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44-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
45-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
46-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
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48-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
49-DIA e SCIA
50-DIAP
51-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
52-DISTANZA dai CONFINI
53-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA - DEMANIO MARITTIMO/LACUALE
54-DISTANZA dalla FERROVIA

55-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
56-DURC
57-EDICOLA FUNERARIA
58-EDIFICIO UNIFAMILIARE
59-ESPROPRIAZIONE
60-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
61-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
62-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
63-INCENTIVO PROGETTAZIONE (ora INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE)
64-INDUSTRIA INSALUBRE
65-L.R. 12/2005
66-L.R. 23/1997
67-L.R. 31/2014
68-LEGGE CASA LOMBARDIA
69-LICENZA EDILIZIA (necessità)
70-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
71-LOTTO INTERCLUSO
72-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
73-MOBBING
74-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
75-OPERE PRECARIE
76-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
77-PATRIMONIO
78-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
87
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
88-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
89-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
90-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
91-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
92-PISCINE
93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
95-RIFIUTI E BONIFICHE
96-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
97-RUDERI
98-
RUMORE
99-SAGOMA EDIFICIO
100-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
101-SCOMPUTO OO.UU.
102-SEGRETARI COMUNALI
103-SEMINTERRATI
104-SIC-ZSC-ZPS - VAS - VIA
105-SICUREZZA SUL LAVORO
106
-
SILOS
107-SINDACATI & ARAN
108-SOPPALCO
109-SOTTOTETTI
110-SUAP
111-SUE
112-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
113-
TELEFONIA MOBILE
114-TENDE DA SOLE
115-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
116-TRIBUTI LOCALI
117-VERANDA
118-VINCOLO CIMITERIALE
119-VINCOLO IDROGEOLOGICO
120-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
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122-VOLUMI TECNICI / IMPIANTI TECNOLOGICI

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dossier DISTANZA DALLE PARETI FINESTRATE
settembre 2023

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Le distanze tra edifici nella bozza di T.U. delle Costruzioni (25.09.2023 - link a www.dirittopa.it).
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Prime riflessioni sull'articolo 7 della bozza del nuovo Testo Unico delle Costruzioni
Sembrerebbe che i tempi siano maturi perché il Testo Unico dell'Edilizia sia sostituito da un nuovo testo unico, denominato «delle Costruzioni».
Circola in rete, infatti, il testo del Tavolo Tecnico istituito presso il Ministero delle infrastrutture con lo scopo di scrivere una nuova legge quadro.
Tra le innovazioni più attese vi è quella relativa alla normativa delle distanze tra le costruzioni, oggi affidata all'articolo 9 del decreto interministeriale 02.04.1968, n. 1444, norma tecnica nata per definire i contenuti degli strumenti di pianificazione urbanistica ma declinata dalla giurisprudenza in termini di pervasità nei rapporti tra cittadini e tra cittadini e amministrazioni che i suoi estensori non immaginavano né potevano immaginare.
In questa sede cerchiamo di fornire un primo quadro d'insieme delle novità della bozza del nuovo Testo Unico. (...continua).

dicembre 2021

EDILIZIA PRIVATAIn termini generali giova rimarcare che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, le convenzioni tra privati che mirano ad introdurre deroghe alle disposizioni regolamentari (urbanistiche) in materia di distanze sono invalide; e ciò in quanto le norme contenute nei regolamenti comunali che prevedono distanze delle costruzioni dal confine rivestono carattere assoluto ed inderogabile, atteso che non mirano soltanto ad evitare intercapedini dannose o pericolose, ma anche a tutelare l'assetto urbanistico di una determinata zona e la densità degli edifici.
Le norme sui distacchi minimi fra edifici, in particolare, hanno natura ambivalente, essendo preordinate sia alla tutela di interessi dei proprietari finitimi (compendiabili nella nozione di "maggiore fruibilità dell'immobile") sia alla tutela dell'interesse pubblico ad un corretto e "sano" sviluppo urbanistico della città, per cui il Comune, in sede di rilascio del permesso di costruire, è tenuto a verificare il rispetto delle norme sulle distanze minime fra edifici.
Le eventuali clausole di carattere derogatorio delle distante legali incidono soltanto con riferimento al rispetto delle norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute nel Codice Civile (come quelle contenute per es. nell'art. 873 e 905 C.C.), poiché tali norme sono derogabili per usucapione o mediante convenzione, la quale in tali casi costituisce un vero e proprio diritto di servitù, in quanto arreca una menomazione per l'immobile che avrebbe diritto alla distanza legale, in quanto la predetta normativa del Codice Civile ha lo scopo di tutelare i reciproci diritti soggettivi dei singoli proprietari e/o i rapporti intersoggettivi di vicinato.
Invece le norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute negli strumenti urbanistici e/o nei Regolamenti Edilizi comunali, poiché trascendono l'interesse meramente privatistico, in quanto hanno la funzione di tutelare l'interesse pubblico alla realizzazione di un determinato assetto urbanistico prefigurato, non possono essere derogate (le apposite convenzioni sono invalide anche nei rapporti interni tra i proprietari confinanti) e la loro violazione comporta la facoltà del vicino di chiedere la riduzione in pristino.
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Non hanno alcun pregio giuridico le deduzioni della resistente e del controinteressato secondo cui il permesso a costruire rilasciato in favore del ricorrente per la realizzazione del fabbricato ubicato sulla particella di sua proprietà sarebbe illegittimo e, pertanto, andrebbe disapplicato incidentalmente da questo Tribunale.
Al riguardo deve osservarsi, preliminarmente, che al giudice amministrativo è precluso il potere di disapplicazione incidentale del provvedimento amministrativo non impugnato perché ciò comporterebbe l’aggiramento del tassativo termine decadenziale, potendo il giudice amministrativo disapplicare soltanto prescrizioni aventi contenuto propriamente normativo, dotate di generalità e di astrattezza, e non atti amministrativi concreti seppur di portata generale.
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... per l'annullamento del permesso a costruire n. 10/2021 del 25.03.2021 acquisito al protocollo n. 2246/2021 e di ogni altro atto ad esso presupposto e conseguente.
...
1.§- Con ricorso ritualmente notificato CI.Pa.Ma. impugna il permesso a costruire in sanatoria n. 10/2021 in data 25.03.2021 rilasciato dal resistente Comune di CERCHIO in favore del controinteressato MA.Ju. per il posizionamento di un box coibentato (di dimensioni in pianta di circa 2,40x6,00 metri) sulla particella 2053 del foglio 5 del Catasto Terreni del Comune di Cerchio, confinante con la particella 2054 del medesimo foglio di proprietà del ricorrente, lamentando che detto box sia stato realizzato a ridosso del muro di confine con la sua proprietà e, quindi, senza il rispetto delle distanze legali.
...
5.§- L’assunto non persuade.
In termini generali giova rimarcare che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, le convenzioni tra privati che mirano ad introdurre deroghe alle disposizioni regolamentari (urbanistiche) in materia di distanze sono invalide; e ciò in quanto le norme contenute nei regolamenti comunali che prevedono distanze delle costruzioni dal confine rivestono carattere assoluto ed inderogabile, atteso che non mirano soltanto ad evitare intercapedini dannose o pericolose, ma anche a tutelare l'assetto urbanistico di una determinata zona e la densità degli edifici (ex plurimis, TAR Sicilia Catania Sez. I, Sent., (ud. 26/03/2015) 09.04.2015, n. 1050; TAR Sicilia sez. II Palermo, 23/10/2014 n. 2540).
Le norme sui distacchi minimi fra edifici, in particolare, hanno natura ambivalente, essendo preordinate sia alla tutela di interessi dei proprietari finitimi (compendiabili nella nozione di "maggiore fruibilità dell'immobile") sia alla tutela dell'interesse pubblico ad un corretto e "sano" sviluppo urbanistico della città, per cui il Comune, in sede di rilascio del permesso di costruire, è tenuto a verificare il rispetto delle norme sulle distanze minime fra edifici (TAR Campania sez. II Napoli, 01/04/2011 n. 1899).
Le eventuali clausole di carattere derogatorio delle distante legali incidono soltanto con riferimento al rispetto delle norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute nel Codice Civile (come quelle contenute per es. nell'art. 873 e 905 C.C.), poiché tali norme sono derogabili per usucapione o mediante convenzione, la quale in tali casi costituisce un vero e proprio diritto di servitù, in quanto arreca una menomazione per l'immobile che avrebbe diritto alla distanza legale, in quanto la predetta normativa del Codice Civile ha lo scopo di tutelare i reciproci diritti soggettivi dei singoli proprietari e/o i rapporti intersoggettivi di vicinato (TAR Basilicata-Potenza Sez. I, (ud. 05/07/2007) 04.09.2007, n. 515).
Invece le norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute negli strumenti urbanistici e/o nei Regolamenti Edilizi comunali, poiché trascendono l'interesse meramente privatistico, in quanto hanno la funzione di tutelare l'interesse pubblico alla realizzazione di un determinato assetto urbanistico prefigurato, non possono essere derogate (le apposite convenzioni sono invalide anche nei rapporti interni tra i proprietari confinanti) e la loro violazione comporta la facoltà del vicino di chiedere la riduzione in pristino (ibidem, TAR Basilicata Potenza Sez. I, (ud. 05/07/2007) 04.09.2007, n. 515).
6.§- Ebbene, applicate le superiori coordinate ermeneutiche al caso in esame, rileva il Collegio che se è pur vero, da un lato, che la lett. n) dell’art. 3 delle NTA del PRG consente di costruire sul confine di proprietà quando vi è, come nella fattispecie, un accordo tra i proprietari confinanti a mezzo di atto trascrivibile, è altrettanto indubitabile, dall’altro, che il medesimo articolo subordina tale effetto ad una espressa previsione delle norme del Piano Regolatore e, comunque, al “rispetto delle distanze tra pareti finestrate”.
 La distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti trova la sua disciplina nella precedente lett. m) ove viene stabilita inderogabilmente nella misura minima assoluta di 10 metri, come desumibile chiaramente, sotto il profilo del drafting normativo, dall’uso della locuzione avverbiale “in tutti i casi”.
Nella vicenda all’attenzione del Collegio, invece, la costruzione per la quale il controinteressato ha richiesto ed ottenuto il permesso a costruire in sanatoria è stata posta ad una distanza di 5 metri dalla costruzione realizzata dal ricorrente, decisamente inferiore rispetto a quella indicata dalla sopra richiamata lett. m) che non può costituire oggetto di deroga pattizia ai sensi della lett. n).
7.§- Non hanno poi alcun pregio giuridico le deduzioni della resistente e del controinteressato secondo cui il permesso a costruire n. 10 del 18.04.2011 rilasciato in favore del ricorrente per la realizzazione del fabbricato ubicato sulla particella di sua proprietà sarebbe illegittimo e, pertanto, andrebbe disapplicato incidentalmente da questo Tribunale.
Al riguardo deve osservarsi, preliminarmente, che al giudice amministrativo è precluso il potere di disapplicazione incidentale del provvedimento amministrativo non impugnato perché ciò comporterebbe l’aggiramento del tassativo termine decadenziale, potendo il giudice amministrativo disapplicare soltanto prescrizioni aventi contenuto propriamente normativo, dotate di generalità e di astrattezza, e non atti amministrativi concreti seppur di portata generale (in tali termini, TAR Abruzzo, L’Aquila, sentenza 03.11.2021, n. 494).
Ad ogni modo, la questione di cui innanzi appare esulare dal thema decidendum che ha ad oggetto unicamente la legittimità del permesso a costruire in sanatoria rilasciato dall’ente resistente al controinteressato Ma.Ju. che, peraltro, non ha mai mosso alcuna contestazione rispetto al permesso di costruire ottenuto a suo tempo dal ricorrente.
E’ davvero singolare inoltre che il Comune deduca solo oggi, ed in questa sede, l’illegittimità del titolo abilitativo a costruire rilasciato dal medesimo ente comunale al ricorrente e ne pretenda la disapplicazione incidentale in totale spregio ai canoni fondamentali di buona amministrazione e di tutela del legittimo affidamento, senza che mai abbia attivato nel tempo alcuna iniziativa in autotutela tesa a rimuovere gli effetti (a suo dire illegittimi, ma oramai) consolidatisi del predetto titolo edilizio adottato ben 10 anni fa (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 06.12.2021 n. 543 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2021

EDILIZIA PRIVATARichiamando i consolidati principi giurisprudenziali, laddove vi sia una modifica anche solo dell’altezza dell’edificio sono ravvisabili gli estremi della nuova costruzione, da considerare tale anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui.
Peraltro, secondo consolidata giurisprudenza la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle sopraelevazioni.
Infine la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere rispettata anche in caso di interventi di recupero dei sottotetti a fini abitativi.
Non è, dunque, pertinente la tesi difensiva del Comune appellante secondo cui la asserita modesta modifica di altezza non impatterebbe sulla veduta del vicino, mantenendosi la sopraelevazione ad una quota più bassa, atteso che ciò che rileva, alla stregua dell’art. 9 D.M. 1444/1968, non è la distanza della sopraelevazione dalla specifica veduta bensì la distanza della stessa dalla parete finestrata.
Né è necessario accertare, come opinato dall’appellante, se l’edificio, come sopraelevato, raggiunga la quota della finestra del vicino, in quanto ciò che rileva è che, incontestata essendo la sopraelevazione, si è in presenza di una nuova costruzione, cui consegue l’effetto obbligatorio del rispetto delle distanze di dieci metri tra pareti finestrate e edifici antistanti: non è fondata, dunque, la censura di omessa pronuncia sul punto.
In materia di distanze tra fabbricati, l'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantesi sia finestrata e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa rispetto all'altro.
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti.

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Questo Consesso ha già avuto modo di osservare che le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Invero è stato affermato dalla costante giurisprudenza che la disposizione contenuta nell'art. 9 D.M. 1444/1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, trattandosi di norma imperativa che predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Ne discende che, in presenza di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di cui all'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444, il giudice avrebbe comunque l'obbligo di applicare la norma di rango superiore.

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L’appello è infondato.
1. Oggetto del titolo edilizio in contestazione è un intervento che prevede il recupero abitativo del sottotetto, con realizzazione di un volume in sopraelevazione.
Tale circostanza di fatto, come correttamente rilevato dal TAR, non è contestata.
Non possono quindi che applicarsi le conseguenze che derivano dal richiamo di consolidati principi giurisprudenziali secondo cui laddove vi sia una modifica anche solo dell’altezza dell’edificio (come nel caso di specie) sono ravvisabili gli estremi della nuova costruzione, da considerare tale anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui (Cons. Stato, Sez. IV, 12.02.2013, n. 844).
Peraltro, secondo consolidata giurisprudenza (si veda, tra tante, in tal senso, Cass., Sez. II, 27.03.2001, n. 4413) la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle sopraelevazioni (Cons. Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759).
Infine la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere rispettata anche in caso di interventi di recupero dei sottotetti a fini abitativi (Cons. Stato, Sez. IV, 16.09.2020, n. 5466).
Non è, dunque, pertinente la tesi difensiva del Comune appellante secondo cui la asserita modesta modifica di altezza non impatterebbe sulla veduta del vicino, mantenendosi la sopraelevazione ad una quota più bassa, atteso che ciò che rileva, alla stregua dell’art. 9 D.M. 1444/1968, non è la distanza della sopraelevazione dalla specifica veduta bensì la distanza della stessa dalla parete finestrata.
Né è necessario accertare, come opinato dall’appellante, se l’edificio, come sopraelevato, raggiunga la quota della finestra del vicino, in quanto ciò che rileva è che, incontestata essendo la sopraelevazione, si è in presenza di una nuova costruzione, cui consegue l’effetto obbligatorio del rispetto delle distanze di dieci metri tra pareti finestrate e edifici antistanti: non è fondata, dunque, la censura di omessa pronuncia sul punto.
In materia di distanze tra fabbricati, l'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantesi sia finestrata e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa rispetto all'altro (Cass., Sez. II, 01.10.2019, n. 24471).
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti (Cons. Stato, Sez. IV, 30.10.2017, n. 4992).
Le assorbenti considerazioni che precedono comportano la conferma dell’impugnata sentenza.
2. Quanto all’impugnazione del capo della sentenza che ha regolamentato le spese del giudizio di primo grado il Collegio ricorda che questo Consesso ha già avuto modo di osservare che le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Invero è stato affermato dalla costante giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 23.06.2017 n. 3093; id. 08.05.2017, n. 2086; id. 29.02.2016 n. 856; Cass., Sez. II, 14.11.2016, n. 23136) che la disposizione contenuta nell'art. 9 D.M. 1444/1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, trattandosi di norma imperativa che predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Ne discende che, in presenza di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di cui all'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444, il giudice avrebbe comunque l'obbligo di applicare la norma di rango superiore (così Cass., Sez. II, 27.03.2001, n. 4413; Cons. Stato, Sez. IV, 12.06.2007, n. 3094).
Ne discende che la presenza di una previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo non è idonea ad elidere o limitare la responsabilità dell’ente, neanche ai fini della valutazione della soccombenza.
Conclusivamente l’appello va respinto, con integrale conferma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 19.10.2021 n. 7029 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, la locuzione “nuovi edifici” per i quali trovano applicazione le distanze previste dall’art. 9, primo comma, n. 2, del D.M. 1444 del 1968, deve intendersi riferita non solo agli edifici costruiti per intero per la prima volta, ma anche alle parti o sopraelevazioni degli stessi.
Tale può definirsi anche un parapetto fisso, poiché è idoneo a determinare l’innalzamento del prospetto e della sagoma del fabbricato, e possiede i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione.

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Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 9, comma primo, n. 2), D.M. 1444/1968.
Il permesso di costruire autorizza la ricostruzione dell’edificio alla distanza preesistente che era, tuttavia, di soli 6 metri. Poiché l’intervento di ricostruzione in progetto stravolge completamente l’aspetto originario dell’edificio demolito, determinandone un notevole ampliamento, esso sarebbe da qualificare come intervento di nuova costruzione (e non di ristrutturazione), soggetto, come tale, al rispetto delle distanze previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968.
L’orientamento richiamato dal ricorrente è stato superato e meglio precisato dalla successiva giurisprudenza, la quale ha affermato l’irrilevanza -ai fini della verifica del rispetto delle distanze minime previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968- della formale qualificazione dell’intervento come ristrutturazione o nuova costruzione e la necessità, invece, di verificare se l’edificio ricostruito possa ritenersi, in tutto o in parte, un “edificio nuovo”.
“Secondo questa giurisprudenza si ha ricostruzione, che segue le sorti dell'immobile originario, quando ci si contenga nei limiti preesistenti di altezza, volumetria, sagoma dell'edificio. Si ha un novum, una nuova costruzione, soggetta alle distanze vigenti, per ciò che eccede.
La disposizione dell'art. 9, n. 2, del D.M. n. 1444/1968 riguarda infatti "nuovi edifici", intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) "costruiti per la prima volta" e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse; invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell'area di sedime, come pure consentito dall'art. 30, comma 1, lett. a), del D.L. n. 69/2013, convertito nella legge n. 98/2013, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso, quanto alla sua collocazione fisica, rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare, indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione, le norme sulle distanze”.
Tanto premesso, occorre chiarire, ai fini che rilevano, che, riguardo all’applicazione delle distanze legali nell’ipotesi di interventi di demolizione e ricostruzione, la giurisprudenza sia del Consiglio di Stato che della Corte di cassazione ritiene applicabile la disciplina sulle distanze “per ciò che eccede” la mera ricostruzione.
Pertanto in caso di demolizione e ricostruzione di un precedente edificio, in cui siano distinguibili le parti eccedenti quelle originarie, solo queste sono soggette alla disciplina delle distanze, configurandosi come “nuove costruzioni”.

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2 E’, altresì, fondato, in parte, il quarto motivo con cui sono dedotti i vizi di violazione dell’art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 e di eccesso di potere per difetto d’istruttoria.
Afferma il ricorrente che il permesso di costruire impugnato ha autorizzato la sopraelevazione di 85 cm della parete perimetrale fronteggiante la sua proprietà, mediante l’inserimento di un parapetto di 85 cm posto a distanza inferiore di dieci metri. Ad avviso del ricorrente, sarebbe violato anche l’art. 9 ultimo comma del citato D.M. nella parte in cui stabilisce che “Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa”.
2.1 Il motivo è fondato limitatamente alla violazione dell’art. 9 primo comma, n. 2), del D.M. 1444 del 1968.
Per giurisprudenza costante, la locuzione “nuovi edifici” per i quali trovano applicazione le distanze previste dall’art. 9, primo comma, n. 2, del D.M. 1444 del 1968, deve intendersi riferita non solo agli edifici costruiti per intero per la prima volta, ma anche alle parti o sopraelevazioni degli stessi (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 16/09/2020, n. 5466).
Tale può definirsi anche un parapetto fisso, poiché è idoneo a determinare l’innalzamento del prospetto e della sagoma del fabbricato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 20.08.2019, n. 5763), e possiede i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione (Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2013, n. 354, Consiglio di Stato sez. II, 18/05/2021, n. 3883).
Non rileva, infine, ai fini di cui in disamina, la definizione di altezza dettata dall’art. 9, comma 1, punto 3, delle NTA del PI, atteso che la medesima disposizione si applica solo per le finalità espressamente stabilite dallo strumento urbanistico, come emerge dalla clausola di salvezza delle altezze massime e delle distanze minime inderogabili tra fabbricati previste dal D.M. 1444/1968 contenuta nell’ultimo periodo della medesima disposizione (“Salvi i casi puntualmente disciplinati dal PI e dai PUA, resta fermo il rispetto delle altezze massime e delle distanze minime inderogabili tra fabbricati previste dal D.M. 1444/1968.”).
...
7. E’ infondato anche il quinto motivo del ricorso introduttivo con cui il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 9, comma primo, n. 2), D.M. 1444/1968.
Il permesso di costruire autorizza la ricostruzione dell’edificio alla distanza preesistente che era, tuttavia, di soli 6 metri. Poiché l’intervento di ricostruzione in progetto stravolge completamente l’aspetto originario dell’edificio demolito, determinandone un notevole ampliamento, esso sarebbe da qualificare come intervento di nuova costruzione (e non di ristrutturazione), soggetto, come tale, al rispetto delle distanze previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968.
7.1 L’orientamento richiamato dal ricorrente è stato superato e meglio precisato dalla successiva giurisprudenza, la quale ha affermato l’irrilevanza -ai fini della verifica del rispetto delle distanze minime previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968- della formale qualificazione dell’intervento come ristrutturazione o nuova costruzione e la necessità, invece, di verificare se l’edificio ricostruito possa ritenersi, in tutto o in parte, un “edificio nuovo”.
Secondo questa giurisprudenza si ha ricostruzione, che segue le sorti dell'immobile originario, quando ci si contenga nei limiti preesistenti di altezza, volumetria, sagoma dell'edificio. Si ha un novum, una nuova costruzione, soggetta alle distanze vigenti, per ciò che eccede (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 4728/2017).
La disposizione dell'art. 9, n. 2, del D.M. n. 1444/1968 riguarda infatti "nuovi edifici", intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) "costruiti per la prima volta" e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse; invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell'area di sedime, come pure consentito dall'art. 30, comma 1, lett. a), del D.L. n. 69/2013, convertito nella legge n. 98/2013, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso, quanto alla sua collocazione fisica, rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare, indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione, le norme sulle distanze (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 5466 del 2020)
.” (Consiglio di Stato, sentenza n. 6282, del 16.10.2020).
Tanto premesso, occorre chiarire, ai fini che rilevano, che, riguardo all’applicazione delle distanze legali nell’ipotesi di interventi di demolizione e ricostruzione, la giurisprudenza sia del Consiglio di Stato che della Corte di cassazione ritiene applicabile la disciplina sulle distanze “per ciò che eccede” la mera ricostruzione (Cass. n. 9637 del 2006; Cass. n. 19287 del 2009).
Pertanto in caso di demolizione e ricostruzione di un precedente edificio, in cui siano distinguibili le parti eccedenti quelle originarie, solo queste sono soggette alla disciplina delle distanze, configurandosi come “nuove costruzioni”.
Nel caso di specie, emerge dagli elaborati eseguiti dal verificatore, che l’edificio ricostruito è posto su un’area di sedime coincidente in parte con quella originaria, essendone distinguibile l’ampliamento in lunghezza sul lato opposto a quello dove insiste l’edificio del ricorrente. La proiezione “verticale” dell’edificio sul lato prospettante sulla proprietà del ricorrente si pone alla distanza originaria (di sei metri) fino all’altezza dell’edificio in demolizione, mentre la parte sopraelevata (piani quarto e quinto) è posta alla distanza di m 10 dall’edificio del ricorrente. Emerge, inoltre, dalla sovrapposizione grafica dei due edifici che l’incremento di volumetria è stato in parte realizzato attraverso la sopraelevazione di due piani (come si è detto posta a distanza di dieci metri rispetto all’edificio del ricorrente) e, in parte, attraverso l’ampliamento dell’edificio sul lato opposto a quello di proprietà del ricorrente.
Può, pertanto, ritenersi che la parte ricostruita sia avvenuta nel rispetto dei preesistenti distacchi, mentre l’ampliamento è stato realizzato nel rispetto delle distanze previste per le nuove costruzioni
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 18.10.2021 n. 1239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2021

EDILIZIA PRIVATACalcolo della distanza tra edifici con finestre e balconi. Distanze tra edifici: i 10 metri partono dai balconi e non anche dalle sporgenze non significative (22.09.2021 - link a www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: I balconi devono sempre essere considerati ai fini del calcolo della distanza tra edifici e tra questi ed il confine. Le sole parti delle quali può non tenersi conto, in detto calcolo, sono quelle aggettanti, aventi una funzione esclusivamente artistica ed ornamentale, quali fregi, sculture in aggetto e simili.
In tema di distanze legali, il principio della prevenzione ex art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza.
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La realizzazione di un balcone in aggetto a distanza inferiore a quella legale da un edificio prospiciente non pone soltanto una questione di veduta, ma anche di rispetto della distanza minima tra gli edifici, posto che il balcone costituisce comunque parte dell'edificio al quale accede.
In tal caso, ai fini del calcolo della predetta distanza legale fra gli edifici, costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati. Solo le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente artistica ed ornamentale, come fregi, sculture in aggetto e simili, non sono computabili ai fini del calcolo della distanza legale tra gli edifici
".
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Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, e la falsa applicazione dell'art. 11 delle N.T.A. del P.G.R. del Comune di Campi Bisenzio, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe dovuto ravvisare un contrasto tra la disciplina statale e quella prevista dal regolamento locale e disapplicare la seconda.
La censura è fondata.
La Corte di Appello richiama la motivazione del Tribunale (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata), che aveva escluso la rilevanza delle finestre esistenti nel muro della proprietà To., interessate dalla prospiciente nuova edificazione denunciata, sul presupposto che dette aperture non concorressero al raggiungimento del rapporto minimo di illuminazione tra superficie pavimentata e superficie finestrata.
In sostanza, il primo giudice aveva affermato che dal momento che la proprietà To. aveva altre aperture, dalle quali prendeva sufficiente luce, la violazione della normativa in tema di distanze minime tra le pareti finestrate prospicienti non era rilevante, poiché interessante solo aperture "secondarie".
Ad avviso della Corte fiorentina, l'appellante To. non si sarebbe adeguatamente confrontato con tale argomentazione della sentenza di prima istanza, non contestando il fatto che le due aperture interessate dall'edificazione di cui è causa fossero a servizio di vani adibiti a servizi igienici, o comunque non rilevanti ai fini dell'illuminazione della sala da pranzo della proprietà To. Di conseguenza, il giudice di secondo grado ha ritenuto di non poter entrare nel merito della decisione assunta dal Tribunale.
Con tale motivazione, in realtà, la Corte toscana ha totalmente omesso di considerare che il To. -come la stessa sentenza impugnata dà atto: cfr. pag. 10- aveva contestato la legittimità della costruzione realizzata a meno di dieci metri dalla sua parete finestrata, "... citando copiosa giurisprudenza del giudice ordinario e del giudice amministrativo ..." e quindi aveva attinto il punto della decisione con il quale la sua domanda era stata respinta.
La Corte distrettuale evidenzia che la censura formulata in appello non attingeva la ratio decidendi della sentenza di prime cure, fondata "... sulle specifiche considerazioni svolte dal C.T.U. ing. Ri.Ma. alle pagine 51, 52 e 53 della relazione di c.t.u. in base alla normativa regolamentare di riferimento".
Tale argomento, tuttavia, oltre ad essere di per sé erroneo, poiché ispirato al modello processuale del cd. "appello cassatorio", che non trova cittadinanza nel vigente sistema processuale civile, sottovaluta il fatto che, oggettivamente, il To. aveva attinto, con il primo motivo di appello, la statuizione con la quale il Tribunale aveva respinto la sua domanda di arretramento del fabbricato frontistante il suo fino al limite di dieci metri previsto tra le pareti finestrate. Il giudice di appello, di conseguenza, era tenuto ad esaminare il merito della questione che l'appellante, con la censura di cui si discute, aveva chiaramente devoluto alla sua cognizione.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 11 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Campi Bisenzio, nonché la falsa applicazione dell'art. 877 c.c., in relazione all'art. 360, primo corna, n. 3, c.p.c., perché la Corte fiorentina avrebbe dovuto ritenere non operante la norma del codice civile, che autorizza la costruzione in aderenza, in presenza di un regolamento locale che prevede il rispetto di una specifica distanza tra edifici, e tra edificio e confine, senza autorizzare espressamente la costruzione in aderenza.
La censura è fondata.
La Corte di Appello parte dal presupposto (cfr. pagg. 11 e ss. della sentenza impugnata) che nel caso specifico la normativa regolamentare locale, pur prevedendo distanze maggiori di quelle indicate nel codice civile, richiamava espressamente la normativa codicistica.
Pertanto, secondo la Corte fiorentina, tra norma locale e norma del codice civile si configurava un rapporto non già di sovrapposizione, ma di integrazione, con la conseguenza che, anche in difetto di esplicita norma regolamentare che autorizzasse l'edificazione in aderenza, quest'ultima dovesse essere ritenuta comunque consentita, proprio per effetto del rinvio operato alle norme del codice civile.
Siddetta interpretazione non è coerente con il consolidato insegnamento di questa Corte, secondo cui "In tema di distanze legali, il principio della prevenzione ex art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8283 del 20/04/2005, Rv. 581792; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22896 del 30/10/2007, Rv. 600691; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8465 del 09/04/2010, Rv. 612355; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23693 del 06/11/2014, Rv. 633061; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11664 del 14/05/2018, Rv. 648398).
In presenza di norme regolamentari locali che prevedano il rispetto di una distanza minima, tra edifici o tra questi ed il confine, dunque, la possibilità di realizzare una costruzione in aderenza è subordinata alla presenza, nel regolamento locale, di una norma che espressamente autorizzi detta facoltà. Ove detta disposizione non sia contenuta nella norma locale, non è consentito rinviare all'art. 873 c.c. Dal che deriva il primo errore commesso dal giudice di merito, il quale non ha tenuto conto del consolidato principio per cui l'edificazione in aderenza non è consentita, in presenza di norma regolamentare locale che, nel prescrivere specifiche distanze tra edifici e tra questi ed i confini, non contempli espressamente tale specifica facoltà.
Il criterio dell'integrazione opera, piuttosto, in assenza di piano regolatore locale, tra l'art. 17 della Legge n. 765 del 1967 e la normativa codicistica, poiché in tale ipotesi vale il principio secondo cui "In tema di distanze nelle costruzioni, il principio codicistico della prevenzione si applica anche alle situazioni nelle quali opera, in assenza di piano regolatore, la disciplina dell'art. 17 della Legge 06.08.1967, n. 765, le cui prescrizioni, regolando la distanza tra fabbricati, e non tra fabbricato e confine, sono sostanzialmente integrative dell'art. 873 c.c., con la conseguenza che ad essa devono applicarsi le regole ed i principi previsti dal codice civile per la disciplina della distanza fra costruzioni su fondi finitimi, compreso quello della prevenzione, non escluso dalla legge speciale" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27522 del 19/12/2011, Rv. 620680).
Nel caso di specie è certo che il Comune di Campi Bisenzio, nel cui territorio ricadono i luoghi di cui è causa, si sia dotato di piano di regolatore, a corredo del quale sono state adottate specifiche norme tecniche di attuazione, la cui violazione è -tra l'altro- oggetto tanto delle domande proposte dal Tosi nel giudizio di merito, che delle censure articolate dal medesimo nella presente sede di legittimità.
La Corte territoriale, dunque, ha ulteriormente errato nella parte in cui ha ritenuto non conferenti i precedenti di questa Corte in materia di prevenzione, poiché quest'ultima presuppone l'edificazione a distanza inferiore da quella prevista dalla legge o dal regolamento locale, e quindi e intimamente connessa al problema della costruzione in aderenza.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 873 c.c. e la falsa applicazione dell'art. 11 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Campi Bisenzio, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché il giudice di seconde cure avrebbe erroneamente deciso la domanda relativa all'arretramento dei balconi realizzati nel nuovo edificio facendo applicazione della disposizione di cui all'art. 905 c.c., in materia di diritto di veduta, e non invece di quella di cui all'art. 873 c.c., in materia di distanze tra gli edifici.
La censura è fondata.
La Corte di Appello ha, da un lato, richiamato la motivazione resa dal Tribunale, secondo la quale "... le disposizioni regolamentari prevedono che ai fini del calcolo della anzidetta distanza di mt. 5 non debbano essere considerati gli aggetti della copertura e gli elementi decorativi nonché le terrazze aggettanti" (cfr. pag. 14), e dall'altro lato affermato che nel caso di specie non verrebbe in rilievo un problema di distanze tra le costruzioni o dal confine, ma piuttosto una questione di regolamentazione del diritto di veduta, con conseguente applicazione non dell'art. 873 c.c., ma dell'art. 905 c.c.
Entrambe le affermazioni sono erronee.
In particolare, è errata la seconda -che logicamente precede la prima- in quanto il balcone costituisce una parte dell'edificio, ond'esso va considerato, ai fini del calcolo delle distanze tra fabbricati, o tra essi ed il confine.
E lo è la seconda, in base al consolidati principio -al quale il collegio ritiene di dare continuità- secondo cui "In tema di distanze legali fra edifici non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati.  Ne consegue che l'art. 14 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore di Verona, là dove si riferisce alla lunghezza dei "corpi prospicienti" per rapportare le distanze all'altezza massima dei fabbricati, essendo il "corpo di fabbrica" sinonimo di "costruzione" agli effetti dell'art. 873 cod. civ., che non può essere derogato da norme secondarie, se non per stabilire distanze maggiori dal confine, deve essere interpretato nel senso che la lunghezza delle facciate degli edifici dev'essere computata così da escludere solo le sporgenze aventi funzione ornamentale e non anche quelle che prolungando il fronte eccedono detta funzione" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1.2964 del 31/05/2006, Rv. 593831; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5963 del 25/03/2004, Rv. 571526; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1556 del 26/01/2005, Rv. 578604).
In termini ancor più chiari, si è affermato che "In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del D.M. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, come modificata dalla legge 06.08.1967 n. 765- stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (legge 06.08.1967 n. 765, che, con l'articolo 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 l'articolo 41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al D.M. 02.04.1968, che all'articolo 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10)" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17089 del 27/07/2006, Rv. 593396).
Da quanto precede deriva che i balconi devono sempre essere considerati ai fini del calcolo della distanza tra edifici e tra questi ed il confine. Le sole parti delle quali può non tenersi conto, in detto calcolo, sono quelle aggettanti, aventi una funzione esclusivamente artistica ed ornamentale, quali fregi, sculture in aggetto e simili.
In definitiva, tutti e tre i motivi di ricorso vanno accolti, con conseguente cassazione della decisione impugnata e rinvio della causa alla Corte di Appello di Firenze, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Il giudice del rinvio avrà cura di uniformarsi ai seguenti principi di diritto:
   "1) Il motivo di appello con il quale venga attinta la statuizione di rigetto della domanda di arretramento dell'edificio prospiciente, per violazione della distanza minima tra le pareti finestrate prevista dall'art. 9 del D. M. n. 1444 del 1968, va ritenuto sufficientemente specifico, e dunque idoneo a devolvere la questione al giudice di secondo grado, anche qualora la parte appellante, nel formulare la censura e ribadire gli argomenti difensivi già proposti in prime cure, non abbia specificamente confutato le argomentazioni contenute nella decisione di prime cure a sostegno della decisione di rigetto, ogni qual volta la doglianza consenta comunque al giudice di appello di identificare la questione devoluta.
   2)
In tema di distanze legali, il principio della prevenzione ex art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza;
   3)
La realizzazione di un balcone in aggetto a distanza inferiore a quella legale da un edificio prospiciente non pone soltanto una questione di veduta, ma anche di rispetto della distanza minima tra gli edifici, posto che il balcone costituisce comunque parte dell'edificio al quale accede.
In tal caso, ai fini del calcolo della predetta distanza legale fra gli edifici, costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati. Solo le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente artistica ed ornamentale, come fregi, sculture in aggetto e simili, non sono computabili ai fini del calcolo della distanza legale tra gli edifici
" (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 17.09.2021 n. 25191).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze minime degli edifici – Nozione di “pareti finestrate” – Art. 9, d.m. n. 1444/1968 – Fattispecie: aperture finalizzate a consentire l’ingresso in un edificio.
In tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, detti elementi architettonici possono non essere compresi nel computo delle distanze di cui all’art. 9, d.m. n. 1444/1968 qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi ed a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio.
La ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, come noto, è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche.
Pertanto, ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute” ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo.
Inoltre, l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 detta disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra costruzioni e non tra queste e le vedute.
Nella specie le aperture –erano addirittura finalizzate a consentire l’ingresso nell’edificio– pertanto, non potevano in alcun modo ritenersi quali mere “luci” le quali, secondo un orientamento della giurisprudenza civile che dà invece rilievo alla possibilità dell’affaccio, non sarebbero di per sé idonee a far ritenere la parete come “finestrata”
  (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.09.2021 n. 33419 - link a www.ambientediritto.it).

agosto 2021

EDILIZIA PRIVATADistanze tra edifici, ai centri storici non si applica il limite di 10 metri.
Consiglio di Stato: il limite di 10 metri previsto all’articolo 9 del DM 1444/1968 per le “nuove costruzioni” non è riferito ai centri storici ma alle “altre zone”.

Il Consiglio di Stato, Sez. II, con sentenza 09.08.2021 n. 5830, ribaltando la decisione assunta in primo grado dal TAR, ha affermato che il limite di 10 metri previsto all’articolo 9 del DM 1444/1968 per le “nuove costruzioni” non è riferito ai centri storici ma alle “altre zone”.
Tra le motivazioni poste alla base della decisione il Consiglio di Stato ha ritenuto che:
   - il DM 1444/1968 nel disciplinare le zone A (centri storici) ha prescritto in questi casi che la distanza “non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti”;
   - il limite dei 10 metri si applica solo alle “nuove costruzioni” ed è riferito alle “altre zone” ossia diverse da quelle delle zone A–centro storico e non può essere data una interpretazione più ampia di quella che può esserne tratta in via letterale.
Si ricorda, infatti, che l’art. 9 dm 1444/1968 prevede:
   - zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
   - nei nuovi edifici ricadenti in altre zone è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
   - zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a mt 12.
Il caso sottoposto all’esame del collegio riguardava un intervento di demolizione e ricostruzione con incremento volumetrico in applicazione del cd. Piano casa regionale su un immobile ubicato in centro storico.
Per il TAR l’intervento doveva essere considerato come “nuova costruzione” e per questo essere tenuto al rispetto della distanza minima di 10 metri prevista dall’articolo 9 del DM 1444/1968.
Diversa la decisione del Consiglio di Stato che, oltre a non qualificare l’intervento come nuova costruzione, ha sottolineato altresì come, l’assenza di una disciplina specifica per le distanze da osservare nei centri storici all’interno del DM 1444/1968, si giustifica per il fatto che, in tali ambiti, non sono consentiti interventi se non sul preesistente.
Applicando il limite dei 10 metri anche nei centri storici, inoltre, verrebbe preclusa in ampie zone dei territori comunali l’applicazione del Piano Casa regionale, nella parte in cui prevede la possibilità di realizzare ampliamenti fino al 35% (commento tratto da www.casaeclima.com).
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SENTENZA
11. L’appello è fondato.
11.1 Come sopra esposto, il Comune appellante articola le proprie deduzioni, nell’ambito di un unico motivo di gravame, per avversare la statuizione accoglitiva recata dall’impugnata sentenza e che si fonda sulla valorizzazione della disciplina sulle distanze prevista dal d.m. n. 1444/1968. Ha ritenuto, infatti, il Tar che il permesso di costruire sarebbe stato rilasciato in violazione dell’art. 9 di tale compendio normativo, in quanto, trattandosi di un intervento edilizio qualificabile come “nuova costruzione”, sarebbe suscettibile di applicazione analogica la previsione sulle distanze nelle zone diverse dalla “A”, nella persistenza della “ratio giustificatrice della disciplina che consiste nell’esigenza di evitare intercapedini dannose per la salute”.
Deve rilevarsi, preliminarmente, che con il primo motivo del ricorso originario, accolto dal giudice di prime cure, si ipotizzava la violazione (anche) dell’art. 6 della legge sul Piano Casa (n. 49/2009), il quale articolo impone “il rispetto della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici frontistanti” così implicitamente richiamando la previsione di cui al citato d.m. tanto che nella stessa domanda di permesso di costruire si attesta il rispetto di tale distanza di 10 metri tra pareti finestrate.
Orbene, ritiene il Collegio che tale disciplina non sia suscettibile di applicazione analogica.
Osserva, sul punto, l’appellante che la previsione del d.m. n. 1444/1968, secondo cui la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere inferiore a dieci metri, vale per i “Nuovi fabbricati” in “altre zone”, cioè diverse dalla zona A (centro storico), nella quale si trova il fabbricato oggetto della domanda edificatoria, posto che in quest’ultima, dove vige il generale divieto di costruzioni “ex novo”, la norma si limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra volumi edificati preesistenti.
La deduzione sollevata dall’appellante è meritevole di accoglimento, in quanto effettivamente il d.m., dopo aver disciplinato le “Zone A”, introduce la “distanza minima assoluta di m. 10” con esclusivo riferimento alle “altre zone”, di guisa che non è suscettibile di estensione analogica una norma che introduce una limitazione o un divieto quale quella in commento. Né può dirsi che la disciplina ordinamentale contempla l’esclusione dell’edificabilità di nuove costruzioni in quanto la legge regionale sul Piano Casa non esclude la sua applicazione nelle zone A e, ad opinare in senso conforme all’orientamento del Tar, tale modulo abilitativo non sarebbe suscettibile di applicazione nel centro storico stante l’alta densità edilizia che solitamente connota tali aree. La mancata previsione della distanza minima in zona A in seno al citato d.m. non costituisce, quindi, frutto di una dimenticanza del redattore della norma, così da costituire un vuoto normativo colmabile in sede interpretativa, quanto espressione di una sua precisa opzione connessa al fatto che in zona centro storico tendenzialmente non sono consentiti se non interventi sul preesistente. L’avvento del Piano Casa regionale, con la prevista possibilità di realizzare ampliamenti entro il limite del 35 %, non giustifica il ricorso ad una interpretazione analogica che avrebbe l’effetto di precludere, di fatto, l’applicazione di tale disciplina di favore in ampie zone dei territori comunali.
E’ peraltro meritevole di favorevole apprezzamento quanto argomentato dall’appellante a sostegno delle proprie deduzioni facendo leva sulla formulazione della stessa norma di cui all’art. 6 della l.r. n. 49/2009, nella versione ratione temporis vigente fino alla riforma introdotta dalla l.r. 01.03.2011, n. 4, alla cui stregua il titolo edilizio era stato rilasciato, laddove prevedeva che “la ricostruzione deve avvenire in sito, anche su diverso sedime, e può essere assentita in deroga alle previsioni urbanistico-edilizie dello strumento urbanistico comunale, fatto salvo il rispetto delle distanze dai fabbricati ivi previste” (cfr. comma 2).
Il rinvio operato dalla norma alla disciplina urbanistica locale impone il riferimento alle NTA, il cui art. AS8) si limita a prevedere, per la Sottozona AS (“Disciplina degli interventi di costruzione di nuovi edifici e relativi parcheggi pertinenziali”), “il corretto inserimento architettonico dell’edificio nell’intorno” così alludendo alla necessità di rispettare le (sole) distanze preesistenti invece che quelle previste per le edificazioni ex novo.
Peraltro la classificazione dell’intervento quale costruzione ex novo non può derivare dalla semplice circostanza che il progetto di demolizione e ricostruzione del fabbricato preveda la realizzazione di ampliamenti della volumetria preesistente. Se è vero che possono essere iscritti nell’ampia nozione di nuova costruzione anche gli interventi di ristrutturazione è pur vero che ciò è possibile, come ha rammentato la Sezione, soltanto “ove in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione, possa parlarsi di una modifica radicale dell'immobile, rendendo l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente” (cfr. sentenza, 06.04.2020, n. 2304).
La ristrutturazione edilizia, più precisamente, sussiste “solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione” (Cons. Stato, sez. II, 13.01.2021, n. 423).
Ad ogni modo, dalla documentazione progettuale dell’intervento (che prevede la demolizione e ricostruzione di un edificio destinato a civile abitazione e la costruzione di una nuova autorimessa) ed in particolare dalla relazione tecnica allegata alla domanda di permesso di costruire, avanzata ai sensi dell’art. 6 della l.r. n. 49/2009, è dato rilevare che la ricostruzione dell’immobile da demolire, interessato da una situazione di dissesto statico come descritto in dettaglio nella perizia tecnica in atti, con un ampliamento volumetrico (di poco) inferiore al 35%,“avverrà prevalentemente in altezza e su sedime lievemente modificato […] nel rispetto delle distanze dai fabbricati” (cfr. pagina 3 della relazione tecnica citata) precisandosi, nella parte rubricata “Confini e distanze”, che “l’area di progetto, appartenente alla zona AS del PUC vigente, confina a nord con la Salita Cavallo, ad est con edifici non finestrati e situati in zona AS, a sud ed a ovest con zone BB con le quali si sono rispettate le distanze minime di 10 metri dalle superfici finestrate degli edifici prospicienti” (cfr. pagina 6 della medesima relazione). L’affermazione di controparte, secondo cui il nuovo edificio “non conserva l’originario allineamento”, non trova preciso riscontro e pertanto non è dato inferire dalla documentazione di causa alcuna violazione della distanza minima di mt. 10 dalle pareti finestrate.
Ad ogni modo, in disparte la non immediatamente evidenziabile natura dell’intervento di nuova costruzione, che invece viene apoditticamente affermata dal Tar, è da rilevare, come sopra rilevato, la mancanza di una previsione normativa che stabilisca, per le zone A, la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate, la cui violazione non può quindi essere fondatamente contestata nel caso in esame.
Conclusivamente sul punto, in disparte la non condivisione da parte del Collegio delle considerazioni rese dal Tar che finiscono per ridimensionare la rilevanza provvedimentale del silenzio-assenso, va quindi accolto l’appello proposto dal Comune di Genova ove si deduce l’insussistente violazione del d.m. n. 1444/1968 non contemplando la previsione sulla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate, peraltro non evincibile dagli atti di causa, che pertanto il Tar ha ritenuto erroneamente violata (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 09.08.2021 n. 5830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2021

EDILIZIA PRIVATA: In merito al rispetto della prescrizione sulle distanze si rileva che:
   - l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è derogabile;
   - tale disposizione opera anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima (l’art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare);
   - la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano: tale calcolo si applica a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente
   - è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra;
   - ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute” ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, di veduta o di luce;
   - non può essere utilmente presa in considerazione la circostanza, dedotta dall’appellato, che il fabbricato dei signori -OMISSIS- sia stato edificato nella vigenza del precedente piano regolatore del 1962, che indicava il distacco minimo fra le costruzioni in metri sei: non solo in ragione della prevalenza del disposto di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 ma anche in quanto l’asserita violazione della disposizione sulle distanze fra costruzioni si è consumata con l’edificazione del fabbricato del signor -OMISSIS-, quindi nella vigenza della successiva disciplina urbanistica comunale.
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36. In ragione di quanto sopra deciso, sono stati quindi respinti nel merito tutti i motivi di appello ritualmente proposti, salve uno: rimane da scrutinare la censura della violazione della distanza fra la costruzione di proprietà del signor -OMISSIS- e la costruzione di proprietà dei signor -OMISSIS- (dedotta in primo grado con motivi aggiunti e riproposta in appello con il settimo motivo).
37. In relazione a detta violazione (che è onere di questo Giudice accertare, potendosi basare e potendo valutare autonomamente le risultanze di accertamenti dall’amministrazione o nell’ambito di procedimenti penali, peraltro non conclusi con sentenza di condanna), il verificatore ha affermato, dopo avere svolto le indagini peritali, che “il fabbricato di proprietà -OMISSIS- rispetta la distanza minima di cinque metri dal confine con la proprietà -OMISSIS- ma non rispetta la distanza minima di dieci metri tra i fronti dei fabbricati, che, in questo caso, sono entrambi finestrati; la distanza tra i fabbricati varia da circa 8,45 m a circa 10,00 m”.
In merito al rispetto della prescrizione sulle distanze si rileva che:
   - l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è derogabile;
   - tale disposizione opera anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima (l’art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare);
   - la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano: tale calcolo si applica a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente
   - è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra;
   - ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute” ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, di veduta o di luce (Cons. St. sez. V, 11.09.2019 n. 6136 su tutti i punti sopra richiamati);
   - non può essere utilmente presa in considerazione la circostanza, dedotta dall’appellato, che il fabbricato dei signori -OMISSIS- sia stato edificato nella vigenza del precedente piano regolatore del 1962, che indicava il distacco minimo fra le costruzioni in metri sei: non solo in ragione della prevalenza del disposto di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 ma anche in quanto l’asserita violazione della disposizione sulle distanze fra costruzioni si è consumata con l’edificazione del fabbricato del signor -OMISSIS-, quindi nella vigenza della successiva disciplina urbanistica comunale.
Ne deriva che si configurano le premesse per ritenere violata la distanza di dieci metri prescritta dall’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 dell’edificio del signor -OMISSIS- rispetto alla costruzione dei suoi danti causa, i signori -OMISSIS- (CGARS, sentenza non definitiva 27.07.2021 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze legali, pareti finestrate e balconi.
Devono intendersi ‘pareti finestrate’ tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, che assicurano la possibilità di esercitare la veduta. Di conseguenza anche i balconi contribuiscono a definire ‘finestrata’ una parete, poiché assicurano la possibilità di esercitare la veduta ed è necessario, pertanto, tenerne conto nel calcolo delle distanze tra edifici confinanti (Corte d'Appello di Firenze, Sez. III, sentenza 06.07.2021 n. 1381 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

giugno 2021

EDILIZIA PRIVATA: La distanza di dieci metri, sussistente tra edifici antistanti, si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione.
Inoltre, la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate, non soltanto a quella principale.
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Quanto al merito, con il presente gravame il ricorrente, proprietario di un immobile sito in Santa Marinella, località Santa Severa via ... n. 32 confinante con quello di proprietà della controinteressata, situato in via ... n. 10, ha lamentato l’illegittimità del permesso di costruire rilasciato dall’Amministrazione Comunale alla signora Al.Bi. in data 23.02.2004, in base al quale la controinteressata avrebbe costruito “un nuovo corpo di fabbrica attuato in sopraelevazione rispetto alla precedente costruzione, distante m. 2,39 dall’interasse del muro di confine con il (suo) fondo… e m. 8,50 dalla parete ovest (finestrata) della (sua) abitazione”.
Parte ricorrente ha evidenziato che i fondi de quibus ricadevano secondo il PRG del Comune di Santa Marinella all’interno della sottozona C2, rispetto alla quale l’art. 3 delle NTA al PRG stabiliva per le nuove costruzioni e per le trasformazioni degli edifici esistenti che “i distacchi dai confini (dovessero)…. essere pari almeno a m. 6” e che la normativa nazionale prevedeva, in ogni caso, l’obbligo di rispettare la distanza minima di m. 10 dalle pareti finestrate (DM n. 1444/1968).
Tali norme, stabilite per le nuove costruzioni, dovevano ritenersi applicabili anche alle sopraelevazioni come quella posta in essere dalla controinteressata, cosicché il Comune di Santa Marinella non avrebbe potuto validamente rilasciare il permesso di costruire impugnato, adottato, appunto, secondo il ricorrente, in violazione della normativa in tema di distanze.
Tali censure sono fondate e meritevoli di accoglimento.
Deve essere, in primo luogo, ribadito, in continuità all'indirizzo giurisprudenziale consolidato, che una controversia come quella in questione, derivante dall'impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali, costituisce una disputa non già tra privati, ma tra privato e p.a., nella quale la posizione del primo -in correlazione all'atto autoritativo abilitativo lesivo- si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo (cfr. Cass. civ., sez. un., 10.06.2004, nr. 11023; Cons. Stato, sez. IV, 06.07.2009, nr. 4300; Id., sez. V, 28.06.2004, nr. 4759; Id., sez. V, 13.01.2004, nr. 46).
Deve, inoltre, osservarsi, anche in questo caso in piena conformità all’indirizzo prevalente della giurisprudenza, che “una sopraelevazione deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante. Una sopraelevazione, comportando sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro, non può qualificarsi come risanamento conservativo o ricostruzione dei volumi edificabili preesistenti, i quali hanno solo lo scopo di conservarne i precedenti valori” (Cassazione civile, sez. II, 12/02/2021, n. 3684).
Nell’ipotesi in esame, dai documenti in atti, emerge senza ombra di dubbio che le opere in questione abbiano comportato un aumento di volumetrie nell’edificio della controinteressata, essendosi provveduto alla costruzione di nuovi ambienti (soffitta) al di sopra del piano originario, con incremento dell’altezza del fabbricato nella parte antistante la proprietà del ricorrente ed alla realizzazione di una nuova copertura a tetto ad un’altezza superiore a quella originaria.
Sulla natura di nuova costruzione dei lavori posti in essere e sulla necessità del rispetto delle distanze non possono, poi, incidere in alcun modo le argomentazioni svolte dalla controinteressata circa il carattere di “volume tecnico” dell’opera realizzata.
La nozione di volume tecnico corrisponde, infatti, a un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa; i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all'altezza (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 25/10/2019, n. 7289).
Dalla qualificazione in termini di costruzione dei lavori eseguiti dalla controinteressata discende, come anticipato l’assoggettabilità delle opere alla normativa in materia di distanze prescritte dal PRG e dalle disposizioni normative.
Il nuovo corpo di fabbrica realizzato risulta edificato in violazione delle distanze sia sotto il profilo del mancato rispetto della distanza di metri 3 dal confine prevista dalle NTA al PRG sia sotto quello del contrasto con la distanza minima di 10 metri lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti imposta dall’art. 9 del DM 1444/1968, disciplina, peraltro, espressamente richiamata tra le “norme generali” dalle norme tecniche del PRG .
In relazione a tale parametro può precisarsi, come affermato dalla giurisprudenza prevalente, che “la distanza di dieci metri, sussistente tra edifici antistanti, si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione; inoltre, la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate, non soltanto a quella principale” (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 10/05/2019, n. 2519).
Da qui l’illegittimità del permesso di costruire rilasciato dal Comune di violazione, come anticipato, della disciplina urbanistica ed edilizia, civilistica e amministrativa sulle distanze (TAR Lazio-Roma, Sez. II stralcio, sentenza 14.06.2021 n. 7136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di parete finestrata ai fini del rispetto della distanza tra edifici.
Avendo la controinteressata progettato una costruzione in aderenza, va applicato il disposto di cui all’art. 904 cod. civ., che ammette la possibilità per il confinante di chiudere le luci in un muro se si costruisce in aderenza allo stesso o se ne acquista la comunione.
A conferma di tale conclusione, può essere richiamata la consolidata giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale la tutela (possessoria) delle aperture lucifere è consentita salvo il caso in cui «il vicino voglia costruire in aderenza, oppure acquistare la comunione del muro e quindi costruire in aderenza. In questo caso la tutela della luce, intesa come estrinsecazione di una facoltà compresa nel diritto di proprietà, viene meno sia in sede petitoria, sia, posto che dette luci non possono fruire in sede possessoria di una tutela maggiore di quella che loro compete in sede petitoria, nella predetta sede possessoria. Né può, quindi, essere concessa la tutela possessoria nel caso in cui il vicino le chiuda nei modi consentiti dall'art. 904 c.c.».
In coerenza con il riferito indirizzo, anche la giurisprudenza amministrativa ha sottolineato come, «a norma dell’art. 904 del codice civile, “la presenza di luci in un muro non impedisce al vicino di acquistare la comunione del muro medesimo né di costruire in aderenza”, ed introduce la possibilità, una volta acquistata la detta comunione, chiudere le luci solo nel caso di costruzione in aderenza. Dal punto di vista delle possibilità edificatorie, quindi, la realizzazione in aderenza è ammessa, alle condizioni sopra viste, sia se il muro sia del tutto privo di aperture sia anche se esso contenga delle luci, mentre non è possibile nel caso dell’esistenza di vedute. Da questo peculiare angolo di osservazioni, la presenza di luci non è ostativa alla costruzione e quindi il muro, sia esso del tutto omogeneo sia anche se presenti delle aperture non costituenti vedute, è trattato in maniera normativamente identica».
Pertanto, la chiusura (di due) delle finestre-luci poste al piano terra risulta del tutto regolare e non contestabile.
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La giurisprudenza ha rilevato che la realizzazione di balconi al confine della proprietà, in violazione dell’art. 905 cod. civ. (“Distanza per l’apertura di vedute dirette e balconi”), può essere neutralizzata, senza il necessario ricorso alla sanzione demolitoria, «anche attraverso la predisposizione di idonei accorgimenti che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui, come l’arretramento del parapetto o l’apposizione di idonei pannelli che rendano impossibile il “prospicere” e l’“inspicere in alienum”».
Ne deriva che l’impossibilità di un affaccio diretto sul fondo del vicino qualifica come luce e non come veduta l’apertura ottenuta tramite l’abbassamento del muro posto sul terrazzo dell’immobile di proprietà delle parti ricorrenti.
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La presenza di una luce sull’immobile delle parti ricorrenti non consente di applicare alla fattispecie de qua le prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che impongono una distanza minima inderogabile di dieci metri tra pareti finestrate.
Difatti, secondo l’orientamento della Sezione «“l’art. 9 del D. M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci”. L’operatività della previsione è, quindi, condizionata dalla natura delle aperture …».
L’assenza di una parete finestrata nell’immobile di proprietà delle odierne ricorrenti rende inapplicabile, in via diretta, la prescrizione di cui al predetto art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968.
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A questo punto diviene irrilevante stabilire se le pareti dell’erigendo edificio di proprietà della controinteressata siano finestrate e quindi siano assoggettate al richiamato divieto; nessun interesse ad agire sussiste in capo alle ricorrenti nel far valere una prescrizione posta a garanzia della controparte, quale unico soggetto leso, in ipotesi, dal mancato rispetto della distanza di dieci metri dalle pareti finestrate (poste sul proprio edificio), in correlazione alle finalità di tutela della salubrità dei luoghi.
In tal senso, il Collegio condivide l’orientamento secondo cui il concetto di “stabile collegamento” non è sufficiente a radicare la legittimazione a ricorrere, quando –per il tipo di violazione edilizia denunciata e per le condizioni di contesto territoriale in cui si trovano gli immobili– la vicinitas non rappresenti un indice inequivocabile del pregiudizio subito dal soggetto che propone l’azione di annullamento del titolo edilizio, con la conseguenza che, se si tratta della distanza sussistente tra edifici, non è sufficiente il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo contestato, occorrendo piuttosto dare plausibile riscontro dei danni, o delle potenziali lesioni, ricollegabili all’avversata struttura, ovvero dell’incidenza negativa sulla propria sfera giuridica, per non elevare un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, alla stregua di un’azione popolare.
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Con ricorso notificato in data 13.09.2020 e depositato il 30 settembre successivo, i sigg.ri Eg. ed El.Ma.Gr.To. hanno impugnato il permesso di costruire n. 10/2020 rilasciato il 25.05.2020 dalla Città di Cesano Maderno in favore della società Sa.Ma. S.r.l., con sede in Lissone (MB), Via ... n. 5, e richiesto per la “demolizione di esposizione e deposito commerciale e realizzazione di edificio residenziale plurifamiliare”.
I ricorrenti, in qualità di comproprietari per una parte e di proprietari esclusivi dei restanti vani di un compendio immobiliare residenziale (in cui è collocato anche un laboratorio dismesso), situato in Cesano Maderno (MB), Via ... n. 4 (foglio 23, mappale 110, subalterni nn. 1, 2 e 701), hanno appreso che il proprietario del terreno confinante a sud, successivamente ceduto alla società controinteressata (foglio 23, mappali nn. 111, 114, 334 e 662), ha inoltrato al Comune di Cesano Maderno una richiesta di permesso di costruire al fine di realizzare un fabbricato residenziale in sostituzione del preesistente capannone destinato a deposito e ad attività commerciale.
Una prima richiesta di permesso di costruire, avanzata dal proprietario confinante nel mese di aprile 2019, è stata respinta sulla base di alcuni aspetti ostativi, e in particolare in ragione del mancato rispetto delle distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; tuttavia, in seguito alla parziale modifica del progetto originario, il Comune ha, infine, rilasciato a Sa.Ma. S.r.l. il permesso di costruire in data 25.05.2020.
Nel predetto procedimento, culminato con il rilascio del titolo edilizio in favore della controinteressata, è intervenuta anche la ricorrente, Avv. Ma.Gr.To., che, sul presupposto di una inesatta e incompleta descrizione dello stato dei luoghi, ha segnalato
   (i) la violazione della distanza minima di 10 metri tra gli edifici dei ricorrenti, dotati di pareti finestrate, e quello nuovo, anch’esso dotato di finestre e
   (ii) la violazione delle disposizioni (artt. 21 e 25) delle N.T.A. del Piano delle Regole che impongono la necessità di garantire una fascia di salvaguardia ambientale di almeno 10 metri, caratterizzata dalla piantumazione di alberi ed arbusti, allorquando vi sia contiguità tra un lotto a destinazione produttiva (come quello del ricorrente, sig. To.) e un lotto a destinazione residenziale; la realizzazione dell’intervento costruttivo, a giudizio dei ricorrenti, avrebbe determinato un peggioramento delle condizioni generali dei luoghi, nonché un sicuro e consistente deprezzamento della loro proprietà immobiliare.
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2. Con la prima doglianza si assume la violazione delle distanze tra costruzioni stabilita dall’art. 907 cod. civ. e dal D.M. n. 1444 del 1968, in quanto gli edifici delle parti ricorrenti, dotati di pareti finestrate e vedute, e quello in fase di costruzione, provvisto anch’esso di vedute, sarebbero posti ad una distanza inferiore ai 10 m: difatti il piano terra ed il primo piano dell’erigendo edificio sarebbero posti proprio sul confine ed in aderenza all’immobile dei ricorrenti, con il primo piano che dovrebbe presentare anche una veduta diretta per tutta la larghezza, pari ad oltre 13 m, prospiciente alle suddette proprietà ed in aderenza, mentre il secondo piano dovrebbe disporre di una veduta diretta per l’intera lunghezza, pari ad oltre 15 m, posta a soli 5 m dal confine.
2.1. La doglianza è in parte infondata e in parte inammissibile.
In primo luogo, deve essere chiarita la natura delle aperture poste sull’edificio delle parti ricorrenti, ovvero se si tratta di vedute o semplici luci.
Nello specifico, su tale edificio insistono, al primo piano, una apertura ricavata con l’abbassamento di un muro posto sul terrazzo confinante, che in teoria consentirebbe una veduta diretta ed obliqua larga circa 4 m sull’immobile in fase di realizzazione da parte della controinteressata (all. 20 al ricorso), e, al piano terra, quattro finestre-luci aperte sul muro comune che conferiscono aria e luce, poste a 2,75 m da terra e alte 1,20 m e larghe 1,70 m (all. 1 di Santa Margherita e Tavole all. 10 al ricorso).
2.2. Quanto alle quattro finestre-luci che si trovano al piano terra dell’edificio delle parti ricorrenti –si ripete, poste a 2,75 m da terra e alte 1,20 m e larghe 1,70 m (cfr. all. 1 di Sa.Ma.; all. 38, 39 e 57 al ricorso)– le stesse sono da qualificare come luci irregolari, in quanto sono poste su un muro realizzato al confine con la proprietà della controinteressata e risultano idonee a garantire soltanto il passaggio della luce (e forse dell’aria), ma non di consentire la veduta nel fondo del vicino, avuto riguardo alle loro caratteristiche costruttive (altezza da terra di 2,75 m: cfr. artt. 900 e 901 cod. civ.).
Avendo la controinteressata progettato una costruzione in aderenza, va applicato il disposto di cui all’art. 904 cod. civ., che ammette la possibilità per il confinante di chiudere le luci in un muro se si costruisce in aderenza allo stesso o se ne acquista la comunione.
A conferma di tale conclusione, può essere richiamata la consolidata giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale la tutela (possessoria) delle aperture lucifere è consentita salvo il caso in cui «il vicino voglia costruire in aderenza, oppure acquistare la comunione del muro e quindi costruire in aderenza. In questo caso la tutela della luce, intesa come estrinsecazione di una facoltà compresa nel diritto di proprietà, viene meno sia in sede petitoria, sia, posto che dette luci non possono fruire in sede possessoria di una tutela maggiore di quella che loro compete in sede petitoria, nella predetta sede possessoria. Né può, quindi, essere concessa la tutela possessoria nel caso in cui il vicino le chiuda nei modi consentiti dall'art. 904 c.c.» (Cass. civ., II, 30.05.2013, n. 13618; anche, ord. 09.11.2018, n. 28804; 30.12.2015, n. 26124; 04.12.2014, n. 25635).
In coerenza con il riferito indirizzo, anche la giurisprudenza amministrativa ha sottolineato come, «a norma dell’art. 904 del codice civile, “la presenza di luci in un muro non impedisce al vicino di acquistare la comunione del muro medesimo né di costruire in aderenza”, ed introduce la possibilità, una volta acquistata la detta comunione, chiudere le luci solo nel caso di costruzione in aderenza. Dal punto di vista delle possibilità edificatorie, quindi, la realizzazione in aderenza è ammessa, alle condizioni sopra viste, sia se il muro sia del tutto privo di aperture sia anche se esso contenga delle luci, mentre non è possibile nel caso dell’esistenza di vedute. Da questo peculiare angolo di osservazioni, la presenza di luci non è ostativa alla costruzione e quindi il muro, sia esso del tutto omogeneo sia anche se presenti delle aperture non costituenti vedute, è trattato in maniera normativamente identica» (Consiglio di Stato, IV, 13.01.2010, n. 69).
Pertanto, la chiusura (di due) delle finestre-luci poste al piano terra risulta del tutto regolare e non contestabile.
2.3. Con riferimento all’apertura, posta al primo piano dell’immobile delle parti ricorrenti e ricavata con l’abbassamento di un muro posto sul terrazzo confinante con la proprietà della controinteressata, che in teoria consentirebbe una veduta diretta ed obliqua larga circa 4 m sull’immobile in fase di realizzazione (all. 20 al ricorso e all. 21 di Sa.Ma.), va segnalato che la stessa è stata realizzata tramite s.c.i.a. nel mese di marzo 2019, ossia quasi contestualmente alla presentazione della richiesta del titolo edilizio da parte del dante causa della controinteressata (di cui gli originari ricorrenti erano a conoscenza già dal mese di febbraio 2019: all. 6 di Sa.Ma.), avvenuto formalmente in data 17.04.2019 (cfr. all. 6 al ricorso); nella Relazione di accompagnamento alla s.c.i.a. del 27.03.2019 presentata dai ricorrenti (all. 7 di Sa.Ma.), si specifica che «l’intervento di manutenzione consiste nella parziale demolizione del muro che delimita il terrazzo a sud creando un’apertura (h muro 1100 mm da soletta) della larghezza di 4 metri per consentire il passaggio di aria e luce. In corrispondenza di detta veduta verrà realizzato un parapetto (posto a 1,5 metri dal confine) con una rete metallica sostenuta da pali. La porzione del parapetto che si innesta sul muro di confine avrà un’altezza di 2 m e sarà dotata di opportuno materiale schermante per una larghezza di circa 0,5 m (in modo da mantenere una fascia di rispetto della di 0,75 m complessivi dai confine come previsto dal C.C.)».
Risulta evidente che l’apertura –a prescindere dalla sua legittimità, contestata dalla difesa di Sa.Ma. (all. 17-19 di Sa.Ma.)– non costituisce, per espressa ammissione degli stessi autori, una veduta, ma è finalizzata soltanto a garantire il “passaggio di aria e luce”: a riprova della insussistenza di una veduta è stato previsto –e poi realizzato– un parapetto posto a 1,50 m dal confine, al fine di impedire la vista sul fondo e/o immobile contiguo (cfr. all. 20 e 48 al ricorso).
Sul punto la giurisprudenza ha rilevato che la realizzazione di balconi al confine della proprietà, in violazione dell’art. 905 cod. civ. (“Distanza per l’apertura di vedute dirette e balconi”), può essere neutralizzata, senza il necessario ricorso alla sanzione demolitoria, «anche attraverso la predisposizione di idonei accorgimenti che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui, come l’arretramento del parapetto o l’apposizione di idonei pannelli che rendano impossibile il “prospicere” e l’“inspicere in alienum”»: Cass. civ., II, ord. 19.02.2019, n. 4834).
Ne deriva che l’impossibilità di un affaccio diretto sul fondo del vicino qualifica come luce e non come veduta l’apertura ottenuta tramite l’abbassamento del muro posto sul terrazzo dell’immobile di proprietà delle parti ricorrenti (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.02.2020, n. 907).
2.4. La presenza di una luce sull’immobile delle parti ricorrenti non consente di applicare alla fattispecie de qua le prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che impongono una distanza minima inderogabile di dieci metri tra pareti finestrate.
Difatti, secondo l’orientamento della Sezione «“l’art. 9 del D. M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci” (Consiglio di Stato, sez. IV, 05.10.2015, n. 4628; cfr., nella giurisprudenza civile, Cassazione civile, sez. II, 20.12.2016, n. 26383). L’operatività della previsione è, quindi, condizionata dalla natura delle aperture …» (TAR Lombardia, Milano, II, 26.06.2019, n. 1484; 23.05.2019, n. 1168; 30.11.2018, n. 2706; anche Consiglio di Stato, IV, 04.02.2020, n. 907; II, 14.01.2020, n. 347; TAR Liguria, I, 01.02.2021, n. 76; in senso contrario, Consiglio di Stato, V, 11.09.2019, n. 6136).
L’assenza di una parete finestrata nell’immobile di proprietà delle odierne ricorrenti rende inapplicabile, in via diretta, la prescrizione di cui al predetto art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968.
Difatti, a questo punto diviene irrilevante stabilire se le pareti dell’erigendo edificio di proprietà della controinteressata Sa.Ma. siano finestrate e quindi siano assoggettate al richiamato divieto; nessun interesse ad agire sussiste in capo alle ricorrenti nel far valere una prescrizione posta a garanzia della controparte, quale unico soggetto leso, in ipotesi, dal mancato rispetto della distanza di dieci metri dalle pareti finestrate (poste sul proprio edificio), in correlazione alle finalità di tutela della salubrità dei luoghi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 16.09.2020, n. 5466).
In tal senso, il Collegio condivide l’orientamento secondo cui il concetto di “stabile collegamento” non è sufficiente a radicare la legittimazione a ricorrere, quando –per il tipo di violazione edilizia denunciata e per le condizioni di contesto territoriale in cui si trovano gli immobili– la vicinitas non rappresenti un indice inequivocabile del pregiudizio subito dal soggetto che propone l’azione di annullamento del titolo edilizio, con la conseguenza che, se si tratta della distanza sussistente tra edifici, non è sufficiente il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo contestato, occorrendo piuttosto dare plausibile riscontro dei danni, o delle potenziali lesioni, ricollegabili all’avversata struttura, ovvero dell’incidenza negativa sulla propria sfera giuridica, per non elevare un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, alla stregua di un’azione popolare (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 04.05.2015, n. 1081).
In ragione di ciò, sarebbe stato necessario provare, o almeno allegare, la sussistenza di effettivi pregiudizi in grado di ledere le posizioni soggettive delle parti ricorrenti, al fine della positiva verifica della sussistenza dell’interesse ad agire; nella specie ciò non è avvenuto.
Quindi, la censura, nella parte relativa al mancato rispetto della distanza di dieci metri delle pareti finestrate dell’edificio erigendo, è inammissibile per difetto di interesse ad agire (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.06.2021 n. 1406 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2021

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Distanze tra costruzioni, strumenti urbanistici e integrazione della normativa codicistica.
Le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni o come spazio tra le medesime o come distacco dal confine o in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati e, pertanto, la loro violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino.
Le norme regolamentari, in quanto in concreto prescrivano limiti più severi rispetto a quelli di cui all'art. 873 cod. civ., prevalgono, per espressa previsione di esso, su tale ultima norma.
Quest'ultima, infatti, mantiene la propria efficacia (pur tenendo conto del modo di disporre dell'art. 41-quinquies della L. n. 1150/1942 come modificata dalla L. n. 765/1967: cfr. Cass. Civ. Sez. II, 7804/1991) soltanto ove dette più severe prescrizioni non siano previste.
Va poi considerato che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, emanato in esecuzione della predetta norma sussidiaria di cui all'art. 41-quinquies della L. n. 1150/1942, ha imposto una distanza minima inderogabile di 10 metri tra parerti finestrate e quelle di edifici antistanti, direttamente incidendo sui regolamenti comunali.
Ciò premesso, dalla natura integrativa delle disposizioni regolamentari, la pronunzia in esame trae la conclusione, invero già proclamata, della natura rispristinatoria della sanzione conseguente alla violazione delle stesse (massima e commento tratto da www.e-glossa.it).
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ORDINANZA
   - passando all'esame di merito, con il primo motivo le ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 872, 873 e 875 c.c., nonché delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. del Comune di Monopoli, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente applicato le disposizioni invocate dal momento che l'ampliamento al rustico del vecchio fienile realizzato da St.Pa. sul confine con il cortile o spiazzo di An.Sa. e ad oltre tre metri dai trulli della medesima, preesistenti e posti di fronte ad esso, non rispetterebbe neanche le distanze di cui all'art. 873 c.c., che stabilisce un metro e mezzo.
Il motivo è manifestamente fondato.
Secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, infatti, le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto la loro violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino (v. già Cass. n. 7384 del 2001).
In particolare, le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni sono da ritenere integrative delle norme del codice civile, mentre non lo sono le norme che, avendo come scopo principale la tutela d'interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi. Con la conseguenza che nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, mentre nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria (Cass. n. 1073 del 2009).
Nell'ambito delle norme dei regolamenti locali edilizi, pertanto, hanno carattere integrativo delle disposizioni dettate nelle materie disciplinate dagli artt. 873 c.c. e segg. quelle dirette a completare, rafforzare, armonizzare con il pubblico interesse di un ordinato assetto urbanistico la disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato. Non rivestono invece tale carattere le norme che hanno come scopo principale la tutela di interessi generali urbanistici, quali la limitazione del volume, dell'altezza e della densità degli edifici, le esigenze dell'igiene, della viabilità, la conservazione dell'ambiente ed altro.
In base agli enunciati principi, nel caso di specie, il regolamento urbanistico locale del Comune di Monopoli, artt. 17 e 18 d.r. 24.08.1977 n. 722, disciplinando in modo esplicito per le zone rurali A e B la distanza minima fra fabbricati di mt. 10 e dal confine di mt 5, per i principi sopra esposti, ha carattere integrativo delle norme del codice civile e come tale è suscettibile di tutela anche ripristinatoria (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 19.05.2021 n. 13624).

