristrutturazione sono essenzialmente quelli "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente".
2.1 E’ ben chiaro a questo Organo giudicante che ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele", comunque rispettosa della volumetria e, nell'ipotesi di immobili vincolati, anche della sagoma della costruzione preesistente.
Infatti, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente (Cass. civile, II, 30/06/2017, n. 16268).
È stato affermato in proposito che “La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire” (Cons. Stato, IV, 15/09/2006, n. 5375); non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi analoghi la giurisprudenza ha preteso che l'immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà materiale: Cons. Stato, V, 21/10/2014, n. 5174; 15/03/1990, n. 293; 20/12/1985, n. 485).
2.2 Del resto la c.d. demo-ricostruzione -ovvero un'incisiva forma di recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia- tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere (Cons. Stato, V, 10/02/2004, n. 475).
L'attività di ricostruzione di ruderi deve considerarsi, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi perduto i caratteri dell'entità urbanistico-edilizia originaria sia in termini strutturali che funzionali (Cons. Stato, VI, 05/12/2016, n. 5106); imprescindibile condizione perché sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato, è che tale accertamento venga effettuato con il massimo rigore e si fondi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie, etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente, e non dunque "studi storici" o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato.
In definitiva, non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; bisogna procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio.
3. Ciò premesso, l'onere della prova dell'ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale, ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr. Cons. Stato, VI, 05/03/2018, n. 1391).
Accade che il privato da un lato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili (aeorofotgrammetrie e dichiarazioni sostitutive di edificazione ante 01/09/1967) e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio.
Nella fattispecie, ciò ai fini dell’accoglimento del ricorso, parte ricorrente ha fornito elementi quali:
   - la planimetria catastale richiamata nell’atto pubblico del 24/10/1996 che comprova la reale consistenza in scala 1:200 dell’immobile oggetto dell’intervento di ristrutturazione edilizia, ovvero piano terra e primo piano rispettivamente di altezza mt. 3,80 e 3,70;
   - la specificazione sempre in detto atto che il fabbricato è composto di nove vani tra piano terra e primo piano;
   - i rilievi fotografici dello stato di fatto indicati nella stessa tavola in cui si nota che l’altezza dei muri perimetrali è maggiore dei mt. 3,80 del piano terra;
   - la ricostruzione grafica dell’immobile sulla base dei voli effettuati dall’Aeronautica militare.
3.1 Il Collegio con tali premesse, come peraltro ritenuto al concorrere di simili presupposti da giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 19/10/2018, n. 5988) richiamata da parte ricorrente, è dell’avviso che, conformemente ai principi sopra richiamati, la parte privata abbia fornito una serie di elementi coerenti e plurimi in ordine alla consistenza dell'immobile preesistente, previa ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, risultando integrate le caratteristiche essenziali minime per poter essere oggetto di un intervento di ristrutturazione.
Rispetto a tali elementi, non risulta che il Comune abbia svolto il necessario approfondimento istruttorio e motivazionale, essendosi limitato a formule generiche e sostanzialmente di stile; in pratica, dopo che successivamente al preavviso di diniego del 29/05/2018 parte ricorrente aveva rinunciato alla volumetria aggiuntiva dichiarando di voler rispettare la sagoma ed il preesistente posizionamento sull’area di sedime, nella parte dispositiva del provvedimento definitivo del 20/06/2018 (pag. 3) si è insistito nel sottolineare ai punti 1.b) e 1.c) la non applicabilità della L.R. n. 19/2009, ormai non più rilevante, mentre, al contrario, non sono state puntualmente esplicitate le ragioni giuridiche a giustificazione della reiezione a seguito di un’istruttoria che non poteva prescindere dai sopraindicati documenti forniti dall’istante, non risultando così possibile verificare l’avvenuto rispetto dei limiti della discrezionalità e della giustificata restrizione della sfera giuridica della parte privata.
Inoltre, si è genericamente asserito che lo stabile sarebbe stato demolito tra il 1981 ed il 1982, laddove tale assunto è smentito in atti, ove si consideri che il fabbricato è tutt’oggi presente nella sua realtà materiale; semmai una parte era stata oggetto di demolizione nell’ambito di un procedimento di espropriazione finalizzato all’ampliamento della confinante strada Madonna della Neve, ma trattasi di sezione che non era stata oggetto di valutazione ai fini del calcolo della volumetria assentibile.
3.2 In altri termini, a fronte dei plurimi e coerenti documenti in ordine alla consistenza dell'immobile preesistente, il Comune ha erroneamente valutato che nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti, tanto nello spazio quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, nelle fondamenta, nelle aerofotogrammetrie e nelle mappe catastali, ragion per cui la prova dell'epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi in ordine ai quali è onere del privato, che contesti il dato dell'Amministrazione, fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell'immobile, superando quella fornita dalla parte pubblica (Cons. Stato, IV, 09/02/2016, n. 511).
Nel caso di specie, in particolare, la Pubblica Amministrazione non ha fornito la necessaria prova, limitandosi a valutare come irrilevanti gli elementi concreti forniti attraverso formule di stile non sufficienti alla luce dei principi sopra richiamati, ciò sul presupposto che oggi sarebbe presente solo parte della muratura perimetrale e l’intervento richiesto ricadrebbe nella categoria della nuova costruzione.
4. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento dei provvedimenti oggetto di impugnazione (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 23.12.2019 n. 6098 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA seguito della modifica legislativa, dovuta al d.l. 21.07.2013 n. 69, che ha inserito nella lett. d) del comma 1 dell’art. 3 T.U.ED. il riferimento agli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione” quest'ultimi, ad oggi, rientrano nel concetto di "ristrutturazione edilizia" “purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Rispetto al regime previgente, quindi, il concetto di "ristrutturazione edilizia" è stato allargato al caso di edificio che più non esiste, di cui però la consistenza originaria si può ricostruire, evidentemente con un’indagine tecnica, ipotesi che la giurisprudenza in precedenza escludeva.
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1. L’appello è fondato e va accolto, ai sensi e nei limiti di quanto segue.
2. Il primo motivo di appello, centrato in sintesi sulla impossibilità di assentire la costruzione sanata in base alle norme edilizie vigenti in quel momento, è fondato ed assorbente.
2.1 Anzitutto, non è controverso in fatto quanto si è spiegato in narrativa, ovvero che il fabbricato originario di proprietà della controinteressata appellata è crollato il giorno 11.05.2006, che l’istanza per ottenere il primo permesso di costruire è stata presentata circa sei mesi dopo, precisamente il giorno 13.11.2006, e che il primo permesso di costruire è stato rilasciato il 22.04.2008. Sul punto si è pronunciata la sentenza di I grado (motivazione, § 4.2) e anche nel permesso di costruire originario appena citato si legge, come detto in premesse, che il fabbricato esistente era stato “oggetto di crollo” (doc. 1 in I grado ricorrente appellante allegato al ricorso principale, cit.).
2.2 Ciò posto, nemmeno è controverso che l’immobile in questione si trovasse in zona classificata dallo strumento urbanistico come zona omogenea B1, disciplinata dall’art. 81 NTA, per cui gli interventi da realizzare all’interno di essa erano subordinati all’approvazione di uno strumento attuativo, indicato come piano particolareggiato o piano di recupero: il testo della norma è riportato, per tutti, a p. 59 dell’appello, e sul punto, dato per pacifico anche dalla sentenza di I grado (motivazione § 4), non vi è contestazione.
2.3 A fronte di ciò, la sentenza di I grado ricorda in astratto che ai sensi degli artt. 27, comma 4, e 31, comma 1, lett. d), della l. 05.08.1978 n. 458 quando la pianificazione urbanistica subordina il rilascio della concessione edilizia, e quindi l’intervento di nuova costruzione per cui essa è necessaria, all’approvazione di uno strumento attuativo, anche quando essa non è ancora intervenuta sono consentiti gli interventi minori, e in particolare gli interventi di ristrutturazione.
Tanto premesso, la sentenza in questione ritiene che l’intervento per cui è causa rientri appunto in quest’ultima categoria, e quindi che la sanatoria sia stata legittimamente rilasciata, trattandosi di intervento consentito, dato che “avuto riguardo al limitato scarto temporale esistente tra il crollo e l’istanza di ristrutturazione (circa sei mesi, verosimilmente impegnati per la redazione del progetto, e tenuto conto altresì della pausa estiva), è evidente che non si tratta di intervento ex novo attuato su area precedentemente non interessata da alcun manufatto, ma di semplice ristrutturazione di immobile (poco tempo prima) esistente” (motivazione, § 4.2 in fine).
2.4 Ad avviso del Collegio, che condivide sul punto quanto sostenuto dalla difesa della ricorrente appellante, tale conclusione non va condivisa, alla luce della giurisprudenza che si è soffermata su come vada qualificato l’intervento che porta, genericamente, a ripristinare un immobile crollato.
La norma applicabile alla fattispecie è l’art. 3 del T.U. 06.06.2001 n. 380, vigente all’epoca dei fatti, che aveva sostituito con identici contenuti l’art. 31 della l. 458/1978. Al comma 1, lettera d), di questa norma, si legge che si definiscono "interventi di ristrutturazione edilizia" quelli che sono rivolti a “trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quella preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
2.5 Argomentando dalla norma così formulata, la giurisprudenza riteneva quindi che per parlare di ristrutturazione fosse sempre necessaria l'esistenza dell'immobile nel suo complesso e non nelle singole parti, con un minimo di consistenza idoneo a farlo ritenere presente nella realtà, consistenza che comunque doveva essere dimostrata con esattezza; nel caso di ristrutturazione di un rudere, qualificava invece l’intervento come nuova costruzione, trattandosi di intervenire su un manufatto che ormai aveva perduto i caratteri dell’originaria unità urbanistico edilizia: in questi termini, per tutte, C.d.S. sez. VI 05.12.2016 n. 5106 e sez. IV 05.07.2000 n. 3735.
2.6 La situazione è cambiata invece a seguito di una ben precisa modifica legislativa, dovuta al d.l. 21.07.2013 n. 69, e quindi posteriore al provvedimento impugnato, che ha inserito nella lett. d) del comma 1 dell’art. 3 T.U appena esaminato il riferimento agli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione” che quindi ora rientrano nel concetto di ristrutturazione “purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Rispetto al regime previgente, quindi, il concetto di ristrutturazione è stato allargato al caso di edificio che più non esiste, di cui però la consistenza originaria si può ricostruire, evidentemente con un’indagine tecnica, ipotesi che la giurisprudenza in precedenza escludeva: si veda per tutte la citata C.d.S. 5106/2016, secondo la quale “a nulla rileva che, attraverso complesse attività tecniche, si riesca a risalire all'originaria consistenza dell'edificio”.
2.7 Applicando i principi appena delineati al caso di specie, non risulta che il permesso di costruire originario abbia in qualche modo dato conto della possibilità di riconoscere sul posto, nonostante il crollo, i caratteri essenziali della costruzione preesistente, il che si sarebbe richiesto all’epoca dei fatti, dato che, come detto in narrativa, si riferisce in modo esplicito alla costruzione di un “nuovo fabbricato” (doc. 1 in I grado ricorrente appellante allegato al ricorso principale, cit.).
Il motivo va quindi accolto, perché in tali termini –mancando un difforme accertamento della realtà dei fatti- si sarebbe dovuto rispettare l’art. 82 delle NTA, e quindi l’intervento assentito va ritenuto non conforme alle norme vigenti all’epoca di realizzazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.10.2019 n. 6654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAncora oggi, è da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente.
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
Nel caso di specie, deve quindi convenirsi con il TAR che la risalente assenza di copertura, unitamente al parziale crollo delle mura perimetrali, costituisse già di per sé condizione sufficiente ad escludere la riconducibilità dell’intervento assentito agli interventi di ristrutturazione edilizia rientrando piuttosto tra quelli di nuova costruzione.

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L’impossibilità di apprezzare la consistenza del manufatto preesistente conduce ad escludere, in radice, la configurabilità di un intervento di “ristrutturazione edilizia” sia alla stregua dell’art. 31, comma 1, lett. d), della n. 457 del 1978 (richiamato dal PTP), sia in base l’attuale formulazione della normativa statale in materia di ristrutturazione edilizia.
Quest’ultima, come noto, ricomprende oggi anche gli interventi volti «al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza», con la precisazione che «con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente» (art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001, come modificato dall'art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013, n. 98.
Alla stregua delle prefate disposizioni, è quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 5174 del 21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza n. 1167 del 26.09.2017).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata (Cons. St., sez. V, sentenza n. 1025 del 15.03.2016).
Nel caso di specie, deve quindi convenirsi con il TAR che la risalente assenza di copertura, unitamente al parziale crollo delle mura perimetrali, costituisse già di per sé condizione sufficiente ad escludere la riconducibilità dell’intervento assentito agli interventi di ristrutturazione edilizia rientrando piuttosto tra quelli di nuova costruzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.09.2019 n. 6188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo il tradizionale e consolidato indirizzo della giurisprudenza, la nozione di ristrutturazione edilizia non può prescindere dalla preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a farlo giudicare presente nella realtà materiale. Con la conseguenza che la ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio, deve essere ricondotta nell’alveo della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come tale.
Tale orientamento non è mutato neppure a seguito della novella apportata all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal d.l. n. 69/2013, giacché, per potersi parlare di ristrutturazione, occorre pur sempre che i resti della costruzione crollata o demolita presentino caratteristiche tali da consentire di determinarne l’effettiva consistenza.
Nondimeno, se pure si volesse ritenere che le modifiche legislative del 2013 abbiano esteso la nozione di ristrutturazione all’attività di ricostruzione dei ruderi, nel caso in esame il manufatto da ricostruire manca del tutto, essendone stata a suo tempo eliminata ogni traccia. Il che impedisce in radice di rinvenire nell’intervento in questione i contenuti della “trasformazione” di un organismo edilizio esistente, che, lo si è visto, rappresenta il tratto distintivo della ristrutturazione edilizia alla stregua della definizione generale dettata dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001.
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La società estera An., con sede nella Repubblica Slovacca, e i signori Ro.Do. e Fr. Di Tr. sono, rispettivamente, proprietaria la prima e usufruttuari i secondi di un complesso immobiliare ubicato nel Comune di Montecarlo, alla via ... 18, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
Nel luglio del 2017, essi hanno chiesto il rilascio del permesso di costruire per riedificare un preesistente corpo di fabbrica costruito in aderenza al fabbricato principale, e crollato nel 1988.
L’istanza è stata respinta dal Comune sul presupposto dell’assenza di prova in ordine all’originaria consistenza dell’immobile, richiesta ai fini dell’assenso alla ricostruzione dall’art. 134 della legge regionale toscana n. 65/2014, e della qualificazione dell’intervento come nuova costruzione non assentibile in zona vincolata.
...
2.1.1. Il ricorso è infondato.
L’art. 3, co. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001 definisce interventi di ristrutturazione edilizia quelli “rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”, e, nel testo modificato dal d.l. n. 69/2013, vi include il ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza e, per gli immobili sottoposti a vincoli, all’ulteriore condizione che sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Correlativamente, la legge regionale toscana qualifica oggi come interventi di “ristrutturazione edilizia ricostruttiva” quelli consistenti nel “ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e configurazione”, dai quali distingue “il ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e configurazione, attraverso interventi di ricostruzione comportanti modifiche della sagoma originaria, laddove si tratti di immobili sottoposti ai vincoli di cui al Codice” (art. 134, co. 1, lett. h), n. 4, e lett. i) l.r. n. 65/2014).
Secondo il tradizionale e consolidato indirizzo della giurisprudenza, la nozione di ristrutturazione edilizia non può prescindere dalla preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a farlo giudicare presente nella realtà materiale. Con la conseguenza che la ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio, deve essere ricondotta nell’alveo della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come tale (fra le moltissime, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 05.12.2016, n. 5106, e i numerosi precedenti ivi citati; id., sez. V, 21.10.2014, n. 5174 id., sez. V, 11.06.2013, n. 3221).
Tale orientamento non è mutato neppure a seguito della novella apportata all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal ricordato d.l. n. 69/2013, giacché, per potersi parlare di ristrutturazione, occorre pur sempre che i resti della costruzione crollata o demolita presentino caratteristiche tali da consentire di determinarne l’effettiva consistenza (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.03.2016, n. 1025; TAR Lombardia–Milano, sez. II, 29.11.2017, n. 2287; TAR Toscana, sez. I, 18.04.2017, n. 588).
Nondimeno, se pure si volesse ritenere che le modifiche legislative del 2013 abbiano esteso la nozione di ristrutturazione all’attività di ricostruzione dei ruderi, nel caso in esame il manufatto da ricostruire manca del tutto, essendone stata a suo tempo eliminata ogni traccia. Il che impedisce in radice di rinvenire nell’intervento in questione i contenuti della “trasformazione” di un organismo edilizio esistente, che, lo si è visto, rappresenta il tratto distintivo della ristrutturazione edilizia alla stregua della definizione generale dettata dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001.
L’argomento è dirimente. Per completezza della disamina, deve comunque aggiungersi che l’originaria consistenza dell’immobile da ricostruire neppure è stata adeguatamente dimostrata dai ricorrenti, la cui pretesa risulta pertanto infondata sotto ogni profilo.
Del fabbricato demolito non vi sono rappresentazioni iconografiche, fatta eccezione per la planimetria allegata alla denuncia di variazione catastale presentata nel 1988, proprio a seguito della demolizione, che ne mostra l’area di sedime.
A partire dall’area di sedime, i ricorrenti ricavano l’altezza massima del fabbricato dai travicelli della copertura ancora visibili nella muratura dell’edificio principale, per poi presumere che la copertura scendesse fino al termine di quest’ultimo con la stessa pendenza della vecchia copertura dell’adiacente porzione est. Il volume del fabbricato è ottenuto moltiplicando la superficie dell’area di sedime per l’altezza media (si veda la relazione tecnica a firma dell’ing. Le., in atti).
Come si vede, muovendo da un dato approssimativo, ma in qualche modo verificabile (l’ampiezza dell’area di sedime si può ricavare dalla misura delle pareti dell’edificio principale, in aderenza al quale era costruito quello crollato), il calcolo del volume finisce per essere frutto di un’ipotesi meramente congetturale, non essendovi elementi oggettivi dai quali desumere la reale pendenza della copertura originaria. E, oltretutto, non vi è prova che all’epoca della costruzione del fabbricato, poi demolito, la copertura utilizzata dal tecnico dei ricorrenti come riferimento avesse la medesima pendenza attuale (si tratta di porzione immobiliare ristrutturata nel 2013, stando alla stessa relazione tecnica di parte ricorrente, ma la consistenza delle opere di ristrutturazione non è nota).
Se tanto basta per evidenziare la sostanziale arbitrarietà del calcolo volumetrico eseguito dai ricorrenti, a maggior ragione gli scarsissimi elementi disponibili non permettono di verificare il rispetto dell’identità di sagoma (intesa come perimetro dell’edificio considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il suo contorno, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti: per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.01.2017, n. 353), requisito indefettibilmente richiesto dal citato art. 3, co. 1, lett. d), d.P.R. n. 380/2001 per gli edifici vincolati, ovvero ricadenti in area vincolata (cfr. TAR Toscana, sez. III, 05.04.2016, n. 582; Cass. pen., sez. III, 09.07.2018, n. 39340).
Il diniego del permesso di costruire, in definitiva, appare assunto del tutto legittimamente dal Comune di Montecarlo con riferimento all’impossibilità di risalire alla consistenza dell’edificio da ricostruire e all’irriducibilità dell’intervento nei confini della ristrutturazione edilizia.
In contrario non rileva, evidentemente, il positivo giudizio reso dalla Commissione comunale per il paesaggio, al quale sono estranee valutazioni di tipo urbanistico-edilizio, ma che si limita all’accertamento della compatibilità dell’intervento con il vincolo gravante sull’area. Nessuna contraddittorietà è pertanto ravvisabile nelle scelte del Comune.
3. Alla luce delle considerazioni esposte, il ricorso non può trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.02.2019 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2018

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione e caratteristiche preesistente edificio crollato o demolito - Limiti e vincoli della discrezionalità tecnica - Provvedimenti autorizzativi falsi - Configurabilità del reato di falso ideologico - Art. 3, c. 1, lett. d), d.P.R. n. 380/2001
L’accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma primo, lettera d), del d.P.R. 380/2001 non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza.
Pertanto, la c.d. discrezionalità tecnica deve essere vincolata alla verifica della conformità della situazione fattuale alle previsioni normative.
Sicché, il reato di falso ideologico è pienamente configurabile quando detto giudizio di conformità non sia rispondente, ai parametri normativi richiesti per l'emanazione di atti amministrativi, alla veridicità di determinate situazioni fattuali quali necessari presupposti per l'integrazione delle fattispecie giuridiche di riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o anche solo di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente in modo da creare, con la propria idonea e concreta condotta, una situazione di pericolo per il normale svolgimento del traffico giuridico, impedendo all'atto pubblico di adempiere alla funzione di affidamento che gli è propria
(Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 31.08.2018 n. 39340 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia - Provvedimenti autorizzativi rilasciati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi - Procedura - Esclusione degli apprezzamenti meramente soggettivi - Criterio oggettivo della preesistente "consistenza".
Nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva che deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie, volumetria, altezza, struttura complessiva, etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente.
Pertanto, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio
(Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 31.08.2018 n. 39340 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: MODALITÀ ACCERTATIVE DELLA PREESISTENTE CONSISTENZA DI UN EDIFICIO CROLLATO O DEMOLITO DA RICOSTRUIRSI CON RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA.
L’accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell’ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla questione dell’individuazione del titolo edilizio necessario al fine di realizzare interventi di ricostruzione e demolizione di manufatti abusivi.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la sentenza del tribunale che, a sua volta, aveva affermato la responsabilità penale di un imputato per il reato di cui all’art. 480 c.p.
Al medesimo veniva contestato il concorso nell’illecito rilascio di un parere paesaggistico sulla base una relazione tecnica, integrativa della domanda presentata dal progettista, nella quale si attestava falsamente che le opere previste nella proposta progettuale non comportavano variazione di sagoma né aumenti delle volumetrie esistenti, fatti indicati nell’imputazione come smentiti dall’esame degli atti, trattandosi di intervento modificativo della sagoma e degli indici planovolumetrici rispetto all’esistente, considerando l’altezza non rilevabile, in quanto il vecchio fabbricato rurale da ristrutturare risultava crollato, come documentato dalle fotografie a corredo della pratica edilizia.
Sarebbero stati così costituiti gli indispensabili falsi presupposti che consentivano al tecnico comunale di rilasciare il provvedimento autorizzatorio.
Avverso la detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che i giudici erroneamente non avrebbero preso in esame il contenuto del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), come modificato dal D.L. n. 69 del 2013, art. 30, segnatamente per quanto concerne la ristrutturazione dei ruderi.
Osservava, a tale proposito, che trattandosi di edificio crollato, non potevano che prendersi in esame i parametri murari ancora esistenti per risalire, attraverso uno studio storico e rilevazioni inerenti edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura, per delineare l’originaria consistenza del manufatto da ristrutturare.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dato atto del significativo dato fattuale della obiettiva impossibilità di individuare le originarie caratteristiche costruttive dell’immobile crollato, definito nelle sentenze di merito come “un mero ammasso di pietre a secco con un accenno di andamento solo di due muri perimetrali e di piccola parte di un terzo muro”.
Una tale evenienza giustificava, di per sé, secondo la Cassazione, la possibilità di qualificare l’intervento come ristrutturazione.
Quanto, poi, alla possibilità di risalire alla originaria consistenza dell’edificio, ormai ridotto a rudere, attraverso lo “studio storico” o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato, i giudici della S.C. hanno ricordato la giurisprudenza consolidata in materia che impone estremo rigore nella verifica della consistenza del preesistente manufatto, da effettuarsi su dati oggettivi inconfutabili e completi (Cass. pen., Sez. III, 22.01.2014, n. 5912, M. e altri, CED, 258597; Id., Sez. III, 25.06.2015, n. 26713, P., inedita; Id., Sez. III, 13.10.2015, n. 48947, P.M. in proc. P.,CED, 266031), ma hanno altresì aggiunto che ciò si risolverebbe nel consentire la edificazione di volumi della cui preesistenza non vi sarebbe alcuna certezza, sulla base di mere supposizioni, tali essendo i risultati di eventuali comparazioni con altri edifici le cui caratteristiche siano analoghe e note.
La sentenza aveva, dunque, giustamente escluso la correttezza della soluzione prospettata dalla difesa, proprio sulla base della impossibilità di “dare contezza specifica degli esatti limiti del preesistente” ed escludendo, altrettanto correttamente, ogni validità del mero richiamo dell’esistenza del manufatto nell’atto di compravendita del terreno per la genericità del richiamo e l’assenza di descrizione dello stesso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39340 - Urbanistica e appalti 6/2018).

EDILIZIA PRIVATA: Considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio.
Detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento deve essere effettuato con il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente.
L'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.
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Va esclusa la possibilità di risalire alla originaria consistenza dell'edificio, ormai ridotto a rudere, attraverso lo "studio storico" o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato.
Si tratta, invero, di un assunto che non può essere assolutamente condiviso, non soltanto perché si pone in evidente contrasto con i principi dianzi richiamati, che, lo si ribadisce, impongono estremo rigore nella verifica della consistenza del preesistente manufatto, da effettuarsi su dati oggettivi inconfutabili e completi, ma anche perché si risolverebbe nel consentire la edificazione di volumi della cui preesistenza non vi sarebbe alcuna certezza, sulla base di mere supposizioni, tali essendo i risultati di eventuali comparazioni con altri edifici le cui caratteristiche siano analoghe e note.
Va conseguentemente ribadito che l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013) consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica della sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a condizione però che sia possibile accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire.
Va tuttavia ulteriormente affermato che l'accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma primo, lettera d), del d.PR. 380/2001 non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza.
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1. Il ricorso è inammissibile.
2. Occorre rilevare, con riferimento al primo motivo di ricorso, che i fatti contestati risultano accertati in data antecedente alle modifiche del 2013 all'art. 3 del d.P.R. 380/2001, quando, in considerazione della disciplina allora vigente, veniva esclusa la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo (v. Sez. 3, n. 45240 del 26/10/2007, Scupola, Rv. 238464; Sez. 3, n. 15054 del 23/01/2007, Meli e altro, Rv. 236338; Sez. 3, n. 20776 del 13/01/2006, P.M. in proc. Polverino, Rv. 234467 ed altre prec. conf.), ritenendosi che la mancanza dei suddetti elementi strutturali, rendesse impossibile qualsiasi valutazione circa l'esistenza e la consistenza dell'edifico da consolidare.
Le decisioni dei giudici del merito sono successive alle modifiche e di esse ha evidentemente tenuto conto la decisione impugnata, la quale risulta conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in relazione all'ambito di operatività della disciplina attualmente in vigore.
Come è noto, il d.l. 69/2013 (conosciuto anche come «decreto del fare»), intervenendo sull'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001, ha considerevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
L'articolo 3, comma primo, lettera d), del d.P.R. 380/2001, nella formulazione attualmente vigente, così definisce gli interventi di ristrutturazione: «interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai se9si del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
A tale proposito, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che, considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260551).
Si è anche ricordato che detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento deve essere effettuato con il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente (cfr. Sez. 3, n. 5912 del 22/01/2014, Moretti e altri, Rv. 258597; Sez. 3 n. 26713 del 25/06/2015, Petitto, non massimata. V. anche Sez. 3, n. 48947 del 13/10/2015, P.M. in proc. Pompa, Rv. 266031).
Si è ulteriormente stabilito che l'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili (Sez. 3, n. 45147 del 08/10/2015, Marzo e altri, Rv. 265444).
3. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato atto del significativo dato fattuale della obiettiva impossibilità di individuare le originarie caratteristiche costruttive dell'immobile crollato, che definisce (pag. 5 della sentenza impugnata) come "un mero ammasso di pietre a secco con un accenno di andamento solo di due muri perimetrali e di piccola parte di un terzo muro".
Una tale evenienza giustifica, di per sé, la possibilità di qualificare l'intervento come ristrutturazione ed evidenzia la correttezza delle conclusioni cui sono pervenuti i giudici dell'appello.
4. Il ricorrente pone tuttavia, a sostegno delle proprie ragioni, un ulteriore questione, che è quella della possibilità di risalire alla originaria consistenza dell'edificio, ormai ridotto a rudere, attraverso lo "studio storico" o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato, possibilità che è stata correttamente esclusa dai giudici dell'appello.
Si tratta, invero, ad avviso del Collegio, di un assunto che non può essere assolutamente condiviso, non soltanto perché si pone in evidente contrasto con i principi dianzi richiamati, che, lo si ribadisce, impongono estremo rigore nella verifica della consistenza del preesistente manufatto, da effettuarsi su dati oggettivi inconfutabili e completi, ma anche perché si risolverebbe nel consentire la edificazione di volumi della cui preesistenza non vi sarebbe alcuna certezza, sulla base di mere supposizioni, tali essendo i risultati di eventuali comparazioni con altri edifici le cui caratteristiche siano analoghe e note.
La sentenza impugnata ha, dunque, giustamente escluso la correttezza della soluzione prospettata dalla difesa, proprio sulla base della impossibilità di "dare contezza specifica degli esatti limiti del preesistente" ed escludendo, altrettanto correttamente, ogni validità del mero richiamo dell'esistenza del manufatto nell'atto di compravendita del terreno per la genericità del richiamo e l'assenza di descrizione dello stesso.
Va conseguentemente ribadito che l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013) consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica della sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a condizione però che sia possibile accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire.
5. Va tuttavia ulteriormente affermato che l'accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma primo, lettera d), del d.PR. 380/2001 non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39340).

anno 2017

EDILIZIA PRIVATA: Secondo una consolidata giurisprudenza, i lavori di rifacimento di un edificio diruto (c.d. rudere) sono qualificabili come un intervento di nuova costruzione, con conseguente necessità di un’apposita concessione edilizia, e tale principio vale senz’altro in caso di rifacimento di un organismo edilizio costituito da baracche costruite in lamiere e mattoni, al quale non è applicabile la disciplina degli interventi di ristrutturazione edilizia, che ricomprende anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica.
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5. Ciò premesso, seppure tale questione fosse ritenuta fondata, tuttavia la stessa non potrebbe assumere alcuna concreta rilevanza con riferimento alla fattispecie in esame in quanto -tenuto conto di quanto riferito dalla stessa ricorrente in merito ai lavori di consolidamento eseguiti nel 2009, nonché dell’attuale stato del manufatto, risultante dalla documentazione fotografica in atti- vi è motivo di ritenere che l’Amministrazione non fosse comunque tenuta a motivare in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell’abuso, non potendosi comunque configurare un affidamento meritevole di tutela in capo alla ricorrente per le seguenti ragioni.
Innanzi tutto si deve rammentare che -secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, TAR Molise Campobasso, Sez. I, 12.02.2016, n. 64), meritevole di essere condivisa- i lavori di rifacimento di un edificio diruto (c.d. rudere) sono qualificabili come un intervento di nuova costruzione, con conseguente necessità di un’apposita concessione edilizia, e tale principio vale senz’altro in caso di rifacimento di un organismo edilizio costituito da baracche costruite in lamiere e mattoni, al quale non è applicabile la disciplina degli interventi di ristrutturazione edilizia, che ricomprende anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica.
Ciò posto, dal confronto tra la documentazione fotografica prodotta dalla ricorrente per dimostrare l’anno di realizzazione del manufatto e quella allegata al verbale di sopralluogo, che attesta l’attuale stato dei luoghi, si desume che il manufatto, a seguito dell’intervento di consolidamento eseguito nel 2009, non si configura più come una semplice baracca in legno adibita a deposito di attrezzi agricoli, bensì come una costruzione in muratura e legno, munita di arredi interni, in relazione alla quale non v’è dubbio che la ricorrente avrebbe dovuto preventivamente richiedere il rilascio di un nuovo ed ulteriore titolo abilitativo (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 12.07.2017 n. 231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' pacifico in giurisprudenza che la ricostruzione dei ruderi vada considerata come realizzazione di una nuova costruzione, quando la parte dell’opera muraria ancora esistente non permette l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura), attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.
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E’ stato sottolineato in proposito che <<La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire.
Non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè l’esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione. Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi analoghi la giurisprudenza ha preteso che l’immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà materiale).
Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza, la c.d. demo-ricostruzione –ovvero un’incisiva forma di recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia– tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere.
L'attività di ricostruzione di ruderi è stata invece concordemente considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi perduto i caratteri dell’entità urbanistico-edilizia originaria sia in termini strutturali che funzionali>>.
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Il ricorrente censura la deliberazione comunale di approvazione definitiva del PGT, nella parte in cui ha disposto l’accoglimento dell’osservazione sull’inserimento in cartografia di un fabbricato di sua proprietà (rudere), condizionando la ricostruzione al riscontro di una testimonianza materiale del 75% dei muri perimetrali e di un’altezza di 1,5 metri.
Il gravame è fondato e merita accoglimento.
1. Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del T.U. edilizia, gli interventi di ristrutturazione comprendono “il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
2. Sotto altro profilo, è pacifico in giurisprudenza che la ricostruzione dei ruderi vada considerata come realizzazione di una nuova costruzione, quando la parte dell’opera muraria ancora esistente non permette l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura), attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare (TAR Campania-Napoli, sez. III – 27/02/2017 n. 1169).
2.1 E’ stato sottolineato in proposito che <<La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire (Cons. Stato Sez. IV 15.09.2006 n. 5375).
Non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè l’esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione. Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi analoghi la giurisprudenza ha preteso che l’immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà materiale: Cons. Stato, sez. V, 21.10.2014, n. 5174; Cons. Stato, V, 15.03.1990, n. 293 e 20.12.1985, n. 485).
Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza, la c.d. demo-ricostruzione –ovvero un’incisiva forma di recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia– tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2004, n. 475).
L'attività di ricostruzione di ruderi è stata invece concordemente considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione (cfr. Cass. pen. 20.02.2001, n. 13982; Cons. Stato, V, 01.12.1999, n. 2021), avendo questi perduto i caratteri dell’entità urbanistico-edilizia originaria sia in termini strutturali che funzionali
>> (Consiglio di Stato, sez. VI – 05/12/2016 n. 5106).
3. Posto che (come appena visto) la giurisprudenza in materia di recupero dei ruderi ha elaborato principi idonei ad affrontare le singole fattispecie fattuali, la previsione impugnata appare affetta da un evidente eccesso di potere. In effetti, se non appare precluso al singolo Ente l’esercizio della potestà pianificatoria in materia, nel rispetto della previsione legislativa evocata e delle regole generali elaborate dalla giurisprudenza, il Comune ha deliberatamente introdotto vincoli rigidi proprio in occasione del riscontro dell’istanza di parte ricorrente, diretta a ottenere il riconoscimento cartografico del fabbricato preesistente di sua proprietà.
3.1 Il vizio di eccesso di potere per sviamento consiste nell'effettiva e comprovata divergenza fra l'atto e la sua funzione tipica, ovvero nell'esercizio del potere per finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la norma attributiva dello stesso: ciò si verifica, in particolare, allorquando l'atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico (cfr. TAR Toscana, sez. I – 30/03/2016 n. 535; Consiglio di Stato, sez. V – 01/12/2014 n. 519).
Tuttavia è stato anche precisato che la censura predetta deve essere supportata da precisi e concordanti elementi di prova, idonei a dar conto delle divergenze dell'atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non essendo a tal fine sufficienti semplici supposizioni o indizi che non si traducano nella dimostrazione dell'illegittima finalità perseguita in concreto dall'organo amministrativo; né il vizio in questione è ravvisabile allorquando –come nella specie– l'atto asseritamente viziato risulta comunque adottato nel rispetto delle norme che ne disciplinano la forma e il contenuto e risulta in piena aderenza al fine pubblico al quale è istituzionalmente preordinato (TAR Piemonte, sez. I – 02/08/2016 n. 1102; 17/03/2016 n. 364; TAR Emilia Romagna-Bologna, sez. I – 30/07/2015 n. 701).
3.2 Alla luce di quanto precede, affiora nel caso esaminato l’introduzione di una norma urbanistica ad hoc che –a fronte dell’istanza del privato interessato– impedisce il recupero del rudere nella misura dal medesimo rappresentata. L’inserimento in cartografia, sollecitato dal Sig. Ba., è stato accompagnato da una disposizione di piano immediatamente penalizzante nei suoi confronti, che appare in diretta correlazione con la singola aspettativa concreta, che viene platealmente frustrata.
3.3 L’accoglimento del ricorso non comporta il riconoscimento della possibilità di procedere al recupero del manufatto nel senso prospettato dal ricorrente. L’istanza, tuttavia, dovrà essere esaminata alla luce del T.U. dell’Edilizia, dei principi giurisprudenziali e delle altre eventuali regole urbanistiche di cui il Comune sia dotato.
4. In conclusione, il ricorso deve essere accolto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.03.2017 n. 418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2015