EDILIZIA PRIVATACostituisce orientamento consolidato che nella verifica dell’osservanza delle distanze tra fabbricati, ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
Dunque, nel caso di specie, trattandosi di terrazze incassate nella sagoma dell’edificio, la distanza dalla parete frontistante (cioè quella dell’edificio della ricorrente) deve essere calcolata non già a partire dalla porta-finestra che consente di accedere dall’appartamento alla terrazza in commento, ma dalla linea esterna di tale terrazza coincidente con la balaustra (non è in contestazione tra le parti che, in tal modo correttamente calcolata, la distanza tra le pareti sia inferiore a quella prescritta dall’art. 9 del DM 1444/1968, essendo pari a mt. 7,90).
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1. Con il ricorso in disamina la società Fi.Re.Es. ha chiesto l’annullamento del provvedimento con cui il Comune di Cerea ha annullato in via di autotutela la SCIA alternativa al permesso di costruire presentata in data 21.08.2017 dalla ricorrente (cfr. all. 12 al ricorso).
Con i due motivi di gravame si lamenta, in primo luogo, che l’esercizio del potere sarebbe stato tardivo in quanto successivo al decorso del termine di 18 mesi indicato dall’art. 21-nonies della L. 241/1990, e, in secondo luogo, che non sussisterebbe la violazione delle distanze contestata dal Comune, in quanto sull’immobile frontistante quello della ricorrente sarebbero presenti solo delle terrazze di copertura del piano inferiore dell’edificio non qualificabili come “pareti finestrate” ai sensi dell’art. 9, primo comma, n. 2), del D.M. n. 1444/1968.
Giova prendere le mosse, in via logica, dal secondo motivo di censura: ritiene il Collegio che, nel caso di specie, sussistano senz’atro i presupposti per l’applicazione del disposto della norma da ultimo citata in punto di distanze minime tra pareti finestrate.
L’esame della documentazione in atti e, segnatamente, delle fotografie prodotte dalle parti (cfr. doc. 7 del Comune di Cerea e doc. 14 di parte ricorrente) evidenzia come le terrazze esistenti sulla proprietà dei controinteressati, munite di balaustra, non hanno una funzione di mera copertura del piano sottostante dell’edificio, ma costituiscono una proiezione verso l’esterno dell’appartamento, e dunque una componente strutturale dell’edificio ove si prolunga la vita abitativa: esse si sviluppano in continuità con il perimetro esterno del fabbricato e consentono l’affaccio e la veduta in ogni direzione (cfr. Cass. civ. n. 4834/2019; Cons. Stato, sez. VI. n. 5307/2018: “Costituisce orientamento consolidato, qui condiviso, che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr., Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1272; Id, sez. IV, 21.10.2013, n. 5108)”).
Dunque, trattandosi di terrazze incassate nella sagoma dell’edificio, la distanza dalla parete frontistante (cioè quella dell’edificio della ricorrente) deve essere calcolata non già a partire dalla porta-finestra che consente di accedere dall’appartamento alla terrazza in commento, ma dalla linea esterna di tale terrazza coincidente con la balaustra: non è in contestazione tra le parti che, in tal modo correttamente calcolata, la distanza tra le pareti sia inferiore a quella prescritta dall’art. 9 del DM 1444/1968, essendo pari a mt. 7,90 (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.05.2021 n. 616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2021

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo della distanza.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Inoltre, è stato osservato in giurisprudenza che, per “pareti finestrate”, ai sensi dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, devono intendersi, non soltanto le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 06.04.2021 n. 319
- massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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Con il provvedimento oggetto di censura il Comune ha accertato, in autotutela, l’assenza dei presupposti per la formazione del titolo edilizio in relazione alla DIA del 2015 e alle successive varianti e ordinato il ripristino dello stato dei luoghi antecedente all’intervento per la sola porzione di veranda in ampliamento, mediante rimozione della stessa. Ciò sulla scorta del verbale con cui è stato rilevato che, sebbene la violazione delle distanze dai confini sia minimale e non sia, dunque, configurabile una variazione essenziale in relazione a tale profilo, altrettanto non può sostenersi con riferimento alla porzione di veranda in ampliamento, posta a una distanza inferiore ai dieci metri imposti dall’art. V.1 del Piano delle Regole del Comune di Treviglio e dall’art. 9 del D.M. 1444/1968.
Deve essere preliminarmente rigettata l’eccezione in rito correlata alla mancata notificazione del controinteressato da individuarsi nel proprietario dell’immobile rispetto a cui risulta essere stato violato il limite della distanza. La giurisprudenza, infatti, ravvisa il contraddittorio necessario solo nel caso in cui oggetto del controvertere sia la legittimità del titolo rilasciato al controinteressato, non anche nel caso contrario, come quello in esame, in cui il vicino è parte avvantaggiata dal provvedimento censurato, che trova la sua motivazione nella violazione di una norma edilizia solo incidentalmente e indirettamente posta a tutela del confinante, che, dunque, potrebbe intervenire nel giudizio, ma non può essere considerato contraddittore necessario.
Come chiarito dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 5472/2020, che richiama la pronuncia 06.06.2011 n. 3380 “nell’impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso”. Tale orientamento si fonda sulla considerazione che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Ne deriva l’ammissibilità del ricorso in esame.
Passando all’esame del merito della controversia, ragioni di ordine logico impongono di esaminare in via preordinata i motivi di ricorso numeri 2 e 3, i quali revocano in dubbio la legittimità dell’esercizio del potere di autotutela. L’accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per poter procedere all’esercizio del potere in questione risulta, infatti, essere logicamente preordinato rispetto all’accertamento della conformità alla legge del risultato cui esso ha condotto.
Fatta tale premessa, il Comune risulta aver disposto la revoca degli effetti delle DIA e della SCIA inoltrate da parte ricorrente sulla scorta di un’asserita violazione di una norma, quella che disciplina la distanza minima tra pareti finestrate, il cui rispetto si impone, prima ancora che nell’interesse della proprietà confinante, per garantire la salubrità delle costruzioni. Tenuto conto di ciò, non può essere ravvisata la lamentata carenza del presupposto che legittima l’esercizio del potere ex art. 21-nonies della legge n. 241/1990 da parte del Comune e nemmeno la dedotta carenza di motivazione, essendo a tal fine sufficiente l’indicazione della norma violata, posta a tutela dell’interesse pubblico.
Anche la terza doglianza non può trovare accoglimento, in quanto il provvedimento censurato è, nella sostanza, rivolto alla rimozione di un abuso edilizio derivante dall’asserita violazione dei limiti di distanza tra pareti finestrate, il che comporta, per inciso, anche la declaratoria dell’illegittimità degli effetti della DIA presentata da parte ricorrente per la realizzazione del manufatto senza garantire il rispetto degli stessi.
Pertanto, considerato che la giurisprudenza è costante nell’affermare che la repressione degli abusi edilizi, previo eventuale annullamento del titolo che ha previsto la realizzazione della costruzione in violazione della legge, può intervenire in qualsiasi momento, non può ritenersi applicabile alla fattispecie il termine di diciotto mesi riconosciuto dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 all’amministrazione per poter procedere all’annullamento in autotutela.
In ogni caso, considerato che la documentazione tecnica prodotta da parte ricorrente non rappresentava la presenza di una parete finestrata prima che fosse depositata la DIA del 09.12.2016, il termine dei diciotto mesi decorrerebbe comunque solo da tale data, coincidente con il momento in cui l’Amministrazione è stata resa edotta della reale situazione dei luoghi e eliminata la non corretta descrizione degli stessi che ha impedito di rilevare un possibile problema di violazione delle distanze. Il termine risulterebbe, pertanto, rispettato.
Esclusa la fondatezza dei vizi correlati alla sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere avversato, si può passare ad esaminare la censura n. 1, avente a oggetto la pretesa violazione della norma regolante la distanza tra pareti finestrate.
A tale proposito il Collegio ritiene di poter preliminarmente convenire con il Comune che, nella fattispecie in questione, la parete posta a confine con il mappale 3866 deve essere qualificata come “finestrata” in relazione alla presenza di vedute nella parte più bassa della stessa. Le aperture, infatti, sono dotate di inferiate e non di grate, per cui l’affaccio risulta agevole e, in ogni caso, per la loro dimensione e l’altezza a cui sono collocate consentono sia l’inspectio, che la prospectio.
Ciò chiarito, secondo parte ricorrente le distanze in questione non sarebbero applicabili al caso di fabbricati disposti ad angolo senza avere pareti contrapposte.
Ciò sembrerebbe supportato dalla formulazione dell’art. V.1 del PdR, il quale sembrerebbe assumere come presupposto il fatto che la distanza minima prescritta riguardi pareti che si fronteggiano.
In realtà, il Consiglio di Stato, considerando la ratio dell’art. 9 del DM 1444/1968, volto ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e, pertanto non eludibile, ha chiarito che “la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (così, Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909)” (cfr. Cons. Stato 7731/2010).
Inoltre, come ricordato nella sentenza del TAR Napoli, n. 2519/2019: <<la medesima giurisprudenza ha altresì osservato che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444, “devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22.10.2013 n. 5557 citato), e tale principio è stato di recente ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione che nella sentenza n. 166/2018>>.
Ne discende che legittimamente il Comune ha assoggettato a verifica la distanza tra la nuova veranda e la parete dell’edificio collocato sulla proprietà prospiciente (mappale 3866), da qualificarsi come finestrata.
Conseguentemente, misurate le distanze applicando il criterio della distanza lineare e non radiale, è incontestato che esse siano inferiori al limite di dieci metri imposto dalla legge e dal PdR comunale.
Rimane, dunque, da verificare se la distanza ridotta preesistesse, così come sostenuto da parte ricorrente, rispetto alla ricostruzione dell’edificio.
Secondo il sig. Bo., infatti, lo spigolo del corpo di fabbrica preesistente, demolito e ricostruito, era già posto a distanza di 5,28 metri (o comunque inferiore a 10 metri) dalla parete in questione. Più precisamente, erano presenti delle superfetazioni, poste a distanza inferiore a quella attuale, che sono state demolite e sostituite da una veranda priva di vedute, più bassa rispetto alle precedenti superfetazioni e costruita in modalità diagonale, obliqua e trasversale -non parallelamente, né frontalmente- rispetto all’edificio dei sigg.ri Mo. e Co..
La norma di riferimento, anche in questo caso, è sempre l’art. V.1 del PdR, il quale prevede che, nel caso di sostituzione edilizia, la distanza minima di metri 10 rispetto a pareti finestrate dei fabbricati antistanti (intendendosi come tali le pareti con una o più vedute) debba essere rispettata solo in relazione alle porzioni non comprese nella sagoma dell’edificio preesistente.
La prescrizione, dunque, impone la distanza minima solo in relazione a “porzioni non comprese nella sagoma”, facendo salve le ricostruzioni alle stesse distanze che caratterizzavano la costruzione originaria. Dalla documentazione in atti, però, non è possibile dedurre con certezza se lo spigolo della veranda, da cui è stata misura la distanza dalla parete finestrata dell’immobile collocato sulla proprietà confinante, ricada, ad oggi, all’interno di quello che era il perimetro della sagoma dell’edificio preesistente.
Pertanto, al di là del fatto che la nuova veranda abbia comportato una contenuta variazione in aumento della volumetria e sia stata collocata in una posizione diversa da quella originaria, risulta essenziale, al fine della decisione definitiva, verificare tecnicamente la sussistenza di tale condizione, di cui parte ricorrente non ha fornito adeguata prova.
Conseguentemente, il Comune resistente dovrà provvedere a verificare tale condizioni, producendo, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o notificazione della presente pronuncia, una relazione circa gli esiti di tale accertamento, corredata di una planimetria che, sovrapponendo lo stato preesistente e quello derivato dalla demolizione e ricostruzione, evidenzi la sagoma dell’edificio prima e dopo l’intervento, con indicazione della distanza minima tra la parete finestrata dell’edificio di proprietà dei sig.ri Mo. e Co. e la parete dell’edificio di proprietà del ricorrente prima e dopo l’intervento di ristrutturazione.
Spese al definitivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
   - lo dichiara ammissibile;
   - lo respinge nella parte in cui tende ad escludere la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela dei titoli edilizi formatisi a seguito della DIA del 2015 e delle successive varianti;
   - quanto alla domanda di annullamento dell’atto impugnato ordina gli incombenti istruttori indicati in motivazione;
   - rinvia al definitivo ogni decisione sulle spese del giudizio;
   - fissa, per l’ulteriore esame della controversia, l’udienza pubblica del 06.10.2021.

marzo 2021

EDILIZIA PRIVATAUn orientamento giurisprudenziale, interpretando l’articolo 9 del D.M. 1444/1968, ha affermato la non computabilità delle terrazze e degli elementi aggettanti, ove la strumentazione urbanistica comunale ne preveda l’esclusione dal calcolo della volumetria, purché si tratti di elementi estranei al volume utile dell’edificio.
Invero, s'è affermato che “Al riguardo, la Sezione non ignora l’esistenza di precedenti che, muovendo da una rigorosa qualificazione delle norme del d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni di ordine pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2, della legge 17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse possano essere derogate dagli strumenti urbanistici generali, le cui prescrizioni pertanto, ove contrastanti con le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio.
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche”.
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5. Non è, invece, fondato il terzo motivo, con cui sono dedotti i vizi di violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, di eccesso di potere per carenza di istruttoria, difetto di motivazione e si chiede di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 14/2015.
Afferma il ricorrente che le terrazze del primo e del secondo piano sarebbero poste ad una distanza inferiore a quella di 10 metri prevista dall’articolo 9 D.M. 1444/1968. Esse, infatti, superano il limite di 10 metri di m. 1,30.
Il ricorrente richiama l’orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale sono rilevanti ai fini del rispetto della suddetta distanza le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. “aggettanti”) destinati ad estendere la consistenza del fabbricato, restando irrilevanti soltanto le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità.
La deroga a tale principio non potrebbe essere contenuta nelle disposizioni del regolamento edilizio, trattandosi di norme secondarie alle quali non è consentito, in assenza di espressa previsione, derogare alle norme di aventi rango legislativo.
Neppure la minore distanza potrebbe trovare fondamento nell’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 4/2015 (alla stregua del quale: “in attuazione dell’articolo 2-bis del D.P.R. 380/2001, ai fini del calcolo della distanza minima tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. 1444/1968, non sono computati gli sporti e gli elementi a sbalzo, compresi terrazze e balconi non chiusi aggettanti dalla facciata dell’edificio per non più di metri 1,50. Resta fermo il rispetto delle disposizioni del codice civile relative alle distanze tra costruzioni nonché quelle relative all’apertura di vedute dirette e balconi sul fondo del vicino”) che il ricorrente ritiene incompatibile con il sistema costituzionale di riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni e, in particolare, con l’articolo 117, comma 2, lett. l, Cost.
5.1 E’ incontestato tra le parti che le terrazze del primo e del secondo piano sono poste ad una distanza dalla parete finestrata antistante inferiore a quella prevista dall’articolo 9 D.M. 1444/1968, ma inferiore a quella massima prevista dall’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 4/2015, che esclude dal calcolo della suddetta distanza minima, gli sporti e gli elementi a sbalzo, compresi terrazze e balconi non chiusi aggettanti dalla facciata dell’edificio per non più di metri 1,50.
La deroga al D.M. 1444/1968, pertanto, è giustificata dalla ricorrenza delle condizioni previste dalla suddetta legge regionale. Questa Sezione si è già espressa per l’insussistenza del presupposto della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale così come prospettata in questo giudizio, nella sentenza del 10.02.2021, n. 187, con argomenti da cui non si ravvisano ragioni per discostarsi.
Infatti, l’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 14/2015 è stato approvato in espressa attuazione dell’articolo 2-bis D.P.R. 380/2001, che consente a Regioni e Province autonome di “prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444 possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.”.
La norma, pertanto, costituisce esercizio delle facoltà di deroga riconosciuta alle Regioni dal legislatore statale. Inoltre essa trova fondamento, come ha rilevato il Comune, nell’intesa raggiunta tra Stato e Regione sul R.E.T., le cui definizioni, consentono di sottrarre al calcolo delle distanze gli aggetti inferiori a m 1,50 (cfr. nn. 18 e 30, all. A dell’Intesa).
La previsione, peraltro, è conforme ad un orientamento giurisprudenziale che, interpretando l’articolo 9 del D.M. 1444/1968, ha affermato la non computabilità delle terrazze e degli elementi aggettanti, ove la strumentazione urbanistica comunale ne preveda l’esclusione dal calcolo della volumetria, purché si tratti di elementi estranei al volume utile dell’edificio (TAR Lazio, sez. II, 11.09.2019, n. 10843 che richiama Consiglio di Stato, sez. IV, 30.12.2016, n. 5552: “Al riguardo, la Sezione non ignora l’esistenza di precedenti che, muovendo da una rigorosa qualificazione delle norme del d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni di ordine pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2, della legge 17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse possano essere derogate dagli strumenti urbanistici generali, le cui prescrizioni pertanto, ove contrastanti con le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 05.01.2015, nr. 11; id., sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id., 07.07.2008, nr. 3381).
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche
.”).
Anche alla stregua di tale orientamento, che ha interpretato la normativa statale, non si ravvisa, pertanto, la violazione del parametro costituzionale invocato dal ricorrente (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 31.03.2021 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA  - l'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento.
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi. La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile;
   - l'art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l'art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in forza dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima.
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria, costituisce un principio assoluto e inderogabile, che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata, sia infine sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti;
   - la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano. Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra;
   - è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra;
   - ai sensi dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per "pareti finestrate" devono intendersi non soltanto le pareti munite di "vedute" ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce).
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P
roprio perché la normativa sulle distanze è tesa a prevenire intercapedini, è da ritenere che, nel caso in cui le pareti che si fronteggino abbiano diversa altezza, la distanza è da calcolare “non in relazione allo spazio vuoto esistente al di sopra del lastrico solare dell’edificio”, “ma in relazione alla parete del detto edificio frontistante, se pure più basso, la detta parete in sopraelevazione”.
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La giurisprudenza ha già chiarito che “non sono computabili nel calcolo della distanza fra edifici gli sporti, le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali), le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità; non possono invece essere esclusi dal computo le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze che, per le particolari dimensioni, sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio”.
Tale principio ha trovato recente applicazione proprio con riguardo a “pilastri” che “creano un ingombro coerente a tutto il manufatto”.

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3. È anzitutto fondato il primo motivo di ricorso.
Con quest’ultimo, la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 9, comma 2, del DM n. 1144 del 1968 e dell’art. 9, comma 4, del PRG vigente, nonché eccesso di potere per travisamento, difetto di istruttoria e illogicità, poiché il permesso di costruire avrebbe assentito l’opera, benché essa non assicurasse il rispetto delle distanze minime prescritte sia dalla normativa statale, sia da quella locale.
In particolare, l’art. 9, comma 2, del DM n. 11444/1968 prescrive, per gli edifici collocati in zona B, come nel caso di specie, una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
Il Tribunale, in linea con la giurisprudenza amministrativa (Tar Veneto, n. 1137 del 2014, proprio in tema di cd piano caso e distanze), osserva che tale distanza minima non può subire deroghe, neppure in forza della disciplina relativa al cd piano casa: la stessa legge regionale n. 21 del 2009 lo afferma all’art. 4, comma 2.
3.1 Va altresì premesso che, nell’individuare i termini di raffronto per calcolare la distanza effettiva, dovranno essere considerati anche i balconi, che, nel caso di specie, hanno una significativa profondità dal lato della nuova palazzina, pari a circa tre metri, come confermato dal CTU. Essi, pertanto, costituiscono ad ogni effetto una componente strutturale dell’edificio, ove si prolunga la vita abitativa, con ciò che ne consegue in ordine alla necessità che sia questo il punto dal quale misurare la distanza (Cass. civ. n. 4834/2019; Cons. Stato, sez. VI. n. 5307/2018).
Tale conclusione varrà anche per ogni elemento strutturale dell’edificio, con particolare riguardo ai pilastri su cui si reggono parti di esso.
E va aggiunto, a tale proposito, che tale principio, in quanto codificato da una norma espressiva della competenza esclusiva statale in tema di ordinamento civile e di quella concorrente a dettare i principi fondamentali del governo del territorio, non può trovare correzioni o integrazioni nella normativa regionale o locale sulle distanze. Quest’ultima, infatti, può, nella sussistenza di rigide condizioni attinenti alla pianificazione, derogare alle distanze del DM n. 1144 del 1968 (ex plurimis, Corte costituzionale, sentenza n. 50 del 2017), ma non certo prescrivere criteri di interpretazione della normativa statale.
Ne consegue che eventuali previsioni del PRG e del regolamento edilizio che dovessero prevedere criteri differenti per il calcolo delle distanze, rispetto alla già affermata rilevanza dei balconi aggettanti e dei pilastri, si applicherebbero solo con riguardo a quelle introdotte dagli strumenti locali, e non a quelle di origine statale.
Nel caso di specie, in particolare, al fine di valutare l’osservanza dell’art. 9 del DM n. 1144 del 1968, non potranno avere spazio gli artt. 9.4 delle NTA e l’art. 165 del regolamento edilizio, quanto al rilievo da assegnare ai balconi, perché dovrà rilevare esclusivamente la norma statale, come ovviamente interpretata dalla giurisdizione.
In particolare, l’art. 9.4 prevede, in conformità alla normativa statale, che la distanza sia calcolata anche tenuto conto di “balconi, scale esterne, pensiline e gronde”, ma aggiunge che “non si considerano ai fini del distacco gli elementi sporgenti quali balconi, scale esterne e pensiline con aggetti inferiori a mt 1,20”.
Per tale ultima parte, la previsione non può essere tenuta in considerazione nel calcolo della distanza di 10 mt indicata dall’art. 9 del DM 1444 del 1968, quando la norma locale, come nel caso di specie, raggiunge balconi che, per natura e profondità, debbano invece essere presi in considerazione, sulla base delle massime di giurisprudenza sopra ricordate.
Gli allegati fotografici, a tale proposito, confermano che, nel caso odierno, i balconi sono rilevanti: non rileva, in senso contrario, che una porzione di essi sia interna alla facciata, sicché a sporgere è l’ultimo tratto, di misura non superiore a mt 1,20: il balcone, apprezzato nella sua integrità costruttiva e funzionale, è con ogni evidenza prolungamento della vita abitativa.
4. Tali principi sono stati reiteratamente affermati dalla giurisprudenza amministrativa, secondo la quale (ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, n. 6136 del 2019):
   - l'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (Cass. civ., II, 26.01.2001, n. 1108; Cons. Stato, V, 19.10.1999, n. 1565; Cass. civ., II, ordinanza 03.10.2018, n. 24076).
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento (Cass., n. 24076/2017, cit.).
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi (Cass. civ., II, 16.08.1993, n. 8725). La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile (Cass. civ., II, 07.06.1993, n. 6360; 09.05.1987, n. 4285;
   - l'art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l'art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in forza dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima (Cass. civ., II, 29.05.2006, n. 12741).
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria, costituisce un principio assoluto e inderogabile (Cass. civ., II, 26.07.2002, n. 11013), che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Cost., sentenza n. 232 del 2005), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata (Cass. civ., II, 31.10.2006, n. 23495), sia infine sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti (Cons. Stato, IV, 12.06.2007, n. 3094);
   - la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (Cons. Stato, V, 16.02.1979, n. 89). Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Cass., II, 30.03.2001, n. 4715), indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra (Cass., II, 03.08.1999, n. 8383; Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; 02.11.2010, n. 7731);
   - è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra (Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; Cass. Civ., II, 20.06.2011, n. 13547; 28.09.2007, n. 20574);
   - ai sensi dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per "pareti finestrate" devono intendersi non soltanto le pareti munite di "vedute" ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce).
5. Il Tribunale, sulla base di queste premesse in diritto, ha perciò disposto CTU, allo scopo di verificare, in particolare, distanza e altezza.
Con riguardo alle distanze, nel supplemento di istruttoria, il CTU ha erroneamente escluso i balconi, in applicazione dell’art. 9.4 delle NTA e dell’art. 165 del regolamento edilizio, stimando che essi non avessero aggetto superiore a mt 1,20.
Si sono già specificate sopra le ragioni per le quali, invece, la distanza andasse calcolata dal punto di massima sporgenza dei balconi.
Adottando tale criterio, torna utile il calcolo delle distanze formulato con la prima CTU, e che, del resto, la seconda CTU ha confermato sul piano fattuale, pur impiegando poi erronei criteri giuridici al fine di concludere per la sussistenza di una distanza maggiore di quella effettiva.
Se ne può concludere per una determinazione della distanza di soli metri 7,85, anziché almeno 10, dai balconi (da intendersi quale parete finestrata ai fini dell’applicazione dell’art. 9 del DM 1444 del 1968: Cass. civ. n. 4834/2019) alla parete dell’edificio antistante della ricorrente.
5.1 Tuttavia, ciò rende verosimile, ma non provato, che il regime delle distanze sia stato violato per tale aspetto.
Infatti, il CTU, dato atto che gli edifici si fronteggiano solo per l’unico piano di quello della ricorrente e per il piano adibito a garage di quello della controinteressata (in questo punto, la distanza è conforme alla legge, in quanto pari a mt. 10,35), ha correttamente reputato di dover valutare la distanza, anche a partire dai piani sopraelevati del nuovo edificio, ma ha errato nell’assumere a punto di raffronto la proiezione verticale (e, dunque, un punto meramente astratto) dell’immobile della ricorrente.
Viceversa, proprio perché la normativa sulle distanze è tesa a prevenire intercapedini, è da ritenere che, nel caso in cui le pareti che si fronteggino abbiano diversa altezza, la distanza è da calcolare “non in relazione allo spazio vuoto esistente al di sopra del lastrico solare dell’edificio”, “ma in relazione alla parete del detto edificio frontistante, se pure più basso, la detta parete in sopraelevazione” (Cass. civ. n. 8383 del 1999).
6. A questo punto, sarebbe possibile un terzo accertamento peritale, per determinare la distanza dai balconi, sulla base di tale criterio.
Tuttavia, in considerazione del fatto che la causa pende dal 2014 e per ragioni di economia processuale, il Tribunale ritiene di potersi pronunciare fin d’ora, posto che l’illegittimità dell’atto impugnato, quanto alle distanze, emerge anche nel raffronto tra le pareti finestrate della ricorrente e quelle della controinteressata, se calcolata a partire dal vano scala A.
Anche a tale proposito, è necessario tenere fermo il calcolo offerto con la prima CTU, che ha determinato la distanza in mt. 8,54, se calcolata dai pilastri strutturali in cemento armato del vano scala A (e, poi, in 8,80 mt con riferimento al cd. tracantone di cui al supplemento di perizia), e in mt. 9.93, se calcolata dalla parete finestrata di tale vano scala.
Va subito precisato che a rilevare, tra le due, è la distanza minima di mt 8,54 (o 8,80/8,90: cfr supplemento di CTU), posto che essa è computata a partire da “pilastri di cemento armato realizzati a chiusura del vano scala A posto a nord-ovest della nuova palazzina” con “altezza di oltre 10 metri ed una larghezza di oltre 60 cm ciascuno”, rappresentando “in modo incontrovertibile degli elementi rilevanti ai fini del computo della distanza” (prima CTU, pag. 8-9).
La giurisprudenza ha già chiarito che “non sono computabili nel calcolo della distanza fra edifici gli sporti, le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali), le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità; non possono invece essere esclusi dal computo le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze che, per le particolari dimensioni, sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio” (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 21/10/2013, n. 5108). Tale principio ha trovato recente applicazione proprio con riguardo a “pilastri” che “creano un ingombro coerente a tutto il manufatto” (Cons. Stato, sez. VI, n. 521 del 2021).
Nel caso di specie, la prima CTU ha perciò correttamente tenuto conto dei “pilastri verticali portanti del nuovo edificio, in cui, in parte, alloggiano anche le scale di accesso ai vari piani”.
6.1 Erronea, viceversa, è stata la decisione del CTU, in occasione del supplemento istruttorio, di mutare del tutto la propria posizione, offrendo, senza peraltro alcuna adeguata motivazione a supporto della nuova conclusione, una indicazione delle distanze compatibili con l’art. 9 del DM 1444 del 1968.
Già l’assertività di tale mutamento di rotta, a fronte della esaustiva motivazione svolta con la prima CTU, rende manifestamente incongruo, e quindi da disattendere in questa sede, il rinnovato giudizio del consulente.
Se, poi, il nuovo calcolo dovesse essere il frutto dell’applicazione dell’art. 9.4 delle NTA e dell’art. 165 del regolamento edilizio, come pare intuibile dal supplemento istruttorio (pag. 7), esso sarebbe comunque da respingere.
Il CTU osserva che la normativa edilizia applicabile nel territorio di Fiumicino esclude dal calcolo delle distanze anche le scale “esterne” sporgenti, che aggettano per meno di mt 1,20.
Tuttavia, tale osservazione, come posto in rilievo dal consulente di parte della ricorrente, appare priva di pertinenza con riguardo al vano scala A, giacché la prima CTU ha già acclarato che si è in presenza di un vano chiuso generatore di cubatura (pag. 18), sicché nessuna “scala esterna” acquisisce rilievo.
Inoltre, vale per ogni elemento sporgente quanto precisato in diritto in ordine alla applicabilità, in tema di distanze minime ex DM 1444 del 1968, della sola normativa statale, come interpretata dalla giurisprudenza, con la conseguenza che né il cd. tracantone (definito come un “ringrosso del muro contenente le tubazioni dei servizi”), né tanto meno i pilastri del vano scala A, come sopra descritti, possono essere esclusi dal calcolo della distanza.
Ed è rimarchevole, ancora una volta, che a tale corretta conclusione il CTU fosse già giunto con la prima consulenza, ove si era escluso di poter attribuire rilievo all’art. 9.4 delle NTA (pag. 16), cosicché non si comprende in base a quali fattori egli abbia poi radicalmente cambiato parere, ciò che costituisce un ulteriore vizio logico del supplemento istruttorio, tale da imporre che esso venga disatteso dal Tribunale per tale parte.
7. Da ultimo, rispondendo ad un quesito del consulente di parte a proposito del vano scala A, il CTU si è poi soffermato sulla presunta abusività dell’immobile della ricorrente, che, a suo tempo, non avrebbe a sua volta rispettato le distanze di legge.
Ove tale precisazione fosse da intendersi nel senso che tale fattore possa incidere sull’osservanza delle distanze da parte del nuovo edificio, essa sarebbe da rigettare, posto che “le disposizioni dettate dal DM n. 1444 del 1968 art. 9 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti (e) dalla loro eventuale abusività” (Cass. civ. n. 2367 del 2021).
Non ha infatti pregio l’argomento di parte resistente, secondo cui l’inosservanza delle distanze minime sarebbe da attribuire alla ricorrente, che avrebbe edificato senza osservare lo stacco minimo dal confine prescritto dalla normativa locale (metri 3,95, anziché 5.00, come rilevato dal CTU).
La presente controversia verte esclusivamente sulla conformità a legge del permesso di costruire rilasciato alla controinteressata (cfr Cons. Stato, sez. IV, n. 2086 del 2017). In quest’ottica, il Comune (ferma l’attivazione, che non vi è stata, di eventuali poteri di riduzione in pristino, ove ammissibili) non poteva che prendere atto della situazione esistente in loco, in base alla quale l’edificio della ricorrente sorgeva ad una certa distanza dal confine; si trattava, cioè, di valutare sulla base di essa se il nuovo immobile rispettasse o no la distanza minima, ed è tale valutazione che si è dimostrata erronea nella presente causa.
Ed è appena il caso di osservare che l’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, invocato da parte resistente per negare il carattere essenziale della variazione sulla distanza, è del tutto privo di pertinenza, perché regola la fattispecie del tutto diversa degli interventi eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, e non certo la violazione della distanza minima di cui all’art. 9 del DM 1444 del 1968.
7,1 In definitiva, il Tribunale reputa che la prima CTU apporti elementi sufficienti per decidere la causa, quanto ai fatti che essa era tenuta ad accertare, e che questi ultimi non siano inficiati dagli esiti del supplemento dell’istruttoria, da rigettare sia perché manifestamente incongrua, sia perché fondata su un’erronea applicazione della legge.
Non vi è dubbio, perciò, che il permesso di costruire impugnato sia illegittimo, poiché in contrasto con il regime delle distanze minime prescritto dall’art. 9, comma 2, del DM n. 1144 del 1968
(TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 05.03.2021 n. 2763 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: vanno rispettate anche nelle ristrutturazioni?
Se è evidente la violazione delle distanze tra edifici diventa irrilevante la qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia. Ergo l’art. 9 d.m. n. 1444/1968, che riguarda esclusivamente le nuove costruzioni, è inapplicabile (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2021 n. 1867 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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1.1. - La censura, nei suoi diversi profili, va respinta.
In merito all’applicabilità dell’evocato art. 9 D.M. 1444 del 1968 e all’individuazione della nozione di ‘nuova costruzione’, occorre sottolineare come il mero rinvio all’art. 3, lett. e), del d.P.R. 380 del 2001 non appaia dirimente.
La giurisprudenza, sia amministrativa (da ultimo, Cons. Stato, IV, 08.01.2018, n. 72; id., IV, 02.03.2018, n. 1309) che civile (Cass. civ., II, 15.12.2020, n. 28612; id., II, 28.10.2019, n. 27476; id., II, 10.02.2020, n. 3043) ha evidenziato una tendenziale autonomia del concetto in ambito civilistico, rimarcando che, ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera (Cons. Stato, IV, 22.01.2013, n. 354).
Nel caso in esame, anche a volersi unicamente fondare sulla relazione tecnica di parte (che ritiene che nel progetto “vengano riprese, con modifiche sia interne che esterne, le voci già oggetto della concessione ormai scaduta. La maggior parte delle opere previste interessano la copertura con una variazione minima di volume in diminuzione, determinata dalla compensazione tra volumi in aumento e volumi in detrazione. Le opere prevedono modifiche statiche solo nell’orditura del tetto, mentre tutte le strutture portanti dell’edificio non vengono modificate dagli interventi in progetto”), vengono comunque in evidenza interventi sulla volumetria dell’immobile. In particolare, come notato dal TRGA, rileva il sollevamento della falda sul lato nord, dove è prevista la realizzazione di una terrazza, e quello della falda sul lato sud, dove ci sarà l’innalzamento della copertura su una parte del prospetto in sostituzione del precedente abbaino, che era decisamente più ridotto.
In relazione ai singoli elementi progettuali, la violazione delle distanze appare quindi evidente, essendo così conseguentemente irrilevante la vantata qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia.
Va inoltre qui vagliata la circostanza che, nel computo complessivo della volumetria, l’intervento, compensando aumenti e diminuzioni, determina una complessiva riduzione dell’impatto; il che, a giudizio della parte appellante, renderebbe l’intervento non significativo anche dal punto di vista civilistico.
Tuttavia, tale esito appare recessivo di fronte all’esigenza di tutelare le distanze che, come recita il citato art. 9, sono quelle minime e che quindi possono essere violate anche solo puntualmente, atteso che il carattere di nuova costruzione va riscontrato in rapporto ai “caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno” (Cass. civile, II, 15.12.2020, n. 28612).
Conclusivamente sul punto, la censura, che si attaglia sulla dimostrazione della natura di ristrutturazione edilizia dell’opera, appare superata dall’esigenza dell’autonoma sussunzione nel concetto di nuova costruzione ai fini dell’applicazione della disciplina delle distanze legali.
In merito alla censura sull’erronea applicazione della stessa disposizione, non essendovi pareti finestrate contrapposte, va condiviso l’approccio del Tribunale, che ha evidenziato come la disposizione regolamentare sia integrata, a livello locale, dall’art. 1, lett. h), delle Norme di attuazione al piano urbanistico comunale di Bolzano rielaborate, come vigenti al momento del provvedimento, che recita:
   “h) Distanza tra edifici: è la distanza minima radiale misurata in proiezione orizzontale tra le pareti più sporgenti degli edifici siti sullo stesso lotto o su lotti finitimi e/o dalla superficie coperta. Tale distanza nei fabbricati ad eccezione di fabbricati accessori preesistenti non può essere inferiore a 10 metri, salvo nel caso di fabbricati con pareti prive di vedute, come da codice civile.”
È palese che la disposizione comunale introduca strumenti più restrittivi di calcolo dell’osservanza delle distanze, utilizzando il criterio della distanza radiale, ossia non solo per gli interventi fronteggianti, ma valevole in ogni caso in cui la nuova costruzione vada ad intaccare lo spazio circostante gli edifici preesistenti, come considerato dalla disposizione comunale. Il che impone di considerare corretta la valutazione svolta dal primo giudice.
Infine, per quanto riguarda l’applicazione del calcolo radiale, questo è espressamente citato dalla normativa comunale applicabile; mentre in relazione alla possibilità che quest’ultima introduca limiti più rigorosi, va ricordato l’insegnamento di Corte cost., 16.06.2005, n. 232 per cui “in materia di distanze tra fabbricati, primo principio, fissato in epoca risalente ma ancora di recente ribadito, è che la distanza minima sia determinata con legge statale, mentre in sede locale, sempre ovviamente nei limiti della ragionevolezza, possono essere fissati limiti maggiori.”
Conclusivamente, il motivo di ricorso deve essere integralmente respinto in tutte le sue sfaccettature.

EDILIZIA PRIVATAQuando va osservata la distanza di dieci metri? La distanza di dieci metri dalle pareti finestrate di preesistenti edifici, prevista dall’art. 9 d.m. n. 1444/1968, va osservata anche quando la nuova costruzione sia fronteggiata da un balcone che aggetta da una parete in sé non frontistante.
L’abuso edilizio di per sé non può incidere negativamente sulla posizione giuridica di chi intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non certo le “illiceità edilizie” dei terzi.
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d. interesse illegittimo o emulativo.
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
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L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore. L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.
Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a differenti esigenze di tutela.
La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente compressione dell'altrui diritto alla riservatezza.
La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti.
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva.
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In ragione della ratio prima descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra.
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione, rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione, per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, anche di recente, la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune nel provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente (perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
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Dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che, ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15 dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante, con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità, determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto) di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo:
   a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
   b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose.
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
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11. Le questioni oggetto del presente, articolato, giudizio sono sostanzialmente tre:
   a) la legittimazione dei signori De Fa. ad agire in giudizio per contestare il titolo edilizio rilasciato alla signora Na.Pa.;
   b) la realizzazione della costruzione della signora Pa.in assenza o in difformità ai titoli abilitativi in precedenza rilasciati, il che, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 19 del 2009, escluderebbe la possibilità della realizzazione, con i benefici del c.d. piano casa, dell’intervento edilizio oggetto del presente giudizio;
   c) il rispetto delle distanze minime legali tra i fabbricati.
11.1. L’appellante principale ha dedotto l’insussistenza della legittimazione all’impugnazione da parte dei signori De Fa., in ragione dell’abusività dei loto titoli edilizi.
L’insussistenza delle condizioni soggettive dell’azione, peraltro, potrebbe e dovrebbe anche essere rilevata d’ufficio dal giudice.
11.1.1. La questione assume evidente rilievo in quanto l’abuso edilizio di per sé non può incidere negativamente sulla posizione giuridica di chi intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non certo le “illiceità edilizie” dei terzi (cfr. Cons. Stato, IV, n. 1874 del 2009, richiamata da Cons. Stato, IV, n. 3968 del 2015).
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d. interesse illegittimo o emulativo (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 5 del 2015; n. 9 del 2014).
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
11.1.2. Trasponendo tali concetti dal generale al particolare, nella fattispecie in esame, occorre accertare quale sia la situazione edilizia in cui versano gli immobili di proprietà dei signori De Fa. fronteggianti l’immobile della signora Pa. al momento del rilascio a quest’ultimo dal titolo edilizio in contestazione.
L’immobile si divide in tre unità abitative: l’appartamento posto al secondo piano (terzo piano fuori terra), di proprietà Salvatore De Fa.; l’appartamento posto al primo piano (secondo fuori terra), di proprietà Ci. De Fa.; l’appartamento posto al piano terra (primo piano fuori terra), di proprietà Ca. De Fa..
Gli immobili posti al piano terra ed al primo piano di proprietà, rispettivamente, dei signori Ca. De Fa. e Ci. De Fa. sono stati assentiti con concessioni edilizie in sanatoria rilasciate in data 06.05.2004, ormai inoppugnabili.
L’immobile posto al secondo piano, di proprietà del signor Sa. De Fa., invece, è stato assentito da permesso di costruire in sanatoria rilasciato in data 18.07.2019, sicché, al momento del rilascio dei titoli contestati ed al momento della proposizione del ricorso in primo grado, lo stesso risultava abusivo.
Di contro, gli abusi afferenti la realizzazione sui balconi dei tre piani di piccole verande, in quanto non “coprenti” l’intera metratura dei balconi stessi, non assumono rilievo ai fini in discorso.
Infatti, nonostante tali abusi insistano sui balconi da cui occorrerebbe calcolare le distanze, i piccoli manufatti abusivi, per come si evince dalla documentazione fotografica versata in atti ed a prescindere dal fatto che siano stati o meno abusivamente riproposti dopo la loro demolizione, coprono in piccola parte la superficie dei balconi, i quali, quindi, non hanno perso le loro caratteristiche essenziali e la loro destinazione d’uso.
Ne consegue che sussiste la legittimazione a contestare l’intervento edilizio assentito alla signora Pa. atteso che, al momento del rilascio dei titoli edilizi e della proposizione del ricorso in primo grado, risultavano comunque assentiti i primi due piani della proprietà De Fa., sicché potrebbe eventualmente escludersi la legittimazione all’impugnazione da parte del solo signor Sa. De Fa., proprietario dell’unità immobiliare a quel momento ancora abusiva, ma tale circostanza non è idonea ad escludere la complessiva legittimazione alla proposizione del ricorso.
11.2. I signori De Fa., con l’appello proposto in via incidentale, hanno sostenuto che la signora Palma non avrebbe potuto beneficiare del permesso a costruire richiesto, in considerazione della causa di esclusione contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. a), della più volte menzionata L.R. Campania n. 19 del 2009.
11.2.1. Il motivo di doglianza non è persuasivo.
11.2.2. L’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 9 del 2009 prevede che gli interventi edilizi di cui agli articoli 4, 5, 6-bis e 7, non possono essere realizzati su edifici che, al momento della presentazione della denuncia di inizio di attività edilizia o della richiesta di permesso di costruire, risultano realizzati in assenza o in difformità al titolo abilitativo per i quali non sia stata rilasciata concessione in sanatoria.
In proposito, occorre preliminarmente rilevare che l’art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, al primo comma, determina le variazioni essenziali, disponendo che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni:
   a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
   d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
   e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Il secondo comma dello stesso articolo, inoltre, indica che non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Il provvedimento di convalida, come prima indicato, è stato adottato in quanto l’Amministrazione ha qualificato non essenziali, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, le difformità tra lo stato di progetto dell’originario PdC n. 55 del 2008 e successiva variante e lo stato di fatto di cui al PdC n. 76 del 2016 e, a tal fine, la convalida ha fatto riferimento alle relazioni del 23.03.2018 e del 03.04.2018, riguardanti i sopralluoghi effettuati dal responsabile del procedimento.
In particolare, dal sopralluogo del 30.03.2018, di cui alla relazione del 03.04.2018, è emerso che:
Per quanto riguarda la verifica del piano seminterrato, riportato nei grafici progettuali come ‘area non rilevata’, è stato verificato lo stato dei luoghi rispetto a quanto assentito con il permesso di Costruire n. 55 del 23.10.2008.
In data 30.3.2018 lo stato di fatto presenta una diminuzione della superficie calpestabile e delle difformità di distribuzione interna e aperture esterne rispetto al permesso di costruire n. 55/2008, in particolare è stata ampliata la zona garage ed è stata realizzata a 9,57 m circa dall’ingresso del garage la parete divisoria con il locale deposito con annesso wc.
Il primo piano ed il piano secondo sono realizzati in conformità ai grafici stato di fatto allegati al permesso di costruire n. 76 del 27.12.2016.
Dalla verifica della documentazione agli atti d’ufficio si fa rilevare che lo stato di fatto del piano primo e del piano secondo riportato nei grafici allegato al permesso di costruire n. 76/2016 presentano delle difformità in termini di distribuzione interna e apertura dei vani esterni rispetto a quanto assentito con il permesso di costruire n. 55/2008
”.
Pertanto, il Comune di Volla, ritenuto che il piano seminterrato non ha cambiato destinazione d’uso e che sono state rilevate difformità in termini di distribuzione interna e apertura dei vani esterni, ha qualificato come non essenziali le variazioni.
Tale qualificazione, sulla base della indicata relazione, non appare irragionevole.
Né, i signori De Fa. hanno specificamente contestato l’esito dei sopralluoghi svolti dall’Amministrazione comunale, deducendone il travisamento dei fatti, nemmeno attraverso l’eventuale proposizione di una querela di falso o con gli altri strumenti di tutela previsti, per cui deve ritenersi che non abbiano fornito un adeguato supporto probatorio alla loro prospettazione relativa all’avvenuto cambio di destinazione d’uso del piano seminterrato in abitazione ed alla presenza di altre modifiche in ipotesi essenziali, in misura tale da sovvertire l’istruttoria e la valutazione operata dall’Amministrazione.
11.3. La signora Pa., così come il Comune di Volla nel suo appello incidentale, hanno contestato la statuizione della sentenza impugnata, con cui è stato ritenuto fondato il motivo di impugnativa relativo alla violazione delle norme sulle distanze.
11.3.1. Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto:
Orbene, nella fattispecie che occupa il Tribunale evidenzia come dai grafici versati in atti e dalle stesse foto corredanti la relazione di chiarimenti depositata dall’Amministrazione resistente, emerge che il progetto assentito con gli impugnati titoli edilizi preveda la realizzazione di un vano scale di nuova costruzione posto in aderenza al muro di confine con la proprietà dei ricorrenti, nella parte non edificata, il quale risulta posto ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti dalla parete frontistante dell’edificio di proprietà di quest'ultimi, costituita da un prolungamento ad “L” del fabbricato in cui sono inclusi i balconi.
Per quanto sin qui osservato appare evidente che il provvedimento prot. n. 23138 del 31.07.2018, con cui il Comune di Volla, all'esito del procedimento di autotutela avviato con comunicazione prot. n. 10933 del 06.04.2018, ha convalidato il permesso a costruire n. 76 del 27.12.2016 e la successiva SCIA prot. n. 5014 del 13.12.2018 presentata dalla controinteressata, e gli stessi provvedimenti sottostanti tutti ritualmente impugnati dai ricorrenti, sono illegittimi quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta, in quanto tutti fondati sull’erroneo presupposto che il rispetto della distanza di 10 metri imposta dal D.M. 1444 del 1968 è applicabile unicamente alle pareti che si fronteggiano, che il balcone non è riconducibile al concetto di parete finestrata e che la misurazione delle distanze in tale caso deve avvenire in modo lineare e non radiale.
Le suesposte considerazioni risultano decisive -quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta- ai fini dell’accoglimento del ricorso per come integrato dai primi motivi aggiunti …
”.
11.3.2. L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore. L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.
11.3.3. Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a differenti esigenze di tutela.
11.3.3.1. La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente compressione dell'altrui diritto alla riservatezza (cfr. sentenza della Corte costituzionale n. 394 del 1999).
11.3.3.2. La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti (cfr. Corte Cass. II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834).
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva (Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1670).
11.3.4. La questione maggiormente problematica che si pone nella fattispecie in esame, quindi, è quella di verificare se debba trovare applicazione l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, come ritengono i signori De Fa., o se non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale norma, come sostenuto dal Comune di Volla e dalla signora Na.Pa..
Il Collegio ritiene che la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste, in quanto la fattispecie concreta rientra nella fattispecie astratta prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che, in ragione della ratio prima descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. Civ., II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834 cit.).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione, rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (Cfr. Cass. Civ., 19.09.2016, n. 12828).
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr. Cass. Civ., II, 19.09.2016, n. 12828, che richiama Cass. 17242/2010; 12964/2006; 1556/2005).
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione, per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr. Cons. Stato, VI, 10.09.2018, n. 5307, che richiama Cons. Stato, V, 13.03.2014, n. 1272 e Cons. Stato, IV, 21.10.2013, n. 5108).
In proposito, anche di recente (cfr. Cass. Civ., ordinanza 19.02.2019, n. 4834), la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune di Volla nel provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente (perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
Infatti, dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che, ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15 dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante, con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità, determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto) di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo (Cass. civ., sez. II, 01.10.2019, n. 24471):
   a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
   b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. Civ., sez. II, 25.06.1993, n. 7048).
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
Ciò è sufficiente ad escludere la fondatezza dei motivi di appello proposti dalla signora Palma e dal Comune di Volla.
11.3.5. Per altro verso, è da escludere però la contestuale violazione dell’art. 907 c.c., in quanto i signori De Fa. non hanno dato prova, neppure presuntiva, di avere acquistato il diritto di avere vedute dirette o oblique sul fondo vicino
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2021 n. 1841 - link a www-giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a differenti esigenze di tutela.
  
La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente compressione dell'altrui diritto alla riservatezza.
  
La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti.
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva.
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E' irrilevante, ai fini dell’applicazione dell'art. 9 DM 1444/1968, che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra.
Inoltre, rilevato che i balconi della proprietà De Fa. insistono su una parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà Pa., se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione, per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, anche di recente, la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune nel provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente (perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).

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Rispetto a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo:
   a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
   b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose.
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.

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11.1.2. Trasponendo tali concetti dal generale al particolare, nella fattispecie in esame, occorre accertare quale sia la situazione edilizia in cui versano gli immobili di proprietà dei signori De Fa. fronteggianti l’immobile della signora Pa. al momento del rilascio a quest’ultimo dal titolo edilizio in contestazione.
L’immobile si divide in tre unità abitative: l’appartamento posto al secondo piano (terzo piano fuori terra), di proprietà Sa. De Fa.; l’appartamento posto al primo piano (secondo fuori terra), di proprietà Ci. De Fa.; l’appartamento posto al piano terra (primo piano fuori terra), di proprietà Ca. De Fa..
Gli immobili posti al piano terra ed al primo piano di proprietà, rispettivamente, dei signori Ca. De Fa. e Ci. De Fa. sono stati assentiti con concessioni edilizie in sanatoria rilasciate in data 06.05.2004, ormai inoppugnabili.
L’immobile posto al secondo piano, di proprietà del signor Sa. De Fa., invece, è stato assentito da permesso di costruire in sanatoria rilasciato in data 18.07.2019, sicché, al momento del rilascio dei titoli contestati ed al momento della proposizione del ricorso in primo grado, lo stesso risultava abusivo.
Di contro, gli abusi afferenti la realizzazione sui balconi dei tre piani di piccole verande, in quanto non “coprenti” l’intera metratura dei balconi stessi, non assumono rilievo ai fini in discorso.
Infatti, nonostante tali abusi insistano sui balconi da cui occorrerebbe calcolare le distanze, i piccoli manufatti abusivi, per come si evince dalla documentazione fotografica versata in atti ed a prescindere dal fatto che siano stati o meno abusivamente riproposti dopo la loro demolizione, coprono in piccola parte la superficie dei balconi, i quali, quindi, non hanno perso le loro caratteristiche essenziali e la loro destinazione d’uso.
Ne consegue che sussiste la legittimazione a contestare l’intervento edilizio assentito alla signora Pa., atteso che, al momento del rilascio dei titoli edilizi e della proposizione del ricorso in primo grado, risultavano comunque assentiti i primi due piani della proprietà De Fa., sicché potrebbe eventualmente escludersi la legittimazione all’impugnazione da parte del solo signor Sa. De Fa., proprietario dell’unità immobiliare a quel momento ancora abusiva, ma tale circostanza non è idonea ad escludere la complessiva legittimazione alla proposizione del ricorso.
11.2. I signori De Fa., con l’appello proposto in via incidentale, hanno sostenuto che la signora Pa. non avrebbe potuto beneficiare del permesso a costruire richiesto, in considerazione della causa di esclusione contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. a), della più volte menzionata L.R. Campania n. 19 del 2009.
11.2.1. Il motivo di doglianza non è persuasivo.
...
11.3. La signora Pa., così come il Comune di Volla nel suo appello incidentale, hanno contestato la statuizione della sentenza impugnata, con cui è stato ritenuto fondato il motivo di impugnativa relativo alla violazione delle norme sulle distanze.
11.3.1. Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto:
Orbene, nella fattispecie che occupa il Tribunale evidenzia come dai grafici versati in atti e dalle stesse foto corredanti la relazione di chiarimenti depositata dall’Amministrazione resistente, emerge che il progetto assentito con gli impugnati titoli edilizi preveda la realizzazione di un vano scale di nuova costruzione posto in aderenza al muro di confine con la proprietà dei ricorrenti, nella parte non edificata, il quale risulta posto ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti dalla parete frontistante dell’edificio di proprietà di quest'ultimi, costituita da un prolungamento ad “L” del fabbricato in cui sono inclusi i balconi.
Per quanto sin qui osservato appare evidente che il provvedimento prot. n. 23138 del 31.07.2018, con cui il Comune di Volla, all'esito del procedimento di autotutela avviato con comunicazione prot. n. 10933 del 06.04.2018, ha convalidato il permesso a costruire n. 76 del 27.12.2016 e la successiva SCIA prot. n. 5014 del 13.12.2018 presentata dalla controinteressata, e gli stessi provvedimenti sottostanti tutti ritualmente impugnati dai ricorrenti, sono illegittimi quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta, in quanto tutti fondati sull’erroneo presupposto che il rispetto della distanza di 10 metri imposta dal D.M. 1444 del 1968 è applicabile unicamente alle pareti che si fronteggiano, che il balcone non è riconducibile al concetto di parete finestrata e che la misurazione delle distanze in tale caso deve avvenire in modo lineare e non radiale.
Le suesposte considerazioni risultano decisive -quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta- ai fini dell’accoglimento del ricorso per come integrato dai primi motivi aggiunti …
”.
11.3.2. L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.
11.3.3. Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a differenti esigenze di tutela.
11.3.3.1. La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente compressione dell'altrui diritto alla riservatezza (cfr. sentenza della Corte costituzionale n. 394 del 1999).
11.3.3.2. La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti (cfr. Corte Cass. II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834).
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva (Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1670).
11.3.4. La questione maggiormente problematica che si pone nella fattispecie in esame, quindi, è quella di verificare se debba trovare applicazione l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, come ritengono i signori De Fa., o se non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale norma, come sostenuto dal Comune di Volla e dalla signora Na.Pa..
Il Collegio ritiene che la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste, in quanto la fattispecie concreta rientra nella fattispecie astratta prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che, in ragione della ratio prima descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. Civ., II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834 cit.).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione, rilevato che i balconi della proprietà De Fa. insistono su una parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà Pa., se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (Cfr. Cass. Civ., 19.09.2016, n. 12828).
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr. Cass. Civ., II, 19.09.2016, n. 12828, che richiama Cass. 17242/2010; 12964/2006; 1556/2005).
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione, per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr. Cons. Stato, VI, 10.09.2018, n. 5307, che richiama Cons. Stato, V, 13.03.2014, n. 1272 e Cons. Stato, IV, 21.10.2013, n. 5108).
In proposito, anche di recente (cfr. Cass. Civ., ordinanza 19.02.2019, n. 4834), la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune di Volla nel provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente (perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
Infatti, dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che, ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –-secondo quanto dedotto dalla parte ed indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15 dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante, con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti. Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità, determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto) di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo (Cass. civ., sez. II, 01.10.2019 n. 24471):
   a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
   b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. Civ., sez. II, 25.06.1993, n. 7048).
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
Ciò è sufficiente ad escludere la fondatezza dei motivi di appello proposti dalla signora Pa. e dal Comune di Volla.
11.3.5. Per altro verso, è da escludere però la contestuale violazione dell’art. 907 c.c., in quanto i signori De Fa. non hanno dato prova, neppure presuntiva, di avere acquistato il diritto di avere vedute dirette o oblique sul fondo vicino (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2021 n. 1841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2021

EDILIZIA PRIVATADeve notarsi come l’intervento edilizio (in difformità dal titolo edilizio) determini un’indebita compromissione delle distanze legali determinando la violazione di una norma imperativa.
In simili situazione la giurisprudenza ritiene sufficiente “il richiamo all'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444 che prescrive la distanza di 10 metri per l'apertura di finestre antistanti l'edificio confinante, si fonda sull'interesse pubblico di impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienicosanitario: trattasi, come ha rilevato la giurisprudenza, di prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali […], da sola sufficiente a fondare la legittimità dell'annullamento del titolo edilizio senza spazio per la considerazione e la ponderazione di opposti interessi”.
In ordine al tema della ragionevolezza del tempo di intervento si osserva come il richiamo alla ragionevolezza imponga di verificare con peculiare attenzione se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale anche in considerazione del complesso delle circostanze e degli interessi rilevanti.
Inoltre, come autorevolmente insegna l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2017, la locuzione “termine ragionevole” richiama evidentemente un concetto non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel singolo caso.
Nel caso di specie, l’Amministrazione provvede ad inviare la comunicazione di avvio del procedimento dieci mesi dopo la prima S.C.I.A. e cinque mesi dopo la S.C.I.A. in variante nella quale si prevede, ex aliis, la costruzione della scala esterna che, come spiegato, viola le distanze legali. Inoltre, l’Amministrazione provvede tempestivamente alla sospensione dei lavori in attesa di effettuare i necessari approfondimenti istruttori e di espletare il contraddittorio con le parti interessate.
Il riscontro della ragionevolezza del termine per l’esercizio del potere, unito ad un attivo contraddittorio procedimentale, permette, inoltre, di escludere che il privato possa vantare un legittimo affidamento in merito alla conformità del suo operato agli strumenti urbanistici che sia di portata tale da prevalere sugli interessi pubblici sottesi all’annullamento di un intervento difforme da norme cogenti, come quelle dettate in materia di distanze.
Al contrario, risulta prevalente nel caso di specie: a) l’interesse pubblico alla rimozione di un’opera che risulta idonea a creare quelle intercapedini dannose che il legislatore del 1968 ha voluto assolutamente evitare; b) l’interesse dei proprietari dei due immobili limitrofi a sentire annullato un titolo che determina pregiudizi certi in ordine al rispetto delle distanze.

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12. Concluso l’esame dei motivi di ricorso concernenti la violazione delle norme relative alla conformità del progetto alle regole edilizie occorre, in primo luogo, esaminare gli ulteriori profili di censura contenuti nel quarto motivo di ricorso e relativi alle dedotte violazioni dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990.
12.1. Tali profili di censura, esaminanti in modo congiunto in quanto intimamente connessi, sono infondati.
12.2. La previsione in esame condiziona l’esercizio del potere di secondo grado alla ricorrenza di tre condizioni: i) sussistenza di ragioni di interesse pubblico; ii) ragionevolezza del tempo di intervento; iii) valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
12.3. Le ragioni di pubblico interesse ricorrono con ogni evidenza nel caso di specie. Infatti, se l’omessa corresponsione del contributo non è ex se idonea a legittimare l’intervento comunale (essendo relativa all’interesse patrimoniale dell’Ente e non afferendo, quindi, al diverso concetto di interesse pubblico), deve notarsi come l’intervento determini un’indebita compromissione delle distanze legali determinando la violazione di una norma imperativa.
In simili situazione la giurisprudenza ritiene, del resto, sufficiente “il richiamo, pure operato dal provvedimento, all'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444 che prescrive la distanza di 10 metri per l'apertura di finestre antistanti l'edificio confinante, si fonda sull'interesse pubblico di impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienicosanitario: trattasi, come ha rilevato la giurisprudenza, di prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali […], da sola sufficiente a fondare la legittimità dell'annullamento del titolo edilizio senza spazio per la considerazione e la ponderazione di opposti interessi” (Consiglio di Stato, sez. VI, 05.03.2014, n. 1054).
12.4. In ordine al tema della ragionevolezza del tempo di intervento si osserva come il richiamo alla ragionevolezza imponga di verificare con peculiare attenzione se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale anche in considerazione del complesso delle circostanze e degli interessi rilevanti.
Inoltre, come autorevolmente insegna l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2017, la locuzione “termine ragionevole” richiama evidentemente un concetto non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel singolo caso.
Nel caso di specie, l’Amministrazione provvede ad inviare la comunicazione di avvio del procedimento dieci mesi dopo la prima S.C.I.A. e cinque mesi dopo la S.C.I.A. in variante nella quale si prevede, ex aliis, la costruzione della scala esterna che, come spiegato, viola le distanze legali. Inoltre, l’Amministrazione provvede tempestivamente alla sospensione dei lavori in attesa di effettuare i necessari approfondimenti istruttori e di espletare il contraddittorio con le parti interessate.
12.5. Il riscontro della ragionevolezza del termine per l’esercizio del potere, unito ad un attivo contraddittorio procedimentale, permette, inoltre, di escludere che il privato possa vantare un legittimo affidamento in merito alla conformità del suo operato agli strumenti urbanistici che sia di portata tale da prevalere sugli interessi pubblici sottesi all’annullamento di un intervento difforme da norme cogenti, come quelle dettate in materia di distanze.
Al contrario, risulta prevalente nel caso di specie: a) l’interesse pubblico alla rimozione di un’opera che risulta idonea a creare quelle intercapedini dannose che il legislatore del 1968 ha voluto assolutamente evitare; b) l’interesse dei proprietari dei due immobili limitrofi a sentire annullato un titolo che determina pregiudizi certi in ordine al rispetto delle distanze (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.02.2021 n. 472 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra le costruzioni. Deroga volontaria tramite costituzione di una servitù. Inidoneità di una mera dichiarazione unilaterale.
Al fine di mantenere una costruzione a distanza minore di quella prescritta dalla legge, non è sufficiente un'"autorizzazione" scritta unilaterale del proprietario del fondo vicino, che acconsenta alla corrispondente servitù, essendo, al contrario, necessario un contratto che, pur senza ricorrere a formule sacramentali, dia luogo alla costituzione di una servitù prediale, ex art. 1058 cod. civ., esplicitando, in una dichiarazione scritta, i termini precisi del rapporto reale tra vicini, nel senso che l'accordo, risolvendosi in una menomazione di carattere reale per l'immobile che alla distanza legale avrebbe diritto, a vantaggio del fondo contiguo che ne trae il corrispondente beneficio, faccia venir meno il limite legale per il proprietario del fondo dominante, che così acquista la facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente (massima tratta www.e-glossa.it).
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3.5. Il provvedimento impugnato ha peraltro deciso la questione di diritto attinente alla violazione delle distanze legali in modo conforme alla giurisprudenza della Corte di cassazione e l'esame dei motivi di ricorso non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa, con conseguente inammissibilità ex art. 360-bis, n. 1, c.p.c. Una sopraelevazione, quale quella accertata dai giudici di merito (sopralzo di 55-65 cm del colmo del tetto al confine fra le proprietà: pagine 18 e 19 della sentenza impugnata) deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante.
Una sopraelevazione, comportando sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro, non può qualificarsi come risanamento conservativo o ricostruzione dei volumi edificabili preesistenti, i quali hanno solo lo scopo di conservarne i precedenti valori (tra le più recenti, Cass. Sez. 2, 05/03/2018, n. 5049).
E' del tutto carente di specificità, ai sensi dell'art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., il riferimento che i ricorrenti principali fanno al dato della unicità del corpo di fabbrica, per desumere che le norma di diritto asseritamente violate, ed in particolare l'art. 21 delle norme tecniche di attuazione del programma di fabbricazione del Comune di Capo di Ponte, comunque consentirebbero le costruzioni in aderenza o in accomunamento, mancando precise argomentazioni intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con l'invocata prescrizione del programma di fabbricazione che disciplina le distanze nelle costruzioni.
3.6. E' inammissibile altresì la censura relativa al "consenso scritto" derogatorio, tale da escludere "ogni illegittimità delle opere eseguite".
I ricorrenti principali intendono denunciare errori o vizi nell'interpretazione del contenuto dell'accordo invocato, ma di tale atto non viene specificato in ricorso il contenuto, come impone l'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. Peraltro, per mantenere una costruzione a distanza minore di quella prescritta dalla legge, non è sufficiente una "autorizzazione" unilaterale del proprietario del fondo vicino che acconsenta alla corrispondente servitù, ma è necessario un contratto -essendo inidoneo, per i diritti reali, un atto ricognitivo- che dia luogo, appunto, alla costituzione di una servitù prediale, ex art. 1058 c.c., risolvendosi in una menomazione di carattere reale per l'immobile che alla distanza legale avrebbe diritto, a vantaggio del fondo contiguo che ne trae il corrispondente beneficio (arg. da Cass. Sez. 2, 29/04/1998, n. 4353).
Ed allora, per l'esistenza di una valida volontà costitutiva di servitù in deroga alle distanze delle costruzioni o vedute, pur non occorrendo alcuna formula sacramentale, è comunque indispensabile che detta volontà sia deducibile da una dichiarazione scritta da cui risultino i termini precisi del rapporto reale tra vicini, nel senso che l'accordo faccia venir meno il limite legale per il proprietario del fondo dominante, che così acquista la facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente (cfr. Cass. Sez. 3, 29/01/1982, n. 577; Cass. Sez. 2, 14/06/1976, n. 2207; Cass. Sez. 2, 19/06/1984, n. 3630).
Per altro verso, i ricorrenti principali non considerano che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, mentre le deroghe pattizie sono consentite relativamente alle norme sulle distanze di cui all'art. 873 c.c., dettate a tutela dei reciproci diritti soggettivi dei singoli, non altrettanto può dirsi in relazione alle disposizioni regolamentari in materia di distanze, poiché in tal caso la concessa azione di riduzione in pristino è volta a mantenere in vita un potere privato, concorrente con quello amministrativo, idoneo ad assicurare, attraverso la rimozione dell'opera illegittima, lo stesso risultato pratico perseguibile con i propri mezzi dalla P.A. e la completa attuazione dell'interesse generale alla realizzazione del modello urbanistico prefigurato: ciò a maggior ragione quando la norma regolamentare imponga di calcolare la distanza dal confine tra i fondi.
Ne consegue che, ove pure il "consenso all'esecuzione del sopralzo" fosse inteso come esplicitante la volontà delle parti di derogare alle norme in tema di distanze dal confine contenute nel programma di fabbricazione del Comune di Capo di Ponte, si tratterebbe comunque di convenzione senz'altro invalida, trattandosi di norme inderogabili perché non si limitano a disciplinare i rapporti intersoggettivi di vicinato, ma mirano a tutelare anche interessi generali (cfr. Cass. Sez. 2, 04/05/2018, n. 10734; Cass. Sez. 2, 28/09/2004, n. 19449; Cass. Sez. 2, 04/02/2004, n. 2117; Cass. Sez. 2, 23/11/1999, n. 12984; Cass. Sez. 2, 29/04/1998, n. 4353; Cass. Sez. 2, 16/11/1985, n. 5626) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 12.02.2021 n. 3684).

EDILIZIA PRIVATALe disposizioni che disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria (come quelle sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, etc.) sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo e, dunque, possono essere oggetto di censura in occasione della relativa impugnazione.
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Come noto, l’art. 8 DM 1444/1968 prevede che: “Le altezze massime degli edifici per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A):
   - per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture;
   - per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico;
2) Zone B):
   - l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all'art. 7 (…)”.
L’interpretazione che la giurisprudenza ha costantemente offerto sulla nozione di “edifici preesistenti e circostanti” è quella che fa riferimento a una serie ristretta di edifici, identificabili in quelli circostanti, vale a dire immediatamente limitrofi.
In particolare, è stato affermato al riguardo che “la ratio della norma richiamata, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e circostanti”, sia quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato (la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”) caratteristiche di omogeneità. Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare l'altezza di quelli “preesistenti circostanti”, il Collegio ritiene che tale parametro (gli edifici “circostanti”) non può che riferirsi agli edifici limitrofi a quello costruendo, coerentemente con la ratio della norma, preordinata ad evitare che fabbricati contigui o strettamente vicini presentino altezze marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione”.
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2. Con l’atto introduttivo del giudizio si lamenta, in primo luogo, che il progetto autorizzato dal Comune consentirebbe l’elevazione dell’edificato in altezza oltre i limiti consentiti dalle disposizioni vigenti, e in particolare dall’art. 9, comma 8-bis, L.R. 14/2009, letto in combinato disposto con l’art. 8 del D.M. 1444 del 1968: si tratta del primo, del secondo e del quarto motivo di ricorso che è possibile esaminare congiuntamente.
Si anticipa che il terzo motivo di ricorso non è assistito da alcun interesse alla relativa disamina, giacché il Comune non ha allegato di aver fatto applicazione delle norme attuative del cd. secondo piano casa ai cui si riferisce il motivo di gravame.
Difatti, tanto il Comune di Jesolo quanto la controinteressata, nelle proprie difese, assumono di aver determinato l’altezza massima in progetto sulla scorta delle previsioni della delibera del Consiglio comunale di Jesolo n. 140 del 30.10.2015, che consentivano che l’edificazione raggiungesse l’altezza prevista anche a prescindere dall’esercizio della facoltà di deroga alle disposizioni vigenti in materia di altezze prevista dalla legge sul cd. piano casa.
Difatti, in base alla citata delibera, per le Z.T.O. del territorio comunale di tipo ‘B’ (ove ricade l’immobile in oggetto) l’inciso ‘edifici circostanti’ di cui al D.M. 1444/1968 deve essere interpretato nel senso di edifici ricadenti in un ‘raggio di intorno’ pari a mt. 200: si assume, in particolare, che nel raggio di 200 mt. dall’immobile autorizzato con il titolo impugnato esisterebbero edifici di altezza tale da legittimare le previsioni progettuali.
Nella relazione tecnica allegata all’istanza di rilascio di permesso di costruire si legge in proposito:
Il P.R.G. (art. 11 delle N.T.A., Zone B3) prevede che l’altezza massima degli edifici non potrà superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti (nel raggio di 200 ml.). Si considera come edificio “preesistente e circostante”, avente altezza certa, il fabbricato denominato Hotel Ancora, distante 137 ml. ad ovest del lotto in oggetto. Tale fabbricato, allo stato precedente la sopraelevazione autorizzata con permesso di costruire T-2018-5583 del 30.01.18, ha altezza urbanistica di ml. 22.60 e altezza massima ml. 25.00.
Edificio in progetto: il fabbricato in progetto avrà altezza urbanistica di ml. 18.45, inferiore all’altezza massima consentita dal P.R.G.
L’art. 9, comma 8-bis, della L.R. 32/2013 consente inoltre la ricostruzione del fabbricato in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal D.M. 1444/1968, sino a un massimo del 40% dell’edificio esistente. Tale norma non viene comunque applicata, poiché l’altezza del fabbricato in progetto è già nei limiti imposti dal P.R.G.
” (cfr. doc. 3 della produzione Tr. srl).
La citata delibera comunale è stata oggetto di impugnazione tramite ricorso per motivi aggiunti: dunque, per chiarezza espositiva e per consequenzialità sul piano logico nella trattazione delle varie questioni da esaminare, giova prendere le mosse dalla disamina del ricorso per motivi aggiunti, al fine di stabilire se l’altezza di progetto fosse assentibile sulla scorta della delibera citata (riservando al prosieguo la disamina dei motivi di censura proposti con il ricorso introduttivo).
La società controinteressata ha eccepito: l’irricevibilità dell’impugnazione della delibera nr. 140/2015 per tardiva proposizione del gravame, giacché il termine di impugnazione dovrebbe farsi decorrere dalla pubblicazione dell’atto nell’Albo Pretorio; l’irricevibilità perché la censura avrebbe dovuto proporsi con l’introduzione del giudizio, in quanto dagli atti progettuali era evincibile il criterio seguito per la determinazione dell’altezza massima di zona; l’inammissibilità dell’impugnazione, trattandosi di un atto di indirizzo completamente privo di efficacia prescrittiva e portata lesiva: analoga eccezione di irricevibilità/inammissibilità è stata sollevata dal Comune.
Dunque, in primo luogo, si assume che il termine per impugnare la delibera nr. 140/2015 dovrebbe farsi decorrere dalla relativa pubblicazione nell’albo comunale: in particolare la controinteressata ha dedotto che l’atto, riferendosi solo a determinate aree del territorio comunale, era dotato di immediata portata lesiva e pertanto doveva essere immediatamente contestato in giudizio.
Giova richiamarsi sul punto al consolidato orientamento giurisprudenziale a mente del quale le disposizioni che disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria (come quelle sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, etc.) sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo e, dunque, possono essere oggetto di censura in occasione della relativa impugnazione (cfr. TAR Veneto, Sez. II, n. 1368 del 2014).
Non convince l’argomentazione sviluppata dalla parte controinteressata a mente della quale la delibera gravata, in quanto dettata con riguardo solo a un’area determinata del territorio comunale avrebbe avuto immediata portata lesiva, e avrebbe dovuto conseguentemente essere oggetto di immediata impugnativa: osserva in proposito il Collegio che la regolamentazione sulle altezze in commento risulta adottata con esclusivo riferimento alla zona B) del territorio comunale, e più in particolare alle zone B1.2 – B2.1 – B.2.2 – e B.3 mentre l’immobile della ricorrente ricade in zona C) (cfr. all. 2 della produzione allegata ai motivi aggiunti). In tal senso, non è possibile individuare una immediata, concreta, portata pregiudizievole della delibera determinativa dei parametri relativi alle altezze assentibili, rispetto agli interessi di cui la ricorrente è titolare.
Quanto poi all’eccezione di irricevibilità della censura per essere stata tale delibera, comunque, citata negli elaborati tecnici consegnati dal Comune in seguito all’istanza di accesso presentata dalla società Ma., parte ricorrente ha dedotto, senza che vi sia stata specifica smentita sul punto, di non aver esaminato alcun atto in tal senso utile prima della costituzione in giudizio delle controparti processuali, in quanto non rientrante tra quelli resi ostensibili dall’ente resistente: tali deduzioni non sono contraddette dalla documentazione versata in atti.
Infine, è stata eccepita l’inammissibilità del gravame per mancanza di portata precettiva della delibera in commento, in quanto semplice atto di indirizzo: anche tale argomentazione non convince (se ne registra, peraltro, una certa contraddittorietà rispetto a quanto dedotto in ordine alla immediata portata lesiva della delibera per sostenere la tardività del gravame).
Con la delibera impugnata, infatti, il Comune resistente, lungi dall’offrire un semplice indirizzo interpretativo, ha stabilito puntualmente il perimetro dell’area rilevante ai fini della determinazione dell’altezza massima di zona, ex art. 8 DM 1444/1968, prevedendo di “stabilire un raggio di intorno urbano pari a m. 200 ai fini dell’individuazione della fattispecie di “edifici preesistenti e circostanti” cui fare riferimento al fine della determinazione dell’altezza massima ammissibile per i fabbricati in progetto, ai sensi degli articoli 8, 9, 10 e 11 delle norme tecniche di attuazione del p.r.g.” (cfr. doc. 2 alla produzione allegata ai motivi aggiunti).
Deve, dunque, procedersi al vaglio dei motivi di gravame articolati avverso tale delibera.
Ritiene il Collegio che sia fondata la censura con cui parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 8 DM 1444/1968.
Come noto, tale disposizione prevede che: “Le altezze massime degli edifici per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A):
   - per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture;
   - per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico;
2) Zone B):
   - l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all'art. 7 (…)
”.
L’interpretazione che la giurisprudenza ha costantemente offerto sulla nozione di “edifici preesistenti e circostanti” è quella che fa riferimento a una serie ristretta di edifici, identificabili in quelli circostanti, vale a dire immediatamente limitrofi (cfr. Tar Lombardia, Sez. II, 14.07.2020, nr. 1576; Tar Calabria, Reggio Calabria, 08.05.2019 nr. 387; Tar Veneto, Sez. II, 08.10.2020, n. 1255).
In particolare, è stato affermato al riguardo che “la ratio della norma richiamata, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e circostanti”, sia quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato (la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”) caratteristiche di omogeneità. Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare l'altezza di quelli “preesistenti circostanti”, il Collegio ritiene che tale parametro (gli edifici “circostanti”) non può che riferirsi agli edifici limitrofi a quello costruendo, coerentemente con la ratio della norma, preordinata ad evitare che fabbricati contigui o strettamente vicini presentino altezze marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (cfr. da ultimo per un analogo iter argomentativo Cons. Stato n. 4553/2014, n. 3184/2013)” (TAR Napoli, sez. VII, sentenza n. 4102 del 26.08.2016).
Operate tali premesse, il Collegio ritiene che l’atto gravato, ove ha stabilito che la nozione di “edifici preesistenti e circostanti” debba essere intesa come “edifici ricadenti in un raggio di mt. 200”, si ponga in contrasto con la ratio della disposizione dettata dall’art. 8 in commento, nell’interpretazione costante che ne è stata offerta, proponendo una lettura della norma che rischia di contraddirne il fine: si prende, infatti, in considerazione non solo una gamma ristretta di edifici, e cioè quelli effettivamente limitrofi, ma anche costruzioni che insistono fino a 200 mt. di distanza, in via generale e a prescindere dalle concrete caratteristiche del contesto, in tal modo tradendo la voluntas legis che è quella di garantire l’omogeneità tra le altezze degli edifici contigui.
Ciò posto, deve ancora osservarsi che il Comune resistente e la società controinteressata hanno dedotto che le altezze autorizzate sarebbero, comunque, legittime in virtù della possibilità di fruire della deroga di cui all’art. 9, comma 8-bis, L.R.V. 14/2009, e dunque a prescindere dall’applicazione della delibera comunale in commento.
Anche questa argomentazione non coglie nel segno, fondandosi su una interpretazione non condivisibile delle norme richiamate, come contestato dalla ricorrente con il primo motivo del ricorso introduttivo: si pretende, cioè, di applicare l’aumento del 40% dell’altezza dell’edificio oggetto di ampliamento alle altezze massime di zona ricavate in base all’art. 8 DM 1444/1968.
Ciò costituisce una applicazione errata dell’articolo 9, comma 8-bis, L.R. 14/2009, che recita: “
Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l’obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell’articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell’altezza dell’edificio esistente”.
Come questo TAR ha già avuto modo di osservare, la norma è chiara nell’affermare che l’altezza massima consentita in ampliamento -“anche (n.d.r. cioè, eventualmente) in deroga” alle disposizioni in materia previste dal D.M. 1444/1968- è pari al 40% dell’altezza dell’edificio esistente, ossia di quello oggetto di ampliamento.
E’, altresì, chiara nell’affermare che un ampliamento in tale misura può essere consentito “anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968”.
La norma è formulata secondo la medesima tecnica normativa utilizzata da altre disposizioni premiali della medesima Legge, in cui è stabilita la misura massima dell’aumento dei parametri edilizi degli edifici esistenti, all’evidente scopo di contemperare le finalità incentivanti con quelle di contenimento dell’edificato entro limiti predeterminati.
Si tratta di una tecnica che è propria anche della legislazione condonistica, o di altre normative con finalità incentivanti, in cui sono fissate le misure degli incrementi massimi, consentendo deroghe ai limiti ordinariamente previsti per il conseguimento di finalità di altra natura.
In tutte queste ipotesi il legislatore individua un limite massimo di aumento dei dati stereometrici, eventualmente consentendo di derogare alle norme urbanistico-edilizie ordinariamente applicabili.
Non vi sono ragioni, pertanto, per forzare il dato letterale della disposizione fino al punto di interpretarla come se il legislatore avesse inteso fissare non la misura massima dell’ampliamento in altezza dell’edificio esistente, ma la misura massima della deroga ammissibile alle disposizioni del D.M. 1444/1968.
In conclusione, l’altezza massima degli edifici in progetto avrebbe dovuto essere calcolata aumentando nella misura massima del 40% l’altezza dell’edificio esistente (cfr. Tar Veneto, II Sez, 08.10.2020 nr. 1254 2020; Tar Veneto, Sez. II, 24.11.2017, n. 944).
Devono, dunque, ritenersi fondate le censure sviluppate nel ricorso introduttivo del giudizio e nel primo ricorso per motivi aggiunti, relativamente all’illegittimità del permesso di costruire quanto alle altezze autorizzate e della delibera comunale nella parte di interesse (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.02.2021 n. 187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza di 10 metri nelle nuove costruzioni.
La distanza, nelle nuove costruzioni, di dieci metri dalle pareti finestrate di edifici frontistanti, prevista dall’art. 9 d.m. n. 1444/1968, va osservata quantunque l’edificio prospiciente sia abusivo (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 04.02.2021 n. 2637 -  massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, degli artt. 872 e 873 c.c. e dei principi in tema di distanze tra pareti finestrate, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello ha ritenuto legittimo l'edificio dell'appellante principale sul rilievo che, ai fini del calcolo delle distanze, non bisogna tener conto dei manufatti abusivi.
1.2. Così facendo, infatti, ha osservato il ricorrente, la corte d'appello ha violato sia il principio per cui la distanza di dieci metri tra pareti frontestanti deve essere rispettata anche nel caso in cui nella prima costruzione vi siano abusi edilizi, sia il principio per cui, ai fini dell'applicazione delle distanze tra pareti finestrate, è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta senza che sia necessario che insistano nelle parti in cui le pareti effettivamente si fronteggiano.
1.3. L'applicazione dei predetti principi comporta, ha concluso il ricorrente, che la concessione edilizia che ha autorizzato l'appellante a costruire l'edificio sul confine tra i fondi e a distanza di cinque metri dalla parete finestrata del Lo., è illegittima e deve essere, quindi, disapplicata, come aveva correttamente ritenuto il tribunale.
...
9.1. Il primo motivo, nei limiti che seguono, è fondato, con assorbimento di tutti gli altri.
9.2. Questa Corte, infatti, ha avuto più volte modo di affermare che la natura abusiva della costruzione (preventivamente realizzata) rileva unicamente nei rapporti con l'amministrazione pubblica e non anche ai fini del rispetto delle distanze legali (cfr., sul punto, Cass. n. 21354 del 2017, in motiv.).
In effetti, le norme di cui all'art. 872, comma 2°, c.c. in tema di distanze tra costruzioni nonché quelle che in tale materia sono integrative del codice civile sono le uniche che consentano, in caso di loro violazione nell'ambito dei rapporti interprivatistici, la richiesta, oltre che del risarcimento del danno, anche della riduzione in pristino, a nulla rilevando, per converso, il preteso carattere abusivo della costruzione finitima, il suo insediamento in zona non consentita, la disomogeneità della sua destinazione rispetto a quella (legittimamente) conferita al fabbricato del privato istante in conformità con le disposizioni amministrative in materia e la sua insuscettibilità di sanatoria amministrativa, trattandosi di circostanze che, pur legittimando provvedimenti demolitori o ablativi da parte della pubblica amministrazione e pur essendo astrattamente idonee a fondare una pretesa risarcitoria in capo al presunto danneggiato, non integrano, in alcun modo, gli (indispensabili) estremi della violazione delle norme di cui agli artt. 873 e SS. c.c. (Cass. SU n. 5143 del 1998).
Nello stesso modo, le disposizioni dettate dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici (C.d.S. n. 2086 del 2017, in motiv.).
In effetti, in tema di distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, deve essere inteso nel senso che il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell'opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l'aspetto formale dell'attività costruttiva, con la conseguenza che, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l'aver eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni (Cass. n. 7563 del 2006, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva accertato la violazione delle distanze da parte del fabbricato del ricorrente: questi aveva censurato la decisione sostenendo che i resistenti avevano costruito in assenza di concessione ma la S.C. ha affermato, conclusivamente, che una volta che il fabbricato sia stato costruito, anche in assenza di concessione, il secondo frontista, in osservanza del principio della prevenzione, è tenuto a rispettare la distanza legale tra gli edifici, a meno che non abbia acquistato in base ad un titolo valido il corrispondente diritto di servitù; conf., per l'affermazione dello stesso principio, Cass. n. 10173 del 1998; Cass. n. 10875 del 1997; Cass. n. 4372 del 2002; in seguito, Cass. n. 17286 del 2011; Cass. n. 4833 del 2019).
9.3. La sentenza impugnata, lì dove ha ritenuto che "gli edifici abusivi non possono essere tenuti in considerazione nel calcolo delle distanze", potendosi imporre alla erigenda costruzione il rispetto dei dieci metri solo se i corpi in questione sono stati legittimamente realizzati, e che, di conseguenza, nel caso esaminato, a fronte delrabusività delle aperture praticate dal Lo. nella parete antistante il fabbricato della Pe. ", quest'ultima non era tenuta all'osservanza della distanza legale di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dall'art. 9 del Decreto Ministeriale 1448/1968", non si è, evidentemente, attenuta ai principi esposti.

novembre 2020

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra costruzioni. Quando il regolamento edilizio prevede distanze superiori rispetto a quelle di cui al codice civile: conseguenze.
L'esenzione dal rispetto delle distanze tra costruzioni, prevista dall'art. 878 cod. civ., si applica sia ai muri di cinta, qualificati dalla destinazione alla recinzione di una determinata proprietà, dall'altezza non superiore a tre metri, dall'emersione dal suolo nonché dall'isolamento di entrambe le facce da altre costruzioni, sia ai manufatti che, pur carenti di alcuni dei requisiti indicati, siano comunque idonei a delimitare un fondo ed abbiano ugualmente la funzione e l'utilità di demarcare la linea di confine e di recingere il fondo.
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I regolamenti edilizi in materia di distanze tra costruzioni contengono norme di immediata applicazione, salvo il limite, nel caso di norme più restrittive, dei cosiddetti "diritti quesiti" (per cui la disciplina più restrittiva non si applica alle costruzioni che, alla data dell'entrata in vigore della normativa, possano considerarsi "già sorte"), e, nel caso di norme più favorevoli, dell'eventuale giudicato formatosi sulla legittimità o meno della costruzione.
Ne consegue la inammissibilità dell'ordine di demolizione di costruzioni che, illegittime secondo le norme vigenti al momento della loro realizzazione, tali non siano più alla stregua delle norme vigenti al momento della decisione, salvo, ove ne ricorrano le condizioni, il diritto al risarcimento dei danni prodottisi "medio tempore", ossia di quelli conseguenti alla illegittimità della costruzione nel periodo compreso tra la sua costruzione e l'avvento della nuova disciplina.
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Le Sezioni Unite, chiamate a comporre il contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità sulla questione dell'applicabilità del principio di prevenzione nell'ipotesi in cui le disposizioni di un regolamento edilizio locale prevedano esclusivamente una distanza tra fabbricati maggiore rispetto a quella prevista dal codice, senza imporre altresì il rispetto di una distanza minima delle costruzioni dal confine, hanno chiarito che il principio di prevenzione si applica anche quando le disposizioni di un regolamento locale prevedano una distanza minima tra le costruzioni in misura maggiore a quella codicistica, senza prescrivere altresì una distanza minima dal confine o vietare espressamente la costruzione in appoggio o aderenza.