EDILIZIA PRIVATA: Rilevanza penale della ristrutturazione di un rudere.
Integra il reato di cui all'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 2001 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire (o, come nella specie, con permesso di costruire illecito o rilasciato in violazione del parametro di legalità urbanistica ed edilizia, costituito anche dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi ed -in quanto applicabili- da quelle della stessa legge), sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che richiede, nelle zone come nella specie vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto) o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura.
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3. Si tratta di una motivazione che non si presta, sia con riferimento al primo che al secondo motivo di gravame (i quali pertanto possono essere congiuntamente esaminati), ad essere censurata per violazione di legge, avendo il tribunale cautelare fatto buon uso dei principi più volte affermati da questa Corte secondo i quali
integra il reato di cui all'art. 44, lett. c), d.p.r. n. 380 2001 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire (o, come nella specie, con permesso di costruire illecito o rilasciato in violazione del parametro di legalità urbanistica ed edilizia, costituito anche dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi ed -in quanto applicabili- da quelle della stessa legge), sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che richiede, nelle zone come nella specie vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto) o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260552).
Anche il riferimento al mancato completamento del manufatto abusivo, per indicare la presenza del periculum in mora, è in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui
l'esigenza di impedire la prosecuzione dei lavori di edificazione di un immobile abusivo ancora in corso è, di per sé, condizione sufficiente per disporne e mantenerne il sequestro preventivo, indipendentemente dalla natura ed entità degli interventi da eseguire per ultimarlo (ex multis, Sez. 3, n. 38216 del 28/09/2011, P.M. in proc. Mastrantonio, Rv. 251302) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.12.2015 n. 48232 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia di edifici crollati o demoliti.
Con gli interventi modificativi apportati dal d.l. 69/2013 (noto anche come «decreto del fare»), si è notevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
Considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio.
Va richiamata l'attenzione anche sul fatto che
detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento dovrà essere effettuato con il massimo rigore e dovrà necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente.
Tale principio è condiviso dal Collegio, il quale intende darvi continuità, con l'ulteriore precisazione che
l'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma.
Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.

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1. Il ricorso è infondato.
Va preliminarmente rilevato, con riferimento al primo motivo di ricorso, che, sulla base del contenuto della sentenza impugnata e del ricorso, unici atti ai quali, come è noto, questa Corte ha accesso, emerge che, durante l'espletamento del proprio servizio, personale del Corpo Forestale dello Stato si imbatteva in un manufatto in corso di realizzazione sulla base di un permesso di costruire (n. 42/2010) avente ad oggetto il «ripristino parziale e la ristrutturazione di un antichissimo fabbricato rurale, privo di copertura» e relativo a «lavori edili riferibili ad una preesistente costruzione, già in parte diruta e poi integralmente demolita».
Le opere realizzate risultavano eseguite in totale difformità dal titolo abilitativo, in quanto era stato realizzato un vano da adibire a servizio igienico.
Per la parte in difformità era stato poi rilasciato un permesso di costruire in sanatoria (n. 4/2012) in considerazione della possibilità di ampliamento, fino al 10% per motivi igienico-sanitari, prevista dai vigenti strumenti urbanistici.
Il Tribunale rilevava la illegittimità del titolo autorizzatorio del 2010, stante l'inesistenza di un preesistente manufatto da ristrutturare, perché quasi interamente crollato, del quale non potevano determinarsi la volumetria e la sagoma originarie, escludendo, conseguentemente, la possibilità della ristrutturazione di un rudere. Conseguentemente, rilevava anche l'inefficacia del permesso in sanatoria, in quanto destinato a sanare l'ampliamento di un immobile abusivo.
La tesi della legittimità del permesso di costruire n. 42/2010 era invece sostenuta dagli imputati, nell'appello, sulla base del fatto che quell'atto aveva ad oggetto due distinte fasi: una di ripristino e ricostruzione delle parti mancanti del manufatto e l'altra di ristrutturazione dello stesso.
La Corte territoriale, nel confutare le censure mosse dagli appellanti, ha negato la possibilità della ristrutturazione di un rudere e negato, altresì, la possibilità di applicare, nella fattispecie, l'art. 3 d.P.R. 380/2001 come modificato nel 2013.
2. Ritiene il Collegio che le conclusioni cui sono pervenuti i giudici del gravame siano corrette.
Occorre, in primo luogo, precisare che il reato contestato è stato posto in essere nel 2011, prima, dunque, delle modifiche legislative richiamate dai ricorrenti, così come la decisione del primo giudice, è stata emessa, come ricordato, nel 2012, con la conseguenza che il Tribunale non poteva che tener conto dell'art. 3 d.P.R. 380/2001 così come all'epoca formulato e della giurisprudenza formatasi sul tema, che escludeva la possibilità di ristrutturazione dei ruderi.
Con riferimento all'originario concetto di ristrutturazione risultava, infatti, di tutta evidenza che esso, così come individuato dalla normativa previgente, presupponeva la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare provvisto di murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Conseguentemente, era stata sempre esclusa la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo (v. Sez. 3, n. 45240 del 26/10/2007, Scupola, Rv. 238464; Sez. 3, n. 15054 del 23/01/2007, Meli e altro, Rv. 236338; Sez. 3, n. 20776 del 13/01/2006, P.M. in proc. Polverino, Rv. 234467 ed altre prec. conf.). Si riteneva, infatti, che la mancanza dei suddetti elementi strutturali, rendesse impossibile qualsiasi valutazione circa l'esistenza e la consistenza dell'edifico da consolidare.
Con gli interventi modificativi apportati dal più volte citato d.l. 69/2013 (noto anche come «decreto del fare»), si è notevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
L'articolo 3, comma primo, lettera d), del D.P.R. 380/2001, nella formulazione attualmente vigente, così definisce gli interventi di ristrutturazione: «interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente
».
3. A tale proposito, la giurisprudenza di questa Corte, richiamata anche dai ricorrenti, ha avuto modo di precisare che,
considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260551).
Va richiamata l'attenzione anche sul fatto che
detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento dovrà essere effettuato con il massimo rigore e dovrà necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente (cfr. Sez. 3, n. 5912 del 22/01/2014, Moretti e altri, Rv. 258597; Sez. 3 n. 26713 del 25/06/2015, Petitto, non massimata).
4. Tale principio è condiviso dal Collegio, il quale intende darvi continuità, con l'ulteriore precisazione che
l'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.
5. Ciò posto, va rilevato che, nel caso in esame, correttamente i giudici del merito hanno stigmatizzato la singolarità del procedimento autorizzatorio che ha riguardato l'intervento edilizio realizzato dai ricorrenti laddove, in presenza di un manufatto ormai in condizioni di rudere, si è, con unico provvedimento, autorizzato il ripristino e, successivamente, la ristrutturazione.
Si tratta di un'operazione che non sembra trovare altra giustificazione, almeno sulla base di quanto emerge dalla sentenza e dal ricorso, se non quella di rendere possibile, sull'edificio ormai in rovina, un'attività allora non consentita per le ragioni che la Corte territoriale e, prima ancora, il Tribunale, hanno, come si è detto, correttamente individuato.
6. La sentenza impugnata risulta parimenti corretta laddove esclude l'applicabilità, nella fattispecie, delle disposizioni che i ricorrenti assumono violate.
Osservano infatti i giudici del gravame che risulta impossibile, sulla base della mera disamina della documentazione fotografica in atti, individuare in maniera attendibile le caratteristiche originarie del manufatto.
Tale assunto non viene minimamente intaccato dalle diverse considerazioni dei ricorrenti, i quali ritengono possibile la dimostrazione della originaria consistenza del manufatto sulla base della testimonianza resa dal tecnico comunale nel corso del dibattimento e parzialmente riprodotta in ricorso.
Si tratta, invero, come risulta dalla mera lettura dei brani riportati, di mere valutazioni soggettive e mere ipotesi, la cui irrilevanza è stata correttamente ritenuta dai giudici del merito.
li motivo di ricorso appena esaminato risulta, pertanto, infondato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.11.2015 n. 45147 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Variare i volumi, la Scia non basta. La Cassazione sulle ristrutturazioni.
Necessita del permesso a costruire, e non di sola Dia (oggi Scia) la ricostruzione di un immobile demolito con modificazioni tipologiche, variazione di destinazione d'uso e con parziale incremento volumetrico. In seguito all'innovazione legislativa (dl n. 69/2013, convertito nella legge n. 98/2013) costituita dalla modificazione introdotta nel dpr n. 380/2001 (testo unico edilizia) «il requisito del rispetto della identità di sagoma non è più elemento indefettibile onde operare la diagnosi differenziale fra gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di preventivo permesso a costruire e gli altri interventi minori di risanamento conservativo assentibili anche tramite la presentazione, allora, della Dia, ora, della Scia».

Tutto questo lo sostiene la Corte di cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 25.06.2015 n. 26713.
Sottolineano i giudici di piazza Cavour proprio con riferimento alla sopravvenuta innovazione legislativa (decreto fare) integra il reato di cui all'articolo 44 del dpr n. 380 del 2001 la ricostruzione di un edificio demolito senza il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e o di ristrutturazione, di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'articolo 30 del decreto del fare che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della Scia, o in passato della Dia, richiede l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili.
Ricordiamo dal 21.08.2013, sono compresi tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli che consistono nella demolizione e ricostruzione di un immobile con la stessa volumetria di quello precedente, senza che sia necessario rispettarne la sagoma (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione dopo il d.l. 69 del 2013.
E' ben vero che, per effetto del dl n. 69 del 2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 98 del 2013 il requisito del rispetto della identità di sagoma non è più elemento indefettibile onde operare la diagnosi differenziale fra gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di preventivo permesso a costruire e gli altri interventi minori di risanamento conservativo assentibili anche tramite la presentazione, allora, della DIA ed, ora, della SCIA, ma non va, tuttavia, trascurato che anche in questi casi è pur sempre necessario, onde accertare che sia rimasta invariata anche la, preesistente volumetria, che sia possibile operare la verifica della originaria consistenza in base a riscontri documentali od altri elementi certi è verificabili.
A questo punto non resta che da verificare se ed in che termini la impugnata ordinanza sia rispettosa dei principi legislativi in materia di ristrutturazione edilizia dettati, principalmente, dagli artt. 3 e 10 del dPR n. 380 del 2001, pure nel testo attualmente vigente a seguito della modifiche apportate, da ultimo, dall'art. 30 del dl n. 69 del 2013, come convertito dalla legge n. 98 del 2013, e, subordinatamente al rispetto dei principi fondamentali fissati dal legislatore nazionale in materia di governo del territorio, dall'art. 79, comma 2, lettera d), della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005.
Deve in via del tutto prioritaria precisarsi che spetta esclusivamente al legislatore nazionale, nell'esercizio della sua competenza in ordine alla fissazione dei principi fondamentali in tema di governo del territorio, dettare le nozioni e le definizioni degli istituti fondamentali rilevanti in tale materia.
Fra di esse vi è là indicazione delle tipologie di attività edilizie soggette al permesso a costruire; fra queste, secondo il chiaro tenore dell'art. 10 del dPR n. 380 del 2001, vi sono gli interventi di ristrutturazione edilizia che "portino ad un organismo edilizio in tutto od in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti".
Più in particolare l'art. 3, comma 1, lettera d), del medesimo dPR n. 380 del 2001, precisa che, nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia, come tali subordinati al rilascio del permesso à costruire, vanno ricompresi "anche quelli consistenti, nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici crollati o demoliti, attraverso la (ori ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza".
Sulla base dei riportati dati normativi dovrebbe concludersi nel senso della corretta interpretazione che di essi ne è stata fatta dal Tribunale di Grosseto; questo, infatti, ha ritenuto che necessitassero di permesso a costruire, e non di sola DIA, le opere realizzate dal P., trattandosi, alla luce delle cognizione sommaria propria della presente fase cautelare, della ricostruzione di manufatti demoliti con modificazioni tipologiche, variazione di destinazione d'uso 'e un parziale loro incremento volumetrico.
A tale proposito, e, proprio con riferimento alla sopravvenuta innovazione legislativa, costituita dalla ricordata modificazione introdotta nell'art. 10, comma 1, lettera c), del dPR n. 380 del 2001 per effetto della entrata in vigore del dl n. 69 del 2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 98 del 2013, invocata dallo stesso ricorrente, questa Corte ha avuto occasione di precisare più volte che integra il reato di cui all'art. 44 del dPR n. 380 del 2001 la ricostruzione di un edificio demolito senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione, di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (convertito, in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della SCIA, o in passato della DIA, richiede l'accertamento dell'a preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili (Corte di cassazione, Sezione III penale, 30.09.2014, n. 40342).
E' ben vero che, come segnala lo stesso ricorrente, per effetto della ricordata innovazione legislativa il requisito del rispetto della identità di sagoma non è più elemento indefettibile onde operare la diagnosi differenziale fra gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di preventivo permesso a costruire e gli altri interventi minori di risanamento conservativo assentibili anche tramite la presentazione, allora, della DIA ed, ora, della SCIA, ma non va, tuttavia, trascurato che anche in questi casi è pur sempre necessario, onde accertare che sia rimasta invariata anche la, preesistente volumetria, che sia possibile operare la verifica della originaria consistenza in base a riscontri documentali od altri elementi certi è verificabili (Corte di cassazione, Sezione III penale, 07.02.2014, n. 5912).
La circostanza che nel caso in esame tali elementi non sono stati forniti dal ricorrente al giudice della cautela con la necessaria efficacia probatoria, fa sì che non possa ritenersi escluso, tanto più in questa fase cautelare, caratterizzata, tenuto conto anche della natura reale del vincolo disposto col provvedimento de Gip di Grosseto, da un grado piuttosto sommario di cognizione, il fumus commissi delicti idoneo a giustificare la adozione ed il mantenimento del provvedimento oggetto di doglianza da parte del P..
Né siffatta ricostruzione può dirsi contraddetta da quanto il legislatore regionale ha disciplinato all'art. 79, comma 2, lettera d), della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, posto che tale disposizione consente che siano assentibili a seguito di mera SCIA anche gli interventi di ristrutturazione edilizia facenti seguito a precedenti demolizioni ma solo nel caso in cui essi consistano nella fedele ricostruzione dell'edificio preesistente, intendendosi per tale quella realizzata con gli stessi materiali o con materiali analoghi, con la stessa collocazione e con lo stesso ingombro planivolumetrico; requisiti tutti questi che, all'o stato degli atti, il Tribunale di Grosseto non è stato messo in grado di verificare ed in relazione ai quali non è stato eccepito dal ricorrente il fatto che essi, sebbene esistenti e suscettibili di verifica da parte del Tribunale maremmano, non siano stati da questo presi nella dovuta considerazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.06.2015 n. 26713 - tratto da www.lexambiente.it).

anno 2014

EDILIZIA PRIVATA: Ruderi da ricostruire: non bastano le tracce. Cassazione. Circoscritto il Dl del fare.
Più difficile ricostruire ruderi, se mancano segni concreti della preesistenza
: lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con sentenza 30.09.2014 n. 40342.
La questione si è posta all'indomani dell'entrata in vigore del "decreto del fare" (69/2013). L'articolo 30, modificando l'articolo 3 del Tu edilizia 380/2001, colloca le ricostruzioni tra gli interventi di ristrutturazione edilizia, sottraendoli alla più complessa ristrutturazione urbanistica. La norma del 2013 richiede, per ricostruire, una generica possibilità di accertare la preesistente consistenza: basterebbero, quindi, generici rilievi desunti da quelli depositati presso uffici pubblici (catasto) o addirittura le fotografie da album personali, per poter dimostrare una preesistenza e quindi ripristinare superfici e volumi.
Ciò ha reso di colpo appetibili tutte le aree con ruderi, spesso testimonianze di manufatti un tempo particolarmente consistenti. L'unico limite starebbe nei vincoli ambientali paesaggistici, ma per le zone non vincolante, un rudere poteva diventare l'inizio di una ritrovata edificabilità.
Ora la Cassazione adotta un'interpretazione restrittiva, esigendo la presenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), in modo che possa essere determinata la volumetria, ovvero che essa possa essere oggettivamente desunta da apposita documentazione storica o attraverso una verifica dimensionale sul luogo.
In precedenza, si richiedeva che il rudere consentisse l'individuazione dei connotati essenziali di un edificio, senza che fosse necessario dimostrarne l'abitazione: è stata così ritenuta sufficiente un'immagine desunta da Google maps (Tar Catanzaro 443/2014), oppure la riconoscibilità dell'originaria area attraverso residui e segmenti consistenti del muro perimetrale (Consiglio di Stato 735/2014).
Non bastano quindi «poche pietre in un declivio erboso» (Tribunale di Trento 306/2013), e nemmeno può recuperarsi ciò che era stato demolito cinquant'anni prima (Consiglio giustizia amministrativa 1200/2010). Non ci sono invece problemi se sono crollati il tetto e uno o più solari: la ricostruzione in questi casi deve rispettare la sagoma dell'edificio preesistente. Sagoma che tuttavia può contenere una maggiore superficie rispetto a quella del passato
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.10.2014).

EDILIZIA PRIVATAL'identificazione catastale è richiesta al fine di consentire la trascrizione che non ha alcuna efficacia sostanziale, adempiendo alla limitata funzione di rendere l'atto opponibile ai terzi in caso di conflitto tra più acquirenti del medesimo immobile.
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Nel giudizio di impugnazione dell'ordinanza repressiva di un abuso edilizio è onere del privato fornire la prova dello "status quo ante", in quanto la p.a. non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio.
Chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza, proprio in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c..
In tali casi, il privato dispone, ed è normalmente in grado di esibire, la documentazione idonea al fine di fornire utili elementi di valutazione quali fotografie con data certa dell'immobile, estratti delle planimetri catastali, il progetto originario e i suoi allegati, ecc..
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La giurisprudenza civile in numerose pronunce, sia di merito (App. Roma Sez. I Sent., 23.11.2009: “non può pronunciarsi una sentenza sostitutiva dell’obbligo di concludere il contratto definitivo di compravendita di immobile ex art. 2932 c.c. qualora sia giudizialmente accertata la differenza tra le risultanze catastali e l’effettiva consistenza dei beni immobili al momento del trasferimento, in mancanza di concessione edilizia o di successiva regolarizzazione di esse, e qualora il promettente venditore non abbia provveduto alla regolarizzazione con dichiarazione sostitutiva di notorietà”) che di legittimità (ex aliis Cass. civ. Sez. II, 19.11.2004, n. 21885 “nei contratti in materia di compravendita immobiliare ai fini dell'individuazione dell'immobile oggetto del trasferimento della proprietà l'indicazione dei confini -che concerne punti oggettivi di riferimento esterni consentendo perciò la massima precisione- assume valore decisivo e prevalente rispetto alle altre risultanze probatorie e, in particolare, ai dati catastali, allorché si risolva nella descrizione dell'intero perimetro e, a maggior ragione, quando trovi conferma in altri dati obiettivi incontrovertibilmente conducenti al fine, come la specificazione della superficie e la dettagliata descrizione della composizione e della collocazione dell'unità immobiliare nell'ambito di un più vasto complesso così eliminando ogni margine di dubbio circa la materiale consistenza dell'unità stessa. A tali fini, pertanto, il ricorso ai dati catastali -che non solo hanno natura tecnica e sono preordinati essenzialmente all'assolvimento di funzioni tributarie ma anche spesso sfuggono alla diretta percezione da parte dei contraenti- ha solo carattere sussidiario, essendo ammesso unicamente nell'ipotesi di indicazioni inadeguate o imprecise in ordine ai confini”) ha rimarcato la impossibilità di far discendere la prova della pregressa consistenza dell’immobile dalle dette risultanze catastali.
La giurisprudenza amministrativa, dal canto proprio interrogandosi sui concetti di “ripristino” e “ristrutturazione”, ha avuto modo di enunciare taluni importanti principi.
In particolare, nella condivisibile decisione prima indicata si è avuto modo di chiarire che con il termine "ripristino" s'intende, in campo edilizio, l'operazione volta ad ottenere la ricostruzione di una cosa persa, non più esistente, di cui lo strumento di pianificazione, come nel caso di specie pure ne ha ritenuto corretta la riproposizione.
In altri termini, quanto al suo contenuto, il ripristino deve tendere a ricostituire lo status edilizio quo ante, per cui il risultato finale di un siffatto intervento su un immobile non più presente perché demolito o comunque venuto meno per ragioni svariate è appunto la ricostruzione dell'edificio dov'era e com'era (nelle forme e consistenza originariamente possedute dall'edificio).
Si è detto in particolare che anche laddove la disciplina urbanistica comunale ritenga compatibile con la categoria del restauro e quella del risanamento l'intervento di ripristino, è necessario però che le parti originarie da ricostruirsi siano documentate in modo "incontrovertibile", nel senso che attraverso elementi oggettivi -caratterizzati dalla assoluta certezza- deve essere comprovata la preesistenza di quanto si vuole riedificare.
Se così è, è fuori discussione l'ammissibilità in linea generale di un intervento di riedificazione di ciò che in passato è stato (dal punto di vista edilizio) a mezzo, appunto, della modalità del ripristino diventa dirimente l'accertamento dell'esistenza incontrovertibile del precedente manufatto e della sua effettiva consistenza.
Analoghi principi, peraltro, sono predicabili peraltro allorché ci si voglia rifare alla categoria edilizia della ristrutturazione, la cui nozione impone di assicurare la piena conformità di volume, sagoma, e superficie tra vecchio e nuovo fabbricato.
In sintesi ed in via generale: per ri-edificare si deve provare che “pregresso” v’era, ed esatta consistenza del pregresso: in carenza di tale prova non v’è spazio per il rilascio di provvedimenti ampliativi.

Il Collegio ritiene di dovere premettere, rispetto al partito esame delle censure dedotte, il proprio convincimento circa la piena condivisibilità ed attualità del principio (ex multis, Cass. civ. Sez. II, 11.08.2005, n. 16853) secondo il quale l'identificazione catastale è richiesta al fine di consentire la trascrizione che non ha alcuna efficacia sostanziale, adempiendo alla limitata funzione di rendere l'atto opponibile ai terzi in caso di conflitto tra più acquirenti del medesimo immobile.
Il principio, nel caso di specie, può essere nella sostanza accostato a quello, -pure a più riprese predicato dalla giurisprudenza amministrativa- secondo il quale (Cons. Stato Sez. IV, 14.02.2012, n. 703) “nel giudizio di impugnazione dell'ordinanza repressiva di un abuso edilizio è onere del privato fornire la prova dello "status quo ante", in quanto la p.a. non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio. Chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza, proprio in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c.. In tali casi, il privato dispone, ed è normalmente in grado di esibire, la documentazione idonea al fine di fornire utili elementi di valutazione quali fotografie con data certa dell'immobile, estratti delle planimetri catastali, il progetto originario e i suoi allegati, ecc.”.
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La premessa dalla quale è necessario trarre le mosse (e che in parte è stata anticipata nell’incipit della presente motivazione) riposa nella considerazione che certamente le risultanze catastali, ex se considerate, non possono rivestire una simile valenza.
La giurisprudenza civile di ciò è ben consapevole, ed in numerose pronunce, sia di merito (App. Roma Sez. I Sent., 23.11.2009: “non può pronunciarsi una sentenza sostitutiva dell’obbligo di concludere il contratto definitivo di compravendita di immobile ex art. 2932 c.c. qualora sia giudizialmente accertata la differenza tra le risultanze catastali e l’effettiva consistenza dei beni immobili al momento del trasferimento, in mancanza di concessione edilizia o di successiva regolarizzazione di esse, e qualora il promettente venditore non abbia provveduto alla regolarizzazione con dichiarazione sostitutiva di notorietà”) che di legittimità (ex aliis Cass. civ. Sez. II, 19.11.2004, n. 21885 “nei contratti in materia di compravendita immobiliare ai fini dell'individuazione dell'immobile oggetto del trasferimento della proprietà l'indicazione dei confini -che concerne punti oggettivi di riferimento esterni consentendo perciò la massima precisione- assume valore decisivo e prevalente rispetto alle altre risultanze probatorie e, in particolare, ai dati catastali, allorché si risolva nella descrizione dell'intero perimetro e, a maggior ragione, quando trovi conferma in altri dati obiettivi incontrovertibilmente conducenti al fine, come la specificazione della superficie e la dettagliata descrizione della composizione e della collocazione dell'unità immobiliare nell'ambito di un più vasto complesso così eliminando ogni margine di dubbio circa la materiale consistenza dell'unità stessa. A tali fini, pertanto, il ricorso ai dati catastali -che non solo hanno natura tecnica e sono preordinati essenzialmente all'assolvimento di funzioni tributarie ma anche spesso sfuggono alla diretta percezione da parte dei contraenti- ha solo carattere sussidiario, essendo ammesso unicamente nell'ipotesi di indicazioni inadeguate o imprecise in ordine ai confini”) ha rimarcato la impossibilità di far discendere la prova della pregressa consistenza dell’immobile dalle dette risultanze catastali.
La giurisprudenza amministrativa, dal canto proprio (ex aliis si veda la completa ricostruzione contenuta nella sentenza di questa Sezione del Consiglio di Stato 18.10.2010, n. 7540) interrogandosi sui concetti di “ripristino” e “ristrutturazione”, ha avuto modo di enunciare taluni importanti principi.
In particolare, nella condivisibile decisione prima indicata si è avuto modo di chiarire che con il termine "ripristino" s'intende, in campo edilizio, l'operazione volta ad ottenere la ricostruzione di una cosa persa, non più esistente, di cui lo strumento di pianificazione, come nel caso di specie pure ne ha ritenuto corretta la riproposizione.
In altri termini, quanto al suo contenuto, il ripristino deve tendere a ricostituire lo status edilizio quo ante, per cui il risultato finale di un siffatto intervento su un immobile non più presente perché demolito o comunque venuto meno per ragioni svariate è appunto la ricostruzione dell'edificio dov'era e com'era (nelle forme e consistenza originariamente possedute dall'edificio).
Si è detto in particolare che anche laddove la disciplina urbanistica comunale ritenga compatibile con la categoria del restauro e quella del risanamento l'intervento di ripristino, è necessario però che le parti originarie da ricostruirsi siano documentate in modo "incontrovertibile", nel senso che attraverso elementi oggettivi -caratterizzati dalla assoluta certezza- deve essere comprovata la preesistenza di quanto si vuole riedificare.
Se così è, è fuori discussione l'ammissibilità in linea generale di un intervento di riedificazione di ciò che in passato è stato (dal punto di vista edilizio) a mezzo, appunto, della modalità del ripristino diventa dirimente l'accertamento dell'esistenza incontrovertibile del precedente manufatto e della sua effettiva consistenza.
Analoghi principi, peraltro, sono predicabili peraltro allorché ci si voglia rifare alla categoria edilizia della ristrutturazione, la cui nozione (pur comprendendo la demolizione e la fedele e integrale ricostruzione: cfr Cons. Stato, Sez. IV, 28.07.2005, n. 4011; Sez. V, 30.08.2006, n. 5061) impone di assicurare la piena conformità di volume, sagoma, e superficie tra vecchio e nuovo fabbricato (in tal senso Cons. Stato Sez. V 07.09.2004 n. 5791).
In sintesi ed in via generale: per ri-edificare si deve provare che “pregresso” v’era, ed esatta consistenza del pregresso: in carenza di tale prova non v’è spazio per il rilascio di provvedimenti ampliativi
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2014 n. 4208 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di <ricostruzione dei ruderi> ai fini della sussistenza dei presupposti per la demolizione e ricostruzione (come “ristrutturazione edilizia”) è necessario che l’edificio esista, con strutture perimetrali, orizzontali e di copertura, con il risultato che si ha invece intervento di “nuova edificazione” in caso di ruderi, allorquando non si disponga di elementi attuali sufficienti a dimostrare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.
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Circa la nuova disciplina introdotta del decreto-legge n. 69/2013 (convertito in legge n. 98/2013) è vero che la nuova disciplina della <ricostruzione dei ruderi>, sposta fattispecie che in passato sono state fatte rientrare negli interventi di “nuova edificazione” nell’ambito delle “ristrutturazione edilizia”; tuttavia ciò avviene a precise condizioni previste dalla norma e cioè laddove si voglia ricostruire un immobile crollato o demolito del quale “sia possibile accertare la preesistente consistenza”.
Dunque non è sufficiente che si dimostri che un immobile è esistito e che attualmente risulta crollato per potere accedere alla sua ricostruzione come “ristrutturazione edilizia”, ma è necessario che in concreto si dimostri non solo il profilo dell’an (che un certo immobile attualmente crollato è esistito) ma anche quello del quantum (che cioè si dimostri l’esatta consistenza dell’immobile preesistente del quale si richiede la ricostruzione); il risultato è che se invece si riesce solo a dimostrare che in un certo luogo vi era in passato un immobile oggi demolito, ma non si riesce a dimostrarne la consistenza, la sua rinnovata edificazione deve essere inquadrata come “nuova costruzione”.
Dimostrare la “preesistente consistenza” vuol dire, come anche parte ricorrente ammette, dar conto della “destinazione d’uso e [del]l’ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato”, profilo quest’ultimo che richiede certezza in punto di murature perimetrali e di strutture orizzontali di copertura, ai fini del calcolo del volume preesistente occupato dal fabbricato crollato.
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Nel caso in esame elementi fattuali aventi un qualche grado di certezza sull’effettivo ingombro planivilumetrico dell’edificio preesistente non ci sono. Nel ricorso e nella relazione tecnica allegata all’istanza di permesso di costruire si dice apertamente che l’immobile che si intende ricostruire non solo è crollato, ma è “non più identificabile dai resti”.
La documentazione che parte ricorrente ha prodotto in sede procedimentale e anche quella aggiuntiva prodotta in giudizio, se danno conto della certa preesistenza dell’immobile di cui si chiede la ricostruzione non consentono di ritenere accertata la sua effettiva consistenza; se dubbi suscita l’individuazione delle dimensioni in pianta dell’edificio, che dovrebbero ricavarsi da una vecchia mappa catastale e da un estratto del c.d. Catasto Leopoldino (atti che non consentono di ricavare elementi quantitativi certi), sicuramente inidoneo risulta il calcolo dell’altezza dell’edificio crollato.
Quest’ultimo elemento (altezza dell’edificio) è infatti ricavato da parte ricorrente applicando, ad una foto aerea del 1965, la c.d. “teoria delle ombre”, cioè uno studio che stima le altezze degli immobili dal confronto tra le ombre dei vari edifici, ricavabili dalla foto, alcuni dei quali ancora esistenti: come l’Amministrazione ha ben argomentato nella relazione tecnica presentata, si tratta di calcoli con margine di errore molto alto (sino a 8 metri) e quindi con attendibilità assai ridotta, stante il fatto che si utilizza una foto scattata a 2.800 metri di quota e in scala 1: 20.000, con il risultato che essa non risulta idonea ad integrare la previsione normativa che richiede che sia “accertata” la preesistente consistenza dell’immobile.
In tema di <ricostruzione dei ruderi> la Sezione si è recentemente espressa con la sentenza n. 1560 del 12.11.2013, nella quale è stato richiamato l’orientamento giurisprudenziale prevalente secondo cui, ai fini della sussistenza dei presupposti per la demolizione e ricostruzione (come “ristrutturazione edilizia”), è necessario che l’edificio esista, con strutture perimetrali, orizzontali e di copertura, con il risultato che si ha invece intervento di “nuova edificazione” in caso di ruderi, allorquando non si disponga di elementi attuali sufficienti a dimostrare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.
Nella presente controversia, tuttavia, parte ricorrente richiama la nuova disciplina introdotta del decreto-legge n. 69 del 2013 (convertito in legge n. 98 del 2013), che ha sul punto modificato l’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001, cioè la norma che definisce l’istituto della <ristrutturazione edilizia>; a seguito di tale modifica rientrano nella ristrutturazione edilizia anche gli interventi edilizi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”; parte ricorrente ritiene che nella specie sussistano i presupposti per assentire l’intervento edilizio richiesto alla luce della nuova definizione normativa della ristrutturazione edilizia.
Ma la tesi di parte ricorrente non convince.
Da un primo punto di vista è vero che la nuova disciplina della <ricostruzione dei ruderi>, sposta fattispecie che in passato sono state fatte rientrare negli interventi di “nuova edificazione” nell’ambito delle “ristrutturazione edilizia”; tuttavia ciò avviene a precise condizioni previste dalla norma e cioè laddove si voglia ricostruire un immobile crollato o demolito del quale “sia possibile accertare la preesistente consistenza”.
Dunque non è sufficiente che si dimostri che un immobile è esistito e che attualmente risulta crollato per potere accedere alla sua ricostruzione come “ristrutturazione edilizia”, ma è necessario che in concreto si dimostri non solo il profilo dell’an (che un certo immobile attualmente crollato è esistito) ma anche quello del quantum (che cioè si dimostri l’esatta consistenza dell’immobile preesistente del quale si richiede la ricostruzione); il risultato è che se invece si riesce solo a dimostrare che in un certo luogo vi era in passato un immobile oggi demolito, ma non si riesce a dimostrarne la consistenza, la sua rinnovata edificazione deve essere inquadrata come “nuova costruzione”.
Dimostrare la “preesistente consistenza” vuol dire, come anche parte ricorrente ammette, dar conto della “destinazione d’uso e [del]l’ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato”, profilo quest’ultimo che richiede certezza in punto di murature perimetrali e di strutture orizzontali di copertura, ai fini del calcolo del volume preesistente occupato dal fabbricato crollato.
Nel caso in esame elementi fattuali aventi un qualche grado di certezza sull’effettivo ingombro planivilumetrico dell’edificio preesistente non ci sono. Nel ricorso e nella relazione tecnica allegata all’istanza di permesso di costruire (doc. 2 dell’Amministrazione) si dice apertamente che l’immobile che si intende ricostruire non solo è crollato, ma è “non più identificabile dai resti”.
La documentazione che parte ricorrente ha prodotto in sede procedimentale e anche quella aggiuntiva prodotta in giudizio, se danno conto della certa preesistenza dell’immobile di cui si chiede la ricostruzione non consentono di ritenere accertata la sua effettiva consistenza; se dubbi suscita l’individuazione delle dimensioni in pianta dell’edificio, che dovrebbero ricavarsi da una vecchia mappa catastale e da un estratto del c.d. Catasto Leopoldino (atti che non consentono di ricavare elementi quantitativi certi), sicuramente inidoneo risulta il calcolo dell’altezza dell’edificio crollato; quest’ultimo elemento (altezza dell’edificio) è infatti ricavato da parte ricorrente applicando, ad una foto aerea del 1965, la c.d. “teoria delle ombre”, cioè uno studio che stima le altezze degli immobili dal confronto tra le ombre dei vari edifici, ricavabili dalla foto, alcuni dei quali ancora esistenti: come l’Amministrazione ha ben argomentato nella relazione tecnica del 27.02.2014 (doc. 13 del deposito dell’Amministrazione), si tratta di calcoli con margine di errore molto alto (sino a 8 metri) e quindi con attendibilità assai ridotta, stante il fatto che si utilizza una foto scattata a 2.800 metri di quota e in scala 1: 20.000, con il risultato che essa non risulta idonea ad integrare la previsione normativa che richiede che sia “accertata” la preesistente consistenza dell’immobile (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.03.2014 n. 567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella fattispecie, trattasi di un residuo di manufatto, completamente diruto, fondamentalmente costituito da segmenti del muro perimetrale nemmeno idonei al riconoscimento dell’originaria area di sedime.
Orbene, stante l’inesistenza di un fabbricato su cui intervenire, appaiono del tutto non condivisibili le affermazioni del primo giudice sulla possibilità della ristrutturazione, in quanto tale intervento è espressamente consentito, anche nella forma della ricostruzione previa demolizione, in presenza di un edificio esistente, circostanza qui non assodata, anzi esclusa dalle prove.
Non solo, l’inesistenza di un edificio su cui intervenire esclude parimenti la possibilità di una realizzazione di parcheggi ex legge 122 del 1990, visto che la legge ricollega tale facoltà ai soli manufatti esistenti, anzi impone uno stretto vincolo di pertinenzialità, non concepibile in assenza dell’opera principale (da ultimo, Consiglio di Stato, n. 3672/2013, che rimarca come l'art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122, nella parte in cui assoggetta la realizzazione di parcheggi ad autorizzazione gratuita e non a concessione, costituisce norma eccezionale che, derogando agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, deve intendersi riferita al parcheggio realizzato nello stesso fabbricato ove sono situate le unità immobiliari di cui il parcheggio costituisce pertinenza).