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Vanno annunciati i seguenti princìpi di diritto:
   - «
In tema di distanze legali nelle costruzioni, qualora sopravvenga una disciplina meno restrittiva la costruzione, realizzata in violazione della normativa in vigore al momento della sua ultimazione, non può ritenersi illegittima qualora risulti conforme alla nuova disciplina, non potendosi ordinare la demolizione o l'arretramento dell'edificio originariamente illecito che abbia le caratteristiche e i requisiti che ne consentirebbero la costruzione alla stregua della disciplina sopravvenuta»;
   - «
Un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal codice civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide sul principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al preveniente la possibilità di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni, né al prevenuto la corrispondente facoltà di costruire in appoggio o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli articoli 874, 875 e 877 c.c.»
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8.1 I primi tre motivi del ricorso incidentale sono infondati.
Come si è detto, la prima questione riguarda la presunta erronea attribuzione della natura di muro di cinta, esentato dal rispetto delle distanze, ai sensi dell'art. 878 c.c., al manufatto posto a confine dei fondi, nonostante il medesimo manufatto avesse un'altezza superiore ai tre metri.
Sul punto, la sentenza della Corte d'Appello di Napoli è conforme al seguente consolidato indirizzo di questa Corte cui il collegio intende dare continuità: «L'esenzione dal rispetto delle distanze tra costruzioni, prevista dall'art. 878 cod. civ., si applica sia ai muri di cinta, qualificati dalla destinazione alla recinzione di una determinata proprietà, dall'altezza non superiore a tre metri, dall'emersione dal suolo nonché dall'isolamento di entrambe le facce da altre costruzioni, sia ai manufatti che, pur carenti di alcuni dei requisiti indicati, siano comunque idonei a delimitare un fondo ed abbiano ugualmente la funzione e l'utilità di demarcare la linea di confine e di recingere il fondo» (Sez. 2, Sent. n. 3037 del 2015, Sez. 2, Sent. n. 8671 del 2001).
8.2 Le censure che attengono alla presunta erronea interpretazione della scrittura privata intercorsa tra i danti causa delle parti per la costruzione del muro, da un lato, sono inammissibili per difetto di rilevanza, in quanto, come si legge nella sentenza impugnata, la qualifica di muro di cinta effettuata dalla Corte d'Appello si è fondata sulle sue caratteristiche costruttive ed estetiche come emergenti dalle fotografie agli atti (facce isolate e doppio spiovente) e sulla conseguente sua funzione oggettiva di demarcazione del confine (pag. 11 della sentenza impugnata).
La Corte d'Appello ha accolto il mezzo di gravame anche con riferimento al motivo relativo all'affermazione del giudice di primo grado secondo cui, nella convenzione stipulata tra i danti causa delle parti e con la quale si era pattuita la costruzione del muro, si era fatto riferimento inequivocabilmente ad un muro di costruzione. Sul punto la Corte d'Appello ha ritenuto che dovesse prevalere il criterio interpretativo che impone la ricerca della reale intenzione delle parti rispetto al criterio letterale.
L'accoglimento del suddetto motivo di appello ha solo aggiunto un ulteriore elemento confermativo alla decisione che comunque si è fondata sulle caratteristiche oggettive del muro, funzionali alla delimitazione del confine, di qui l'irrilevanza delle censure che attengono all'erronea interpretazione della convenzione negoziale.
Inoltre, il ricorrente non censura tale interpretazione per violazione degli artt. 1362 e ss., sicché le relative censure sono inammissibili anche sotto questo profilo.
Il ricorrente incidentale asserisce, anche, che il muro è destinato al contenimento di un terrapieno artificiale e che non è autonomo in quanto utilizzato per l'appoggio delle due costruzioni. Ma questi elementi non risultano oggetto della discussione nel giudizio di merito. La Corte d'Appello, al contrario, ha rilevato che il muro in questione presenti uno spessore di 63 cm ed un'altezza di mt. 3,40 dalla proprietà Giordano e mt. 3,82 dalla proprietà Gi., così escludendo altre costruzioni in aderenza. Il dislivello tra i due fondi non implica necessariamente la funzione di contenimento di un terrapieno e tale circostanza non risulta dedotta nel giudizio di merito.
9. Deve, dunque, passarsi all'esame del ricorso principale, in quanto i primi tre motivi sono fondati e l'accoglimento del primo di essi determina l'assorbimento del quarto motivo del ricorso incidentale.
Una volta confermata la natura di muro di cinta del manufatto posto a confine e ribadito che, ai sensi dell'art. 378 c.c. il muro di cinta (anche se alto più di tre metri) non si calcola ai fini delle distanze, risulta fondata la richiesta del ricorrente principale di farsi applicazione del nuovo regolamento locale che non prevede più una distanza minima dal confine.
Infatti, secondo l'indirizzo consolidato di questa Corte: "I regolamenti edilizi in materia di distanze tra costruzioni contengono norme di immediata applicazione, salvo il limite, nel caso di norme più restrittive, dei cosiddetti "diritti quesiti" (per cui la disciplina più restrittiva non si applica alle costruzioni che, alla data dell'entrata in vigore della normativa, possano considerarsi "già sorte"), e, nel caso di norme più favorevoli, dell'eventuale giudicato formatosi sulla legittimità o meno della costruzione. Ne consegue la inammissibilità dell'ordine di demolizione di costruzioni che, illegittime secondo le norme vigenti al momento della loro realizzazione, tali non siano più alla stregua delle norme vigenti al momento della decisione, salvo, ove ne ricorrano le condizioni, il diritto al risarcimento dei danni prodottisi "medio tempore", ossia di quelli conseguenti alla illegittimità della costruzione nel periodo compreso tra la sua costruzione e l'avvento della nuova disciplina" (Sez. 2, Sent. n. 14446 del 2010).
Occorre quindi cassare la sentenza impugnata, dovendo il giudice del rinvio verificare se la costruzione posta in essere da Giordano Sossio rispetti la disciplina sulle distanze attualmente vigente, tenuto conto del nuovo regolamento locale e dovendo, a tal fine, altresì verificare se risultino rispettate le distanze intercorrenti tra volumi edificati preesistenti.
Le Sezioni Unite, infatti, chiamate a comporre il contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità sulla questione dell'applicabilità del principio di prevenzione nell'ipotesi in cui le disposizioni di un regolamento edilizio locale prevedano esclusivamente una distanza tra fabbricati maggiore rispetto a quella prevista dal codice, senza imporre altresì il rispetto di una distanza minima delle costruzioni dal confine, hanno chiarito che il principio di prevenzione si applica anche quando le disposizioni di un regolamento locale prevedano una distanza minima tra le costruzioni in misura maggiore a quella codicistica, senza prescrivere altresì una distanza minima dal confine o vietare espressamente la costruzione in appoggio o aderenza (S.U., Sent. del 19.05.2016 n. 10318).
Si impone pertanto l'accoglimento del primo motivo del ricorso principale e il giudice del rinvio dovrà fare applicazione dei seguenti principi di diritto:
   - «In tema di distanze legali nelle costruzioni, qualora sopravvenga una disciplina meno restrittiva la costruzione, realizzata in violazione della normativa in vigore al momento della sua ultimazione, non può ritenersi illegittima qualora risulti conforme alla nuova disciplina, non potendosi ordinare la demolizione o l'arretramento dell'edificio originariamente illecito che abbia le caratteristiche e i requisiti che ne consentirebbero la costruzione alla stregua della disciplina sopravvenuta»;
   - «Un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal codice civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide sul principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al preveniente la possibilità di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni, né al prevenuto la corrispondente facoltà di costruire in appoggio o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli articoli 874, 875 e 877 c.c.» (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 24.11.2020 n. 26713).

ottobre 2020

EDILIZIA PRIVATA: Le norme di edilizia locale.
In tema di distanze tra edifici, laddove le norme di edilizia locale prescrivono per le costruzioni distanze maggiori di quelle previste dal codice civile, fissandole in relazione al confine, le stesse hanno carattere integrativo della disciplina contenuta nel codice civile.
Ne deriva che la violazione di tali distanze dà diritto ad ottenere non solo la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, ma anche quella risarcitoria
(TRIBUNALE di Asti, Sez. I, sentenza 20.10.2020 n. 558 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

luglio 2020

EDILIZIA PRIVATA:  La costruzione di un porticato non è soggetta al rispetto dei limiti di distanza tra pareti finestrate di cui all’art. 9, D.M. 1444/1968.
L’art. 9 d.m. 02.08.1968 n. 1444 stabilisce: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:…omissis…2) 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; …omissis…”.
La ratio della norma è stata ravvisata nell’esigenza di evitare la formazione intercapedini dannose per la salute.
Orbene alla luce del tenore letterale della disposizione risulta evidente che il porticato, essendo aperto e non presentando “pareti” esula dal campo di applicazione della norma.
Il porticato, infatti, non impedisce la circolazione dell’aria e della luce di talché non appare riconducibile, neppure analogicamente, alla previsione dell’art. 9 d.m. 1444/1968.
In questo senso si è espressa la giurisprudenza:
   - La norma dell'art. 9, comma 1, n. 2, del d.m. 02.04.1968 n. 1444, secondo la quale per gli edifici di nuova costruzione deve osservarsi la distanza minima di 10 m. dalle pareti finestrate degli edifici antistanti, non si applica per analogia quando di fronte all'edificio in costruzione si trova un portico aperto;
   - L'art. 22, comma 3, del regolamento edilizio del comune di Riposto, il quale ha recepito la disposizione dell'art. 9, comma 1, n. 2), del d.m. 02.04.1968 n. 1444 (emanato in base alla previsione dell'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765) stabilendo una distanza minima di 10 metri da osservarsi per gli edifici di nuova costruzione dalle pareti finestrate degli edifici antistanti, non è applicabile per analogia alla diversa situazione di un portico aperto fronteggiante l'edificio in costruzione.
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... per l'annullamento del provvedimento dirigenziale dello Sportello Unico per l’edilizia del Comune di Sanremo 18.01.2018 Prot. n AOO.c_i138.26/01/2018.0006949, avente ad oggetto diniego di sanatoria ex art. 49 L. Reg. n. 16/2008 per realizzazione di porticato in ... n. 10,
...
Il ricorso è rivolto avverso un provvedimento di diniego di accertamento di conformità relativo ad un porticato. Il provvedimento è motivato con il mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 9 d.m. 02.08.1968 n. 1444 in relazione alla presenza di una porta e di una porta finestra posta sul fabbricato antistante.
Il ricorso è fondato
L’art. 9 d.m. 02.08.1968 n. 1444 stabilisce: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:…omissis…2) 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; …omissis…”.
La ratio della norma è stata ravvisata nell’esigenza di evitare la formazione intercapedini dannose per la salute.
Orbene alla luce del tenore letterale della disposizione risulta evidente che il porticato, essendo aperto e non presentando “pareti” esula dal campo di applicazione della norma.
Il porticato, infatti, non impedisce la circolazione dell’aria e della luce di talché non appare riconducibile, neppure analogicamente, alla previsione dell’art. 9 d.m. 1444/1968.
In questo senso si è espressa la giurisprudenza.
La norma dell'art. 9, comma 1, n. 2, del d.m. 02.04.1968 n. 1444, secondo la quale per gli edifici di nuova costruzione deve osservarsi la distanza minima di 10 m. dalle pareti finestrate degli edifici antistanti, non si applica per analogia quando di fronte all'edificio in costruzione si trova un portico aperto (CGA 13.10.1999 n. 450).
L'art. 22, comma 3, del regolamento edilizio del comune di Riposto, il quale ha recepito la disposizione dell'art. 9, comma 1, n. 2), del d.m. 02.04.1968 n. 1444 (emanato in base alla previsione dell'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765) stabilendo una distanza minima di 10 metri da osservarsi per gli edifici di nuova costruzione dalle pareti finestrate degli edifici antistanti, non è applicabile per analogia alla diversa situazione di un portico aperto fronteggiante l'edificio in costruzione (Cass. sez. II civile 17.12.1993 n. 12506).
In conclusione il ricorso deve essere accolto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 24.07.2020 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2020

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICADistanze legali: competenze legislative e pianificatorie tra ordinamento civile, governo del territorio e sussidiarietà verticale nella pronuncia della Corte.
La Corte costituzionale ha respinto le questioni di costituzionalità sollevate in relazione ad una norma di interpretazione autentica della legge sul c.d. “piano casa” emanata dalla Regione Veneto nel 2009, in tema di derogabilità della disciplina delle distanze fissata in sede locale.
In presenza di una previsione che, sul piano strettamente letterale, escludeva dalle previste deroghe (volte a limitare il consumo di suolo e ad incentivare la rigenerazione del patrimonio edilizio) la sola “disciplina statale”, la giurisprudenza si era orientata nel senso di estendere tale preclusione alla normativa urbanistica locale, assetto che il legislatore regionale ha in via interpretativa superato con l’impugnata disposizione.
Proporzionalità, adeguatezza rispetto allo scopo voluto dal legislatore, corretta collocazione della disciplina nell’ambito delle competenze regionali in tema di governo del territorio, rispetto dei confini con l’”ordinamento civile” e del principio di sussidiarietà verticale, sono le linee direttrici della pronuncia che investe un assetto normativo complesso e articolato che, come è noto, costituisce la risultante di diverse fonti e che, ancora, ha subito recentemente ulteriori modifiche con il d.l. 16.07.2020, n. 76 (recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”).
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Edilizia e urbanistica – Distanze tra fabbricati – Norme della Regione Veneto – Deroghe ai limiti di distanza tra i fabbricati fissati in sede locale – Questioni infondate di costituzionalità
Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64 della legge della Regione Veneto 30.12.2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 114, secondo comma, 117, commi secondo, lettera l), e sesto, e 118 della Costituzione (1).
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   (1) I. – Con la sentenza in rassegna la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64 della legge della Regione Veneto 30.12.2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017), sollevate –in riferimento agli artt. 3, 5, 114, secondo comma, 117, commi secondo, lettera l), e sesto, e 118 della Costituzione– con ordinanza del Tar per il Veneto, sezione II, 12.12.2018, n. 1166 (oggetto della News US in data 18.01.2019).
Tale disposizione ha previsto che “Le norme di deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali, provinciali e regionali di cui all'articolo 2, comma 1, e di prevalenza sulle norme dei regolamenti degli enti locali e sulle norme tecniche dei piani e regolamenti urbanistici di cui all'articolo 6, comma 1 della legge regionale 08.07.2009, n. 14 […] devono intendersi nel senso che esse consentono di derogare ai parametri edilizi di superficie, volume, altezza e distanza, anche dai confini, previsti dai regolamenti e dalle norme tecniche di attuazione di strumenti urbanistici e territoriali, fermo restando quanto previsto all'articolo 9, comma 8 della medesima legge regionale 08.07.2009, n. 14 con esclusivo riferimento a disposizioni di emanazione statale.[…]”.
Le ragioni della declaratoria di infondatezza sono –in via di estrema sintesi– compendiate nelle seguenti argomentazioni:
      a) quanto alla invocata piena riconducibilità della materia delle distanze legali all’”ordinamento civile”, la disposizione impugnata si è limitata a chiarire i margini di derogabilità delle distanze disposte dagli enti locali senza tuttavia incidere sulle distanze di fonte statale, di guisa che essa va correttamente ricondotta alla potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio;
      b) gli interventi in deroga che la norma (così come) interpretata consente, da un lato soddisfano interessi pubblici di dimensione sovracomunale e, dall’altro, non comprimono l’autonomia comunale oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità;
      c) la disciplina regionale non è né irragionevole, né discriminatoria e, dunque, non dà luogo alla violazione dell’art. 3 Cost;
   II. – La fattispecie esaminata dal Tar Veneto e che ha condotto al giudizio incidentale di costituzionalità può essere così sintetizzata:
      d) l’interessato ha presentato in data 01.12.2016 una denuncia di inizio attività avente ad oggetto la ristrutturazione e l’ampliamento dell’edificio di sua proprietà, in deroga alla distanza di cinque metri dai confini prevista dallo strumento urbanistico, in tal modo usufruendo dei benefici previsti dalla legge regionale sul c.d. “piano casa” (l.r. 08.07.2009, n. 14), che attribuisce un bonus edificatorio del 20 per cento anche in deroga agli strumenti urbanistici comunali;
      e) il Comune di Altavilla Vicentina ha inibito i lavori, non ritenendo derogabile, in base alla legge regionale sul piano casa, la distanza di 5 metri dai confini prevista dall’art. 10, comma 3, lett. b), delle norme tecniche operative allegate al vigente Piano degli interventi, con provvedimento che non è stato impugnato dal privato;
      f) è poi intervenuta la l.r. 30.12.2016, n. 30, di interpretazione autentica (art. 64) delle norme sul piano casa, disponendo che le stesse devono essere interpretate nel senso di derogare anche alle distanze dai confini previste dai regolamenti e dalle norme tecniche di attuazione di strumenti urbanistici e territoriali, fermo restando il rispetto delle distanze previste da disposizioni statali;
      g) l’interessato, con riferimento alla sopravvenuta norma interpretativa, ha chiesto il riesame (ammesso dalla stessa legge) del diniego opposto dal Comune alla d.i.a. dallo stesso presentata, ma l’Amministrazione comunale ha respinto l’istanza facendo riferimento sia alla natura integrativa delle norme locali rispetto agli artt. 872 e 873 c.c., sia alla possibile illegittimità costituzionale della legge regionale di interpretazione autentica.
   III. – La vicenda oggetto della questione di legittimità costituzionale si innesta in un assetto normativo molto articolato che la Corte costituzionale ha ricostruito secondo i seguenti passaggi:
      h) le deroghe alle distanze minime di fonte locale, consentite dalla norma regionale oggetto di censura (art. 64 della l.r. Veneto n. 30 del 2016) attengono ad interventi di ampliamento e adeguamento di edifici già esistenti, situati in zona territoriale omogenea propria (artt. 2 e 3 della l.r. Veneto n. 14 del 2009);
      i) la norma di interpretazione autentica prevede che le deroghe ai parametri di superficie, volume, altezza e distanza (anche dai confini) vanno riferite anche alla disciplina urbanistica territoriale;
      j) per effetto di tale interpretazione, la clausola di inderogabilità dettata dall’art. 9, comma 8, della l.r. Veneto n. 14 del 2009, la quale fa “salve le disposizioni in materia di distanze previste dalla normativa statale vigente”, è stata limitata alla sua dizione letterale, ossia alla “normativa statale” in senso stretto (e solo a quella), con l’effetto di ammettere, in via interpretativa, le deroghe anche alle previsioni di fonte comunale, prima ritenute escluse in ragione del loro carattere integrativo rispetto alla disciplina del codice civile;
      k) l’impostazione originaria della disciplina del 2009, dichiaratamente (art. 1, comma 1) volta a realizzare finalità di pubblico interesse quali quelle di preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente, prevedeva una c.d. riserva di tutela attraverso la quale i Comuni potevano decidere, “sulla base di specifiche valutazioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico ed ambientale” se (o con quali ulteriori limiti e modalità) applicare le norme attuative del medesimo “piano casa”, con conseguente possibilità di rendere inderogabili i propri strumenti regolamentari in materia;
      l) in occasione delle proroghe delle norme attuative del “piano casa”, tale regime opzionale è stato dapprima ristretto ed infine abrogato, con conseguente perdita di effetti della c.d. “riserva di tutela”;
      m) sul versante della disciplina statale, il legislatore perseguendo i su richiamati obiettivi di riduzione del consumo di suolo e di rigenerazione del patrimonio edilizio esistente, ha:
         m1) differenziato il grado di obbligatorietà delle distanze minime in base alla densità edificatoria della zona omogenea;
         m2) stabilito, con l’art. 5, comma 1, lettera b-bis), del d.l. n. 32 del 2019, convertito, con modificazioni, nella l. n. 55 del 2019, che “[l]e disposizioni di cui all’articolo 9, commi secondo e terzo, del decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, si interpretano nel senso che i limiti di distanza tra i fabbricati ivi previsti si considerano riferiti esclusivamente alle zone di cui al primo comma, numero 3), dello stesso articolo 9”, e quindi alle sole zone omogenee destinate a nuova edificazione (“zone C”), non anche alle zone totalmente o parzialmente edificate (“zone B”).
   IV. – La declaratoria di infondatezza delle sollevate questioni in tema di distanze si sviluppa sulla base di quattro direttrici argomentative articolate come segue:
      n) sul piano del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni:
         n1) la giurisprudenza costituzionale è nel senso che la disciplina delle distanze, che ha la sua collocazione nel codice civile, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi, sicché non si può dubitare che essa, per quanto concerne i rapporti su indicati, rientri nella materia dell’”ordinamento civile”, di competenza legislativa esclusiva dello Stato;
         n2) nondimeno, poiché i fabbricati insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti tra privati e tocca anche interessi pubblici, la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni, perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio;
         n3) consegue la necessità di determinare il punto di equilibrio tra la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile (art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.) e quella concorrente della Regione in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma, Cost.);
         n4) pertanto:
I) alle Regioni non è precluso fissare distanze in deroga a quelle stabilite nelle normative statali;
II) la deroga deve essere giustificata dal perseguimento di interessi pubblici ancorati all’esigenza di omogenea conformazione dell’assetto urbanistico di una determinata zona, non potendo la deroga stessa riguardare singole costruzioni, individualmente ed isolatamente considerate;
         n5) tale delimitazione è stata codificata dal legislatore statale, il quale, con l’introduzione dell’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 ad opera dell’art. 30, comma 1, lettera 0a), del d.l. n. 69 del 2013 (convertito, con modificazioni, nella l. n. 98 del 2013), ha sancito i seguenti principi fondamentali:
I) vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968;
II) ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio;
         n6) la previsione di una competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile (art. 117, comma secondo, lettera l, Cost.) si giustifica in ragione dell’esigenza di assicurare che i rapporti tra privati siano disciplinati nell’intero territorio della Repubblica secondo criteri di identità;
         n7) una simile esigenza, se è ravvisabile con riguardo alla disciplina delle distanze quale stabilita nelle norme statali, certamente non può essere invocata con riferimento alle discipline locali, che, per quanto integrative del codice civile, sono destinate ad operare in ristretti ambiti territoriali (esse trovano il loro fondamento proprio nell’autonomia degli enti locali in un contesto normativo nel quale ancora non erano state introdotte, con la Costituzione repubblicana, le autonomie regionali);
         n8) una volta riconosciuta alle Regioni la competenza concorrente in materia di governo del territorio, non può predicarsi la sussistenza del limite dell’ordinamento civile tutte le volte in cui, “ferma la disciplina statale delle distanze”, a subire gli effetti delle leggi regionali siano i regolamenti comunali o le norme tecniche che prevedano distanze superiori, la cui finalità non è quella di stabilire criteri uniformi nei rapporti tra privati ma quella di adattare la disciplina a specifiche esigenze territoriali;
         n9) conclusivamente, sotto tali profili, la disposizione regionale censurata non lede la materia di riserva statale sul rilievo che essa:
I) nel fornire l’interpretazione autentica della previgente disciplina, si è limitata, in ragione della forte oscillazione giurisprudenziale, a chiarire i margini di derogabilità delle distanze disposte dagli enti locali senza tuttavia incidere sulle distanze di fonte statale;
II) si rivela ancor più conservativa di quella statale, poiché: − mantiene cogenti le distanze minime di fonte statale (quindi i tre metri tra costruzioni ex art. 873 cod. civ. e i dieci metri tra pareti finestrate ex art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968); − consente la deroga unicamente per le eventuali (e solo per quelle) “maggiori distanze” di fonte comunale (nel caso di specie, di cinque metri);
      o) sul rapporto tra disciplina delle distanze e funzioni comunali di pianificazione:
         o1) la funzione di pianificazione urbanistica è tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni, fin dalla legge 25.06.1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica);
        o2) lo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario e la necessità di una pianificazione territoriale sovracomunale non hanno travolto tale impianto fondamentale, pur tuttavia assoggettandolo a ineludibili esigenze di coordinamento tra differenti livelli ed istanze;
         o3) nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal legislatore statale (art. 14, comma 27, d.l. n. 78 del 2010) tramite la disposizione per cui “sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione”, tra le altre, l’“urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale”, salve le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni (id est: quelle “loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto” Cost. e quelle “esercitate” ai sensi dell’art. 118 Cost.);
         o4) il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti;
         o5) tale affermazione non può non valere anche in tema di distanze degli edifici, nei limiti in cui la disciplina regionale delle stesse possa ricondursi alla materia di legislazione concorrente del governo del territorio ex art. 117, terzo comma, Cost., in quanto una differente interpretazione equivarrebbe a cristallizzare l’art. 873 cod. civ. ad una fase pre-costituzionale;
      p) in relazione alla compatibilità della disciplina regionale impugnata con il principio di sussidiarietà verticale ex art. 118 Cost.:
         p1) premesso il carattere fondamentale della funzione pianificatoria comunale, la legge regionale va valutata sulla base dei seguenti elementi, anche ai fini della compatibilità con l’art. 5 Cost.:
I) ampiezza dell’autonomia comunale in concreto risultante all’esito dell’intervento legislativo;
II) sussistenza o meno di interessi sovracomunali ai quali sia correlata la sottrazione di autonomia comunale che sia stata eventualmente disposta;
III) previsione di compensazioni procedurali;
IV) ampiezza temporale della riduzione di autonomia;
V) rispetto del principio di proporzionalità (id est: scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi, in concreto, necessità, adeguatezza e corretto bilanciamento degli interessi coinvolti);
         p2) la legge regionale di cui trattasi (letta congiuntamente alla precedente disciplina oggetto di interpretazione autentica) sfugge alle sollevate censure in considerazione del suo contenuto caratterizzato da:
I) previsione di interventi quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti, con precisi limiti oggettivi, ammessi soltanto sugli edifici esistenti;
II) limitazione temporale coincidente con la durata del “piano casa”;
III) previsione di una “riserva di tutela” che consentiva ai Comuni nella prima applicazione del c.d. piano casa di sottrarre i propri strumenti urbanistici e regolamenti alle deroghe previste dalla legge regionale;
IV) previsione di interventi in deroga che soddisfano interessi pubblici di dimensione sovracomunale, assoggettati a specifici limiti;
      q) in relazione alla (ancillare) censurata violazione dell’art. 3 Cost:
         q1) la presenza di una valida base normativa esclude il carattere irragionevole e discriminatorio degli effetti della prevenzione, dovendosi, diversamente, rilevare come essi si rivelino “fisiologica conseguenza della priorità temporale della costruzione, criterio al quale si informa, con i necessari temperamenti, il sistema del codice civile sui distacchi tra i fabbricati”;
         q2) un richiamo all’istituto della prevenzione si rivelerebbe non pertinente in considerazione che i suoi effetti costituiscono fisiologica conseguenza della priorità temporale della costruzione, criterio al quale si informa, con i necessari temperamenti, il sistema del codice civile sui distacchi tra i fabbricati.
   V. – Per completezza si veda:
      r) sui limiti derivanti dalla legislazione statale in materia di governo del territorio nonché sulla individuazione dei principi fondamentali all’interno del testo unico sull’edilizia:
         r1) Corte cost., 15.07.2016, n. 178, cit.; 09.03.2016, n. 49 (in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 8, con nota di STRAZZA e Giur. it., 2016, 2233 (m), con nota di VIPIANA PERPETUA);
         r2) Cons. Stato, Ad. plen., 07.04.2008, n. 2 (in Urbanistica e appalti, 2008, 745, con nota di BASSANI, e Giust. amm., 2008, 2, 181 (m), con nota di ARDANESE);
      s) sulla declinazione dei principi fondamentali del d.P.R. n. 380 del 2001: Corte cost., 08.11.2017, n. 232 (in Giur. cost., 2017, 2340, con nota di F. SAITTA); 11.05.2017, n. 107 (in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 570); 29.05.2013, n. 101 (in Riv. giur. edilizia, 2013, I, 525, con nota di GRAZIOSI);
      t) sul rapporto tra competenza legislativa statale e regionale nella disciplina delle distanze tra edifici si rinvia all’ampia giurisprudenza della Corte costituzionale tra cui in particolare:
         t1) Corte cost., 21.02.2020, n. 30 (oggetto della News US in data 13.03.2020) la quale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla disposizione della Regione Veneto (art. 9, comma 8-bis, della legge regionale n. 14 del 2009, come introdotto dalla legge regionale n. 32 del 2013).
Con tale disposizione è stato previsto, in deroga ai parametri di cui al d.m. 1444 del 1968, che le altezze degli edifici soggetti a demolizione e ricostruzione possano essere incrementate sino al 40% dell’edificio esistente;
         t2) Corte cost., 07.02.2020, n. 13 (in Foro it., 2020, I,1489 e oggetto della News US in data 21.02.2020) con la quale sono state dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato in sede consultiva relative alla deroga delle distanze legali sancita dalla legge urbanistica n. 12 del 2005 della Regione Lombardia;
         t3) Corte cost., 24.02.2017, n. 41 (in Foro it., 2017, I, 2566);
         t4) Corte cost., 03.11.2016, n. 231 (in Foro it. ,2017, I, 2566), citata nella sentenza in rassegna;
         t5) Corte cost., 20.07.2016, n. 185 (in Foro it., 2017, I, 2567), citata nella sentenza in rassegna;
         t6) Corte cost., 15.07.2016, n. 178 (quest’ultima oggetto della News US in data 18.07.2016 e tutte in Foro it., 2017, I, 2566);
         t7) Corte cost., 21.05.2014, n. 134 (in Foro it., 2014, I, 2009);
         t8) Corte cost., 23.01.2013, n. 6 (in Foro it., 2013, I, 737, Corriere giur., 2013, 1057, con nota di BENEDETTI; Giur. cost., 2013, 149, con nota di CHIEPPA; Regioni, 2013, 629, con nota di DI COSIMO; Riv. giur. urbanistica, 2013, 406, con nota di FARRI);
         t9) Corte cost., 21.05.2014, n. 134 (in Foro it., 2014, I, 2009);
         t10) Corte cost., 23.01.2013, n. 6 (in Foro it., 2013, I, 737), citata nella sentenza in rassegna;
         t11) Corte cost., 16.06.2005, n. 232 (in Giust. civ., 2005, I, 2305);
      u) gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza costituzionale sopra richiamata possono essere così sintetizzati:
         u1) non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici;
         u2) l’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio e a una razionale pianificazione urbanistica circoscrive rigorosamente la competenza legislativa regionale e ne vincola anche le modalità di esercizio (da ultimo, Corte cost., 07.02.2020, n. 13, cit.);
         u3) la competenza concorrente in materia di governo del territorio consente di dequotare del tutto il limite dell’ordinamento civile con previsioni di deroga delle maggiori (rispetto a quelle “statali”) distanze fissate in sede locale, “tutte le volte in cui, ferma la disciplina statale delle distanze (minime n.d.r.), ad essere modificate per effetto di leggi regionali siano le disposizioni dei regolamenti comunali o delle norme tecniche”;
         u4) nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza —statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio”— è stato individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 (Corte cost., 23.01.2013, n. 6, cit.), ritenuto dotato di particolare efficacia precettiva e inderogabile, in quanto, tra l’altro, richiamato dall’art. 41-quinquies l. 1150 del 1942;
         u5) in considerazione di ciò:
I) è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle minime stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”;
II) le deroghe all’ordinamento civile delle distanze minime tra edifici sono state consentite “se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio”, poiché “la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati”;
      v) la possibilità di deroghe da parte del legislatore regionale di cui all'art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 è oggi contemplata dall'art. 2-bis, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, introdotto dall'art. 30, comma 1, d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013 n. 98: le deroghe possono essere previste dal legislatore regionale soltanto “nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”;
      w) tale disciplina:
         w1) è stata interpretata restrittivamente dalla Corte costituzionale, che è intervenuta ripetutamente dichiarando l'illegittimità di disposizioni
regionali che stabilivano distanze inferiori, senza dare rilievo alle condizioni stabilite dalla legge statale;
         w2) è stata modificata dall’art. 5, comma 1, lett. a), d.l. 18.04.2019, n. 32 ma, successivamente, tale modifica (al comma 1 dell’art. 2-bis del d. P.R. n. 380 del 2001) non è stata confermata dalla legge di conversione 14.06.2019, n. 55;
      x) il d.l. n. 32 del 2019, nel testo risultante dalla legge di conversione, ha aggiunto (con l’art. 5, comma 1, lett. b), all’art. 2-bis del d. P.R. n. 380 del 2001 i commi 1-bis e 1-ter secondo cui rispettivamente:
         x1) “Le disposizioni del comma 1 sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio” (comma 1-bis);
         x2) “In ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest'ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell'area di sedime e del volume dell'edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell'altezza massima di quest'ultimo” (comma 1-ter);
         x3) tale previsione è stata da ultimo sostituita dall’art. 10, comma 1, lett. a) d.l. 16.07.2020, n. 76 (“Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”) il quale:
I) ha ammesso la “demolizione” e “ricostruzione” di edifici nel rispetto delle distanze “legittimamente preesistenti” anche “qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime tra gli edifici e dai confini”;
II) ha ammesso incrementi di volumetria (“incentivi volumetrici”) nel rispetto delle distanze preesistenti, “anche con ampliamenti fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito”;
III) ha subordinato gli interventi di demolizione e ricostruzione in centro storico “esclusivamente” alla previa approvazione di piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, “fatte salve le previsioni degli strumenti di pianificazione urbanistica vigenti”;
      y) la Corte costituzionale ha affermato (sentenza 24.04.2020, n. 70), con riferimento all’art. 2-bis d.P.R. n. 380 del 2001 (ed in relazione al contenuto anteriore al su richiamato d.l. n. 76 del 2020), che tale previsione assurge al rango di “principio fondamentale” della materia (e, dunque, a parametro interposto per lo scrutinio di costituzionalità della disciplina regionale), per le seguenti ragioni:
         y1) per la particolare sede normativa (il t.u. edilizia) “prescelta dal legislatore per l’inserimento della nuova norma”;
         y2) per la connotazione di “principio fondamentale” dello stesso art. 2-bis del t.u. edilizia, “per ciò che concerne la vincolatività delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968, «derogabili solo a condizione che le eccezioni siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» […], salvo quanto previsto dall’art. 5, comma 1, lettera b-bis), del d.l. n. 32 del 2019”;
         y3) per la circostanza che “Il comma 1-ter dell’art. 2-bis del t.u. edilizia […] detta evidentemente una regola unitaria, valevole sull’intero territorio nazionale, diretta da un lato a favorire la rigenerazione urbana e, dall’altro, a rispettare l’assetto urbanistico impedendo ulteriore consumo di suolo (come peraltro si trae dai lavori preparatori della legge di conversione dell’art. 5, comma 1, lettera b-bis, del d.l. n. 32 del 2019)” (esigenza di unitarietà oggi confermata dal d.l. n. 76 del 2020, art. 10 comma 1, il quale, con una correlazione causa-effetto sullo specifico punto –allo stato della decretazione d’urgenza– non del tutto chiara e definita, fissa l’ulteriore obiettivo di “semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese”);
         y4) per il contenuto delle disposizioni del d.P.R. n. 380 del 2001, le quali “integrano «norme dalla diversa estensione, sorrette da rationes distinte e infungibili, ma caratterizzate dalla comune finalità di offrire a beni non frazionabili una protezione unitaria sull’intero territorio nazionale»” (Corte cost., 26.05.2017, n. 125, in Giur. cost., 2017, 1275, con nota di SERGES, TARLI BARBIERI; Regioni, 2017, 1107, con nota di DI COSIMO);
      z) sulla disciplina delle distanze in generale, tra le tante:
         z1) Cons. Stato, sez. IV, 05.02.2018, n. 707 (in Foro it. 2018, III, 2010, con nota di E. TRAVI), ove si legge che:
I) l’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 sancisce distanze che sono tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della salute dei cittadini (prevenendo la formazione di intercapedini malsane);
II) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile; coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall'art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza;
         z2) Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017, n. 4337 (in Guida al dir., 2017, 43, 94) secondo cui “La disposizione contenuta nell'art. 9 d.m. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale e astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile”;
      z3) Cons. Stato, sez. IV, 08.05.2017, n. 2086, secondo cui “il limite di 10 m. di distanza, di cui al già citato art. 9, primo comma n. 2. D.M. n. 1444 del 1968, da computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non anche alle sole parti che si fronteggiano […], presuppone la presenza di due «pareti» che si fronteggiano, delle quali almeno una finestrata[…]. Più precisamente, la giurisprudenza ha affermato che il limite predetto presuppone «pareti munite di finestre qualificabili come vedute»” (nel caso di specie si trattava di impugnazione di un permesso di costruire finalizzato alla realizzazione, in aderenza al confine tra le due proprietà, di una sopraelevazione a primo e secondo piano sulla preesistente casa di abitazione ad un piano terra);
      aa) sul riconoscimento, a una previsione contenuta nel piano regolatore, del carattere di norma integrativa rispetto alla disciplina dettata dal codice, se dettata in materia di distanze e quindi tendente a completare, rafforzare e armonizzare il pubblico interesse ad un ordinato assetto urbanistico (mentre non può considerarsi integrativa se ha come finalità principale la tutela di interessi generali urbanistici) cfr.: Cass. civ., sez. II, 23.01.2018 (n. 1616 in Foro it, 2018, I, 2115), Cass. 12.05.2011, n. 10459 (in Giust. civ., 2011, I, 1427, con nota di CIAFARDINI); Cass. 30.12.1999, n. 14714; Cass. 23.06.1995, n. 7154; Cass. 30.07.1984, n. 4519; al contrario la Cassazione ha affermato che la disciplina codicistica delle distanze da osservarsi per l'apertura delle vedute non è integrabile con le norme dei regolamenti locali (in tal senso Cass. civ., sez. II, 11.06.2018, n. 15070 in Foro it., 2018, I, 2760 con nota di BONA);
      bb) sugli ambiti di autonomia comunale nella materia pianificatoria:
          bb1) Corte cost., 16.07.2019, n. 179 (oggetto della News US in data 27.08.2019), citata nella sentenza in rassegna;
         bb2) sulla titolarità in capo ai comuni dei poteri di pianificazione del territorio, cfr. Corte cost., 17.07.2017, n. 209 in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 819 ed oggetto della News US in data 31.07.2017;
         bb3) sui rapporti fra regione ed ente locale nella formazione dello strumento urbanistico e sulle conseguenze di carattere processuale, Cons. Stato, sez. IV, 23.12.2010, n. 9375, in Foro it., 2011, III, 330 con nota di CARLOTTI, secondo cui “è inammissibile il ricorso proposto contro un piano regolatore generale notificato soltanto al comune adottante e non anche alla Regione che lo abbia approvato, in considerazione della natura complessa dell'atto impugnato e del concorso delle volontà di entrambi gli enti territoriali alla sua formazione definitiva”;
         bb4) sulla affermazione secondo cui le funzioni comunali in materia di programmazione urbanistica non godono di specifica tutela costituzionale, sebbene i poteri dei Comuni non possano essere annullati e sia necessario garantire agli stessi forme di partecipazione ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia cfr. Corte cost., 26.11.2002, n. 478 in Foro it., 2003, I, 1976, Urbanistica e appalti, 2003, 289, con nota di DE PAULI, Riv. giur. ambiente, 2003, 515 (m), con nota di MANFREDI; Corte cost., 27.07.2000, n. 378 in Cons. Stato, 2000, II, 1316, Urbanistica e appalti, 2000, 1183, con nota di MANFREDI;
      cc) sulle leggi regionali di modifica di precedenti leggi di ampliamento dei casi di possibile deroga alla disciplina delle distanze tra edifici prevista dal codice civile e integrata dal d.m. n. 1444 del 1968:
         cc1) Corte cost. 24.02.2017 n. 41, cit., citata nella sentenza in rassegna, secondo cui “È incostituzionale l’art. 8, 1° comma, lett. a), l.reg. Veneto 16.03.2015 n. 4, nella parte in cui consente di derogare alla disciplina statale in materia di distanze tra gli edifici, limitatamente al riferimento alla lett. b) dell’art. 17, 3° comma, l.reg. Veneto 23.04.2004 n. 11 ed alle parole «e degli ambiti degli interventi disciplinati puntualmente»”;
         cc2) Corte cost., 03.11.2016, n. 231, cit., secondo cui “È incostituzionale l’art. 6, 6° comma, l.reg. Liguria 07.04.2015 n. 12, nella parte in cui, in tema di distanze legali tra costruzioni, non affida l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici», né è funzionale ad un «assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio», consentendo la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento, quindi anche su singoli edifici”;
         cc3) Corte cost., 20.07.2016, n. 185, cit., la quale, tra l’altro:
I) ”dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, 1° comma, lett. g), l.reg. Molise 14.04.2015 n. 7, recante «disposizioni modificative della l.reg. 11.12.2009 n. 30 (intervento regionale straordinario volto a rilanciare il settore edilizio, a promuovere le tecniche di bioedilizia e l’utilizzo di fonti di energia alternative e rinnovabili, nonché a sostenere l’edilizia sociale da destinare alle categorie svantaggiate e l’edilizia scolastica)», limitatamente alle parole «, ivi comprese quelle previste dall’art. 9 d.m. 1444/1968,»”;
II) “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, 1° comma, lett. i), l.reg. Molise n. 7 del 2015, nella parte in cui non prevede, dopo le parole «fermo restando quanto stabilito dal codice civile», le parole «e dall’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968»”;
         cc4) Corte cost., 15.07.2016, n. 178 (in Foro it., 2017, I, 2569), citata nella sentenza in rassegna, secondo cui “È incostituzionale l’art. 10, 1° comma, l. reg. Marche 13.04.2015 n. 16, nella parte in cui consente di derogare alla disciplina statale in materia di distanze tra gli edifici, limitatamente alla modifica dell’art. 35 l.reg. Marche 04.12.2014 n. 33, che ha sostituito all’espressione originaria «ovvero di ogni altra trasformazione», la diversa espressione «e di ogni trasformazione»”;
      dd) sulla giurisdizione in tema di distanze legali:
         dd1) Cass. civ., sez. un., 16.12.2016, n. 25978, secondo cui “La pretesa risarcitoria azionata, nei confronti di un comune, dal privato che si ritenga leso a causa della mancata demolizione di opere asseritamente abusive, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di danno provocato non dalla mancata o illegittima adozione di provvedimenti amministrativi discrezionali ma dal comportamento materiale con cui l'amministrazione comunale ha omesso di compiere un'attività vincolata”;
         dd2) Cass. civ., sez. II, 21.05.2015, n. 10499, secondo cui “La sentenza pronunziata sulla domanda di actio negatoria servitutis, diretta a denunziare la violazione delle distanze legali ad opera del proprietario del fondo vicino e ad ottenere l'arretramento della sua costruzione, ha effetto anche nei confronti dell'acquirente a titolo particolare della costruzione, che sia stato parimenti convenuto nel giudizio instaurato contro il suo dante causa, così assumendo la qualità di parte del processo”;
         dd3) Cass. civ., sez. un., 16.06.2014, n. 13673, secondo cui “Le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata incidenter tantum dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della p.a. (nella specie, il comune) per far valere l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo”;
         dd4) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 30.05.2013, n. 514 secondo cui “rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto l'impugnazione di una concessione edilizia che si assume illegittima per violazione delle norme sulle distanze legali: infatti, tale controversia non inerisce ad un rapporto di natura privatistica fra proprietari confinanti concernente i relativi diritti soggettivi, ma attiene al rapporto pubblicistico con l'ente territoriale ed è intentata a garanzia di una posizione di interesse legittimo” (in termini, Cons. Stato, sez. VI, 10.09.2018, n. 5307, in Foro amm., 2018, 1467);
         dd5) Cass. civ., sez. un., 15.03.2012, n. 4128, secondo cui “È devoluta alla cognizione del giudice ordinario l'azione possessoria nei confronti della p.a. (nella specie concernente l'inosservanza delle distanze legali nelle costruzioni), quando l'oggetto della tutela invocata, sulla base del petitum sostanziale, sia riconducibile ad un semplice comportamento di questa che abbia inciso sulla situazione possessoria e non consista, viceversa, nel sollecitato controllo di legittimità dell'esercizio del potere che, per effetto di atti o provvedimenti amministrativi formali, abbia dato causa all'iniziativa di cui si assume l'illegittimità”; Cass. civ., sez. un., 19.10.2011, n. 21578, secondo cui “Le controversie tra proprietari, relative alla violazione delle distanze legali tra le costruzioni o rispetto ai confini, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di cause tra privati, anche quando la violazione denunciata riguardi una costruzione realizzata in conformità ad una concessione edilizia (eventualmente) illegittima, potendo il giudice ordinario, cui spetta la giurisdizione vertendosi in tema di violazione di diritti soggettivi, accertare incidentalmente tale illegittimità e disapplicare l'atto”;
         dd6) Cass. civ., sez. un., 28.11.1976, n. 2846, secondo cui “Ammenoché non sia impugnata nei confronti dell’amministrazione la licenza di costruzione, rientra nella cognizione del giudice ordinario la controversia, tra privati, relativa alle distanze legali tra fondi finitimi, disciplinate da regolamenti edilizi, anche se l’autorità comunale abbia fatto uso del potere di deroga alle disposizioni del regolamento edilizio stesso”;
      ee) sul tema dell'applicabilità delle distanze legali ai casi di demolizione con successiva ricostruzione: Cass. civ., sez. II, 10.01.2019, n. 473 (in Foro it., 2019, I, 2859, con nota di BONA), secondo cui “Nel caso di demolizione di un edificio con sua successiva ricostruzione, i balconi aggiunti a quanto originariamente esistente sono soggetti all'applicazione delle norme sulle distanze legali vigenti all'epoca della ricostruzione”.
L’autore, con riferimento al rapporto tra la vecchia e la nuova disciplina dettata dal d.l. n. 32 del 2019, convertito con l. n. 55 del 2019, ha evidenziato che:
         ee1) la giurisprudenza in materia è riuscita negli anni ad assestarsi su una serie di massime consolidate (invocate, pur con diversità d'argomenti, sia per le distanze codicistiche che per quelle previste da norme integrative). I principi erano fino a ieri questi:
I) occorre distinguere tra nuove costruzioni, alle quali sono applicabili le distanze legali previste dalle norme vigenti, e ricostruzioni, soggette alla disciplina applicabile all'edificio originario;
II) si ha ricostruzione finché si rimane nei limiti preesistenti di altezza, volumetria, sagoma e area di sedime dell'edificio;
III) per tutto ciò che eccede (e solo per ciò che eccede) si ha nuova costruzione, soggetta alle distanze legali vigenti, salva l'applicabilità di norme regolamentari in tema di distanze che si dichiarino applicabili anche alle ricostruzioni;
         ee2) con il d.l.n. 69 del 2013 il legislatore è intervenuto ritoccando l'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 e facendo rientrare nel concetto di (ristrutturazione con) ricostruzione la realizzazione di ogni edificio che rispetti la (sola) volumetria di quello preesistente. La giurisprudenza ha però escluso che la novella incida sui principî consolidati;
         ee3) l'art. 5 d.l. 32 del 2019 ha aggiunto il comma 1-ter all’art. 2-bis d.P.R. n. 380 del 2001, il quale ha fatto riferimento al rispetto delle “distanze legittimamente preesistenti” ossia quelle vigenti al momento della costruzione dell'edificio originario e quelle eventualmente sopravvenute che abbiano reso regolare l'edificio demolito nonostante originariamente non lo fosse;
II) la ricostruzione non è stata sganciata dal rispetto della sagoma dell'edificio originario;
         ee4) recentemente la Corte costituzionale (sentenza 24.04.2020, n. 70, cit.), con riferimento alla norma di interpretazione autentica dell’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 dettata dall’art. 5, comma 1, lett. b), d.l. n. 32 del 2019 convertito in l. n. 550 del 2019, ha affermato che:
I) sulla base dell’originaria previsione dell’art. 3, comma 1, lettera d), d.P.R. n. 380 del 2001 “in caso di demolizione, la ricostruzione per essere tale e non essere considerata una nuova “costruzione” –che avrebbe in tal caso richiesto un apposito permesso di costruire, e non una mera segnalazione certificata di inizio attività (artt. 10 e 22 del t.u. edilizia)– doveva concludersi con la «fedele ricostruzione di un fabbricato identico», comportando dunque identità di sagoma, volume, area di sedime e caratteristiche dei materiali”;
II) il successivo d.lgs. n. 301 del 2002 “ha modificato la definizione di «ricostruzione», eliminando sia lo specifico riferimento alla identità dell’area di sedime e alle caratteristiche dei materiali, sia il concetto di «fedele ricostruzione»”;
III) nel 2011, con il comma 9 dell’art. 5 del d.l. n. 70 del 2011 (cosiddetto «decreto sviluppo»), il legislatore ha espressamente autorizzato le Regioni a introdurre norme di disciplina degli interventi di ristrutturazione ricostruttiva con ampliamenti volumetrici, concessi quale misura premiale per la razionalizzazione del patrimonio edilizio, eventualmente anche con “delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse”: “in tal modo, il legislatore nazionale ha ammesso deroghe all’identità di volumetria nell’ipotesi di ristrutturazioni realizzate con finalità di riqualificazione edilizia. Simile possibilità è stata però esclusa, dallo stesso legislatore, per una particolare categoria di manufatti, e cioè per gli «edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree ad inedificabilità assoluta […]» (art. 5, comma 10, del medesimo decreto)”;
IV) nel 2013, il legislatore è nuovamente intervenuto sull’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, con l’art. 30, comma 1, lettera a), del d.l. n. 69 del 2013, c.d. “decreto del fare”, convertito, con modificazioni, nella l. n. 98 del 2013, che ha qualificato come «interventi di ristrutturazione edilizia» quelli di demolizione e ricostruzione «con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza
», fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ex d.lgs. n. 42 del 2004 (“Codice dei beni culturali”) gli interventi di demolizione e ricostruzione “ristrutturazione edilizia” soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente;
V) “il legislatore statale ha dunque progressivamente allargato l’ambito degli interventi di ristrutturazione, consentendo di derogare all’identità di volumetria in caso di ricostruzioni volte alla riqualificazione edilizia e imponendo il rispetto della sagoma solo per immobili vincolati”;
VI) “questa tendenza si è arrestata, nel 2019, con l’art. 5, comma 1, lettera b), del d.l. n. 32 del 2019 (cosiddetto decreto «sblocca cantieri»), che ha inserito il comma 1-ter all’art. 2-bis del t.u. edilizia, così imponendo, per la ristrutturazione ricostruttiva, il generalizzato limite volumetrico (a prescindere, dunque, dalla finalità di riqualificazione edilizia) e il vincolo dell’area di sedime […]”;
         ee5) con il d.l. n. 76 del 2020 il legislatore ha previsto:
I) la possibilità di demolizione e ricostruzione “anche qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime”;
II) il “riconoscimento” di incentivi volumetrici;
III) l’ammissibilità di “ampliamenti fuori sagoma” e del “superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito”;
      ff) sul tema del rapporto tra nozione di demolizione e costruzione e specifici ambiti della disciplina in tema di distanze, si vedano anche:
         ff1) Cons. Stato, sez. IV, 05.02.2018, n. 706, (in Foro it., 2018, III, 211), secondo cui “Il riscontro oggettivo dell'inosservanza dei limiti di distanza tra edifici stabiliti dall'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 comporta l'illegittimità del permesso di costruire, indipendentemente dalla circostanza che tale inosservanza cagioni anche pregiudizi di ordine igienico o sanitario” (nella specie, l'inosservanza dipendeva dalla sporgenza dei balconi);
      gg) sulla norma di interpretazione autentica dell’art. 9, commi secondo e terzo, d.m. n. 1444 del 1968:
         gg1) T.a.r. per la Liguria, sez., II, 05.06.2020, n. 354, secondo cui la disposizione di cui all'art. 5 comma 1, lett. b-bis), del d.l. n. 32 del 2019 non opera allorché “l'intervento […] ricade infatti in zona equiparabile ad una zona «B», per la quale l'art. 9, comma 1, n. 2), del d.m. n. 144 del 1968 -non fatto oggetto di interpretazione «autentica» da parte del d.l. n. 32 del 2019- continua a prescrivere «in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti»”;
         gg2) è stato affermato in dottrina (A. TOMASSETTI, “Dal 01.09.2019 nasce la Spa in house «Italia Infrastrutture»”, in Guida al dir., 2019, 33, 92 ss.) che la citata nuova lettera b-bis) del comma 1 reca una norma di interpretazione autentica in forza della quale le disposizioni di cui all’articolo 9, commi 2 e 3, del d.m. n. 1444 del 1968, devono leggersi nel senso che:
I) i limiti di distanza tra i fabbricati ivi previsti si considerano riferiti esclusivamente alla zona di cui al primo comma, n. 3), dello stesso articolo 9;
II) tale disposizione è dunque riferita “esclusivamente ai fabbricati ubicati nelle zone territoriali omogenee rappresentate dalle parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultino inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità delle parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, con esclusione pertanto dell’applicazione dei predetti limiti di distanza nelle altre zone territoriali omogenee”;
III) la riduzione in via di interpretazione autentica dell’ambito di applicazione dei limiti di distanza tra fabbricati “sembra, pertanto, finalizzata a consentire operazioni di rigenerazione urbana -in particolare nelle zone A) e B) come definite dall’articolo 2 del d.m. 1444/1968- non sottoposte al rispetto delle distanze minime previste in via generale dall’articolo 9 del d.m. 1444/1968”;
         gg3) ancora, è stato evidenziato (C. BONA, “Il d.l. 18.04.2019, n. 32: distanze legali, ragioni dell’economia, ragioni dell’ambiente”, cit.) in relazione alla medesima disposizione che:
I) “le vere questioni sono di diritto intertemporale”;
II) la disposizione, fermo restando il giudicato già formatosi sulla questione della distanza, è da ritenere applicarsi “anche agli immobili già realizzati, quand'anche ne sia stata denunciata l'irregolarità in un'azione petitoria o possessoria. Ciò non per il tradizionale principio di retroattività delle leggi interpretative […], quanto per il fatto che è lo stesso legislatore, «autodefinendo» la norma di interpretazione autentica, a renderla operativa anche per il passato (il legislatore manifesta la sua preferenza, nel conflitto, per l'interesse tutelato dalla norma novellata)”;
      hh) su specifici profili processuali in tema di distanze legali:
         hh1) Cons. Stato, sez. IV., 05.02.2018, n. 707 (in Foro it., 2018, III, 210) secondo cui “Nel giudizio promosso contro un permesso di costruire, il ricorso è inammissibile per carenza d'interesse, quando l'annullamento del permesso non arrecherebbe alcun vantaggio all'interesse sostanziale del ricorrente” (nella specie, il permesso di costruire impugnato aveva riguardato la realizzazione di una scala esterna addossata a un muro, in violazione delle distanze dal confine di proprietà prescritte dal piano regolatore, ma il muro, che era preesistente, risultava già a sua volta a una distanza inferiore a quella legale);
         hh2) Cons. Stato, sez. IV, 03.08.2016, n. 3510, secondo cui:
I) “Le distanze previste dall'art. 9 cit., […] sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina all'uopo predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile”;
II) “Ne consegue che il soggetto che invoca, innanzi al giudice ordinario, il rispetto delle disposizioni del codice civile a tutela di un suo diritto reale, fonda la propria legittimazione ad agire in giudizio sulla propria posizione giuridica di diritto soggettivo (reale) e l'attività edilizia assunta come illecita costituisce lesione di quel suo diritto, tale da rendere attuale l'interesse ad agire in giudizio”;
III) “In tal caso, sia la verifica delle condizioni dell'azione sia la verifica della violazione delle norme del codice civile (in particolare in tema di distanze) ha come fulcro il diritto reale di chi agisce in giudizio per la sua tutela, proprio perché a quest'ultima esse sono funzionali”;
IV) “Diversamente, il soggetto che -non già innanzi al giudice ordinario, bensì innanzi al giudice amministrativo- invoca l'illegittimità del titolo edilizio rilasciato dall'amministrazione pubblica, poiché rilasciato in violazione delle prescrizioni del d.m. n. 1444 del 1968 in tema di distanze, richiede che il giudice verifichi la legittimità dell'atto in quanto (potenzialmente) adottato in violazione di una norma di diritto pubblico, posta a tutela dell'interesse pubblico, e della quale egli si giova ad indiretta tutela della sua posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo”;
V) “Ne consegue che, in questo secondo caso, le condizioni dell'azione si presentano in modo affatto differente rispetto a quanto si pone innanzi al giudice ordinario”;
VI) “Ed infatti, in questo caso, […] l'interesse ad agire, volto ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, si collega non già ad una posizione di diritto soggettivo (reale) leso, bensì all'interesse pubblico tutelato dalla norma, dal rispetto della quale discende (anche) la tutela di proprie situazioni giuridiche soggettive, non necessariamente limitate al genus dei diritti reali”;
VII) “Pertanto, il giudice amministrativo, nell'esaminare i motivi di ricorso con i quali si prospetta la violazione della norma sulle distanze di cui all'art. 9 cit., deve: − quanto alle condizioni dell'azione, verificare la sussistenza di un "collegamento" stabile e giuridicamente apprezzabile tra il ricorrente e l'immobile sul quale si realizzerebbe la costruzione, in virtù del provvedimento impugnato, collegamento che può risultare anche (ma non solo) dalla titolarità di un diritto reale, ma che non è limitato dalla presenza e dalla lesione di questo (e ciò rileva, in particolare, per la verifica della sussistenza dell'interesse ad agire); − quanto al merito, verificare se il provvedimento impugnato risulti adottato in violazione della norma di diritto pubblico in tema di distanze, nel senso che il nuovo manufatto si ponga in contrasto con le finalità di tutela dell'interesse pubblico al quale la norma è teleologicamente orientata”;
         hh3) Cass. civ., sez. II, 28.04.2016, n. 8468, secondo cui “Qualora uno dei coniugi, in regime di comunione legale dei beni, abbia da solo acquistato o venduto un bene immobile oggetto della comunione, il coniuge rimasto estraneo alla formazione dell'atto è litisconsorte necessario in tutte le controversie in cui si chieda al giudice una pronuncia che incida direttamente e immediatamente sul diritto, sicché l'azione volta alla rimozione o comunque all'arretramento a distanza legale di opere assunte come abusivamente eseguite va proposta nei confronti di entrambi i coniugi, ancorché non risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né il regime di comunione, né l'esistenza del coniuge, non trattandosi di questione concernente la circolazione dei beni e l'anteriorità dei titoli, bensì di azione reale”;
         hh4) Cass. civ., sez. II, 14.01.2016, n. 458, secondo cui “Il proprietario del fondo danneggiato da opere eseguite sul fondo del vicino, in violazione delle distanze legali, può esperire, oltre all'azione risarcitoria, di natura obbligatoria, quella ripristinatoria, di natura reale, ex art. 872 c.c.; la prima, mirando al ristoro del pregiudizio patrimoniale conseguente all'edificazione illegittima, è esercitabile anche nei confronti dell'autore materiale di questa mentre la seconda, volta all'eliminazione fisica delle modifiche apportate sul fondo contiguo, va necessariamente proposta nei confronti del proprietario della costruzione, anche se materialmente realizzata da altri, potendo egli soltanto essere destinatario dell'ordine di demolizione che il ripristino delle distanze legali tende ad attuare”;
         hh5) Cass. civ., sez. II, 08.01.2016, n. 144, secondo cui “In tema di distanze fra le costruzioni, incombe a colui che chiede l'arretramento del fabbricato altrui, sul presupposto della preesistenza della propria costruzione, l'onere della prova di avere costruito per primo”;
         hh6) Cass. civ., sez. II, 04.09.2015, n. 17602, secondo cui “L'azione reale volta al rispetto della distanza legale tra le costruzioni deve essere proposta nei confronti dell'attuale proprietario della costruzione illegittima, atteso che solo costui può essere destinatario dell'ordine di demolizione che tale azione tende a conseguire, a nulla rilevando che la costruzione sia stata iniziata o eseguita da un precedente proprietario, nei cui confronti non potrebbe comunque essere ordinata la demolizione, né potendo, tale circostanza, incidere sulla causa petendi dell'azione proposta, che è costituita dall'appartenenza all'attuale proprietario del fabbricato posto a distanza illegale a prescindere dalla concreta individuazione dell'autore materiale delle opere realizzate”;
         hh7) Cass. civ., sez. II, 21.05.2015, n. 10499, secondo cui “La sentenza pronunziata sulla domanda di actio negatoria servitutis, diretta a denunziare la violazione delle distanze legali ad opera del proprietario del fondo vicino e ad ottenere l'arretramento della sua costruzione, ha effetto anche nei confronti dell'acquirente a titolo particolare della costruzione, che sia stato parimenti convenuto nel giudizio instaurato contro il suo dante causa, così assumendo la qualità di parte del processo, senza che la mancata trascrizione della domanda giudiziale a norma dell'art. 2653, n. 1 o n. 5, c.c. conferisca al medesimo acquirente il diritto di mantenere la distanza inferiore a quella legale”;
         hh8) Cass. civ., sez. II, 15.05.2015, n. 10005, secondo cui “In forza dell'art. 2909 c.c., nel caso di azioni a difesa della proprietà come quella relativa al rispetto delle distanze legali, la sentenza pronunciata contro l'originaria parte processuale spiega suoi effetti anche nei confronti del successore a titolo particolare che abbia partecipato al processo a prescindere dalla trascrizione della domanda, atteso che l'art. 111, 4º comma, c.p.c. riguarda solo il terzo che abbia acquistato il diritto controverso durante la pendenza della lite e che non abbia partecipato al processo”;
         hh9) Cass. civ., sez. II, 22.10.2014, n. 22466, secondo cui “L'usufruttuario non è legittimato a proporre opposizione di terzo ordinaria, ai sensi dell'art. 404, 1º comma, n. 1 c.p.c., contro la sentenza di condanna all'arretramento del fabbricato realizzato a distanza irregolare che sia stata pronunciata nei confronti del solo proprietario del bene, poiché non è titolare di un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla decisione resa tra altre parti”;
         hh10) Cass. civ., sez. II, 15.04.2014, n. 8731, secondo cui “L'azione di manutenzione possessoria tutela il potere di fatto sulla cosa e non il corrispondente diritto reale, sicché la violazione delle distanze legali tra costruzioni può essere denunciata ex art. 1170 c.c. solo quando abbia determinato un'apprezzabile modificazione o limitazione dell'esercizio del possesso”;
         hh11) Cass. civ., sez. II, 18.07.2013, n. 17635, secondo cui “In tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria relativa al danno subito per effetto dell'abusiva imposizione di una servitù sul proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, danno che, consistendo in una diminuzione temporanea del valore della proprietà, è destinato a cessare una volta ripristinato lo stato dei luoghi nelle condizioni antecedenti alle suddette violazioni”;
      ii) sul rapporto tra istituto del condono edilizio e rispetto della disciplina delle distanze: Cons. Stato, sez. II, 12.03.2020, n. 1766, secondo cui “Il fatto che l'immobile sia posto a distanza dal confine inferiore a quella minima prevista dalla disciplina regolamentare edilizia, non può, di per sé, impedire il condono, restando naturalmente salvo l'interesse di entrambi i proprietari frontisti di far valere il diritto al rispetto delle distanze davanti al giudice ordinario, a tutela del diritto di proprietà, poiché, pur in presenza di un provvedimento di condono (nella specie, usufruito da entrambi i proprietari frontisti), il proprietario del fondo contiguo, leso dalla violazione delle norme urbanistiche o delle distanze legali, in presenza dei relativi presupposti ha comunque il diritto di chiedere ed ottenere l'abbattimento o la riduzione a distanza legale della costruzione in ipotesi illegittima”;
      jj) sulla valenza integrativa, in tema di distanze, dei regolamenti locali:
         jj1) Cass. civ., sez. II, 16.07.2015, n. 14915 (in Vita not., 2015, 1283), secondo cui “In tema di distanze delle costruzioni dal confine, le norme di un regolamento edilizio e dell'annesso programma di fabbricazione sono efficaci e possono applicarsi nei rapporti tra privati solo dopo che siano state adottate dal consiglio comunale, approvate della giunta regionale e portate a conoscenza dei destinatari mediante pubblicazione da eseguirsi con affissione all'albo pretorio, essendo tale pubblicazione condizione necessaria per l'efficacia e l'obbligatorietà dello strumento urbanistico, senza possibilità di efficacia retroattiva dalla data di approvazione da parte dell'organo regionale, rimanendo, nel frattempo, applicabile la disciplina in materia di distanze dettata dal codice civile”;
         jj2) Cass. civ., sez. un., 24.09.2014, n. 20107 secondo cui “In tema di distanze legali, le norme degli strumenti urbanistici integrano la disciplina dettata dal codice civile nelle materie regolate dagli art. 873 e seg. c.c., ove tendano ad armonizzare l'interesse pubblico ad un ordinato assetto urbanistico del territorio con l'interesse privato relativo ai rapporti intersoggettivi di vicinato sicché vanno incluse in tale novero le disposizioni del piano regolatore generale dell'ente territoriale che stabiliscano la distanza minima delle costruzioni dal confine del fondo e non tra contrapposti edifici”;
      kk) sulle modalità di calcolo delle distanze: Cass. civ, sez. II, 27.05.2016, n. 11049 (in Foro it., 2016, I, 3541);
      ll) sulla nozione di edifici “circostanti”, “confinanti” e “limitrofi”, ai fini della valutazione delle altezze ammissibili: Cons. Stato, sez. IV, 09.09.2014, n. 4553; mm) sul principio di prevenzione:
         mm1) Cass. civ., sez. II, 25.07.2016, n. 15298 secondo cui “In caso di successione nel tempo di norme edilizie, la valutazione del carattere restrittivo dello ius superveniens va effettuata non in astratto, ma in concreto, verificando le conseguenze che all'edificante derivano dall'applicazione della nuova disciplina, sicché quest'ultima, ove escluda il principio della prevenzione imponendo una distanza dal confine, non si applica al convenuto che ne risulti costretto ad arretrare il fabbricato”;
         mm2) Cass.civ., sez. un., 19.05.2016, n. 10318 (in Nuova giur. civ., 2016, 1294, con nota di SIGNORI) secondo cui “Un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal codice civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide sul principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al preveniente la possibilità di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni, né al prevenuto la corrispondente facoltà di costruire in appoggio o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli art. 874, 875 e 877 c.c.”;
         mm3) Cass. civ., sez. II, 21.10.2015, n. 21455 (in Mass., 2015, 704), secondo cui “In tema di distanze legali, nell'ipotesi in cui il proprietario preveniente abbia realizzato la sua costruzione ad una distanza dal confine inferiore a quella prescritta dai regolamenti locali e lo strumento urbanistico consenta al confinante che costruisce per primo di spingere il proprio fabbricato sino al confine del fondo contiguo non edificato, la situazione di illegittimità può essere rimossa, in via alternativa, mediante arretramento della costruzione fino alla distanza regolamentare ovvero con il suo avanzamento fino al confine”;
         mm4) Cass. civ., sez. II, 06.11.2014, n. 23693 (in Vita not., 2015, 330), secondo cui “Il criterio della prevenzione, previsto dagli art. 873 e 875 c.c., è derogato dal regolamento comunale edilizio allorché questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle stesse dal confine, salvo che lo stesso consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio, nel qual caso il primo costruttore ha la scelta tra l'edificare a distanza regolamentare e l'erigere la propria fabbrica fino ad occupare l'estremo limite del confine medesimo, ma non anche quella di costruire a distanza inferiore dal confine, poiché detta prescrizione ha lo scopo di ripartire tra i proprietari confinanti l'onere della creazione della zona di distacco”;
      nn) sul risarcimento da violazione delle distanze:
         nn1) Cass. civ., sez. II, 11.09.2013, n. 20849, secondo cui “In tema di rapporti di vicinato, l'originaria abusività di un immobile per difformità dalla concessione, oggetto di successiva sanatoria, non osta al risarcimento del danno allo stesso cagionato da una illecita costruzione su terreno confinante, atteso che l'immobile sanato, non essendo più incommerciabile, è in grado di risentire della correlata diminuzione di valore commerciale”;
         nn2) Cass. civ., sez. II, 26.07.2013, n. 18119, secondo cui “In materia di distanze nelle costruzioni, qualora subentri una disposizione derogatoria favorevole al costruttore, si consolida -salvi gli effetti di un eventuale giudicato sull'illegittimità della costruzione- il diritto di quest'ultimo a mantenere l'opera alla distanza inferiore, se, a quel tempo, la stessa sia già ultimata, restando irrilevanti le vicende normative successive, fermo, peraltro, il diritto del vicino al risarcimento del danno subìto nel periodo tra l'edificazione e l'entrata in vigore del disposto normativo legittimante”;
         nn3) Cass. civ., sez. II, 11.03.2013, n. 6045, secondo cui “In tema di danno per violazione delle norme di edilizia, l'abusività ed illegittimità della costruzione fonda la pretesa risarcitoria, essendo sufficiente all'attore fornire elementi utili all'individuazione del pregiudizio, come effetto diretto ed immediato dell'illecito”;
      oo) sugli obblighi procedurali dell’ente locale in tema di disciplina delle distanze: Cass. civ., sez. II, 13.09.2013, n. 20994 (in Mass., 2013, 662), secondo cui “In tema di distanze legali, la disciplina meno restrittiva, la cui sopravvenienza può legittimare la costruzione originariamente illecita, non può consistere in una semplice delibera del consiglio comunale, atteso che questa non è idonea, di per sé, a modificare la disciplina urbanistica, costituendo solo il primo atto di un complesso iter amministrativo che si conclude soltanto con l'approvazione regionale della variante del piano regolatore generale”;
      pp) sulle distanze in relazione a pareti, luci e vedute:
         pp1) Tar per il Piemonte, sez. II, 25.11.2019, n. 1174, secondo cui “Quando l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali si devono intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci”;
         pp2) Cass. civ., sez. II, 21.10.2019, n. 26807, secondo cui “Nel caso di comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi, l'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell'art. 905 c.c., finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all'art. 1102 c.c., in quanto i rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi sono disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue o asservite; né può invocarsi, al fine di escludere la configurabilità di una servitù di veduta sul cortile di proprietà comune, il principio «nemini res sua servit», il quale trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del fondo servente e di quello dominante e non anche quando il proprietario di uno di essi sia anche comproprietario dell'altro”;
         pp3) Cass. civ., sez. II, 19.02.2019, n. 4834 (in Foro it., 2019, 6, 1, 2101), secondo cui “Il principio per il quale l'eliminazione delle vedute abusive può essere realizzata non solo con la demolizione delle porzioni immobiliari con le quali si verifica la violazione di legge, ma anche attraverso accorgimenti che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui, come l'arretramento del parapetto o l'apposizione di idonei pannelli che rendano impossibili il prospicere e l'inspicere in alienum, opera esclusivamente nei casi di violazione delle distanze delle vedute e non pure di quelle tra costruzioni previste dall'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968”;
         pp4) Tar per la Calabria, sez. II, 17.01.2018, n. 138, secondo cui “In materia di edilizia ed urbanistica, al fine dell'ottenimento del permesso di costruire occorre che il richiedente dimostri che l’edificanda opera edilizia sia eseguita nel rispetto delle distanze minime dal ciglio stradale, di quelle relative tra le pareti degli edifici (luci e vedute) ed altresì della cd. cessione di cubatura, pena il rigetto dell’istanza”;
      qq) sul rapporto tra pianificazione locale e d.m. n. 1444 del 1968:
         qq1) nell’ambito della giurisprudenza amministrativa: Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2013, n. 5732, in Foro amm. – CdS, 2013, 12, 3378 (s.m.) secondo cui “il d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, inserito dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati”;
II) Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3931, che parla, a proposito dell’art. 9 del d.m. n. 1444 di “prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali”;
         qq2) nell’ambito della giurisprudenza civile:
I) Cass. civ., sez. un. 07.07.2011, n. 14953 in Vita not., 2012, 258, secondo cui “le norme tecniche di attuazione di un piano regolatore (nella specie, del comune di Viareggio) che impongano il rispetto della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti di esse dotati di finestre, con conseguente esonero per quelli ciechi, contrastano con il disposto dell'art. 9, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, che prescrive l'osservanza di tale distacco con riferimento all'intera estensione della parete, sicché esse vanno disapplicate e sostituite, previa inserzione automatica, con la diversa disposizione della norma statale, direttamente applicabile nei rapporti con i privati”;
II) Cass. civ., sez. un., 01.07.1997, n. 5889, in Corriere giur., 1997, 1310, con nota di GIOA, secondo cui invece “il d.m. 02.04.1968 n. 1404 (emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dalla l. 06.08.1967 n. 765) che all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici ma non è immediatamente operante anche nei rapporti fra i privati”;
      rr) sulle deroghe legislative agli strumenti di pianificazione locale:
         rr1) Corte cost., 27.12.2018, n. 245 (in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 291), citata nella sentenza in rassegna, secondo cui “Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4, 4° comma, l.reg. Abruzzo n. 40 del 2017, promosse dal governo in riferimento all'art. 117, 2° comma, lett. s), e 3° comma, cost., che prevede il recupero dei vani e locali accessori situati in edifici esistenti o collegati direttamente ad essi ed utilizzati anche come pertinenze degli stessi e dei vani e locali seminterrati; l'esame congiunto degli art. 1-4 l.reg. impugnata rende evidente che esse, dettate nell'esercizio della potestà legislativa concorrente in materia di governo del territorio, non incidono sulla pianificazione territoriale o sulla localizzazione degli interventi affidati ai piani urbanistici comunali; la norma impugnata, in particolare, consente esclusivamente deroghe minute alla disciplina edilizia comunale, dettate nell'esercizio della suddetta competenza legislativa concorrente, e non pone alcuna deroga alle previsioni del piano di bacino, che si impongono a tutte le amministrazioni e ai privati, a prescindere dal loro recepimento in altre fonti legislative o regolamentari; né gli interventi di recupero consentiti implicano consumo di suolo mediante l'esercizio di attività di nuova edificazione, in linea con quanto previsto dal parametro interposto invocato”;
         rr2) Corte cost., 13.03.2014, n. 46 (in Riv. giur. edilizia, 2014, I, 215), citata nella sentenza in rassegna, secondo cui “La questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli art. 3, 25, 117 cost., 3 st. Sardegna, dell'art. 2 l.reg. autonoma Sardegna 23.10.2009 n. 4, nella parte in cui consente l'ampliamento dei fabbricati ad uso residenziale, di quelli destinati a servizi connessi alla residenza e di quelli relativi ad attività produttive, entro il limite del venti per cento della volumetria esistente, «anche mediante il superamento degli indici massimi di edificabilità previsti dagli strumenti urbanistici», è infondata”;
      ss) sul principio di sussidiarietà verticale:
         ss1) nell’ambito del riparto di competenze nella gestione dell’emergenza epidemiologica COVID-19: Cons. Stato, sez. I, parere 07.04.2020, n. 260/20 (in Foro it.,2020, III, 267);
         ss2) nella giurisprudenza costituzionale: Corte cost., 08.07.2010, n. 247 (in Foro it., 2011, I, 2248), secondo cui “l’evocato principio di sussidiarietà verticale, sotteso all’art. 118 Cost., attiene propriamente al riparto fra i diversi livelli di governo dell’esercizio delle funzioni amministrative, così come astrattamente previste e modellate dalla legislazione di riferimento. Esso non viene perciò in rilievo allorché, come nella specie, il legislatore regionale (nell’ambito di una propria competenza) non istituisca o attribuisca funzioni amministrative (né sposti verso l’alto la titolarità delle relative competenze), bensì imponga esso stesso un divieto, il quale concorre a definire i limiti di legge entro i quali deve svolgersi poi la normale attività amministrativa di attuazione”;
      tt) sul giudizio di proporzionalità dell’intervento legislativo nel rapporto tra l’autonomia regionale e quella locale: Corte cost., 16.07.2019, n. 179, cit., secondo cui:
         tt1) “il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere”;
         tt2) “la suddetta competenza regionale non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni”;
         tt3) “su questo piano, è quindi richiesto uno scrutinio particolarmente rigoroso laddove la normativa regionale non si limiti a conformare, mediante previsioni normative alle quali i Comuni sono tenuti a uniformarsi, le previsioni urbanistiche nell’esercizio della competenza concorrente in tema di governo del territorio, quanto piuttosto comprima l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, come nel caso di specie, paralizzandola per un periodo temporale”;
         tt4) “in questi casi, dove emerge come il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non sia stato risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della Costituzione, il giudizio di costituzionalità non ricade tanto, in via astratta, sulla legittimità dell’intervento del legislatore regionale, quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in ordine alla «verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali”;
         tt5) “viene quindi in causa il variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha riconosciuto specifica valenza costituzionale l’affermazione del principio di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa Corte a valutare, nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone”;
         tt6) “il giudizio di proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti”;
      uu) sulle funzioni fondamentali degli enti locali, tra le diverse:
         uu1) Corte cost., 04.03.2019, n. 33 (in Giornale dir. amm., 2019, 5, 590, con nota di SPANICCIATI), secondo cui “La previsione generalizzata dell'obbligo di gestione associata per tutte le funzioni fondamentali dei comuni sotto i 5.000 abitanti, eccetto limitate deroghe legislativamente fissate, è illegittima nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l'esonero dall'obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell'erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento”;
         uu2) Corte cost., 20.07.2018, n. 168 (in Foro it., 2018, I, 2960), secondo cui “l’intervento di riordino di Province e Città metropolitane, di cui alla citata L. n. 56 del 2014, rientra nella competenza esclusiva statale nella materia «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane», ex art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.”;
      vv) in dottrina:
         vv1) sulla disciplina delle distanze legali quanto a principi generali, regime sanzionatorio e presupposti applicativi, A.M. SANDULLI, Questioni di operatività dei piani regolatori generali e della qualificabilità delle relative disposizioni sulle distanze come norme integrative del cod. civ. in Riv. giur. edilizia, 1958, II, 36; T. MONTECCHIARI, Le distanze tra costruzioni nella disciplina del codice civile e dei piani regolatori generali in Giur. it., 1997, I, 269; A. ANCESCHI, Le distanze legali tra costruzioni, Milano, 2008; A. MANDARANO, Le distanze tra edifici tra norme statali, regionali e comunali in Urbanistica e appalti 2008, 231; R. TRIOLA, Le distanze legali nelle costruzioni, Milano, 2009; G. GRAZIOSI, Le distanze tra pareti finestrate. Ricostruzione sistematica e questioni applicative di un istituto ambiguo in Riv. giur. edilizia, 2013, II, 3 ss.; S. REZZONICO, M. REZZONICO, Le distanze legali, Milano, 2016; A. DI LEO, Il piano regolatore generale, in F. CARINGELLA, U. DE LUCA (a cura di), Manuale dell’edilizia e dell’urbanistica, Roma, 2017, 68 ss.;
         vv2) sul regime delle distanze dopo il decreto c.d. Sblocca cantieri (decreto-legge n. 32 del 2019): C. BONA, Il d.l. 18.04.2019, n. 32: distanze legali, ragioni dell’economia, ragioni dell’ambiente, in Foro it., 2019, I, 2864, cit., con particolare approfondimento sui profili di diritto transitorio;
         vv3) sui principi fondamentali in tema di governo del territorio: M. GORLANI, Quando è la Corte ad indicare i principi fondamentali di una materia di potestà concorrente, in Giur. cost., 2011, 6, 4319-4328; C. BENETAZZO, Il “governo del territorio” tra interventi di semplificazione ed effetti “complicanti” di alcune esperienze regionali, in Riv. giur. urbanistica, 2015, I, 30-93;
         vv4) sulla individuazione dei principi fondamentali all’interno del testo unico dell’edilizia, cfr. A. RUSSO-S.AMOROSINO, in Testo unico dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2015, 3 ss e 25 ss.; per un’ampia ricostruzione dei limiti derivanti dai principi fondamentali dettati dalla legislazione statale in materia di governo del territorio, v. R. CHIEPPA, Ancora sui principi fondamentali in materia di governo del territorio, sulle distanze minime tra le costruzione e sugli interventi in zone sismiche, in Giur. cost., 2017, 1, 463, 474;
         vv5) sulla potestà legislativa regionale in materia di edilizia: G. BERGONZINI, E. TOFFANO, La potestà legislativa regionale in materia di edilizia, alla luce delle modifiche apportate al titolo V della porte II Costituzione, in Dir. regione, 2003, 3, 380-396; S. MUSOLINO, Il legislatore regionale può limitare ma non ampliare l’operatività del condono oltre il limiti stabiliti dal legislatore statale, in Corriere giur., 2006, 12, 1673-1678; D. DE PRETIS, Condono edilizio e Regioni: la Corte mantiene le sue promesse, in Regioni, 2006, 4, 832-839; P. URBANI, Governo del territorio e disciplina concorrente: il caso dell’edilizia, in Giur. it., 2012, 5, 1159-1163; A. DI MARIO, La definizione degli interventi edilizi spetta soltanto allo Stato, in Corriere merito, 2012, 5, 525-531; E. MITZMAN, La Corte costituzionale conferma i limiti della ristrutturazione edilizia mediante demolizione ricostruzione: le definizioni degli interventi edilizi come principi fondamentali della legislazione statale, tra governo del territorio e tutela del paesaggio nazionale, in Regioni, 2012, 1-2, 363-377; P. CERBO, La disciplina dei titoli edilizi fra (tanto) Stato e (sempre meno) Regioni, in Riv. giur. urbanistica, 2016, 4, 2, 92-108;
         vv6) sulla problematica del rapporto tra legge regionale e materia penale, V. POLI, Legge regionale e reati urbanistici, in I reati urbanistici nel testo unico dell’edilizia, Roma, 2007, 167 ss.;
         vv7) sulla disciplina introdotta dal d.l. n. 69 del 2013: A. DI MARIO, Standard urbanistici e distanze tra costruzioni tra stato e regioni dopo il «decreto del fare» in Urbanistica e appalti, 2013, 1121 ss.; A. SCONOCCHIA BIFANI, Deroghe alle distanze fra costruzioni alla luce del d.l. 21.06.2013, n. 69 in Riv. giur. edilizia 2014, 16;
         vv8) sulla disciplina del c.d. “piano casa” si veda in dottrina F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura di), Il piano casa – Commento organico all’Intesa Stato-Regioni del 31.03.2009 e a tutte le leggi regionali, Roma 2009 ed ivi, in particolare: R. GIANI, Conferenza Stato-Regioni ed enti locali- Intesa del 31.03.2009 (pp. 5 ss.) e M. RAGAZZO, Il piano casa del Veneto (pp. 173 ss.);
         vv9) sulle leggi di interpretazione autentica cfr. S. FOA’, Un conflitto di interpretazione tra corte costituzionale e corte europea dei diritti dell'uomo: leggi di interpretazione autentica e ragioni imperative di interesse generale in federalismi.it, 2011; G.U RESCIGNO, Leggi di interpretazione autentica, leggi retroattive e possibili ragioni della loro incostituzionalità in Giur. cost., 2012, 1072, G. AMOROSO, Leggi di interpretazione autentica e controllo di costituzionalità, Roma, 2017, pag. 152 (
Corte Costituzionale, sentenza 23.06.2020 n. 119 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Veneto - Norme di interpretazione autentica di disposizioni regionali a sostegno del settore edilizio - Previsioni da intendersi nel senso che consentono di derogare ai parametri edilizi di superficie, volume, altezza e distanza, anche dai confini, previsti dai regolamenti e dalle norme tecniche di attuazione di strumenti urbanistici e territoriali.
Norme impugnate: Art. 64 della legge Regione Veneto 30/12/2016, n. 30.
Dispositivo: non fondatezza.