L’aspetto centrale della vicenda, come d’altronde avviene spesso in tutte le questioni riguardanti l’edilizia, attiene all’esatta individuazione della categoria di opera, in relazione alla fondamentale distinzione tra interventi di nuova costruzione e interventi sul patrimonio esistente.
Peraltro, tale dato di fatto è tutt’altro che pacifico tra le parti, atteso che per gli appellati si tratta di un fabbricato storico oggetto di dichiarazione di interesse particolarmente importante, specificamente riconoscibile nella sua sussistenza storica, mentre l’amministrazione lo qualifica come rudere. Si tratta quindi di un accertamento in fatto, peraltro di natura estremamente semplice, che non può sfuggire alla cognizione del giudice.
Orbene, nella disamina degli atti, emerge come la difesa del Comune de L’aquila abbia depositato un fascicolo fotografico, da cui si ritrae una rappresentazione visiva, immediata e lineare dell’aspetto dell’immobile. Si tratta di un residuo di manufatto, completamente diruto, fondamentalmente costituito da segmenti del muro perimetrale nemmeno idonei al riconoscimento dell’originaria area di sedime.
La prova fotografica fornita, lampante tanto da essere ovvia, impone alla Sezione di ritenere del tutto infondata la ricostruzione proposta dagli appellati, aderendo pienamente alla qualificazione data dal Comune all’edificio.
Chiarite le coordinate fattuali, la disciplina giuridica è immediatamente conseguente.
In primo luogo, stante l’inesistenza di un fabbricato su cui intervenire, appaiono del tutto non condivisibili le affermazioni del primo giudice (che peraltro si è basato sulle argomentazioni degli originari ricorrenti “da intendersi qui per riportate e trascritte”) sulla possibilità della ristrutturazione, in quanto tale intervento è espressamente consentito, anche nella forma della ricostruzione previa demolizione, in presenza di un edificio esistente, circostanza qui non assodata, anzi esclusa dalle prove. Pertanto, va confermata la presenza dei presupposti legittimanti l’atto di annullamento adottato dal Comune di L’Aquila in ordine alla D.I.A. (prot. 984 in data 11.08.2005) relativa ai lavori di ristrutturazione dell’immobile in questione.
In secondo luogo, l’inesistenza di un edificio su cui intervenire esclude parimenti la possibilità di una realizzazione di parcheggi ex lege 122 del 1990, visto che la legge ricollega tale facoltà ai soli manufatti esistenti, anzi impone uno stretto vincolo di pertinenzialità, non concepibile in assenza dell’opera principale (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.07.2013 n. 3672, che rimarca come l'art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122, nella parte in cui assoggetta la realizzazione di parcheggi ad autorizzazione gratuita e non a concessione, costituisce norma eccezionale che, derogando agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, deve intendersi riferita al parcheggio realizzato nello stesso fabbricato ove sono situate le unità immobiliari di cui il parcheggio costituisce pertinenza)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.02.2014 n. 735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazione mediante demolizione e costruzione ed accertamento della preesistente consistenza del manufatto.
La previsione contenuta nell'art. 30 legge 98/2013 consente di procedere a ristrutturazione di edificio crollato o demolito a condizione che "sia possibile accertarne la preesistente consistenza".
La norma non chiarisce attraverso quali strumenti detto accertamento possa o debba essere compiuto, ma la Corte considera indubitabile che il sistema in vigore escluda si possa ricorrere a fonti non documentali o comunque prive dei caratteri di certezza e verificabilità.
Depone per questa conclusione tutta la disciplina che regola il procedimento che conduce al permesso di costruire
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.02.2014 n. 5912 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi di ristrutturazione o di manutenzione postulano «necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura-, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesistico-ambientali vigenti al momento della riedificazione»
In proposito, va ribadito che gli interventi di ristrutturazione o di manutenzione postulano «necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura-, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesistico-ambientali vigenti al momento della riedificazione» (TAR Campania, questa sezione, Sent. n. 03588/2013 e 7049/2009; si vedano anche Consiglio di Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7476 e Cassazione penale sez. III, 21.10.2008 n. 42521)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 514 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2013

EDILIZIA PRIVATAIl rudere cambia sagoma. Vanno comunque rispettate volumetria e destinazione d'uso.
LE ALTRE CONSEGUENZE/ Sembra possibile ottenere, se ci sono ancora delle rate in corso, la detrazione del 36% per i lavori già eseguiti.

Fra gli interventi di ristrutturazione edilizia sono ora ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Questa ampia formulazione, che abolisce l'obbligo di rispettare la sagoma preesistente (salvo che per gli immobili vincolati) pone stringenti problemi interpretativi tanto connessi alle modalità di definizione e di prova della consistenza degli edifici preesistenti, come quelli sollevati dal lettore Stefano Vignudelli, quanto relativi al momento di realizzazione dell'intervento qualificabile ora come ristrutturazione.
Attenzione: possono godere della nuova classificazione del l'intervento soltanto gli edifici realizzati legittimamente, non essendo ammissibile che la nuova disposizione consenta la ricostruzione di edifici abusivi costruiti in violazione della disciplina urbanistica ed edilizia applicabile. Così, l'edificio sorto su area inedificabile e nel frattempo demolito o crollato non potrà essere riedificato.
Nel contempo, si può affermare che la ricostruzione delle volumetrie demolite o crollate dovrà mantenere l'uso loro in precedenza assegnato, salva comunque la possibilità di utilizzare l'edificio ricostruito per le destinazioni consentite dallo strumento urbanistico vigente.
Tanto premesso, venendo ai quesiti sul tema, è anzitutto possibile affermare che per definire la consistenza degli edifici demoliti o crollati soccorrono le misure stereometriche (altezza, superficie, volume) stabilite dalla vigente disciplina edilizia locale di riferimento. Si dovrà quindi fare riferimento al piano regolatore e al regolamento edilizio. Quanto alle modalità di prova della preesistente consistenza, la documentazione principale cui fare riferimento è sicuramente costituita dai progetti approvati dal Comune. Per gli edifici più antichi, realizzati quando il titolo non era necessario, soccorre ogni altro documento utile a descrivere la situazione edilizia e, tra essi, i rilievi catastali e le planimetrie allegate agli atti di disposizione del bene (contratti di compravendita, affitto, locazione e simili).
Inoltre, rispetto alla possibilità di avvalersi della nuova disposizione per gli interventi realizzati prima della sua entrata in vigore, sia rispetto alla possibilità di chiedere la restituzione di quanto pagato in più a titolo di contributo di costruzione, sia rispetto alla possibilità di godere ora della detrazione Irpef allora vigente (41% o 36%), sia infine con riferimento alla possibilità di ottenere la sanatoria edilizia per gli interventi allora abusivi quale nuova opera ma legittimi se ritenuti di ristrutturazione.
Sembra da escludere la restituzione del contributo pagato in eccesso perché il pagamento è stato legittimamente richiesto in base alla disciplina vigente al momento della liquidazione del contributo stesso. A conclusione diversa potrebbe giungersi rispetto ai pagamenti non ancora effettuati.
Quanto al godimento dei benefici fiscali ancora fruibili, non ci sarebbe motivo di negarli, specie ove il comune accerti che l'intervento autorizzato come nuova costruzione rientra ora nella definizione di ristrutturazione (ma devono pronunciarsi le Entrate).
Infine, rispetto alla possibilità di ottenere la sanatoria ai sensi dell'articolo 36 del Testo unico edilizia, la stesa richiede la conformità dell'intervento sia al momento di presentazione della domanda di sanatoria, sia al momento di realizzazione dell'abuso, circostanza quest'ultima che non potrebbe mai ricorrere in quanto prima del decreto del fare la ricostruzione infedele corrispondeva a una nuova costruzione (in ipotesi illegittima) (articolo Il Sole 24 Ore del 10.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAIl manufatto di cui è causa, ancorché diruto, non poteva essere considerato un rudere al momento della presentazione della DIA, in quanto era possibile identificare con chiarezza le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio originario.
Dalla predetta relazione, infatti, emerge che:
- la muratura perimetrale dell’immobile era su tutti i lati esistente, anche se presentava in alcuni lati parti franate;
- il colmo del tetto era esistente, con le lastre d’ardesia e i coppi di finitura ancora parzialmente in opera, mentre solo un tratto era franato;
- la striscia del tetto a valle -in corrispondenza della gronda- era esistente, con lastre d’ardesia in opera.
La presenza di tali elementi architettonici consentiva, dunque, al fabbricato di essere individuato come organismo edilizio avente una ben determinata sagoma e un ben determinato volume e, quindi, di poter essere considerato oggetto di opere di ristrutturazione.
In particolare, dalla relazione e dalla richiamata documentazione fotografica risultano non solo le dimensioni dell’originario fabbricato, ma anche le altezze con la relativa copertura del tetto, nonché le aperture, caratterizzate dalla presenza di finestre (o comunque di apertura) a diversa altezza l’una dall’altra.

Osserva al riguardo il Collegio che, come si evince dalla relazione dell’architetto Gianluca Mosto del 12.06.2009 e dalla documentazione fotografica versata in atti nel processo di primo grado, il manufatto di cui è causa, ancorché diruto, non poteva essere considerato un rudere al momento della presentazione della DIA, in quanto era possibile identificare con chiarezza le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio originario.
Dalla predetta relazione (la cui attendibilità è con evidenza corroborata dalla documentazione fotografica depositata nel corso del giudizio), infatti, emerge, in relazione alla DIA n. 437 del 2006, che:
- la muratura perimetrale dell’immobile era su tutti i lati esistente, anche se presentava in alcuni lati parti franate;
- il colmo del tetto era esistente, con le lastre d’ardesia e i coppi di finitura ancora parzialmente in opera, mentre solo un tratto era franato;
- la striscia del tetto a valle -in corrispondenza della gronda- era esistente, con lastre d’ardesia in opera.
La presenza di tali elementi architettonici consentiva, dunque, al fabbricato di essere individuato come organismo edilizio avente una ben determinata sagoma e un ben determinato volume e, quindi, di poter essere considerato oggetto di opere di ristrutturazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.04.2000, n. 1906).
In particolare, dalla relazione e dalla richiamata documentazione fotografica risultano non solo le dimensioni dell’originario fabbricato, ma anche le altezze con la relativa copertura del tetto, nonché le aperture, caratterizzate dalla presenza di finestre (o comunque di apertura) a diversa altezza l’una dall’altra
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.04.2013 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è ferma nel riconoscere i caratteri di "rudere" in un manufatto "costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali" ovvero in un immobile in cui sia "presente solo parte della muratura perimetrale, vi è assenza di copertura e di strutture orizzontali".
Quanto agli interventi di ripristino di edifici diruti, la giurisprudenza precisa la relativa nozione riportandola agli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura e, correttamente, nega che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo.
Essa pone, inoltre, una condivisibile distinzione tra le ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di ristrutturazione (o risanamento); e le ipotesi in cui, invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, per l'assenza degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali.
In ipotesi siffatte, si esclude che la ricostruzione di un rudere possa essere ascritta ad ipotesi di ristrutturazione edilizia e men che meno di risanamento conservativo, integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare.

Si è già detto della condizione di estrema fatiscenza del fabbricato diroccato, riscontrata in sede di sopralluogo e avvalorata dalla documentazione fotografica versata in atti (cfr. doc. 3, 8 e 9 fasc. resist.): il rudere si presenta privo di copertura, di orizzontamenti e di strutture murarie definite, oltre che in condizioni generali che non consentono di definirne la consistenza originaria.
Orbene, la giurisprudenza è ferma nel riconoscere i caratteri di "rudere" in un manufatto "costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali" (TAR Veneto, Sez. II, 05.06.2008, n. 1667) ovvero in un immobile in cui sia "presente solo parte della muratura perimetrale, vi è assenza di copertura e di strutture orizzontali" (TAR Salerno, Sez. II, 26.09.2007, n. 1927).
Quanto agli interventi di ripristino di edifici diruti, la giurisprudenza precisa la relativa nozione riportandola agli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura (TAR Napoli, sezione IV, 14.12.2006 n. 10553) e, correttamente, nega che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo (TAR Napoli, sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286 e sez. VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Latina, 15.07.2009, n. 700).
Essa pone, inoltre, una condivisibile distinzione tra le ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di ristrutturazione (o risanamento); e le ipotesi in cui, invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione (TAR Napoli, Sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286; TAR Veneto sez. II, 05.06.2008, n. 1667), per l'assenza degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali (Cons. St., sez. V, 10.02.2004, n. 475).
In ipotesi siffatte, si esclude che la ricostruzione di un rudere possa essere ascritta ad ipotesi di ristrutturazione edilizia e men che meno di risanamento conservativo, integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare (TAR Napoli, 09.11.2009 n. 7049; Cons. St., Sez. VI, 15.09.2006 n. 5375) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 04.04.2013 n. 410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituiscono edifici diruti gli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura, escludendo che gli interventi svolti sugli stessi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo.
Inoltre, è stato chiarito che si deve distinguere tra le ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di ristrutturazione; e le ipotesi in cui, invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, per l'assenza degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali.

Al riguardo va ricordato che la giurisprudenza ha specificato che costituiscono edifici diruti gli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura (cfr. TAR Campania, Sez. IV, 14.12.2006 n. 10553), escludendo che gli interventi svolti sugli stessi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo (cfr. TAR Campania, Sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286; idem, Sez. VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Latina, 15.07.2009, n. 700).
Inoltre, è stato chiarito che si deve distinguere tra le ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di ristrutturazione; e le ipotesi in cui, invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione (cfr. TAR Veneto Venezia, sez. II, 05.06.2008, n. 1667), per l'assenza degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.02.2004, n. 475) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.03.2013 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si ha ristrutturazione edilizia solo in caso di preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, e non anche nelle ipotesi di ricostruzione su ruderi.
Ciò comporta, come riconosciuto da unanime giurisprudenza, sia amministrativa sia del giudice penale, che la ricostruzione su ruderi, o su di un edificio da tempo demolito, costituisce nuova costruzione e, quindi, richiede un'apposita concessione edilizia o il titolo corrispondente secondo la vigente normativa.

Appare, peraltro, opportuno ricordare, anche alla luce di quanto emerge dagli atti di causa, che si ha ristrutturazione edilizia solo in caso di preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, e non anche nelle ipotesi di ricostruzione su ruderi.
Ciò comporta, come riconosciuto da unanime giurisprudenza, sia amministrativa sia del giudice penale (CdS IV 1669/2007; Sez. V, 15.04.2004 n. 2142; TAR Liguria, Sez. I, 24.01.2002 n. 53; Consiglio di Stato, Sez. V, 01.12.1991 n. 2021; Cass. penale, Sez. III, 20.02.2001, n. 658; id. 20.02.2001 n. 13982; 45240/07), che la ricostruzione su ruderi, o su di un edificio da tempo demolito, costituisce nuova costruzione e, quindi, richiede un'apposita concessione edilizia o il titolo corrispondente secondo la vigente normativa (cfr. anche, più di recente, Tar Toscana, 437/2012).
Come già osservato, peraltro, la ricorrente non ha fornito neanche un principio di prova della preesistenza delle opere, oggetto della presunta manutenzione straordinaria, confermando così la legittimità dell’ingiunzione di demolizione di interventi edilizi recenti e privi di titolo edilizio (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 52 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione su ruderi o su di un edificio da tempo demolito costituisce nuova costruzione e non certo restauro conservativo o manutenzione straordinaria.
Inoltre, la giurisprudenza, dalla quale il Collegio non trova ragioni per discostarsi, è da tempo consolidata nel ritenere che la ricostruzione su ruderi o su di un edificio da tempo demolito (perché di questo presumibilmente si tratta nel caso in oggetto) costituisce nuova costruzione e non certo restauro conservativo o manutenzione straordinaria (cfr. CdS IV 1669/07; Sez. V, 15.04.2004 n. 2142; TAR Liguria, Sez. I, 24.01.2002 n. 53; Consiglio di Stato, Sez. V, 01.12.1991 n. 2021; Cass. penale, Sez. III, 20.02.2001, n. 658; id. 20.02.2001 n. 13982; 45240/07) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2012

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha riportato la nozione di interventi di ripristino di edifici diruti ad organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura e non totalmente da ricostruire e ha condivisibilmente negato che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo.
A maggiore ragione si deve ritenere che, ove manchino del tutto le mura perimetrali come è nel caso di specie laddove rimangono solo delle impronte minimali sul terreno, la ricostruzione non possa rientrare nel novero degli interventi di restauro e risanamento conservativo.
Ne discende che la riconduzione dell’intervento richiesto va, pertanto, effettuata ai sensi del citato art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove la scelta tra le possibili opzioni è tra la nuova costruzione o la ristrutturazione edilizia e la sussumibilità nell’una o nell’altra categoria dipende anche dalla circostanza che la ricostruzione avvenga con la stessa volumetria e sagoma della preesistenza oltreché dalla ragionevole prossimità temporale della ricostruzione rispetto alla demolizione.
Peraltro, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo anche come ristrutturazione e non nuova edificazione, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie.

Il Collegio rileva che l’intervento richiesto ha ad oggetto il “restauro etico” di preesistenti locali posti al piano terra del Castello Lauritano, crollati molti anni fa, come dimostrato dalla documentazione fotografica allegata, e dei quali residuano solo delle tracce sul terreno.
Detti interventi non possono, pertanto, rientrare nell'ambito della categoria "del consolidamento statico e del restauro e risanamento conservativo" che, secondo la definizione dell’art. 3, lettera c), del D.P.R. n. 380/2001, sono quegli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio.
E, infatti, la giurisprudenza, anche di questo TAR, rammentata dall’Amministrazione resistente, ha riportato la nozione di interventi di ripristino di edifici diruti ad organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura e non totalmente da ricostruire (cfr. TAR Campania, Napoli, IV, 14.12.2006 n. 10553) e ha condivisibilmente negato che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo (cfr. TAR Campania, Napoli, IV, 23.12.2010, n. 28002; TAR Campania, Napoli, VIII, 04.03.2010, n. 1286; TAR Campania, Napoli, VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Lazio, Latina, 15.07.2009, n. 700).
A maggiore ragione si deve ritenere che, ove manchino del tutto le mura perimetrali come è nel caso di specie laddove rimangono solo delle impronte minimali sul terreno, la ricostruzione non possa rientrare nel novero degli interventi di restauro e risanamento conservativo.
Ne discende che la riconduzione dell’intervento richiesto va, pertanto, effettuata ai sensi del citato art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove la scelta tra le possibili opzioni è tra la nuova costruzione o la ristrutturazione edilizia e la sussumibilità nell’una o nell’altra categoria dipende anche dalla circostanza che la ricostruzione avvenga con la stessa volumetria e sagoma della preesistenza oltreché dalla ragionevole prossimità temporale della ricostruzione rispetto alla demolizione.
Peraltro, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo anche come ristrutturazione e non nuova edificazione, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie (cfr. Cassazione civile, sez. II, 27.10.2009, n. 22688; TAR Campania, Napoli,IV, 15.6.2011 n. 3184).
Alla stregua di tali considerazioni discende che correttamente l’Amministrazione comunale ha qualificato l’intervento sul piano urbanistico come “nuova costruzione piuttosto che ristrutturazione edilizia”, giacché all’esito di una rigorosa verifica sulla consistenza emergente dall’elemento fotografico, dal quale risulta la presenza di tracce di murature sul sedime che risalirebbero agli inizi del secolo scorso, la soluzione progettuale proposta non può qualificarsi come restauro del preesistente, presentando, peraltro, profili di notevole incertezza anche sull’effettiva consistenza delle ulteriori integrazioni aggiunte/aggiunte che si intendono effettuare, cospicue in termini di superfici e volumetria (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 26.11.2012 n. 4795 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa demolizione e successiva ricostruzione di un rudere è qualificabile come intervento di nuova costruzione, in quanto la ristrutturazione edilizia dev’essere sempre rivolta alla conservazione di un edificio ancora esistente e strutturalmente identificabile al momento dell’inizio dei lavori.
Orbene, in materia edilizia, anche alla luce delle disposizioni contenute nel T.U. 06.06.2001 n. 380, la demolizione e successiva ricostruzione di un rudere è qualificabile come intervento di nuova costruzione, in quanto la ristrutturazione edilizia dev’essere sempre rivolta alla conservazione di un edificio ancora esistente e strutturalmente identificabile al momento dell’inizio dei lavori (cfr. Cass. pen., Sez. III, 28.03.2003 n. 14455; Cons. Stato, Sez. V, 10.02.2004 n. 475).
Ne consegue che, già sulla scorta del titolo di proprietà esibito dalla parte ricorrente, ai fini richiesti dall’interessato non potevano essere autorizzati semplici lavori di ristrutturazione (TAR Umbria, sentenza 22.10.2012 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione di un edificio diruto deve qualificarsi, secondo consolidata giurisprudenza, come nuova opera e, dunque, non riconducibile ad un intervento di semplice ristrutturazione.
La ricostruzione di un edificio diruto deve qualificarsi, secondo consolidata giurisprudenza, come nuova opera e, dunque, non riconducibile ad un intervento di semplice ristrutturazione (cfr. ex multis CdS, Sez. V, 15.04.2004, n. 2142; TAR Campania, Sez. IV, 14.12.2006 n. 10553)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 29.06.2012 n. 3096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si intende per rudere un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura perimetrale, vi è assenza di copertura e di strutture orizzontali, onde non può certamente parlarsi di un edificio allo stato esistente.
La giurisprudenza amministrativa ha –del resto– ben chiara la differenza fra “edificio” e “rudere”; così ad esempio: <<(…) si intende per rudere un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura perimetrale, vi è assenza di copertura e di strutture orizzontali, onde non può certamente parlarsi di un edificio allo stato esistente>> (TAR Campania, Salerno, sez. I, 16.02.2012, n. 240; si vedano anche TAR Campania, Napoli, sez. IV, 23.12.2010, n. 28002; Tribunale di Chieti, 02.01.2009, n. 2 e Cassazione penale, sez. III, 21.10.2008, n. 42521) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1429 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa ricostruzione di ruderi deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, non essendo equiparabile alla ristrutturazione edilizia, con la conseguenza che per la sua realizzazione è necessario il permesso di costruzione, non essendo possibile far ricorso alla denuncia di inizio di attività, ai sensi dell'art. 1, comma 6, l. 21.12.2001 n. 443.
... costituisce giurisprudenza consolidata e condivisibile che “la ricostruzione di ruderi deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, non essendo equiparabile alla ristrutturazione edilizia, con la conseguenza che per la sua realizzazione è necessario il permesso di costruzione, non essendo possibile far ricorso alla denuncia di inizio di attività, ai sensi dell'art. 1, comma 6, l. 21.12.2001 n. 443” (C.d.S., IV, 15.09.2006, n. 5375; conf. C.d.S., V, 10.02.2004, n. 475; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione di un rudere non è ascrivibile ad ipotesi di ristrutturazione edilizia e meno che meno di risanamento conservativo, integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare.
Intanto può attuarsi un intervento di ristrutturazione edilizia (di demolizione e ricostruzione) in quanto esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, mentre non è ravvisabile siffatto intervento nei confronti di ruderi o edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, assoggettato ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica.
I lavori di rifacimento di un rudere sono qualificabili come nuova costruzione; infatti, manca la possibilità di procedere con certezza alla ricognizione delle strutture portanti dell'edificio ormai irriconoscibile.
Rispetto ad una costruzione che sia ridotta allo stato di un rudere non è possibile compiere una valutazione in termini di compatibilità delle caratteristiche planovolumetriche tra lo stato dell'edificio prima e dopo l'intervento di riedificazione, per cui appare chiaro che la ricostruzione di un edificio debba essere qualificata come nuova costruzione, che deve essere assentita mediante permesso a costruire, ai sensi degli artt. 10 e 22 comma 3, t.u. 06.06.2001 n. 380.
In materia edilizia, la ricostruzione di un rudere costituisce nuova costruzione in quanto il concetto di ristrutturazione edilizia richiede la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, inteso quale organismo edilizio dotato di elementi strutturali, quali muri perimetrali, strutture orizzontali e copertura, in assenza dei quali non è possibile valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio stesso.

Entrando direttamente nel merito della questione concernente il regime giuridico dettato per la ricostruzione di edifici crollati (cd. ruderi), si deve precisare quanto segue.
In Sicilia, sulla base della normativa contenuta nell’art. 20, lett. c e d, della L.R. 71/1978 (tuttora vigente) si distingue tra interventi di “restauro e risanamento conservativo”, da una parte, e di “ristrutturazione edilizia”, dall’altra.
La giurisprudenza, da tempo, ritiene che “Dall'analisi di tale disposizione [lett. c, dell’art. 20, n.d.r.] e dal raffronto della disposizione stessa con quella della successiva lettera d) discende che gli interventi edilizi che non comportino la realizzazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso debbano rientrare nella nozione di restauro e risanamento conservativo, e ciò anche nel caso limite in cui del fabbricato originario sia rimasto soltanto poco più delle fondazioni.” (CGA, parere n. 151/1989), e ciò in quanto la caratteristica tipica del restauro e del risanamento conservativo siano da individuare nel “rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo edilizio” (CGA sentenza n. 356/1994; Tar Catania 176/2007).
Per contro, in sintonia con la ratio che ispira le predette decisioni, si è affermato che “Necessita di concessione edilizia, non potendosi qualificare intervento di manutenzione o di conservazione, ai sensi dell'art. 20, lett. c), della legge regionale 27.12.1978 n. 71, la ricostruzione, a seguito dell'intervenuto crollo, della vecchia costruzione, mediante riedificazione di strutture radicalmente e qualitativamente diverse da quelle preesistenti” (Tar Catania, 975/1994).
Dalle illustrate decisioni si può trarre il principio per cui la qualificazione giuridica dell’intervento edilizio è determinata dalla circostanza che il progetto preveda o meno la realizzazione di un edificio identico a quello preesistente. Ove tale condizione ricorra, si adopererà lo strumento del restauro e risanamento conservativo; si tratterà di ristrutturazione, invece, nel caso inverso.
Data questa premessa, allora, si può fare un ulteriore passo avanti ed affermare che la distinzione riportata sia valida –non solo nei casi di interventi eseguiti su edifici esistenti che si intende rimaneggiare, ma- anche nelle ipotesi in cui l’oggetto dell’attività edilizia sia precedentemente demolito, o sia comunque crollato. La ricostruzione di un edificio del tutto nuovo e diverso da quello crollato richiederà una nuova concessione; la ricostruzione fedele del rudere, nel rispetto delle caratteristiche formali e dimensionali precedenti, sarà eseguibile sotto forma di restauro e risanamento conservativo.
Deve essere però precisato che –in quest’ultimo caso– la ricostruzione fedele presuppone che vi sia certezza in ordine alla caratteristiche dimensionali e formali dell’edificio in rovina, in modo che possa essere realizzata una sua fedele ricostruzione. Quindi, ciò che rileva ai fini dell’utilizzo dell’istituto del restauro e risanamento conservativo è che siano individuabili, od evincibili aliunde, gli elementi compositivi della struttura da ricostruire che ne rendono possibile la fedele ricostruzione, restando marginale il fatto che allo stato l’edificio si presenti sotto forma di rudere.
Il principio appena affermato si ricava a contrario anche dalla seguente giurisprudenza formatasi con riguardo alla legislazione nazionale:
- “La ricostruzione di un rudere non è ascrivibile ad ipotesi di ristrutturazione edilizia e meno che meno di risanamento conservativo, integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare” (Tar Napoli, 1286/2010);
- “Intanto può attuarsi un intervento di ristrutturazione edilizia (di demolizione e ricostruzione) in quanto esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, mentre non è ravvisabile siffatto intervento nei confronti di ruderi o edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, assoggettato ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica” (Tar Venezia, 1667/2008);
- “I lavori di rifacimento di un rudere sono qualificabili come nuova costruzione; infatti, manca la possibilità di procedere con certezza alla ricognizione delle strutture portanti dell'edificio ormai irriconoscibile.” (Tar Trieste, 749/2007);
- “Rispetto ad una costruzione che sia ridotta allo stato di un rudere non è possibile compiere una valutazione in termini di compatibilità delle caratteristiche planovolumetriche tra lo stato dell'edificio prima e dopo l'intervento di riedificazione, per cui appare chiaro che la ricostruzione di un edificio debba essere qualificata come nuova costruzione, che deve essere assentita mediante permesso a costruire, ai sensi degli artt. 10 e 22 comma 3, t.u. 06.06.2001 n. 380.” (Tar Catanzaro, 1486/2007);
- “In materia edilizia, la ricostruzione di un rudere costituisce nuova costruzione in quanto il concetto di ristrutturazione edilizia richiede la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, inteso quale organismo edilizio dotato di elementi strutturali, quali muri perimetrali, strutture orizzontali e copertura, in assenza dei quali non è possibile valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio stesso” (Cass. pen., III; 20776/2006).
Le riportate massime sono tutte accomunate dall’idea che la riedificazione di un rudere richieda necessariamente l’istituto della concessione per nuova costruzione, in considerazione della obbiettiva impossibilità di valutare la consistenza dell’originario edificio. Se ne può ricavare, a contrario, che valgano invece le regole dettate in tema di ristrutturazione (tramite ricostruzione) ove le dimensioni e la forma del preesistente edificio siano in qualche maniera ricavabili ab externo (anche se ciò, probabilmente, costituisce una eventualità non frequente) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 13.01.2012 n. 73 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una ristrutturazione edilizia, e maggior ragione una manutenzione straordinaria, postulano necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura-, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie vigenti al momento della riedificazione.
Ne consegue che la ricostruzione di ruderi deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione che non può essere equiparata al recupero edilizio o alla manutenzione straordinaria non essendoci nulla da recuperare o manutenere come entità edilizia esistente e quale unità abitativa e per simile attività, perciò, deve essere richiesta apposita concessione edilizia.