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Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, la disciplina delle distanze, che ha la sua collocazione anzitutto nella Sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi, sicché non si può dubitare che tale disciplina, per quanto concerne i rapporti su indicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Nondimeno, si è altresì sottolineato che, poiché i fabbricati insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche–, specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici, la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni, perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio.
Pertanto, nel determinare il punto di equilibrio tra la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile ex art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e la potestà legislativa concorrente della Regione in materia di governo del territorio ex art. 117, terzo comma, Cost., questa Corte ha messo in luce come alle Regioni non sia precluso fissare distanze in deroga a quelle stabilite nelle normative statali, purché la deroga sia giustificata dal perseguimento di interessi pubblici ancorati all’esigenza di omogenea conformazione dell’assetto urbanistico di una determinata zona, non potendo la deroga stessa riguardare singole costruzioni, individualmente ed isolatamente considerate.
E tale delimitazione è stata recepita dal legislatore statale, il quale, con l’introduzione dell’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), da parte dell’art. 30, comma 1, lettera 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 09.08.2013, n. 98, ha sancito i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
...
La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici è stata, in conclusione, ritenuta legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche, che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario, ai sensi dell’art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968, disposizione, quest’ultima, che rappresenta la sintesi normativa del punto di equilibrio tra la competenza statale in materia di ordinamento civile e quella regionale in materia di governo del territorio.
...
Orbene, nel ribadirsi il richiamato orientamento, deve sottolinearsi come la previsione di una competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile (art. 117, comma secondo, lettera l, Cost.) in tanto si giustifica in quanto con la stessa si intende assicurare che i rapporti interprivati siano disciplinati nell’intero territorio della Repubblica secondo criteri di identità. Una simile esigenza, se è ravvisabile con riguardo alla disciplina delle distanze quale stabilita nelle norme statali (codice civile, d.m. n. 1444 del 1968 e d.P.R. n. 380 del 2001), certamente non può essere invocata con riferimento alle discipline locali, che, per quanto integrative del codice civile, sono destinate ad operare in ristretti ambiti territoriali. In effetti, esse trovano il loro fondamento proprio nell’autonomia degli enti locali in un contesto normativo nel quale ancora non erano state introdotte, con la Costituzione repubblicana, le autonomie regionali.
Una volta riconosciuta alle Regioni la competenza concorrente in materia di governo del territorio, deve infatti escludersi che esse incontrino il limite dell’ordinamento civile tutte le volte in cui, ferma la disciplina statale delle distanze, ad essere modificate per effetto di leggi regionali siano le disposizioni dei regolamenti comunali o delle norme tecniche, la cui finalità è proprio quella di adattare la disciplina a specifiche esigenze territoriali, ma certamente non quella, propria delle norme di ordinamento civile, di stabilire criteri uniformi sull’intero territorio nazionale nei rapporti tra privati.
Ne consegue che non può opporsi alla competenza regionale il limite dell’ordinamento civile quando oggetto di deroga siano –come per effetto della norma regionale ora in scrutinio– non le disposizioni statali sulle distanze, ma le norme integrative dei regolamenti locali.
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4.– Nel merito, le questioni sono infondate, in riferimento a tutti i parametri evocati.
4.1.– L’art. 64 della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, oggetto di censura, stabilisce al comma 1: «[l]e norme di deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali, provinciali e regionali di cui all’articolo 2, comma 1, e di prevalenza sulle norme dei regolamenti degli enti locali e sulle norme tecniche dei piani e regolamenti urbanistici di cui all’articolo 6, comma 1, della legge regionale 08.07.2009, n. 14 “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche” e successive modificazioni, devono intendersi nel senso che esse consentono di derogare ai parametri edilizi di superficie, volume, altezza e distanza, anche dai confini, previsti dai regolamenti e dalle norme tecniche di attuazione di strumenti urbanistici e territoriali, fermo restando quanto previsto all’articolo 9, comma 8, della medesima legge regionale 08.07.2009, n. 14 con esclusivo riferimento a disposizioni di emanazione statale».
Per effetto di questa interpretazione autentica, la clausola di inderogabilità delle distanze, posta dall’art. 9, comma 8, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009, secondo la quale «[s]ono fatte salve le disposizioni in materia di distanze previste dalla normativa statale vigente», è stata ristretta alla sua dizione letterale, precludendo l’interpretazione, infine affermatasi presso la giurisprudenza amministrativa, che ne aveva esteso la portata alle distanze di fonte comunale, in ragione del loro carattere integrativo rispetto alla disciplina del codice civile.
4.1.1.– La legge reg. Veneto n. 14 del 2009 costituisce attuazione dell’intesa «sull’atto concernente misure per il rilancio dell’economia attraverso l’attività edilizia» (cosiddetto “piano casa”), sancita tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata il 01.04.2009.
In coerenza con gli obiettivi dell’intesa, la legge regionale veneta per il “piano casa” persegue finalità generali di pubblico interesse, quali preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente, favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e delle fonti di energia rinnovabili, incentivare l’adeguamento sismico e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici esistenti, incentivare la demolizione e ricostruzione in area idonea di edifici esistenti che ricadono in aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica, favorire la rimozione e lo smaltimento della copertura in cemento amianto di edifici esistenti (art. 1, comma 1, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009).
Gli interventi edilizi di ampliamento in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti comunali sono consentiti solo in zona territoriale omogenea propria ed entro precisi limiti di volume e superficie rapportati all’esistente (art. 2); gli interventi di demolizione e ricostruzione, sempre contenuti in zona territoriale omogenea propria, sono funzionali all’adeguamento del patrimonio edilizio esistente agli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza (art. 3, comma 1); la prevalenza sulle norme dei regolamenti degli enti locali e sulle norme tecniche dei piani e regolamenti urbanistici è riferita al carattere straordinario delle disposizioni incentivanti della legge regionale (art. 6, comma 1).
In ultimo, queste sono state abrogate dall’art. 19 della legge della Regione Veneto 04.04.2019, n. 14 (Veneto 2050: politiche per la riqualificazione urbana e la rinaturalizzazione del territorio e modifiche alla legge regionale 23.04.2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”), ferma la loro perdurante applicazione, fatta salva dall’art. 17, comma 1, in riferimento agli interventi per i quali la segnalazione certificata di inizio lavori o la richiesta del permesso di costruire siano state presentate entro il 31.03.2019.
4.1.2.– L’impostazione originaria della legge reg. Veneto n. 14 del 2009 non aveva connotati rigidamente verticali, in quanto l’art. 9, comma 5, rimetteva ai Comuni di deliberare, «sulla base di specifiche valutazioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico ed ambientale, se o con quali ulteriori limiti e modalità» applicare le norme attuative del “piano casa”; ad ogni Comune era data, quindi, un’opzionale “riserva di tutela”, che ad esso consentiva di rendere inderogabili le proprie determinazioni regolamentari.
In occasione delle proroghe delle norme attuative del “piano casa”, questo regime opzionale è stato dapprima ristretto, con l’introduzione di una procedura simile a quella, operante tra pubblica amministrazione e privati, del silenzio-assenso (art. 8, commi 4 e 5, della legge della Regione Veneto 08.07.2011, n. 13, recante «Modifiche alla legge regionale 08.07.2009, n. 14 “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche” e successive modificazioni, alla legge regionale 23.04.2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio” e successive modificazioni e disposizioni in materia di autorizzazioni di impianti solari e fotovoltaici»), ed infine abrogato (art. 10, comma 9, della legge della Regione Veneto 29.11.2013, n. 32, recante «Nuove disposizioni per il sostegno e la riqualificazione del settore edilizio e modifica di leggi regionali in materia urbanistica ed edilizia»).
Le delibere comunali di attivazione della “riserva di tutela” assunte a norma dell’art. 9, comma 5, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009 hanno perduto effetto per previsione dell’art. 8, comma 2, della legge reg. Veneto n. 13 del 2011; successivamente, per previsione dell’art. 14, comma 2, della legge reg. Veneto n. 32 del 2013, hanno perduto effetto anche le delibere comunali di attivazione della “riserva di tutela” assunte a norma dell’art. 8, comma 4, della legge reg. Veneto n. 13 del 2011.
4.2.– Le deroghe alle distanze minime di fonte locale, consentite dalla norma regionale di interpretazione autentica oggetto di censura, attengono ad interventi di ampliamento e adeguamento di edifici già esistenti, situati in zona territoriale omogenea propria (artt. 2 e 3 della legge reg. Veneto n. 14 del 2009).
In tempi recenti, anche l’ordinamento statale, perseguendo obiettivi di riduzione del consumo di suolo e di rigenerazione del patrimonio edilizio esistente, ha differenziato il grado di cogenza delle distanze minime in base alla densità edificatoria della zona omogenea.
In particolare, l’art. 5, comma 1, lettera b-bis), del decreto-legge 18.04.2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici), convertito, con modificazioni, nella legge 14.06.2019, n. 55, ha stabilito che «[l]e disposizioni di cui all’articolo 9, commi secondo e terzo, del decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, si interpretano nel senso che i limiti di distanza tra i fabbricati ivi previsti si considerano riferiti esclusivamente alle zone di cui al primo comma, numero 3), dello stesso articolo 9», e quindi alle sole zone omogenee destinate a nuova edificazione («zone C»), non anche alle zone totalmente o parzialmente edificate («zone B»).
4.3.– Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, la disciplina delle distanze, che ha la sua collocazione anzitutto nella Sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi, sicché non si può dubitare che tale disciplina, per quanto concerne i rapporti su indicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 41 del 2017, n. 6 del 2013 e n. 232 del 2005).
Nondimeno, si è altresì sottolineato che, poiché i fabbricati insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche–, specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici, la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni, perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio (sentenze n. 41 del 2017, n. 134 del 2014, n. 6 del 2013 e n. 232 del 2005).
4.4.– Pertanto, nel determinare il punto di equilibrio tra la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile ex art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e la potestà legislativa concorrente della Regione in materia di governo del territorio ex art. 117, terzo comma, Cost., questa Corte ha messo in luce come alle Regioni non sia precluso fissare distanze in deroga a quelle stabilite nelle normative statali, purché la deroga sia giustificata dal perseguimento di interessi pubblici ancorati all’esigenza di omogenea conformazione dell’assetto urbanistico di una determinata zona, non potendo la deroga stessa riguardare singole costruzioni, individualmente ed isolatamente considerate (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2020, n. 50 e n. 41 del 2017, n. 134 del 2014 e n. 6 del 2013).
E tale delimitazione è stata recepita dal legislatore statale, il quale, con l’introduzione dell’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), da parte dell’art. 30, comma 1, lettera 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 09.08.2013, n. 98, ha sancito i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (ex multis, sentenze n. 50 e n. 41 del 2017, n. 231, n. 185 e n. 178 del 2016, e n. 134 del 2014).
4.5.– La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici è stata, in conclusione, ritenuta legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche, che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario, ai sensi dell’art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968, disposizione, quest’ultima, che rappresenta la sintesi normativa del punto di equilibrio tra la competenza statale in materia di ordinamento civile e quella regionale in materia di governo del territorio (tra le tante, sentenze n. 13 del 2020, n. 50 e n. 41 del 2017, n. 185 e n. 178 del 2016, n. 134 del 2014 e n. 6 del 2013).
5.– Orbene, nel ribadirsi il richiamato orientamento, deve sottolinearsi come la previsione di una competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile (art. 117, comma secondo, lettera l, Cost.) in tanto si giustifica in quanto con la stessa si intende assicurare che i rapporti interprivati siano disciplinati nell’intero territorio della Repubblica secondo criteri di identità. Una simile esigenza, se è ravvisabile con riguardo alla disciplina delle distanze quale stabilita nelle norme statali (codice civile, d.m. n. 1444 del 1968 e d.P.R. n. 380 del 2001), certamente non può essere invocata con riferimento alle discipline locali, che, per quanto integrative del codice civile, sono destinate ad operare in ristretti ambiti territoriali. In effetti, esse trovano il loro fondamento proprio nell’autonomia degli enti locali in un contesto normativo nel quale ancora non erano state introdotte, con la Costituzione repubblicana, le autonomie regionali.
Una volta riconosciuta alle Regioni la competenza concorrente in materia di governo del territorio, deve infatti escludersi che esse incontrino il limite dell’ordinamento civile tutte le volte in cui, ferma la disciplina statale delle distanze, ad essere modificate per effetto di leggi regionali siano le disposizioni dei regolamenti comunali o delle norme tecniche, la cui finalità è proprio quella di adattare la disciplina a specifiche esigenze territoriali, ma certamente non quella, propria delle norme di ordinamento civile, di stabilire criteri uniformi sull’intero territorio nazionale nei rapporti tra privati.
Ne consegue che non può opporsi alla competenza regionale il limite dell’ordinamento civile quando oggetto di deroga siano –come per effetto della norma regionale ora in scrutinio– non le disposizioni statali sulle distanze, ma le norme integrative dei regolamenti locali.
Nel caso in esame, pertanto, la valutazione di legittimità dell’intervento legislativo regionale non va compiuta in riferimento al limite dell’ordinamento civile, in quanto si sposta, come si vedrà, sul piano del rapporto tra potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio e autonomia degli enti locali.
6.– Tanto premesso, deve ritenersi che le previsioni in tema di distanze contenute nella disposizione censurata non ledano la materia di riserva statale: tale disposizione, infatti, nel fornire l’interpretazione autentica dell’art. 9, comma 8, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009, si è limitata, in ragione della forte oscillazione giurisprudenziale, a chiarire i margini di derogabilità delle distanze disposte dagli enti locali, in funzione degli interventi straordinari di rigenerazione del territorio edificato, senza tuttavia incidere sulle distanze di fonte statale.
La disposizione censurata, riferendosi alle misure previste dalla legge reg. Veneto n. 14 del 2009, mira a consentire, secondo l’impianto originale della legge stessa, gli interventi di rivitalizzazione del patrimonio edilizio esistente, e cioè a realizzare un obiettivo generale di interesse pubblico, perseguito con disposizioni incentivanti di carattere straordinario, limitate nel tempo e operanti per zone territoriali omogenee.
D’altra parte, come già rilevato, anche nella legislazione statale si è registrato un allentamento del regime delle distanze nelle zone omogenee totalmente o parzialmente edificate, al medesimo fine di perseguire obiettivi di rigenerazione del patrimonio edilizio esistente, fattore primario in una strategia di riduzione del consumo di suolo.
In raffronto a siffatta evoluzione dell’ordinamento statale, la norma regionale di interpretazione autentica qui censurata si rivela ancor più conservativa, poiché tiene per assolutamente cogenti le distanze minime di fonte statale –quindi i tre metri tra costruzioni ex art. 873 cod. civ. e i dieci metri tra pareti finestrate ex art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968–, mentre consente la deroga unicamente per le eventuali maggiori distanze di fonte comunale (nella specie, i cinque metri dal confine prescritti dalle norme tecniche del Comune di Altavilla Vicentina).
Nella normativa regionale autenticamente interpretata, che attiene alla materia del governo del territorio, non è dato riscontrare alcuna violazione della competenza statale in materia di ordinamento civile, e quindi alcuna violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
7.– La correlazione alla materia del governo del territorio, come legittima la norma regionale di deroga alle distanze nel rapporto con la competenza esclusiva statale nella materia dell’ordinamento civile, così la legittima nel rapporto con le funzioni comunali di pianificazione territoriale.
Oltre a non violare l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. riguardo all’esclusiva potestà legislativa dello Stato in materia civilistica, l’art. 64 della legge reg. Veneto n. 30 del 2016 pertanto neppure viola gli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118 Cost. riguardo all’autonomia regolamentare dei Comuni in materia pianificatoria.
7.1.– Nel nostro ordinamento, la funzione di pianificazione urbanistica è tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni, fin dalla legge 25.06.1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), né lo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario e la necessità di una pianificazione territoriale sovracomunale hanno travolto questo impianto fondamentale, pur tuttavia assoggettandolo a ineludibili esigenze di coordinamento tra differenti livelli ed istanze.
Nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma 27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 06.07. 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135).
Il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014).
Ciò non può non valere anche in tema di distanze degli edifici, nei limiti in cui la disciplina regionale delle stesse possa rientrare nella materia di legislazione concorrente del governo del territorio ex art. 117, terzo comma, Cost., in quanto una differente interpretazione equivarrebbe a cristallizzare l’art. 873 cod. civ. ad una fase pre-costituzionale.
Nell’articolazione dei vari livelli, dunque, il giudizio di costituzionalità della legge regionale «non riguarda […], in via astratta, la legittimità dell’intervento del legislatore, ma, piuttosto, la verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali» (sentenza n. 286 del 1997).
La dialettica istituzionale sottesa al principio di sussidiarietà verticale, come sancito nell’art. 118 Cost., induce pertanto questa Corte a valutare, nell’ambito della funzione pianificatoria riconosciuta come funzione fondamentale dei Comuni, «quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone», inteso che «[i]l giudizio di proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti» (sentenza n. 179 del 2019).
Proprio tale giudizio, così dinamicamente inteso, consente di verificare se, per effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.
7.2.– In questo senso, assume rilievo la circostanza che le deroghe alle distanze di fonte comunale siano rapportate dalla norma regionale, come autenticamente interpretata, a interventi quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti, poiché, come già visto, gli interventi agevolati dalla legge veneta per il “piano casa” possono svolgersi unicamente con precisi limiti oggettivi, soltanto sugli edifici esistenti e nell’arco della durata del “piano” (peraltro ormai esaurita alla data del 31.03.2019 per effetto dell’abrogazione disposta dalla legge reg. Veneto n. 14 del 2019).
In particolare, giova ribadire che la legge reg. Veneto n. 14 del 2009 aveva le seguenti finalità, enunciate all’art. 1: «miglioramento della qualità abitativa per preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente» nonché «favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e delle fonti di energia rinnovabili» (lettera a); «incentivare l’adeguamento sismico e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici esistenti» (lettera b); «incentivare la demolizione e ricostruzione in area idonea di edifici esistenti che ricadono in aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica» (lettera c); «favorire la rimozione e lo smaltimento della copertura in cemento amianto di edifici esistenti» (lettera d).
Oggetto del “piano casa” erano, dunque, solo gli edifici esistenti, e gli interventi ampliativi sono stati consentiti solo «nei limiti del 20 per cento del volume o della superficie» (art. 2, comma 1, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009). Nessuna deroga è stata quindi consentita per le nuove costruzioni, in relazione alle quali, dunque, le distanze stabilite dai regolamenti locali hanno continuato a trovare applicazione.
Rilevano, inoltre, le ipotesi oggettive di esclusione degli interventi in deroga. L’art. 9, comma 1, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009 non consentiva, o consentiva solo a condizioni ed entro limiti ancora più stringenti, gli interventi in deroga per gli edifici ricadenti nei centri storici, soggetti a vincolo o a tutela urbanistica, ricadenti nelle aree di inedificabilità assoluta, anche solo parzialmente abusivi; per gli edifici commerciali, l’intervento sui quali fosse volto ad eludere o derogare le disposizioni regionali in materia di commercio; nonché per gli immobili inedificabili perché ricadenti in aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica.
Né è senza significato il fatto, sopra evidenziato, che la disposizione qui censurata rechi l’interpretazione autentica di una norma regionale la quale, nella versione originaria, riconosceva ad ogni Comune una “riserva di tutela”, attivabile mediante una delibera di sottrazione, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa derogatoria sul “piano-casa”; da ciò discende che, ove mai una spoliazione di autonomia vi fosse stata in danno dei Comuni, essa non sarebbe stata prodotta dalla norma di interpretazione autentica oggi denunciata, ma semmai dalle norme che hanno abrogato il regime opzionale e privato di effetto le pregresse delibere comunali di attivazione della “riserva di tutela” (rispettivamente, art. 10, comma 9, ed art. 14, comma 2, della legge reg. Veneto n. 32 del 2013), norme viceversa non censurate.
Peraltro, è appena il caso di osservare che l’ordinanza di rimessione è del tutto silente circa le scelte compiute dal Comune di Altavilla Vicentina a fronte della possibilità di attivare la “riserva di tutela”, originariamente prevista dall’art. 9, comma 5, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009, poi modificata dall’art. 8, commi 4 e 5, della legge reg. Veneto n. 13 del 2011, e infine abrogata dall’art. 10, comma 9, della legge reg. Veneto n. 32 del 2013.
Del pari significativa è la circostanza che la stessa legge reg. Veneto n. 30 del 2016, con l’art. 63, comma 1, abbia aggiunto l’art. 11-ter della legge reg. Veneto n. 11 del 2004, ove è previsto il ricorso a una conferenza di servizi tra gli enti interessati per il coordinamento degli strumenti di pianificazione incidenti sul governo del territorio.
Si può quindi affermare che, nel consentire interventi in deroga agli strumenti urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale veneto, in attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata il 01.04.2009, ha compiuto una ponderazione degli interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la limitazione dell’entità degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune componenti del patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge regionale censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto consentendo, altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre i propri strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle deroghe ammesse dalla medesima legge regionale. Resta, invece, priva di rilievo nel presente giudizio la vicenda normativa che ha portato al venir meno della “riserva di tutela” concessa ai Comuni veneti, sia perché tale vicenda non è stata censurata dal rimettente, sia e soprattutto perché il medesimo rimettente ha omesso di precisare quale sia stata la specifica posizione tenuta al riguardo dal Comune di Altavilla Vicentina.
Nelle delicate verifiche di funzionamento del principio di sussidiarietà verticale tra l’autonomia comunale e quella regionale, il giudizio di proporzionalità deve traguardare i singoli assetti normativi, nel loro peculiare e mutevole equilibrio, sicché non appare difforme dall’odierna conclusione quanto da questa Corte deciso con la sentenza n. 179 del 2019, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di un divieto regionale di ius variandi in relazione ai contenuti edificatori del documento di piano, divieto la cui durata indefinita, carenza di profili interlocutivi e assolutezza finanche contraddittoria con gli obiettivi posti in sede regionale evidenziavano –a differenza della fattispecie ora in esame– un sacrificio sproporzionato della potestà comunale.
7.3.– La norma regionale oggi in scrutinio –e si intende l’interpretazione autentica da essa recata– supera, dunque, la verifica di proporzionalità, in aderenza col principio di sussidiarietà verticale, poiché gli interventi in deroga che la norma stessa consente, da un lato, soddisfano interessi pubblici di dimensione sovracomunale e, dall’altro, per i già segnalati limiti quantitativi, qualitativi e temporali, non comprimono l’autonomia comunale oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità.
8.– La denuncia di violazione dell’art. 3 Cost., infine, non esprime reali margini di autonomia e si dimostra piuttosto “ancillare” rispetto alle altre censure, sì da condividerne la sorte di dichiarata infondatezza (sentenze n. 212 del 2019 e n. 46 del 2014).
8.1.– Premesso che non è oggetto di specifica censura la scelta del legislatore regionale di intervenire con una norma di interpretazione autentica –il che esime questa Corte dalla necessità di ripercorrere i propri orientamenti sulle leggi regionali di interpretazione autentica–, e ricordato che la disposta interpretazione trovava comunque giustificazione nel succedersi di indirizzi giurisprudenziali contrastanti, la natura “ancillare” della denuncia ex art. 3 Cost. è palesata dalla sua circolarità col tema del fondamento normativo dell’intervento edilizio in deroga, poiché, una volta che tale intervento sia risultato provvisto di valida base normativa, gli effetti della prevenzione, raffigurati dal rimettente come irragionevoli e discriminatori, si rivelano fisiologica conseguenza della priorità temporale della costruzione, criterio al quale si informa, con i necessari temperamenti, il sistema del codice civile sui distacchi tra i fabbricati.
Peraltro, lo stesso richiamo all’istituto della prevenzione da parte del giudice a quo non è del tutto pertinente, atteso che quello della priorità temporale è un criterio dinamico regolativo dell’attività di nuova edificazione, mentre gli interventi ai quali si riferisce la norma oggi censurata riguardano soltanto –come più volte notato– edifici già esistenti.
9.– Previa declaratoria di inammissibilità degli interventi indicati al punto 2, alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni devono essere dichiarate non fondate in riferimento a tutti i parametri evocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
   1) dichiara inammissibili gli interventi spiegati dall’Anci Veneto-Associazione regionale dei Comuni del Veneto, dall’Ance Veneto-Associazione regionale dei costruttori edili del Veneto e da M. B. P.;
   2)
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64 della legge della Regione Veneto 30.12.2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 114, secondo comma, 117, commi secondo, lettera l), e sesto, e 118 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con l’ordinanza indicata in epigrafe (Corte Costituzionale, sentenza 23.06.2020 n. 119).

EDILIZIA PRIVATALa documentazione in atti conferma che la parete dell’abitazione di proprietà della ricorrente, interessata dalla sopraelevazione, e quella dell’abitazione frontistante sono fra loro in posizione ortogonale, formando un angolo retto.
Tanto basta ad evidenziare la carenza del presupposto fattuale da cui muove il provvedimento impugnato, vale a dire l’esistenza di due pareti “antistanti”, tali essendo le pareti che si fronteggiano, non necessariamente con andamento parallelo, ma a condizione che l'avanzamento dell’una o dell’altra porti al loro incontro, sia pure per un segmento limitato.
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1. La signora Fr.Pa. espone di essere proprietaria di una porzione dell’edificio residenziale ubicato in Signa, alla via ... 36, sottoposta a lavori di ampliamento volumetrico mediante sopraelevazione assentiti con permesso di costruire del 04.08.2008 e portati a termine nella prima metà del 2011.
Con l’ordinanza n. 114 del 27.07.2011, in epigrafe, il Comune di Signa ha ingiunto la demolizione dell’ampliamento, sul presupposto che esso non rispetterebbe la distanza minima di dieci metri dalla parete finestrata dell’abitazione confinante, di proprietà di certo signor Al.Lo.. La preesistenza di tale parete sarebbe stata nascosta dall’odierna ricorrente negli elaborati a suo tempo presentati a corredo dell’istanza di rilascio del permesso di costruire.
Il provvedimento è impugnato dalla signora Pa., la quale ne chiede l’annullamento sulla scorta di quattro motivi in diritto.
...
Con il quarto motivo, infine, ipotizzando che il Comune abbia inteso fare applicazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, ovvero dell’art. 34 del regolamento urbanistico comunale, la ricorrente nega che l’intervento da lei realizzato comporti la violazione della distanza di dieci metri dalla parete dell’abitazione di proprietà Lo., trattandosi di corpi di fabbrica posti ad angolo retto e non frontistanti.
3.1. Con la memoria di replica ex art. 73 c.p.a. e con le note depositate in vista dell’udienza, la ricorrente ha peraltro chiesto un differimento della decisione, funzionale alla proposizione di motivi aggiunti occasionati dalle difese avversarie.
Il rinvio può non essere concesso, giacché il ricorso è manifestamente fondato in ordine alle censure dedotte con il quarto motivo.
La documentazione in atti conferma che la parete dell’abitazione di proprietà della ricorrente, interessata dalla sopraelevazione, e quella dell’abitazione di proprietà Lo. sono fra loro in posizione ortogonale, formando un angolo retto.
Tanto basta ad evidenziare la carenza del presupposto fattuale da cui muove il provvedimento impugnato, vale a dire l’esistenza di due pareti “antistanti”, tali essendo le pareti che si fronteggiano, non necessariamente con andamento parallelo, ma a condizione che l'avanzamento dell’una o dell’altra porti al loro incontro, sia pure per un segmento limitato (da ultimo, cfr. Cass. civ., sez. II, 01.10.2019, n. 24471).
Detta condizione non si verifica nel caso in esame, neppure per un breve tratto di parete, né può sostenersi che costituisca un segmento di parete la modestissima sporgenza presente sul muro di proprietà della ricorrente, palesemente inidonea a determinare la formazione di un’intercapedine e perciò irrilevante ai fini di tutela cui presiede la disciplina sulla distanze invocata dal Comune.
3.2. Il conclamato errore sul presupposto vizia radicalmente il provvedimento impugnato e giustifica l’accoglimento del ricorso sulla base della “ragione più liquida”, con assorbimento dei rimanenti motivi di gravame (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 18.06.2020 n. 762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La previsione del limite inderogabile di distanza di 10 mt. tra fabbricati riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopraelevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.
Secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la disposizione contenuta nell’art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 sulla distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tuttavia, la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda «nuovi edifici», intendendosi per tali gli edifici «costruiti per la prima volta» e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies, della legge 17.08.1942 n. 1150, «i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi» (quelli di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti «ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti».
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la «nuova» pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze «non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti».
Difatti, il discrimen in tema di distanze, nella ratio dell'art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe che da un lato, l'immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non arretrando rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del decreto ministeriale n. 1444 del 1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all'ultimo comma dello stesso art. 9, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio plano volumetrico. Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull'esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non coerente applicazione dell'art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
In definitiva, la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopraelevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.
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7.‒ L’appello è fondato.
Le risultanze dell’istruttoria disposta dal Collegio hanno infatti consentito di appurare il difetto di istruttoria in cui è incorsa l’Amministrazione e l’insussistenza delle presunte difformità contestate con i provvedimenti impugnati in primo grado. Il CTU, al termine di una approfondita fase di indagine, condotta in contraddittorio con i consulenti tecnici delle parti, ha rassegnato conclusioni ampiamente motivate e riscontrate dalla documentazione probatoria in atti e da quella ulteriore acquisita presso il Comune di San Felice Circeo.
8.‒ In punto di fatto, è emerso che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Amministrazione, non vi è stata alcuna traslazione (verso il confine di proprietà della contro-interessata) della zona di sedime del fabbricato attuale rispetto a quella del fabbricato preesistente ai lavori di demolizione e ricostruzione.
Gli elaborati aerofotogrammetrici esaminati confermano infatti che l’ubicazione attuale del corpo di fabbrica dell’abitazione dell’appellante insistente sulla particella 488, è la medesima di quella precedente ‒come descritta nel progetto allegato alla prima e originaria pratica edificatoria, di cui alla licenza edilizia n. 1038 del 1962‒, con una tolleranza di appena 40 cm.
I rilievi aerofotogrammetrici presi in considerazione dal CTU sono «sia quelli prodotti dalla Società SA.NI. su sollecitazione della Signora Fe.Li., ricavati da foto aeree del 04.06.2002, quindi antecedenti al rilascio del permesso di costruire n. 1351 del 2011, ed ai successivi lavori delle opere di demolizione e ricostruzione, sia quelli prodotti dallo stesso Comune di San Felice Circeo, con la ripresa aerea del 24.01.2004». Va dunque respinta l’eccezione della controinteressata secondo cui il CTU avrebbe fondato la sua risposta solo sulla base della perizia di Sa.Ni..
8.1.‒ In punto di diritto, le disposizioni sulle distanze legali a cui il Comune avrebbe dovuto far riferimento per accertare la legittimità delle opere erano quelle vigenti al momento della costruzione dell’edificio preesistente, nel 1962.
Va premesso che, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sentenze 14.09.2017, n. 4337; 23.06.2017, n. 3093; 08.05.2017, n. 2086; 29.02.2016, n. 856), la disposizione contenuta nell’art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 sulla distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tuttavia, la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda «nuovi edifici», intendendosi per tali gli edifici «costruiti per la prima volta» e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies, della legge 17.08.1942 n. 1150, «i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi» (quelli di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti «ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti». Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la «nuova» pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze «non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti».
Difatti, il discrimen in tema di distanze, nella ratio dell'art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe che da un lato, l'immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non arretrando rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del decreto ministeriale n. 1444 del 1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all'ultimo comma dello stesso art. 9, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio plano volumetrico. Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull'esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non coerente applicazione dell'art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
In definitiva, la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopraelevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.
Su queste basi, la circostanza che il permesso di costruire n. 1351 del 2011 avesse previsto distanze maggiori da quelle preesistenti non rileva, in quanto l’intervento concretamente realizzato è stata la demolizione e fedele ricostruzione di edificio preesistente: le distanze riportate nell’elaborato grafico al permesso di costruire n. 1351 del 2011 avrebbero avuto valore precettivo soltanto nell’ipotesi di nuova costruzione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.06.2020 n. 3710 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza di dieci metri tra edifici antistanti.
La disposizione contenuta nell’art. 9 del d.min. n. 1444 del 1968 sulla distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
Tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.06.2020 n. 3710 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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8.1.‒ In punto di diritto, le disposizioni sulle distanze legali a cui il Comune avrebbe dovuto far riferimento per accertare la legittimità delle opere erano quelle vigenti al momento della costruzione dell’edificio preesistente, nel 1962.
Va premesso che, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sentenze 14.09.2017, n. 4337; 23.06.2017, n. 3093; 08.05.2017, n. 2086; 29.02.2016, n. 856), la disposizione contenuta nell’art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 sulla distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tuttavia, la disposizione dell’art. 9, n. 2, D.M. n. 1444 riguarda «nuovi edifici», intendendosi per tali gli edifici «costruiti per la prima volta» e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies, della legge 17.08.1942 n. 1150, «i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi» (quelli di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti «ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti». Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la «nuova» pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze «non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti».
Difatti, il discrimen in tema di distanze, nella ratio dell'art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe che da un lato, l'immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non arretrando rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del decreto ministeriale n. 1444 del 1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all'ultimo comma dello stesso art. 9, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio plano volumetrico. Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull'esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non coerente applicazione dell'art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
In definitiva, la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopra elevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.

EDILIZIA PRIVATA: Violazione delle distanze tra gli edifici.
Accertata la violazione delle distanze tra edifici, in luogo della demolizione totale di un manufatto è da preferire, laddove possibile, la soluzione della modificazione dello stesso tale da eliminarne i vizi, nell’ottica del rispetto prioritario della legge ma anche del contemperamento delle esigenze di entrambe le parti (TRIBUNALE di Livorno, sentenza 10.06.2020 n. 413 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

maggio 2020

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIn giurisprudenza è pacifico il principio secondo il quale il regime delle distanze valido per le nuove costruzioni debba essere rispettato anche per le sopraelevazioni.
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto nel parere pro veritate, si ricade nell’ipotesi regolata dal n. 2) del primo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968. Tale disposizione stabilisce che per i “nuovi edifici ricadenti in altre zone [diverse dalle zone A e C]: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
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La giurisprudenza ha precisato che:
   a) l’art. 9 del D.M. del 1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi;
   b) l'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata.
Pertanto, ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, bensì dal comma 1 dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
Ne discende che la deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici deve ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario.

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L
a giurisprudenza ha affermato che dal primo comma dell’art. 17 legge n. 1150/1942 debbono trarsi i seguenti principi:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 del codice civile);
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   c) col decorso del termine ‒di dieci anni‒ diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con quelle del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità, perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l’assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito.

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Il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto.
Oggetto della presente controversia è il permesso di costruire rilasciato al controinteressato per realizzare una mansarda sul fabbricato esistente.
Fondate e assorbenti le censure con le quali parte ricorrente deduce la carenza dei presupposti per rilasciare il titolo edilizio al controinteressato.
In punto di fatto non è contestato tra le parti che il fabbricato della ricorrente e quello del controinteressato si fronteggiano; che le relative pareti sono entrambe finestrate e che la distanza intercorrente tra di loro è di circa 6,7 metri,
Inoltre è pacifico che la sopraelevazione dell’immobile comporta un incremento della volumetria esistente.
In un primo momento il Comune aveva comunicato ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 al controinteressato la non accoglibilità della sua domanda di permesso di costruire per violazione della distanza legale di 10 metri stabilita dall’art. 9, primo comma, punto 2) del D.M. n. 1444 del 1968 e per la non applicabilità delle disposizioni di cui al Piano casa (l.r. n. 19/2009) sia in relazione alle distanze sia alla volumetria; inoltre, si evidenziava nel preavviso di rigetto che il “piano particolareggiato delle zone Br è scaduto e quindi non applicabile la normativa del piano stesso a cui si fa riferimento nell’istanza per la maggiore volumetria”.
Ciò, nondimeno, a seguito dell’acquisizione da parte del Comune di Pannarano di un parere pro veritate (richiamato nel permesso di costruire rilasciato) si sostiene che nella fattispecie si tratterebbe di un intervento su edifici preesistenti (quindi ricadenti nella fattispecie di cui al n. 1 del primo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968) e si afferma l’ultrattività del piano particolareggiato (quest’ultimo stabilisce una distanza minima di 6 metri).
Al riguardo, nel parere si richiama, per un verso, l’art. 9, comma 2 del citato D.M. che consente deroghe al limite di 10 metri in presenza di “gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati” e, per altro verso, l’art. 17 della legge n. 1140/1942 il quale prevede che il piano particolareggiato anche scaduto conserva efficacia quanto all’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso; da tale punto di vista soccorrerebbero anche le disposizioni del c.d. Piano casa (l.r. n. 19/2009) a mente delle quali per gli interventi di demolizione e ricostruzione è consentito “mantenere le distanze già esistenti”.
Dal combinato disposto di tutte le norme citate si ricaverebbe la possibilità di effettuare la sopraelevazione proposta dal controinteressato.
Il Collegio non è del medesimo avviso.
E’ bene sin da subito precisare due punti.
Il primo, è che in giurisprudenza è pacifico il principio secondo il quale il regime delle distanze valido per le nuove costruzioni debba essere rispettato anche per le sopraelevazioni (cfr. tra le tante C.d.S. n. 5863/2017).
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto nel parere pro veritate, si ricade nell’ipotesi regolata dal n. 2) del primo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968. Tale disposizione stabilisce che per i “nuovi edifici ricadenti in altre zone [diverse dalle zone A e C]: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
Il secondo punto da chiarire, è che la norma del Piano casa citata nel parere (art. 5, comma 8, della l.r.c. n. 19/2009) è inconferente in quanto consente interventi straordinari di demolizione e ricostruzione mantenendo le distanze già esistenti solo “a parità di volume”. E’ evidente che il caso qui in esame è diverso in quanto vi è un incremento dei volumi e per tali tipi di interventi, come meglio si dirà in prosieguo, il Piano casa impone il rispetto delle distanze minime stabilite dal D.M. 02.04.1968, n. 1444.
La legittimità dell’intervento di sopraelevazione proposto dal controinteressato (e che si realizzerebbe ad una distanza inferiore ai 10 metri) viene giustificata sulla scorta del combinato disposto di due diverse norme:
   a) il secondo comma dell’art. 9 che ammette “distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”;
   b) l’art. 17 della legge n. 1140/1942 il quale stabilisce che “decorso il termine stabilito per la esecuzione del piano particolareggiato questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
Poiché nella fattispecie il piano particolareggiato stabilisce (per la zona che qui interessa) una distanza inferiore ai 10 metri l’intervento edilizio sarebbe ammissibile.
A tali argomentazioni deve contrapporsi la giurisprudenza che nell’interpretare le norme sopra richiamate ha precisato che:
   a) l’art. 9 del D.M. del 1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (cfr. Cass. civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108; Cons. Stato, Sez. V, 19.10.1999 n. 1565; Cass. civ., Sez. II, 03.10.2018 n. 24076); conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. Cass., Sez. II, 16.08.1993 n. 8725 e 07.06.1993 n. 6360) (cfr. C.d.S. n. 3367/2019);
   b) l'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (cfr. Cass. 07/11/2017, n. 26354).
Pertanto, ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, bensì dal comma 1 dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
Ne discende che la deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici deve ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (cfr. C.d. S. n. 1431/2019).
Non è l’ipotesi che ricorre nel caso di specie in quanto si tratta di realizzare un isolato intervento edilizio su un immobile per il quale non risulta in alcun modo dimostrato il suo inserimento all’interno di un gruppo di edifici che concretizzano un disegno unitario (dagli atti di causa non si rinviene alcun elemento che deponga in tal senso).
Peraltro e, ove non bastasse, vanno considerate le disposizioni delle NTA del PRG citate dalla ricorrente. Segnatamente, per la zona Br3 del PRG del Comune l’art. 13 delle NTA prevede che “sugli edifici esistenti, in assenza di Piani Particolareggiati sono consentite le operazioni di manutenzione ordinaria e straordinaria e di ristrutturazione nel rispetto delle volumetrie preesistenti”. In sostanza nella zona di cui è causa è possibile effettuare nuove edificazioni solo in presenza del piano particolareggiato.
E’ evidente che l’ultrattività del piano può valere solo quanto all’obbligo “…di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”, fermo restando che la possibilità di effettuare ulteriori costruzioni deve essere vagliata alla luce e in coerenza con le previsioni del PRG che nel caso in esame non consentono incrementi volumetrici in assenza del piano particolareggiato. Come evidenziato dalla difesa della ricorrente in conseguenza dell’inefficacia del piano particolareggiato si applicano le norme del PRG (oltre, ovviamente, ai vincoli conformativi per quanto riguarda gli allineamenti e le prescrizioni di zona del piano particolareggiato che hanno efficacia ultrattiva se riguardano, come sopra precisato, un gruppo di edifici).
Tale lettura appare coerente con la giurisprudenza che ha affermato (ex plurimis, Sez. IV, 04.12.2007, n. 6170) che dal primo comma dell’art. 17 cit., debbono trarsi i seguenti principi:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 del codice civile);
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   c) col decorso del termine ‒di dieci anni‒ diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con quelle del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità, perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l’assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito.
Ciò posto, se è vero che il PRG del Comune di Pannarano vieta incrementi volumetrici nella zona in cui ricade il manufatto, è anche vero che il Piano casa invocato dal controinteressato in astratto li ammette regolando ipotesi di interventi edilizi in deroga agli strumenti urbanistici.
Tuttavia, la legge regionale n. 19/2009 consente “interventi straordinari di ampliamento” (art. 4) e di demolizione e ricostruzione (con ampliamento) (art. 5) solo a condizione che vengano rispettate le distanze minime tra fabbricati di cui al D.M. n. 1444/1968 (cfr. art. 4, comma 2, lett. c) e art. 5, comma 2, lett. c), caso che qui non ricorre in quanto la distanza tra i due edifici è di soli 6,7 metri. La possibilità di edificare mantenendo le distanze già esistenti è, infatti, prevista solo (art. 5, comma 8) per gli interventi straordinari di demolizione e ricostruzione purché eseguiti “a parità di volume” (evenienza che, ancora una volta, non ricorre nel caso in esame).
In conclusione, come fondatamente dedotto dalla ricorrente il permesso di costruire è stato illegittimamente rilasciato.
Da quanto precede, assorbita ogni altra questione, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto il provvedimento impugnato deve essere annullato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.05.2020 n. 2039 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2020

EDILIZIA PRIVATA: Azione per violazione delle distanze tra edifici e onere probatorio.
In tema di violazione delle distanze tra edifici l’attore deve dimostrare oltre alla violazione della distanza secondo i regolamenti locali anche che il titolare dell’azione aveva acquistato anteriormente l’immobile e con esso il diritto alla veduta (nel caso di specie, il ricorrente aveva fatto un vago cenno alla presunta violazione dei diritti di affaccio e di veduta ma nel corso dell’istruttoria l’attenzione era stata focalizzata solo sulla presunta violazione delle distanze legali tra costruzioni che non era stata provata) (TRIBUNALE di Grosseto, sentenza 28.03.2020 n. 291 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Violazione distanze tra edifici: il risarcimento del danno.
Il risarcimento del danno conseguente alla violazione delle distanze tra edifici è in re ipsa e non è necessario provarlo. (Nel caso di specie si trattava di una veranda che ampliava ed estendeva la consistenza del fabbricato) (TRIBUNALE di Grosseto, sentenza 21.03.2020 n. 272 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: discipline applicabili e limiti di derogabilità.
In tema di distanze tra edifici le norme attinenti al piano regolatore generale e dalle norme tecniche di attuazione possono essere invocate seppure abbiano natura integrativa a quanto disposto dal codice civile mentre le disposizioni previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968 possono essere derogate solo dalla legge (nel caso di specie, si trattava di un intervento di recupero di un sottotetto ove non erano stati rispettati i limiti previsti per le distanze tra le costruzioni ex art. 9 D.M. 1444/1968) (TRIBUNALE di Pavia, Sez. III, sentenza 12.03.2020 n. 365 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

gennaio 2020

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici ed elementi accessori.
Nelle distanze tra edifici, non possono considerarsi i montanti di una tettoia/pergolato in quanto rientrano nella categoria degli sporti e non computabili ai fini delle distanze. Trattasi di elementi con funzione accessoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.01.2020 n. 117 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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3. Anche il secondo motivo è infondato.
In merito, assorbite le questioni relative alla qualificazione della tettoia/pergolato come costruzione, deve ritenersi che i ricorrenti non abbiano dato sufficiente prova delle violazione delle distanze.
Come chiarito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5557) la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati rispetto ai quali si denuncia la violazione delle distanze e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela. E’ chiaro quindi che occorre considerare come punto di riferimento, secondo quanto correttamente affermato dal Comune, la linea esterna della parete ideale della tettoia/pergolato (interna al terrazzo) e non il limite esterno del terrazzo stesso, trattandosi di verificare le distanze dalla tettoia/pergolato e non dal terrazzo.
Né a tal fine possono valere i montanti della tettoia/pergolato in quanto essi rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, trattandosi di elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili) (in tal senso Corte di Cassazione, Sez. II civile, 19.01.2018 n. 1365).
Va poi considerato che, se è pur vero che il processo amministrativo secondo il tradizionale modello impugnatorio è retto, dal punto di vista istruttorio, dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, ciò non può essere inteso nel senso che la parte ricorrente, la quale si dolga di un atto dell’Autorità, possa limitarsi alla mera contestazione dei presupposti di fatto e di diritto sui quali si è radicata l’azione amministrativa e attendere che sia il giudice ad acquisire il materiale probatorio necessario al giudizio, dovendo essa, invece, offrire –a sostegno della pretesa azionata in giudizio– adeguati riscontri probatori quantomeno rispetto agli elementi dei quali ha una disponibilità pressoché piena (v., tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 02/07/2018 n. 4375).
Spettava dunque ai ricorrenti fornire elementi di prova univoci circa l’effettiva violazione della distanza di dieci metri, per essere in realtà la doglianza non assistita da dati obiettivi idonei a superare la contestazione delle controparti, proprio sotto il profilo della misurazione puntuale del distacco tra i manufatti in esame.
E analoga carenza probatoria si riscontra anche con riferimento alla questione della volumetria residua che il lotto può esprimere. Infatti si adduce genericamente un difetto di istruttoria, quando invece sarebbe stato necessario allegare quanto meno un principio di prova circa l’ipotizzata violazione dei relativi parametri di zona.

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo della distanza tra fabbricati.
Come chiarito dalla giurisprudenza, la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati rispetto ai quali si denuncia la violazione delle distanze e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
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I montanti di una tettoia/pergolato rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze trattandosi di elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili).
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3. Anche il secondo motivo è infondato.
In merito, assorbite le questioni relative alla qualificazione della tettoia/pergolato come costruzione, deve ritenersi che i ricorrenti non abbiano dato sufficiente prova delle violazione delle distanze.
Come chiarito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5557) la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati rispetto ai quali si denuncia la violazione delle distanze e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
E’ chiaro quindi che occorre considerare come punto di riferimento, secondo quanto correttamente affermato dal Comune, la linea esterna della parete ideale della tettoia/pergolato (interna al terrazzo) e non il limite esterno del terrazzo stesso, trattandosi di verificare le distanze dalla tettoia/pergolato e non dal terrazzo.
Né a tal fine possono valere i montanti della tettoia/pergolato in quanto essi rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, trattandosi di elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili) (in tal senso Corte di Cassazione, Sez. II civile, 19.01.2018 n. 1365).
Va poi considerato che, se è pur vero che il processo amministrativo secondo il tradizionale modello impugnatorio è retto, dal punto di vista istruttorio, dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, ciò non può essere inteso nel senso che la parte ricorrente, la quale si dolga di un atto dell’Autorità, possa limitarsi alla mera contestazione dei presupposti di fatto e di diritto sui quali si è radicata l’azione amministrativa e attendere che sia il giudice ad acquisire il materiale probatorio necessario al giudizio, dovendo essa, invece, offrire –a sostegno della pretesa azionata in giudizio– adeguati riscontri probatori quantomeno rispetto agli elementi dei quali ha una disponibilità pressoché piena (v., tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 02/07/2018 n. 4375).
Spettava dunque ai ricorrenti fornire elementi di prova univoci circa l’effettiva violazione della distanza di dieci metri, per essere in realtà la doglianza non assistita da dati obiettivi idonei a superare la contestazione delle controparti, proprio sotto il profilo della misurazione puntuale del distacco tra i manufatti in esame.
E analoga carenza probatoria si riscontra anche con riferimento alla questione della volumetria residua che il lotto può esprimere. Infatti si adduce genericamente un difetto di istruttoria, quando invece sarebbe stato necessario allegare quanto meno un principio di prova circa l’ipotizzata violazione dei relativi parametri di zona (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.01.2020 n. 117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
).

dicembre 2019

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Attività edilizia – Atto di assenso del confinante - Forma e contenuto minimo dell’atto – parere (Legali Associati per Celva, nota 04.12.2019 - tratto da www.celva.it).
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L’Amministrazione comunale di La Salle ha sottoposto alla nostra attenzione richiesta di parere avente ad oggetto una pluralità di quesiti, tutti afferenti la corretta individuazione dei requisiti minimi di contenuto e di forma che deve assumere l’atto di assenso richiesto al confinante, al fine di derogare alle distanze minime dai fabbricati e dai confini e se tale atto di assenso debba essere acquisito e ricondotto nella pratica edilizia per cui è richiesto. (... continua).

ottobre 2019

EDILIZIA PRIVATA: Per costante giurisprudenza, ai fini dell’applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione ex novo di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi.
In particolare la sopraelevazione deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante.
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Con il terzo motivo di appello, peraltro, si sostiene che non sussisterebbe la violazione delle distanze ravvisata dal giudice di primo grado, in quanto le NTA del PRG del Comune di Marcianise per la zona B consentirebbero la costruzione sul confine di proprietà in caso di lotti circostanti edificati sul confine o non edificati; ciò avrebbe consentito il superamento della distanza minima di 5 metri, in quanto fino all’altezza dell’edificio confinante sarebbe stata applicabile la prima parte disposizione, per la parte del sottotetto sarebbe stata applicabile la parte della norma di attuazione relativi ai fondi non edificati.
Tale interpretazione non può trovare accoglimento.
E’ infatti evidente che l’unica interpretazione consentita da tale norma tecnica è quella seguita dal giudice di primo grado, per cui nel caso di specie la distanza inferiore ai 5 metri è ammessa solo fino all’altezza dell’edificio confinante; per il resto l’edificio è realizzato in violazione delle distanze, potendo il riferimento a lotti inedificati contenuto nella detta norma di attuazione essere riferita solo ad un lotto integralmente non edificato, non alla inedificazione della parte sovrastante un edificio.
Per costante giurisprudenza, infatti, ai fini dell’applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione ex novo di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi; in particolare la sopraelevazione deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 28.11.2018, n. 6738) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 25.10.2019 n. 7289 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fabbricati antistanti.
Ai fini dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, due fabbricati, per essere antistanti, non devono necessariamente essere paralleli, ma possono anche fronteggiarsi con andamento obliquo, purché tra le facciate dei due edifici sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento.
Ne consegue che non danno luogo a pareti antistanti gli edifici posti ad angolo retto, né quelli in cui sono gli spigoli opposti a potersi toccare se prolungati idealmente uno verso l’altro
(
Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 24471 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo della distanza tra pareti finestrate e necessità che sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro.
Il principio affermato dal Consiglio di Stato, secondo il quale la distanza fra pareti di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e tutte le pareti finestrate, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, vuole dire che la distanza deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quelle principali e prescindendo dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Ma tale principio, così come gli analoghi principi della giurisprudenza di legittimità, implica pur sempre che sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento
(Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 24471 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
4. Il secondo motivo del ricorso principale è fondato.
La Corte d'appello di Milano, nell'esame della fattispecie, ha riconosciuto che, nella specie, l'intervento edilizio realizzato dalla Fa. doveva avvenire secondo la previsione dell'art. 9, n. 2, del d.m. 02.04.1968, recepito dalle NTA del Piano regolatore generale del Comune di Milano, approvato il 26.02.2000.
In relazione a tale norma -che impone una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- la corte d'appello ha richiamato principi consolidati nella giurisprudenza della Suprema Corte, sui quali non è il caso di soffermarsi:
la norma è integrativa della disciplina del codice civile sulle distanze; non è derogabile in sede locale (Cass. n. 1556/2005; n. 19554/2009); il giudice ha la potestà di disapplicare la norma regolamentare difforme ed applicare le distanze previste dal d.m. 1444 quale norma di relazione immediatamente efficace nei rapporti fra privati (Cass., S.U. n. 14953/2011).
La corte, quindi, è passata dal piano dei principi a quello della fattispecie concreta, rilevando innanzitutto che «il rispetto della distanza di 10 metri non può escludersi nel caso in esame in considerazione del fatto che gli edifici non potrebbero considerarsi "antistanti"».
Al fine di giustificare tale affermazione ha ritenuto di poter trovare appiglio nel principio secondo il quale la "distanza fra pareti di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e tutte le pareti finestrate, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731)".
Quindi ha richiamati i principi di giurisprudenza sui punti di misurazione delle distanze, per concludere perentoriamente che, nel caso di specie, alla luce delle misurazioni effettuate dal consulente tecnico, «la distanza tra l'edificio eretto dalla Fa. e quello di proprietà degli appellati non rispetto la distanza di dieci metri, il che rende evidente l'esistenza della violazione in cui Fa. s.r.l. è incorsa sotto il profilo in esame».
5. Secondo la ricostruzione della sentenza impugnata la proprietà Za. consiste «in un complesso edilizio a destinazione residenziale ed artigianale collocato in fregio alla via ... civico 10, che occupa quindi la parte nord ovest del lotto e da un secondo edificio a destinazione artigianale, che si innesta ad angolo retto ed occupa il suo lato lungo il rimanente confine nord».
Si può dare per acquisito:
   a) che Fa. ha costruito in aderenza rispetto al muro dell'edificio a destinazione artigianale per poi realizzare le pareti finestrate a distanza inferiore a 10 metri dal muro su cui ha costruito in aderenza;
   b) che la parete finestrata è stata edificata dalla Fa. interamente sul lato nord dell'edificio di fronte all'edificio a destinazione artigianale, posto sul confine fra i due lotti e sul cui muro avanzato la Fa. ha costruito in aderenza per tutta la sua altezza;
   c) che le pareti finestrate sono state edificate in arretramento rispetto a tale muro: si legge nella sentenza che l'edificio eretto dalla Fa. s.r.l. edificate in posizione arretrata «a partire dal primo piano fuori terra (alla quota di + mt. 5,20) e per i successivi, per una lunghezza di mt. 13 sul totale di mt. 24 di lunghezza»;
   d) che fra le facciate finestrate dell'edificio la facciata finestrata del fabbricato degli originari attori esiste uno sfasamento di 0,72 cm..
6.
L'art. 9 del d.m. 1444/1968 prescrive la distanza minima tra parete e parete finestrata. È pacifico che l'art. 9 è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantesi sia finestrata (Cass., S.U., n. 1486/1997; n. 1984/1999) e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del muovo edificio o dell'edificio preesistente (Cass. n. 13547/2011), o che si trovi alla medesima altezza o diversa altezza rispetto all'altro (Cass. n. 8383/1999).
Finalità della norma è la salvaguardia dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine fra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata (Cass. n. 20574/1997).
La «antistanza» va intesa come circoscritta alle porzioni di pareti che si fronteggiano in senso orizzontale. Nel caso in cui i due edifici siano contrapposti solo per un tratto (perché dotati di una diversa estensione orizzontale o verticale, o perché sfalsati uno rispetto all'altro, il giudice che accerti la violazione delle distanze deve disporre la demolizione «fino al punto in cui i fabbricati si fronteggiano» (Cass. n. 4639/1997).
La Suprema Corte ha osservato che,
ai fini dell'art. 9 del d.min. n. 1444/1968, due fabbricati, per essere antistanti, non devono essere necessariamente paralleli, ma possono fronteggiarsi con andamento obliquo, purché «fra le facciate dei due edifici sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento» (Cass. n. 4175/2001).
Non danno luogo a pareti antistanti gli edifici posti ad angolo retto, né quello in cui sono opposti gli spigoli a potersi toccare se prolungati idealmente uno verso l'altro. Poiché lo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. è quello di impedire intercapedini nocive, «la norma non trova applicazione quando i fabbricati non si fronteggiano, ma sono disposti ad angolo retto in modo da non avere parti tra loro contrapposte» (Cass. n. 4639/1997). Le distanze fra edifici non si misurano perciò in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare (Cass. n. 9649/2016).
Con riferimento all'analoga materia di "pareti frontistanti" vigente in materia antisismica «
la giurisprudenza di questa corte ha avuto modo di affermare che la disposizione contenuta nella L. n. 1684 del 1962, art. 6, n. 4 -a norma della quale l'area posta tra edifici e sottratta al pubblico transito deve avere la larghezza minima di sei metri misurata tra i muri frontali- attiene a tutte le ipotesi in cui i muri perimetrali di costruzioni finitime si trovino in posizione antagonista, idonea a provocare, in caso di crollo di uno degli edifici, danni a quello finitimo: pertanto la presenza nei detti muri perimetrali di spigoli o angoli non esula dalla sfera di applicazione della detta norma, in quanto ogni angolo o spigolo è formato da due linee che, sul piano costruttivo, costituiscono vere e proprie "fronti", le quali, a loro volta, realizzano rispetto all'opposta costruzione, quella posizione antagonista la cui potenzialità viene eliminata o attenuata dal rispetto della distanza minima.
Ha, però, soggiunto che tale principio trova applicazione nel caso in cui le due rette che si dipartano dall'angolo secondo le direttrici dei lati di questo vadano ad intersecare il perimetro della costruzione che si vuole opposta, mentre, qualora tali linee non attraversino idealmente il corpo dell'edificio vicino, non v'è antagonismo tra le costruzioni, ne' sussiste quella frontalità che la norma in oggetto prevede come presupposto dell'osservanza della distanza di sei metri a scopo di prevenzione antisismica tra i segmenti perimetrali degli edifici
» (Cass. n. 14606/2007).
È stato anche chiarito che «
l'art. 9, n. 2, del d.m. n. 1444 del 1968 non impone di rispettare in ogni caso una distanza minima dal confine, ma va interpretato, in applicazione del principio di prevenzione, nel senso che tra una parete finestrata e l'edificio antistante va mantenuta la distanza di mt. 10, con obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione fino ad una distanza di mt. 5 dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, abbia a sua volta osservato una distanza di almeno mt. 5 dal confine.
Ove, invece, il preveniente abbia posto una parete finestrata ad una distanza inferiore a detto limite, il vicino non sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino alla distanza di mt. 10 dalla parete stessa, ma potrà imporre al preveniente di chiudere le aperture e costruire (con parete non finestrata) rispettando la metà della distanza legale dal confine, ed eventualmente procedere all'interpello di cui all'art. 875, comma 2, c.c., qualora ne ricorrano i presupposti
» (Cass. n. 4848/2019; n. 3340/2002).
7. La corte d'appello non si è attenuta a tali principi.
Il principio affermato dal Consiglio di Stato (sent. n. 7731/2010), utilizzato dalla corte d'appello quale criterio guida nella valutazione della fattispecie, vuole dire che la distanza deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quelle principali e prescindendo dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela. Ma tale principio, così come gli analoghi principi della giurisprudenza di legittimità, implica pur sempre che «sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento» (Cass. n. 4715/2001).
Al contrario la corte di merito, dopo avere descritto la posizione dei fabbricati, ha ravvisato la violazione della norma senza verificare se, in dipendenza della edificazione Fa. in aderenza fino al colpo del muro cieco del preesistente edificio destinato a laboratorio, vi fosse una effettiva e attuale posizione di frontalità fra due facciate, nel senso che facendo avanzare idealmente in linea retta una facciata verso il fabbricato vicino, le due facciate si sarebbero incontrate almeno in un punto (Cass. n. 2548/1972; n. 3480/1972; n. 9649/2016).
Si ribadisce che la corte di merito non ha ravvisato la violazione nel fatto in sé dell'avere la Fa. costruito in aderenza sul muro cieco preesistente, ma nel minore arretramento dell'edificio una volta raggiunto il colmo del tetto; tanto ha fatto non in applicazione dei principi della prevenzione integrati con le previsioni di cui all'art. 9 del d.min. 02.04.1969 (Cass. n. 3340/2002 cit.), ma avuto riguardo alla situazione attuale dei fabbricati, così dome delineatasi per effetto della edificazione in aderenza.
In questo senso, però, è stata completamente omessa dalla corte d'appello
la verifica di un'attuale situazione di frontalità fra le due facciate, costituente l'essenziale «presupposto per l'operatività dell'art. 9 del d.min. 02.04.1968, n. 1444» (Cass. n. 4715/2001, cit.).

settembre 2019

EDILIZIA PRIVATAPer quanto riguarda la più complessa questione della modalità di calcolo dei balconi ai fini del rispetto delle distanze prescritte dall’art. 9 del DM n. 1444/1968, il Supremo Consesso s’è pronunciato espressamente, prendendo aperta posizione sulle opposte tesi e aderendo a quella autorevolmente esposta nella sentenza 30.12.2016, n. 5552, chiarendo che “esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio”.
La Sezione condivide le considerazioni e conclusioni dell’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato respingendo le censure avverso le previsioni dello strumento urbanistico e l’applicazione delle prescrizioni sul calcolo delle distanze dedotte con doglianze analoghe a quelle sollevate dalla ricorrente.
Così nel precedente richiamato è stata disattesa la doglianza relativa “alla violazione del limite minimo di 5 metri lineari previsto dall’art. 4 delle NTA del PRG, reclamando a tal fine doversi includere nel computo i balconi ed alcuni pilastri” osservando che: “l’art. 4 disciplina il computo del volume fabbricabile e, nell’ambito di questo, contiene previsioni sugli aggetti, e che i balconi sono computabili nel volume solo se costituiscono corpo di fabbrica (cioè aggetti chiusi volti a separare l’ambiente interno da quello esterno) e non quando invece siano aperti su tre lati, come affermato da costante giurisprudenza, è solo a questi, contemplati dal primo comma dell'art. 4 che la previsione delle NTA richiamata fa riferimento, al comma successivo, per indicare la misura delle distanze (…) Al riguardo va ricordato che, come affermato da costante giurisprudenza, ai fini del computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene. Infatti, ciò che rende computabili i balconi ai fini della misurazione delle distanze tra fondi finitimi è la loro riconducibilità al concetto di costruzione edilizia, comportando essi un ampliamento della consistenza dell'edificio tale da doversi senz'altro considerare nel calcolo delle distanze legali (…)".
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La giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza minima di 10 mt lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.
Invero, “i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione del volume”.
Con riferimento ad un caso, come quello in esame, in cui il regolamento comunale prevedeva che “nella verifica delle distanze non si tiene conto di (…) balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60”, è stato ritenuto che tale prescrizione “costituisce norma eccezionale e di favore, in quanto integra e deroga (con il favore della giurisprudenza, come si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del DM più volte richiamato”, precisando che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere interpretate in senso restrittivo.
Anche negli anni successivi tale orientamento è stato confermato ribadendo che “balconi e pensiline” non sono compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. n. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio”; per cui si tratta di mere strutture architettoniche non computabili nella volumetria della costruzione ed irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, a differenza dei “corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza”.
In conclusione, assume rilevanza decisiva il profilo della dimensione della sporgenza, come ribadito da Consiglio di Stato sez. IV, n. 5895/2017 e n. 706/2018 (per cui nel caso di balconi aggettanti lo sporto nei limiti di metri 1,50 è irrilevante rispetto alla distanza secondo Consiglio di Stato sez. IV, n. 1801/2016; nello stesso senso, ugualmente per dimensioni contenute, come nel caso in esame in metri 1,60, Consiglio di Stato sez. VI, n. 5557/2013; mentre, nel caso contrario, in cui le dimensioni dello sporto siano “importanti”, superando i due metri, va necessariamente calcolato, come ribadito da ultimo, da TAR Puglia, n. 485/2019).
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Con il primo motivo di ricorso si lamenta che il permesso a costruire in variante impugnato si ponga in contrasto con i limiti di distanza prescritti dall’art. 9 del d.m. 1444/1968 (che prevede che tra le pareti dei fabbricati tra i nuovi edifici e le strade destinate al traffico veicolare sia rispettata una distanza minima rispettivamente di ml 10 e ml 5), riprodotti anche dall’art. 1 del Piano Particolareggiato (secondo la ricorrente detto Piano, seppur decaduto perché sono trascorsi più di dieci anni dalla sua approvazione, sarebbe tutt’ora applicabile relativamente alla disciplina degli allineamenti ed il rispetto dei comparti), oltre che dall’art. 17 delle NTA del PTP (per quanto concerne la distanza minima dal ciglio stradale) nonché dall’art. 23 del regolamento edilizio (che prevede che per calcolare il distacco dai confini la distanza va misurata nei punti di massima sporgenza).
Ad avviso della ricorrente, il Comune non si sarebbe avveduto che il progetto in variante riporta misure errate per quanto riguarda le distanze, dato che non tiene conto dell’ingombro di 1,60 metri prodotto dai balconi e dai bow windows, per cui, mentre la distanza del fabbricato dal filo stradale di via Garigliano riportata sul progetto misura metri 5 (prendendo come riferimento il muro del prospetto), essa risulta in realtà, ove venga calcolata anche la sporgenza dei balconi, di soli metri 3,40.
Tale errore nel metodo del calcolo del distacco dell’edificio in contestazione si riverbera anche sul calcolo della distanza dalla parete dell'immobile prospiciente (cioè quello della ricorrente): anche in questo caso, se si tiene conto dei balconi, il distacco non misura 10 metri, come indicato nel progetto, bensì appena 8,40 metri. Inoltre, ad avviso della ricorrente, le distanze sopraindicate risulterebbero ancora più ridotte (di circa dieci centimetri), se si scomputasse dal relativo calcolo anche il rivestimento perimetrale esterno (cd. cappotto termico).
In conclusione, secondo la ricorrente, l’errore di calcolo insito nel progetto rende illegittimo il permesso a costruire, in quanto, fondandosi su dati numerici non corrispondenti alla realtà, che non tengono conto dell’ingombro dei balconi, contrasta con quanto prescritto dall’art. 23 del Regolamento Edilizio Comunale che prevede che il distacco dai confini debba essere misurato “nei punti di massima sporgenza, del piano terra e la linea di confine”, mentre nel caso in esame, le distanze sono state calcolate dalle pareti dell’edificio, anziché dal parapetto dei balconi.
Inoltre, secondo la ricorrente, non vale ad escludere l’illegittimità del titolo abilitativo impugnato il fatto che l’art. 26 del Regolamento Edilizio, nel disciplinare “Aggetti e Sporgenze”, “sembra escludere dal computo della distanza legale tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, le pensiline ed i balconi o altri sporti abitabili o comunque utilizzabili”: se così fosse, la previsione del REC andrebbe annullata in quanto contrasta con i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati inderogabilmente sanciti dal D.M. n. 1444 del 02.04.1968 o comunque disapplicata (con automatica sostituzione dei limiti prescritti dal predetto DM, che costituisce la disciplina dettata, mediante rinvio, dalla legge n. 765/1967).
Le doglianze vengono riprese nel terzo motivo di ricorso, ove si denuncia la violazione dell’art. 6 della legge n. 241/1990, lamentando il difetto di istruttoria in cui sarebbe incorso il responsabile del procedimento per non aver rilevato l’errore di misurazione e di conseguenza la violazione dei limiti inderogabili di distanza prescritti dall’art. 9 del d.m. 1444/1968.
I mezzi di censura sopra richiamati vanno disattesi.
Innanzitutto, in punto di fatto, ove la ricorrente lamenta la violazione dei limiti sopraindicati affermando che la distanza -“stimata visivamente”- sarebbe di soli 4,65 metri, va osservato che, ai fini di verificare il rispetto delle prescrizioni sul distacco dal confine, conta esclusivamente la distanza fisica “effettiva” della costruzione -che risulta pari a cinque metri- e non quella stimata sulla base dell’impressione visiva dei soggetti interessati.
Inoltre, va precisato, ancora sulla qualificazione dei fatti, che i setti murari impropriamente descritti dalla ricorrente come “bow-windows” (come d’altronde ammesso nella stessa memoria conclusionale a pag. 11) costituiscono in realtà delle strutture aggettanti che non rilevano ai fini del calcolo delle distanze in quanto sono “aperti solo lateralmente e non anche frontalmente, risultano destinati ad ospitare le centraline termiche e, comunque, non sono destinati all’uso abitativo”: come chiarito dal Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 4461/2018 pronunciata in sede di appello cautelare -pienamente condivisa dal Collegio- devono essere esclusi dal calcolo delle distanze e dei volumi i cd. locali tecnici.
Anche per quanto riguarda la più complessa questione della modalità di calcolo dei balconi ai fini del rispetto delle distanze prescritte dall’art. 9 del DM n. 1444/1968, il Supremo Consesso, nel confermare il rigetto dell’istanza cautelare, s’è pronunciato espressamente, prendendo aperta posizione sulle opposte tesi e aderendo a quella autorevolmente esposta nella sentenza 30.12.2016, n. 5552, chiarendo che “esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio”.
La Sezione condivide le considerazioni e conclusioni dell’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, al quale aveva già in passato aderito con sentenza TAR Lazio II-quater 31.3.2010 n. 5319, respingendo le censure avverso le previsioni dello strumento urbanistico e l’applicazione delle prescrizioni sul calcolo delle distanze dedotte con doglianze analoghe a quelle sollevate dalla ricorrente.
Così nel precedente richiamato è stata disattesa la doglianza relativa “alla violazione del limite minimo di 5 metri lineari previsto dall’art. 4 delle NTA del PRG, reclamando a tal fine doversi includere nel computo i balconi ed alcuni pilastri” osservando che: “l’art. 4 disciplina il computo del volume fabbricabile e, nell’ambito di questo, contiene previsioni sugli aggetti, e che i balconi sono computabili nel volume solo se costituiscono corpo di fabbrica (cioè aggetti chiusi volti a separare l’ambiente interno da quello esterno) e non quando invece siano aperti su tre lati, come affermato da costante giurisprudenza (cfr., di recente, Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008, n. 3381), è solo a questi, contemplati dal primo comma dell'art. 4 che la previsione delle NTA richiamata fa riferimento, al comma successivo, per indicare la misura delle distanze (…) Al riguardo va ricordato che, come affermato da costante giurisprudenza, ai fini del computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene. Infatti, ciò che rende computabili i balconi ai fini della misurazione delle distanze tra fondi finitimi è la loro riconducibilità al concetto di costruzione edilizia, comportando essi un ampliamento della consistenza dell'edificio tale da doversi senz'altro considerare nel calcolo delle distanze legali (…)".
Infine, per quanto attiene al rispetto delle prescrizioni urbanistiche sulle distanze minime dei fabbricati, i ricorrenti sostengono che il limite minimo di 10 metri lineari sarebbe applicabile indipendentemente dalle presenza di pareti finestrate, denunciando che il fabbricato da realizzare risulterebbe superare tale limite (…) in quanto la planimetria allegata al progetto non prende in considerazione i terrazzi, che come, corpi aggettanti vanno computati ai fini delle distanze. Anche tale censura va disattesa in quanto la giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza minima di 10 mt lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (TAR Liguria, sez. I, n. 1736/2009).
In tal modo la Sezione si era adeguata all’orientamento sancito dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381, la quale aveva precisato che “i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione del volume” (Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381).
Con riferimento ad un caso, come quello in esame, in cui il regolamento comunale prevedeva che “nella verifica delle distanze non si tiene conto di (…) balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60”, è stato ritenuto che tale prescrizione “costituisce norma eccezionale e di favore, in quanto integra e deroga (con il favore della giurisprudenza, come si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del DM più volte richiamato”, precisando che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere interpretate in senso restrittivo (Consiglio di Stato sez. VI, n. 5557/2013 con espresso richiamo a Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381).
Anche negli anni successivi tale orientamento è stato confermato ribadendo che “balconi e pensiline” non sono compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. n. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio” (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 5552/2016); per cui si tratta di mere strutture architettoniche non computabili nella volumetria della costruzione ed irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, a differenza dei “corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza” (Consiglio di Stato sez. VI, 10/09/2018, n. 5307 e Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n. 1272).
In conclusione, assume rilevanza decisiva il profilo della dimensione della sporgenza, come ribadito da Consiglio di Stato sez. IV, n. 5895/2017 e n. 706/2018 (per cui nel caso di balconi aggettanti lo sporto nei limiti di metri 1,50 è irrilevante rispetto alla distanza secondo Consiglio di Stato sez. IV, n. 1801/2016; nello stesso senso, ugualmente per dimensioni contenute, come nel caso in esame in metri 1,60, Consiglio di Stato sez. VI, n. 5557/2013; mentre, nel caso contrario, in cui le dimensioni dello sporto siano “importanti”, superando i due metri, va necessariamente calcolato, come ribadito da ultimo, da TAR Puglia, n. 485/2019).
Nel caso in esame, pertanto, trovano applicazione i principi sopra richiamati per cui i balconi in contestazione non sono computabili, al fine della determinazione del rispetto delle distanze in questione, date le caratteristiche costruttive (struttura aggettante: i balconi aperti in questione) e le limitate dimensioni (metri 1,60, al netto del parapetto, per un totale di circa 1,75 come indicato nel progetto e come effettivamente costruito, stante l’esito della verifica effettuata in contraddittorio con le parti nel corso del nuovo sopralluogo in data 03.07.2018, effettuato per approfondire le prime sommarie rilevazioni dell’08.06.2008); le circostanze rilevate dalla PA nel corso del sopralluogo in contradditorio sono confermate dalla relazione del 09.11.2018 del CTU –all’esito del sopralluogo in data 02.08.2018– incaricato nell’ambito del giudizio civile davanti al Tribunale di Velletri, che ha confermato la misurazione della larghezza dei balconi sopraindicati ed ha altresì attestato la conformità al progetto di quanto costruito, nonché il rispetto della disciplina in tema di distanze.
Pertanto non è in discussione il dato oggettivo della dimensione dei balconi (sporgenti per metri 1,60 al netto dei parapetti oppure 1,75 inclusi i parapetti, con conseguente riduzione della distanza dalla facciata rispetto al limite minimo di 10 metri prescritto dal DM 1444/1968), bensì se tale misura “intermedia” tra quella che per pacifica giurisprudenza consente di ritenere il balcone un mero elemento architettonico (cioè 150-160 centimetri) oppure di configurare un vero e proprio autonomo corpo di fabbrica (2 metri).
Nella mancanza di parametri di riferimento occorre tener conto della disciplina edilizia locale e della costante prassi applicativa del Comune: questa era nel senso di escludere i balconi di tali dimensioni dal calcolo delle distanze degli edifici, come attestato dal Responsabile del Servizio Urbanistica in data 09.08.2018 (detti balconi sono posti ad una distanza superiore a ml. 3.00, nel rispetto dell'art. 26 del Regolamento Edilizio Comunale; il fabbricato è conforme al progetto approvato; rispetta il punto 14.15 dell'art. 23 del predetto regolamento; anche con riferimento alla distanza tra pareti finestrate l’opera eseguita risulta “non inferiore a metri 10.00, nel rispetto dei limiti di distanza stabiliti dall’art. 9, comma 2, del D.M. n. 1444/1968”; soprattutto lo stesso responsabile dell’Ufficio predetto precisa che “per tutte le pratiche edilizie presentate nel corso degli anni, per fabbricati simili e nella stessa zona F1 di P.R.G. nella determinazione della distanza di ml. 10.00 tra pareti finestrate, non sono mai stati considerati i balconi”); come confermato anche dal CTU che ha escluso che il permesso di costruire in contestazione sia stato rilasciato con violazione delle prescrizioni in materia di distanze legali.
In conclusione, l’orientamento giurisprudenziale, la prassi applicativa del Comune, la legislazione sopra richiamate, inducono il Collegio ad escludere l’illegittimità del permesso di costruire in esame, relativo ad un edificio che, peraltro, è stato già da tempo realizzato secondo il progetto contestato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.09.2019 n. 10843 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Prescrizione regolamentare di una distanza tra fabbricati maggiore.
Il principio della prevenzione si applica anche nell’ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all’intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 09.09.2019 n. 22447 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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ritenuto che con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 35 e 36 del regolamento edilizio del Comune di Cassano Jonío e delle norme tecniche di attuazione del P.R.G., in relazione agli artt. 872 e 873, cod. civ. e all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., assumendo che:
   - la sopraelevazione distava dal confine 3,35 m. e l'art. 46 del regolamento locale fissava «la distanza delle costruzioni dal confini in base alla distanza minima di metri 10 che deve intercorrere fra le pareti finestrate di fabbricati antistanti», con la conseguenza che «la distanza minima delle costruzioni dai confini di proprietà non può essere inferiore a 5 metri», non potendo operare il principio della prevenzione, pur ove «i regolamenti edilizi prevedano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prescritta dal codice civile senza un riferimento esplicito al confine»;
ritenuto che con il secondo motivo la Ip. prospetta violazione dell'art. 112, cod. proc. civ., con conseguente nullità «della sentenza o del procedimento», in relazione all'art. 360, n. 4, cod. proc. civ., assumendo che:
   - la Ip. aveva chiesto la rimessione in pristino, anche tenendo conto del fatto che la controparte aveva violato il divieto di costruire a distanza inferiore ai 5 metri dal confine nascente da privata pattuizione (atti pubblici del 12/11/1980 e del 28/10/1976) e la Corte locale aveva omesso di pronunciarsi sul punto;
considerato che il primo motivo è manifestamente destituito di giuridico fondamento per le ragioni di cui appresso:
   - non è dubbio che il regolamento locale, come riporta la sentenza, stabiliva distanza minima tra fabbricati, nulla prevedendo con riferimento alla distanza dal confine;
   - poiché i due fabbricati frontistanti risultavano posti alla distanza di m. 15,60 la norma regolamentare risultava essere stata rispettata;
   - devesi, infatti, ribadire che il principio della prevenzione si applica anche nell'ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga (come nel caso al vaglio) una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all'intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c. (S.U., n. 10318, 19/05/2016, Rv. 639677);

luglio 2019

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: rispetto delle distanze tra fabbricati siti nel medesimo lotto ed appartenenti ad unico proprietario – fabbricato parzialmente interrato a destinazione accessoria- fabbricati privi di finestre e/o vedute - parere (Legali Associati per Celva, nota 04.07.2019 - tratto da www.celva.it).
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Il Comune di Valtournenche ha sottoposto, per il tramite del CELVA, la seguente questione, inerente l’individuazione della distanza da rispettare tra due fabbricati appartenenti allo stesso proprietario.
Nel dettaglio, viene specificato che si intende realizzare un fabbricato seminterrato, costituito da tre lati interrati ed un lato libero destinato ad autorimessa fronteggiante sul lato libero con un basso fabbricato completamente fuori terra a destinazione accessoria (centralina idroelettrica). (...continua).

giugno 2019

EDILIZIA PRIVATA: La distanza minima per il portico.
DOMANDA:
E' stata depositata istanza di sanatoria edilizia ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i. per un portico costruito in aderenza al fabbricato principale, realizzato con tre pilastri in legno, con copertura in tavolato e aperto su tre lati; l'intervento ricade in zona classificata dal P.I. vigente, "C1" residenziale.
Il portico risulta realizzato a ml 5,00 dal confine di proprietà e a 7,00 ml dall'edificio residenziale dei confinanti; la parete del fabbricato confinante, opponente e fronteggiante il portico oggetto di sanatoria, risulta cieca cioè con assenza di luci e vedute. Premesso che questo Comune deve ancora adottare il R.E.T., il cui termine in Veneto è stato prorogato fino al 31.12.2019, in base al vigente Regolamento Edilizio comunale, artt. 3-5, la realizzazione di un “portico” comporta, in particolare, incremento della superficie coperta e conseguentemente l'obbligo del rispetto della distanza sia dai confini che dai fabbricati; inoltre lo stesso regolamento edilizio prevede che la distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, sia pari a minimo ml 10,00 mentre quella tra pareti entrambe non finestrate sia pari a minimo ml 6,00.
Il tecnico progettista dichiara che la parete di un portico deve essere considerata cieca in quanto non presenta ne luci ne vedute, e pertanto il portico realizzato risulta sanabile.
Alla luce delle varie sentenze di TAR, C.d.S. e Cassazione, sul tema della applicazione del D.M. 1444/1968 - distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, si chiede se ai fini dell'applicazione del suddetto D.M. 1444/1968, e quindi del sopra citato regolamento edilizio, la parete di un “portico” possa essere considerata “parete finestrata”, e pertanto con l'obbligo del rispetto dei minimi 10.00 ml inderogabili, o possa essere considerata “parete cieca”, e quindi, con l'obbligo del rispetto dei minimi 6,00 ml previsti dal regolamento edilizio comunale, in presenza di pareti opponenti entrambe non finestrate.
RISPOSTA:
Con riferimento alla questione sollevata nel quesito posto, si rileva che la Cassazione civile, a partire dalla sentenza n. 27418 del 13.12.2005, ha superato il proprio precedente orientamento, secondo cui la distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate di edifici antistanti non sarebbe applicabile alla diversa situazione di un portico aperto fronteggiante l’edificio in costruzione (Cass. 17.12.1993 n. 12506), affermando che la verifica della distanza legale fra costruzioni deve essere effettuata tenendo conto del porticato secondo la regola del vuoto per pieno.
In particolare, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di distanze tra edifici «al fine di verificare il rispetto della distanza legale nelle costruzioni, qualora una di esse sia provvista di porticato aperto, con pilastri allineati al muro di facciata, deve tenersi conto anche del porticato, secondo la regola del “vuoto per pieno”, in quanto, anche nel caso in cui tra i pilastri del porticato non siano realizzate pareti esterne di collegamento, la fabbrica possiede i requisiti di consistenza, solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo che ne fanno una costruzione, soggetta alla disciplina sulle distanze» (in questo senso, Cass. civ., sez. II, 06.05.2014 n. 9679; Cass. civ., 26.07.2013, n. 18119; Cass. civ., 14.03.2011 n. 5934; Cass. civ. 13.12.2005, n. 27418). Il suddetto orientamento è stato richiamato e condiviso anche dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, Adunanza delle Sezioni Riunite del 03.02.2017, numero 339/2017 e data spedizione 02.05.2017; Tar Toscana, Firenze, sez. III, 23.12.2014, n. 2153; Tar Toscana, Firenze, sez. III, 09.01.2017, n. 2).
Infatti, nella sopra citata pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana è stato ribadito e precisato quanto segue: «Ritiene questo Consiglio che la distanza tra edifici vada calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano, e comunque in relazione a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela; essa va computata in relazione a tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, ivi compresi i porticati aperti, secondo il criterio del “vuoto per pieno” (salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene)».
Alla luce della giurisprudenza sopra citata ed in considerazione anche del fatto che, in base al vigente Regolamento Edilizio comunale, la realizzazione di un “portico” comporta incremento della superficie coperta e conseguentemente l'obbligo del rispetto della distanza sia dai confini che dai fabbricati, l’applicazione del D.M. 1444/1968 nonché del sopra citato regolamento edilizio comporta l’obbligo del rispetto dei minimi 10.00 ml inderogabili tra il “portico” in questione e l’edificio residenziale dei confinanti (tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATADistanza minima di 10 metri dalle pareti finestrate.
In tema di distanze, la distanza minima fissata dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 di 10 mt. dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed altro.
E trattasi certamente di una norma che, in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico, innanzi indicate, ha carattere cogente e tassativo, prevalendo anche sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva
(Corte d'Appello di Catania, Sez. II, sentenza 08.06.2019 n. 1326 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

maggio 2019

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento al rispetto delle distanze legali, precisato che la questione non si pone con riferimento ai volumi tecnici (non costituendo, questi, costruzioni ai sensi dell'art. 873 c.c., non devono essere considerati ai fini del computo delle distanze dai confini), si deve rilevare ulteriormente come i locali seminterrati, ossia quei locali che sporgono dal terreno per un’altezza inferiore a tre metri, non siano assoggettabili alla norma sulla distanza legale tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
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In forza del principio di cui all’art. 878 del codice civile, il muro di cinta di altezza non superiore a tre metri non rileva ai fini del rispetto delle distanze delle costruzioni dal confine; e consente, quindi, la realizzazione di costruzioni “in aderenza” al muro posto sul confine, purché aventi altezza non superiore a tre metri.
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10.2. - In secondo luogo, con riferimento al rispetto delle distanze legali, precisato che la questione non si pone con riferimento ai volumi tecnici (non costituendo, questi, costruzioni ai sensi dell'art. 873 c.c., non devono essere considerati ai fini del computo delle distanze dai confini), si deve rilevare ulteriormente come i locali seminterrati, ossia quei locali che sporgono dal terreno per un’altezza inferiore a tre metri, non siano assoggettabili alla norma sulla distanza legale tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
E, nel caso di specie, come risulta dall’esame degli elaborati progettuali allegati alla domanda di condono (cfr. deposito del 17.09.2011 del Comune di Olbia), sia il locale tecnico trasformato in una unità edilizia residenziale costituita da un vano e da un bagno (oggetto della concessione in sanatoria n. 2160 del 26.05.2010), sia la cantina ubicata nel piano seminterrato e trasformata in unità edilizia residenziale costituita da due camere con due w.c., due ripostigli e un corridoio (concessione in sanatoria n. 2170 del 26.05.2010), hanno altezze inferiori a tre metri.
Il dato assume rilievo anche per quanto concerne l’applicazione delle norme sulla distanza dal confine. Entrambi i manufatti per cui è controversia sono stati realizzati –come si è visto– ad un’altezza inferiore a quella alla quale sarebbe consentito realizzare il muro di cinta.
Da ciò consegue l’operatività del principio di cui all’art. 878 del codice civile, per il quale il muro di cinta di altezza non superiore a tre metri non rileva ai fini del rispetto delle distanze delle costruzioni dal confine; e consente, quindi, la realizzazione di costruzioni “in aderenza” al muro posto sul confine, purché aventi altezza non superiore a tre metri.
10.3. - Non sussistono, pertanto, le condizioni affinché possa concretamente operare la distanza minima di 5 metri dal confine prevista dal Piano regolatore generale, in quanto tale prescrizione non opera per le costruzioni di altezza non superiore ai tre metri, posto che in questo caso le esigenze di igiene e ornato pubblico sottese alla citata previsione pianificatoria in concreto non sussistono
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 24.05.2019 n. 438 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mancato rispetto della distanza minima tra pareti finestrate.
Circa il mancato rispetto delle distanze il Collegio si richiama ai seguenti principi affermati dalla giurisprudenza
   a) l’art. 9 del d.m. del 1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi;
   b) la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano. Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra;
   c) l’art. 136 d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della legge n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate e di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, ed il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel PRG al posto della norma illegittima.
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria, costituisce quindi un principio assoluto ed inderogabile, che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata, sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti;
   d) ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore volumetria e/o dall’utilizzabilità della stessa a fini abitativi;
   e) la sopraelevazione deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante; risulta, in tal caso, inapplicabile il criterio di prevenzione, che si esaurisce, viceversa, con il completamento, dal punto di vista strutturale e funzionale, della prima costruzione.
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10. Per quanto riguarda il mancato rispetto delle distanze, alla base del provvedimento impugnato, il Collegio si richiama ai seguenti principi affermati dalla giurisprudenza e recentemente sintetizzati nella sentenza della IV Sezione n. 6378/2018:
   a) l’art. 9 del d.m. del 1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (cfr. Cass. civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108; Cons. Stato, Sez. V, 19.10.1999 n. 1565; da ultimo, Cass. civ., Sez. II, 03.10.2018 n. 24076); conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. Cass., Sez. II, 16.08.1993 n. 8725 e 07.06.1993 n. 6360);
   b) la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (Cons. St., Sez. V, 16.02.1979, n. 89). Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Cass., Sez. II, 30.03.2001 n. 4715), indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass., Sez. II, 03.08.1999 n. 8383; Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909; id., 02.11.2010, n. 7731);
   c) l’art. 136 d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della legge n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate e di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, ed il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel PRG al posto della norma illegittima (Cass. civ., Sez. II, 29.05.2006, n. 12741).
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria, costituisce quindi un principio assoluto ed inderogabile (Cass. civ., Sez. II, n. 11013/2002), che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Cost., n. 232 del 2005), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata (Cass. civ., Sez. II, n. 23495/2006), sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti (Cons. St., Sez. IV, 3094 del 2007);
   d) ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore volumetria e/o dall’utilizzabilità della stessa a fini abitativi (Cass., n. 8383 del 1999, cit.);
   e) la sopraelevazione deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante; risulta, in tal caso, inapplicabile il criterio di prevenzione, che si esaurisce, viceversa, con il completamento, dal punto di vista strutturale e funzionale, della prima costruzione (Cass. n. 5049/2018).
Nel caso si specie non è in discussione che le distanze previste non siano state rispettate e, in considerazione della loro inderogabilità, non è rilevante la proprietà degli immobili.
Non sono pertanto accoglibili le censure proposte dall’appellante al terzo e quarto motivo (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 23.05.2019 n. 3367 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Finestre e luci.
Premesso che l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci, non possono essere considerate “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice civile aperture munite di grate di ferro e collocate ad un’altezza tale dal pavimento del luogo al quale si vuole dare luce ed aria che non consentono le funzioni della veduta in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza e non sono raggiungibili normalmente senza l’ausilio di strumenti appositi, non permettendo cioè né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.05.2019 n. 1168 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
3. Venendo all’esame del merito il Collegio ritiene che abbia carattere prioritario ed assorbente l’esame del secondo motivo di ricorso.
Se infatti, come ritenuto dal ricorrente, le distanze previste dall’art. 9 del D.M. 1444/1968 non debbono essere rispettate con riferimento alle luci, vengono meno anche le assunte ragioni di illegittimità del permesso di costruire e di interesse pubblico al suo annullamento in autotutela, e cade anche l’ordine di demolizione contestato con i successivi motivi.
In merito occorre specificare che la Sezione (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30/11/2018 n. 2706) ha affermato che “
l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci (Consiglio di Stato, sez. IV, 05.10.2015, n. 4628; cfr., nella giurisprudenza civile, Cassazione civile, sez. II, 20.12.2016, n. 26383). L’operatività della previsione è, quindi, condizionata dalla natura delle aperture”.
Nel caso di specie né nel sopralluogo del tecnico comunale del 14.09.2017 né nel provvedimento impugnato il Comune ha preso posizione in merito alla natura delle aperture.
In sede giudiziale poi né il Comune né la controinteressata hanno contestato la qualificazione delle c.d. “finestrature con interposte parti apribili ed entrambe munite di grate in ferro”, come qualificate nel verbale di sopralluogo, in termini di luci o vedute.
Dall’esame degli atti e delle fotografie prodotte risulta chiaro che
le aperture di cui si discute sono qualificabili in termini di luce e non di veduta.
Esse infatti sono munite di grate di ferro e sono collocate ad un’altezza tale dal pavimento del luogo al quale si vuole dare luce ed aria, che non sono esercitabili le funzioni della veduta in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza (Cass. n. 18910 del 2012; Cass. n. 7267 del 2003) e non sono le stesse raggiungibili normalmente senza l’ausilio di strumenti appositi.
Non possono quindi di certo considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-, ma semplici “luci” in quanto consentono il solo passaggio dell'aria e della luce (in questo senso Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.10.2015 n. 4628).
Ne consegue, anche senza l’accertamento specifico dell'altezza prescritta ex art. 901 c.c., che è possibile affermare, senza ombra di dubbio, che le aperture in questione non sono “vedute” (sulla sufficienza di tale prova negativa Cass. Civile Ord. Sez. 2 19/02/2019 n. 4830) e quindi vanno qualificate come “luci” ai sensi dell'art. 902 c.c..
Ne consegue, assorbite le restanti censure, che il ricorso va accolto in quanto l’annullamento in autotutela del permesso di costruire è stato disposto per violazione della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate prevista dall’art. 9 del DM 1444/1968, in mancanza dei presupposti per l’applicazione della suddetta normativa.
Il venir meno del provvedimento di autotutela determina la caducazione dell’ordine di demolizione, di cui il primo costituisce atto presupposto.

EDILIZIA PRIVATALa distanza di dieci metri sussistente tra edifici antistanti: a cosa si riferisce?
La distanza di dieci metri, sussistente tra edifici antistanti, si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione; inoltre, la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate, non soltanto a quella principale (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 10.05.2019 n. 2519 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è infondato nel merito e va pertanto respinto.
Ed invero, va evidenziato come l’impugnato diniego si fondi sulla circostanza che la prevista sopraelevazione del locale garage "violerebbe la prescrizione relativa alla distanza dai fabbricati imposta dall'art. 28 delle vigenti norme di attuazione del P.R.G. che peraltro richiama il disposto dell'art. 9 del D.M 02.04.1968 n. 1444"; ciò in quanto con la prevista sopraelevazione del solaio di copertura a quota + 1,5 mt., e cioè in corrispondenza del piano rialzato dell'abitazione retrostante di proprietà del ricorrente, quest’ultimo si troverebbe di fatto agganciato in prosecuzione di un preesistente balcone del locale cucina del ricorrente, trasformandolo in un ampio terrazzo, a confine con la proprietà aliena, come del resto inequivocabilmente dimostrato dalla prevista costruzione anche di un torrino scale per raggiungere la sommità del garage stesso, il tutto in violazione delle distanze minime previste dall’art 28 delle N.T.A -che prevede, per le nuove costruzioni, una distanza non inferiore a m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti-, risultando invece, nel caso di specie, il nuovo ampio balcone così di fatto realizzato ad una distanza di mt. 4,70 dal retrostante preesistente immobile finestrato in ditta Ma..
Orbene, la condivisibile giurisprudenza amministrativa ha da tempo osservato che “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra. Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo
” ( cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909, Consiglio di Stato, sez. IV 22.10.2013 n. 5557).
La medesima giurisprudenza ha altresì osservato che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444, “devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22.10.2013 n. 5557 citato), e tale principio è stato di recente ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione che nella sentenza n. 166/2018 ha espressamente affermato che "in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poichè il D.M. 02.04.1968, art. 9, -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla Legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla L. n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (in senso sostanzialmente conforme si veda anche Cass. n. 23553/2013; Cass. n. 17089/2006).

EDILIZIA PRIVATA: Disciplina delle distanze tra edifici.
Qualora vi siano edifici che si fronteggiano, il rispetto degli allineamenti è condizionato della disciplina delle distanze tra edifici, prevista dal D.M. n. 1444/1968, e ciò a prescindere dallo stato di urbanizzazione dell’area, dovendo peraltro essere osservate anche le norme sugli allineamenti verticali (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.05.2019 n. 3003 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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10.1. La Sezione ritiene decisive, nel senso del rigetto dell’appello, le seguenti considerazioni:
   a) in data 28.11.2016, il Comune di Campobasso ha emanato la comunicazione prot. n. 40133, concernente “provvedimento per l’annullamento d’ufficio in autotutela del silenzio-assenso formatosi sull’istanza edilizia prot. n. 4915 del 17.02.2015, dichiarato con sentenza del Tar Molise n. 340/2016, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990”;
   b) l’amministrazione comunale ha motivato la decisione di ritiro in autotutela, sulla base delle seguenti considerazioni: assenza dell’asseverazione del progettista abilitato, di cui all’art. 20, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 e s.m.i.; assenza dei pareri dei Beni ambientali della Regione Molise e della Soprintendenza, richiesti dalla delibera di consiglio comunale n. 2 del 12.02.2010, avente ad oggetto legge regionale n. 30 dell’11.12.2009 – cd. legge sul Piano casa; violazione e falsa applicazione della predetta legge regionale in relazione alla disciplina sulle distanze legali; difformità del progetto alle vigenti norme urbanistico-edilizie, con particolare riguardo ai profili dell’inosservanza degli allineamenti verticali; all’inosservanza delle disposizioni di cui alla delibera c.c. n. 33/2010 e dell’art. 22 della l.r. n. 33/1999; all’inosservanza dell’art. 9 del DM 1444/1968 quanto alle distanze tra i fabbricati; all’assenza della titolarità sull’unità immobiliare censita in catasto al foglio 119, part. 126, sub. 2; all’assenza degli elaborati di cui all’art. 3, comma 1 della legge regionale n. 36/2002.
   c) L’intervento edilizio programmato non si limita alla demolizione e alla ricostruzione dell’esistente, bensì alla realizzazione di un corpo di fabbrica diverso per forma e per sagoma, mediante sopraelevazione (dagli originari due piani si passa a nove piani, per un’altezza di circa 26 metri), aumento di volume e di superficie (da circa mq 1.000 si passa a circa mq 9.000) e mutamento della destinazione d’uso (da cinema teatro a residenza e locali commerciali).
   d) Tali caratteristiche determinano l’assoggettamento dell’intervento al regime delle distanze minime tra i fabbricati, situati all’interno delle zone territoriali omogenee, stabilite dall’art. 9, comma 2, del D.M. 1444/1968, per il quale “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
   f) L’indirizzo ermeneutico del Consiglio di Stato, è costante nell’affermare che:
      f.1) la disposizione contenuta nell'articolo 9 cit. ha carattere inderogabile, poiché si tratta di una norma imperativa, emanata in applicazione dell'art. 41-quinquies della l. 07.08.1942 n. 1150, la quale predetermina in via generale e astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece disposta dalla disciplina, anche in tema di distanze, del codice civile (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
      f.2) il dovere di rispettare siffatte distanze sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture tra le due pareti fronti stanti e, ai fini dell'operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate; inoltre, la disposizione è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti, in ragione della sua finalità di tutela della salubrità, ed al tale riguardo è esclusa ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l'esistenza in concreto di intercapedini e di condizioni di pregiudizio alla salubrità dei luoghi, stante la sua portata generale, astratta e inderogabile (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 3522 del 04.08.2016);
      f.3) l’art. 9, comma 2, cit. riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali, gli edifici (o parti o sopraelevazioni di essi) “costruiti per la prima volta”, e non già gli edifici preesistenti (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
      f.4) dall’ambito applicativo della norma, va esclusa la fattispecie (non sussistente nel caso all’esame, attesa l’imponente sopraelevazione) della mera ricostruzione dell’immobile demolito, atteso che –altrimenti- si otterrebbe:
a) la perdita di volume dell’immobile, non potendo –il medesimo immobile- che essere ricostruito, se non arretrato, rispetto all'allineamento preesistente;
b) il disallineamento del fabbricato ricostruito rispetto agli altri immobili preesistenti, con un evidente vulnus estetico e realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l'articolo 9 intende perseguire (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
   g) i principi di diritto enucleati dall’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017 (bilanciamento tra l’interesse pubblico e privato e tutela del legittimo affidamento) riguardano il caso specifico in cui le opere siano state realizzate e occorra, pertanto, dare luogo ad un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra l’interesse pubblico sostanziale al ristabilimento della legalità violata e l’interesse privato alla conservazione del bene. Nel caso de quo, attesa la mancata realizzazione delle opere, la natura imperativa ed inderogabile della disciplina edilizia in materia di distanze (il DM 1444 del 1968 è stato emanato in attuazione della legge n. 1150 del 1942) e la pronuncia di incostituzionalità della Legge regionale che consentiva di derogare a tale disciplina, non può darsi luogo ad automatica applicazione di siffatti principi esegetici;
   h) in ogni caso, anche laddove vi si volesse fare richiamo, il rispetto dei parametri edilizi normativi evidenzia, di per sé, la natura degli interessi pubblici che in concreto si assumono pregiudicati dall’intervento in contestazione, nonché la loro prevalenza rispetto agli interessi privati antagonisti, in ragione della loro rilevanza costituzionale e delle inderogabili finalità di interesse generale che sono chiamate a presidiare;
   i) non può dirsi radicato, inoltre, alcun ragionevole affidamento del privato in ordine alla conservazione del titolo, atteso che:
1) l’Amministrazione comunale si è sempre attivata, richiedendo alla parte privata le dovute integrazioni documentali volte a chiarire la reale portata dell’intervento programmato;
2) l’Amministrazione ha emanato un espresso provvedimento di diniego, perché in contrasto con la disciplina edilizia della zona;
3) è intercorso un brevissimo lasso di tempo –poco più di due mesi– tra il deposito (in data 17.08.2016) della sentenza del Tar Molise, dichiarativa dell’intervenuta formazione del silenzio assenso, e l’avvio (in data 31.10.2016), del procedimento di autotutela per la rimozione del titolo medesimo;
4) in ogni caso, è ragionevole, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, anche il lasso di tempo intercorso tra la prospettata formazione del silenzio assenso (04.07.2015) e la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela (31.10.2016);
   l) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 185 del 20.07.2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della L.R. 30/2009 che, nella originaria formulazione, prevedeva la possibilità di derogare ai limiti di distanza tra fabbricati di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968. L’esercizio del potere di annullamento officioso, da parte del Comune di Campobasso, non rinviene preclusioni di sorta, in considerazione del fatto che non si è prodotto alcun effetto intangibile o irreversibile (è mancato un giudicato sulla legittimità del titolo edilizio);
   m) il progetto edilizio in questione non può beneficiare della deroga contenuta nell'ultimo comma dell'articolo 9 cit. (“Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”), perché, per un verso, manca il piano attuativo di iniziativa pubblica o privata e, per un altro verso, l’intervento riguardo un solo fabbricato e non “gruppi di edifici”;
   n) la deliberazione n. 2/2010, in attuazione del piano casa di cui alla legge regionale n. 30/2009, non equivale all’adozione e all’approvazione del piano particolareggiato di esecuzione, secondo quanto previsto dall’art. 13, della legge n. 1150 del 1942;
   o) il rispetto degli allineamenti, in presenza di edifici che si fronteggiano, resta comunque condizionato al rispetto della disciplina delle distanze tra edifici di cui al DM 1444/1968, a prescindere dallo stato di urbanizzazione dell’area. Devono, inoltre, essere osservate le norme sugli allineamenti verticali;
   p) non è ravvisabile lo sviamento di potere rispetto alla funzione tipica: il provvedimento di autotutela è stato emanato sul presupposto della violazione di una norma inderogabile di natura imperativa (il DM 1444 del 1968, in attuazione della legge delega n. 1150 del 1942), non in ragione del vincolo culturale (vincolo, peraltro, annullato in via giurisdizionale dalla sentenza non definitiva della Sezione n. 6166 del 2017).

EDILIZIA PRIVATAF. Ressa, Come misurare la distanza tra edifici? Lo ha chiarito la Cassazione (09.05.2019 - link a http://biblus.acca.it). 
aprile 2019

EDILIZIA PRIVATA: Cassazione: le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale ma in modo lineare. Ai Comuni è sì consentito stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare.
Le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare. Lo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. è di impedire la formazione di intercapedini nocive.
Lo ha ribadito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella sentenza 16.04.2019 n. 10580.
In questa recente sentenza viene richiamato un consolidato orientamento della Cassazione, secondo cui "
le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive, sicché la norma cennata non trova giustificazione se non nel caso che i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farle avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto" (così Cass. 2548/1972, più di recente cfr. Cass. 9649/2016).
Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell'art. 873 c.p.c., stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare (commento tratto da www.casaeclima.com).

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I primi tre motivi, tra loro strettamente connessi, sono fondati.
Il giudice d'appello ha osservato che "oggetto di censura è unicamente la modalità radiale di misurazione" cui sono quindi limitati "l'esame e la decisione del gravame", che, in forza del richiamo operato dagli artt. 872 e 873 c.c., i regolamenti edilizi e i piani regolatori generali hanno valore di legge e possono sempre stabilire una distanza maggiore, il che può indifferentemente avvenire sia in virtù della espressa indicazione di una maggiore misura dello spazio che come effetto di una particolare misurazione da essi imposta, così che -conclude il giudice- è legittimo il metodo radiale stabilito dall'art. 18 delle norme di attuazione del piano regolatore del Comune di Lierna e bene ha fatto il giudice di primo grado ha ritenere violata la distanza minima.
L'iter argomentativo del giudice si pone in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui "
le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive, sicché la norma cennata non trova giustificazione se non nel caso che i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farle avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto" (così Cass. 2548/1972,  più di recente cfr. Cass. 9649/2016).
Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell'art. 873 c.p.c., stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare.
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Al riguardo, si legga anche:
  
● F. Ressa, Come misurare la distanza tra edifici? Lo ha chiarito la Cassazione (09.05.2019 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: il principio della prevenzione.
In tema di distanze tra edifici, il principio della prevenzione è escluso solo in presenza di una norma del regolamento edilizio comunale che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine. Ne consegue che, in assenza di una siffatta previsione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione in base al principio della prevenzione il proprietario che costruisce per primo condiziona la scelta del vicino che voglia a sua volta costruire (Corte d'Appello di Catania, Sez. II, sentenza 11.04.2019 n. 842 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il calcolo delle distanze tra edifici.
Ai fini del calcolo delle distanze tra edifici assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi carattere della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che si tratti di sporgenze e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell’igiene (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 02.04.2019 n. 485 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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18.- Al riguardo, il Tribunale ritiene che nel calcolo delle distanze non possano non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste ultime, tenuto conto della loro apprezzabile consistenza (larghezza di 2 mt) possono considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
19.- Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
20.- Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia (Cfr., Cassazione civile sez. II, 29/01/2018, n. 2093).
21.- In realtà, l'art. 9 delle NTA del Piano particolareggiato del Comune di Gravina non introduce un criterio di calcolo delle distanze diverso da quello prescritto dalla legislazione statale, posto che quando impone i limiti di distacco dal confine, si riferisce -non escludendoli espressamente- anche ai balconi che fanno parte di tali costruzioni.
22.- Né ad una diversa conclusione può pervenirsi applicando –come suggerisce la difesa della controinteressata- le modalità di computo delle distanze minime tra i fabbricati, indicate dall’art. 9 delle NTA come “la lunghezza del segmento intercorrente tra le fronti di edifici antistanti, effettuata perpendicolarmente alle pareti e sul piano orizzontale, escludendo gli aggetti ed i balconi totalmente aperti”.
23.- Il Collegio, infatti, ritiene che, anche in sede di computo minimo delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed ordinario.
24.- Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma 2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali, evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011, n. 14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458).
25.- Del resto, la stessa giurisprudenza citata dalla controinteressata, limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2016, 5552), situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
26.- Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza” (TAR Genova, sez. I, 21/11/2013, n. 1406).
27.- E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”, che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali (Consiglio di Stato sez. VI, 10/09/2018, n. 5307 Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n. 1272).
28- Sotto altro aspetto, contrariamente a quanto ritenuto dalla società controinteressata, non trova integrale applicazione il principio della c.d. prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle altre costruzioni sui fondi vicini.
29.- Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come nel caso in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali. (Cassazione civile sez. II, 21/02/2019, n. 5146).
30.- Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i fabbricati”.
31.- Pertanto, e, in assenza di una costruzione in aderenza, la controinteressata era tenuta al rispetto della distanza minima di 5 mt dal confine prevista dalle disposizioni delle NTA del Piano particolareggiato, al riguardo imprescindibilmente vincolanti, in mancanza di diverso accordo tra le parti.
32.- Alla luce delle considerazioni che precedono, ed assorbite le restanti censure, il ricorso deve essere accolto.

EDILIZIA PRIVATAIl Tribunale ritiene che nel calcolo delle distanze tra fabbricati non possano non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste ultime nel caso di specie, tenuto conto della loro apprezzabile consistenza (balconi della larghezza di 2 mt), possono considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia.
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Il Collegio ritiene che, anche in sede di computo minimo delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed ordinario.
Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma 2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali, evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc.
Del resto, la stessa giurisprudenza limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume utile dell’edificio, situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza”.
E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”, che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali.
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Sotto altro aspetto, non trova integrale applicazione il principio della c.d. prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle altre costruzioni sui fondi vicini.
Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come nel caso in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali.
Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i fabbricati”.
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10.- Nel merito, il ricorso è fondato.
11.- L’art. 9 delle NTA del Piano Particolareggiato del Comune di Gravina di Puglia, invero, prescrive che “l’edificazione, quando non avvenga in aderenza, deve rispettare una distanza minima dal confine di 5 metri. E’ consentita la costruzione di un fabbricato a meno di 5 metri dal confine solo nel caso in cui tra i confinanti si stabilisca un accordo che assicuri il rispetto della distanza totale prescritta tra i fabbricati”.
12.- La norma in questione, quindi, nel caso in cui non si ritenga di costruire in aderenza, consente la deroga convenzionale della distanza minima di 5 metri dal confine.
13.- Ciò posto, e in mancanza dell’accordo tra confinanti previsto dall’art. 9 delle NTA di Piano, il Collegio ritiene sussistere la contestata violazione delle distanze prescritte dalle citate NTA.
14.- La controinteressata, infatti, si è limitata a rappresentare al Comune di aver “notiziato” i proprietari limitrofi della richiesta di permesso di costruire con lettera raccomandata, dal cui contenuto, tuttavia, non emerge affatto –come sarebbe stato necessario- una specifica richiesta ai confinanti di consenso alla deroga circa il regime delle distanze.
E ciò nonostante l’accordo richiesto dall’art. 9 citato abbia un oggetto ben preciso dovendo le parti stabilire consensualmente le modalità che consentano di rispettare la distanza totale (di dieci metri) prescritta tra i fabbricati.
15.- Che sia mancato il consenso “tacito” dei ricorrenti è assunto, peraltro, che trova conferma nella circostanza di fatto che i ricorrenti, solo a seguito dell’esame del progetto da parte del tecnico di fiducia, sono stati posti nelle condizioni di prestare un consenso o un dissenso informato in ordine alla nuova costruzione in deroga alle distanze fissate nel Piano.
Tale dissenso, pertanto, è stato correttamente esercitato prima con le note del 06.11.2018, indirizzate al Comune di Gravina di Puglia e, poi, con la proposizione dell’odierno ricorso.
16.- Tanto premesso, il Collegio rileva che il progetto assentito effettivamente prevede la costruzione del fabbricato a distanza di m. 3,00 dal confine con la porzione di terreno di proprietà degli odierni ricorrenti, inferiore, quindi, alla distanza di 5 metri prescritta, dall’art. 9 delle NTA, per gli edifici dal confine qualora l’edificazione non sia in aderenza.
La perizia depositata dagli istanti in giudizio, sul punto non smentita dalla controinteressata, dà infatti atto che sul confine nord con la proprietà degli odierni ricorrenti “dal corpo di fabbrica della Ir.Im. srl sono stati previsti degli aggetti sporgenti aventi una larghezza di mt. 2,00, tal da ridurre la distanza dal confine a metri 3”.
17.- Tale circostanza, peraltro, è stata confermata dalla stessa amministrazione civica che, all’atto del sopralluogo del 11.01.2018, ha accertato la demolizione del balcone (peraltro oggetto di apposita Scia), comunicato dalla controinteressata con nota del 13.12.2018.
18.- Al riguardo, il Tribunale ritiene che nel calcolo delle distanze non possano non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste ultime, tenuto conto della loro apprezzabile consistenza (larghezza di 2 mt) possono considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
19.- Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
20.- Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia (Cfr., Cassazione civile sez. II, 29/01/2018, n. 2093).
21.- In realtà, l'art. 9 delle NTA del Piano particolareggiato del Comune di Gravina non introduce un criterio di calcolo delle distanze diverso da quello prescritto dalla legislazione statale, posto che quando impone i limiti di distacco dal confine, si riferisce -non escludendoli espressamente- anche ai balconi che fanno parte di tali costruzioni.
22.- Né ad una diversa conclusione può pervenirsi applicando –come suggerisce la difesa della controinteressata- le modalità di computo delle distanze minime tra i fabbricati, indicate dall’art. 9 delle NTA come “la lunghezza del segmento intercorrente tra le fronti di edifici antistanti, effettuata perpendicolarmente alle pareti e sul piano orizzontale, escludendo gli aggetti ed i balconi totalmente aperti”.
23.- Il Collegio, infatti, ritiene che, anche in sede di computo minimo delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed ordinario.
24.- Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma 2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali, evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011, n. 14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458).
25.- Del resto, la stessa giurisprudenza citata dalla controinteressata, limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2016, 5552), situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
26.- Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza” (TAR Genova, sez. I, 21/11/2013, n. 1406).
27.- E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”, che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali (Consiglio di Stato sez. VI, 10/09/2018, n. 5307 Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n. 1272).
28- Sotto altro aspetto, contrariamente a quanto ritenuto dalla società controinteressata, non trova integrale applicazione il principio della c.d. prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle altre costruzioni sui fondi vicini.
29.- Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come nel caso in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali. (Cassazione civile sez. II, 21/02/2019, n. 5146).
30.- Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i fabbricati”.
31.- Pertanto, e, in assenza di una costruzione in aderenza, la controinteressata era tenuta al rispetto della distanza minima di 5 mt dal confine prevista dalle disposizioni delle NTA del Piano particolareggiato, al riguardo imprescindibilmente vincolanti, in mancanza di diverso accordo tra le parti.
32.- Alla luce delle considerazioni che precedono, ed assorbite le restanti censure, il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 02.04.2019 n. 485 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2019

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la legge regionale veneta che consente, nell’ambito del “piano casa”, la deroga alle altezze di cui al d.m. 1444 del 1968.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato solleva questione di legittimità costituzionale della norma che, nell’ambito della disciplina della Regione Veneto sul “piano casa”, stabilisce che gli ampliamenti e le ricostruzioni degli edifici esistenti possano avvenire anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze di cui al d.m. n. 1444 del 1968.
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Alla Corte costituzionale la legge regionale veneta che consente, nell’ambito del “piano casa”, la deroga alle altezze di cui al d.m. 1444 del 1968.
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Edilizia – Disposizioni statali in materia di altezze – Legge Regione Veneto – Deroga alle altezze – Questione non manifestamente infondata di costituzionalità.
È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 8-bis, della legge regionale del Veneto 08.07.2009, n. 14 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117, secondo comma lett. l) e terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui consente le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal d.m. 1444 del 1968 (1).

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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la Sesta Sezione del Consiglio di Stato -chiamata a pronunciarsi sulla ammissibilità di un intervento edilizio di demolizione e ricostruzione con ampliamento, attuativo della normativa regionale sul c.d. “piano casa” e comportante il rialzamento del quaranta per cento dell’edificio esistente– ha sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione della legge regionale veneta che consente la deroga “alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968”.
La fattispecie che ha condotto alla rimessione alla Corte costituzionale può essere così sintetizzata:
   − il contenzioso avviato dinanzi al Tar per il Veneto ha ad oggetto un intervento di demolizione e ricostruzione con incremento volumetrico, attuativo della disciplina del c.d. “piano casa” di cui alla legge regionale del Veneto n. 14 del 2009, intervento contestato dal confinante, tra l’altro, nella parte in cui prevede un’altezza del nuovo edificio superiore al 40 per cento rispetto all’edificio preesistente, ritenendo parte ricorrente che l’incremento di altezza risulti illegittimo;
   − la contestazione riguarda l’applicazione dell’art. 9, comma 8-bis, della legge regionale n. 14 del 2009, che consente un incremento di altezza fino al 40 per cento dell’“edificio esistente”; si contesta che il progettista abbia sì calcolato il 40% dell’altezza dell’edificio esistente, ma, anziché sommare detta percentuale allo stesso edificio che ha generato l’incremento, l’abbia aggiunta all’altezza dell’immobile più alto della zona;
   − il Tar per il Veneto, sez. II, con sentenza n. 944 del 2017, ha sul punto accolto il ricorso, evidenziando che non può considerarsi come “edificio esistente” l'edificio circostante più alto, come invece erroneamente ritenuto dal Comune, poiché “l'edificio esistente è l'edificio che è oggetto di ampliamento”;
   − interposto appello avverso la citata sentenza, il Consiglio di Stato, ha ritenuto di sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale della norma regionale della cui applicazione si controverte tra le parti.
   II. – Nella fattispecie in esame viene in considerazione il “piano casa” di cui alla legge regionale veneta 08.07.2009, n. 14 e, in particolare, la disposizione di cui all’art. 9, comma 8-bis, frutto di inserimento nel corpo normativo originario ad opera della legge regionale 29.11.2013, n. 32, che consente la deroga alla disciplina delle altezze degli edifici di cui al d.m. n. 1444 del 1968 e richiama altresì la norma statale di cui all’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
Appare utile richiamare le disposizioni legislative evocate, per una esatta comprensione della questione di legittimità costituzionale sollevata:
      a) d.m. 02.04.1968, n, 1444, art. 8 “limiti di altezza degli edifici”: “Le altezze massime degli edifici per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture; per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico.
2) Zone B): l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all'art. 7.
3). Zone C): contigue o in diretto rapporto visuale con zone del tipo A): le altezze massime dei nuovi edifici non possono superare altezze compatibili con quelle degli edifici delle zone A) predette.
4) Edifici ricadenti in altre zone: le altezze massime sono stabilite dagli strumenti urbanistici in relazione alle norme sulle distanze tra i fabbricati di cui al successivo art. 9
”;
      b) art. 2-bis d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (introdotto dal decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98), rubricato “deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati”: “Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”;
      c) art. 9, comma 8-bis, legge regionale Veneto 08.07.2009, n. 14 (introdotto dalla legge regionale 29.11.2013, n. 32): “Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l'obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell'articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell'altezza dell'edificio esistente”.
   III. – Nell’ordinanza in rassegna la sesta sezione del Consiglio di Stato giunge a sollevare questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 8-bis, della l.r. n. 14 del 2009 sulla base del seguente percorso argomentativo:
      d) con l'introduzione, nel t.u. edilizia, dell'art. 2-bis da parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98, l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull'edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali e più in generale delle previsioni stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell'ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio;
      e) la deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici, deve quindi ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario;
      f) appare non coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e ribadite dal disposto di cui all'art. 2-bis TUE, il mancato riferimento della norma impugnata a quella tipologia di atti menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del 1968 richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle altezze e delle distanze:
         f1) la stessa giurisprudenza costituzionale ha stabilito con riferimento alle distanze -sebbene con una considerazione che pare potersi estendere anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m. e la generalità della previsione letterale dell’art. 2-bis (ben più ampia della mera rubrica)- che la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi;
         f2) ne consegue che devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall'art. 2-bis del TUE, in linea con l'interpretazione nel tempo tracciata dalla Corte costituzionale;
      g) tali stringenti presupposti della deroga, non si rivengono nel testo della norma regionale in contestazione:
         g1) il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore regionale veneto, appare infatti in contrasto con il puntuale contenuto che dovrebbe assumere una previsione siffatta, risultando destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata pianificazione urbanistica;
         g2) l'assenza di precise indicazioni, in coerenza con quanto già evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, non consente di attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione necessariamente coerente con l'esigenza di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del territorio; infatti, la dizione della norma si presta, sul piano semantico, a legittimare (come avvenuto nel caso di specie) anche interventi diretti a singoli edifici, in aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte in precedenza;
         g3) in tale ottica appare pertanto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma censurata, in quanto legittima deroghe alla disciplina delle altezze dei fabbricati al di fuori dell'ambito della competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, a fronte del principio contenuto nell’art. 2-bis cit., ed in violazione del limite dell'ordinamento civile assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato;
      h) va altresì richiamata la valenza generale del d.m. 02.04.1968 n. 1444 che, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies, della legge 17.08.1942 n. 1150, inserito dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati:
         h1) le relative disposizioni in tema di distanze tra costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad adeguarvisi nell'approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma sono immediatamente operanti nei confronti dei proprietari frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le altezze, poiché scopo delle norme regolamentari concernenti l'altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell'igiene pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell'indirizzo urbanistico dell'abitato;
         h2) la giurisprudenza è da tempo orientata in modo univoco ad affermare che il decreto ministeriale in questione (ascrivibile secondo una preminente teoria all'atipica categoria dei regolamenti delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati;
         h3) a fronte della riconosciuta valenza del d.m. 1444, confermata dalla consolidata giurisprudenza costituzionale, gli spazi di derogabilità appaiono ammissibili, in capo al legislatore regionale, nei limiti dettati dal legislatore statale, dotato di competenza in tema appunto di principi fondamentali in materia di governo del territorio; orbene, nel caso di specie il legislatore regionale appare aver oltrepassato detti limiti, nella parte in cui consente le indicate deroghe al di fuori dell’ammesso ambito di “definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
   IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
      i) sulla disciplina del c.d. “piano casa” si veda:
         i1) in dottrina F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura di), Il piano casa – Commento organico all’Intesa Stato-Regioni del 31.03.2009 e a tutte le leggi regionali, Roma 2009 ed ivi, in particolare: R. GIANI, Conferenza Stato-Regioni ed enti locali- Intesa del 31.03.2009 (pp. 5 ss.) e M. RAGAZZO, Il piano casa del Veneto (pp. 173 ss.);
         i2) in giurisprudenza, Cons. Stato, sez. IV 26.07.2017, n. 3680 sul piano caso della regione Veneto e sui requisiti del silenzio assenso previsto dal d.l. n. 70 del 2011; sez. IV, 19.04.2017, n. 1828 (in Foro it., 2017, III, 652), sul piano casa della regione Campania, sulla inderogabilità del d.m. n. 1444 del 1968 e sui requisiti del silenzio assenso previsto dal d.l. n. 70 del 2011; sez. IV, 05.09.2016, n. 3805, sul piano casa della regione Campania, sui requisiti del silenzio-assenso e sulla autotutela nei confronti di un titolo edilizio formatosi per silenzio assenso;
      j) sulla legge regionale Veneto 08.07.2009, n. 14 si veda l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del Tar per il Veneto, sez. II, 12.12.2018, n. 1166 (oggetto della News US n. 14 del 18.01.2019, cui si rinvia per ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza), relativa alle previsioni regionali che consentono la deroga alle distanze dai confini stabilite dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti locali;
      k) sulla disciplina introdotta dal decreto-legge n. 69 del 2013 (che ha inserito nel Testo unico dell’edilizia l’art. 2-bis) si vedano:
         k1) in dottrina: A. DI MARIO, Standard urbanistici e distanze tra costruzioni tra stato e regioni dopo il «decreto del fare» in Urbanistica e appalti, 2013, 1121 ss.; F. DI LASCIO, Il decreto “del fare”: il rilancio dell’economia in Giornale dir. amm., 2013, 12, 1143; A. SCONOCCHIA BIFANI, Deroghe alle distanze fra costruzioni alle luce del d.l. 21.06.2013, n. 69 in Riv. giur. edilizia 2014, 16; D. CHINELLO, Le semplificazioni in materia edilizia nel “decreto del fare” in Immobili e proprietà, 2014, I, 12; S. MORELLI, Edilizia e urbanistica – la proprietà edilizia nella dialettica tra formante statale e formante regionale in Giur. it, 2018, 7, 1575;
         k2) la disciplina in esame è stata interpretata restrittivamente dalla Corte costituzionale, che è intervenuta ripetutamente dichiarando l'illegittimità di disposizioni regionali che stabilivano distanze inferiori, senza dare rilievo alle condizioni stabilite dalla legge statale: cfr. le sentenze 24.02.2017, n. 41, 03.11.2016, n. 231, 20.07.2016, n. 185, 15.07.2016, n. 178, tutte in Foro it., 2017, I, 2566; Corte cost. 21.05.2014, n. 134 in Foro it., 2014, I, 2009; Corte cost., 23.01.2013, n. 6 in Foro it., 2013, I, 737;
      l) sulla efficacia giuridica del d.m. n. 1444 del 1968 si vedano:
         l1) nell’ambito della giurisprudenza costituzionale:
            l1.1) Corte cost., 24.02.2017, n. 41 cit. secondo cui “nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza —statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»— questa corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del 2016, cit., ma anche sentenze n. 114 del 2012, id., 2012, I, 3265, e n. 232 del 2005, cit.), in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150 (legge urbanistica), introdotto dall’art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche» (ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016, cit.).
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014, id., 2014, I, 2009; analogamente, sentenze n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016, citate), poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati» (sentenza n. 114 del 2012, cit.; nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2005, cit.)
”;
            l1.2) Corte cost., 20.07.2016, n. 185 cit. secondo cui il decreto-legge n. 69 del 2013 “recepisce la ricordata giurisprudenza di questa corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principî fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio»”;
            l1.3) Corte cost., 15.07.2016, n. 178 cit. che ribadisce che il d.m. n. 1444 del 1968 è dotato “di efficacia precettiva e inderogabile”;
            l1.4) Corte cost., 10.05.2012, n. 114 in Foro it., 2012, I, 3265 secondo cui l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 costituisce “principio inderogabile che integra la disciplina privatistica delle distanze”;
         l2) pronunce della giurisprudenza amministrativa:
            l2.1) Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2013, n. 5732, in Foro amm. – CdS, 2013, 12, 3378 (s.m.) secondo cui “il d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, inserito dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati”;
            l2.2.) Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3931, che parla, a proposito dell’art. 9 del d.m. n. 1444 di “prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali”;
         l3) nell’ambito della giurisprudenza civile:
            l3.1) Cass. civ., sez. un. 07.07.2011, n. 14953 in Vita not., 2012, 258, Riv. giur. edilizia, 2011, I, 1197, secondo cui “le norme tecniche di attuazione di un piano regolatore (nella specie, del comune di Viareggio) che impongano il rispetto della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti di esse dotati di finestre, con conseguente esonero per quelli ciechi, contrastano con il disposto dell'art. 9, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, che prescrive l'osservanza di tale distacco con riferimento all'intera estensione della parete, sicché esse vanno disapplicate e sostituite, previa inserzione automatica, con la diversa disposizione della norma statale, direttamente applicabile nei rapporti con i privati”;
            l3.2) Cass. civ., sez. un., 01.07.1997, n. 5889 in Giust. civ., 1997, I, 2075, Corriere giur., 1997, 1310, con nota di GIOA, Arch. civ., 1997, 1090 secondo cui invece “il d.m. 02.04.1968 n. 1404 (emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dalla l. 06.08.1967 n. 765) che all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici ma non è immediatamente operante anche nei rapporti fra i privati”.
      m) sul concetto di “edificio esistente”, la cui altezza non può essere superata, nella previsione dell’art. 8 del d.m. n. 1444 del 1968:
         m1) Cons. Stato, sez. IV, 09.09.2014, n. 4553 sul concetto di edifici “circostanti”, “confinanti” e “limitrofi”, ai fini della valutazione delle altezze ammissibili;
         m2) Cons. Stato, sez. IV, 14.05.2014, n. 2469 secondo cui “l’art. 8 del d.m. n. 1444/1968 nello stabilire le altezze massime degli edifici per le diverse zone territoriali, prevede espressamente per le zone B, come quella qui in rilievo, che l’altezza massima dei nuovi edifici non può superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, <con l’eccezione di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o di lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche>” e tale norma deve essere interpretata nel senso che “occorre fare riferimento all’altezza degli edifici limitrofi e non al più vasto ambito territoriale che identifica la zona (Cons. Stato Sez. IV 02/11/2010 n. 731)”;
         m3) l’art. 8 del d.m. n. 1444 del 1968 secondo cui in zona A “per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico”;
         m4) Tar per il Veneto, sez. II, 21.04.2016, n. 429 affronta il caso di edificio oggetto di sopraelevazione, in applicazione della legge regionale n. 14 del 2009, che già prima della sopraelevazione stessa risultava più alto dell’edificio storico-artistico confinante; la tesi del ricorrente era nel senso che, in detta ipotesi, il limite sopra citato non potesse trovare applicazione; il Tar per il Veneto ha invece concluso nel senso che “la tesi secondo la quale il limite d’altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico non sarebbe applicabile alle sopraelevazioni di edifici già più alti, non è condivisibile. Infatti, come è stato osservato (cfr. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale 22.03.2006 n. 107), le disposizioni che disciplinano l’edificabilità nei centri storici sono finalizzate a tutelare non solo il valore di singoli manufatti architettonici, ma la conservazione in sé del contesto e dell’integrità dei complessi urbanistici ed architettonici in un’ottica di completezza dell’insieme, e quindi dell’assetto viario preesistente, delle altezze e dei caratteri figurativi degli edifici. Pertanto sembra corretto ritenere che, ove si ammettesse l’inesistenza di qualsiasi limite alla sopraelevazione degli edifici già più alti di quelli circostanti di carattere storico artistico, verrebbero compromesse sia le finalità di tutela degli edifici vincolati in termini di prospettiva, di luce, di condizioni di ambiente e di decoro, sia quelle di conservazione dei caratteri originari del centro storico, e in tale ottica, come condivisibilmente afferma il Comune nelle proprie difese, anche una sopraelevazione contenuta risulta in realtà idonea a comportare un aggravamento del contesto. Ne discende che la prima censura, con la quale la parte ricorrente lamenta l’erronea applicazione dell’art. 8, primo comma, n. 1), del d.m. 02.04.1968, n. 1444, per non aver considerato che l’edificio da sopraelevare è già più alto di quello vincolato deve essere respinta” (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 01.03.2019 n. 1431 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la legge regionale Veneto che consente la deroga sulla distanze tra edifici.
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Edilizia – Distanze – Veneto – Art. 9, comma 8-bis, l.reg. n. 14 del 2009 – Deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal d.m. n. 1444 del 1968 – Violazione 117, commi 2, lett. l), e 3, Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 8-bis, l.reg. Veneto 08.07.2009, n. 14 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117, commi 2, lett. l), e 3, Cost., nella parte in cui consenta le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal d.m. n. 1444 del 1968 (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 9, comma 8-bis, l.reg. Veneto 08.07.2009, n. 14, nella parte in cui consente le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal d.m. n. 1444 del 1968, è in contrasto con i principi della legislazione statale, dettati dallo stesso d.m. e dall’art. 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente violazione dell’art. 117, commi 2, lett. l), e 3 Cost., in specie laddove non si prevede che le consentite deroghe debbano operare nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.
Ha ricordato la Sezione che con l'introduzione dell'art. 2-bis del TUE, da parte dell'art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della l. 09.08.2013, n. 98, l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull'edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali e più in generale delle previsioni stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell'ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (cfr. ad es. sentenze nn. 185 del 2016 e 189 del 2016).
La norma statuisce quanto segue: “Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali“.
La deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici deve quindi ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario.
Alla luce delle considerazioni svolte, appare non coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e ribadite dal disposto di cui all'art. 2-bis t.u. edilizia, il mancato riferimento della norma impugnata a quella tipologia di atti menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del 1968, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle altezze e delle distanze.
Inoltre, la stessa giurisprudenza costituzionale ha stabilito, con riferimento alle distanze sebbene con una considerazione che pare potersi estendere anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m. e la generalità della previsione letterale dell’art. 2 bis (ben più ampia della mera rubrica), che la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del 2013).
Ne consegue che devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall'art 2-bis del TUE, in linea con l'interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte (sentenze nn. 231, 189, 185 e 178 del 2016 e n. 134 del 2014).
Tali peculiari elementi presupposti della deroga non si rivengono nell’art. 9, comma 8-bis, l.reg. Veneto n. 14 del 2009. Il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore regionale veneto al comma 9 bis in oggetto, appare infatti in contrasto con lo stringente contenuto che dovrebbe assumere una previsione siffatta, risultando destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata pianificazione urbanistica (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 01.03.2019 n. 1431 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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ORDINANZA
2.1 Sempre in via preliminare, emergono i presupposti per la rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della norma regionale oggetto di applicazione e controversa nell’interpretazione fra le parti in causa.
2.2 I fatti di causa, che appaiono sostanzialmente incontroversi fra le parti, concernono un intervento di edilizia abitativa realizzato in Castelfranco Veneto dalla società An., con appalto dei lavori alla ditta Ce. s.r.l., relativo ad un edificio residenziale degli anni cinquanta di cui è stata progettata la demolizione e ricostruzione accedendo alle facoltà premiali introdotte con la normativa regionale veneta relativa al cosiddetto “piano-casa” (ll.rr. nn. 14 del 2009, 13 del 2011 e 32 del 2013), compreso un ampliamento del fabbricato.
Con una serie di ricorsi proposti dalla odierna parte appellata, contitolare di un confinante complesso condominiale, venivano impugnati gli atti adottati dal Comune interessato in relazione al predetto intervento.
All’esito del giudizio di prime cure il Tar Veneto, riuniti i ricorsi, dichiarato inammissibile l’ultimo (in quanto avente ad oggetto un atto meramente confermativo) e respinti per il resto gli altri gravami, accoglieva in parte qua le domande di parte ricorrente, in specie annullando gli atti impugnati limitatamente alla parte in cui il comune di Castelfranco si è determinato erroneamente riguardo la verifica dell'altezza del costruendo edificio. Ciò in accoglimento delle censure dedotte da parte ricorrente con riferimento alla corretta applicazione del comma 8-bis dell'art. 9 della legge regionale n. 14 del 2009; secondo il Tar tale norma, di riferimento per il caso di specie, non consente di considerare come edificio esistente l'edificio circostante più alto, come invece erroneamente imputato dai Giudici di prime cure al comune di Castelfranco.
2.3 Anche le censure dedotte coi vizi di appello, richiamati nella narrativa in fatto, si basano sulla contestata applicazione della norma regionale predetta, di cui occorre pertanto richiamare il tenore letterale: “Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l'obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell'articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell'altezza dell'edificio esistente”.
3.1 Ebbene, ritiene il Collegio che la previsione legislativa all’esame non si sottragga alla questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117, comma 2 lett. l) e comma 3, della Costituzione, quale di seguito rilevata d’ufficio ai sensi dell’art. 23, comma 3, della legge n. 87/1953.
3.2 Si precisa, al riguardo, che la questione è senz’altro rilevante, non potendosi dubitare dell’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale attinenti a leggi di cui il giudice a quo debba fare diretta applicazione ai fini della decisione della causa in relazione al thema decidendum (e, nel giudizio d’appello, al devolutum). Ipotesi, questa, che esattamente ricorre nella fattispecie, risultando con i motivi d’appello devoluti al presente grado questioni che non possono essere decise indipendentemente dall’applicazione della citata disposizione di legge regionale, posta da tutte la parti, pubblica e private, a fondamento sia dei provvedimenti adottati, sia delle tesi dedotte in giudizio in ordine all’ammissibilità o meno dell’intervento progettato.
3.2 In punto di non manifesta infondatezza,
ritiene il Collegio che la citata disposizione, nella parte in cui consenta le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal noto d.m. 1444 cit. sia in contrasto con i principi della legislazione statale, dettati dallo stesso d.m. e dall’art. 2-bis dPR 380/2001, con conseguente violazione dell’art. 117, comma 2, lett. l) e 3 Cost., in specie laddove non si prevede che le consentite deroghe debbano operare nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.
3.3 Come noto, con l'introduzione dell'art. 2-bis del TUE, da parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98, l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull'edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali e più in generale delle previsioni stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell'ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (cfr. ad es. sentenze nn. 185 del 2016 e 189 del 2016).
La norma statuisce quanto segue: “Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali“.
La deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici deve quindi ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (artt. 8 lett. B nel caso di specie e 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
3.4 Alla luce delle considerazioni svolte,
appare non coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e ribadite dal disposto di cui all'art. 2-bis t.u. edilizia, il mancato riferimento della norma impugnata a quella tipologia di atti menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del 1968 richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle altezze e delle distanze.
Inoltre,
la stessa giurisprudenza costituzionale ha stabilito, con riferimento alle distanze sebbene con una considerazione che pare potersi estendere anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m. e la generalità della previsione letterale dell’art. 2-bis (ben più ampia della mera rubrica), che la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del 2013).
Ne consegue che
devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall'art 2-bis del TUE, in linea con l'interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte (ex multis, sentenze nn. 231, 189, 185 e 178 del 2016 e n. 134 del 2014).
3.5 Peraltro, tali peculiari elementi presupposti della deroga non si rivengono del testo della norma regionale in contestazione.
Il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore regionale veneto al comma 9-bis in oggetto, appare infatti in contrasto con lo stringente contenuto che dovrebbe assumere una previsione siffatta, risultando destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata pianificazione urbanistica.
L'assenza di precise indicazioni, in coerenza con quanto già evidenziato dalla richiamata giurisprudenza costituzionale, non consente di attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione necessariamente coerente con l'esigenza di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del territorio; infatti, la dizione della norma si presta, sul piano semantico, a legittimare (come avvenuto nel caso di specie) anche interventi diretti a singoli edifici, in aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte in precedenza.
In tale ottica appare pertanto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma censurata, in quanto legittima deroghe alla disciplina delle altezze dei fabbricati al di fuori dell'ambito della competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, a fronte del principio contenuto nell’art. 2-bis cit., ed in violazione del limite dell'ordinamento civile assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
3.6
In materia va altresì richiamata, a fini di completezza e di estensione dei principi predetti allo specifico tema delle altezze, la valenza generale del d.m. 02.04.1968 n. 1444 che, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, inserito dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 02.12.2013, n. 5732).
Le relative disposizioni in tema di distanze tra costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad adeguarvisi nell'approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma sono immediatamente operanti nei confronti dei proprietari frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le altezze, poiché scopo delle norme regolamentari concernenti l'altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell'igiene pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell'indirizzo urbanistico dell'abitato (cfr. in termini ad es. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3931).
Analogamente la giurisprudenza è da tempo orientata in modo univoco ad affermare che
il decreto ministeriale in questione (ascrivibile secondo una preminente teoria all'atipica categoria dei regolamenti delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati (cfr. a partire da Cass ss.uu. 01.07.1997 n. 5889, nonché ad es. Cass., sez. II, 14.03.2012, n. 4076 e Cass., sez. un., 07.07.2011, n. 14953).
A fronte della riconosciuta valenza del d.m. 1444, confermata dalla consolidata giurisprudenza costituzionale (cfr. sentenze 114/2012, 282/2016, 185/2016, 178/2016, 41/2017), gli spazi di derogabilità appaiono ammissibili, in capo al legislatore regionale, nei limiti dettati dal legislatore statale, dotato di competenza in tema appunto di principi fondamentali in materia di governo del territorio; orbene, nel caso di specie il legislatore regionale appare aver oltrepassato detti limiti, nella parte in cui consente le indicate deroghe al di fuori dell’ammesso ambito di “definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
4. Sussistendo tutti i presupposti per sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 23 l. 11.03.1953, n. 87, la questione, quale sopra sollevata, deve essere devoluta alla Corte Costituzionale, cui gli atti del presente giudizio vanno pertanto immediatamente trasmessi, previa sospensione del presente giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 8-bis, della legge regionale del Veneto 08.07.2009, n. 14 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117, secondo comma lett. l) e terzo comma, della Costituzione, nei sensi e nei termini di cui al punto 3.2 della parte motiva della presente ordinanza.
Dispone la sospensione del presente giudizio sino alla decisione della Corte Costituzionale sulla questione di legittimità costituzionale quale sopra sollevata.

febbraio 2019

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: regolamento edilizio comunale.
In tema di distanze tra edifici, il principio della prevenzione è escluso solo in presenza di una norma del regolamento edilizio comunale che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni.
Ne consegue che, in assenza di una siffatta previsione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione, potendo il prevenuto costruire in aderenza alla fabbrica realizzata per prima, se questa sia stata posta sul confine o a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra fabbricati (nella specie, in applicazione del richiamato principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte di appello che aveva ritenuto che l’indicazione di un distacco minimo tra fabbricati da parte di un regolamento edilizio comunale escludesse la facoltà, in capo ai proprietari dei fondi confinanti, di costruire in prevenzione, essendo implicito in quella disciplina il richiamo alla distanza da mantenere rispetto ai confini)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 21.02.2019 n. 5146 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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1. Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 873, 875 c.c. e 57 del regolamento edilizio comunale, nonché l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c., lamentando che la Corte abbia ritenuto che qualora lo strumento locale preveda una distacco assoluto tra fabbricati, non possa operare la facoltà di costruire in prevenzione, essendo implicito il richiamo ai confini, non rilevando che detto regolamento disciplinava la distanza dal confine, consentendo all'amministrazione di concedere deroghe ai sede di rilascio delle concessioni, così come era accaduto nel caso di specie; che in ogni caso, la pronuncia aveva erroneamente escluso l'operatività del principio della prevenzione.
Il motivo è fondato nei termini che seguono.
I ricorrenti hanno realizzato parte del loro fabbricato sulla part. 230, a confine con le partt. 220 e 396, inedificate, e della part. 229 su cui insisteva un preesistente manufatto.
Per tale parte la nuova costruzione è stato ritenuta illegittima poiché posto a distanza inferiore a mt. 5 dal confine (inedificato), avendo la Corte distrettuale escluso il criterio della prevenzione in virtù della previsione dello strumento urbanistico locale che imponeva un distacco minimo tra fabbricati.
Tale assunto non può essere condiviso.
Questa Corte, con la sentenza a sezioni unite n. 11489/2002 ha precisato che il principio della prevenzione è escluso "solo in presenza di una norma regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine", sussistendo in tal caso l'esigenza di "un'equa ripartizione tra proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione, potendo il prevenuto costruire in aderenza alla fabbrica costruita per prima, se questa sia stata posta sul confine od a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra fabbricati".
Più di recente, componendo un contrasto tra le sezioni semplici, le Sezioni unite di questa Corte hanno ribadito che il principio della prevenzione si applica anche nell'ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella del codice senza imporre una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all'intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c. (Cass. s.u. 10318/2016; Cass. 24714/2017; Cass. 15298/2016).
La sentenza impugnata, avendo -per contro- ritenuto che la costruzione dei ricorrenti dovesse arretrare fino al rispetto di mt. 5 dal confine con le partt. 396 e 220 (all'epoca inedificate) nonché rispetto alla part. 229 (su cui preesisteva una costruzione del resistente), è dunque incorsa nella violazione denunciata, poiché, rispetto al confine inedificato, i ricorrenti potevano edificare sul confine avvalendosi del criterio della prevenzione, mentre, rispetto alla part. 229, la distanza andava calcolata tra i fabbricati, conformemente alle previsioni delle norme locali, senza valutare la legittimità della nuova opera rispetto al confine stesso.

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza.
In tema di distanze legali, sono da ritenere integrative del codice civile le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino, con qualsiasi criterio o modalità, la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d’interessi generali urbanistici, disciplinano solo l’altezza in sé degli edifici, senza nessuna relazione con le distanze intercorrenti tra gli stessi, proteggono, nell’ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini. Ne consegue che, nel primo caso, sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo, invece, è ammessa unicamente la tutela risarcitoria (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 21.02.2019 n. 5142 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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Con il secondo motivo di ricorso si censura la violazione dell'art. 112 c.p.c. nonché la violazione e falsa applicazione dell'art. 872 c.c. per non avere il Tribunale accolto la domanda risarcitoria, in luogo di quella ripristinatoria, non potendo ad avviso della ricorrente darsi luogo alla demolizione in ipotesi di violazione delle norme integrative di quelle del codice civile.
Il motivo è infondato.
Secondo il consolidato indirizzo di Questa Corte, infatti, le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto la loro violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino (Cass. 7384/2001).
In particolare, le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni sono da ritenere integrative delle norme del codice civile, mentre non lo sono le norme che, avendo come scopo principale la tutela d'interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi. Ne consegue che nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, mentre nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria (Cass. 1073/2009).
Nel caso di specie, il regolamento urbanistico locale, disciplinando in modo esplicito la distanza dei fabbricati dal confine, ha carattere integrativo delle norme del codice civile e come tale è suscettibile di tutela ripristinatoria.

EDILIZIA PRIVATAPareti finestrate di edifici fronteggiantesi.
Ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968, assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale rispetto alla frontestante facciata per cui è del tutto irrilevante che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra, atteso che il regolamento edilizio che impone una distanza minima tra pareti finestrate di edifici fronteggiantesi, deve essere osservato anche se dalle finestre dell’uno non è possibile la veduta sull’altro perché la ratio di tale normativa non è la tutela della privacy, bensì il decoro e la sicurezza, ed evitare intercapedini dannose tra pareti (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 19.02.2019 n. 4834 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: I balconi sono rilevanti per le distanze tra vicini. Le superfici finestrate anche se munite di sbarre non si considerano luci. Il limite fissato dal Dm 1444 non è derogabile dalla normativa locale.
Anche i balconi definiscono come "finestrata" una parete in quanto assicurano la possibilità di esercitare la veduta, per cui bisognerà tenerne conto nel calcolo delle distanze tra edifici confinanti.

Così afferma la Corte di Cassazione -Sez. II civile- ordinanza 19.02.2019 n. 4834, dando ragione a un condominio che aveva fatto causa a una società immobiliare perché aveva realizzato un fabbricato a confine con l'edificio condominiale a distanza inferiore a quelle di legge (Dm 1444/1968).
Il Tribunale rigettava la domanda mala Corte d'Appello la accoglieva e condannava la società convenuta a demolire e arretrare la porzione del fabbricato, compresi i balconi aggettanti sino a garantire il rispetto della distanza di 10 metri dal condominio di fronte e al risarcimento dei danni.
I giudici di appello sottolineavano che le risultanze della Ctu avevano evidenziato che effettivamente il fabbricato realizzato dalla società era posto a confine con l'edificio condominiale dovendo, quindi, trovare applicazione l'articolo 873 del Codice civile, con il rinvio alle fonti integrative locali che, però, devono trovare il loro limite nelle previsioni del Dm 1444/1968. Quindi l'eventuale disciplina derogatoria contenuta negli strumenti urbanistici locali che prescrivesse una distanza inferiore ai dieci metri tra pareti finestrate doveva essere disapplicata.
A questo punto veniva fatto ricorso in Cassazione. Uno dei motivi riguardava i balconi presenti sulla parete del fabbricato "incriminato". Si discuteva, cioè, se avessero il carattere di veduta (per cui si doveva applicare il Dm 1444) o di semplici luci: peri costruttori la Ctu era sbagliata perché aveva considerato i balconi, mentre alle finestre sulle pareti erano state poste delle sbarre che impedivano l'affaccio in tutte le direzioni, per cui non si era più al cospetto di vedute ma di semplici luci.
Mala Cassazione, richiamando la giurisprudenza di legittimità, ha precisato che devono intendersi "pareti finestrate" in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, che assicurano la possibilità di esercitare la veduta.
La presenza di balconi lungo la parete dell'edificio della ricorrente di cui si era tenuto conto ai fini del calcolo delle distanze era quindi legittima.
E il ricorso veniva respinto, confermando la demolizione di parte del fabbricato o il suo arretramento.
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IN SINTESI
   1. La pronuncia La Cassazione ha dato ragione a un condominio che aveva fatto causa a una società immobiliare perché aveva realizzato un fabbricato a confine con l'edificio condominiale a distanza inferiore a quelle di legge, confermando l'obbligo di demolire e arretrare una porzione del fabbricato
   2. Nessuna deroga Valgono comunque i limiti del Dm 1444/1968. Quindi l'eventuale disciplina derogatoria contenuta negli strumenti urbanistici locali che prescrivesse una distanza inferiore ai dieci metri tra pareti finestrate deve essere disapplicata (articolo Il Sole 24 Ore del 13.03.2019).
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SENTENZA
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 9 del DM n. 1444/1968 e dell'art. 113 c.p.c., in quanto la tradizionale nozione di parete finestrata include le sole pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza quindi potere prendere in esame le semplici aperture lucifere.
Nella fattispecie, invece, emergeva che le due aperture presenti sulla parete del fabbricato della ricorrente non consentono una possibilità di affaccio stante la collocazione di una sbarra metallica, dovendosi altresì escludere che abbia rilevanza ai fini della norma in esame la presenza di balconi o di una porta.
Il secondo motivo denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., in quanto la sentenza ha omesso di considerare l'assenza di finestre, intese quali vedute, sulla parete del fabbricato di parte convenuta, come peraltro sempre eccepito in tutti gli scritti difensivi.
Il terzo motivo denuncia ex art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. la nullità della sentenza per assenza di motivazione, quanto alla qualificazione della parete come finestrata, nonché per avere fatto riferimento esclusivo alla consulenza di parte attrice e non anche agli accertamenti del CTU, e ciò in violazione degli artt. 132, co. 2, n. 4 c.p.c. e dell'art. 118 disp. att. c.p.c., 61 c.p.c. e 24 e 111 Cost.
I tre motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.
Ed, invero, non può non rilevarsi che, come ammesso da parte della stessa ricorrente, sulla parete del fabbricato di cui è stata ordinata la demolizione ovvero l'arretramento sono collocate, oltre ad alcune aperture, di cui si discute se abbiano carattere di veduta oppure di semplici luci, anche dei balconi, dei quali si è tenuto conto ai fini del calcolo delle distanze (sul presupposto che non fossero dei meri sporti ornamentali), come confortato anche dalla lettura del dispositivo.
La tesi della ricorrente è che, perché possa invocarsi la previsione di cui al citato DM del 1968 n. 1444, lungo una delle pareti frontistanti debbano aprirsi delle finestre intese quali vedute, con la conseguenza che, essendo state apposte delle sbarre in corrispondenza delle finestre ivi allocate, che impediscono la possibilità di affaccio, diretto, laterale e/o obliquo, non si sarebbe più al cospetto di vedute, ma di semplici aperture lucifere, che appunto non rilevano ai fini della norma in esame.
Ritiene il Collegio che tuttavia l'interpretazione della norma de qua non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione in esame.
In tal senso la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito che (cfr. da ultimo Cass. n. 26383/2016),
poiché nella disciplina legale dei "rapporti di vicinato" l'obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione "pareti finestrate" contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri all'art. 9 del d.nn. n. 1444 del 1968 -il quale prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come "vedute", senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette "lucifere" (conf. Cass. n. 6604/2012).
Deve quindi ritenersi che anche la presenza di balconi assicuri la possibilità di veduta (cfr. da ultimo Cass. n. 8010/2018, a mente della quale con riferimento ai balconi, rispetto ad ogni lato di questo si hanno una veduta diretta, ovvero frontale, e due laterali o oblique, a seconda dell'ampiezza dell'angolo), e che quindi la loro presenza sul fronte del fabbricato impone l'applicazione della norma alla quale hanno fatto riferimento i giudici di merito (si veda per la giurisprudenza amministrativa Cons. Stato 05/10/2015 n. 4628, che ha ribadito che per pareti finestrate si devono intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere in esse anche quelle sulle quali si aprono semplici luci, nonché TAR L'Aquila, (Abruzzo), 20/11/2012, n. 788, che ha specificato che ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi per "pareti finestrate", non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l'illegittimo avvicinamento).
Ne consegue che,
attesa la presenza di balconi lungo la parete dell'edificio della ricorrente, va esclusa la dedotta violazione di legge, mentre risulta priva del carattere della decisività la pretesa omessa disamina della circostanza che alcune delle aperture non consentano l'affaccio, trattandosi di affermazione che non tiene conto della necessaria rilevanza che invece assumono i balconi ai fini della presente vicenda.
Né sussiste il dedotto vizio motivazionale, avendo la sentenza adeguatamente fatto richiamo alla presenza dei balconi lungo il fronte del fabbricato della società.
5. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione sotto altro profilo dell'art. 9 del DM n. 1444/1968 nonché dell'art. 113 c.p.c. e dell'art. 2058 c.c., nella parte in cui la sentenza gravata ha condannato la società a demolire tutta la parete finestrata, sebbene la stessa fronteggi una parete priva di finestre.
Si assume che il condominio possa vantare solo il diritto alla chiusura delle finestre ma non anche alla demolizione dell'intera parete.
Il motivo è privo di fondamento.
Questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire il principio per il quale (Cass. n. 5017/2018)
è illegittima una previsione che imponga il rispetto di una distanza minima di dieci metri tra pareti soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi, in quanto l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 detta disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra costruzioni e non tra queste e le vedute.
Ad avviso del Collegio la tesi della ricorrente non può essere condivisa in quanto contrasta con l'interpretazione che delle norme in esame è stata in passato offerta dal giudice di legittimità.
Va in primo luogo richiamato che costituisce opinione consolidata quella secondo cui (cfr. ex multis Cass. n. 20574/2007)
ai fini dell'osservanza delle distanze legali, ove sia applicabile il DM n. 1444/1968 in quanto recepito negli strumenti urbanistici, l'obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che la norma in esame è finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano, quando uno dei due abbia una parete finestrata.
Le Sezioni Unite sono intervenute sul punto ed hanno avuto modo di precisare (cfr. Cass. S.U. n. 14953/2011) che,
attesa l'idoneità del citato art. 9 a dar vita a disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati destinate a prevalere sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, non è legittima una previsione regolamentare che imponga il rispetto della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi.
Come peraltro chiarito anche in motivazione da Cass. n. 15529/2015,
ai fini della corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite, deve ribadirsi che la norma è destinata a disciplinare le distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero, che risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello direttamente antistante alle finestre in direzione ortogonale, con esclusione di quello laterale: ne conseguirebbe la facoltà per i Comuni di permettere edificazioni incongrue, con profili orizzontali dentati a rientranze e sporgenze, in corrispondenza rispettivamente dei tratti finestrati e di quelli ciechi delle facciate.
Ne consegue che assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale rispetto alla frontistante facciata e non già la reciproca posizione delle finestre in entrambe le superfici aperte.

Trattasi di conclusione che appare del tutto coerente con quanto in precedenza affermato, e cioè che (cfr. Cass. n. 8383/1999)
ai fini dell'applicazione della norma in esame è del tutto irrilevante che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra, atteso che (cfr. Cass. n. 11404/1998) il regolamento edilizio che impone una distanza minima tra pareti finestrate di edifici fronteggiantisi, deve esser osservato anche se dalle finestre dell'uno non è possibile la veduta sull'altro perché la "ratio" di tale normativa non è la tutela della privacy, bensì il decoro e sicurezza, ed evitare intercapedini dannose tra pareti.
Va pertanto data continuità al principio già sostenuto da questa Corte, anche prima dell'intervento delle Sezioni Unite del 2011 sopra ricordato, che peraltro si limita a rafforzarne la correttezza, secondo cui (cfr. Cass. n. 13547/2011)
ai fini dell'applicazione della norma in esame è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta, sicché il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre (conf. Cass. n. 5741/2008, a mente della quale, essendo "ratio" della norma non la tutela della riservatezza, bensì quella della salubrità e sicurezza, la medesima va applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle pareti di questi, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento).
Sempre in senso conforme si veda, con specifico riferimento alle fattispecie esaminate, Cass. n. 4715/2001, che ha ritenuto applicabile l'art. 7 del P.R.G. di Viterbo, con formulazione identica all'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, laddove gli edifici per cui è causa si fronteggiavano con una parete finestrata ed uno spigolo di muro, nonché Cass. n. 9207/1991, la cui massima recita a favore dell'applicazione dell'art. 9 sempre che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ed ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta (la vicenda riguardava fabbricati frontistanti solo per un tratto di metri 0,82 dell'uno ed entrambi con pareti prive di finestre nelle rispettive parti contrapposte, avendo la Corte confermato la correttezza della decisione dei giudici di appello che avevano disposto l'arretramento del nuovo corpo di fabbrica fino a ripristinare la distanza di dieci metri, limitatamente al predetto tratto di metri 0,82) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 19.02.2019 n. 4834).
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Al riguardo si leggano anche:
  
● M. Tarantino, Anche i balconi sono rilevanti nella distanza tra gli edifici condominiali (19.03.2019 - link a www.condominioweb.com).
   ● G. D. Nuzzo, Le distanze previste per i muri con vedute si applicano anche in presenza di balconi aggettanti. Anche la presenza di balconi legittima l'applicazione del DM n. 1444/1968 (26.02.2019 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra costruzioni e tra costruzione e confine.
In tema di distanze tra costruzioni e distanze tra costruzione e confine, non v’è alcuna differenza tra fabbricati principali e costruzioni accessorie ai primi; in questo contesto, a nulla valgono le eventuali distinzioni tra gli stessi enucleate nelle norme edilizie locali, le quali possono essere prese in considerazione al solo fine della maggiore distanza imponibile in ragione di quanto disposto dall’art. 873 c.c..
E' quindi da considerarsi illegittima la costruzione di un edificio a distanza inferiore di quella regolamentare, anche con riferimento ad edificio accessorio a quello principale posto su fondo finitimo
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2019 n. 836 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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1. L’appello è infondato e va respinto, il che consente di prescindere dalla disamina dell’eccezione di inammissibilità per acquiescenza dell’originario ricorso di primo grado, articolata dal comune appellato con la memoria depositata il 24.12.2018.
2. E’ incontestato in punto di fatto che l’immobile edificando disterebbe mt. 1,575 dal confine di proprietà.
2.1. Tenuto conto delle N.t.a. comunali, nel senso che verrà di seguito esplicitato, ed anche a dare per incontestato che si trattasse di un ‘corpo accessorio’, l’appello non può essere accolto.
3. Invero, stabilisce l’art. 873 del codice civile che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.”.
4. Per la consolidata giurisprudenza (tra le tante, Cassazione civile, sez. II, 11.09.2018, n. 22054), “le norme dei regolamenti edilizi che impongono distanze tra le costruzioni maggiori rispetto a quelle previste dal codice civile o stabiliscono un determinato distacco tra le costruzioni e il confine sono volte non solo a regolare i rapporti di vicinato evitando la formazione di intercapedini dannose, ma anche a soddisfare esigenze di carattere generale, come quella della tutela dell'assetto urbanistico, così che, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che gli edifici si fronteggino”.
Va sottolineato che la giurisprudenza, sul punto, non fa distinzioni tra corpo principale ed accessorio (Cassazione civile, sez. II, 16.03.2017, n. 6855: “in tema di distanze tra costruzioni e distanze tra costruzione e confine, non v'è alcuna differenza tra fabbricati principali e costruzioni accessorie ai primi. In questo contesto, a nulla valgono le eventuali distinzioni tra gli stessi enucleate nelle norme edilizie locali, le quali possono essere prese in considerazione al solo fine della maggiore distanza imponibile in ragione di quanto disposto dall'art. 873 c.c.. È da considerarsi illegittima la costruzione di un edificio a distanza inferiore di quella regolamentare, anche con riferimento ad edificio accessorio a quello principale posto su fondo finitimo”).
4.1. Muovendo da tali punti di partenza, ed incontestato che -sia con riguardo alle costruzioni, che con riferimento alla distanza dai confini- le N.t.a. comunali possono prevedere una distanza maggiore, rispetto a quella prevista nel codice civile, si osserva che:
   a) l’art. 21, comma 2, delle NTA comunali stabilisce che la distanza dai confini debba essere pari o superiore a metri 5 e la distanza tra costruzioni debba essere pari o superiore a metri 10;
   b) l’art. 7 delle norme di attuazione contiene effettivamente una deroga con riferimento ai corpi accessori, ma detta deroga è riferita soltanto alla distanza tra costruzioni, e non anche alla distanza dai confini;
   c) sebbene si possa riconoscere che il coordinamento tra le due fattispecie sia poco perspicuo, il dato letterale è decisivo, sul punto;
   d) neppure può dirsi –come sostiene la difesa dell’appellante- che intesa nel senso su indicato la deroga di cui all’art. 7 sia inutile, e svuotata di contenuto, in quanto la stessa vale a chiarire la non computabilità dei corpi accessori nell’ipotesi di costruzioni che insistono sul confine.
5. Alla stregua delle superiori, assorbenti, considerazioni, l’appello è infondato e deve essere respinto e la sentenza di primo grado va confermata, con le precisazioni sopra esposte.

novembre 2018

EDILIZIA PRIVATA: Il vano scala, se volumetricamente consistente, è equiparabile ad una costruzione sicché da dover rispettare le distanze legali fra edifici.
Risulta consolidato il principio per il quale, in tema di distanze legali fra edifici, non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati.
Pertanto, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni.
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Integra, dunque, la nozione di "volume tecnico", non computabile nella volumetria della costruzione, solo l'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi -quali quelli connessi alla condotta idrica, termica- di una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa, e non anche quella che costituisce -come appunto il vano scale- parte integrante del fabbricato, ossia corpo di fabbrica.
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2.1. - IL motivo non è fondato.
2.2. - La Corte di merito ha, correttamente, escluso che (ferma restando la riserva alla legge dello Stato della definizione delle "costruzioni" al fine della applicazione dell'art. 873 c.c.), il vano scale dell'immobile in questione non possa non essere considerato a tutti gli effetti una "costruzione", come tale non rientrante nel concetto di sporto.
Trattasi di un accertamento di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione -fondata sui richiamati esiti peritali, secondo i quali "trattasi di due rampe in muratura, di larghezza di mt. 2,51 e lunghezza di mt. 3,17 con all'interno la stanza di alloggiamento dell'impianto di riscaldamento; il tutto infisso, in modo stabile e permanente, al suolo e realizzante una superficie complessiva di mq. 9,98 ed un volume di metri cubi 15,02" (sentenza impugnata, pag. 12)- come tale immune dalle censure sollevate dai ricorrenti (Cass. n. 1916 del 2011), che sostanzialmente si limitano a contestare la qualificazione data dai giudici del merito al manufatto in esame.
2.3. - Va rilevato che risulta consolidato il principio per il quale, in tema di distanze legali fra edifici, non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati (Cass. n. 12964 del 2006).
Pertanto, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni (Cass. n. 17242 del 2010; Cass. n. 18282 del 2016).
Integra, dunque, la nozione di "volume tecnico", non computabile nella volumetria della costruzione, solo l'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi -quali quelli connessi alla condotta idrica, termica- di una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa, e non anche quella che costituisce -come appunto il vano scale- parte integrante del fabbricato, ossia corpo di fabbrica (Cass. n. 2566 del 2011; v. altresì Cass. n. 20886 del 2012) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 27.11.2018 n. 30708).

ottobre 2018

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra edifici.
In tema di distanze tra costruzioni, la deroga alla disciplina stabilita dalla normativa statale realizzata dagli strumenti urbanistici regionali deve ritenersi legittima quando faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planivolumetriche che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni, considerate come fossero un edificio unitario, e siano finalizzate a conformare un assetto complessivo di determinate zone, poiché la legittimità di tale deroga è strettamente connessa al governo del territorio e non, invece, ai rapporti fra edifici confinanti isolatamente intesi (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.10.2018 n. 27638 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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1.1. - Il motivo non è fondato.
1.2. - In reiterate occasioni (cfr. da ultimo Corte Cost. n. 41/2017), la giurisprudenza costituzionale ha ribadito che la disciplina delle distanze fra costruzioni, che ha la sua collocazione nel codice civile, ed in particolare negli artt. 873 e 875, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. Essa, pertanto, rientra nella materia dell'ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, con la conseguenza che è illegittima l'eventuale previsione contenuta in una legge regionale che deroghi alla disciplina statale delle distanze tra fabbricati al di fuori dell'ambito della competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio.
In tale ottica quindi, l'intervento derogatorio del legislatore regionale è consentito solo allorquando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere specifiche caratteristiche rispetto ad altri, per ragioni naturali e storiche; con la conseguenza che la disciplina che li riguarda, e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso, esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici, la cui cura è affidata anche alle Regioni perché attratta all'ambito di competenza concorrente del governo del territorio.
Tuttavia nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza —statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»— il punto di equilibrio deve essere individuato nell'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, dotato di particolare efficacia precettiva e inderogabile, in quanto richiamato dall'art. 41-quinquies I. 17.08.1942, n. 1150, così che, secondo le indicazioni interpretative della giurisprudenza costituzionale, e come poi disposto dall'art. 2-bis del TUE, è legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
L'assenza di precise indicazioni, infatti, non consente di attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione necessariamente coerente con l'esigenza di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del territorio ed implicherebbe quindi l'invasione da parte della Regione della sfera di competenza riservata alla legislazione esclusiva dello stato in materia di ordinamento civile (conf. Corte Cost. n. 232 del 2005; n. 6 del 2013, n. 231 del 2016, n. 189 del 2016, n. 185 del 2016, n. 178 del 2016).
In definitiva è da reputarsi legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche», e quindi «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (Corte Cost. n. 134 del 2014; n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati» (Corte Cost. n. 114 del 2012; nello stesso senso, n. 232 del 2005).
A tal fine si è ritenuto che tali conclusioni debbano essere mantenute ferme anche dopo l'introduzione dell'art. 2-bis del TUE, da parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 98 del 2013, in quanto tale disposizione ha sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull'edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal DM n. 1444/1968 e dell'ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (Corte Cost. n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis, Corte Cost. n. 189 del 2016).
Richiamando quanto affermato, da ultimo, da Corte Cost. n. 41 del 2017, va quindi ribadito che «la deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati ("gruppi di edifici") e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968)»; situazione questa non riscontrabile nella concreta fattispecie.
1.3. - Ciò premesso, nella specie, la Corte di merito -premesso che il primo Giudice aveva erroneamente fondato la decisione su di una risalente giurisprudenza (Cass. n. 13011/2000, n. 6812/2000), secondo la quale le prescrizioni dettate dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 (distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti), essendo dirette ai Comuni, ai fini della formazione degli strumenti urbanistici, non sono immediatamente applicabili nei rapporti tra privati- ha correttamente richiamato la giurisprudenza più recente (Cass. n. 21899 del 2004; Cass. n. 7563 del 2006; Cass. n. 3199 del 2008), la quale ha precisato che il suddetto principio di non immediata operatività del citato art. 9 del D.M. n. 1444/1968 nei rapporti tra privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo per il Giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare la disposizione dell'art. 9 divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico.
La Corte di merito, inoltre, ha ricordato che, più di recente, la Cassazione (sez. un. n. 14953 del 2011) ha stabilito che il suddetto art. 9, essendo stato emanato su delega dell'art. 17-quinquies L. n. 1150/1942, aggiunto dall'art. 17 della L. n. 765/1967, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (si vedano anche, Cass. n. 15458 del 2016; Cass. n. 3199 del 2008). Da ciò, la Corte d'appello ha affermato che la norma regolamentare del Comune di Avezzano, che consente di costruire manufatti a distanza inferiore a 10 metri, vada disapplicata (v. Cass. n. 27558 del 2014; Cass. n. 7563 del 2006).
Conclusione questa che non può essere contestata sull'assunto (dei ricorrenti) secondo cui la previsione della N.T.A. sarebbe comunque assimilabile alle ipotesi, aventi valida portata derogatoria, contemplate nel comma 3 dell'art. 9 del D.M. 1444/1968, diverse essendo le norme tecniche di attuazione dei piani regolatori, le quali hanno natura regolamentare e danno luogo ad uno strumento meramente secondario e subalterno, rispetto ai piani particolareggiati ed alle lottizzazioni convenzionate, i quali danno luogo ad uno strumento urbanistico esecutivo (Cass. n. 23136 del 2016).