Secondo un costante e consolidato orientamento giurisprudenziale, una ristrutturazione edilizia, e maggior ragione una manutenzione straordinaria, postulano necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura-, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie vigenti al momento della riedificazione (Cons. Stato, sez. IV, 15.09.2006, n. 5375; sez. V; 15.04.2004, n. 2142; 29.10.2001, n. 5642; 01.12.1999, n. 2021; 10.03.1997, n. 240).
Ne consegue che la ricostruzione di ruderi –nel caso di specie, in base alla documentazione fotografica in atti (vedi foto nn. 3, 4, 5 e 6 allegate alla perizia tecnica di parte ricorrente), non esistono né mura perimetrali portanti, né strutture orizzontali, né solaio ma, su un unico lato prospiciente la via, una chiusura di mattoni e lamiera di, evidente, recente costruzione e ben distinta dal rudere del preesistente muro di facciata, quest’ultimo presente in minima parte ed addossato all’adiacente edificio posto alla sua destra- deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione che non può essere equiparata al recupero edilizio o alla manutenzione straordinaria non essendoci nulla da recuperare o manutenere come entità edilizia esistente e quale unità abitativa e per simile attività, perciò, deve essere richiesta apposita concessione edilizia
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 04.01.2012 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2011

EDILIZIA PRIVATA: Ricostruzione ruderi.
La ricostruzione su ruderi costituisce sempre “nuova costruzione”, in quanto il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
In mancanza di tali elementi strutturali non è possibile valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un'area non edificata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2011 n. 34768 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edifici in rovina - Ricostruzione - Superficie, volumetria e distanze - Mantenimento del patrimonio giuridico incorporato nell’edificio - Strumenti di pianificazione sopravvenuti - Effetti.
La ricostruzione di edifici in rovina può essere ricompresa tra gli interventi di ristrutturazione. In proposito si osserva che con la rovina dell’edificio il patrimonio giuridico incorporato nello stesso (superficie coperta, volumetria, distanze dai confini e dagli altri edifici) non scompare automaticamente ma diventa latente e può riespandersi (v. TAR Brescia Sez. I 13.05.2009 n. 1028).
Qualora però sopravvengano strumenti di pianificazione che cancellano il rilievo urbanistico del sedime (o elevano le caratteristiche strutturali necessarie per considerare esistente un edificio) si interrompe il collegamento con la precedente edificazione e i proprietari subiscono il ridimensionamento economico del bene. Queste scelte urbanistiche sono ampiamente discrezionali e corrispondono all’esigenza di garantire la certezza della situazione di base su cui si innestano la programmazione e la successiva trasformazione del territorio.
Se al contrario nei piani urbanistici sopravvenuti il tema della riedificazione degli immobili in rovina non viene espressamente affrontato vale il principio privatistico che tutela nella sua interezza il diritto di proprietà, compresa la facoltà di ricostituzione materiale del bene, con il solo limite esterno dei diritti incompatibili nel frattempo acquisiti dai terzi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 01.08.2011 n. 1228 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione rudere.
La ricostruzione di un “rudere” costituisce nuova costruzione e non ristrutturazione di edifico preesistente, atteso che il concetto di ristrutturazione sottende necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, inteso quale organismo edilizio dotato delle mura perimetrali, delle strutture orizzontali e della copertura. In mancanza di tali elementi strutturali non è possibile valutare l’esistenza e la consistenza dell’edifico da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non identificata.
La qualificazione di un immobile come rudere non richiede, inoltre, necessariamente un’indagine sulla volontà del proprietario di abbandonare o comunque disfarsi del manufatto non essendo previsto da alcuna disposizione e risultando assorbente l’impossibilità di individuare le caratteristiche del manufatto preesistente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.07.2011 n. 26379 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAInterventi di ripristino di edifici diruti non possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo. La ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie vigenti al momento della riedificazione.
Con specifico riferimento alle norme sulle distanze si è ritenuto costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell'entità stessa.
Ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie, e, dall'altro, che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo.
Si evidenzia che la giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha precisato la nozione di interventi di ripristino di edifici diruti riportandola ad organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura e non totalmente da ricostruire (TAR Campania, Napoli, sezione IV, 14.12.2006 n. 10553) e, correttamente, ha negato che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo (TAR Campania, Napoli, sezione IV, 23.12.2010, n. 28002; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Lazio, Latina, 15.07.2009, n. 700).
Ancora più evidente è, nel caso di specie, la non sussumibilità delle concrete opere assentite sotto tale ultima categoria, consistendo l’intervento in questione nella ricostruzione di un edificio interamente demolito intervenuta a notevole distanza di tempo (oltre quaranta anni ) dalla sua demolizione.
Non può quindi tenersi conto della qualificazione effettuata dalle N.T.A., che vanno sul punto disapplicate, e la riconduzione dell’intervento alle categorie edilizie note va effettuato ai seni del citato art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove la scelta tra le possibili opzioni sono nuova costruzione o ristrutturazione edilizia.
Ai sensi del comma 1, lett. d), dell’art. 3 del predetto D.P.R. n. 380/2001, rientrano, difatti, tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.
Nei casi di demolizione e ricostruzione, pertanto, la sussumibilità dell’intervento nell’una o nell’atra categoria dipende, pertanto, dalla circostanza se la ricostruzione sia avvenuta con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente ed, in tal senso, la giurisprudenza ha evidenziato la necessità, affinché si rimanga nell’ambito della categoria della ristrutturazione edilizia, della necessità della fedeltà della ricostruzione del manufatto, ovverosia che sussista piena conformità di sagoma, di volume e di superficie tra il vecchio ed il nuovo manufatto.
La giurisprudenza ha, inoltre, evidenziato l’importanza del fattore temporale nel senso che il concetto di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione e venga effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione (TAR Campania Salerno, sez. II, 21.10.2010, n. 11911).
Ed ancora viene posto il rilievo, accanto al fattore temporale, quello collegato della preesistenza dell’immobile assumendo che una ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie vigenti al momento della riedificazione (Consiglio Stato , sez. IV, 13.10.2010, n. 7476; TAR Umbria Perugia, sez. I, 05.02.2010, n. 54).
Con specifico riferimento alle norme sulle distanze si è ritenuto costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell'entità stessa.
Ne consegue che, pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie, e, dall'altro, che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo (Cassazione civile, sez. II, 27.10.2009 , n. 22688).
Nel caso di specie la ricostruzione è avvenuta rispetto ad un edificio integralmente demolito più di 40 anni prima.
L’intervento deve considerarsi quindi nuova costruzione ed, in quanto, tale assoggettato alla normativa sulle distanze minime prevista dall’art. 9 del D.M. 1444/1968
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 15.06.2011 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa edificazione su ruderi ha sempre natura di nuova costruzione in quanto un rudere in stato di rovina non rientra nel novero delle costruzioni esistenti che possono essere demolite e ricostruite.
Nella specie è incontestato che la domanda di condono edilizio, prodotta dall’interessata in data 14.03.1995, n. 25667, aveva ad oggetto un immobile completamente distrutto a causa di un incendio che, come tale, aveva perduto le connotazioni essenziali dell’edificio: ciò configurava l’intervento più che di tipo conservativo di nuova costruzione.
In effetti, secondo il pacifico orientamento giurisprudenziale, la edificazione su ruderi ha sempre natura di nuova costruzione in quanto “un rudere in stato di rovina non rientra nel novero delle costruzioni esistenti che possono essere demolite e ricostruite” (cfr. Cons. Stato sez. V 10.02.2004, n. 475).
Analogamente: l'area su cui sorgono i ruderi è da considerare alla stregua di area non edificata (Cass. Sez. III sent. n. 20776/2006) (TAR Lazio-Latina, sentenza 14.06.2011 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione - Presupposto - Preesistenza di un fabbricato da ristrutturare - Ricostruzione su ruderi - Nuova opera.
Il concetto di ristrutturazione postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesistico-ambientali vigenti al momento della riedificazione (C.d.S. sez. IV 13.10.2010 n. 7476, C.d.S. sez. IV 15.09.2006 n. 5375).
Ciò che contraddistingue la c.d. ricostruzione di ruderi è la circostanza che in tal caso la demolizione del fabbricato preesistente avviene per ragioni assolutamente autonome ed indipendenti dalla volontà di effettuare un intervento di ristrutturazione (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 09.06.2011 n. 847 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIl diritto di ricostruzione di un edificio, anche se risulta demolito all’atto del rilascio della concessione edilizia, permane fin quando un procedimento amministrativo per il rilascio della concessione edilizia non è concluso ed ha avuto completa esecuzione.
Condizione determinante è che lo stato di consistenza sia certo e sia stato verificato dall’Amministrazione preposta al rilascio della concessione.

È giurisprudenza consolidata, e questo Collegio non ha ragione di discostarsene, che il diritto di ricostruzione di un edificio, anche se risulta demolito all’atto del rilascio della concessione edilizia, permane fin quando un procedimento amministrativo per il rilascio della concessione edilizia non è concluso ed ha avuto completa esecuzione.
Condizione determinante è che lo stato di consistenza sia certo e sia stato verificato dall’Amministrazione preposta al rilascio della concessione, fatto che nel caso di specie non risulta contestato (Consiglio di Stato n. 5162 del 21.10.2008, n. 1108 del 06.03.2006, TAR Bolzano 374 del 05.08.2004) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 16.05.2011 n. 203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È esclusa dal concetto di ristrutturazione la ricostruzione su ruderi, che va invece assimilata a nuova edificazione.
La giurisprudenza afferma costantemente che l’intervento edilizio di ristrutturazione edilizia presuppone, come elemento indefettibile, la preesistenza, al momento in cui si chiede la concessione, di una fabbricato da ristrutturare, dotato di murature perimetrali, di strutture orizzontali e della copertura ritenendosi di conseguenza esclusa dal concetto di ristrutturazione la ricostruzione su ruderi la quale va invece assimilata a nuova edificazione (Cons. Stato, V, 26.09.1995 n. 1354; V, 04.11.1994 n. 1261).
Nel caso in esame, in cui è pacifico che dell’edificio preesistente non è rimasto alcun elemento essendo la costruzione crollata, si è in presenza di una nuova edificazione; in ogni caso l’intervento determina una trasformazione dell’edificio a suo tempo insistente nell’area con aumento di superficie e cambio d’uso da superficie accessoria a superficie abitativa con alterazione dei profili, altezza, prospetti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.03.2011 n. 1452 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARelativamente agli interventi di ripristino di edifici diruti, occorre distinguere l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque di ristrutturazione), dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso gli interventi in questione non possono essere classificati come interventi di restauro e risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare).
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Fondata è invece l’azione di annullamento della concessione edilizia, sotto il profilo –di carattere assorbente– dedotto con il primo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti hanno dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 31 L. 457/1978 e dell’art. 69 del P.U.C., per avere il comune di Genova qualificato come restauro e risanamento conservativo, anziché come nuova costruzione, un intervento su di un manufatto privo di essenziali parti strutturali (segnatamente, la copertura).
Difatti, “per quanto riguarda gli interventi di ripristino di edifici diruti, occorre distinguere l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque di ristrutturazione), dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso gli interventi in questione non possono essere classificati come interventi di restauro e risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare)” (TAR Campania, IV, 23.12.2010, n. 28002).
Donde l’erronea qualificazione dell’intervento, che –del resto- anche qualora fosse qualificabile come ristrutturazione, necessiterebbe comunque del reperimento dei parcheggi pertinenziali ex art. EM3 1.8 del P.U.C. (profilo dedotto con il quarto motivo di ricorso) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 17.02.2011 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2010

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza quanto agli interventi di ripristino di edifici diruti precisa la relativa nozione riportandola agli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura e, correttamente, nega che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo.
La giurisprudenza –anche di questa Sezione-, quanto agli interventi di ripristino di edifici diruti, precisa la relativa nozione riportandola agli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura (TAR Campania, Napoli, sezione IV, 14.12.2006 n. 10553) e, correttamente, nega che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Lazio, Latina, 15.07.2009, n. 700).
Essa pone, inoltre, una condivisibile distinzione tra le ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di ristrutturazione; e le ipotesi in cui, invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione (TAR Veneto Venezia, sez. II, 05.06.2008, n. 1667), per l’assenza degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali (Consiglio di Stato, sez. V, 10.02.2004, n. 475) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 23.12.2010 n. 28002 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl risanamento conservativo e la ristrutturazione edilizia costituiscono interventi di recupero sul patrimonio edilizio esistente, onde i relativi concetti postulano necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sicché la ricostruzione su ruderi o su di un edificio già da qualche tempo demolito o diruto costituisce nuova opera.
La giurisprudenza più recente ha affermato che “il risanamento conservativo e la ristrutturazione edilizia costituiscono interventi di recupero sul patrimonio edilizio esistente, onde i relativi concetti postulano necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sicché la ricostruzione su ruderi o su di un edificio già da qualche tempo demolito o diruto costituisce nuova opera" (TAR Campania Salerno, sez. II, 26.09.2007, n. 1927; TAR Campania Napoli, sez. IV, 14.12.2006, n. 10553; Consiglio Stato, sez. V, 15.04.2004, n. 2142) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 17.05.2010 n. 2751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di ristrutturazione si distingue pur sempre da quella di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione sia identica per sagoma, volumetria e superficie al fabbricato demolito.
La ricostruzione di un rudere non è ascrivibile ad ipotesi di ristrutturazione edilizia e men che meno di risanamento conservativo (come dedotto dai controinteressati nelle memoria difensiva), integrando in sostanza un’attività di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.

Ai sensi dell’art. 3, primo comma, lett. d), del D.P.R. 380/2001, per interventi di ristrutturazione edilizia si intendono quelli “rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, a cui il Collegio ritiene di aderire, intanto può attuarsi un intervento di ristrutturazione edilizia (come quello indicato nella d.i.a.) in quanto esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (Consiglio di Stato, Sez. V, 10.02.2004 n. 475; TAR Lazio, Latina, 15.07.2009, n. 700).
Difatti, la nozione di ristrutturazione si distingue pur sempre da quella di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione sia identica per sagoma, volumetria e superficie al fabbricato demolito (Consiglio Stato, Sez. V, 01.04.2006, n. 2085; TAR Campania Napoli, Sez. II, 11.09.2009, n. 4949).
Viceversa, la ricostruzione di un rudere non è ascrivibile ad ipotesi di ristrutturazione edilizia e men che meno di risanamento conservativo (come dedotto dai controinteressati nelle memoria difensiva), integrando in sostanza un’attività di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare (TAR Campania, Napoli, 09.11.2009 n. 7049; Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.09.2006 n. 5375).
Nel concetto giuridico di rudere rientra, senza dubbio, il caso di specie relativo al rifacimento di un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali, e privo di copertura (TAR Campania Napoli, Sez. II, 11.09.2009, n. 4949) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.03.2010 n. 1286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPuò attuarsi un intervento di ristrutturazione edilizia (di demolizione e ricostruzione) in quanto esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, mentre non è ravvisabile siffatto intervento nei confronti di ruderi o edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, assoggettato ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica.
Può attuarsi un intervento di ristrutturazione edilizia (di demolizione e ricostruzione) in quanto esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, mentre non è ravvisabile siffatto intervento nei confronti di ruderi o edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, assoggettato ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica (Così Tar Veneto Venezia, Sez. II, 1667/2008).
Ritiene, infatti, il Collegio di aderire ad un consolidato indirizzo, recentemente ribadito in giurisprudenza, secondo il quale “Ai sensi degli artt. 10 e 22, comma 3, t.u. 06.06.2001, n. 380, le attività edilizie consistenti nella demolizione e ricostruzione che non avvengano nel rispetto della stessa volumetria e sagoma del manufatto preesistente, sono da qualificare come nuove costruzioni, assoggettate al permesso di costruire” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 16.03.2007, n. 1276 ma v. anche TAR Marche, 07.04.2006, n. 139; Consiglio Stato, sez. V, 01.04.2006, n. 2085).
Ora, poiché rispetto ad una costruzione che sia ridotta allo stato di rudere non è possibile compiere una valutazione in termini di compatibilità delle caratteristiche planovolumetriche tra lo stato dell’edificio prima e dopo l’intervento di riedificazione, appare chiaro come la ricostruzione di un edificio allo stato di rudere debba essere qualificata come nuova costruzione e debba essere assentita mediante permesso a costruire (cfr. TAR Calabria Catanzaro, Sez. II, 14.12.2004, n. 2381 e Tar Catanzaro 1486/2007)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 09.02.2010 n. 131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2009