EDILIZIA PRIVATA: Disciplina in tema di distanze e di fabbricati.
Il rinvio, contenuto nell’art. 879, comma 2, c.c., alle leggi e ai regolamenti che riguardano le costruzioni “che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche” non va interpretato come deroga all’inapplicabilità, prevista dal medesimo art. 879, comma 2, c.c., delle norme sulle distanze alle pubbliche strade e piazze, concernendo, invece, la disciplina in tema non già di “distanze”, bensì di “fabbricati” (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 29.10.2018 n. 27364 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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2.2. - L'art. 879, secondo comma, c.c. prevede che «Alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano
».
La sentenza impugnata ha affermato, con valutazione non censurabile (né specificamente censurata) in questa sede, che l'area sulla quale si affranza il fabbricato dei ricorrenti (Vicolo Potenza nel comune di sant'Agata di Militello) vada classificata come "via pubblica", alla stregua della presunzione di demanialità ex art. 22, all. F, legge n. 2248/1865, rimasta insuperata in giudizio.
Tuttavia, nonostante tale qualificazione -che condurrebbe ad escludere l'applicazione della disciplina relativa alle distanze, in base a quanto disposto dalla prima parte del secondo comma dell'art. 879 c.c. (per il quale, come detto, "alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze")-, la Corte di merito giunge a ritenere applicabile la disciplina del D.M. n. 1444/1968 e, con essa, la previsione delle distanze, attraverso il tramite del Regolamento edilizio locale del 1983, pervenendo a tale conclusione attraverso il richiamo generale che il menzionato secondo comma dell'art. 879 c.c. fa alla regola dell'osservanza, comunque, "delle leggi e dei regolamenti che le riguardano", tra cui appunto quelle del D.M. n. 1444/1968.
Con ciò -data siffatta interpretazione del secondo comma dell'art. 879 c.c.- la regolazione delle distanze relativamente all'area pubblica non sarebbe a sua volta impedita nella fattispecie dal testo dell'art. 9 del citato D.M. n. 1444/1968 che stabilisce le distanze minime tra fabbricati, anche per quelli "tra i quali siano interposte Strade destinate al traffico di veicoli", ma "con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti".
Sicché, secondo la pronuncia impugnata, l'eccezione relativa alla viabilità a fondo cieco, nella specie al "vicolo", non significherebbe che le distanze tra fabbricati indicate nel citato D.M. non trovino applicazione in dette aree chiuse, bensì soltanto che non avrebbero applicazione le maggiorazioni delle distanze, poste dall'art. 9 in rapporto proporzionale con la larghezza della strada destinata al traffico veicolare, ma resterebbe pur sempre applicabile la regolazione generale della distanza minima di metri 10.
2.3. - Questo Collegio ritiene che le argomentazioni, poste dalla Corte di merito a sostegno della sentenza impugnata, non siano condivisibili.
Ciò, in primo luogo, in ragione del recupero della regolazione delle distanze tramite la enfatizzazione della formula generale dell'ultima parte del secondo comma dell'art. 879 c.c. con la conseguenza che, alla stregua di questa interpretazione (contrastante con gli ordinari canoni di logica ermeneutica e, dunque, con l'art. 12 delle preleggi), si verifica un effetto palesemente distorto, per cui la medesima disposizione finisce contemporaneamente per negare (comma secondo, prima parte) e per affermare (comma secondo parte seconda) l'applicabilità delle norme sulle distanze. Laddove, si deve affermare che la parte prescrittiva che rinvia alle "leggi e regolamenti" intenda piuttosto riferirsi alla disciplina (riguardante non già le "distanze" bensì i "fabbricati") che non interferisce con la tutela del codice civile, inoperante, quanto alle distanze, rispetto alle pubbliche strade e piazze.
In merito, va richiamato il principio secondo cui l'esonero dal rispetto delle distanze legali previsto dall'art. 879 c.c., comma 2, per le costruzioni a confine con le piazze e vie pubbliche (che va riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio, come nella specie, giacché il carattere pubblico della strada, rilevante ai fini dell'applicazione della norma citata) attiene più che alla proprietà del bene, all'uso concreto di esso da parte della collettività (Cass. n. 6006 del 2008; cfr. anche Cass. n. 5172 del 1997; Cass. n. 2463 del 1990; Cass. n. 307 del 1982).
Sicché -tale essendo la medesima esigenza di provvedere all'interesse pubblico all'assetto viario ed alla circolazione urbana che se ne serve- non si ravvisa la ratio sottesa alla diversa disciplina nella stessa materia concernente le distanze, nell'un caso derogandone la imposizione, nel secondo caso estendendone l'imposizione. Il quale effetto si verifica altresì in quanto la esclusione della viabilità a fondo cieco, presente nell'art. 9 D.M. 1444/1968, viene confinata alle sole maggiorazioni delle distanze tra fabbricati che sono poste nello stesso articolo, giacché tale interpretazione riduttiva (al di là della sua collocazione contestuale riferita alle "maggiorazioni") finisce per determinare, nuovamente, causa di frizione logica, nel predicare allo stesso tempo un esonero ed una applicazione di una regola di distanza, che possono elidersi reciprocamente.
2.4. - In secondo luogo, la Corte di merito (pur avendo dichiarato la "natura pubblica del sito e la sua estensione che interferisce per intero con estensione con la antistanza delle pareti" delle costruzioni in oggetto: sentenza, pag. 10), non ne ha tratto la inammissibilità della tutela ripristinatoria. Le disposizioni di legge e regolamentari tra le quali, fra l'altro, il codice della strada ed il relativo regolamento di esecuzione, cui rinvia l'art. 879, comma secondo, cod. civ. per il caso delle costruzioni "in confine con le piazze e le vie pubbliche", non sono dirette alla regolamentazione dei rapporti di vicinato ed alla tutela della proprietà, ma alla protezione di interessi pubblici, con particolare riferimento alla sicurezza della circolazione stradale; [per cui] è da ritenersi insussistente un diritto soggettivo suscettibile di dar luogo a tutela ripristinatoria (Cass. n. 5204 del 2008).
Per l'accoglimento della domanda di riduzione in pristino proposta dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze fra costruzioni contenute in leggi speciali e regolamenti edilizi locali è necessario che le norme violate abbiano carattere integrativo delle disposizioni del codice civile sui rapporti di vicinato, siccome disciplinanti la stessa materia e da esse (artt. 872 e 873 cod. civ.) richiamate, e che si tratti di costruzioni soggette all'obbligo delle distanze e quindi non confinanti con vie o piazze pubbliche (art. 879, secondo comma, cod. civ.); resta pertanto esclusa la riduzione in pristino se tra i fabbricati siano interposte strade pubbliche, ancorché la norma edilizia locale applicabile (integrativa di quelle del codice civile) prescriva che la distanza minima prevista debba essere osservata anche nel caso che tra i fabbricati siano interposte aree pubbliche (Cass. n. 3567 del 1988; conf. Cass. n. 2436 del 1988; Cass. n. 5378 del 1996).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra fabbricati: la distanza minima di 10 metri.
In materia di distanze tra fabbricati, la distanza minima di 10 metri è richiesta anche nel caso in cui una sola delle pareti fronteggianti tra loro sia finestrata (Corte d'Appello di Bari, Sez. III, sentenza 25.10.2018 n. 1814 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: I Comuni possono prescrivere distanze inferiori per gli edifici?
L’ultimo comma dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa nazionale soltanto laddove le costruzioni siano incluse nel piano particolareggiato o nella lottizzazione convenzionata, riguardando dunque solo le distanze tra edifici inclusi in quella determinata zona (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 16.10.2018 n. 25833 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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I motivi sono fondati. La Corte d'appello ha rigettato l'impugnazione sulla base dei seguenti argomenti:
   - il fabbricato degli appellati, che si trova nella zona B1 del Comune di Conversano, è posto a una distanza da quello dell'appellante che rispetta quanto imposto (almeno 6 metri) dai c.d. studi particolareggiati del Comune;
   - dato che l'ultimo capoverso del terzo comma dell'art. 9 del d.m. 1444/1968 prescrive che se un Comune si dota di un piano particolareggiato può prevedere, per le zone territoriali omogenee di tale piano, distanze inferiori a quelle previste dal medesimo d.m., se ne deduce che valgono per la zona B1 le norme tecniche di attuazione degli studi particolareggiati, ossia la distanza minima di 6 metri tra edifici;
   - concludere diversamente significherebbe giungere alla conclusione "catastrofistica" di disapplicare in parte qua non solo le concessioni edilizie ottenute dalla controparte, ma "addirittura" lo strumento urbanistico.
Il ragionamento seguito dal giudice di merito non può essere accolto.
Secondo "l'ormai consolidato orientamento di questa Corte, in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma 2, del d.m. 02.04.1968, n. 1444 ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica", con la conseguenza che "l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma fa insorgere l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma proprio di applicare immediatamente la disposizione del menzionato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata" (così Cass. 23136/2016).
Quanto all'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, essa riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (cfr. Cass., sez. un., n. 1486/1997).
Pertanto, il fatto che gli strumenti urbanistici del Comune di Conversano -che possono essere disapplicati ove contrastino con la disciplina di cui al citato art. 9, disciplina che diviene in tal caso direttamente applicabile- consentissero distanze inferiori rispetto a quelle fissate dalla norma, non è sufficiente per ritenere legittima la deroga, ma è necessario accertare, come prescrive l'ultimo comma dell'art. 9, che le costruzioni fossero in zone incluse in un piano particolareggiato, verifica che non emerge da quanto affermato nella sentenza impugnata.

settembre 2018

EDILIZIA PRIVATA: Alla stregua della consolidata giurisprudenza, va ribadito che:
   a) il D.M. 02.04.1968, n. 1444, recante "Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi edifici"... "in tutti i casi . . . di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti";
   b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della salute dei cittadini (prevenendo la formazione di intercapedini malsane);
   c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile;
   d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
Nello specifico, costituisce orientamento consolidato che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
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La disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit. è applicabile anche nel caso in esame, laddove una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata e l’altra consista nella scalettatura per una parte della facciata posta a distanza inferiore di 10 metri.
Né la distanza è derogabile nel caso in cui –con riferimento all’altra facciata fronteggiante– la sopraelevazione si trovi ad un diversa altezza rispetto all’altra costruzione.
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11. Con il quarto motivo d’appello, si deduce l’errata o falsa applicazione dell’art. 9 del d.m. 1444/1968 in ragione della tipologia delle opere realizzate, consistenti in sporti accessori, muri e balconi.
12. Il motivo d’appello è infondato.
12.1 Il fabbricato della sig.ra Am. è stato oggetto nel corso degli anni degli ampliamenti abusivi di cui alle istanze di sanatoria (domanda di sanatoria prot. n. 13175/1987 e prot. n. 4679/1995 nonché la pratica edilizia in sanatoria n. 10833/1998).
L'Amministrazione ha rilasciato in data 11.02.2016 alla sig.ra Am.Cr. due distinte concessioni in sanatoria, una ai sensi della legge n. 47/1985 e l'altra ai sensi della legge n. 724/1994, relative agli ampliamenti ed alle modifiche apportati all'immobile di Via ... 25.
L’immobile era già stato oggetto d’autorizzazione in sanatoria n. 68 del 17.06.1998, concernente “la sanatoria e il completamento delle opere relative al fabbricato”.
Le opere realizzate e condonate con le concessioni n. 6/c e 7/c consistono in ampliamenti della sagoma dell’edificio (chiusura di una scala, trasformazione di una tettoia aperta), che hanno alterato le preesistenti distanze dal confine e dal fabbricato del ricorrente.
Dalla relazione del verificatore, redatta a seguito del sopralluogo disposto dal TAR e sulla base della documentazione di causa, emerge l’ampliamento del nucleo originario dell’immobile dell’appellante, in estensione fino al muro di confine con la proprietà Massa, fino ad annullare la distanza dell’edificio dal predetto confine.
La relazione del verificatore e la perizia di parte dell’appellato- sostanzialmente corrispondente alle conclusioni dal verificatore – comprovano che l’edificio della sig.ra Am., dopo l’esecuzione dalle opere oggetto dei provvedimenti di condono, non rispetta la distanza di 10 metri dal nucleo originario del fabbricato dell’appellato.
12.2 Alla stregua della consolidata giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017, n. 4337; id., 23.06.2017, n. 3093; id., 08.05.2017, n. 2086; id., 03.08.2016, n. 3510; id., 29.02.2016, n. 856; Cass. civ., sez. II, 14.11.2016, n. 23136), va ribadito che:
   a) il D.M. 02.04.1968, n. 1444, recante "Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi edifici"... "in tutti i casi . . . di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti";
   b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della salute dei cittadini (prevenendo la formazione di intercapedini malsane);
   c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile;
   d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
12.3 Nello specifico, costituisce orientamento consolidato, qui condiviso, che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr., Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1272; Id, sez. IV, 21.10.2013, n. 5108).
12.4 Pertanto, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit. è applicabile anche nel caso in esame, laddove una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata e l’altra consista nella scalettatura per una parte della facciata posta a distanza inferiore di 10 metri.
12.5 Né la distanza è derogabile, come invece ha dedotto l’appellante, nel caso in cui –con riferimento all’altra facciata fronteggiante– la sopraelevazione si trovi ad un diversa altezza rispetto all’altra costruzione (cfr., Cons. St., sez. IV, 20.07.2011, n. 4374).
13. Conclusivamente l’appello deve essere respinto, con la conseguente declaratoria d’assorbimento dei motivi di ricorso proposti in prime cure e riproposti in appello dalla parte appellata sig. Ma. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.09.2018 n. 5307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2018

EDILIZIA PRIVATA: a) il D.M. 02.04.1968 n. 1444, recante "Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi edifici"... "in tutti i casi ... di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti";
   b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della salute dei cittadini (prevenendo la formazione di intercapedini malsane);
   c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile;
   d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, e trova conseguente applicazione anche per gli edifici pubblici.
   e) nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 vanno considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
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Con i motivi d’appello il Comune denuncia l’errore di giudizio in cui sarebbero incorsi i giudici di prime cure nell’omettere di considerare la natura pubblica dell’opera sottratta al regime della distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prescritta dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
L’appello è infondato.
Alla stregua della consolidata giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017, n. 4337; id., 23.06.2017, n. 3093; id., 08.05.2017, n. 2086; id., 03.08.2016, n. 3510; id., 29.02.2016, n. 856; Cass. civ. sez. II, 14.11.2016, n. 23136), mette conto ribadire che:
   a) il D.M. 02.04.1968 n. 1444, recante "Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi edifici"... "in tutti i casi ... di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti";
   b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della salute dei cittadini (prevenendo la formazione di intercapedini malsane);
   c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile;
   d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, e trova conseguente applicazione anche per gli edifici pubblici.
   e) nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 vanno considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr., Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014 n. 1272; Id, sez. IV, 21.10.2013 n. 5108).
Conclusivamente l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.08.2018 n. 5071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi.
Per il che si è ripetutamente ritenuto che la sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti, nuova costruzione.
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Anche il secondo motivo di ricorso (con il quale è lamentata la violazione e la falsa applicazione degli artt. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444 e 21 delle NTA del PRG del Comune di Aquilonia, oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia costituito dalla transazione conclusa fra le parti il 30.11.1994, per avere la Corte di appello erroneamente qualificato come nuova la costruzione in questione, trattandosi in realtà -come emergerebbe da tutti gli elaborati tecnici, di parte e di ufficio in atti- di ricostruzione con adeguamento sismico funzionale ex legge n. 219 del 1981, per essere stata realizzata attraverso un iter particolarmente elaborato sulla scorta delle concessioni n. 13/1987, n. 16/1993, n. 4/1994 e n. 10/1995, quest'ultima in particolare avrebbe recepito in toto la transazione intervenuta fra le parti. Prosegue il ricorrente criticando la sentenza per avere svilito il valore e la portata della transazione) è in parte infondato e in parte inammissibile.
Questa Corte ha in più occasioni evidenziato come, ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione debbasi intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi; per il che si è ripetutamente ritenuto che la sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti, nuova costruzione (Cass. 18.05.2011 n. 10909; Cass. 11.06.1997 n. 5246; Cass. 15.06.1996 n. 5517), così come anche il solo rifacimento di un tetto quando comporti l'aumento delle superfici esterne e dei volumi interni, pur se dei piani sottostanti (Cass. 06.12.1995 n. 12582) (Corte di cassazione, Sez. II civile, ordinanza 13.08.2018 n. 20718).

giugno 2018

EDILIZIA PRIVATA: Violazione di distanza minima tra fabbricati.
Ai sensi dell’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 1444/1968, in tema di distanze legali tra fabbricati è prevista la distanza minima inderogabile di dieci metri per cui un manufatto realizzato a distanza di 6,65 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è senz’altro ubicato a distanza inferiore rispetto a quella legale ne consegue che, pur se nel corso del giudizio viene rimossa l’opera realizzata, il giudice dopo aver dichiarato la cessazione della materia del contendere deve pronunciarsi in merito alle spese di lite (TRIBUNALE di Napoli, Sez. X, sentenza 18.06.2018 n. 6036 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: immobile edificato a distanza inferiore dai limiti di legge - rilascio del permesso di costruire in sanatoria - doppia conformità – necessità assenso del confinante – parere (Legali Associati per Celva, nota 12.06.2018 - tratto da www.celva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze inferiori tra fabbricati: quando sono ammesse?
Ai sensi dell’art. 879, co. 2 c.c., in tema di distanze tra edifici occorre far riferimento al disposto del D.M. 1444/1968, secondo il quale le distanze tra fabbricati, in quanto recepite dalle N.T.A. del piano regolatore comunale, diventano cogenti e integrano le disposizioni in materia del codice civile; in tale ambito la presenza di una strada pubblica può sovvertire gli interessi generali tutelati dalla legislazione urbanistica ed edilizia, mentre distanze inferiori sono ammesse, in deroga, solo in caso di edifici oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.06.2018 n. 3329 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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3. Con un terzo motivo di censura il sig. Ma. lamenta l'erroneità della sentenza nella parte in cui i giudici di prima istanza hanno ritenuto inderogabili i limiti di distanza tra i fabbricati previsti dal D.M. n. 1444/1968.
3.2 La censura non è fondata
Al riguardo si osserva che nell'atto di appello non è contestata la distanza, confermata anche dal verificatore, esistente tra le pareti finestrate dell’edificio della sig.ra Ma.In. e quello prospiciente del sig. Mi.Ma., di mt. 3,80 rispetto al fabbricato preesistente e di metri 3,50 rispetto alla porzione in estensione, distanza ben inferiore, in entrambi i casi, ai metri 10,00 minimi prescritti per la zona B dal primo comma, punto 2, dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444; parimenti non contestato è il non legittimo aumento volumetrico consentito con il permesso di costruire n. 27/2013.
L'appellante, invece, sostiene che, trattandosi di costruzioni a confine con strada pubblica a fondo cieco a servizio dei fabbricati, non vi sarebbe l'obbligo del rispetto della distanza minima di 10 metri tra fabbricati prospicienti di cui all’art. 9, comma 1, n. 2 e comma 2 del D.M. 1444/1968.
Diversamente da quanto asserito, però, l’art. 879, comma 2 c.c. in tema di distanze tra edifici obbliga al rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti, per cui, nel caso di specie occorre far riferimento al disposto del D.M. 02.04.1968, richiamato anche dall’art. 3 delle N.T.A. del programma di fabbricazione del Comune di Agnone, nonché alle prescrizioni delle N.T.A. medesime che, come evidenziato dal TAR, nella zona B3 prevedono in via generale un distacco dai confini di metri 5,00 (art. 9). Quando, poi, si interpone una via pubblica, anche a fondo cieco, non uti singuli e si sia in presenza di pareti finestrate (art. 9, comma 2) sussiste senza eccezioni l'obbligo di rispettare la distanza minima di 10 metri (Cons. Stato, sez. IV, 22.05.2014, n. 2650) incrementabili fino a mt. 13 nella sussistenza di una sede stradale larga mt. 3,00.
3.3 Le distanze tra fabbricati ex D.M. n. 1444/1968, in quanto recepite dalle N.T.A. del piano regolatore comunale, diventano cogenti e integrano le disposizioni in materia del codice civile e la presenza di una strada pubblica può sovvertire gli interessi generali che la legislazione urbanistica ed edilizia tutela, mentre, come il TAR ha evidenziato, distanze inferiori sono ammesse, in deroga solo, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche (art. 9, u.c., D.M. 1444/1968).

maggio 2018

EDILIZIA PRIVATA: Anche la presenza di una striscia di proprietà aliena tra due costruzioni poste a distanza inferiore a quella minima non preclude la possibilità di invocare il rispetto delle distanze in questione, sebbene con l'adozione di opportuni accorgimenti al fine di ripartire equamente l'onere del rispetto delle distanze, alla luce dell'esistenza del fondo alieno interposto.
Invero,
l'obbligo di arretrare la costruzione, posto dalla disciplina urbanistica, va rispettato anche nell'ipotesi in cui i fondi, anziché essere contigui, siano separati da una striscia di terreno di proprietà di terzi.
Ed ancora,
nell'ipotesi di fondi non confinanti, perché separati da una striscia di terreno di proprietà di un terzo e di larghezza inferiore alla distanza minima legale, sebbene non operi il principio della prevenzione, non essendo oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione "sul confine", giacché quella eretta sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal confine medesimo, trova piuttosto applicazione la disciplina delle costruzioni "con distacco".
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Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 873 c.c. e del DM n. 1444/1968 nonché delle previsioni di cui all'art. 6, co. 2, delle NTA del PRG del Comune di Bosco Chiesanuova.
Deducono i ricorrenti che, sebbene fosse emerso che la sopraelevazione degli attori fosse risultata collocata ad una distanza di appena un metro dalla loro costruzione, da reputarsi preveniente, distanza largamente inferiore a quella minima imposta dalla legge e dal regolamento locale, tuttavia la domanda riconvenzionale è stata disattesa sol perché tra i due fondi era collocata una striscia di terreno di proprietà di terzi, sebbene di larghezza inferiore alla distanza minima tra costruzioni.
Il motivo è fondato, risultando la decisione gravata non conforme alla precedente giurisprudenza di questa Corte a mente della quale anche la presenza di una striscia di proprietà aliena tra due costruzioni poste a distanza inferiore a quella minima, non preclude la possibilità di invocare il rispetto delle distanze in questione, sebbene con l'adozione di opportuni accorgimenti al fine di ripartire equamente l'onere del rispetto delle distanze, alla luce dell'esistenza del fondo alieno interposto.
In tal senso si veda tra i precedenti di questa Corte, Cass. n. 627/2003 a mente della quale l'obbligo di arretrare la costruzione, posto dalla disciplina urbanistica, va rispettato anche nell'ipotesi in cui i fondi, anziché essere contigui, siano separati da una striscia di terreno di proprietà di terzi.
In termini analoghi Cass. n. 5874/2017, secondo cui nell'ipotesi di fondi non confinanti, perché separati da una striscia di terreno di proprietà di un terzo e di larghezza inferiore alla distanza minima legale, sebbene non operi il principio della prevenzione, non essendo oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione "sul confine", giacché quella eretta sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal confine medesimo, trova piuttosto applicazione la disciplina delle costruzioni "con distacco" (per altri precedenti in presenza di una striscia di terreno interposta, Cass. n. 3968/2013; Cass. n. 7525/2002).
Ne deriva che il rigetto della riconvenzionale in ragione della sola presenza di un fondo intermedio contravviene a quanto affermato dalla giurisprudenza ed impone la cassazione della sentenza gravata in parte qua, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Venezia per un nuovo esame, anche al fine di riscontrare, in assenza di una specifica indicazione da parte del giudice di appello,  che ha esaminato la questione nel merito, la inammissibilità della relativa domanda come lamentata nelle memorie di parte controricorrente (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 08.05.2018 n. 11011).

EDILIZIA PRIVATA: Sono da ritenersi illegittime le disposizioni di natura regolamentare adottate da un comune volte a esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità, dal calcolo della distanza tra edifici.
Secondo la prevalente giurisprudenza “rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza”.
È superfluo rilevare che il D.M. n. 1444/1968, emanato su delega della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, e, attenendo alla materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza del legislatore nazionale, le sue disposizioni sui limiti inderogabili di distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali, poiché afferiscono a interessi pubblici di natura igienico-sanitaria, sottratti a qualsiasi valutazione o apprezzamento discrezionale e alla disponibilità dei privati interessati.
Le disposizioni dei regolamenti locali in contrasto con la suddetta disciplina statale non possono essere applicate e, per giurisprudenza costante, sono da essa sostituite per inserzione automatica.
Sulla scorta di quanto appena osservato sono dunque da ritenersi illegittime le disposizioni di natura regolamentare adottate da un comune volte a esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità, dal calcolo della distanza tra edifici.
È perciò da concludersi per l’illegittimità, e dunque per la disapplicazione, della regola data dal combinato disposto delle lettere b) e g) dell’art. 1 delle norme d’attuazione al p.u.c. di Bolzano, laddove, escludendoli dalla superficie coperta, esonera i balconi fino alla considerevole larghezza di 1,80 m dal computo della distanza tra edifici.
Detta regola è da intendersi sostituita dalla disposizione distanziale dettata dal D.M. n. 1444/1968, nell’applicazione che ne ha fatto la richiamata giurisprudenza, in particolare per quanto di rilievo, con riguardo alla nozione di costruzione, la quale, secondo l’orientamento prevalente, ricomprende anche i balconi, che dunque devono essere considerati ai fini del computo della distanza.
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Le disposizioni dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 sono inderogabili e cogenti unicamente in ordine al limite minimo di distanza tra edifici e sostituiscono le previsioni degli strumenti urbanistici locali solo se queste siano meno restrittive.
Ove, però, il piano urbanistico comunale prescriva una distanza fra edifici maggiore di quella minima di metri 10 prevista dal D.M. citato, trova senz’altro applicazione la disposizione comunale. Se, infatti, la finalità dell'art. 9 del D.M. è da ravvisarsi nell'intento di evitare la formazione tra edifici frontistanti di intercapedini nocive, con la prescrizione di una distanza "minima" inderogabile, non è impedito ai Comuni di adottare, nella formazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi locali, in forza dell'autonomia loro riconosciuta dall'art. 128 Cost., regole che, con la medesima efficacia delle fonti primarie del diritto, siano più rigorose, sulla base di valutazioni discrezionali degli interessi pubblici da tutelare.
Non v’è dubbio, infatti, che le disposizioni sulle distanze, oltre che rispondere all’esigenza di tutelare aspetti igienico-sanitari connessi all’edilizia, perseguono contemporaneamente chiare finalità urbanistiche, la cui individuazione compete all’ente locale nell’ambito dei poteri attribuitigli in materia di governo del territorio.
Sono pertanto da ritenersi legittime le disposizioni attuative del piano urbanistico comunale che, nello stabilire i distacchi tra fabbricati, prevedano distanze maggiori di quanto indicato dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, o prescindano dal carattere finestrato delle pareti, oppure ancora optino per un metodo di calcolo radiale, che disegni gli intervalli tra pieni e vuoti in modo più rigoroso rispetto a quanto stabilito dal D.M. 1444/1968, perseguendo, oltre alle finalità igienico–sanitarie proprie di quest’ultimo, anche un disegno urbanistico ritenuto maggiormente rispondente all’armonico sviluppo edilizio del territorio governato.

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In giurisprudenza si è chiarito che la nozione di costruzione, non può che essere unitaria in rapporto al parametro distanziale; essa non è quindi suscettibile di essere differentemente modulata a seconda del metodo di computo impiegato, con la conseguenza che se i balconi, in quanto elementi costruttivi che estendono in superficie il corpo di fabbrica, debbono necessariamente essere computati nel sistema lineare sotteso alla disposizione statale, lo devono essere anche in quello radiale prescritto dalla regola locale.
Sul punto valga richiamare un significativo precedente della Cassazione civile che ha affermato il seguente principio di diritto: “La nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore.”.

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12. Il provvedimento di diniego della concessione edilizia oggetto di gravame è sostenuto, come s’è visto in precedenza, su due cardini motivazionali, seppure sinteticamente indicati, ossia sull’affermata violazione del D.M. n. 1444/1968, per quanto attiene alla distanza tra l’ampliamento dei balconi e il fabbricato prospiciente, e sull’affermata realizzazione del prolungamento dei predetti aggetti in violazione della distanza rispetto al confine.
13. Afferma la ricorrente, riguardo al primo dei profili di criticità rilevati dal Comune, che sussisterebbero tutti i presupposti per l’approvazione del progetto presentato per la sanatoria del prolungamento degli aggetti, poiché rispetto all’edificio sul lotto finitimo sarebbe osservata sia la distanza prescritta dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, sia quella prevista dalle norme d’attuazione al p.u.c..
La prima, infatti, sarebbe da misurare con il metodo lineare, la seconda, da misurare, invece, secondo il più rigoroso metodo radiale, escluderebbe tuttavia dal calcolo, per espressa previsione regolamentare, gli aggetti fino a 1,80 m di larghezza.
Applicando le predette disposizioni sulle distanze secondo il rispondente metodo di calcolo appena descritto, il distacco tra l’ampliamento dei balconi e l’edificio prospiciente sarebbe rispettato.
Avrebbe perciò errato il Comune nell’applicare il metodo radiale previsto dalla norma d’attuazione al p.u.c., senza tenere conto dell’esclusione dei balconi fino a 1,80 m di larghezza pure espressamente contemplata dalla norma regolamentare.
14. La tesi non convince il Collegio.
In tema di distanze tra costruzioni viene in rilievo innanzi tutto l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
La disposizione, nello stabilire in 10 m il distacco tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, allude, come puntualmente rileva la ricorrente, al metodo di calcolo lineare.
Va ricordato, per quanto di rilievo ai fini della decisione, che secondo la prevalente giurisprudenza “rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (Cass. 31/05/2006, n. 12964; Cass. 22/07/2010, n. 17242; Cass. 19/09/2016, n. 18282)” (così ancora di recente Cassazione civile, sez. I, 10.08.2017, n. 19932.
È superfluo rilevare che il D.M. n. 1444/1968, emanato su delega della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, e, attenendo alla materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza del legislatore nazionale, le sue disposizioni sui limiti inderogabili di distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali, poiché afferiscono a interessi pubblici di natura igienico-sanitaria, sottratti a qualsiasi valutazione o apprezzamento discrezionale e alla disponibilità dei privati interessati (cfr., tra le tante, C.d.S. n. 2650/2014; C.d.S., n. 4451/2013 e n. 844/2013).
Le disposizioni dei regolamenti locali in contrasto con la suddetta disciplina statale non possono essere applicate e, per giurisprudenza costante, sono da essa sostituite per inserzione automatica (Cass. S.U., n. 14953/2011; Cass. S.U. n. 5889/1997).
Sulla scorta di quanto appena osservato sono dunque da ritenersi illegittime le disposizioni di natura regolamentare adottate da un comune volte a esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità, dal calcolo della distanza tra edifici.
È perciò da concludersi per l’illegittimità, e dunque per la disapplicazione, della regola data dal combinato disposto delle lettere b) e g) dell’art. 1 delle norme d’attuazione al p.u.c. di Bolzano, laddove, escludendoli dalla superficie coperta, esonera i balconi fino alla considerevole larghezza di 1,80 m dal computo della distanza tra edifici (cfr. TRGA Bolzano n. 280/2016).
Detta regola è da intendersi sostituita dalla disposizione distanziale dettata dal D.M. n. 1444/1968, nell’applicazione che ne ha fatto la richiamata giurisprudenza, in particolare per quanto di rilievo, con riguardo alla nozione di costruzione, la quale, secondo l’orientamento prevalente, ricomprende anche i balconi, che dunque devono essere considerati ai fini del computo della distanza (cfr. Cass. Civ., n. 5594/2016 e n. 2094/2014).
14. Le disposizioni del citato art. 9 del D.M. n. 1444/1968, tuttavia, sono inderogabili e cogenti unicamente in ordine al limite minimo di distanza tra edifici e sostituiscono le previsioni degli strumenti urbanistici locali solo se queste siano meno restrittive.
Ove, però, il piano urbanistico comunale prescriva una distanza fra edifici maggiore di quella minima di metri 10 prevista dal D.M. citato, trova senz’altro applicazione la disposizione comunale. Se, infatti, la finalità dell'art. 9 del D.M. è da ravvisarsi nell'intento di evitare la formazione tra edifici frontistanti di intercapedini nocive, con la prescrizione di una distanza "minima" inderogabile, non è impedito ai Comuni di adottare, nella formazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi locali, in forza dell'autonomia loro riconosciuta dall'art. 128 Cost., regole che, con la medesima efficacia delle fonti primarie del diritto, siano più rigorose, sulla base di valutazioni discrezionali degli interessi pubblici da tutelare (cfr. in tal senso Cass. Civ., n. 4076/2012).
Non v’è dubbio, infatti, che le disposizioni sulle distanze, oltre che rispondere all’esigenza di tutelare aspetti igienico-sanitari connessi all’edilizia, perseguono contemporaneamente chiare finalità urbanistiche, la cui individuazione compete all’ente locale nell’ambito dei poteri attribuitigli in materia di governo del territorio.
Sono pertanto da ritenersi legittime le disposizioni attuative del piano urbanistico comunale che, nello stabilire i distacchi tra fabbricati, prevedano distanze maggiori di quanto indicato dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, o prescindano dal carattere finestrato delle pareti, oppure ancora optino per un metodo di calcolo radiale, che disegni gli intervalli tra pieni e vuoti in modo più rigoroso rispetto a quanto stabilito dal D.M. 1444/1968, perseguendo, oltre alle finalità igienico–sanitarie proprie di quest’ultimo, anche un disegno urbanistico ritenuto maggiormente rispondente all’armonico sviluppo edilizio del territorio governato.
Non può perciò trarsi in dubbio la legittimità dell’art. 1, lett. g), delle norme d‘attuazione al p.u.c. di Bolzano che ha introdotto il più rigoroso metodo radiale per la misurazione della distanza tra fabbricati, in sostituzione, come correttamente rileva la difesa comunale, al metodo lineare sotteso all’art. 9 del richiamato decreto ministeriale.
15. Il Comune di Bolzano, in definitiva, nel negare alla ricorrente la concessione edilizia in sanatoria per l’ampliamento abusivo degli aggetti sul lato sud dell’edificio, ha fatto corretta applicazione delle disposizioni statali e locali in materia di distacchi tra fabbricati, applicandole secondo i principi affermati dalla prevalente giurisprudenza, innanzi ricordati. Ha, in particolare, legittimamente adottato il metodo radiale di misura della distanza, contemplato dalla disposizione regolamentare locale più rigorosa di quella statale, e ha correttamente fissato il punto di misurazione del distacco tenuto conto anche delle sporgenze di non trascurabili dimensioni, quali i balconi in discussione, dovendoli considerare, alla luce della prevalente giurisprudenza parte della costruzione (per un precedente di questo Tribunale si veda la sentenza n. 73/2018).
Né può condividersi la tesi della ricorrente che differenzia la nozione di costruzione a seconda che venga in rilievo la distanza lineare oppure quella radiale, considerando nel primo caso il balcone come parte della costruzione di cui tenere conto nel computo del distacco, nel secondo caso, invece, come elemento escluso.
In giurisprudenza si è, infatti, chiarito che la nozione di costruzione, non può che essere unitaria in rapporto al parametro distanziale; essa non è quindi suscettibile di essere differentemente modulata a seconda del metodo di computo impiegato, con la conseguenza che se i balconi, in quanto elementi costruttivi che estendono in superficie il corpo di fabbrica, debbono necessariamente essere computati nel sistema lineare sotteso alla disposizione statale, lo devono essere anche in quello radiale prescritto dalla regola locale. Sul punto valga richiamare un significativo precedente della Cassazione civile, Sez. II, che nella pronuncia n. 5163/2015 ha affermato il seguente principio di diritto: “La nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore.” Si veda anche TRGA Bolzano, n. 280/2016 (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 02.05.2018 n. 145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2018

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: permesso di costruire – ristrutturazione e aumento volumetrico – zona Ba17 del PRGC – l.r. n. 24/2009 (cd. Piano casa) – distanze legali tra costruzioni – parere (Legali Associati per Celva, nota 28.03.2018 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Al protocollo del comune è pervenuta una pratica edilizia, tendente al rilascio del permesso di costruire per ristrutturazione di fabbricato con cambio d’uso ed aumento volumetrico, ai sensi della L.R. 24/2009 – piano casa.
Il fabbricato di cui trattasi è ubicato in zona Ba17, si trova immediatamente adiacente alla perimetrazione della zona A, con un muro perimetrale costituente confine tra la zona Ba17 e la zona A ed è fronteggiante un fabbricato ivi ubicato, il tutto come illustrato nelle planimetrie di PRG e catastale allegate.
Ai fini dell’aumento volumetrico del fabbricato, essendo questo dovuto a sopraelevazione, si fa riferimento alla DGR n. 514/2012, attuativa della L.R. 24/2009, in particolare all’ All. A– paragrafo 3.1 che stabilisce la distanza minima tra le costruzioni
La situazione del fabbricato trattato non è chiaramente inquadrabile nelle condizioni previste dalla predetta normativa, in quanto:
   1. non è in zona A (punto 1 del DM 1444/1968), ma, come detto sopra, un muro perimetrale costituisce confine di zona tra le zone Ba17 e A;
   2. è preesistente allo strumento urbanistico comunale ma – pur essendo inserito in zona Ba, non è un “nuovo edificio ricadente in altre zone (punto 2 del DM 1444/1968).
Riferimenti normativi: DGR n. 514/2012, attuativa della L.R. 24/2009, in particolare all’ All. A– paragrafo 3.1 che stabilisce:
"DISTANZA MINIMA TRA LE COSTRUZIONI
Le distanze tra le costruzioni definite inderogabili dalla l.r. 24/2009 sono quelle stabilite nei singoli PRG o RE, in coerenza con le norme nazionali vigenti.
Tali distanze minime sono inderogabili anche nel caso in cui ci sia l’assenso del proprietario dell’edificio fronteggiante.
Nel riquadro seguente sono richiamate le norme relative alla definizione della distanza minima tra le costruzioni, di cui al Codice Civile e al DM 1444/1968.
   • Codice Civile
Art. 873 - Distanze nelle costruzioni.
Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
   • D.M. 1444/1968 - art. 9. Limiti di distanza tra i fabbricati
Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale.
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml 12.
Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) – debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- ml. 5,00 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7.
- ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
- ml. 10,000 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all’altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all’altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche."
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Si chiede se sia corretto, nel caso di specie, applicare, per analogia, la predetta DGR 514/2012 con riferimento alle distanze tra costruzioni, in zone A, anche in considerazione del fatto che il prospiciente edificio in zona A –qualora divenisse oggetto di analogo intervento– potrebbe beneficiare delle condizioni di cui alla citata DGR 514/2012 in ordine alle distanze per i fabbricati in zone A e creando, di fatto, una disparità di trattamento tra due fabbricati fronteggianti.
Quesiti: Si chiede la Vs. consulenza, finalizzata ad un’interpretazione univoca della norma applicabile al caso di specie, nonché ad analoghe situazioni che possano manifestarsi, vista la particolarità degli agglomerati residenziali di antica e/o vetusta formazione del territorio comunale.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La Corte di Cassazione –sulla questione relativa al rispetto delle distanze all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso principio di diritto secondo il quale <<Le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. , deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione ha poi statuito che “In tema di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. …”.
In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali recedono quando sono in contrasto con i principi fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella di dare luce ad aria.
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L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art. 1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle norme in materia di distanze tra costruzioni.
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima.
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La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
...
3.4 Non sussiste neppure la dedotta violazione dell’altezza massima, prevista in metri 10,5 dalle NTA.
Il limite –che lo strumento urbanistico riferisce all’altezza “media” quando il solaio di copertura non sia orizzontale e quando il terreno o la strada siano in pendenza– risulta infatti rispettato dall’intervento dei controinteressati, come si evince dai disegni e dalle tavole esibite. Emerge chiaramente che l’altezza media dell’edificio – pari a 10,31 metri – rispetta la previsione di cui all’art. 5 del Piano delle Regole di -OMISSIS- (cfr. allegati n. 4 e n. 5 controinteressati).
Non è sufficiente, al riguardo, lamentare una mancata “verifica in loco” da parte dei tecnici del Comune, visto che il meccanismo di calcolo non è stato contestato dalla parte ricorrente attraverso la produzione di una perizia ovvero l’elaborazione di cifre differenti.
Infine, i vani ricavati nel sottotetto aventi altezza media ponderale non superiore a 1,80 metri sono esclusi dal computo dell’altezza, e non vi sono ragioni per ritenere inapplicabile la disposizione (ancorché siano stati effettuati interventi pregressi, non affiorando il complessivo superamento del limite).
3.5 Viceversa, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno indebitamente violato, con la creazione del sopralzo, la distanza minima di 5 metri dal confine con la striscia di area di proprietà della Società ricorrente, che corre in adiacenza lungo il muro perimetrale sud ovest.
3.6 La Corte di Cassazione (sez. II civile – 27/02/2014 n. 47471) –sulla questione relativa al rispetto delle distanze all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso principio di diritto, affermato anche con la propria sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo il quale <<Le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. , deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione, sez. II civile – 11/6/2013 n. 14652, ha poi statuito che “In tema di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. …”.
3.7 In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali recedono quando sono in contrasto con i principi fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella di dare luce ad aria.
Tuttavia, nella fattispecie all’esame del Collegio, la distanza rileva rispetto a un’area pacificamente di proprietà esclusiva del confinante.
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art. 1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle norme in materia di distanze tra costruzioni (Corte di cassazione, sez. II civile – 25/07/2016 n. 15295).
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima (TAR Campania Napoli, sez. VIII – 14/03/2017 n. 1465 e la giurisprudenza civile ivi menzionata).
3.8 Non è in altri termini appropriato il richiamo al principio dell'inoperatività, nel condominio, della normativa sulle distanze legali, dal momento che tale principio è valido con riferimento alle opere eseguite sulle parti comuni e non si estende invece ai rapporti fra i singoli condomini e le rispettive proprietà esclusive.
Si concorda dunque con quanto affermato dalla parte ricorrente nella memoria di replica per cui, nel caso specifico, le unità immobiliari delle parti in causa sono perfettamente autonome e ciò che risulta violata è la distanza del sopralzo –qualificabile come “nuova costruzione”– rispetto alla porzione esclusiva di area scoperta di proprietà della ricorrente (e non rispetto ad una porzione di area condominiale).
3.9 Da ultimo, la ricorrente lamenta che il balcone sarebbe stato realizzato sul muro perimetrale in lato sud-ovest in violazione dell’art. 905 del c.c., che pone il divieto di aprire vedute dirette verso il fondo del vicino a meno di 1 metro e mezzo di distanza dal medesimo fondo.
La prospettazione non convince.
Nella memoria finale, i controinteressati hanno efficacemente affermato (senza contestazione sul punto della parte avversaria) che il balcone costruito sul lato sud-ovest non crea alcun affaccio sulla striscia di proprietà di -OMISSIS- S.r.l., dal momento che i poggioli del piano secondo ne impediscono la vista. Con gli altri proprietari limitrofi, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno sottoscritto la scrittura privata del 16/02/2015 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze legali tra edifici.
La realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione non di natura pertinenziale e, anche ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell’opera (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.03.2018 n. 1309 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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4.3. Per ricorrente giurisprudenza, invero, la realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione e non di natura pertinenziale, essendo assente il requisito della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza. Il manufatto costituisce, infatti, parte integrante dell'edificio e la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera.
Per la tettoia come realizzata, necessita, quindi, la sua conformità alle disposizioni del testo unico dell'edilizia (D.P.R. n. 380/2001) e alle norme dallo stesso richiamate in tema di disciplina urbanistica ed edilizia (cfr. art. 12), tra cui quella sulle distanze previste dal codice civile.
4.4. Non può trovare condivisione la tesi degli appellanti che l'art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001 prevederebbe che gli interventi come quello di interesse possono essere considerati nuova costruzione solo se le N.T.A. del P.R.G. del Comune lo evidenzino espressamente o nel caso in cui si realizzino opere che abbiano un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale, atteso che nulla si evince al riguardo dalla disciplina di settore del Comune e, comunque, a rilevare è, come si è accennato, la disciplina statale sulle distanze tra edifici, che essendo volta alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, è tassativa ed inderogabile nell'imporre al proprietario dell'area confinante di costruire il proprio edificio ad almeno 10 metri, senza alcuna deroga.

febbraio 2018

EDILIZIA PRIVATAI limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati previsti dall'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, (emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 - c.d. legge urbanistica, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765) che prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, trovano applicazione anche con riferimento alle nuove costruzioni, quali devono considerarsi le sopraelevazioni effettuate in zona A (centro storico) dove, vigendo il generale divieto di realizzazione di costruzioni ex novo, è previsto solo che le distanze tra gli edifici interessati da interventi di ristrutturazione e di risanamento conservativo (i soli consentiti), non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i preesistenti volumi edificati.
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2.3 La seconda censura proposta con il secondo motivo è così rubricata: violazione e falsa applicazione degli articoli 8 e 9 del D.M. n. 1444 del 1968 in relazione all'articolo 360, primo comma, n. 3, c.p.c. per non aver ritenuto violate dalla sopraelevazione e dalle vedute del fabbricato dell'Or. le distanze dei fabbricati sui mapp. 217, 221, foglio 42.
Rileva la ricorrente che le norme citate, di cui la sentenza non ha tenuto conto, hanno natura di norme primarie prevalenti ed inderogabili per tutti i regolamenti edilizi approvati dopo l'emanazione del suddetto decreto ministeriale.
La censura si fonda sul fatto che il fabbricato della Fr. è in zona A nella quale le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti e la sopraelevazione, considerata alla stregua di nuova costruzione, deve essere inderogabilmente posta a distanza di 10 mt. dagli altri fabbricati. Nella specie considerate le misurazioni del consulente tecnico d'ufficio le distanze erano inferiori. Anche in relazione alle altezze massime degli edifici sarebbe violato il disposto dell'articolo 8 del medesimo decreto.
2.4 La censura è fondata.
Impregiudicata la questione relativa alla prova circa la comproprietà della ricorrente in ordine al mapp. 217, sub. 1, che spetterà al giudice del rinvio valutare, deve osservarsi che la motivazione della Corte d'Appello in ordine alla sopraelevazione non è conforme alla giurisprudenza di questa Corte in materia.
Devono richiamarsi i seguenti principi del tutto consolidati:
   - In tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica Sez. U, Sentenza n. 14953 del 07/07/2011 (Rv. 617949).
   - Inoltre l'art. 9, primo comma, n. 2), del d.m. 02.04.1968, n. 1444 -emanato in forza dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765- in base al quale la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo ultimo, dove vige il generale divieto di costruzioni ex novo, la norma si limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti (Sez. 2, Sentenza n. 12767 del 20/05/2008).
La sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione (Sez. 3, Sentenza n. 21509 del 01/10/2009.
Orbene la Corte d'Appello di Milano non ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi e, al contrario, ha ritenuto che il D.M. 02.04.1968, n. 1444 non fosse immediatamente operante nei rapporti fra i privati, nonostante l'adozione nel Comune di Civo del piano regolatore sin dal 1984 e, in secondo luogo, ha ritenuto, sulla base del rilievo del C.T.U., che la normativa applicabile fosse quella codicistica perché il manufatto di cui ai mappali 231 e 232 era ricompreso nella zona Al-R del piano regolatore comunale e nelle zone A del d.m. n. 1444 del 02.04.1968, nonostante si trattasse di una sopraelevazione, da intendersi sempre come nuova costruzione.
Deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto: "I limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati previsti dall'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, (emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 - c.d. legge urbanistica, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765) che prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, trovano applicazione anche con riferimento alle nuove costruzioni, quali devono considerarsi le sopraelevazioni effettuate in zona A (centro storico) dove, vigendo il generale divieto di realizzazione di costruzioni ex novo, è previsto solo che le distanze tra gli edifici interessati da interventi di ristrutturazione e di risanamento conservativo (i soli consentiti), non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i preesistenti volumi edificati" (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.02.2018 n. 3739).

gennaio 2018

EDILIZIA PRIVATAIn tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti "aggettanti"), che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Sicché, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di "costruzione", che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica.
Invero, questa Corte ha qualificato come costruzione la realizzazione, in aggiunta al preesistente edificio, di un corpo di fabbrica sporgente costituito da una soletta in cemento armato della larghezza di mt. 1,60, contornata da parapetto alto mt. 1,50 edificato con colonnine prefabbricate in cemento armato.
Ed ancora, l'art. 9, 3° co., del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (cosiddetta "legge urbanistica"), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (... in tema di distanze tra fabbricati, nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, questa inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 cod. civ.).
D'altronde, a tal ultimi riguardi la giurisprudenza amministrativa ha puntualizzato che in linea generale non è legittima l'adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del d.m. n. 1444/1968 (in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati), nel senso che lo stesso, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942, ha efficacia di legge.

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I medesimi motivi sono fondati e meritevoli di accoglimento.
Evidentemente questa Corte non può che reiterare i propri insegnamenti.
Ovvero in primo luogo l'insegnamento per cui, in tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti "aggettanti"), che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
E per cui, ulteriormente, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di "costruzione", che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica (cfr. Cass. 26.01.2005, n. 1556; nella specie, questa Corte, nel confermare la sentenza impugnata, ha qualificato come costruzione la realizzazione, in aggiunta al preesistente edificio, di un corpo di fabbrica sporgente costituito da una soletta in cemento armato della larghezza di mt. 1,60, contornata da parapetto alto mt. 1,50 edificato con colonnine prefabbricate in cemento armato; Cass. 19.09.2016, n. 18282; Cass. 22.07.2010, n. 17242).
Ovvero in secondo luogo l'insegnamento secondo cui l'art. 9, 3° co., del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (cosiddetta "legge urbanistica"), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011, n. 14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458, secondo cui, in tema di distanze tra fabbricati, nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, questa inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 cod. civ.).
D'altronde, a tal ultimi riguardi la giurisprudenza amministrativa ha puntualizzato che in linea generale non è legittima l'adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del d.m. n. 1444/1968 (in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati), nel senso che lo stesso, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942, ha efficacia di legge (cfr. Consiglio di Stato 21.10.2013, n. 5108).
Negli esposti termini, giacché è da escludere che i balconi dell'edificio "Romano" abbiano funzione meramente ornamentale in dipendenza delle dimensioni che li caratterizzano -"è risultato dall'istruttoria svolta che detti elementi costruttivi nel caso di specie non hanno solo una funzione ornamentale ma sono funzionali all'edificio" (così sentenza non definitiva n. 204/2010, pag. 16; in proposito cfr. altresì ricorso incidentale Perrella nel procedimento iscritto al n. 18329 - 2014 R.G., pag. 68)- non possono essere condivise e vanno conseguentemente censurate, siccome contrastanti con la nozione "unitaria" e "statuale" di "costruzione" e con il principio dell'inderogabilità in peius della disciplina di cui all'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, l'affermazione della corte di merito, di cui alla sentenza non definitiva n. 204/2010 e sulla cui scorta è stata reputata infondata l'eccezione del Perrella, a tenor della quale il regolamento locale può dettare tout court una diversa disciplina ("l'interpretazione data dal Perrella alla norma suddetta (...) è corretta (...), ma solo se il piano regolatore locale non detti una diversa disciplina"; così sentenza non definitiva n. 204/2010, pag. 19) nonché le affermazioni, del pari della corte di merito, di cui alla sentenza definitiva n. 134/2013, a tenor delle quali "va applicata invece la nuova normativa che (...) esclude i balconi" (così sentenza d'appello definitiva, pag. 35) ed "i balconi saranno intangibili solo fino a mt. lineari 1,40, da misurarsi, ovviamente, partendo dalla linea di attacco balcone-facciata" (così sentenza d'appello definitiva, pag. 35) (cfr. specificamente Cass. 27.06.2007, n. 17089, secondo cui, in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, stabilisce distanze inderogabili, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "con tra legem", in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore al distacco voluto dalla cosiddetta "legge ponte") (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 29.01.2018 n. 2093).
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Al riguardo si legga anche:
  
● M. Grisanti, Sono assolutamente vietate le intercapedini tra fabbricati minori dell’altezza dell’edificio più alto - Nota a Cassazione, Sez. II civile, n. 2093 depositata il 29.01.2018 (link a https://lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma primo, del d.m. 02/04/1968, n. 1444 -traendo la sua forza cogente dai commi 8 e 9 dell'art. 41-quinquies l.urb. e prescrivendo, per la zona A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti- è disciplina integrativa dell'art. 873 cod. civ. immediatamente idonea a incidere sui rapporti interprivatistici, per cui, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con la norma citata, sia con ancor maggior fondamento in caso di mancanza di contrasto e quindi in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, sussiste l'obbligo per il giudice di merito -nel primo caso mediante disapplicazione della disposizione illegittima, nel secondo caso mediante diretta applicazione della norma di divieto- di dare attuazione alla disposizione integrativa dell'art. 873 cod. civ., ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, mediante condanna all'arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti di tale volume o, qualora invece non sussistesse alcun preesistente volume, mediante condanna all'integrale eliminazione della nuova edificazione.
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3.1. Il secondo e -nella parte con cui si deduce violazione di legge- il quarto motivo del ricorso principale, strettamente collegati, sono a loro volta strettamente connessi ai temi sollevati nel ricorso incidentale nel suo unico motivo; la trattazione dei primi è assorbita da quella dell'ultimo.
Invero, in ordine al secondo motivo del ricorso principale, se effettivamente da un lato la corte d'appello, nell'affermare ai fini dell'individuazione del regime delle distanze per le costruzioni nell'area in discussione l'applicabilità dell'art. 873 cod. civ., ritenendo la norma codicistica, che prescrive la distanza di tre metri tra costruzioni frontistanti, non integrata dalle disposizioni del piano regolatore, prevedenti divieto assoluto di nuove edificazioni, ha tuttavia -senza adeguatamente esaminare le deduzioni in appello dell'odierna parte ricorrente- contraddittoriamente dato poi applicazione, mediante conferma della sentenza di prime cure, a quelle norme integratrici dell'art. 873 cod. civ. prevedenti distanze dal confine di metri cinque e dalle costruzioni di metri dieci al fine di determinare l'arretramento da effettuarsi rispetto alle fabbriche del Pi., d'altro lato la pronuncia in ordine alla dedotta nullità della sentenza per contrasto irriducibile tra motivazione e dispositivo, pur sussistente, non può logicamente separarsi dall'individuazione del regime delle distanze effettivamente da attuare, di cui al quarto motivo.
Quanto poi al quarto motivo medesimo, affrontandosi con esso la questione giuridica relativa al se nelle zone in cui lo strumento urbanistico vieti del tutto l'edificazione si applichi la disciplina residuale dell'art. 873 cod. civ. (come ritenuto dalla corte d'appello) o il medesimo regime di inedificabilità previsto dallo strumento, deve rilevarsi l'identità della questione stessa rispetto a quella centrale attinta dai profili sub a) e sub b) del motivo di ricorso incidentale, ciò che quindi dà ragione dell'assorbimento.
3.2. Stante l'assorbimento, l'esame del ricorso incidentale condurrà a formulazione di principio di diritto idoneo a governare anche i temi di cui al secondo e -nella parte con cui si deduce violazione di legge- al quarto motivo del ricorso principale, in particolare valendo a guidare il giudice del rinvio sui temi investiti dal secondo motivo del ricorso principale circa il denunciato contrasto tra motivazione e dispositivo (§ 3.1. innanzi), nonché dal quarto motivo del ricorso principale, nella parte relativa a violazione di legge (correlata al profilo sub b) del ricorso incidentale), ferma restando l'esigenza di accertamenti -anche d'ufficio- circa la disposizione sulle distanze concretamente applicabile (tema correlato a quanto subito in appresso § 4.1) e di revisione, a seconda delle risultanze dell'indagine, delle conclusioni (in tema di derogabilità delle distanze da parte dell'autonomia privata) fatte discendere dalla premessa dell'applicabilità dell'art. 873 cod. civ., alla luce del venir meno della premessa, in esito alla cassazione della sentenza qui a pronunciarsi (cfr. infra § 5).
4. Su tali basi deve dunque procedersi all'esame del ricorso incidentale nel suo unico motivo, nei profili sub a) e b).
4.1. In primo luogo (v. ricorso incidentale, profilo sub a)) la corte territoriale, in relazione al principio iura novit curia applicabile in materia di distanze e alla controversia sulla vigenza delle disposizioni di cui alla tabella delle distanze per la sottozona Al, effettivamente non risulta aver dato trattazione ai profili, anche documentali, sollevati dalla parte appellante incidentale. Essendo la censura fondata, a seguito della cassazione con rinvio i relativi accertamenti documentali andranno svolti.
4.2. Ciò posto, va affrontato, tra i diversi profili già sopra menzionati, specificamente quello concernente il frequente caso -quale quello in esame- in cui lo strumento urbanistico, emanato in base al decreto interministeriale 02/04/1968, n. 1444 (recante «Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967») vieti del tutto l'edificazione in una determinata zona (si tratta, di regola, della zona "A" di cui all'art. 2 dello stesso d.m.), e quindi non preveda la distanza da osservarsi per l'edificazione di costruzioni rispetto a fabbricati preesistenti (fermo restando che il divieto assoluto di costruire può derivare anche da altre fonti parimenti incidenti sul regime delle distanze; ad es., oltre che dalla legge, per l'ipotesi che derivi da piano particolareggiato, cfr. Cass. 16/02/2007, n. 3638). Sui presupposti impliciti che:
   (a) il divieto di costruire dettato dallo strumento avesse valenza solo amministrativa (rivolgendosi all'autorità comunale al fine del rilascio della concessione o permesso di costruire) e penale, non potendo il privato lamentarne la violazione innanzi al giudice ordinario in sede civile ai fini della rimessione in pristino, ma solo per il risarcimento dei danni, e
   (b) dovesse sussistere comunque un regime delle distanze legali per le costruzioni, stante la valenza generale dell'art. 873 cod. civ., la giurisprudenza di merito si è impegnata a individuare la relativa disciplina talora applicando in via analogica le norme dettate per le altre zone ove più severi sono gli standard edilizi, talora applicando la distanza di tre metri di cui all'art. 873 cod. civ.
Tale secondo orientamento è stato in più occasioni fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità (tra le pronunce non recenti v. ad es. Cass. n. 7804 del 13/07/1991 e n. 12376 del 19/11/1992), introducendosi peraltro una variante di esso (cfr. ad es. Cass. n. 4812 del 22/04/1992 e n. 1577 del 01/03/1990, avallate da sez. U n. 9871 del 22/11/1994, chiamate peraltro a comporre contrasto su altro tema) secondo cui, stante l'asserita natura suppletiva della distanza introdotta nell'art. 41-quinquies I. urb. dall'art. 17 della I. n. 765 del 1967 (al comma primo oggi abrogato dall'articolo 136 del d.p.r. n. 380 del 2001, eventualmente ex nunc secondo Cass. n. 12741 del 29/05/2006 e alcune altre pronunce), sarebbe stata quest'ultima, almeno all'epoca, la disciplina da applicare nel caso descritto (v. più recentemente Cass. n. 26123 del 30/12/2015).
4.3. Su tali basi, la giurisprudenza si è confrontata poi in particolare con il portato della disposizione dell'art. 9 del d.m. cit. del 1968, che al primo comma per le zone A prescrive che «per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale».
L'evoluzione giurisprudenziale ha conosciuto da un lato pronunce (v. ad es. Cass. 29/04/1995, n. 4754, e 20/05/2008, n. 12767) con cui questa corte ha continuato ad affermare che, vietandosi con detta norma qualsiasi attività costruttiva, essa non potesse ritenersi assumere carattere integrativo delle disposizioni del codice civile sulle distanze. D'altro lato, questa corte -con la sentenza n. 1282 del 24/01/2006 che qui si condivide- nell'esaminare il caso in cui la «corte territoriale ... [aveva] rilevato che ... il divieto assoluto di nuove edificazioni comporta[sse] ... la sola applicabilità dell'art. 873 cod. civ.» ha affermato l'erroneità di tale argomentazione, in quanto essa «trascura il rilievo fondamentale che ... lo strumento urbanistico ... ha recepito il d.m. ... che all'art. 9 prescrive, per la zona A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti. Tale disciplina, quindi, [è] parte integrante della normativa codicistica in materia di distanze nelle costruzioni», pienamente vigente anche a prescindere dalla mancata approvazione di strumenti particolareggiati esecutivi.
Secondo detta pronuncia, da cui non sussistono ragioni per discostarsi, ciò comporta che, in caso di «adozione da parte degli enti locali di strumenti urbanistici contrastanti con la norma citata di cui all'art. 9», sussiste «l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare la disposizione illegittima, ma anche di applicare direttamente la disposizione dell'art. 9 richiamato, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico». Nello stesso solco si è nuovamente inserita questa corte con la sentenza n. 12424 del 20/05/2010, ove si è affermato, da angolo visuale complementare, che l'art. 9, comma primo, del d.m. citato «consente in quelle zone [A] il mantenimento in loco delle costruzioni preesistenti, oggetto di risanamento o ristrutturazione, sicché le esonera dall'osservanza di distanze diverse da quelle già in essere».
4.4. Successivamente la questione è stata esaminata dalle sezioni unite di questa corte, seppur adite per questione di giurisdizione, le quali hanno confermato pronuncia della corte territoriale che aveva statuito, in relazione alla violazione delle distanze intercorrenti tra edifici preesistenti in zona in cui tale limite si applicava, il principio per cui l'art. 9 d.m., «in quanto emanato su delega dell'art. 41-quinquies» cit., con «efficacia di legge», in presenza di strumenti urbanistici successivi contrastanti, comporta «l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare la disposizione illegittima, ma anche di applicare tale disposizione, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico»; nel caso esaminato, in cui lo strumento prevedeva il divieto, «tale principio», secondo le sezioni unite, «trova ancor maggiore fondamento», stante la mancanza di contrasto rilevato dai giudici di merito (così Cass. sez. U n. 20354 del 05/09/2013).
4.5. Ai predetti precedenti cui il collegio intende uniformarsi si sono attenute, più recentemente, a quanto consta, Cass. n. 14552 del 15/07/2016, ove si è chiarito specificamente che, «essendo imposto» dall'art. 9 -qualificata «norma regolamentare [con] efficacia precettiva nei rapporti privatistici ... integrativa delle disposizioni dettate dall'art. 873 cod. civ.»- «un vincolo conformativo inerente alle caratteristiche intrinseche del territorio ..., il mancato rispetto del divieto di nuove costruzioni nella zona A non è privo di conseguenze sul piano della violazione delle disposizioni concernenti le distanze legali tra costruzioni, che devono rimanere quelle preesistenti»; nonché Cass. n. 15458 del 26/07/2016, che ha ribadito che nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 questa inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 c.c..
4.6. Nel dare dunque continuità al predetto indirizzo interpretativo del combinato disposto dell'art. 873 cod. civ. e dell'art. 9, primo comma, del d.m. 1444 del 1968, può qui rilevarsi, a parte ogni considerazione circa i paradossi insiti nel precedente indirizzo (in particolare:
   (a) di fronte a un divieto di edificare ritenuto operante sul solo piano pubblicistico, il giudice sarebbe stato sempre chiamato ad individuare aliunde una norma volta a dettare distanze per costruzioni per altro verso illegittime, o in alternativa lo strumento urbanistico, nel dettare il divieto assoluto, avrebbe comunque dovuto prescrivere una distanza, volta al solo fine di integrare l'art. 873 cod. civ.;
   (b) proprio nelle zone A ove lo strumento urbanistico avesse dettato un divieto a maggior tutela del territorio il giudice civile avrebbe dovuto applicare una distanza di norma irrisoria, mentre nelle zone B meno tutelate la distanza minima tra pareti finestrate sarebbe stata di metri 10), che il diverso indirizzo appare in armonia con la ratio della disciplina urbanistica di assicurare l'ordinato sviluppo edilizio senza rinunciare a utilizzare all'uopo, talora, la nozione codicistica di "distanza" per le costruzioni (tanto che lo stesso legislatore dell'art. 873 cod. civ. se ne mostra consapevole).
In tal senso, deve ritenersi che anche le norme di divieto assoluto di edificare dettate da strumenti urbanistici -direttamente o per il tramite di disapplicazione giudiziale in relazione a discipline cogenti che il divieto impongano- contengano comunque un implicito riferimento all'art. 873 cod. civ. Di ciò la disposizione dell'art. 9, comma 1, del d.m. è una esplicitazione, nella parte in cui per le zone A prescrive che le distanze tra edifici (per operazioni di risanamento conservativo e per eventuali ristrutturazioni) non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti: trattasi di una disposizione in tema di divieto di nuove edificazioni, significativamente però formulata in termini di obbligo di rispetto, solo per determinate tipologie di fabbricazione, di "distanze", individuate in quelle preesistenti. Tale dato rivela chiaramente la volontà del legislatore di considerare il divieto sub specie di cristallizzazione, sia in negativo sia in positivo (cfr. Cass. n. 12424 del 20/05/2010 cit.), del regime civilistico delle distanze preesistenti.
Ciò conduce dunque a confermare che i divieti assoluti di edificazione posti da una normativa urbanistica cogente riferita anche implicitamente alla nozione di distanza per le costruzioni (di cui le norme di cui all'art. 1 del d.m. sono esempio, ma potendo discipline della specie essere dettate anche in altro modo, ad es., per legge) costituiscono disposizioni integrative dell'art. 873 cod. civ., con conseguente invocabilità ex art. 872, secondo comma, cod. civ. della riduzione in pristino, per relationem alle distanze de facto preesistenti tra edifici eventualmente anche non eccessivamente prossimi, le quali ovviamente potranno consistere in una distanza in senso stretto ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, mentre si tradurranno in un divieto assoluto di edificazione, qualora invece non sussistesse alcun preesistente volume.
4.7. La predetta interpretazione dell'art. 873 cod. civ. e dell'art. 9, primo comma, del d.m. 1444 del 1968 -valorizzando quest'ultima disciplina che trae la sua forza normativa dai commi ottavo e nono non abrogati dell'art. 41-quinquies l.urb.- supera anche le problematiche poste dall'abrogazione richiamata del comma primo, in relazione all'orientamento che precedentemente riteneva necessario, per la disciplina delle distanze nelle zone A, il riferimento all'art. 41-quinquies stesso, nel primo comma, lett. c).
4.8. Infine l'indirizzo qui condiviso, in quanto recepisce una comprensione delle finalità delle «limitazioni alla proprietà privata, derivanti dall'obbligo di osservare le distanze nelle costruzioni» non ristrette a quella tradizionale di evitare intercapedini dannose o pericolose tra le costruzioni stesse, ma «stabilite, al pari di tutte le altre limitazioni, anche per fini di interesse generale, che si ricollegano alla funzione sociale della proprietà, alla quale il codice si riferisce in varie disposizioni» (così Corte cost., 09.07.1959, n. 38), è coerente anche con l'evoluzione giurisprudenziale registratasi parallelamente in altro ambito parimenti connotato da interrelazione tra interessi pubblici e privati: anche in tema di norme per l'edilizia nelle zone sismiche prescrittive di particolari modalità costruttive degli edifici (giunti e altri opportuni accorgimenti idonei a consentire la libera e indipendente oscillazione delle costruzioni vicine), superando l'orientamento precedente che alla violazione delle disposizioni in parola faceva seguire il solo risarcimento del danno non riconoscendo le stesse integrative dell'art. 873 cod. civ. in quanto non specificamente delimitative della sfera delle proprietà contigue, questa corte ha poi affermato, e ormai da epoca risalente, che la realizzazione degli accorgimenti costruttivi in parola «assolve a funzione analoga a quella assolta dagli intervalli di isolamento», dovendo quindi ammettersi l'esperimento anche di un'azione per la riduzione in pristino (cfr. per l'innovazione, inizialmente, Cass. n. 5024 del 07/05/1991 e n. 1654 del 21/02/1994, nonché sez. U, n. 7396 del 28/07/1998, seppur adite per questione di giurisdizione; più recentemente, tra le molte, Cass. n. 9319 del 17/04/2009 e n. 23231 del 15/11/2016).
4.9. Ne deriva che la sentenza impugnata va cassata per quanto di ragione come innanzi, onde il giudice di rinvio, svolti gli opportuni accertamenti documentali relativi al regime delle distanze applicabile, ove risulti un divieto di nuove edificazioni, dovrà procedere a rinnovato esame della fattispecie ritenendo le distanze pari a quelle individuate dai volumi preesistenti all'entrata in vigore del divieto, non derogabili dall'autonomia privata, applicando il seguente principio di diritto: "
in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma primo, del d.m. 02/04/1968, n. 1444 -traendo la sua forza cogente dai commi 8 e 9 dell'art. 41-quinquies l.urb. e prescrivendo, per la zona A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti- è disciplina integrativa dell'art. 873 cod. civ. immediatamente idonea a incidere sui rapporti interprivatistici, per cui, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con la norma citata, sia con ancor maggior fondamento in caso di mancanza di contrasto e quindi in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, sussiste l'obbligo per il giudice di merito -nel primo caso mediante disapplicazione della disposizione illegittima, nel secondo caso mediante diretta applicazione della norma di divieto- di dare attuazione alla disposizione integrativa dell'art. 873 cod. civ., ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, mediante condanna all'arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti di tale volume o, qualora invece non sussistesse alcun preesistente volume, mediante condanna all'integrale eliminazione della nuova edificazione" (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 23.01.2018 n. 1616).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: E' rilevante e non manifestamente infondata la questione, che si rimette alla Corte costituzionale, di legittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis, della l.r. della Lombardia n. 12/2005 che recita:
"
1-bis. Ai fini dell’adeguamento, ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all’interno di piani attuativi.".
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal signor Ni.Ca., nato a Treviso il ... e residente a Sondrio, per l’annullamento della deliberazione del Consiglio comunale di Sondrio 28.11.2014 n. 81, d’approvazione di variante del piano di governo del territorio.
...
Premesso:
Il Comune di Sondrio, già dotato del piano di governo del territorio approvato con deliberazione del Consiglio comunale 06.06.2011 n. 40, con deliberazione della giunta comunale del 29.09.2013 ha attivato un procedimento di variante del medesimo piano, comunicandolo alla cittadinanza. In merito sono state avanzate proposte da parte di alcuni cittadini.
L’ente territoriale ha introdotto, inoltre, modifiche alle norme tecniche d’attuazione, alcune delle quali su suggerimento dell’ufficio tecnico comunale.
Fra le modifiche della normativa, in particolare, una riguarda la disciplina delle distanze tra fabbricati “Distanza minima tra edifici”, come dettata dall’art. 3 – “Definizioni urbanistiche ed edilizie”, dell’elaborato “Definizioni e disposizioni generali del Piano di Governo del Territorio".
Nella formulazione originaria, essa stabiliva che “
Nelle aree comprese in ambiti di trasformazione e nelle aree comprese in ambiti del territorio consolidate {Piano delle Regole) la distanza minima tra edifici deve essere pari all’altezza dell'edificio più alto e comunque non inferiore a m 10, fatta eccezione per gli edifici nelle aree comprese in ambiti del territorio urbanizzato di antica formazione per i quali la distanza minima tra edifici non può essere inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”.
A seguito della variante approvata, il testo della disposizione è stato così riformulato: “
Nelle aree comprese in ambiti di trasformazione e in ambiti del territorio consolidate {Piano delle Regole) la distanza minima tra edifici deve essere non inferiore a m 10, fatta eccezione per gli edifici compresi nei tessuti edificati di antica formazione (Taf) per i quali la distanza minima tra edifici non può essere inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale. Limitatamente alle aree comprese in ambiti di trasformazione, la distanza minima deve inoltre essere pari o superiore all’altezza dell’edificio più alto”.
Per effetto della variazione
è stata sottratta all’applicazione della disciplina più restrittiva (quella che impone una distanza minima pari all’altezza dell’edificio più alto), le aree di nuova edificazione comprese all’interno di un ambito territoriale che, secondo la disciplina dettata dalla legge regionale della Lombardia 11.05.2005 n. 12 viene definito “il tessuto urbano consolidato”.
In particolare, la riformulata disposizione è riferita agli ambiti territoriali previsti e disciplinati dagli articoli 18 e 19 delle norme di attuazione del piano delle regole.
Con l’art. 18 vengono definiti alcuni ambiti di espansione edificatoria che, pur compresi nel perimetro territoriale disegnato al fine d’individuare il cosiddetto “tessuto urbano consolidato”, e definiti “tessuti di completamento”, costituiscono vere e proprie aree di espansione edificatoria, dato che ai sensi del comma 1 del predetto art. 18 “Gli ambiti cosi classificati sono rappresentati da parti prevalentemente non edificate, intercluse all’interno del tessuto consolidate di fondovalle o di versante o ai suoi margini.. La loro individuazione sul territorio consente di affermare che si tratta di ambiti privi di edificazione, da assoggettare per la prima volta a processo urbanizzativo ed edificatorio.
Tale risulta la condizione dell’ambito n. 15, adiacente alla proprietà del ricorrente, individuato dall'art. l9, quale ambito assoggettato a piano attuativo obbligatorio. Tale ambito conferma una previsione già presente nel previgente piano regolatore generale approvato negli anni ‘90, laddove era individuata come zona “RT n. 17”, assoggettata a piano attuativo obbligatorio, coinvolgente il medesimo ambito territoriale, assolutamente privo di edificazione e destinato a nuovi insediamenti residenziali, ubicato ai margini estremi dell'aggregato urbano edificato, lungo la strada che introduce alla Valmalenco, caratterizzata da una elevata acclività.
Il citato ambito, individuato nel piano generale del territorio come ambito n. 15 nell’art. 19, conferma la delimitazione dello stesso ambito territoriale individuato nel precedente piano regolatore generale come “RT n. 17”, mai coinvolto in precedenza in processi di urbanizzazione di edificazione, atteso che è stata assoggettata in entrambi gli strumenti urbanistici a piano attuativo, com’è prescritto per tutte le zone che, secondo il decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, devono essere qualificate come zone di espansione.
L’Amministrazione, nella scelta di denominazioni e sigle delle zone territoriali omogenee differenti da quelle dettate nel D.M. n. 1444/1968 (prima RT ora ambito TAC), ad avviso del ricorrente sarebbero state sottratte alla disciplina che detto decreto ha fissato, specialmente per quanto riguarda il regime delle distanze tra fabbricati, che assumono valenza integrativa del codice civile, asseritamente non derogabili dalle norme locali con conseguente richiesta di disapplicazione delle disposizioni di strumenti urbanistici che fissino una distanza tra fabbricati inferiore a quella prevista nel citato DM.
Tutti gli ambiti “Tc” individuati dall’art. 19 del piano generale del territorio sono assoggettati o a piano urbanistico attuativo o a permesso di costruire convenzionato obbligatorio, in considerazione proprio della circostanza che si tratta di ambiti non edificati, da assoggettare per la prima volta ad un processo di urbanizzazione che richiede la preventiva pianificazione di dettaglio, o almeno, ove si tratti di un ambito di più limitata estensione, ad un permesso di costruire corredato da una convenzione obbligatoria, mediante la quale garantire gli stessi effetti del piano attuativo.
A conferma, il ricorrente richiama la circostanza che su 20 ambiti “Tc” individuati e disciplinati dall'art. 19 del piano generale del territorio ben 11 sono soggetti al piano attuativo obbligatorio. Fra essi vi è il n. 15, confinante con la sua proprietà, sulla quale insiste un edificio a destinazione residenziale (individuato in catasto al foglio 31, mappale 319, del Comune di Sondrio), a fronte del quale è in corso di realizzazione un complesso residenziale avente altezza largamente superiore a m 10, che non rispetterebbe la distanza pari all’altezza dell’edificio più alto, come prescritto per le zone omogenee C (parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi che risultino inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità delle zone, totalmente edificate) dall’art. 9, 1° comma, del DM n. 1444/1968.
Il ricorrente evidenzia, poi, che nelle stesse “Norme di Attuazione del Piano delle Regole a1 Capo 2 (articoli 14, 15, 16, 17)” vengono disciplinate le altre porzioni del tessuto urbano consolidato che presentano già una condizione di parziale o compiuta edificazione, per i quali vengono ammessi interventi diretti o perfino piani attuativi all’interno dei quali viene consentita una distanza tra gli edifici minore di quella minima di legge, evidentemente in applicazione di quanto disposto dall’ultimo comma dell'art. 9 del DM 1444/1968.
Tale circostanza fa emergere la presenza, all’interno del tessuto urbano consolidato, di ambiti territoriali molto diversificati fra loro, alcuni dei quali aventi le caratteristiche delle zone di completamento, altri quelle delle zone di espansione.
2. Il ricorrente lamenta che la profonda diversità di condizione oggettiva renda ingiustificata e illegittima la sottrazione al più incisivo regime delle distanze tra fabbricati fissato dall’art. 9 del DM n. 1444/1968 proprio per le zone di nuova edificazione ed urbanizzazione.
Di conseguenza egli impugna la variante del piano generale del territorio di Sondrio, segnatamente la parte mediante la quale ha modificato la disposizione dell’art. 3 relativa alla distanza tra fabbricati riducendo la misura della distanza tra immobili fronteggianti alla sola misura di ml. 10,00 ed escludendo dall’applicazione della maggiore distanza pari all’altezza dell’edificio più alto i nuovi insediamenti previsti nelle cosiddette “zone TAC”, e confermando tale disposizione solo per i nuovi insediamenti in ambiti di trasformazione, senza tener conto del fatto che, invece, per situazioni del genere doveva essere mantenuta la formulazione originaria conforme a1 dispositivo dell'art. 9 del DM n. 1444/1968, data l’identità di condizioni oggettive di ambiti non edificati da assoggettare, per la prima volta, ad un processo di nuova urbanizzazione soggetto a preventiva approvazione di piano attuativo.
A fondamento del ricorso il ricorrente deduce i seguenti motivi di violazione di legge ed eccesso di potere.
1. Violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, in quanto è stato espunto dall’ordinamento urbanistico locale l’obbligo del rispetto della distanza minima pari all’edificio più alto, in relazione ad interventi di nuova edificazione, in asserite “Zone di espansione edificatoria aventi le condizioni oggettive delle Zone C”.
2. Difetto di motivazione e contraddittorietà, perché l’originaria formulazione del PGT in materia di distanze dettava una disposizione univoca, in conformità alla disciplina prevista dal richiamato art. 9 del D.M. n. 1444/1968, avente valenza vincolante in sede di pianificazione. La decisione di modificare la norma generale sarebbe quindi arbitraria, oltre che carente di adeguata motivazione.
3. Difetto di motivazione, contraddittorietà, deviazione dalla funzione. Il ricorrente sostiene che il 29.09.2013, pur in presenza di un PGT approvato (deliberazione del Consiglio comunale n. 40/2011), la giunta comunale ha assunto la determinazione di avviare il procedimento di revisione del PGT con l’esplicita affermazione di aggiornare il piano senza alterarne l’impostazione complessiva originaria e al solo fine di correggere errori materiali riscontrati in fase applicativa. Quindi, la rilevante modifica sul regime delle distanze contestata avrebbe il carattere di norma elusiva di tassativi limiti di legge e foriera di ulteriori situazioni di contrasto con il vigente quadro giuridico di riferimento.
Considerato:
3. L’art. 2-bis del decreto del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001 n. 380 stabilisce che “…le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
La Regione Lombardia, con le modifiche introdotte alla legge urbanistica regionale 11.05.2005 n. 12 con la legge regionale 14.03.2008 n. 4, ha recepito tali indicazioni stabilendo, ai fini dell’adeguamento degli strumenti urbanistici, l’inapplicabilità del citato D.M. n. 1444/1968 fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima di dieci metri, derogabile all’interno dei piani attuativi.
L’art. 9 del D.M. 02.04.n. 1444/1968 dispone che “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a m 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
   - m 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
   - m 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra m 7 e m 15;
   - ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15
”.
L’art. 1-bis della legge regione Lombardia 11.03.2005, n. 12, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), L.R. 14.03.2008, n. 4, prevede che “Ai fini dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all'interno di piani attuativi”.
Il successivo comma 1-ter dispone che “Ferme restando le distanze minime di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile, fuori dai centri storici e dai nuclei di antica formazione la distanza minima tra pareti finestrate, di cui al comma 1-bis, è derogabile per lo stretto necessario alla realizzazione di sistemi elevatori a pertinenza di fabbricati esistenti che non assolvano al requisito di accessibilità ai vari livelli di piano”.
4.
In materia di distanza tra fabbricati, per costante giurisprudenza (da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3093; 08.05.2017 n. 2086; 29.02.2016 n. 856; Corte Cass. civ., sez. II, 14.11.2016 n. 23136), la disposizione contenuta nell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile poiché si tratta di norma imperativa la quale predetermina, in via generale ed astratta, le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
Tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Occorre osservare, poi, che
la disposizione dell’art. 9, n. 2 del D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti o sopraelevazioni di essi: Consiglio di Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse. Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che,
ai sensi dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, avente per oggetto “Disciplina dell’attività urbanistica e suoi scopi” nella formulazione in vigore dal 30.06.2003, i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati nonché i rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, sono imposti ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica).
Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato,
lo stesso art. 9 del D.M. n. 1444/1968 per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti,
il discrimine in tema di distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10 m), nella ‘ratio’ dell’indicato art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente si otterrebbe che, da un lato, l’immobile considerato non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio piano volumetrico.
Anzi,
la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444/1968 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull’esistente.
In conclusione,
in tema di distanze fra costruzioni, l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, “poiché emanato su specifica delega contenuta nell'art. 41-quinquies della legge urbanistica fondamentale 17.08.1942, n. 1150, ha efficacia di legge dello Stato sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti edilizi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass. civ. sez. II, 12.02.2016, n. 2848).
5.
Le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi sono state, da tempo, ricondotte dalla Corte costituzionale nell’ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio (Corte costituzionale, sent. 23.11.2011, n. 309; 01.10.2003, n. 303).
In merito è stato chiarito che “
sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali.
L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall'altro.
La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato
”.
Con specifico riferimento al riparto di competenze in tema di distanze legali, la medesima Corte ha affermato che “
la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio
" (Corte costituzionale, sentenze 03.11.2016 n. 231; 23.01.2013 n. 6; 21.05.2014 n. 134; ordinanza 19.05.2011 n. 173).
Si è affermato di conseguenza che “
nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, ritenuto più volte dotato di “efficacia precettiva e inderogabile” (Corte costituzionale, sent. 10.05.2012, n. 114; ordinanza 19.05.2011, n. 173).
Con rifermento ad eventuali deroghe, la Corte ha ritenuto che tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
In definitiva,
le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
Le richiamate conclusioni sono state ribadite anche a seguito dell’emanazione dell’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98 − e dell’art. 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001.
Ad avviso del giudice costituzionale, invero, la disposizione ha recepito l’orientamento della Corte “inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal D.M. n. 1444/1968 e dell'ammissibilità di deroghe solo a condizione che esse siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenze 20.07.2016 n. 175 e 21.09.2016 n. 178).
6.
L’art. 103, comma 1-bis, della legge della Regione Lombardia n. 12/2005, non affidando l’operatività dei suoi precetti a “strumenti urbanistici” e non essendo funzionale ad un “assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio”, riferisce la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento, quindi anche su singoli edifici, con la conseguenza che essa risulta assunta al di fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di “governo del territorio”, in violazione del limite “dell’ordinamento civile” assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Sotto i delineati profili
la Sezione è dell’avviso che la questione di legittimità costituzionale di cui al comma 1-bis dell’articolo 103 della legge regionale della Lombardia 2005 n. 12, (comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), della legge regionale Lombardia 14.03.2008, n. 4), non sia manifestamente infondata.
Non può dubitarsi, poi, della sua rilevanza atteso che, come emerge dall’esposizione fin qui svolta, la sua applicazione è decisiva ai fini della decisione della controversia in esame.
Dev’essere disposta, conseguentemente, la rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione della predetta questione di legittimità costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede consultiva (Sezione prima), visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, 23 della legge 11.03.1953, n. 87 e l’art. 1, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale 07.10.2008:
   a)
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione, che rimette alla Corte costituzionale, di legittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, nei sensi indicati in motivazione;
   b) dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il presente procedimento (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 22.01.2018 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'applicazione delle norme sulle distanze dettate dall'art. 873 del codice civile e seguenti o dalle diposizioni regolamentari integrative del codice civile, per "costruzione" deve intendersi qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo, indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata e, segnatamente, dall'impiego di malta cementizia.
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Sempre in tema di distanze legali, mentre il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione" agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c., per la parte che adempie alla sua specifica funzione”, devono invece ritenersi soggetti a tale norma, “perchè costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente.
A tale indirizzo, cui va assicurata continuità, deve solo aggiungersi, per evitare fraintendimenti, una precisazione di carattere terminologico sulle espressioni di "terrapieno naturale" e di "terrapieno artificiale" o antropico.
La prima, infatti, consiste in un ossimoro, poiché ogni terrapieno, consistendo in un riporto di terra (contro un muro o) sostenuto da un muro è per definizione opera dell'uomo, e dunque artificiale, mentre naturale può essere soltanto il dislivello del terreno, originario ovvero prodotto o accentuato da movimenti franosi o da altre cause non immediatamente riferibili all'attività dell'uomo.
Dunque, a termini dell'art. 873 c.c., i muri di sostegno di terrapieni sono costruzioni.
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Quanto all’abuso in questione, nell’istanza di permesso di costruire in sanatoria si è prefigurata la realizzazione di una “cantina in luogo di terrapieno esistente (…) annessa tramite disimpegno all'appartamento”, consistente –come rilevato nel sopralluogo dei tecnici comunali del 07.11.2006– in un “locale in muratura intonacata con tetto piano, realizzato in adiacenza ad edificio esistente”.
Orbene, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è del tutto costante “nel ritenere che ai fini dell'applicazione delle norme sulle distanze dettate dall'art. 873 del codice civile e seguenti o dalle diposizioni regolamentari integrative del codice civile, per "costruzione" deve intendersi qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo (cfr. ex pluribus, Cass. nn. 5753/2014, 23189/2012, 15972/2011, 22127/2009, 25837/2008, S.U. 7067/1992 e 3199/2002), indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata e, segnatamente, dall'impiego di malta cementizia (Cass. n. 4196/1987).
Ed è altrettanto costantemente affermato, in tema di distanze legali, che mentre il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione" agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c., per la parte che adempie alla sua specifica funzione”, devono invece ritenersi soggetti a tale norma, “perchè costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente (cfr. Cass. nn. 1217/2010, 145/2006, 8144/2001, 4511/1997, 7594/1995 e 1467/1994).
A tale indirizzo, cui va assicurata continuità, deve solo aggiungersi, per evitare fraintendimenti, una precisazione di carattere terminologico sulle espressioni di "terrapieno naturale" e di "terrapieno artificiale" o antropico. La prima, infatti, consiste in un ossimoro, poiché ogni terrapieno, consistendo in un riporto di terra (contro un muro o) sostenuto da un muro è per definizione opera dell'uomo, e dunque artificiale, mentre naturale può essere soltanto il dislivello del terreno, originario ovvero prodotto o accentuato da movimenti franosi o da altre cause non immediatamente riferibili all'attività dell'uomo. Dunque, a termini dell'art. 873 c.c., i muri di sostegno di terrapieni sono costruzioni
” (cfr. Corte di Cassazione, 16.03.2015, n. 5163) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2018 n. 180 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato».
Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
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È, però, noto che ad avviso del Giudice delle Leggi “il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005). Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio” (cfr. Corte Costituzionale, 23.01.2013, n. 6) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2018 n. 180 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un principio generale di diritto, le norme dei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive tra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità edificatoria in relazione all'ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che le costruzioni si fronteggino e dall'esistenza di un dislivello tra i fondi su cui esse insistono.
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In tema di distanze legali fra edifici, rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
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Agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione, stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica.
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In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte.