EDILIZIA PRIVATALa ricostruzione su ruderi costituisce una nuova costruzione.
Per giurisprudenza costante gli interventi di risanamento conservativo, di cui all’art. 31, lett. c), l. 05.08.1978 n. 457, presuppongono necessariamente l’esistenza dell’organismo edilizio, definito nelle sue strutture verticali ed orizzontali e relativa copertura, siccome finalizzato al recupero degli immobili nella loro attuale consistenza e nell’ambito degli spazi concretamente identificabili, al pari della ristrutturazione edilizia, laddove, invece, la ricostruzione su ruderi, costituisce una nuova costruzione (ex multis Cons. St. Sez. V 23.06.1997 n. 704) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 30.07.2009 n. 4233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla possibilità o meno di ricostruire un rudere risultando leggibili la sagoma planimetrica, definita dalle murature perimetrali, e la sagoma in elevazione.
La ricorrente richiama la nota giurisprudenza secondo cui l’intervento di ripristino di un rudere deve essere qualificato in termini di nuova costruzione (TAR Veneto, sez. II, 05.06.2008, n. 567, TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, 22.11.2007, n. 749).
Obietta la controinteressata che questa giurisprudenza si giustifica in base al rilievo che nel caso dei ruderi difetta la possibilità di individuare le loro originarie caratteristiche plano volumetriche, possibilità che invece sussisteva nella fattispecie, in cui era possibile, sulla base delle strutture esistenti, individuare oggettivamente i tratti essenziali del preesistente fabbricato (quali altezza, posizione delle falde del tetto, volumetria complessiva etc. …).
Il Collegio condivide le argomentazioni della ricorrente; un intervento di restauro e risanamento conservativo –come risulta dalla definizione dell’articolo 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380– presuppone la preesistenza di un “organismo edilizio” cioè di una struttura fornita di copertura, tamponature esterne e strutture orizzontali interne; nella fattispecie risulta che il progetto si riferisce a un edificio diruto, cioè ai resti di strutture edilizie andate in rovina, per di più in epoca assai risalente; la stessa relazione tecnica depositata dalla controinteressata ammette che “l’edificio risulta(va) privo di quasi tutti gli orizzontamenti interni e di gran parte della copertura”, pur aggiungendo che “risultavano leggibili la sagoma planimetrica, definita dalle murature perimetrali e la sagoma in elevazione…” e che “all’interno dell’involucro restavano chiaramente leggibili sui paramenti murari i fori di innesto dei solai …” (che quindi non esistevano, come sostenuto dalla ricorrente).
Alla luce di questi dato risulta che il progetto autorizzato non costituisce un intervento di restauro e risanamento conservativo di un fabbricato preesistente ma consiste piuttosto nel ripristino (nella vera e propria ricostruzione, sia pure utilizzando i resti ancora esistenti) di un fabbricato in rovina; simile intervento costituisce effettivamente una nuova costruzione che, nella zona in contestazione, è vietata dalle disposizioni del P.R.G. (TAR Lazio-Latina, Sez. I, sentenza 15.07.2009 n. 700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Ricostruzione di un fabbricato in rovina.
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, ma anche di demolizione e di successiva ricostruzione, presuppongono sempre che i relativi lavori siano riferiti ad un edificio esistente, ossia che esista un organismo edilizio, seppur non necessariamente abitato o abitabile, connotato nei suoi connotati essenziali, dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (cfr., ex multis, C.d.S., sez. V, 10.02.2004, n. 475), mentre non possono essere ammessi tali interventi nei confronti di ruderi o resti di edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare (cfr., C.d.S., sez. IV, 15.09.2006, n. 5375), in cui si configura un intervento di nuova costruzione, assoggettato ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica (cfr., TAR Veneto, sez. II, 29.06.2006, n. 1944 e 05.06.2008, n. 1667)..
Da quanto precede consegue che gli interventi di demolizione sono ammissibili nei limiti dello stato fisionomico attuale del fabbricato, senza alcuna possibilità di recupero di parti strutturali che, anche se originariamente esistenti, sono successivamente venute meno per qualsiasi evenienza.
Pertanto, è legittimo l'operato della Amministrazione comunale che non assente un intervento di ripristino di un manufatto che, seppure in passato esistente, non è più identificabile né nella sua posizione né nelle dimensioni né nella volumetria, in quanto ormai del tutto privo degli elementi strutturali essenziali che lo possano ancora connotare come un edificio, essendo tale intervento correttamente individuabile quale ricostruzione integrale su diverso sedime e, quindi, una novella edificazione, autorizzabile nei soli limiti previsti dalle norme di piano (massima tratta da www.studiospallino.it - TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 08.01.2009 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Ricostruzione di un fabbricato in rovina.
La ricostruzione di un fabbricato, rovinato da molto tempo e del quale residuavano, al momento della presentazione dell'istanza di ristrutturazione da parte del privato, solo piccole frazioni dei muri, di per sé inidonee a definire l'esatta volumetria preesistente, costituisce vera e propria costruzione "ex novo" e non già ristrutturazione, né tampoco mero restauro o risanamento conservativo e, come tale, è soggetta a concessione edilizia secondo le regole urbanistiche vigenti al momento dell'istanza del privato, e non già a quelle esistenti all'epoca in cui fu realizzato il manufatto originario, in quanto l'effetto ricostruttivo perseguito mira non già a conservare o, se del caso, a consolidare un edificio comunque definito nelle sue dimensioni, né alla sua demolizione e fedele ricostruzione, bensì a realizzarne uno del tutto nuovo e diverso (massima tratta da www.studiospallino.it - TRIBUNALE di Chieti, sentenza 02.01.2009 n. 2).

anno 2008

EDILIZIA PRIVATA: Risanamento conservativo di rudere (inammissibilità).
In presenza di un rudere, non si può parlare di risanamento conservativo o di ristrutturazione, in quanto tali interventi presuppongono un organismo dotato di muri perimetrali,strutture orizzontali e copertura. Invero, in materia edilizia, anche in base alle nuove disposizioni contenute nel d. P.R. 06.06.2001 n. 380, costituisce nuova costruzione l'intervento di ricostruzione di un rudere, in quanto il risanamento conservativo ed in genere gli interventi di ristrutturazione con o senza demolizioni devono essere contestualizzati temporalmente nell'ambito di un intervento unitario volto nel suo complesso alla conservazione di un edificio che deve essere ancora esistente e strutturalmente identificabile al momento dell'inizio dei lavori (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.11.2008 n. 42521 -
link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione di un rudere.
Il concetto di ristrutturazione postula necessariamente la esistenza di un manufatto da riedificare e consolidare dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura per cui i ruderi, che non possiedono tali elementi, sono da considerarsi una area non edificata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.09.2008 n. 36542 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALa rovina di un edificio, non importa a quali cause dovuta, fa venire meno la possibilità di ristrutturare l’edificio medesimo e determina solo la possibilità di procedere alla ricostruzione dello stesso.
Il concetto di ristrutturazione postula necessariamente la preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, motivo per cui la ricostruzione su ruderi va assimilata ad una nuova edificazione.
In mancanza di norme contrarie, la ricostruzione di manufatti, ancorché crollati accidentalmente, soggiace alle norme urbanistiche vigenti al momento in cui viene emanato il permesso di costruire.

La giurisprudenza amministrativa ritiene che “la rovina di un edificio, non importa a quali cause dovuta, fa venire meno la possibilità di ristrutturare l’edificio medesimo (in particolare: Consiglio di Stato sez V sent. n. 819 del 1996) e determina solo la possibilità di procedere alla ricostruzione dello stesso”.
Il concetto di ristrutturazione, infatti, postula necessariamente la preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, motivo per cui la ricostruzione su ruderi -come quella in esame- va assimilata ad una nuova edificazione (Consiglio di Stato, sez. V, n. 1261 del 1994, TAR Lombardia, Brescia n. 478/1996, TRGA Trento n. 126 del 1996).
In mancanza di norme contrarie, la ricostruzione di manufatti, ancorché crollati accidentalmente, soggiace alle norme urbanistiche vigenti al momento in cui viene emanato il permesso di costruire (Consiglio di stato, sez. V, n. 102 del 1989)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 03.09.2008 n. 10036 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Ricostruzione di un fabbricato in rovina.
Risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia costituiscono interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente e, in quanto tali, postulano necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura; pertanto, la ricostruzione su ruderi o su di un edificio già da tempo demolito (anche in parte) o diroccato deve essere assentita non come intervento di recupero, ma con concessione edilizia di nuova opera, anche qualora l'intervento proposto preveda il mantenimento (in luogo della completa rimozione) delle residue parti murarie della vecchia struttura edilizia (massima tratta da www.studiospallino.it -
TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 17.06.2008 n. 1213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla possibilità o meno di ricostruire un rudere.
Risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia costituiscono interventi di recupero sul patrimonio edilizio esistente (si veda in proposito l’art. 31 della legge n. 457/1978, i cui contenuti sono stati trasfusi nell’art. 3 del T.U. edilizia), onde i relativi concetti postulano necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su di un edificio già da tempo demolito (anche in parte) o diruto costituisce nuova opera (cfr. Cons. Stato, V, 15-04-2004, n. 2142; V, 01-12-1991, n. 2021; 10-03-1997, n. 240; 04-11-1994, n. 1261; TAR Calabria, Catanzaro, II, n. 2321/2004).
E ciò anche quando l’intervento proposto prevede il mantenimento (in luogo della completa rimozione) delle residue parti murarie della vecchia struttura edilizia.
Più precisamente, il concetto di costruzione esistente postula la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da poterla ritenere presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia, sicché l’intervento edificatorio sulla stessa non costituisce trasformazione urbanistico-edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione.
Deve, pertanto, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa essere comunque individuato, nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (cfr. Cons. stato, V, 10-02-2004, n. 475; V, 15-03-1990, n. 293).
Esso dev’essere, cioè, un’entità edilizia già esistente e rilevante come tale, giustificandosi solo in questo caso la non operatività dei parametri edilizi previsti per le nuove costruzioni.
Tali caratteri non sono certamente individuabili nei cd. “ruderi”, avendo questi perduto i caratteri della entità urbanistico-edilizia originaria, sia in termini strutturali che funzionali.
Sicché a nulla rileva la circostanza che, attraverso complesse ed anche attendibili attività tecniche, si riesca a risalire alla consistenza originaria dell’edificio, considerato che quest’ultimo non esiste più come entità edilizia rilevante nell’attualità.
Pertanto, la sua ricostituzione si configura come una nuova trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, assoggettata al rispetto delle relative prescrizioni
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 17.06.2008 n. 1213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ricostruzione su ruderi - Nuova costruzione - Concetto di ristrutturazione edilizia.
La ricostruzione su ruderi costituisce sempre "nuova costruzione", in quanto il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. In mancanza di tali elementi strutturali non è possibile valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un'area non edificata [vedi Cass., Sez. III: 04.02.2003, Pellegrino e 20.02.2001, ric. Perfetti; nonché C. Stato, Sez. V: 28.05.2004, n. 3452; 15.04.2004, n. 2142; 01.12.1999, n. 2021; 04.08.1999, n. 398; 10.03.1997, n. 240] (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.06.2006 n. 20776 -
link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazione edilizia.
Intanto può attuarsi un intervento di ristrutturazione edilizia (di demolizione e ricostruzione) in quanto esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione. Non è, invece, ravvisabile siffatto intervento nei confronti di ruderi o edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.06.2008 n. 1667 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazione edilizia mediante demolizione.
E’ illegittimo il permesso di costruire rilasciato per la esecuzione di un intervento di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione di un preesistente fabbricato, quando esso è inesistente per essere residuati solo alcuni ruderi (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.06.2008 n. 22241 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazione ed ampliamento - Nozione e differenza - Manufatto che subisce il crollo delle pareti - Qualificazione urbanistica - Fattispecie.
Un manufatto che subisce il crollo delle sue pareti, (nella specie, una baracca di lamiera di circa mc. 32, -di per sé non definibile come manufatto destinato ad abitazione), non può essere più considerato un “edificio esistente”, e pertanto non consente la realizzazione di edifici ex novo in base al principio della ristrutturazione edilizia, che si caratterizza per la riedificazione che comporti “la piena conformità di sagoma, volume e superficie tra il vecchio e il nuovo manufatto”, ciò che per definizione va escluso quando si discuta di un ampliamento di cubatura dell’edificio. Fattispecie: divieto di realizzazione di una villetta in sostituzione della precedente baracca destinata al ricovero degli attrezzi (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.04.2008 n. 1550 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAConcetto di ristrutturazione: manufatto crollato e ricostruito non è ''esistente''.
Un manufatto, a seguito del crollo delle sue pareti, non può essere più considerato quale “edificio esistente”, ai fini dell’applicazione delle norme di piano che consentono l’ampliamento di un originario “edificio esistente” giacché per esso, pur continuando a esistere nella sua materiale consistenza, non è consentita la realizzazione di edifici ex novo e divenuti inesistenti.
La ristrutturazione edilizia si caratterizza per la riedificazione che comporti la piena conformità di sagoma, volume e superficie tra il vecchio e il nuovo manufatto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.04.2008 n. 1550 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire - Per la ristrutturazione edilizia del rudere di un immobile - Diniego - Motivazione che fa riferimento alla mancanza della materiale preesistenza dell’immobile, al momento della presentazione della domanda di rilascio di permesso di costruire – Legittimità.
E’ legittimo il provvedimento di diniego della P.A. motivato nel senso che non può parlarsi di ristrutturazione edilizia presuppone l’elemento indispensabile della materiale preesistenza del fabbricato, a nulla rilevando il fatto che il fabbricato risulti censito nelle schede redatte in sede di redazione di PRG che di per sé non dà diritto alla ristrutturazione se al momento della presentazione del progetto  il fabbricato non è più esistente (TAR Marche, Sez. I,
sentenza 13.03.2008 n. 202 - link a www.ambientelegale.it).

anno 2007

EDILIZIA PRIVATAQuando la demolizione sia già avvenuta per rovina (anche se dipesa dal proprietario) o per eventi naturali con la conseguente inefficacia del relativo titolo rilasciato, la ricostruzione su ruderi può avvenire solo dopo una nuova concessione e nel rispetto della disciplina urbanistica vigente.
È incontestabile che nella definizione di “interventi di ristrutturazione edilizia” rientri la fattispecie della “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”, visto che questa è parte della nozione che ne dà il D.P.R. 06.06.2001 n. 380 all’art. 3, lett. d).
Tuttavia, l’intervenuta e non contestuale demolizione del fabbricato rende di fatto carente di oggetto la successiva richiesta di demolizione e ricostruzione. Come afferma la giurisprudenza “se ha luogo la demolizione del fabbricato -oggetto di una istanza di demolizione e di ricostruzione- l'istanza stessa è inaccoglibile, per la sopravvenuta carenza del suo elemento oggettivo.
Infatti, l'Amministrazione deve valutare le circostanze esistenti alla data di conclusione del procedimento e non può che constatare come -per l'avvenuta demolizione dell'edificio- sia diversa l'attività oggetto dell'istanza, rispetto a quella che sarebbe assentita nel caso di suo accoglimento (Sez. V, 4719 - 04.11.2003; Sez. VI, 05.10.2001, n. 5253; 05.10.2001 n. 5253; Sez. IV, 05.07.2000, n. 3735; Sez. V, 23.03.2000, n. 1610; Sez. V, 23.03.2000, n. 1610; Sez. V, 03.07.1996, n. 819; Sez. V, 26.03.1996, n. 302).
Analogamente, quando sia chiesta una concessione di ristrutturazione (con la prevista demolizione del fabbricato e la sua ricostruzione), l'avvenuta demolizione del fabbricato comporta l'inaccoglibilità della domanda, per il mutamento della situazione di fatto e dalla inesistenza dell'edificio: il proprietario, ove intenda far definire positivamente la sua istanza, deve lasciare la res adhuc integra e -se nel frattempo demolisce l'edificio- ha l'onere di presentare una nuova istanza per la costruzione, con l'attivazione di un diverso procedimento
” (così testualmente Consiglio di Stato IV, 19.02.2007, n. 867).
Secondo la più comune nozione, “la ratio del principio della ragionevole prossimità del tempo della ricostruzione a quello della demolizione (peraltro privo di alcun riscontro positivo) va, infatti, individuata nell'esigenza di assicurare un rapporto di necessaria strumentalità dell'abbattimento alla successiva ricostruzione e di evitare, quindi, che tale vincolo venga interrotto dal decorso di un lasso di tempo eccessivo, rispetto alle esigenze ricostruttive, tra le due fasi dell'intervento” (così Consiglio di Stato IV, 07.09.2004, n. 5791, in una fattispecie in cui la demolizione era intervenuta sulla scorta di provvedimenti giurisdizionale, ma che non aveva attinto l’interezza del manufatto; vedi anche Consiglio di Stato V, 08.08.2003 n. 4593).
Queste ragioni spingono la giurisprudenza a ritenere che, quando la demolizione sia già avvenuta per rovina (anche se dipesa dal proprietario) o per eventi naturali con la conseguente inefficacia del relativo titolo rilasciato, la ricostruzione su ruderi può avvenire solo dopo una nuova concessione e nel rispetto della disciplina urbanistica vigente (Consiglio di Stato V, 23.03.2000 n. 1610; vedi anche Consiglio di Stato V, 28.05.2004 n. 3452)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.12.2007 n. 15801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia.
Il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, vale a dire di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Pertanto, la ricostruzione di un rudere preesistente non può mai ricondursi nell'ambito di operatività della "ristrutturazione edilizia", trattandosi di intervento sostanzialmente "nuovo", che richiede specifico e preventivo titolo abilitativo (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.12.2007 n. 45240 - link a www.lexambiente.it).

anno 2001

EDILIZIA PRIVATA: Quando (anche a seguito della sua rovina per cause naturali) è integralmente demolito un edificio o il manufatto per il quale è stata rilasciata una concessione edilizia (pur se di ristrutturazione), viene meno l’esistenza del manufatto medesimo e quindi anche l’efficacia della originaria concessione, non importando se la rovina sia avvenuta o meno per volontà del suo titolare. La costruzione del nuovo manufatto, pertanto, può avere luogo sulla base di una ulteriore concessione, da rilasciare nel rispetto delle previsioni urbanistiche vigenti.
La costante giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte osservato che ai sensi dell’art. 1 della legge 28.01.1977, n. 10, è soggetta al rilascio della concessione edilizia ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l’esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l’alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o anche solo funzionale (Sez. V, 14.12.1994, n. 1486; Sez. V, 23.01.1991, n. 64; Sez. V, 21.10.1985, n. 343).
In particolare, poiché il piano urbanistico quale strumento di pianificazione indica quali siano le consentite modificazioni del territorio, il richiamato art. 1 della legge n. 10 del 1977 richiede il rilascio della concessione edilizia (e dunque il necessario riscontro di conformità) quando si intenda realizzare un intervento sul territorio con la perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opere in muratura (Sez. V, 01.03.1993, n. 319; Sez. V, 23.01.1991; Sez. II, 02.05.1990, n. 1092/1989; Sez. II, 11.10.1989, n. 1348/1988; Sez. V, 15.07.1983, n. 329), anche quando si tratti di una «antenna saldamente ancorata al suolo e visibile dai luoghi circostanti» (Sez. V, 06.04.1998, n. 415).
Ciò posto, ritiene la Sezione che l’avvenuto crollo dell’originario traliccio ha reso irrilevante la questione se in relazione ad esso si sia formato il silenzio assenso sulla istanza di condono, poiché per la ricostruzione era necessario l’ulteriore rilascio di una concessione edilizia.
Per la consolidata giurisprudenza, quando (anche a seguito della sua rovina per cause naturali) è integralmente demolito un edificio o il manufatto per il quale è stata rilasciata una concessione edilizia (pur se di ristrutturazione), viene meno l’esistenza del manufatto medesimo e quindi anche l’efficacia della originaria concessione, non importando se la rovina sia avvenuta o meno per volontà del suo titolare (Sez. V, 23.03.2000, n. 1610; Sez. V, 03.07.1996, n. 819; Sez. V, 26.03.1996, n. 302).
La costruzione del nuovo manufatto, pertanto, può avere luogo sulla base di una ulteriore concessione, da rilasciare nel rispetto delle previsioni urbanistiche vigenti (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.10.2001 n. 5253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).