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5. Questi tre motivi, ben suscettibili di esame unitario per il comune riferimento ad errori di diritto nel calcolo delle distanze legali, sono fondati.
Secondo un principio generale di diritto -che il Collegio intende oggi ribadire- le norme dei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive tra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità edificatoria in relazione all'ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che le costruzioni si fronteggino e dall'esistenza di un dislivello tra i fondi su cui esse insistono (v. tra le varie, Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 3854 del 18/02/2014 Rv. 629629; Sez. 2, Sentenza n. 24013 del 24/09/2008 Rv. 605174; Sez. 2, Sentenza n. 19350 del 04/10/2005 Rv. 584412).
Sempre per giurisprudenza costante, in tema di distanze legali fra edifici, rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (Sez. 2, Sentenza n. 18282 del 19/09/2016 Rv. 641075; Sez. 2, Sentenza n. 17242 del 22/07/2010 Rv. 614192; Sez. 2, Sentenza n. 12964 del 31/05/2006 (Rv. 593831).
Si è poi precisato che, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione, stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica (v. Sez. 2, Sentenza n. 1556 del 26/01/2005 Rv. 578604; Sez. 2, Sentenza n. 12964 del 31/05/2006 Rv. 593831 in motivazione.
E' stato altresì affermato da questa Corte che in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (v. Sez. 2, Sentenza n. 5594 del 22/03/2016 Rv. 639403; Sez. 2, Sentenza n. 17089 del 27/07/2006 Rv. 593396; v. anche Sez. 2, Sentenza n. 17242 del 22/07/2010 Rv. 614192 in motivazione) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 19.01.2018 n. 1365).

EDILIZIA PRIVATA: La questione giuridica concernente la corretta individuazione della disciplina in tema di distanze per edifici collocati nella zona A) solo di recente ha trovato una soluzione che sembra consolidata ed alla quale si ritiene dover assicurare continuità.
Reputa il Collegio che debba darsi continuità a quanto di recente affermato da Cass. n. 14552/2016 e da Cass. n. 15458/2016, che hanno appunto ribadito che per gli edifici in zona omogenea A, debba in ogni caso rispettarsi il limite delle distanze intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
Ed, infatti, una volta ricordato che il DM n. 1444/1968 nel definire le "zone territoriali omogenee" e gli standards urbanistici ai quali i Comuni devono attenersi in sede di approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, pone dei parametri "minimi", che gli strumenti urbanistici comunali emanati successivamente all'entrata in vigore del detto decreto ministeriale (17.04.1968) sono tenuti ad osservare, ma che gli enti locali possono derogare con la previsione di parametri più rigorosi, è palese l'illegittimità dello strumento urbanistico che non osservi i parametri minimi in questione.

In tale prospettiva,
poiché il D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega del L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quínquies (c.d. legge urbanistica), ha efficacia di legge dello Stato, le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.
Ciò comporta altresì che
poiché la disciplina sulle distanze dettata da uno strumento urbanistico comunale deve osservare le prescrizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 1, che detta le distanze "minime" tra fabbricati per ciascuna zona territoriale omogenea, le medesime -una volta recepite dallo strumento urbanistico o inserite automaticamente nello stesso- hanno efficacia precettiva, in quanto norma integrativa dell'art. 873 cod. civ., anche nei rapporti tra privati.
E' pur vero che le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui il D.M. 02.04.1968, nell'imporre all'art. 9 determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei rapporti tra i privati, ma è altrettanto vero che poiché il DM in esame è rivolto agli enti comunali, che devono farne applicazione nella redazione dei loro strumenti urbanistici, una volta che l'ente locale abbia adottato lo strumento urbanistico e qualora quest'ultimo contenga disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che violino i parametri minimi stabiliti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, il giudice di merito è tenuto a disapplicare le disposizioni del regolamento comunale illegittime e ad applicare direttamente, anche nei rapporti tra privati, la disposizione del detto art. 9, la quale diviene, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima.
In tal senso deve poi altresì precisarsi che
l'inserzione automatica della disciplina delle distanze dettata dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 nello strumento urbanistico comunale opera non solo quando lo strumento urbanistico stesso, individuando le zone territoriali omogenee, violi le distanze minime prescritte dallo stesso art. 9 per ciascuna zona territoriale, prevedendo una distanza inferiore a quella minima prescritta, ma anche quando lo strumento urbanistico, dopo aver individuato le zone territoriali omogenee, nulla preveda sulle distanze legali relativamente ad esse (o ad una di esse).
Per l'effetto
se lo strumento urbanistico locale recepisca le prescrizioni in materia di distanze tra costruzioni dettate dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 ovvero stabilisca distanze più rigorose, si applicheranno le norme del regolamento comunale, ma se non osservi le prescrizioni del detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero in quanto non prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati, si determinerà l'inserzione automatica delle prescrizioni dell'art. 9 nello strumento urbanistico, divenendo così tali prescrizioni -a mezzo dello strumento urbanistico del quale entrano a far parte- immediatamente applicabili anche ai rapporti tra privati.
In termini analoghi si è poi pronunziata anche Cass. n. 14552/2016, che
ribadendo che nelle zone A, nelle quali sono consentiti esclusivamente interventi di risanamento conservativo senza incremento delle densità edilizia di zona e territoriale preesistenti, è stato in sostanza imposto un vincolo conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del territorio - non temporaneo e, come tale, non caducabile.
Ciò comporta che il vincolo d'inedificabilità assoluta, impedisce in radice che possano trovare applicazione i criteri stabiliti dall'art. 873 c.c., nonché quelli di cui alla L. n. 765 del 1967, art. 17, comma 1.
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3. Il secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione del DM n. 1444 del 1968 in correlazione con l'art. 873 c.c. e con le previsioni dello strumento urbanistico del Comune di Bagnara Calabra.
A tal riguardo la sentenza gravata ha infatti rilevato che mancava una previsione regolamentare che fissasse una distanza minima dal confine pari a metri 7, e che comunque non potevano invocarsi le previsioni di cui al DM n. 1444 del 1968, in quanto nella fattispecie si controverteva in materia di fabbricati ubicati in zona A, per la quale la norma de qua prevede solo la possibilità di interventi di ristrutturazione e manutenzione conservativa, aggiungendo che le distanze legali non possono essere inferiore a quelle intercorrenti tra i volumi preesistenti.
Ha quindi concluso affermando che non ricavandosi da tale disposizione alcuna distanza specifica, ed in assenza di una diversa previsione regolamentare, non poteva che farsi applicazione dell'art. 873 c.c. (nemmeno potendosi fare richiamo alla distanza di 10 metri tra pareti finestrate di cui all'art. 9, co. 1, n. 2, del citato DM, che si applica invece alle costruzioni nuove in zone diverse da quella A), norma rispetto alla quale andava esclusa la ricorrenza di una costruzione a distanza inferiore a quella di legge.
Assume il ricorrente che tale interpretazione delle norme sia errata, in quanto, attesa l'inclusione della costruzione oggetto di causa nella zona A del Comune di Bagnara Calabra, la citata previsione in tema di limiti all'edificazione di nuove costruzioni ed alla necessità di dover rispettare le distanze tra volumi edificati preesistenti, non consentiva di fare applicazione della previsione codicistica di cui all'art. 873 c.c. Peraltro, la maggiore altezza del fabbricato della convenuta esclude che possa parlarsi di mera ristrutturazione del fabbricato preesistente, ma impone di ritenere realizzata una nuova costruzione.
Il motivo è fondato.
Rileva il Collegio che
la questione giuridica concernente la corretta individuazione della disciplina in tema di distanze per edifici collocati nella zona A) è stata oggetto di soluzioni diversificate nel tempo, e senza che fosse possibile individuare un quadro diacronico degli interventi, e ciò anche in relazione agli orientamenti del giudice amministrativo, e che solo di recente ha trovato una soluzione che sembra consolidata ed alla quale si ritiene dover assicurare continuità.
Secondo una prima tesi la fattispecie andrebbe disciplinata facendo applicazione della norma di carattere generale di cui all'art. 873 c.c., in quanto (cfr. Cass. n. 7804/1991) il regolamento edilizio, ancorché non contenga una specifica disciplina delle distanze tra fabbricati, comporta l'inapplicabilità delle limitazioni poste in materia di distanze ed altezze negli edifici dall'art. 41-quinquies, primo comma, lett. c), della legge 17.08.1942 n. 1150, come introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, dovendosi intendere in tal caso adottata dal regolamento la distanza stabilita dall'art. 873 cod. civ. ( si veda anche Cass. n. 12376/1992).
Solo in apparenza sembra aderire a tale soluzione anche Cass. n. 12767/2008, laddove afferma che l'art. 9, primo comma, n. 2), del d.m. 02.04.1968, n. 1444 -emanato in forza dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765- in base al quale la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo ultimo, dove vige il generale divieto di costruzioni "ex novo", la norma si limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti, atteso che la stessa si limita a ben vedere solo ad escludere l'applicazione del DM 1444 (così anche Cass. n. 879/1999).
Condurrebbe invece all'applicazione dell'art. 873 c.c. quanto affermato da Cass. n. 4754/1995, secondo cui la mancanza in uno strumento urbanistico, di prescrizioni sulle distanze per una determinata zona del territorio, a causa della scelta del legislatore locale di vietare in tale zona qualsiasi attività costruttiva, lungi dal creare lacune nella regolamentazione dei rapporti di vicinato, fa si che resti applicabile ad esso la disciplina dettata dagli art. 873 e ss. cod. civ., con la conseguenza che, in caso di violazione del divieto di costruire, il privato proprietario che ne abbia subito danno ha diritto, ai sensi dell'art. 872 cod. civ., di esserne risarcito ma non può pretendere la riduzione in pristino, ove non risulti contemporaneamente trasgredito l'obbligo di rispettare le distanze previste dalle norme codicistiche (si veda sempre in relazione ad un caso di costruzione realizzata in zona successivamente assoggettata a vincolo assoluto di inedificabilità, Cass. n. 3638/2007).
A tale orientamento si è poi contrapposta la tesi, fatta propria in prevalenza dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui dovrebbe trovare applicazione la previsione in tema di distacco tra pareti finestrate di cui all'art. 9 del DM n. 1444 del 1968.
In tal senso Consiglio di Stato, sez. V, 23/05/2000, n. 2983 ha affermato che in materia di distanze tra nuove costruzioni, quando il regolamento edilizio comunale presenta una lacuna normativa, la disciplina applicabile è quella contenuta nell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942 che richiama l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, ed ha natura di norma integrativa dell'art. 873 c.c. (in termini e proprio con specifico riferimento ad edifici collocati in cd. Zona A, Consiglio di Stato sez. V 19.03.1999 n. 280).
A tale soluzione si contrappone poi l'ulteriore tesi che reputa applicabili le misure di salvaguardia di cui alla legge n. 765 del 1967.
In tal senso si veda Cass. n. 20713/2013, a mente della quale, la norma contenuta nell'art. 41-quinquies, lett. c), della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, secondo la quale, nelle nuove edificazioni a scopo residenziale, "la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire", va osservata non solo nei casi in cui i Comuni siano sprovvisti di strumento urbanistico, ma anche quando negli stessi o nei regolamenti edilizi manchino norme specifiche che provvedano direttamente in materia di distanze Solo in apparenza sembra porsi in tale ottica Cass. n. 26123/2015, la cui massima recita: "Qualora lo strumento urbanistico vieti ogni attività costruttiva in una determinata zona e per essa non dia quindi alcuna prescrizione sulle distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono disciplinati dall'art. 873 c.c., ma dall'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della l. n. 765 del 1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo residenziale, "la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire", occorrendo però specificare come peraltro chiarito da questa stessa Corte, che si tratta di fattispecie nella quale il vincolo di inedificabilità assoluta dipendeva dall'osservanza della fascia di rispetto delle aree cimiteriali prevista dall'art. 338 T.U. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265 (e non dall'esercizio di discrezionalità amministrativa da parte dell'ente comunale), non vale tuttavia quando -come nella specie- il vincolo di inedificabilità assoluta è previsto dallo strumento urbanistico comunale in relazione al particolare carattere storico e di pregio ambientale della zona territoriale individuata".
Infine è stata sostenuta la tesi secondo cui i limiti all'attività edilizia prescritti per gli immobili collocati nella zona A impongono che debbano in ogni caso essere rispettate le distanze preesistenti tra fabbricati.
In tal senso si veda Cass. n. 1282/2006, che ha appunto affermato che la disciplina del regolamento edilizio del Comune di Somma Vesuviana la quale aveva recepito il d.m. 02/04/1968 che all'art. 9 prescrive per la zona A, in relazione alle operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le distanze fra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi preesistenti, poiché nella zona A sono consentite soltanto operazioni di risanamento conservativo e di manutenzione ordinaria, mentre sostituzioni edilizie e nuove costruzioni potranno essere ammesse soltanto dopo l'approvazione di un piano particolareggiato esecutivo (nella specie insussistente) - introduce un divieto assoluto "medio tempore" sotto il profilo urbanistico di realizzazione di interventi edilizi nella zona senza prevedere alcuna deroga alla disciplina in materia di distanze tra fabbricati di cui all'art. 9 del citato d.m., tenuto conto che l'eventuale deroga sarebbe, comunque, illegittima e suscettibile di disapplicazione da parte del giudice, giacché in caso di adozione dello strumento urbanistico tali norme, per inserzione automatica nello stesso, sono immediatamente operanti nei rapporti fra privati.
Pertanto, la disposizione di cui al citato art. 2 non può essere interpretata nel senso che, in assenza dell'approvazione del piano particolareggiato esecutivo, trovi applicazione la disciplina dettata dall'art. 873 cod. civ. anziché quella prevista dal citato art. 9. Tale principio è stato poi ribadito anche da Cass. S.U. n. 20354/2013 (non massimata), nella cui motivazione si legge che nelle zone A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
Reputa il Collegio che tale ultima soluzione sia in assoluto da preferire, e che pertanto debba darsi continuità a quanto di recente affermato da Cass. n. 14552/2016 e da Cass. n. 15458/2016, che hanno appunto ribadito che per gli edifici in zona omogenea A, debba in ogni caso rispettarsi il limite delle distanze intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
Ed, infatti, una volta ricordato che il DM n. 1444/1968 nel definire le "zone territoriali omogenee" e gli standards urbanistici ai quali i Comuni devono attenersi in sede di approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, pone dei parametri "minimi", che gli strumenti urbanistici comunali emanati successivamente all'entrata in vigore del detto decreto ministeriale (17.04.1968) sono tenuti ad osservare, ma che gli enti locali possono derogare con la previsione di parametri più rigorosi, è palese l'illegittimità dello strumento urbanistico che non osservi i parametri minimi in questione.

In tale prospettiva, come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte,
poiché il D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega del L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quínquies (c.d. legge urbanistica), ha efficacia di legge dello Stato, le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass. Sez. U, n. 14953 del 07/07/2011, Rv. 617949).
Ciò comporta altresì che
poiché la disciplina sulle distanze dettata da uno strumento urbanistico comunale deve osservare le prescrizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 1, che detta le distanze "minime" tra fabbricati per ciascuna zona territoriale omogenea, le medesime -una volta recepite dallo strumento urbanistico o inserite automaticamente nello stesso- hanno efficacia precettiva, in quanto norma integrativa dell'art. 873 cod. civ., anche nei rapporti tra privati.
E' pur vero che le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui il D.M. 02.04.1968, nell'imporre all'art. 9 determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei rapporti tra i privati (cfr., ex plurirnis, Sez. U, Sentenza n. 5889 del 01/07/1997, Rv. 505623), ma è altrettanto vero che poiché il DM in esame è rivolto agli enti comunali, che devono farne applicazione nella redazione dei loro strumenti urbanistici, una volta che l'ente locale abbia adottato lo strumento urbanistico e qualora quest'ultimo contenga disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che violino i parametri minimi stabiliti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, il giudice di merito è tenuto a disapplicare le disposizioni del regolamento comunale illegittime e ad applicare direttamente, anche nei rapporti tra privati, la disposizione del detto art. 9, la quale diviene, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima.
In tal senso deve poi altresì precisarsi che
l'inserzione automatica della disciplina delle distanze dettata dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 nello strumento urbanistico comunale opera non solo quando lo strumento urbanistico stesso, individuando le zone territoriali omogenee, violi le distanze minime prescritte dallo stesso art. 9 per ciascuna zona territoriale, prevedendo una distanza inferiore a quella minima prescritta, ma anche quando lo strumento urbanistico, dopo aver individuato le zone territoriali omogenee, nulla preveda sulle distanze legali relativamente ad esse (o ad una di esse).
Per l'effetto
se lo strumento urbanistico locale recepisca le prescrizioni in materia di distanze tra costruzioni dettate dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 ovvero stabilisca distanze più rigorose, si applicheranno le norme del regolamento comunale, ma se non osservi le prescrizioni del detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero in quanto non prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati, si determinerà l'inserzione automatica delle prescrizioni dell'art. 9 nello strumento urbanistico, divenendo così tali prescrizioni -a mezzo dello strumento urbanistico del quale entrano a far parte- immediatamente applicabili anche ai rapporti tra privati.
In termini analoghi si è poi pronunziata anche Cass. n. 14552/2016, che
ribadendo che nelle zone A, nelle quali sono consentiti esclusivamente interventi di risanamento conservativo senza incremento delle densità edilizia di zona e territoriale preesistenti, è stato in sostanza imposto un vincolo conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del territorio - non temporaneo e, come tale, non caducabile.
Ciò comporta che il vincolo d'inedificabilità assoluta, impedisce in radice che possano trovare applicazione i criteri stabiliti dall'art. 873 c.c., nonché quelli di cui alla L. n. 765 del 1967, art. 17, comma 1 (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 19.01.2018 n. 1360).

EDILIZIA PRIVATA: Lo strumento della cessione di cubatura (o asservimento), quale espressione dell’autonomia negoziale delle parti, è limitabile dalla Pubblica amministrazione solo espressamente ed a chiare e specifiche condizioni (che, nella fattispecie, si rinvengono nel disposto dell’art. 13 del regolamento edilizio, secondo cui nei singoli lotti non è in ogni caso possibile superare l’indice territoriale di 0,70 mc/mq).
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Le distanze tra pareti di edifici ex art. 9, comma 1, D.M. 1444/1968 valgono non solo per le finestre, ma anche per le luci e trovano applicazione anche quando solo una delle pareti antistanti risulta finestrata e non entrambe.
Inoltre, essendo finalizzate a stabilire un’idonea intercapedine tra edifici nell’interesse pubblico, e non a salvaguardare l’interesse privato del frontista alla riservatezza, la circostanza che si tratti di corpi di uno stesso edificio, ovvero di edifici distinti, non può dispiegare alcun effetto distintivo.
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La distanza degli edifici dal limite della strada, che va misurata dal profilo estremo degli sporti al ciglio della via, deve tenere conto del marciapiede, il quale fa parte della strada, quale tratto di essa situato fuori dalla carreggiata e normalmente destinato alla circolazione dei pedoni, ai sensi dell’art. 2, comma 1, del codice stradale.

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La ditta ricorrente impugna, per violazione di legge ed eccesso di potere, il diniego di permesso di costruire, opposto dal Comune di Tortora, in relazione alla realizzazione di un immobile in contrada Riviera.
I motivi di diniego riguardano:
   - l’impossibilità di accedere alla cessione della cubatura mancante, in applicazione dell’art. 13 del regolamento edilizio, secondo cui nei singoli lotti non è in ogni caso possibile superare l’indice territoriale di 0,70 mc/mq;
   - il mancato rispetto della distanza minima di m. 10 tra pareti finestrate di edifici;
   - il mancato rispetto della distanza minima di m. 5 dal ciglio stradale.
In proposito, sostiene la società ricorrente: che non sono consentiti, da parte dell’autorità comunale, limiti ad un istituto civilistico, qual è la cessione di cubatura; che la distanza minima di m. 10 tra pareti finestrate di edifici non opera per le luci e quando solo una delle pareti antistanti risulta finestrata; che, nel computo della distanza minima di m. 5 dal ciglio stradale, non si deve tenere conto del marciapiede.
Resiste il Comune di Tortora.
Il ricorso è infondato e va respinto.
I rilievi della P.A. sono infatti da ritenere tutti legittimi, posto che:
   a) lo strumento della cessione di cubatura (o asservimento), quale espressione dell’autonomia negoziale delle parti, è limitabile dalla Pubblica amministrazione solo espressamente ed a chiare e specifiche condizioni (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. I, 27.10.2015 n. 2260) che, nella fattispecie, si rinvengono nel disposto dell’art. 13 del regolamento edilizio, secondo cui nei singoli lotti non è in ogni caso possibile superare l’indice territoriale di 0,70 mc/mq;
   b) le distanze tra pareti di edifici ex art. 9, comma 1, D.M. 1444/1968 valgono non solo per le finestre, ma anche per le luci (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 18.06.2009 n. 4015; TAR Piemonte, Sez. I, 02.12.2010 n. 4374) e trovano applicazione anche quando solo una delle pareti antistanti risulta finestrata e non entrambe (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 16.03.2010 n. 823). Inoltre, essendo finalizzate a stabilire un’idonea intercapedine tra edifici nell’interesse pubblico, e non a salvaguardare l’interesse privato del frontista alla riservatezza (cfr. Cass. civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108), la circostanza che si tratti di corpi di uno stesso edificio, ovvero di edifici distinti, non può dispiegare alcun effetto distintivo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909 e TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 08.07.2010 n. 2461);
   c) la distanza degli edifici dal limite della strada, che va misurata dal profilo estremo degli sporti al ciglio della via (cfr. Cass. civ., Sez. II, 03.08.1984 n. 4624), deve tenere conto del marciapiede, il quale fa parte della strada, quale tratto di essa situato fuori dalla carreggiata e normalmente destinato alla circolazione dei pedoni, ai sensi dell’art. 2, comma 1, del codice stradale (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 17.01.2018 n. 138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo pacifica giurisprudenza di legittimità, in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 873 cod. civ. (e quindi anche le eventuali e più rigorose previsioni degli strumenti urbanistici locali) trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell'area meno elevata non raggiunga il livello di quella superiore, in quanto la necessità del rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d'intercapedini dannose.
Invero, la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti va rispettata anche nel caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato rispetto di essa sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma terzo, cod. civ. e così pure dal confine.

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4. Il terzo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 9, punto 1, co. 4, della NTA del PRG del Comune di Roma, laddove la sentenza ha reputato applicabile la distanza di metri 10 tra pareti finestrate.
Si sostiene che tale norma che richiama quanto previsto dall'art. 9 del DM n. 1444/1968, come peraltro riferito anche dal CTU, non può essere applicata nel caso di specie in quanto si tratterebbe di costruzioni non realizzate su fondi confinanti.
Inoltre l'appartamento degli attori ha una quota di calpestio del terrazzo molto più elevata di quella della copertura del corpo di fabbrica adibito a negozi della ricorrente, sicché non si ravvisa una possibilità di interferire con la visuale che si esercita dalla terrazza degli attori.
Il motivo va disatteso.
Ed, invero, oltre a riprendere in larga misura la tesi oggetto del secondo motivo di ricorso, già disatteso, circa la sussistenza di un unico complesso edilizio, in parte si risolve in una non consentita contestazione dell'accertamento in fatto operato dai giudici di merito, i quali hanno ritenuto applicabile la suddetta previsione regolamentare locale, sulla scorta della verifica dell'esistenza di aperture nella costruzione degli attori (nella specie, terrazza in aggetto) tali da far acquisire ad almeno una delle pareti fronteggiantisi, la qualifica di finestrata.
Inoltre, nella parte in cui la censura insiste sulla differenza di quota tra la proprietà degli attori e la copertura dell'immobile fronteggiante, non si confronta con l'altrettanto pacifica giurisprudenza di legittimità per la quale (cfr. Cass. n. 19486/2008; Cass. n. 20850/2013) in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 873 cod. civ. (e quindi anche le eventuali e più rigorose previsioni degli strumenti urbanistici locali) trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell'area meno elevata non raggiunga il livello di quella superiore, in quanto la necessità del rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d'intercapedini dannose (cfr. altresì Cass. n. 145/2006, a mente della quale la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti va rispettata anche nel caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato rispetto di essa sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma terzo, cod. civ. e così pure dal confine; conf. Cass. n. 5741/2008) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 05.01.2018 n. 166).

EDILIZIA PRIVATA: Si è già affermato che i balconi non appaiono riconducibili per dimensioni e caratteristiche costruttive a meri elementi ornamentali privi di rilevanza ai fini del calcolo delle distanze, sicché la mera differenza di tecnica costruttiva ravvisabile tra la parete in muratura ed un balcone aperto, non consente di aderire ad una diversa ricostruzione della portata applicativa della norma, dovendo quindi reputarsi che anche la presenza di un balcone imponga di ravvisare una situazione di parete finestrata.
Inoltre se la finalità delle norme in tema di distanze tra costruzioni è quella di evitare la creazione di intercapedini dannose, e di riflesso di assicurare un ordinato e razionale sviluppo dell'attività edilizia al fine della salvaguardia della salubrità e dell'armonico sviluppo dell'attività edificatoria, l'escludere la rilevanza di un balcone ai fini del computo delle distanze vanificherebbe in maniera evidente lo scopo cui mira il legislatore.
Infine, conforta tale conclusione anche la costante giurisprudenza di questa Corte, che anche di recente ha avuto modo di affermare che in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte.
In conclusione, sulla possibilità di degradare il balcone al rango di mero sporto, in tema di distanze legali fra edifici
- rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria -come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili- mentre
   - costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
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5. Il quarto motivo denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 873 c.c. nella parte in cui i giudici di appello hanno ritenuto che nel calcolare le distanze tra i fabbricati fronteggiantisi si dovesse tenere conto anche della terrazza in aggetto.
La ricorrente, pur mostrando di avere ben presente l'orientamento al quale ha fatto cenno anche la sentenza impugnata, circa la necessità di dover tenere conto ai fini del calcolo delle distanze anche degli elementi sporgenti, quale nel caso di specie la terrazza degli attori, ritiene però che si tratti di un orientamento non condivisibile.
Il motivo è infondato.
Ed, invero, in disparte il richiamo alla legittimità urbanistica dell'opera, già oggetto del primo motivo di ricorso, la censura si scontra in maniera evidente con la pacifica giurisprudenza di questa Corte, alla quale il Collegio ritiene di dover dare continuità, attesa anche l'assenza di seri elementi di critica idonei ad indurre a far rimeditare le conclusioni già raggiunte.
Ed, invero si è già affermato che i balconi non appaiono riconducibili per dimensioni e caratteristiche costruttive a meri elementi ornamentali privi di rilevanza ai fini del calcolo delle distanze, sicché la mera differenza di tecnica costruttiva ravvisabile tra la parete in muratura ed un balcone aperto, non consente di aderire ad una diversa ricostruzione della portata applicativa della norma, dovendo quindi reputarsi che anche la presenza di un balcone imponga di ravvisare una situazione di parete finestrata.
Inoltre se la finalità delle norme in tema di distanze tra costruzioni è quella di evitare la creazione di intercapedini dannose, e di riflesso di assicurare un ordinato e razionale sviluppo dell'attività edilizia al fine della salvaguardia della salubrità e dell'armonico sviluppo dell'attività edificatoria, l'escludere la rilevanza di un balcone ai fini del computo delle distanze vanificherebbe in maniera evidente lo scopo cui mira il legislatore.
Infine, conforta tale conclusione anche la costante giurisprudenza di questa Corte, che anche di recente ha avuto modo di affermare che (cfr. Cass. n. 5594/2016) in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (in senso sostanzialmente conforme si veda anche Cass. n. 23553/2013; Cass. n. 17089/2006).
In conclusione, una volta esclusa, per espresso accertamento da parte degli stessi giudici di appello, la possibilità di degradare il balcone in oggetto al rango di mero sporto (cfr. a tal fine da ultimo Cass. n. 18282/2016, secondo cui, in tema di distanze legali fra edifici, rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria -come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili- mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza; Cass. n. 17242/2010), deve ribadirsi la correttezza della soluzione raggiunta dalla sentenza impugnata (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 05.01.2018 n. 166).

dicembre 2017

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del DM 02.04.1968 n. 1444, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve essere annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
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La giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità.
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... per la riforma della sentenza del TAR per la Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria n. 2 del 03.01.2006, resa tra le parti, con cui è stato in parte dichiarato inammissibile e in parte rigettato il ricorso in primo grado n.r. 257/2005 proposto per l’annullamento:
   - del permesso di costruire n. 18 del 18.02.2005 rilasciato alla signora Li.Mo. per la sopraelevazione di due piani fuori terra del fabbricato esistente tra le vie Marconi e Riviera in località Immacolata di Villa San Giovanni;
   - del P.R.G. del Comune di Villa San Giovanni, approvato con d.P.G.R. n. 1657 del 26.07.1983, limitatamente all’art. 16 delle N.T.A. quanto alle distanze tra edifici ivi previste in zona B sottozona B2.
...
1.) Li.Tu. è comproprietaria di un immobile a tre elevazioni (individuato in catasto alla partita 2480, foglio 3, particella 306, sub. 3), in località Immacolata di Villa San Giovanni, confinante a est con un preesistente immobile composto da solo piano terra appartenente a Li.Mo..
Con il permesso di costruire n. 18 del 18.02.2005 il Comune di Villa San Giovanni ha assentito la sopraelevazione di due piani del predetto fabbricato terraneo.
Con il ricorso in primo grado n.r. 257/2005, inizialmente notificato in data 08.04.2005 alla sola controinteressata ed al Comune, è stato impugnato il permesso di costruire, nonché il P.R.G., limitatamente all’art. 16 delle N.T.A.
L’interessata ha dedotto in sintesi le seguenti censure:
   1) Violazione dell’art. 9 comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968 n. 1444, in relazione all'art. 41-quinquies della legge urbanistica. Illegittimità derivata, perché l’art. 16 delle N.T.A. consente nella zona B sottozona B1 una distanza minima tra edifici pari a ml. 6 o 8, a seconda che si tratti di tre o quattro piani, in violazione della rubricata disciplina statale, con consequenziale illegittimità derivata del permesso di costruire.
   2) Violazione del D.M. 16.01.1996 Punto C. 3. Eccesso di potere per travisamento dei fatti e sviamento, perché l’altezza dell’edificio a seguito della sopraelevazione è superiore di cm. 20 (ml. 10,05) rispetto a quella massima consentita (ml. 9,85).
   3) Violazione dell'art. 41-sexies della legge urbanistica. Eccesso di Potere per travisamento dei fatti e sviamento, perché configurandosi l’intervento edilizio come nuova costruzione gli standard a parcheggio dovevano essere garantiti in misura pari a 127,34 mq. in luogo di quelli previsti, pari a 79,1 mq.
...
4.) L’appello in epigrafe è fondato, nei limiti di seguito precisati, onde in riforma della sentenza gravata deve essere accolto il ricorso proposto in primo grado.
4.1) Con riguardo, infatti, alla rilevata inammissibilità dell’impugnazione dell’art. 16 delle N.T.A. del P.R.G., e quindi del primo motivo del ricorso in primo grado, deve ricordarsi che, secondo la più recente giurisprudenza di questa Sezione (cfr. n. 3522 del 04.08.2016): “…in linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del citato decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali (cfr. Cass. civ., sez. II, 14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve essere annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.02.2015, nr. 515)
”.
Ne consegue che la tempestività della notificazione del ricorso alla Regione Calabria è priva di rilevanza essendo stata comunque sollecitata da parte ricorrente la disapplicazione dell’art. 16 delle N.T.A. nella parte in cui ammette una distanza minima inferiore a quella prescritta dal d.m. 1444/1968, non risultando peraltro contestato, in punto di fatto, che la sopraelevazione non rispetti il predetto limite minimo di distanza.
Dai rilievi che precedono discende la fondatezza del primo motivo del ricorso in primo grado.
...
5.) In conclusione l’appello deve essere accolto, onde in riforma della sentenza gravata e in accoglimento del primo motivo del ricorso in primo grado, deve essere annullato il permesso di costruire che risulta illegittimo per contrasto con le disposizioni del d.m. 1444/1968, doverosamente applicabili in relazione alla disapplicazione dell’illegittimo art. 16 delle N.T.A. del P.R.G. di Villa San Giovanni (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.12.2017 n. 5753 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2017

EDILIZIA PRIVATA: L’ipotesi derogatoria contemplata del Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c.
L’ipotesi derogatoria contemplata del Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c., che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione (“Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”), riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata.
Ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non e’, quindi, recata del Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c., bensì dal comma 1 dello stesso articolo 9 (“Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: (…)”), quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
Come più generalmente affermato da Corte Cost. 23.01.2013, n. 6, del DM n. 1444 del 1968, articolo 9, u.c., costituisce espressione di una “sintesi normativa”, consentendo che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur provvista di “efficacia precettiva e inderogabile”, solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici siano “inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio”
(massima tratta da https://renatodisa.com).
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3. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia nullità della sentenza e violazione di legge, e in particolare della l. n. 1150 del 1942, della l. n. 457 del 1978, delle norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico del comune di Castano Primo (art. 14), dell'art. 2697 cod. civ., degli artt. 101, 112 e 115 cod. proc. civ., degli artt. 1362 ss. cod. civ., nonché vizio di motivazione sul fatto decisivo per il giudizio indicato nella perimetrazione del piano di recupero, cui la proprietà Pa. era estranea.
Riferendosi all'argomentazione della corte d'appello per cui sarebbe valida la clausola dell'art. 4 della convenzione, dispositiva di una distanza di m. 3,10 tra i fabbricati, la ricorrente censura la ritenuta applicabilità alla fattispecie dell'art. 14 delle norme tecniche di attuazione, in quanto:
   - al piano di recupero, rimontante al 1984, nella convenzione non vi era alcun riferimento, confondendo la corte d'appello le varianti in corso d'opera per l'esecuzione dei lavori edili su richiesta della EST Ticino, successive alla scrittura del 1992, come varianti al piano di recupero, da adottarsi secondo le procedure di urbanistica;
   - in effetti con ampie contraddittoria da un lato si affermava l'adesione formale della Pa. al piano di recupero, dall'altro -senza indicare l'atto da cui essa si desumesse- si ricercavano con la sentenza impugnata fatti concludenti, come detto inidonei a far emergere l'interessamento dell'edificio al piano di recupero;
   - in ogni caso l'ipotesi della possibilità di una adesione implicita o per fatti concludenti a un piano di recupero, di cui alla l. n. 457 del 1978, trovava smentita nella stessa legge, che ancora i piani di recupero ai fondi ricompresi nella relativa perimetrazione, da adottarsi con delibera comunale ai sensi della l. n. 1150 del 1942 seguita da convenzione trascritta nei registri immobiliari, a fronte dell'essere la particella interessata della Pa. ricompresa, invece, nel centro storico, non inclusa nella perimetrazione (a differenza dell'area della EST Ticino) e di pertinenza di soggetto non partecipante alla convenzione; per giunta l'edificazione che aveva invaso totalmente la «corte lombarda», annullando il bene culturale che lo stesso piano intendeva preservare;
   - ove non applicabile il piano di recupero, l'art. 6 punto 6 delle norme tecniche prevedeva il mantenimento delle distanze esistenti, per cui anche tale norma risultava violata dalla sentenza.
3.1. Il motivo, che peraltro sottopone a questa corte di legittimità la questione del regime delle distanze applicabile, sottoposto alla regola iura novit curia opportunamente temperata in relazione alle caratteristiche del giudizio di legittimità, è parzialmente fondato e va accolto per quanto di ragione.
3.2. Al riguardo, va tenuto conto che, come sopra riepilogato, la sentenza impugnata (paragrafi 14-16 e 18) procede all'individuazione del regime delle distanze applicabile, ai fini della valutazione della derogabilità o meno di esso, predicando l'inapplicabilità dell'art. 6 delle norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico comunale (che contempla la distanza di m. 10), e l'applicabilità invece dell'art. 14 che, per gli edifici ricadenti nel piano di recupero della zona B1, prevede il mantenimento delle distanze esistenti o -per il caso di gruppi di case oggetto di piani esecutivi (che la corte territoriale ritiene sussistere nell'ipotesi di specie)- le distanze previste dallo stesso piano.
All'interno di tale ricostruzione giuridica, la corte locale (paragrafo 18) afferma la valenza del corpus normativo individuato anche per i fabbricati «esterni al piano», facendo parte del procedimento amministrativo di formazione di esso il solo fondo della EST Ticino, ma avendo la Pa. «formalmente aderito» al piano (p. 41).
Ne discenderebbe (benché -è opportuno rilevare- nella sentenza non si legga il regime delle distanze previsto dallo stesso piano, che riceverebbe legittimazione da tale ricostruzione) il ricadere della fattispecie, in virtù della parificazione (paragrafi 17-18) operata dalla corte milanese del piano di recupero agli strumenti (piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche) menzionati nel secondo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 (parificazione, questa, su cui non è il caso di soffermarsi in questa sede, in quanto non direttamente posta in discussione dalla ricorrente, ma riesaminabile anche d'ufficio, in prosieguo, in quanto riguardante la corretta individuazione della fonte di diritto in tema di distanze), nella deroga che detto secondo comma apporta alle distanze di cui al primo comma in ipotesi, appunto, di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.
3.3. La statuizione appena riportata appare in contrasto con le norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico del comune di Castano Primo, il cui art. 14 è stato evocato direttamente a base del motivo di ricorso (p. 35), e, per suo tramite, con l'art. 9 del d.m. citato pure richiamato (p. 46 del ricorso); parimenti, l'iter motivazionale della sentenza circa l'essere ricompresi i fondi nello spettro applicativo del piano si presenta contraddittorio e comunque insufficiente.
3.4. Invero, sull'argomento va data continuità all'orientamento della giurisprudenza di questa corte secondo il quale
l'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione («Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»), riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (così Cass. Sez. U, n. 1486 del 18/02/1997, ribadita ad es. recentemente da questa Sez. con le nn. 23681 del 21/11/2016 e 9915 del 19/04/2017).
Ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è, quindi, recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, bensì dal primo comma dello stesso art. 9 («Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: [...]»), quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (Cass. n. 12424 del 20/05/2010).
Come più generalmente affermato da Corte cost. 23.01.2013, n. 6,
l'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 costituisce espressione di una «sintesi normativa», consentendo che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur provvista di «efficacia precettiva e inderogabile», solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
3.5. La corte di Milano, oltre a fornire un quadro assai incerto in ordine alla possibilità di parificare un piano di recupero come equivalente a un piano particolareggiato o a una lottizzazione convenzionata (tema che, come detto, non mette conto esaminare, restando rimesso comunque al riesame del giudice del rinvio, che dovrà pervenire ex novo all'individuazione del regime giuridico applicabile), ha dunque affermato una regula iuris  -quella del ricadere della fattispecie nello spettro della deroga posta dall'art. 14 delle norme tecniche e, a un tempo, dal secondo comma dell'art. 9 del d.m.- erroneamente applicando la regola stessa al caso in esame, nel quale uno solo dei fondi ricade nell'ambito del piano; a tanto è pervenuta, inoltre, attraverso un iter motivazionale insufficiente, effettivamente facente impiego -come stigmatizzato dalla ricorrente- di dati relativi al procedimento edificatorio utilizzandoli per desumerne l'appartenenza di un fondo al piano di recupero, e contraddittorio, ove da un lato si afferma, senza dimostrarla, l'adesione formale della signora Pa. al piano di recupero, dall'altro si indicano fatti concludenti, in luogo di dati formali, per far emergere un'adesione implicita dell'edificio al piano di recupero (considerato quasi come un progetto edificatorio, in disarmonia con la l. n. 457 del 1978; a fronte, invece, del predetto principio di necessaria inclusione di entrambi i fondi nel perimetro dello strumento).
3.6. Ne deriva che, in accoglimento della censura anzidetta, la sentenza impugnata vada cassata, dovendo il giudice del rinvio procedere ex novo all'individuazione del regime delle distanze legali, previa adeguata ricognizione degli istituti menzionati nel secondo comma dell'art. 9 del d.m. del 1968 a fronte della nozione di piano di recupero di cui all'art. 14 delle norme tecniche di attuazione, nonché fare applicazione corretta -ove effettivamente entrambi i fondi rientrino in uno strumento qualificabile quale piano particolareggiato o in una lottizzazione convenzionata- del principio di diritto di cui al precedente punto 2.4., con congrua motivazione a sostegno circa i fatti idonei a far emergere il ricadere di essi nel perimetro.
Su tali basi, il giudice del rinvio rinnoverà integralmente le valutazioni in ordine alla validità delle clausole, alla validità complessiva e alla qualificazione della convenzione del 26/05/1992, secondo la precedente sentenza di questa corte n. 6170 del 2005, con le conseguenti determinazioni (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 07.11.2017 n. 26354).

ottobre 2017

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza consolidata le previsioni di cui all’art. 9 DM 1444/1968, riguardanti la distanza minima da osservarsi tra edifici, essendo funzionali a garantire non tanto la riservatezza, quanto piuttosto l’igiene e la salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini dannose, debbono considerarsi assolutamente inderogabili da parte dei comuni, che si debbono attenere ad esse in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici.
Inoltre, traendo le norme del DM 1444/1968 la propria efficacia dall’art. 41-quinquies, comma 8, L. 1150/1942 –in tale parte non abrogato dal DPR 380/2001– le relative previsioni debbono considerarsi avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore ad esse non conformi. Invero, è stato statuito: “Tanto chiarito e venendo all’esame della normativa urbanistica comunale, si premette che per consolidata giurisprudenza le norme di cui al D.M. in questione, emanate in forza dell’art. 17 L. 765/1967, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata”.
Trattasi di presidi normativi che, all’evidenza, non sono dettati a tutela e salvaguardia di singole posizioni soggettive, ma nell’interesse generale della corretta pianificazione.
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Osserva in contrario senso il Collegio, che:
   a) innanzitutto la deroga di cui all'
’articolo 9, comma 3, del d.m. 02.04.1968 n. 1444 potrebbe essere ammessa soltanto nel caso di realizzazione contestuale di “gruppi di edifici” e cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi dalla quale sembra esulare il caso in esame, in cui si ha realizzazione di un unico edificio che si va ad inserire nel contesto di un isolato già edificato;
   b) la dizione contenuta nel citato ultimo comma dell’art. 9 d.m. 1444/1968 implica che alla deroga ivi menzionata possa accedersi soltanto laddove ricorra la compresenza di tutte e tre le condizioni contenute nel detto comma (e non può invece affermarsi che le stesse integrino prescrizioni alternative) ed esse non ricorrevano, a tacere d’altro perché non ci si trova al cospetto di un gruppo di edifici, e perché non si rinviene alcuna tavola plano-volumetrica relativa ad un gruppo di edifici tra i quali sarebbe ricompreso quello erigendo;
   c) la giurisprudenza già in passato ha costantemente interpretato in senso rigido detta disposizione affermando che:
- “l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, purché siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio. Tali principi si ricavano dall'art. 873 c.c. e dall'ultimo comma dell'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 emesso ai sensi dell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1941, avente efficacia precettiva ed inderogabile, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale";
- "la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante con il muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 mt. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici”.
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I
l Collegio non ritiene di dovere decampare dai principi a più riprese espressi dalla Sezione che hanno puntualizzato la necessità di una rigida interpretazione della prescrizione secondo la quale il citato art. 9 del d.m. nr. 1444/1968 non potrebbe trovare applicazione nelle ipotesi di intervento di demolizione e ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova edificazione: ciò in quanto opera in materia l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9 secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un immobile già esistente può essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio preesistente.
In particolare, a parere della giurisprudenza civile ed amministrativa, proprio in ragione della sensibilità dei valori tutelati dalla disposizione, la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere comunque rispettata, e ciò anche in caso di interventi riconducibili alla categoria della ristrutturazione edilizia; ciò, salve ovviamente le ipotesi in cui tali interventi si sostanzino in un mero recupero di beni -realizzati prima dell’entrata in vigore della norma- che già non rispettavano tale prescrizione, non essendo possibile dare alla norma stessa applicazione retroattiva (ma tale circostanza non è stata dedotta);
La richiamata sentenza della Cassazione civile, sez. II, 03.03.2008, n. 5741 è perentoria nello stabilire che “rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies l. 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini dell'applicabilità dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente”.

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3. Venendo al merito delle censure proposte, ritiene il Collegio che entrambi i motivi dell’appello siano infondati e debbano essere respinti, per le considerazioni –che rivestono portata assorbente- che seguono.
3.1. Per giurisprudenza consolidata le previsioni di cui all’art. 9 DM 1444/1968, riguardanti la distanza minima da osservarsi tra edifici, essendo funzionali a garantire non tanto la riservatezza, quanto piuttosto l’igiene e la salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini dannose (tra le più recenti, Cass. Civ., sez. II, 03/03/2008 n. 5741, Cons. Stato, sez. V, 26/10/2006, n. 6399), debbono considerarsi assolutamente inderogabili da parte dei comuni, che si debbono attenere ad esse in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici; inoltre, traendo le norme del DM 1444/1968 la propria efficacia dall’art. 41-quinquies, comma 8, L. 1150/1942 –in tale parte non abrogato dal DPR 380/2001– le relative previsioni debbono considerarsi avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore ad esse non conformi (tra le tante, Cass. Civ. 22495/2007 e 20574/2007; Cons. Stato, sez. IV, 2094/2007; 1206/2007; in particolare, la sentenza n. 3094/2007 della IV sezione del Consiglio di Stato così testualmente statuisce: “Tanto chiarito e venendo all’esame della normativa urbanistica comunale, si premette che per consolidata giurisprudenza le norme di cui al D.M. in questione, emanate in forza dell’art. 17 L. 765/1967, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata”).
Trattasi di presidi normativi che, all’evidenza, non sono dettati a tutela e salvaguardia di singole posizioni soggettive, ma nell’interesse generale della corretta pianificazione.
3.2. La censura accolta dal Tar, si strutturava nella dedotta violazione dell’articolo 9, comma 1, n. 2 e comma 3 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, in quanto il progetto autorizzato avrebbe violato le distanze minime inderogabili.
3.3. La disposizione di cui all’articolo 9, comma 1, n. 2 e comma 3 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, così prevede: “le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
   1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
   2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
   3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) - debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
   - ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
   - ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
   - ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche
.”.
3.3. La tesi dell’appellante sulla quale si fonda la asserita legittimità del titolo edilizio annullato dal Tar è quella per cui, dal combinato-disposto delle disposizioni del Prg comunale (che non prevede limiti di distanze per le ristrutturazioni) e dalle disposizioni di legge regionale attuative del c.d. Piano casa, discendesse che i limiti di cui al citato art. 9 (nel caso di specie, distanza pari all’altezza del fabbricato degli originari ricorrenti, e quindi mt. 14,88) non trovassero applicazione.
3.4. Osserva in contrario senso il Collegio, che:
   a) innanzitutto (si veda Cons. Stato, sezione IV n. 856 del 29.02.2016, in particolare dal considerando 3.2.1.) la deroga di cui al comma 3 potrebbe essere ammessa soltanto nel caso di realizzazione contestuale di “gruppi di edifici” e cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi dalla quale sembra esulare il caso in esame, in cui si ha realizzazione di un unico edificio che si va ad inserire nel contesto di un isolato già edificato;
   b) la dizione contenuta nel citato ultimo comma dell’art. 9 d.m. 1444/1968 implica che alla deroga ivi menzionata possa accedersi soltanto laddove ricorra la compresenza di tutte e tre le condizioni contenute nel detto comma (e non può invece affermarsi che le stesse integrino prescrizioni alternative) ed esse non ricorrevano, a tacere d’altro perché non ci si trova al cospetto di un gruppo di edifici, e perché non si rinviene alcuna tavola plano-volumetrica relativa ad un gruppo di edifici tra i quali sarebbe ricompreso quello erigendo;
   c) la giurisprudenza già in passato ha costantemente interpretato in senso rigido detta disposizione affermando che (ex aliis Consiglio di Stato, sez. IV, 12.03.2007 n. 1206 “l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, purché siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio. Tali principi si ricavano dall'art. 873 c.c. e dall'ultimo comma dell'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 emesso ai sensi dell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1941, avente efficacia precettiva ed inderogabile, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale -cfr. Corte cost., 16.06.2005, n. 232; Cass., sez. un., 22.11.1994, n. 9871; Tar Bari, sez. III, 22/06/2012, n. 1235 “la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante con il muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c.. Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 mt. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.”).
...
   e) invero, in disparte tutti gli altri profili (riproposti dalla parte originaria ricorrente con il proprio appello incidentale) asseritamente ostativi alla realizzazione della contestata ristrutturazione, deve osservarsi che:
      I) la disposizione “fondante” l’avversato atto abilitativo (art. 4 della Legge regionale della Campania 28.12.2009, n. 19, così statuisce: “1. In deroga agli strumenti urbanistici vigenti è consentito, per uso abitativo, l’ampliamento fino al venti per cento della volumetria esistente per i seguenti edifici:
   a) edifici residenziali uni-bifamiliari;
   b) edifici di volumetria non superiore ai millecinquecento metri cubi;
   c) edifici residenziali composti da non più di tre piani fuori terra, oltre all’eventuale piano sottotetto.
2. L’ampliamento di cui al comma 1 è consentito:
   a) su edifici residenziali come definiti all’articolo 2, comma 1, la cui restante parte abbia utilizzo compatibile con quello abitativo;
   b) per interventi che non modificano la destinazione d’uso degli edifici interessati, fatta eccezione per quelli di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b) di cui al decreto ministeriale n. 1444/1968;
   c) su edifici residenziali ubicati in aree urbanizzate, nel rispetto delle distanze minime e delle altezze massime dei fabbricati;
   d) su edifici residenziali ubicati in aree esterne agli ambiti dichiarati in atti formali a pericolosità idraulica e da frana elevata o molto elevata;
   e) su edifici ubicati in aree esterne a quelle definite ad alto rischio vulcanico;
   f) su edifici esistenti ubicati nelle aree sottoposte alla disposizioni di cui all’ articolo 338, comma 7, del Regio Decreto 27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) e successive modifiche, nei limiti di tale disciplina;
   g) su edifici regolarmente autorizzati ma non ancora ultimati alla data di entrata in vigore della [presente] legge regionale 18.01.2016, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione finanziario per il triennio 2016-2018 della Regione Campania – Legge di stabilità regionale 2016).
3. Per gli edifici a prevalente destinazione residenziale, nel rispetto delle prescrizioni obbligatorie di cui al comma 4, è consentita, in alternativa all’ampliamento della volumetria esistente, la modifica di destinazione d’uso da volumetria esistente non residenziale a volumetria residenziale per una quantità massima del venti per cento.
4. Per la realizzazione dell’ampliamento sono obbligatori:
   a) l’utilizzo di tecniche costruttive, con criteri di sostenibilità e utilizzo di materiale eco-compatibile, che garantiscano prestazioni energetico-ambientali nel rispetto dei parametri stabiliti dagli atti di indirizzo regionali e dalla vigente normativa. L’utilizzo delle tecniche costruttive ed il rispetto degli indici di prestazione energetica fissati dalla Giunta regionale sono certificati dal direttore dei lavori con la comunicazione di ultimazione dei lavori. Gli interventi devono essere realizzati da una ditta con iscrizione anche alla Cassa edile comprovata da un regolare Documento unico di regolarità contributiva (DURC). In mancanza di detti requisiti non è certificata l’agibilità, ai sensi dell’articolo 25(R) del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia - Testo A), dell’intervento realizzato;
   b) la conformità alle norme sulle costruzioni in zona sismica;
   [c) il rispetto delle prescrizioni tecniche di cui agli articoli 8 e 9 del decreto ministeriale 14.06.1989, n. 236 (Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche), al fine del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche.]
5. Per gli edifici [residenziali] e loro frazionamento, sui quali sia stato realizzato l’ampliamento ai sensi della presente legge, non può essere modificata la destinazione d’uso se non siano decorsi almeno cinque anni dalla comunicazione di ultimazione dei lavori.
6. L’ampliamento non può essere realizzato su edifici residenziali privi del relativo accatastamento ovvero per i quali al momento della richiesta dell’ampliamento non sia in corso la procedura di accatastamento. L’ampliamento non può essere realizzato, altresì, in aree individuate, dai comuni provvisti di strumenti urbanistici generali vigenti, con provvedimento di consiglio comunale motivato da esigenze di carattere urbanistico ed edilizio, nel termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore della presente legge.
7. E’ consentito su edifici non residenziali regolarmente assentiti, destinati ad attività produttive, commerciali, turistico-ricettive e di servizi, fermi restando i casi di esclusione dell’articolo 3 della presente legge, la realizzazione di opere interne finalizzate all’utilizzo di volumi esistenti nell’ambito dell’attività autorizzata, per la riqualificazione e l’adeguamento delle strutture esistenti, anche attraverso il cambio di destinazione d’uso, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti.
I medesimi interventi possono attuarsi all’interno di unità immobiliari aventi una superficie non superiore a millecinquecento metri quadrati, non devono in alcun modo incidere sulla sagoma e sui prospetti dell’edificio, né costituire unità immobiliari successivamente frazionabili.
”;
      II) è agevole riscontrare che la disposizione in parola, non soltanto non deroga al regime dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, ma, anzi, ne presuppone il rispetto;
      III) nel caso di specie, è fondamentale rammentare che l’intervento prevede anche la trasformazione e ricostruzione in cemento armato di un volume pari a circa 35 mq, e quindi superiore al 10% della volumetria complessiva (come peraltro ammesso dalla parte appellante alla pag. 11 del proprio atto di appello, pur svalutandosene la portata) destinato ad essere unito al preesistente fabbricato: trattasi di modifica sostanziale, tale da indurre a ritenere che non ci si trovi al cospetto di una ristrutturazione (l’immobile diviene oggettivamente diverso dal preesistente) e si sia trasmodando in una nuova costruzione, che come tale prevede in ogni caso il rispetto dei cogenti limiti di cui al d.m. citato;
      IV) il Collegio, sul punto, non ritiene di dovere decampare dai principi a più riprese espressi dalla Sezione (tra le tante, si veda la sentenza n. 5552 del 30.12.2016 resa proprio con riferimento al c.d. “piano casa” della regione Campania) che hanno puntualizzato la necessità di una rigida interpretazione della prescrizione secondo la quale il citato art. 9 del d.m. nr. 1444/1968 non potrebbe trovare applicazione nelle ipotesi di intervento di demolizione e ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova edificazione: ciò in quanto opera in materia l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9 secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un immobile già esistente può essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, nr. 3929);
   - in particolare, a parere della giurisprudenza civile ed amministrativa, proprio in ragione della sensibilità dei valori tutelati dalla disposizione, la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere comunque rispettata, e ciò anche in caso di interventi riconducibili alla categoria della ristrutturazione edilizia (cfr. Cassazione civile, sez. II, 03.03.2008, n. 5741; Consiglio di Stato, sez. IV, 12.06.2014, n. 2995; TAR Sardegna, sez. II, 05.07.2016, n. 566); ciò, salve ovviamente le ipotesi in cui tali interventi si sostanzino in un mero recupero di beni -realizzati prima dell’entrata in vigore della norma- che già non rispettavano tale prescrizione, non essendo possibile dare alla norma stessa applicazione retroattiva (ma tale circostanza non è stata dedotta);
   - la richiamata sentenza della Cassazione civile, sez. II, 03.03.2008, n. 5741 è perentoria nello stabilire che “rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies l. 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini dell'applicabilità dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente”.
Il Collegio condivide e fa proprio tale orientamento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.10.2017 n. 4992 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl computo delle distanze tra pareti finestrate di edifici antistanti.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall’art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 06.10.2017 n. 4690 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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Con censura di carattere assorbente il sig. Ma. si duole che sia stato rilasciato provvedimento di condono nonostante che il manufatto in oggetto sia stato costruito in violazione delle norme sulle distanze legali.
Il motivo è fondato.
Le opere realizzate e condonate con le concessioni n. 6/c e 7/c, in epigrafe indicate, consistono in ampliamenti della sagoma dell’edificio (chiusura di una scala, trasformazione di una tettoia aperta) che hanno alterato le preesistenti distanze dal confine e dal fabbricato del ricorrente.
In particolare da quanto risulta dagli atti causa e dalla relazione del verificatore -redatta a seguito di sopralluogo e sulla base della documentazione di causa- l’ampliamento del nucleo originario dell’immobile della sig.ra Am., tramite estensione fino al muro di confine con la proprietà Ma., ha annullato la distanza dell’edificio dal predetto confine;
Come emerge quindi dalle risultanze del sopralluogo (e dalla perizia di parte ricorrente in quanto il verificatore conferma la correttezza dei grafici depositati dalla stessa parte) l’edificio dell’Am., come trasformato dalle opere oggetto dei provvedimenti di condono, non rispetta la distanza di 10 metri dal nucleo originario del fabbricato della ricorrente (ex art. 9 DM 1444/1968 che per i nuovi edifici prescrive “la distanza minima assoluta di m 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”).
La violazione della norma sulle distanze rende dunque illegittima la sanatoria comunale.
Non ha pregio l’assunto della controinteressata secondo cui le distanze legali non sarebbero direttamente vincolanti ai fini del rilascio del provvedimento di condono, trattandosi di disposizioni non direttamente cogenti e opponibili solo dopo l’approvazione del piano regolatore comunale (avvenuta per il Comune di Massa Lubrense nel 2002).
Al riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica giurisprudenza che dichiara direttamente precettive le norme in materia di distanze contenute nel d.m. n. 1444/1968 sia nei rapporti fra privati che ai fini della regolarità degli atti di assenso edilizio non potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore (cfr. Cons. Stato 3522/2016, n. 1951/2015; n. 844/2013 e da ultimo Tar Napoli n. 3036/2017 dove si evidenzia che tale precetto costituisce, sia in ragione della relativa fonte di legittimazione -art. 41-quinquies della L. n. 1150/1942- sia per la funzione igienico-sanitaria assolta tesa ad evitare la formazione di intercapedini malsane, un principio inderogabile della materia).
La condonabilità delle opere lesive delle distanze dai confini e dagli edifici limitrofi, va, dunque esclusa, anche, e soprattutto, perché la disciplina urbanistica in materia di distanze non è derogabile, essendo diretta non già alla sola tutela di interessi privati, bensì alla tutela di interessi generali e pubblici in materia urbanistica.
Non ha poi pregio il rilievo difensivo della controinteressata in base al quale la violazione delle distanze sarebbe imputabile in prima battuta a lavori di ampliamento eseguiti dal sig. Ma. e relativi all’edificazione di un porticato.
I lavori eseguiti dal ricorrente -che peraltro a quanto consta dagli atti risultano assistiti da permesso di costruire (n. 11/2013)- come chiarito dal verificatore non hanno comportato variazioni della sagoma originaria dell’immobile stesso e comunque non risultano, dall’esame degli atti di causa e delle planimetrie depositate, influenti al fine del mancato rispetto della distanza legale dall’immobile confinante del sig. Ma. come identificato nella sua configurazione risalente.
Non ha neanche pregio l’assunto secondo cui (in relazione alla concessione n. 7c/2016) le pareti del fabbricato della controinteressata non abbiano pareti fronteggianti in via lineare.
Il Collegio ritiene infatti, in linea con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa d’appello che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, d.m. 02.04.1968, n. 1444, debba computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (cfr. in termini, di recente Cons. Stato n. 2861/2015).
Per le stesse ragioni, per la parte in cui legittima le irregolarità riscontrate, risulta viziata l’autorizzazione in sanatoria n. 68 del 17.06.1998, concernente “la sanatoria e il completamento delle opere relative al fabbricato” della controinteressata.
4. In conclusione, per le ragioni esposte il ricorso viene accolto e per l’effetto sono annullati gli atti impugnati. Assorbite le ulteriori censure.

settembre 2017

EDILIZIA PRIVATA: La previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopraelevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.
Come è noto, l’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 prevede, tra l’altro che tra “nuovi edifici ricadenti in altre zone” (diverse dalla zona A), “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” (co. 1, n. 2). Inoltre, l’ultimo comma, secondo periodo, di detto articolo prevede che: “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire i principi generali espressi dalla giurisprudenza amministrativa, in tema di inderogabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444 cit.
E’ stato, infatti, affermato dalla costante giurisprudenza che la disposizione contenuta nell’ art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tanto riaffermato nella presente sede, occorre osservare che la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi:) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, “i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” (quelli di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti “ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti”.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimen in tema di distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10 m.), nella ratio dell’art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe che da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio plano volumetrico.
Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull’esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non coerente applicazione dell’art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
Appare, dunque, evidente come la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopraelevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.
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Alla luce delle considerazioni esposte, occorre osservare che l’art. 32-bis delle NTA del Comune, laddove consente la realizzazione di nuovi edifici a filo strada nel caso di prevalente allineamento, appare legittimo, poiché la norma –nel tenere ferma la disposizione sul distacco tra fabbricati di cui al DM n. 1444/1968– rende possibile il mantenimento di preesistenti distanze inferiori solo per immobili preesistenti e sempre che, nella specifica zona considerata, l’allineamento sia “prevalente”.
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Il concetto di “nuova costruzione”, utilizzato ai sensi del DPR n. 380/2001 per verificare la compatibilità dell’intervento con le disposizioni urbanistiche sopravvenute (e che non sarebbero invece applicabili in caso di edifici preesistenti oggetto di interventi diversamente qualificabili), ovvero per renderlo assoggettabile a permesso di costruire, non esplica effetti ai fini dell’applicabilità dell’art. 9 DM n. 1444/1968.
E ciò in quanto per l’applicazione del limite inderogabile della distanza ivi previsto ciò che rileva, come si è detto, non è la formale definizione dell’intervento, ma il dato concreto della preesistenza di un immobile a distanza inferiore da quella prevista da detta norma.
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2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, per le ragioni di seguito esposte, con conseguente riforma della sentenza impugnata.
Ciò esime il Collegio dal doversi pronunciare in ordine alla inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado e, in correlazione, in ordine alla tempestività del motivo di impugnazione con il quale l’appellante ha prospettato la predetta inammissibilità, il quale risulta presente solo nelle memorie del 14.05.2013 e del 27.03.2017.
2.1. Come si è già avuto modo di esporre, la sentenza impugnata ha proceduto all’annullamento del permesso di costruire rilasciato all’attuale appellante, previa disapplicazione dell’art. 32-bis delle NTA del Comune di Sannicandro, in quanto la possibilità da tale norma prevista di realizzare nuovi edifici a filo strada, ove esista un prevalente allineamento in tal senso, costituisce una violazione dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968 (norma inderogabile) e delle distanze tra fabbricati ivi prescritte.
Giova ricordare, in punto di fatto ed al fine di meglio definire il thema decidendum, che dagli atti di causa risulta:
   - la preesistenza di un fabbricato;
   - che la distanza tra il fabbricato oggetto del permesso di costruire (situato in zona B) e quello di proprietà dei ricorrenti in I grado e di m. 3;
   - che tale spazio è costituito da una strada adibita a viabilità pubblica, seppure pedonale e non veicolare.
Occorre, inoltre, precisare che, ai fini del presente giudizio di appello, non assumono rilievo –per le ragioni di seguito esposte- le argomentazioni relative alle cd. “schede della zona B”, di cui alla memoria del 14.05.2013, e/o quelle relative all’esistenza del Piano attuativo delle zone B (di cui alla memoria di replica depositata il 06.04.2017); il che esime il Collegio dal dover verificare la ricorrenza del divieto dei “nova” in appello (Cons. Stato, sez. IV, 03.08.2016 n. 3509).
3.1. Come è noto, l’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 prevede, tra l’altro che tra “nuovi edifici ricadenti in altre zone” (diverse dalla zona A), “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” (co. 1, n. 2). Inoltre, l’ultimo comma, secondo periodo, di detto articolo prevede che: “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire i principi generali espressi dalla giurisprudenza amministrativa, in tema di inderogabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444 cit.
E’ stato, infatti, affermato dalla costante giurisprudenza (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3093 e 08.05.2017 n. 2086; 29.02.2016 n. 856; Cass. civ., sez. II, 14.11.2016 n. 23136) che la disposizione contenuta nell’ art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tanto riaffermato nella presente sede, occorre osservare che la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi: Cons. Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, “i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” (quelli di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti “ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti”.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimen in tema di distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10 m.), nella ratio dell’art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe che da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio plano volumetrico.
Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull’esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non coerente applicazione dell’art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi –così come condivisibilmente sostenuto dall’appellante- per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
Appare, dunque, evidente come la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopra elevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione (in tal senso, Cons. giust. amm. Sicilia, 03.03.2017 n. 74).
3.2.. Alla luce delle considerazioni esposte, occorre osservare che l’art. 32-bis delle NTA del Comune di Sannicandro di Bari, laddove consente la realizzazione di nuovi edifici a filo strada nel caso di prevalente allineamento, appare legittimo, poiché la norma –nel tenere ferma la disposizione sul distacco tra fabbricati di cui al DM n. 1444/1968– rende possibile il mantenimento di preesistenti distanze inferiori solo per immobili preesistenti e sempre che, nella specifica zona considerata, l’allineamento sia “prevalente”.
4. Le precisazioni in tema di interpretazione dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968 innanzi riportate non risultano contraddette dal fatto che la sentenza impugnata ha definito “nuova costruzione”, l’immobile oggetto del permesso di costruire impugnato.
In disparte ogni considerazione in ordine alla migliore riconducibilità dell’intervento alla ristrutturazione edilizia (secondo le norme per la stessa ratione temporis vigenti: v. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2017 n. 443), tenuto conto che nel ricorso in appello non vi sono doglianze sul punto, appare evidente come il concetto di “nuova costruzione” utilizzato dalla sentenza impugnata non esplica effetti ai fini dell’applicabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968.
Ed infatti, la sentenza ricava la definizione di “nuova costruzione”, pur affermando espressamente la preesistenza di un immobile completamente demolito, dal fatto che si tratta di una costruzione “completamente diversa per tipologia e destinazione d’uso”.
Tuttavia, il concetto di “nuova costruzione”, utilizzato ai sensi del DPR n. 380/2001 per verificare la compatibilità dell’intervento con le disposizioni urbanistiche sopravvenute (e che non sarebbero invece applicabili in caso di edifici preesistenti oggetto di interventi diversamente qualificabili), ovvero per renderlo assoggettabile a permesso di costruire, non esplica effetti ai fini dell’applicabilità dell’art. 9 DM n. 1444/1968.
E ciò in quanto per l’applicazione del limite inderogabile della distanza ivi previsto ciò che rileva, come si è detto, non è la formale definizione dell’intervento, ma il dato concreto della preesistenza di un immobile a distanza inferiore da quella prevista da detta norma.
4.1. Fermo quanto innanzi già esposto, il caso di specie appare coerente anche con gli articoli 873 ed 879 cod. civ. Ed infatti:
   - quanto alla distanza tra fabbricati, l’art. 873 dispone che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri”, salvo diverse disposizioni dei regolamenti locali (e, nel caso di specie, la distanza è appunto di m. 3);
   - inoltre, la accertata utilizzazione pubblica della strada rende applicabile quanto previsto dall’art. 879, comma secondo, cod. civ., in base al quale “alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano” e, dunque, quanto previsto dal più volte menzionato art. 32-bis (Cass. civ., sez. II, 27.12.2011 n. 28938; Id, 24.06.2009 n. 14784, che estende l’applicazione del principio innanzi esposto alla distanza prescritta per le vedute dall’art. 907 c.c.; Id, 05.03.2008 n. 6006; secondo la quale, ai fini dell’applicazione della deroga occorre tener conto più che della proprietà pubblica del bene, dell’uso concreto di esso da parte della collettività); Id, 16.04.2007 n. 9077).
5. Le ragioni che sorreggono l’accoglimento dell’appello fondano anche il rigetto dei motivi non esaminati dalla sentenza impugnata e riproposti con memoria di costituzione, rendendo in tal modo superfluo esaminare l’ammissibilità dei medesimi, sia in relazione al rispetto del termine per la loro riproposizione, sia in quanto riproposti mediante mero rinvio al ricorso di I grado.
Ed infatti:
   - quanto al primo motivo, con il quale si lamenta la violazione dell’art. 79 del Regolamento edilizio di Sannicandro di Bari, occorre osservare che lo stesso si fonda sulla definizione dello spazio che separa i due fabbricati come “spazio interno”, laddove la verificazione disposta ha accertato, in modo convincente e non ulteriormente contestato, l’esistenza di una strada adibita a viabilità pubblica, seppure pedonale e non veicolare;
   - quanto al secondo motivo, con il quale si argomenta in ordine alla illegittimità dell’art. 32-bis delle NTA, in particolare rilevando che la norma, se pur applicabile, prevederebbe la costruzione a distanza di m. 5, occorre osservare che la norma dell’art. 32-bis rilevante per il caso di specie è quella che disciplina la costruzione in allineamento a filo di strada, in disparte gli effetti anche su questa norma invocata della diversa ipotesi di ricostruzione e non di prima costruzione;
   - quanto al terzo motivo, con il quale si assume la sussistenza del vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, è sufficiente riportarsi, onde rilevarne l’infondatezza, a quanto in precedenza affermato ai fini dell’accoglimento dell’appello.
6. Per tutte le ragioni innanzi esposte, l’appello deve essere accolto, mentre devono essere rigettati i motivi del ricorso instaurativo di I grado non esaminati dalla sentenza impugnata e riproposti nella presente sede.
Di conseguenza, in riforma della sentenza impugnata, deve essere rigettato il ricorso instaurativo del giudizio di I grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.09.2017 n. 4337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2017

EDILIZIA PRIVATA: Anche gli interventi di ristrutturazione costituiscono “nuova costruzione”.
Rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies della legge 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini dell'applicabilità dell'articolo 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente.
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2. - Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 112 e segg. c.p.c.. in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 4 e 5.
Secondo parte ricorrente, la Corte d'appello ha erroneamente indicato che le parti, in primo grado, non avrebbero allegato che l'opera dei convenuti integrasse gli estremi di una "nuova costruzione" ma si sarebbero limitate a qualificare il fatto di causa come "ampliamento e ristrutturazione", allegando la circostanza della nuova costruzione per la prima volta soltanto nel giudizio d'appello, risultando così preclusa in quanto elemento nuovo.
Al contrario, si deduce che la fattispecie della radicale trasformazione era stata già indicata nell'atto di citazione, avendo il fabbricato della controparte subito una modificazione nella volumetria, con l'aumento della sagoma di ingombro, in modo da incidere sulle distanze tra gli edifici esistenti.
3. - Con il terzo motivo di ricorso si prospetta la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 873 c.c., dell'art. 9 D.M. n. 1444/1968 e dell'art. 22 delle N.T.A. del Piano Regolatore del Comune di Ghedi, in materia di distanze tra edifici e tra pareti finestrate (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.).
In particolare, si deduce che le lamentate modificazioni strutturali non potevano in alcun modo essere considerate come una semplice ristrutturazione, bensì avrebbero dovuto essere ritenute come nuova costruzione, con il conseguente dovere di rispettare le distanze previste dal D.M. n. 1444/1968 per l'apertura delle vedute.
4. - Il secondo ed il terzo motivo, da esaminare insieme e con priorità, sono fondati.
Infatti,
rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies della legge 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini dell'applicabilità dell'articolo 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente (così, Cass. n. 5741/2008, che nella fattispecie al suo esame ha ritenuto legittima l'applicazione delle distanze dettata dalla suddetta disposizione ministeriale per i nuovi edifici, perché il confinante fabbricato era stato oggetto oltre che di concessione di ristrutturazione, anche di ampliamento, e ricostruito in posizione diversa da quella preesistente; in senso conforme v. Cass. nn. 9637/2006 e 14128/2000).
La Corte distrettuale non si è attenuta né a tale principio di diritto, né alla corretta interpretazione del divieto del novum in appello, lì dove non ha considerato che rispetto alla radicale ristrutturazione dell'immobile di proprietà Ar.-Pe., sin dall'inizio lamentata dall'attore (v. pag. 3 della sentenza d'appello), l'affermazione che il relativo manufatto edilizio costituisse una nuova costruzione non introduce in causa un fatto storico nuovo e diverso, ma qualifica giuridicamente quello originario ed immutato ai tini dell'applicazione ad esso della disciplina in materia di distanze.
E poiché la qualificazione giuridica dei fatti tempestivamente allegati non soggiace a preclusioni di sorta, perché esprime una difesa tecnica e non una deduzione assertiva, la ritenuta tardività di tale difesa costituisce falsa applicazione del divieto dei uova in appello.
5. - L'accoglimento del secondo e del terzo motivo assorbe l'esame del primo motivo, inerente al regolamento delle spese (Corte di
 Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.06.2017 n. 16268).

EDILIZIA PRIVATALa disposizione di cui all'art. 9, secondo comma, del DM del 02.04.1968, n. 1444 (nella parte in cui prevede che gli edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad una distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci metri dalle pareti finestrate) deve applicarsi anche nell’ipotesi in cui si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò, considerando sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso contenute nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in considerazione del fatto che anche detto manufatto è suscettibile di integrare la nozione di “fabbricato” e “costruzione” di cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del codice civile.
Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del computo della distanza di dieci metri “non sono computabili ai fini delle distanze tra edifici solamente:
   - gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare);
   - le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali);
   - le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni;
   - gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità. Non possono invece essere esclusi dal computo delle distanze le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze (anche dei generi ora indicati), che le particolari dimensioni sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio”.
E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed altro.
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Deve ritenersi non condivisibile la tesi dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice civile.
Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM 1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.
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1. Il ricorso va accolto, risultando fondati sia il primo che il secondo motivo.
1.1 In primo luogo è necessario premettere che costituisce circostanza incontestata che il manufatto è posizionato ad una distanza inferiore ai tre metri rispetto al muro perimetrale della villetta, così come risulta ad una distanza inferiore ai dieci metri rispetto alla parete finestrata del fabbricato sul fondo confinante di proprietà del Sig. Lo.Ju..
1.2 Ciò premesso è evidente che l’autorizzazione edilizia diretta a permettere la realizzazione del ripostiglio è stata adottata in violazione dell’art. 9, secondo comma, del DM del 02.04.1968, n. 1444, nella parte in cui prevede che gli edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad una distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci metri dalle pareti finestrate.
1.3 Detta distanza deve applicarsi anche nell’ipotesi in cui si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò, considerando sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso contenute nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in considerazione del fatto che anche detto manufatto è suscettibile di integrare la nozione di “fabbricato” e “costruzione” di cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del codice civile.
1.4 Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del computo della distanza di dieci metri “non sono computabili ai fini delle distanze tra edifici solamente: - gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare); - le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali); - le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni; - gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità. Non possono invece essere esclusi dal computo delle distanze le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze (anche dei generi ora indicati), che le particolari dimensioni sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio (Cons. Stato Sez. IV, 21.10.2013, n. 5108, Cons. Stato Sez. V, 13.03.2014, n. 1272 Cass. civ. Sez. II, 24.11.1995, n. 12163)”.
1.5 E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed altro.
1.6 Deve ritenersi non condivisibile la tesi dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice civile.
1.7 Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM 1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (per tutti si veda TAR Emilia Romagna-Bologna Sez. I, 08.07.2016, n. 693, Cons. Stato Sez. IV, 29.02.2016, n. 856 Cons. Stato Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731 e Cass. civ. Sez. Unite, 07.07.2011, n. 14953).
1.8 L’autorizzazione di cui si tratta è stata adottata anche in violazione dell’art. 873 del codice civile nella parte in cui prevede che le costruzioni tra fondi finitimi devono essere tenute ad una distanza non inferiore a tre metri, disposizione quest’ultima suscettibile di essere derogata solo prevedendo una distanza superiore.
2. In conclusione il ricorso è fondato e va accolto, con conseguente annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 98 del 04.04.2002 (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.06.2017 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi per gruppi di edifici che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di “previsioni planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel disciplinare la realizzazione ex novo o la sistemazione integrale di un insieme di edifici un piano di natura esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10 metri.
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale “da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario”.
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche la lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella parte in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza possa derivare solo da uno strumenti pianificatorio che contenga “previsioni planovolumetriche”, ossia previsioni progettuali che evidenzino congiuntamente la planimetria ed il volume dei fabbricati presi in considerazione attraverso la proiezione in mappa delle relative ombre; posto che solo in tal modo risulta possibile operare una verifica concreta sul fatto se un distacco inferiore a quello standard di 10 m. possa nuocere alle esigenze di salubrità ed areazione degli edifici frontistanti.
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E’ fondata la prospettazione difensiva delle parti intimate che fa leva sulla non applicabilità degli obblighi di distanza prevista dall’art. 879 c.c. per le costruzioni al confine con vie e con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la stessa non trova applicazione all’obbligo di distanza fra pareti finestrate previsto dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 in quanto tale obbligo non attiene solo ad una dimensione intersoggettiva di regolamentazione dei rapporti fra proprietà finitime ma è posto a presidio del preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi fra cui il citato D.M..

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Nel merito sia il comune di Grosseto che la controinteressata osservano:
   1) che l’impugnata variante avrebbe la consistenza di piano particolareggiato dotato di previsioni planivolumetriche per ciascun isolato e, come tale, ben avrebbe potuto contenere previsioni derogatorie rispetto all’obbligo di distanza di 10 metri fra pareti finestrate in forza della previsione di cui alla seconda parte del comma 1 dell’art. 9 del D.M. 1444 del 1968.
   2) che essendo l’edificio oggetto dell’impugnato permesso confinante con un passaggio pubblico previsto dalla variante esso non era tenuto al rispetto delle distanze legali in forza della previsione di cui all’art. 879 c.c.
Entrambe le deduzioni difensive sono prive di fondamento.
Il comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi per gruppi di edifici che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di “previsioni planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel disciplinare la realizzazione ex novo o la sistemazione integrale di un insieme di edifici un piano di natura esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10 metri (TAR Brescia 730/2011).
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale “da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario” (Corte Cost. 24/02/2017 n. 41).
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche la lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella parte in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza possa derivare solo da uno strumenti pianificatorio che contenga “previsioni planovolumetriche”, ossia previsioni progettuali che evidenzino congiuntamente la planimetria ed il volume dei fabbricati presi in considerazione attraverso la proiezione in mappa delle relative ombre; posto che solo in tal modo risulta possibile operare una verifica concreta sul fatto se un distacco inferiore a quello standard di 10 m. possa nuocere alle esigenze di salubrità ed areazione degli edifici frontistanti.
Nel caso di specie la tavole della variante riferite alla zona omogenea B2 (isolato 29, lotto 3 nel quale sono compresi gli edifici di cui al ricorso – doc. 6 del fascicolo dell’amministrazione) contengono una rappresentazione “solo in pianta” dei fabbricati esistenti al momento della loro redazione e l’indicazione astratta dei volumi realizzabili in ampliamento, la cui collocazione, tuttavia, non è graficamente sviluppata attraverso una rappresentazione planovolumetrica.
Non risulta, quindi, raggiunto il livello di dettaglio progettuale previsto dal comma 2 dell’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 ai fini della derogabilità degli obblighi di distanza previsti dai commi precedenti.
E’ altresì fondata la prospettazione difensiva delle parti intimate che fa leva sulla non applicabilità degli obblighi di distanza prevista dall’art. 879 c.c. per le costruzioni al confine con vie e con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la stessa, secondo un costante orientamenti giurisprudenziale che il Collegio condivide, non trova applicazione all’obbligo di distanza fra pareti finestrate previsto dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 in quanto tale obbligo non attiene solo ad una dimensione intersoggettiva di regolamentazione dei rapporti fra proprietà finitime ma è posto a presidio del preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi fra cui il citato D.M. (TAR Palermo, sez. III, 17/10/2012, n. 2049; TAR Genova (Liguria) sez. I 20.07.2011 n. 1148; TAR Brescia, sez. I 03.07.2008 n. 788).
Alla luce di quanto sopra specificato occorre quindi concludere nel senso che la impugnata variante del comparto C.1 di Marina di Grosseto è illegittima in parte qua (con specifico riferimento ai lotti in cui insistono le proprietà dei ricorrenti e della controinteressata) nel punto in cui consente la realizzazione di interventi di ricostruzione con maggiore volumetria ad una distanza inferiore a quella prevista dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968, posto che tale tipologia di interventi, essendo inquadrabile nella categoria della nuova costruzione, deve rispettare gli obblighi di distanza legale (Cass. 20/08/2015 n. 17043).
Parimenti illegittimo (per derivazione) deve ritenersi l’impugnato permesso di costruire rilasciato in sua attuazione.
Il ricorso deve, quindi, essere accolto in relazione alla domanda di annullamento dei predetti atti, mentre è inammissibile con riferimento alla domanda di condanna della controinteressata alla demolizione del manufatti illegittimamente autorizzato posto che la stessa esula dalla giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di atti e comportamenti della p.a. afferenti il governo del territorio (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.06.2017 n. 776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2017

EDILIZIA PRIVATA: Le distanze tra edifici e le superfici coperte.
DOMANDA:
Definizione di superficie coperta, definizione di distanze, definizione di bow window. Le NTA del PRG vigente di questo comune definiscono la superficie coperta quale la massima sezione orizzontale del fabbricato con esclusione di scale a giorno, di aggetti a giorno, di bow window e di porticati purché in tutti i casi menzionati ci si trovi senza sovrastante costruzione e interessanti non più di ml. 1,50.
Inoltre, sempre le NTA, stabiliscono che le distanze dalle strade e dai confini devono essere misurate dall'ingombro della superficie coperta, così come sopra definita, quindi ad esclusione delle scale a giorno, di aggetti a giorno, di bow window, ecc. …..
Si chiede se possa essere positivamente valutata una istanza nella quale viene proposto un “bow window”, ovvero un allargamento aggettante verso l’esterno di un solo piano del fabbricato rispetto la muratura perimetrale portante per 1,50 mt., lasciando libera tale sporgenza da sovrastanti e sottostanti costruzioni in rispetto delle NTA sopra riportate.
Tale allargamento aggettante sarebbe comunque parte integrante degli ambienti interni dell’edificio, senza distinzione o separazione tra la parte “aggettante – bow window” e la rimanente parte interna delle stanze.
In conseguenza di ciò il fabbricato proposto avrebbe una parte, ovvero quella definita “bow window”, che oltre a non essere calcolata ai fini della superficie coperta, sarebbe anche posta ad una distanza dai confini e dalle strade inferiore ai 5 metri.
RISPOSTA:
Si ritiene opportuno premettere che per “bow window” si intende quel tipo di balcone chiuso sporgente per uno o più piani dalla facciata di un edificio, e interamente unito, mediante una grande apertura, all’ambiente interno corrispondente, del quale costituisce parte integrante.
Ciò premesso si rileva che le distanze previste dall’art. 9 del DM n. 1444 sono in genere ritenute inderogabili trattandosi di norme di interesse pubblico sotto il profilo igienico-sanitario e tali sono state considerate anche in giurisprudenza per quanto riguarda in particolare i bow windows (v. TAR Lombardia, Milano, n. 2187/2011).
E’ stato inoltre affermato che per il calcolo della distanza legale tra gli edifici è necessario valutare la tipologia dei manufatti: al riguardo con l’ordinanza del n. 424 del 27.01.2010, il Consiglio di Stato ha stabilito, in sostanziale conferma di quella cit. del TAR, che ai fini del calcolo delle distanze legali dai confini: “devono computarsi le parti dell’edificio quali scale, terrazze e corpi avanzati che, seppur non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati ad estendere e ampliare la consistenza del fabbricato; mentre non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità, come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili”.
Il Consiglio di Stato ha anche ribadito, richiamandosi alla sentenza della Cassazione Civile n. 19544/2009, che il limite di tre metri previsto dall’art. 873 c.c. come distanza minima dalle costruzioni, non può essere derogato da fonti normative secondarie quali i regolamenti comunali. Resta invece ammissibile per queste fonti secondarie “stabilire distanze maggiori” ai sensi del comma 7 e 9 dell’art. 873 c.c. seconda parte e/o anche determinare “punti di riferimento, per la misurazione delle distanze, diversi da quelli indicati dal codice civile, escludendo taluni elementi della costruzione dal calcolo delle più ampie distanze previste in sede regolamentare”.
Viene infatti precisato che gli oggetti presenti sull'edificio non possono considerarsi meri elementi decorativi, al contrario, estendendo il volume edificatorio, e che quindi costituiscono corpo di fabbrica e, come tali, da dover essere conteggiati nel calcolo della distanza (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

marzo 2017

EDILIZIA PRIVATALa pronuncia del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A., sicché non ha efficacia di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà determinata dalla violazione della normativa in tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi generali ma anche della posizione soggettiva del privato.
Invero,
trattasi di una piana applicazione del generale principio affermato da tempo per il quale le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. (nella specie, il Comune) per far valere l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo.
L'eventuale accertamento della legittimità del titolo abilitativo della costruzione da parte del giudice amministrativo non preclude una diversa valutazione dell'illegittimità della condotta del privato nella controversia intentata da altro privato a tutela del diritto di proprietà, sicché la decisione gravata, avendo fatto puntuale applicazione dei suesposti principi non appare meritevole di censura.
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Quanto invece alla dedotta erronea applicazione delle previsioni di legge e regolamentari in materia di distanza, il tenore delle norme di cui allo strumento urbanistico locale non consente sulla base della loro formulazione letterale di ritenere che il loro ambito applicativo sia limitato alle sole costruzioni aventi carattere principale.
Il richiamo alla nozione di edifici di nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici aventi carattere cd. accessorio, come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti, non consente di optare per un'interpretazione che ne limiti l'applicazione ai soli edifici aventi carattere principale, posto che anche i manufatti di più contenute dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di cui all'art. 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente infissi al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni, intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa Corte.
D'altronde,
proprio la carenza di una specifica disciplina impone di ritenere come già affermato in passato che
la nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una "distanza maggiore".
Ne discende che,
una volta ricondotti gli edifici accessori al novero delle costruzioni in senso civilistico e nell'accezione propria della disciplina in materia di distanze, le previsioni regolamentari che prevedono un distacco tra costruzioni risultano evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che, anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a quelle di legge.
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La previsione di un'area di distacco mira essenzialmente ad assicurare il rispetto delle distanze tra fabbricati edificati su fondi finitimi ed appartenenti a diversi proprietari, non potendosi ravvisare l'illegittimità dal punto di vista privatistico, per costruzioni realizzate eventualmente a distanza inferiore a quella legale o regolamentare sul fondo di un unico proprietario
(per un riferimento a tale regola si veda Cass. n. 1918/1973, a mente della quale il principio della prevenzione -in base al quale, fra due proprietari di fondi finitimi, colui che costruisce per primo può o edificare sul confine o a distanza dal confine non inferiore a quella legale oppure a distanza inferiore, costringendo il vicino, che costruisce per secondo, a ristabilire la distanza legale edificando dal confine a distanza maggiore della meta di quella prescritta, a meno che non voglia avanzare la propria fabbrica fino all'altrui costruzione, giovandosi dei rimedi offertigli dall'art. 875 cod. civ.- presuppone un rapporto intersoggettivo, opera tra proprietari di fondi finitimi e non è ipotizzabile come attributo della costruzione con caratteri di realità).
D'altronde essendo la proprietà di entrambi i fabbricati, principale ed accessorio, in capo all'attore, i ricorrenti non sono legittimati a dolersi della violazione delle distanze tra le due opere.
Quanto invece alla pretesa violazione della previsione regolamentare che nega la possibilità di costruire nelle zone di distacco, la stessa si riverbera nei soli rapporti con la PA, e determina quindi l'illegittimità dell'opus dal punto di vista amministrativo, ma non incide sulla diversa disciplina in tema di distanze, e sulla possibilità anche per il titolare della costruzione illegittima dal punto di vista amministrativo di pretendere il rispetto delle distanze legali, essendo tale conclusione una piana applicazione del su riferito principio dell'autonomia tra profili pubblicistici dell'attività edificatoria e rapporti interprivatistici.
Ne consegue che
anche laddove una parte del manufatto a carattere accessorio sia collocato nell'area di distacco prevista per il fabbricato principale, la violazione della norma regolamentare legittima se del caso la reazione della PA, ma non esclude che si tratti sempre di costruzione preveniente, rispetto alla quale l'edificio dei ricorrenti doveva porsi a distanza legale.
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2. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione di legge e precisamente la violazione e falsa applicazione degli artt. 15 e ss. delle NTA del PRG del Comune di Cassino, nonché la violazione e falsa applicazione della voce 17 dell'art. 23 del regolamento edilizio, e la violazione e falsa applicazione dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 e dell'art. 9 del DM n. 1444 del 1968 e dell'art. 873 c.c., nonché l'insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza.
Si dolgono i ricorrenti che la Corte territoriale abbia ritenuto sussistente la violazione delle distanze tra fabbricati anche in relazione al fabbricato cd. accessorio di parte attrice, sebbene gli artt. 15 e ss. citati stabiliscano il rispetto delle distanze solo per gli edifici a carattere principale.
In assenza di una specifica disciplina contenuta negli strumenti urbanistici locali avrebbe dovuto quindi trovare applicazione la previsione di cui all'art. 9 del menzionato DM che, prevedendo una distanza di metri 10 tra pareti finestrate, avrebbe comportato la legittimità della costruzione dei ricorrenti, in quanto posta a distanza maggiore.
Lo stesso Tar del Lazio nella sentenza pronunziata in merito all'impugnativa della concessione avanzata da parte del Co., aveva manifestato il convincimento circa l'inapplicabilità del regime delle distanze previste dallo strumento urbanistico locale in relazione all'edificio avente carattere accessorio, sicché la Corte d'Appello non avrebbe potuto decidere trascurando la rilevanza di giudicato esterno di tale provvedimento giurisdizionale.
Il motivo è infondato.
Ed, invero, partendo dall'ultima affermazione di parte ricorrente relativa all'efficacia vincolante della pronuncia del giudice amministrativo, e ricordato che si tratta di statuizione emessa in relazione all'impugnativa della concessione edilizia rilasciata in favore dei ricorrenti e concernente il fabbricato oggetto di causa, giova richiamare la giurisprudenza di questa Corte a mente della quale (cfr. Cass. n. 9869/2015)
la pronuncia del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A., sicché non ha efficacia di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà determinata dalla violazione della normativa in tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi generali ma anche della posizione soggettiva del privato.
Ed, invero,
trattasi di una piana applicazione del generale principio affermato da tempo per il quale (cfr. Cass. S.U. n. 13673/2014) le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. (nella specie, il Comune) per far valere l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo (in termini ex multis Cass. n. 13170/2001; Cass. S.U. n. 333/1999).
L'eventuale accertamento della legittimità del titolo abilitativo della costruzione da parte del giudice amministrativo non preclude una diversa valutazione dell'illegittimità della condotta del privato nella controversia intentata da altro privato a tutela del diritto di proprietà, sicché la decisione gravata, avendo fatto puntuale applicazione dei suesposti principi non appare meritevole di censura.
Quanto invece alla dedotta erronea applicazione delle previsioni di legge e regolamentari in materia di distanza, il tenore delle norme di cui allo strumento urbanistico locale non consente sulla base della loro formulazione letterale di ritenere che il loro ambito applicativo sia limitato alle sole costruzioni aventi carattere principale.
Il richiamo alla nozione di edifici di nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici aventi carattere cd. accessorio, come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti, non consente di optare per un'interpretazione che ne limiti l'applicazione ai soli edifici aventi carattere principale, posto che anche i manufatti di più contenute dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di cui all'art. 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente infissi al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni, intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 5753/2014).
D'altronde,
proprio la carenza di una specifica disciplina impone di ritenere come già affermato in passato che (cfr. da ultimo Cass. n. 144/2016) la nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una "distanza maggiore".
Ne discende che,
una volta ricondotti gli edifici accessori al novero delle costruzioni in senso civilistico e nell'accezione propria della disciplina in materia di distanze, le previsioni regolamentari che prevedono un distacco tra costruzioni risultano evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che, anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a quelle di legge.
Il motivo deve quindi essere disatteso.
3. Con il secondo motivo si denunzia l'insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e 29 del regolamento edilizio del Comune di Cassino.
Assume parte ricorrente che la Corte d'Appello ha omesso di rilevare l'illegittimità del manufatto cd. accessorio dell'attore, in quanto situato nell'area di distacco che occorreva rispettare in relazione al fabbricato principale, area nella quale gli strumenti urbanistici vietano qualsivoglia costruzione (art. 29 regolamento edilizio che prevede solo la realizzazione di giardini, parcheggi e rampe di accesso).
La motivazione della sentenza sarebbe altresì insufficiente, in quanto per giustificare la legittimità del manufatto rispetto al quale sono state valutate le distanze del fabbricato dei ricorrenti, si è affermato che lo stesso si trovava "per larga parte" al di fuori dell'area che costituisce il distacco ideale, riconoscendosi quindi che parte di esso si colloca all'interno della detta area di distacco, risultando pertanto illegittimo.
Anche tale motivo è ad avviso del Collegio privo di fondamento.
La Corte d'appello ha in primo luogo ribadito che fabbricato preveniente era quello di parte attrice, il quale all'epoca della sua realizzazione doveva solo attenersi alla distanza dal confine (distanza che non risulta del tutto rispettata, ma la questione esula dal presente giudizio, non avendo i convenuti lamentato la violazione delle distanze ad opera della costruzione di parte attrice).
Quanto al fabbricato cd. accessorio del Co., di cui non si denunzia la violazione delle norme dal confine, la sentenza ha ritenuto che lo stesso fosse posto in una zona del fondo per la quale le distanze dal confine dell'edificio principale erano ampiamente rispettate e che risultava pertanto in massima parte al di fuori dell'area di distacco quale imposta dallo strumento urbanistico.
Ritiene però la Corte che anche l'eventuale realizzazione in parte del manufatto in oggetto all'interno dell'area di distacco non possa determinare un esito diverso della controversia.
Ed, infatti,
la previsione di un'area di distacco mira essenzialmente ad assicurare il rispetto delle distanze tra fabbricati edificati su fondi finitimi ed appartenenti a diversi proprietari, non potendosi ravvisare l'illegittimità dal punto di vista privatistico, per costruzioni realizzate eventualmente a distanza inferiore a quella legale o regolamentare sul fondo di un unico proprietario (per un riferimento a tale regola si veda Cass. n. 1918/1973, a mente della quale il principio della prevenzione -in base al quale, fra due proprietari di fondi finitimi, colui che costruisce per primo può o edificare sul confine o a distanza dal confine non inferiore a quella legale oppure a distanza inferiore, costringendo il vicino, che costruisce per secondo, a ristabilire la distanza legale edificando dal confine a distanza maggiore della meta di quella prescritta, a meno che non voglia avanzare la propria fabbrica fino all'altrui costruzione, giovandosi dei rimedi offertigli dall'art. 875 cod. civ.- presuppone un rapporto intersoggettivo, opera tra proprietari di fondi finitimi e non è ipotizzabile come attributo della costruzione con caratteri di realità).
D'altronde essendo la proprietà di entrambi i fabbricati, principale ed accessorio, in capo all'attore, i ricorrenti non sono legittimati a dolersi della violazione delle distanze tra le due opere.
Quanto invece alla pretesa violazione della previsione regolamentare che nega la possibilità di costruire nelle zone di distacco, la stessa si riverbera nei soli rapporti con la PA, e determina quindi l'illegittimità dell'opus dal punto di vista amministrativo, ma non incide sulla diversa disciplina in tema di distanze, e sulla possibilità anche per il titolare della costruzione illegittima dal punto di vista amministrativo di pretendere il rispetto delle distanze legali (cfr. Cass. n. 17339/2003; Cass. n. 10850/1998), essendo tale conclusione una piana applicazione del su riferito principio dell'autonomia tra profili pubblicistici dell'attività edificatoria e rapporti interprivatistici.
Ne consegue che
anche laddove una parte del manufatto a carattere accessorio sia collocato nell'area di distacco prevista per il fabbricato principale, la violazione della norma regolamentare legittima se del caso la reazione della PA, ma non esclude che si tratti sempre di costruzione preveniente, rispetto alla quale l'edificio dei ricorrenti doveva porsi a distanza legale come appunto disposto dalla Corte distrettuale (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.03.2017 n. 6855).

EDILIZIA PRIVATA: Possibilità di ridurre le distanze tra edifici.
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, comma 6, l.reg. Liguria 02.04.2015, n. 11, censurato per violazione dell’art. 117, comma 3, Cost., in quanto la possibilità di ridurre le distanze tra edifici anche nei confronti di edifici ubicati all’esterno del perimetro del PUO contrasterebbe con l’art. 2-bis TUE e invaderebbe la sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento civile».
La norma impugnata rientra nell’ambito applicativo dell’art. 2-bis TUE, giacché, nel disciplinare i «limiti di conformità» del piano operativo rispetto a quello strategico, consente al PUO di derogare alle distanze previste nel PUC, il quale a sua voltain forza dell’art. 29-quinquies, comma 1, lett. b), l.reg. Liguria 04.09.1997, n. 36, anch’esso inserito dall’art. 34, comma 1, l.reg. n. 11 del 2015, ma non impugnato«potrebbe averle fissate in misura anche inferiore a quanto previsto nel d.m. n. 1444 del 1968.
Inoltre, la possibilità di derogare alle distanze minime è accordata con la necessaria garanzia dell’intermediazione dello strumento urbanistico e al fine di conformare in modo omogeneo l’assetto di una specifica zona del territorio (circoscritta, per l’appunto, agli edifici ricompresi nel PUO), e non con riferimento a tipi di interventi edilizi singolarmente considerati (ristrutturazioni, sopraelevazioni, recupero di sottotetti, ed altro).
La previsione regionale non risulta priva di riferimento a specifiche esigenze del territorio neppure nella parte in cui dispone che la riduzione delle distanze è «applicabile anche nei confronti di edifici ubicati all’esterno del perimetro del PUO», trovando tale inciso giustificazione nel fatto che il territorio comunale viene ripartito in plurimi ambiti (di conservazione, di riqualificazione, di completamento) e distretti (di trasformazione), con la conseguente necessità che sia disciplinata anche la distanza tra un edificio ricompreso nel perimetro di uno strumento operativo e un edificio “frontista” rispetto al primo, ma esterno a quel perimetro e ricadente in altro ambito o distretto.
Anche in questa parte, pertanto, la disposizione regionale è conforme alla disciplina statale, in quanto, da un lato, condiziona l’operatività del suo precetto alla presenza di uno strumento urbanistico, dall’altro lato autorizza la riduzione delle distanze solo se essa è idonea ad assicurare un «equilibrato assetto urbanistico e paesaggistico in relazione alle tipologie degli interventi consentiti e tenuto conto degli specifici caratteri dei luoghi e dell’allineamento degli immobili già esistenti» (sentt. nn. 232 del 2005, 114 del 2012, 6 del 2013, 134 del 2014, 178, 185, 231 del 2016; ord. n. 173 del 2011)
(Corte Costituzionale, sentenza 10.03.2017 n. 50 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il prevalente orientamento di questa Corte l'espressione di cui all'art. 873 c.c., che disciplina le distanze tra costruzioni su "fondi finitimi", non va intesa in senso letterale di fondi confinanti, ma in quello di fondi "vicini".
Infatti quando il codice ha inteso riferirsi a fondi -confinanti" ha sempre usato l'attributo "finitimo" e non anche quello "contiguo" e che l'art. 873 c.c. riguardi anche fondi non confinanti si desume dal contenuto dell'art. 879 c.c., nel quale sono escluse dall'osservanza della distanza legale le costruzioni a confine con piazze o vie pubbliche;i1 che, implicitamente, porta ad ammettere l'applicabilità della norma dell'art. 873 alle costruzioni su fondi confinanti con vie private o, comunque, con terreo comune o altrui.
Costituisce del resto consolidato principio della giurisprudenza di questa Corte quello per cui l'obbligo del rispetto delle distanze da osservarsi nelle costruzioni esistenti, previsto dall'art. 873 c.c. o dallo strumento urbanistico locale, ad integrazione della predetta norma del codice civile, è preordinato al fine di prevenire che tra gli edifici privati esistenti o da edificarsi "su fondi finitimi" (ovverossia "vicini" e non "confinanti") si formino strette ed insalubri intercapedini tali da ostacolare il godimento dell'aria e della luce, oltre che il favorire del propagarsi di incendi.
Le ragioni igieniche ispiratrici della norma, aventi finalità pubblicistiche, non vengono dunque meno né quando tra gli edifici posti a distanza minore di quella legale vi sia una zona di terreno comune alle stesse parti, né quando detta zona sia di proprietà di un terzo estraneo alla lite.
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Secondo il consolidato indirizzo di questa Corte nell'ipotesi di fondi non confinanti, in quanto tra i fondi suddetti intercorra una striscia di terreno di proprietà di un terzo, di larghezza inferiore a quella legale, non opera il principio della prevenzione, atteso che non è oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione "sul confine", secondo la disciplina degli artt. 874-877 c.c., in quanto quella eretta sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal confine.
In tale situazione deve escludersi l'attuazione del diritto di prevenzione, nella forma della costruzione sul confine e deve affermarsi l'applicazione della disciplina delle costruzioni "con distacco".
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Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli artt. 873 c.c. e 16 Reg. edilizio del Comune di San Giovanni in Persiceto, dell'art. 4 delle NTA del PRG e del principio di prevenzione, deducendo che le disposizioni sulle distanze dovevano ritenersi applicabili alle sole superfici coperte confinanti, situazione non ravvisabile nel caso di specie.
Deducono inoltre che la legittimità della sopraelevazione derivava dal fatto che essa era stata eseguita su quanto in precedenza edificato in aderenza all'edificio di Sc.Od., sulla base di un progetto unitario presentato da tutti i proprietari interessati, vale a dire essi ricorrenti e Sc.Od., con esclusione di Sc.Gi. che non era confinante.
Pure tale motivo è infondato.
Secondo il prevalente orientamento di questa Corte l'espressione di cui all'art. 873 c.c. che disciplina le distanze tra costruzioni su "fondi finitimi" non va intesa in senso letterale di fondi confinanti, ma in quello di fondi "vicini".
Infatti quando il codice ha inteso riferirsi a fondi "confinanti" ha sempre usato l'attributo "finitimo" e non anche quello "contiguo" e che l'art. 873 c.c. riguardi anche fondi non confinanti si desume dal contenuto dell'art. 879 c.c., nel quale sono escluse dall'osservanza della distanza legale le costruzioni a confine con piazze o vie pubbliche;i1 che, implicitamente, porta ad ammettere l'applicabilità della norma dell'art. 873 alle costruzioni su fondi confinanti con vie private o, comunque, con terreo comune o altrui (Cass. 627/2003).
Costituisce del resto consolidato principio della giurisprudenza di questa Corte quello per cui l'obbligo del rispetto delle distanze da osservarsi nelle costruzioni esistenti, previsto dall'art. 873 c.c. o dallo strumento urbanistico locale, ad integrazione della predetta norma del codice civile, è preordinato al fine di prevenire che tra gli edifici privati esistenti o da edificarsi "su fondi finitimi" (ovverossia "vicini" e non "confinanti") si formino strette ed insalubri intercapedini tali da ostacolare il godimento dell'aria e della luce, oltre che il favorire del propagarsi di incendi.
Le ragioni igieniche ispiratrici della norma, aventi finalità pubblicistiche, non vengono dunque meno né quando tra gli edifici posti a distanza minore di quella legale vi sia una zona di terreno comune alle stesse parti, né quando detta zona sia di proprietà di un terzo estraneo alla lite (Cass. 3849/1978; 1015/1983; 627/2003 e da ultimo 5154/2012).
Del pari infondata la dedotta violazione del c.d. principio di prevenzione.
Ed invero secondo il consolidato indirizzo di questa Corte nell'ipotesi di fondi non confinanti, in quanto tra i fondi suddetti intercorra una striscia di terreno di proprietà di un terzo, di larghezza inferiore a quella legale, non opera il principio della prevenzione, atteso che non è oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione "sul confine", secondo la disciplina degli artt. 874-877 c.c., in quanto quella eretta sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal confine.
In tale situazione deve escludersi l'attuazione del diritto di prevenzione, nella forma della costruzione sul confine e deve affermarsi l'applicazione della disciplina delle costruzioni "con distacco" (Csss. Ss.Uu. 5349/1982 e Cass. 627/2003).
Si osserva peraltro che nel caso di specie non si pone un problema di prevenzione tra costruzioni, posto che la dedotta violazione deriva non già dall'ampliamento originario, ma dalla soprelevazione successivamente eseguita.
I ricorrenti non possono inoltre giovarsi, contrariamente a quanto da essi dedotto, della disposizione di cui all'art. 4 norma attuazione del PRG del Comune di San Giovanni in Persiceto, che al punto 3 stabilisce che:
   - nel caso di edifici preesistenti costruiti a muro cieco sul confine, le nuove costruzioni possono essere edificate in aderenza;
   - nel caso di due o più lotti contigui, la costruzione in aderenza è concessa a condizione che sia presentato dai proprietari un progetto unitario equivalente a vincolo reciproco di costruire in aderenza.
La citata disposizione non consentiva infatti ai ricorrenti di sopraelevare, mediante la presentazione di un progetto unitario a vincolo reciproco di costruire in aderenza, senza il consenso di Sc.Gi., quale proprietario del secondo piano, frontistante la soprelevazione dei ricorrenti, non essendo al riguardo sufficiente il consenso prestato dall'altro fratello Sc.Od. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 08.03.2017 n. 5874).

febbraio 2017

EDILIZIA PRIVATA: Deroga alla disciplina statale della distanza tra fabbricati: la Consulta censura la legge del Veneto.
La deroga regionale alla disciplina della distanza minima tra fabbricati, realizzata dagli strumenti urbanistici, è legittima se fa riferimento ad una pluralità di fabbricati ed è fondata su previsioni planovolumetriche.
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La disciplina delle distanze fra costruzioni ha la sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”.

«
Tale disciplina, ed in particolare quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato».
Nondimeno, si è altresì sottolineato, che
quando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, «la disciplina che li riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio.
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In questa cornice si è dunque affermato che «
alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio».
Nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»− questa Corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile», in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765.
Pertanto,
è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
In definitiva,
le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio», poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati».
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I medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione, infatti,
ha sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
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Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla Corte e ribadite dal disposto di cui all’art 2-bis del TUE, il riferimento che la norma impugnata reca ai piani urbanistici attuativi (PUA), assimilabili ai piani particolareggiati o di lottizzazione e dunque riconducibili a quella tipologia di atti menzionati nell’art. 9, ultimo comma del d.m. n. 1444 del 1968, più volte richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle distanze.
D’altro canto la stessa giurisprudenza di questa Corte ha stabilito che
la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi.
Ne consegue che
devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall’art. 2-bis del TUE, in linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte.
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1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera a), della legge della Regione Veneto 16.03.2015, n. 4 (Modifiche di leggi regionali e disposizioni in materia di governo del territorio e di aree naturali protette regionali), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in riferimento all’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)» (d’ora in avanti TUE), che ammette deroghe al decreto del ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765).
Secondo il ricorrente, il citato art. 8, comma 1, della legge regionale del Veneto n. 4 del 2015, avrebbe demandato allo strumento urbanistico generale la fissazione dei limiti di densità, altezza e distanza tra fabbricati, in deroga a quelli stabiliti dall’ordinamento statale, in una serie di ipotesi elencate.
È censurato, in particolare, l’art. 8, comma 1, lettera a), della legge regionale, nella parte in cui stabilisce che lo strumento urbanistico generale possa derogare: «nei casi di cui all’articolo 17, comma 3, lettere a) e b), della legge regionale 23.04.2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”, con riferimento ai limiti di distanza da rispettarsi all’interno degli ambiti dei piani urbanistici attuativi (PUA) e degli ambiti degli interventi disciplinati puntualmente». La disposizione contrasterebbe con l’art. 2-bis del TUE, in quanto gli strumenti per disporre le deroghe risulterebbero eccessivamente generici e indeterminati.
2.– Preliminarmente, va precisato che la questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto esclusivamente l’art. 8, comma 1, lettera a), che consente deroghe alla disciplina statale limitatamente al regime delle distanze. Il contenuto del ricorso impone, infatti, di ritenere che detta norma è stata impugnata solamente nella parte in cui deroga alla disciplina delle distanze; ciò, peraltro, in armonia con la deliberazione governativa di impugnazione della legge che fa espresso riferimento alla sola «norma contenuta nell’art. 8, comma 1, lettera a)».
3.– Non è fondata l’eccezione di inammissibilità per difetto di interesse sollevata dalla Regione Veneto, motivata dall’identità di contenuto che la norma censurata avrebbe rispetto all’art. 17, comma 3, della legge regionale n. 11 del 2004, disposizione quest’ultima mai impugnata da parte dello Stato. Nell’assunto della Regione, qualora la questione qui in esame fosse ritenuta fondata, l’art. 17, comma 3, della legge regionale n. 11 del 2004 continuerebbe comunque ad essere vigente e a produrre effetti nell’ordinamento.
In senso opposto al rilievo addotto dalla Regione, va tuttavia ribadita l’inapplicabilità dell’istituto dell’acquiescenza ai giudizi in via principale atteso che la norma impugnata ha comunque l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato (da ultimo, sentenza n. 231 del 2016).
4.– Ciò premesso, la questione deve ritenersi parzialmente fondata nei termini precisati di seguito.
4.1.– Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
la disciplina delle distanze fra costruzioni ha la sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”.
«
Tale disciplina, ed in particolare quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato» (sentenza n. 232 del 2005).
Nondimeno, si è altresì sottolineato, che
quando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, «la disciplina che li riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio (si veda sempre la sentenza n. 232 del 2005).
In questa cornice si è dunque affermato che «
alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, da ultimo, anche le sentenze n. 231, n. 189, n. 185 e n. 178 del 2016).
4.2.–
Nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»− questa Corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del 2016, ma anche sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005), in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150).
Pertanto,
è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche» (ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016).
In definitiva,
le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; analogamente sentenze n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati» (sentenza n. 114 del 2012; nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2005).
4.3.–
I medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione, infatti, ha sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis, sentenza n. 189 del 2016).
4.4.–
La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
5.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla Corte e ribadite dal disposto di cui all’art 2-bis del TUE, il riferimento che la norma impugnata reca ai
piani urbanistici attuativi (PUA), assimilabili ai piani particolareggiati o di lottizzazione e dunque riconducibili a quella tipologia di atti menzionati nell’art. 9, ultimo comma del d.m. n. 1444 del 1968, più volte richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle distanze.
D’altro canto la stessa giurisprudenza di questa Corte ha stabilito che
la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del 2013).
Ne consegue che
devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall’art. 2-bis del TUE, in linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte (ex multis, sentenze n. 231, n. 189, n. 185, n. 178 del 2016 e n. 134 del 2014).
6.– Una tale conclusione non può essere estesa al riferimento che la norma censurata fa agli «interventi disciplinati puntualmente», corrispondente alla lettera b) del comma 3, dell’art. 17, della legge regionale n. 11 del 2004.
L’espressione utilizzata, infatti, appare in contrasto con lo stringente contenuto che dovrebbe assumere una previsione siffatta, destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata pianificazione urbanistica.
L’assenza di precise indicazioni, in particolare, non consente di attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione necessariamente coerente con l’esigenza di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del territorio; del resto, lo stesso riferimento alla puntualità che dovrebbe caratterizzarli si presta, sul piano semantico, a legittimare anche interventi diretti a singoli edifici, in aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte in precedenza.
Limitatamente ai suddetti interventi, dunque, va dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma censurata, perché legittima deroghe alla disciplina delle distanze tra fabbricati al di fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, in violazione del limite dell’ordinamento civile assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (da ultimo, sentenza n. 231 del 2016).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera a), della legge della Regione Veneto 16.03.2015, n. 4 (Modifiche di leggi regionali e disposizioni in materia di governo del territorio e di aree naturali protette regionali), limitatamente al riferimento alla lettera «b)» dell’art. 17, comma 3, della legge regionale n. 11 del 2004 e alle parole «e degli ambiti degli interventi disciplinati puntualmente» (Corte Costituzionale, sentenza 24.02.2017 n. 41).

EDILIZIA PRIVATADeroga alle distanze minime tra pareti finestrate.
La deroga alle distanze minime tra pareti finestrate, ai sensi del decreto assessorile regionale sardo del 20.12.1983 n. 2266/U (c.d. decreto “Floris”) è ammissibile a determinate condizioni: non può, in ogni caso, incidere sulle distanze legali minime stabilite dalle norme del codice civile, può essere concessa (nelle zone B) anche per le aree «risultanti libere in seguito a demolizione», si giustifica esclusivamente ove si dimostri che il rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti l’inutilizzazione dell’area o una soluzione tecnica inaccettabile (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 23.02.2017 n. 125 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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9. - I motivi esposti si prestano a una trattazione congiunta, considerato che tutti si incentrano sulla questione della legittimità della deroga alle distanze minime tra edifici fissate dalle norme tecniche di attuazione.
9.1. - In tale prospettiva, occorre in primo luogo ricostruire la motivazione che sorregge la concessione edilizia impugnata.
Come emerge dalla lettura dell’atto, l’istruttoria procedimentale si è fondamentalmente concentrata sulla verifica delle «soluzioni progettuali possibili [in vista del rispetto] delle normali distanze previste dallo strumento urbanistico», giungendo alla conclusione «che, effettivamente, l’applicazione delle distanze normalmente previste dallo strumento urbanistico avrebbe comportato delle soluzioni progettuali tecnicamente inaccettabili, irrazionali e [la] inutilizzazione dell’area», rendendo conseguentemente ammissibile la deroga alle distanze prevista dall’art. 48 (quattordicesimo alinea) del regolamento edilizio comunale (applicabile alla fattispecie ratione temporis), che a tali fini rinvia al decreto dell’Assessore degli Enti Locali, Finanze e Urbanistica, 20.12.1983, n. 2266/U, disponendo che tale «deroga …può essere consentita purché si rispetti la distanza minima di mt. 3 dai confini».
Il rinvio implica il richiamo al testo del decreto assessorile, che contempla la deroga (per le zone B) in questi termini: «Nelle zone inedificate esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto o risultanti libere in seguito a demolizione, contenute in un tessuto urbano già definito o consolidato, che si estendono sul fronte stradale o in profondità per una lunghezza inferiore a mt. 24 per i Comuni della I e II Classe, e a mt. 20 per quelli della III e IV classe, nel caso di impossibilità di costruire in aderenza, qualora il rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti l'inutilizzazione dell'area o una soluzione tecnica inaccettabile, il Comune può consentire la riduzione delle distanze, nel rispetto delle disposizioni del codice civile».
9.2. - Dal quadro normativo delineato emergono una serie di elementi rilevanti per la soluzione della controversia in esame:
   - la deroga ai distacchi minimi previsti dal decreto assessorile non può, in ogni caso, incidere sulle distanze legali minime stabilite dalle norme del codice civile;
   - la deroga può essere concessa (nelle zone B) anche per le aree «risultanti libere in seguito a demolizione»;
   - la deroga si giustifica esclusivamente ove si dimostri che il rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti l'inutilizzazione dell'area o una soluzione tecnica inaccettabile.
Nel caso di specie, rammentato che la concessione impugnata giustifica la deroga al rispetto delle distanze minime in ragione della inaccettabilità tecnica delle soluzioni alternative prospettate, i ricorrenti contestano la sussistenza di quanto asserito dall’amministrazione con argomentazioni che, tuttavia, non appaiono convincenti.
Occorre precisare, tuttavia, sul piano dell’interpretazione della citata disposizione del decreto assessorile, che il riferimento alla «soluzione tecnica inaccettabile» non può tradursi in una condizione equiparabile alla inutilizzabilità dell’area. Le due formule (inutilizzabilità e «soluzione tecnica inaccettabile») indicano due circostanze distinte, per cui all’interno della seconda rientrano soluzioni progettuali che (pur non comportando la inutilizzabilità dell’area) sono comunque irrazionali o pregiudicano gli interessi dei proprietari in misura eccessiva (e, quindi, non rispettosa del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa). La soluzione deve, quindi, essere inaccettabile (non solo e non tanto sotto il profilo tecnico-costruttivo ma) alla stregua di una valutazione degli interessi pubblici e privati coinvolti.

dicembre 2016

EDILIZIA PRIVATA: Devesi richiamare l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9 DM 1444/1968 (il quale stabilisce le distanze minime da rispettare fra pareti finestrate di edifici frontistanti) secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un immobile già esistente può essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio preesistente.
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4.1. Come già accennato, il primo giudice ha ritenuto che nella specie fosse stato violato l’art. 9 del d.m. nr. 1444 del 1968, il quale stabilisce le distanze minime da rispettare fra pareti finestrate di edifici frontistanti.
L’Amministrazione comunale e l’odierna istante si erano difesi assumendo che nella specie avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 99 del Regolamento edilizio comunale, il quale stabilisce che, ai fini del calcolo delle distanze tra fabbricati, non debba tenersi conto di balconi, sporti ed aggetti di lunghezza fino a mt 1,20 (ciò che avrebbe assicurato il rispetto delle distanze di cui al precitato art. 9); il TAR ha però ritenuto di dover disapplicare tale prescrizione siccome illegittima, escludendo che il Comune abbia in sede di pianificazione urbanistica il potere di derogare a qualsiasi titolo alle distanze fissate dal d.m. nr. 1444/1968.
4.2. A fronte delle suesposte conclusioni, le parti appellanti articolano un duplice ordine di critiche:
   a) si assume, innanzi tutto, che il citato art. 9 del d.m. nr. 1444/1968 non avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie, trattandosi di intervento di demolizione e ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova edificazione;
   b) in secondo luogo, si sostiene che deve ritenersi del tutto consentito ai Comuni introdurre nei propri strumenti urbanistici previsioni del tipo di quella di che trattasi.
4.2.1. La prima censura è manifestamente infondata, dovendo richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9 secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un immobile già esistente può essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, nr. 3929).
Nel caso che qui occupa, come si legge in sentenza e non risulta specificamente contestato dalle parti appellanti che col permesso di costruire in variante nr. 26 del 22.02.2013 è stato assentito un incremento delle altezze rispetto al preesistente, ciò che è sufficiente a far escludere che si ricada nell’ipotesi derogatoria suindicata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.12.2016 n. 5552 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio.
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche.

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4.2.2. È invece fondata la seconda subcensura sopra richiamata.
Al riguardo, la Sezione non ignora l’esistenza di precedenti che, muovendo da una rigorosa qualificazione delle norme del d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni di ordine pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2, della legge 17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse possano essere derogate dagli strumenti urbanistici generali, le cui prescrizioni pertanto, ove contrastanti con le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 05.01.2015, nr. 11; id., sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id., 07.07.2008, nr. 3381).
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.12.2016 n. 5552 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALimiti di distanza tra i fabbricati.
L’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
Ai fini del computo delle distanze assumono rilievo:
   - tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell’igiene;
   - il terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentano quello già esistente per la natura dei luogh
i (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 13.12.2016 n. 1231 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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In relazione al secondo ordine di motivi, in tema di violazione delle norme di principio sulle distanze, vanno richiamati i principi più volte richiamati dalla giurisprudenza anche della sezione (cfr. sent. n. 1406 cit., confermata in appello e quindi rilevante anche a fronte delle ultime produzioni della difesa comunale, aventi ad oggetto la riforma di un ben diverso precedente di questo Tar, in diversa composizione). Pertanto, in linea di diritto, quale che sia la qualificazione regionale come ristrutturazione, è pacifico nella giurisprudenza anche del Collegio come la sopraelevazione ed il conseguente nuovo volume assumano rilevanza a fini delle distanze. In sostanza, qualora si realizzino nuovi volumi sopraelevando l'edificio originario sì da vita ad un nuovo edificio, che deve conseguentemente osservare la norma sulla distanza minima di cui all'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 (cfr. ad es. sentenza 1621/2009).
In generale, va ribadito che per principio consolidato, le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai rapporti privati, ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. ad es. Tar Liguria n. 476/2013 e giurisprudenza ivi richiamata).
Questa sezione ha più volte ribadito che la disciplina sulle distanze minime legali non può considerarsi derogata dalla legislazione regionale derogatoria sul recupero dei sottotetti a fini abitativi; al riguardo s'è affermato che l'art. 9 d.m. 1444/1968, al di là della fonte che la disposizione prevede, è norma di principio tale da costituire limite alla potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio. Analoghe considerazioni di principio vanno ribadite ai connessi fini in esame.
Ancora (sentenza n. 6 del 2013) la Consulta ha avuto modo di intervenire sul punto nei seguenti termini: premesso che, in linea di principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell'ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale, mentre alle regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio, la legge regionale, laddove consente espressamente ai comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall'art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell'interesse pubblico relativo al governo del territorio, autorizzando, al contrario, i comuni ad "individuare gli edifici" dispensati dal rispetto delle distanze minime, viola la competenza legislativa statale in materia "ordinamento civile" (sent. n. 232 del 2005, 173 del 2011, 114 del 2012).
Peraltro, parte resistente contesta l'applicazione delle invocate distanze sia in termini di difetto di legittimazione dei ricorrenti, sia di difetto di giurisdizione.
Sotto il primo versante è sufficiente richiamare quanto sopra evidenziato in termini di ammissibilità del ricorso (oltre alla pacifica giurisprudenza secondo cui il criterio della vicinitas e il danno risentito per la realizzazione dell'opera in ritenuta violazione delle distanze e del carico urbanistico della zona, integrano, rispettivamente, la legittimazione al ricorso e l'interesse concreto ed attuale, ai sensi dell'art. 100 c.p.c., all'impugnativa, da parte della ricorrente, proprietaria di immobile confinante o limitrofo, configurando ex se una posizione qualificata e differenziata al corretto assetto del territorio, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione che, in concreto, possa essere riconducibile alle opere compiute - cfr. ad es. Tar Calabria n. 433/2012 e Cons. Stato, Sez. VI, 20.10.2010, n. 7591, Tar Campania n. 23762/2010 e Tar Liguria 476/2013, Consiglio di Stato n. 3929/2002 e 5759/2011).
Inoltre, in tema di proprietà, l'obbligo di rispettare le distanze legali previste dagli strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei proprietari frontisti ovvero della relativa riservatezza, ma anche per finalità di pubblico interesse, dovendo così essere osservato sia in sede di valutazione di abusi soggetti ad istanza di sanatoria sia rispetto a nuove edificazioni, in ordine alle quali i soggetti caratterizzati dalla vicinitas hanno il diretto concreto ed attuale interesse affinché la relativa realizzazione avvenga nel rispetto delle norme dettate a tutela (anche) di interessi fondamentali e collettivi.
Sotto il secondo versante, costituisce jus receptum il principio per cui la controversia, derivante dall'impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino, che lamenti la violazione delle distanze legali, costituisce una disputa non già tra privati, ma tra privato e Pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo (cfr. ex multis CdS 3511/2016).
Se in linea di fatto nel caso di specie dalla documentazione prodotta emerge il mancato rispetto della distanza invocata, in linea di diritto, contrariamente a quanto prospettato dai resistenti, ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (cfr. ad es. Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n. 268, Tar Liguria 1406 cit.).
In dettaglio, va quindi ribadito che nel calcolo delle distanze tra costruzioni, devono prendersi in considerazione le sporgenze costituenti per il loro carattere strutturale e funzionale veri e propri aggetti implicanti perciò un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come appunto i balconi formati da solette aggettanti anche se scoperti di apprezzabile profondità, ampiezza e consistenza (Tar Puglia n. 1235/2012).
Analogamente, gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo (Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Pertanto, sulla scorta di tali indicazioni non può certo escludersi dai manufatti rilevanti a fini di distanze, in quanto palesemente in grado di dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, i muri di contenimento (cfr. ex multis Cass. civ. 15391/2012 e 15972/2011 e Consiglio di Stato 7731/2010, oltre a Tar Liguria 1406 cit.). Va quindi ribadito che ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di distanza dal confine.

novembre 2016

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto attiene alle distanze fra costruzioni o di queste con i confini, vige il regime della c.d. doppia tutela per cui il soggetto, che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia di distanze, è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del giudice ordinario) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'Amministrazione.
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8.1 Eccepisce innanzitutto quest’ultimo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi a suo dire di controversia che  riguardando questioni di distanze e, dunque, involgenti diritti soggettivi– avrebbe dovuto essere dedotta dinanzi al giudice ordinario.
Ritiene il Collegio che l’eccezione sia infondata per le ragioni di seguito esposte.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, nel nostro ordinamento, “…per quanto attiene alle distanze fra costruzioni o di queste con i confini, vige il regime della c.d. doppia tutela per cui il soggetto, che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia di distanze, è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del giudice ordinario) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'Amministrazione…” (Cons. Stato, Sez. IV, 31.03.2015, n. 1692) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.11.2016 n. 2274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio..
Conseguentemente, «Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile. Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
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3.‒ Il Governo ritiene ancora che le modifiche apportate dal sesto comma dell’art. 6 della legge impugnata all’art. 18, comma l, della legge regionale n. 16 del 2008, recante la disciplina delle distanze da osservare negli interventi sul patrimonio edilizio esistente e di nuova costruzione, contrastino con l’art. 2-bis del TUE, in quanto la disciplina introdotta dalla Regione Liguria sarebbe destinata, non a soddisfare esigenze di carattere urbanistico, bensì a consentire interventi edilizi puntuali, in deroga alla normativa statale in materia di distanze, e invaderebbe così la sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento civile» (di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.).
La questione è fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte sul riparto di competenze in tema di distanze legali, «la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 134 del 2014 e n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011).
Si è affermato di conseguenza che: «Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013)» (sentenza n. 134 del 2014).
Queste conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce dell’introduzione −ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98− dell’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
La disposizione recepisce la giurisprudenza di questa Corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità di deroghe solo a condizione che esse siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; da ultimo sentenze 185 e 178 del 2016)
(Corte Costituzionale, sentenza 03.11.2016 n. 231).

agosto 2016

EDILIZIA PRIVATA: La distanza minima tra edifici.
DOMANDA:
Il quesito riguarda l’intervento per la realizzazione di una muratura di tamponamento del piano primo (attualmente totalmente privo di muro verso il cortile) del fronte di un rustico-fienile costituto attualmente da box al piano terra e locale aperto al piano primo, accessibile solo dall'esterno, con affaccio su cortile comune.
Il progetto prevede la realizzazione di una scala interna che dal box dia accesso al piano primo, e la formazione del muro di chiusura del fienile (verso il cortile) con l’inserimento di una porta-finestra affacciante come detto su cortile comune. La destinazione d’uso del piano primo sarà sgombero-magazzino, senza permanenza di persone. La previsione di inserire una apertura è funzionale unicamente per l’eventuale movimentazione di oggetti voluminosi dall’esterno anziché attraverso le strette scale interne previste dal progetto.
L’immobile prospiciente al fabbricato oggetto d’intervento è posto a metri 5.60 e presenta una finestra a piano terra posta frontalmente alla basculante del box esistente a piano terra e la casa prospiciente presenta anche una finestra al piano primo, posta a circa 8 metri di distanza dal fabbricato oggetto di intervento.
Il dubbio dello scrivente è in relazione all'assenza della distanza pari a ml 10 fra il nuovo muro di chiusura del rustico/fienile a piano primo con creazione di porta finestra rispetto al fabbricato posto di fronte allo stesso a circa ml 8, seppur, quest’ultimo, risulta già dotato di finestra.
RISPOSTA:
La distanza minima di 10 ml fra edifici dotati di pareti finestrate risulta prevista al n. 2 dell’art. 9 del DM n. 1444/1968 se si tratta di fabbricati ricadenti in “altre zone” territoriali omogenee diverse dalla “A” (vedi le altre disposizioni contenute nella stesso articolo per tale zona “A” e per la zona “C”). Tale distanza va considerata inderogabile perché di ordine pubblico come ribadito più volte dalla giurisprudenza la quale ha anche precisato che non è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di esse.
In particolare è stato affermato (Cass. civ. Sez. II, 20.06.2011, n. 13547): “la norma dell´art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati -che, siccome emanata in attuazione dell´art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, non può essere derogata dalle disposizioni regolamentari locali- va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l´applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre” (vedasi anche Cass. civ. Sez. II, 28.09.2007, n. 20574).
Analogamente il Consiglio di Stato (Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909) ha rilevato che: “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell´edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra”.
In ogni caso è stato chiarito che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l´esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Sulla base di tali consolidati indirizzi e principi generali non pare dubbio che anche nel caso di specie si debbano rispettare le citate distanze anche considerando che la tamponatura in muratura che determina, come tale un nuovo volume, riveste la natura di un nuovo intervento costruttivo.
Si ricorda al riguardo che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera” (cfr. Cons. Stato sez. IV, 17/05/2012, n. 2847 (conferma TAR Basilicata-Potenza, sez. I, n. 849/2009) (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze tra edifici.
La maggiorazione della distanza fino a raggiungere la misura corrispondente all’altezza del fabbricato più alto prevista dal terzo comma dell’art. 9, d.m. n. 1444/1968, si applica negli stessi casi in cui sono prescritti i limiti di distanza indicati dal primo comma del medesimo articolo.
Da ciò si deduce che i limiti posti alle distanze degli edifici dal comma in questione si applicano anche alla zona A e nelle stesse ipotesi previste dal n. 1 del primo comma dell’art. 9.
Ciò comporta che le distanze in questione si applicano indipendentemente dalla presenza o meno di pareti finestrate, in quanto il punto n. 1 del primo comma dell’art. 9 si riferisce alle distanze tra edifici senza altre specificazioni
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.08.2016 n. 4092 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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6) Nel quinto e ultimo motivo di ricorso parte ricorrente ha indicato che gli interventi della legge sul piano casa sono consentiti su edifici residenziali ubicati in aree urbanizzate, nel rispetto delle distanze minime e delle altezze massime dei fabbricati di cui al Decreto Ministeriale n. 1444/1968.
Nel caso di specie sarebbe stato violato l'art. 9, ultimo comma, dell’indicato decreto, che prevede come, qualora le distanze tra fabbricati risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le stesse siano maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa.
Il fabbricato delle ricorrenti risulterebbe alto 14,88 metri e presenterebbe pareti finestrate, munite anche di balconi, sul fronte contrapposto all'edificio in corso di realizzazione che risulta posizionato a “soli” 12,07 metri di distanza.
Inoltre, l'edificio assentito con il Permesso di Costruire impugnato risulterebbe posizionato a 3,15 metri dal confine della proprietà delle ricorrenti, in violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, che prevede la distanza minima di 10 metri fra gli edifici, comportando, per dato logico, l'obbligo di rispettare anche la distanza minima di 5 metri dal confine.
Risulterebbe, infine, violato anche l'art. 7 del richiamato D.M. n. 1444/1968, che prevede in zona A una densità fondiaria per le eventuali nuove costruzioni ammesse che, in base alla tipologia dell’intervento assentito, non può superare in ogni caso i 5 metri cubi a metro quadrato, che di fatto sarebbe stato superato.
L'indice fondario risultante dal permesso di costruire assentito sarebbe, infatti, pari a 7,30 metri cubi a metro quadrato, ben superiore ai 5 consentiti.
Inoltre, il Piano Regolatore Generale del Comune di Maddaloni, prevede, per la zona A1, che il rapporto tra altezza del fabbricato e larghezza dello spazio pubblico o privato antistante debba essere pari a 1.
Il Permesso di Costruire rilasciato prevede la sopraelevazione del corpo del fabbricato prospiciente Via Marconi, che raggiunge un'altezza di oltre 11 metri.
La Via Marconi è larga circa 7 metri e, pertanto, l'altezza assentita supera la larghezza della strada, violando così il rapporto specificamente dettato dal Piano Regolatore Generale.
Il motivo di ricorso si rileva fondato.
E’ pacifico che l’edificio in questione ricada in zona A, in riferimento alla quale l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, prevede che per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale.
Il comma 3 del medesimo art. 9 prevede che “qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Al riguardo la maggiorazione della distanza fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza del fabbricato più alto prevista dal terzo comma dell'indicato art. 9 si applica negli stessi casi in cui sono prescritti i limiti di distanza indicati dal primo comma del medesimo articolo (Consiglio di Stato, sez. IV, 05.10.2015, n. 4628).
Da ciò si deduce che i limiti posti alle distanze degli edifici dal comma in questione si applicano anche alla zona A e nelle stesse ipotesi previste dal n. 1 del primo comma dell’art. 9.
Ciò comporta che le distanze in questione si applicano indipendentemente dalla presenza o meno di pareti finestrate, in quanto il punto n. 1 del primo comma dell’art. 9 si riferisce alle distanze tra edifici senza altre specificazioni.
Nel caso di specie la distanza intercorrente con l’edificio vicino è minore dei 14,88 metri corrispondenti all’altezza del fabbricato delle ricorrenti che risulta posizionato a 12,07 metri di distanza e non ha rilevanza, a tal fine, la circostanza che la parete da cui è stata misurata la distanza sia stata solo di recente dotata di aperture e che, quindi, non potesse essere considerata come parete finestrata.
La su indicata censura si rivela, pertanto, fondata.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del DM 02.04.1968 n. 1444, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
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La giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità.

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E' pacifica la giurisprudenza secondo cui direttamente precettive sono le norme in materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore.
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Proprio con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato:
   a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti;
   b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate;
   c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti;
   d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili.
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5. Col secondo motivo di entrambi gli appelli, sono censurate sotto plurimi profili le conclusioni del primo giudice, e in particolare quelle che hanno condotto alla disapplicazione delle disposizioni delle N.T.A. che consentivano l’edificazione fra pareti finestrate a distanza inferiore a quella stabilita dal più volte citato art. 9, d.m. nr. 1444/1968.
Anche queste censure sono prive di pregio.
5.1. Al riguardo, va innanzi tutto richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del citato decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali (cfr. Cass. civ., sez. II, 14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.02.2015, nr. 515).
5.2. Inoltre, va disattesa l’ulteriore censura, pure contenuta nell’appello del controinteressato in primo grado, secondo cui il potere di disapplicazione de quo non avrebbe potuto nella specie essere esercitato dal primo giudice, trattandosi di controversia avviata con ricorso straordinario e solo successivamente riassunta dinanzi al TAR.
La doglianza è manifestamente infondata, essendo altresì superfluo approfondire il tema dell’esistenza o meno di differenze fra i poteri esercitabili dall’organo decidente nella sede giudiziale e in quella straordinaria sotto il profilo che qui interessa, atteso che, una volta intervenuta la trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso straordinario, il giudice adìto era certamente titolare di tutti e gli stessi poteri che possono essere esercitati allorché il giudizio scaturisce da ordinario ricorso giurisdizionale, ivi compreso il potere di disapplicazione degli atti regolamentari o generali.
6. Infondata è poi la doglianza articolata col terzo motivo di impugnazione dell’originario controinteressato, non rispondendo al vero che il potere di disapplicazione suindicato non sarebbe stato esercitabile con riferimento ai rapporti interprivati quale è quello per cui è causa: al riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica giurisprudenza che direttamente precettive le norme in materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015, nr. 1951; id., 12.02.2013, nr. 844).
7. Con l’ultimo motivo di entrambi gli appelli, le parti istanti censurano nel merito l’interpretazione data dal primo giudice del disposto dell’art. 9, d.m. nr. 1444/1968, facendone rilevare l’inapplicabilità alla situazione che qui occupa, laddove i due edifici non avevano pareti finestrate direttamente frontistanti, vi era diversità di quote fra le aperture, e comunque era da escludersi la creazione di qualsivoglia intercapedine nociva o pericolosa per la salubrità pubblica.
Anche questi motivi vanno respinti, ponendosi essi in frontale contrasto con tutti i principali approdi della giurisprudenza in subiecta materia.
In particolare, proprio con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato:
   a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, nr. 856; id., 11.06.2015, nr. 2861; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 20.07.2011, nr. 4374);
   b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id., 09.10.2012, nr. 5253);
   c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti (cfr. Cons. Stato, 27.10.2011, nr. 5759);
   d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.12.2012, nr. 6489; id., sez. IV, 09.05.2011, nr. 2749; id., 05.12.2005, nr. 6909).
8. In conclusione, alla stregua dei superiori rilievi s’impone una decisione di reiezione degli appelli, con la conferma integrale della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.08.2016 n. 3522 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Va richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del DM 1444/1968, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico, risulta condivisibilmente superato il precedente indirizzo contrario, il quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, la giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità.

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Pacifica giurisprudenza ritiene direttamente precettive le norme in materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore.
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Con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato:
   a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti;
   b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate;
   c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti;
   d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili.
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5.1. Al riguardo, va innanzi tutto richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del citato decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali (cfr. Cass. civ., sez. II, 14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico, risulta condivisibilmente superato il precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.02.2015, nr. 515).
...
6. Infondata è poi la doglianza articolata col terzo motivo di impugnazione dell’originario controinteressato, non rispondendo al vero che il potere di disapplicazione suindicato non sarebbe stato esercitabile con riferimento ai rapporti interprivati quale è quello per cui è causa: al riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica giurisprudenza che ritiene direttamente precettive le norme in materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015, nr. 1951; id., 12.02.2013, nr. 844).
7. Con l’ultimo motivo di entrambi gli appelli, le parti istanti censurano nel merito l’interpretazione data dal primo giudice del disposto dell’art. 9, d.m. nr. 1444/1968, facendone rilevare l’inapplicabilità alla situazione che qui occupa, laddove i due edifici non avevano pareti finestrate direttamente frontistanti, vi era diversità di quote fra le aperture, e comunque era da escludersi la creazione di qualsivoglia intercapedine nociva o pericolosa per la salubrità pubblica.
Anche questi motivi vanno respinti, ponendosi essi in frontale contrasto con tutti i principali approdi della giurisprudenza in subiecta materia.
In particolare, proprio con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato:
a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, nr. 856; id., 11.06.2015, nr. 2861; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 20.07.2011, nr. 4374);
b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id., 09.10.2012, nr. 5253);
c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti (cfr. Cons. Stato, 27.10.2011, nr. 5759);
d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.12.2012, nr. 6489; id., sez. IV, 09.05.2011, nr. 2749; id., 05.12.2005, nr. 6909) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.08.2016 n. 3522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2016

EDILIZIA PRIVATA: «Lo strumento urbanistico comunale, nel disciplinare il territorio individuando le zone territoriali omogenee di cui all'art. 2 del d.m. 02.04.1968 n. 1968, deve osservare le prescrizioni in materia di distanze minime tra fabbricati previste per ciascuna delle dette zone dal primo comma dell'art. 9 del medesimo decreto ministeriale, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva»;
  
«Sussiste violazione delle prescrizioni dettate in materia di distanze minime tra fabbricati dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 sia qualora il regolamento locale preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte sia qualora il detto regolamento non preveda alcuna distanza tra fabbricati relativamente ad una o più zone territoriali omogenee dal medesimo individuate. In tali casi, si determinerà l'inserzione automatica, nello strumento urbanistico, della disciplina dettata dal detto art. 9 e tale disciplina si sostituirà ipso iure alle disposizioni regolamentari illegittime, divenendo così parte integrante del regolamento comunale e immediatamente operante —in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 cod. civ.— anche nei rapporti fra privati. In tal caso, non potranno trovare applicazione né i criteri stabiliti dall'art. 873, né quelli di cui all'art. 17 primo comma legge n. 765 del 1967»;
  
«Quando lo strumento urbanistico comunale prevede un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, a tutela del carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale di una parte del territorio, tale vincolo, per la sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a regolare, ha —per sua natura— carattere inderogabile e non è soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in forza delle diverse previsioni di uno strumento urbanistico successivo».
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3. — Col terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte di Appello escluso che il convenuto avesse edificato le proprie fabbriche in violazione delle distanze legali (se non per un tratto di metri 1,5, con riferimento alla distanza di metri tre prevista dall'art. 873 cod. civ., ritenuto applicabile nella specie). In particolare, si deduce che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere applicabile solo la distanza prescritta dall'art. 873 cod. civ. e non quella di cui all'art. 17 primo comma della c.d. legge-ponte.
Secondo il ricorrente, infatti, una volta scaduto il vincolo di inedificabilità gravante sull'area e non avendo lo strumento urbanistico disciplinato in quella zona la distanza tra le costruzioni, avrebbe dovuto farsi applicazione della disciplina sulle distanze di cui al detto art. 17 della legge-ponte (per il quale "la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire").
Questa censura è fondata nei termini che seguono.
La Corte territoriale, nel confermare la sentenza di primo grado sul punto, ha osservato che l'immobile del convenuto è sottoposto a vincolo di inedificabilità assoluta imposto dal P.R.G. del Comune di Capri. Secondo i giudici di appello, tale vincolo previsto dallo strumento urbanistico, vietando ogni nuova costruzione, non costituirebbe una norma integrativa della disciplina delle distanze dettata dal codice civile; per di più, nella specie, il suddetto vincolo sarebbe venuto meno per scadenza quinquennale, cosicché la zona si troverebbe priva di disciplina urbanistica. In tale situazione, non potendosi fare applicazione dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967 in ragione della mancata adozione di un provvedimento integrativo del P.R.G. che consenta l'edificazione nella zona precedentemente assoggettata a vincolo di inedificabilità, non resterebbe che fare applicazione della disciplina residuale sulle distanze dettata dall'art. 873 cod. civ..
La sentenza impugnata muove da una errata interpretazione delle norme richiamate e della disciplina applicabile alla fattispecie. Premesso che gli immobili delle parti risultano sottoposti —da parte dello strumento urbanistico del comune di Capri— ad un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, si tratta di esaminare la natura di tale vincolo e le sue implicazioni giuridiche.
Va rammentato che questa Corte suprema ha recentemente affermato che,
qualora lo strumento urbanistico vieti ogni attività costruttiva in una determinata zona e per essa non detti quindi alcuna prescrizione sulle distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono disciplinati dall'art. 873 cod. civ., ma dall'art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della legge n. 765 del 1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo residenziale, "la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire" (Sez. 2, Sentenza n. 26123 del 30/12/2015, Rv. 637977). Il principio appena richiamato, dettato con riferimento ad un caso in cui il vincolo di inedificabilità assoluta dipendeva dall'osservanza della fascia di rispetto delle aree cimiteriali prevista dall'art. 338 T.U. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265 (e non dall'esercizio di discrezionalità amministrativa da parte dell'ente comunale), non vale tuttavia quando —come nella specie— il vincolo di inedificabilità assoluta è previsto dallo strumento urbanistico comunale in relazione al particolare carattere storico e di pregio ambientale della zona territoriale individuata.
Com'è noto, il decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444 (dal titolo "Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati (...) da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765") ha definito le "zone territoriali omogenee" e gli standards urbanistici ai quali i Comuni devono attenersi in sede di approvazione o revisione degli strumenti urbanistici ai sensi dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765 (c.d. legge-ponte). In particolare, il d.m. 02.04.1968 n. 1444 limita la discrezionalità amministrativa degli enti locali, stabilendo il rapporto massimo tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali ovvero a quelli produttivi o commerciali e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive o a verde pubblico o a parcheggio (artt. 3, 4 e 5), i limiti di densità edilizia per ciascuna zona territoriale omogenea (art. 7), i limiti di altezza degli edifici (art. 8) e, infine, i limiti di distanza tra i fabbricati per ciascuna zona territoriale (art. 9). Trattasi di parametri "minimi" che gli strumenti urbanistici comunali emanati successivamente all'entrata in vigore del detto decreto ministeriale (17.04.1968) sono tenuti ad osservare, ma che gli enti locali possono derogare con la previsione di parametri più rigorosi.
Onde l'illegittimità dello strumento urbanistico che non osservi i parametri minimi dettati dal d.m. n. 1444 del 1968 e, invece, la legittimità dello strumento urbanistico che detti regole più severe.
Come hanno affermato le Sezioni unite di questa Corte suprema, il d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge urbanistica), ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Sez. U, Sentenza n. 14953 del 07/07/2011, Rv. 617949).
Con particolare riferimento alle norme che regolano le distanze tra costruzioni, deve perciò ritenersi che la disciplina sulle distanze dettata da uno strumento urbanistico comunale deve osservare le prescrizioni di cui al primo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che detta le distanze "minime" tra fabbricati per ciascuna zona territoriale omogenea; si tratta di una disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (Sez. 2, Sentenza n. 12424 del 20/05/2010, Rv. 613227), che —una volta recepita dallo strumento urbanistico o inserita automaticamente nello stesso— ha efficacia precettiva, in quanto norma integrativa dell'art. 873 cod. civ., anche nei rapporti tra privati.
Su quest'ultimo punto, non può sottacersi che questa Corte ha affermato il principio secondo cui
il d.m. 02.04.1968, nell'imporre all'art. 9 determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei rapporti tra i privati (cfr., ex plurimis, Sez. U, Sentenza n. 5889 del 01/07/1997, Rv. 505623). Tale principio, tuttavia, va inteso nel senso che il d.m. n. 1444 del 1968 è rivolto agli enti comunali, che devono farne applicazione nella redazione dei loro strumenti urbanistici, e non è direttamente applicabile nei rapporti tra privati senza la previa adozione —successiva all'entrata in vigore del detto decreto— di uno strumento urbanistico; va inteso, cioè, nel senso che le prescrizioni del decreto ministeriale divengono operanti solo a seguito dell'adozione dello strumento urbanistico comunale e, con esso, della individuazione delle relative zone territoriali omogenee.
Ciò tuttavia non esclude che, una volta che l'ente locale abbia adottato lo strumento urbanistico, qualora quest'ultimo contenga disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che violino i parametri minimi stabiliti dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, il giudice di merito è tenuto a disapplicare le disposizioni del regolamento comunale illegittime e ad applicare direttamente, anche nei rapporti tra privati, la disposizione del detto art. 9, la quale diviene, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima (Sez. U, Sentenza n. 14953 del 07/07/2011, Rv. 617949; Sez. U, Sentenza n. 20354 del 05/09/2013, non massimata; Sez. 2, Sentenza n. 27558 del 31/12/2014, Rv. 634110; Sez. 2, Sentenza n. 1282 del 24/01/2006, Rv. 586246).
In altre parole,
una volta adottato lo strumento urbanistico che individui le zone territoriali omogenee, ove tale strumento contenga disposizioni sulle distanze tra le costruzioni meno rigorose della disciplina dettata dall'art. 9 del citato d.m., quest'ultima disciplina si sostituisce ipso iure, per inserzione automatica, alle disposizioni regolamentari illegittime, divenendo così immediatamente operante anche nei rapporti fra privati (Sez. 2, Sentenza n. 1282 del 24/01/2006, Rv. 586246); ciò in quanto la previsione regolamentare integrata ex lege costituisce comunque norma integrativa della disciplina in materia di distanza nelle costruzioni dettata dal codice civile (art. 873 cod. civ.).
Sul punto, va precisato che
l'inserzione automatica della disciplina delle distanze dettata dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 nello strumento urbanistico comunale opera non solo quando lo strumento urbanistico stesso, individuando le zone territoriali omogenee, violi le distanze minime prescritte dallo stesso art. 9 per ciascuna zona territoriale, prevedendo una distanza inferiore a quella minima prescritta; ma opera anche quando lo strumento urbanistico, dopo aver individuato le zone territoriali omogenee, nulla preveda sulle distanze legali relativamente ad esse (o ad una di esse).
Invero,
poiché l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 impone agli enti locali di prevedere distanze minime per ciascuna zona omogenea, anche la mancata previsione delle distanze tra fabbricati costituisce senza dubbio violazione della previsione dell'art. 9. È agevole rilevare, d'altra parte, come sarebbe illogico ritenere sussistente la violazione dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 ove lo strumento urbanistico preveda una distanza inferiore a quella minima prescritta dalla legge e non ritenere, invece, la medesima violazione quando lo strumento urbanistico non preveda alcuna distanza affatto, incorrendo così in una più grave violazione della legge.
In definitiva,
ogni volta che lo strumento urbanistico pianifichi il territorio, qualificandolo secondo le zone territoriali omogenee come definite dal d.m. n. 1444 del 1968, diviene obbligatorio osservare le distanze minime prescritte dall'art. 9 del detto decreto ministeriale per ciascuna zona territoriale.
Qualora lo strumento urbanistico recepisca le prescrizioni in materia di distanze tra costruzioni dettate dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 ovvero stabilisca distanze più rigorose, si applicheranno le norme del regolamento comunale.
Qualora, invece, lo strumento urbanistico non osservi le prescrizioni del detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero in quanto non prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati, si determinerà l'inserzione automatica delle prescrizioni dell'art. 9 nello strumento urbanistico divenendo così tali prescrizioni —a mezzo dello strumento urbanistico del quale entrano a far parte— immediatamente applicabili anche ai rapporti tra privati.
Alla stregua di quanto sopra, va ritenuto che l'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 introdotto dall'art. 17 della c.d. legge-ponte —ora abrogato (ad esclusione dei commi 6, 8 e 9) dall'art. 136 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 ("Testo unico in materia di edilizia") con efficacia "dalla data di entrata in vigore del presente testo unico" e, quindi, soltanto per l'avvenire, rimanendo salva la sua applicazione e vigenza per il periodo anteriore (Sez. 2, Sentenza n. 24984 del 25/11/2011, Rv. 620145)— è applicabile solo nei comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione (come espressamente prevede lo stesso art. 17) ovvero, comunque, quando lo strumento urbanistico emanato prima della data di entrata in vigore del d.m. 02.04.1968 n. 1444 non detti una disciplina sulle distanze ovvero quando lo strumento urbanistico comunale, pur emanato successivamente a tale data, non consenta però l'inserzione automatica delle disposizioni sulle distanze legali di cui all'art. 9 del medesimo decreto per non avere individuato le zone territoriali omogenee in relazione alle quali le distanze minime sono dettate.
Quando invece esiste uno strumento urbanistico emanato successivamente all'entrata in vigore del d.m. n. 1444 del 1968 che, pur individuando le zone territoriali omogenee previste da tale decreto, non contenga però disposizioni espresse sulle distanze, opera l'inserzione automatica delle prescrizioni sulle distanze previste dall'art. 9 del detto d.m., cosicché va esclusa l'applicabilità dell'art. 17 della c.d. "legge ponte" del 06.08.1967, ti. 765.
In questi termini, va inteso il principio secondo cui
l'art. 17 della c.d. "legge ponte" del 06.08.1967 n. 765 è inapplicabile ogni volta che il regolamento edilizio non provveda sulle distanze (Sez. U, Sentenza n. 9871 del 22/11/1994, Rv. 488757); tale principio, infatti, trova il proprio limite logico nel fatto che le previsioni sulle distanze legali di cui all'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, ove non osservate dallo strumento urbanistico, si inseriscono automaticamente nel medesimo e, divenendo parte di esso, sono applicabili —quali norme integrative dell'art. 873 cod. civ.— anche nei rapporti tra privati.
Ciò premesso, tornando all'esame della fattispecie per cui è causa, va  osservato che, quando —come nella specie— lo strumento urbanistico comunale impone —a tutela del carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale di una parte del territorio— un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, tale vincolo, per la sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a regolare, ha —per sua natura— carattere inderogabile e non è soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in forza delle diverse previsioni di uno strumento urbanistico successivo.
Sono soggetti, infatti, a scadenza quinquennale quei vincoli che sono preordinati all'esproprio e alla programmata realizzazione di opere pubbliche; mentre i vincoli che sono espressione del potere conformativo del territorio —che si manifesta con la regolamentazione urbanistica contenuta nel piano regolatore generale e con la concreta disciplina dell'attività edilizia— hanno validità a tempo indeterminato (cfr. C.d.S., Sez. 4, Sentenza n. 4812 del 25/08/2003; C.d.S., Sez. 5, Sentenza n. 451 del 22/03/1995).
La natura conformativa del vincolo di inedificabilità assoluta esclude, pertanto, che esso possa venir meno per il decorso del tempo.
Ha errato, perciò, la Corte territoriale a ritenere che, nella specie, il vincolo di inedificabilità era scaduto. La Corte di Napoli avrebbe dovuto invece, ritenere la permanente vigenza del vincolo di inedificabilità previsto dallo strumento urbanistico; e, ritenuta la vigenza di tale vincolo, avrebbe dovuto verificare se gli immobili delle parti ricadevano nella zona territoriale A) dello strumento urbanistico comunale (come il vincolo di inedificabilità assoluta lascia supporre), zona nella quale il d.m. 02.04.1968 n. 1444 —che vi inquadra quelle "parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale" (art. 2 dello stesso decreto)— consente esclusivamente interventi di risanamento conservativo, senza incremento delle densità edilizia di zona e territoriale preesistenti (art. 7), stabilendo che «le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti» (art. 9).
La sentenza impugnata va, perciò, cassata con rinvio sul punto, affinché altra sezione della Corte di Appello di Napoli provveda ad accertare se gli immobili delle parti ricadono nella zona territoriale omogenea A) dello strumento urbanistico comunale e, nel caso positivo, se tale strumento abbia recepito, o meno, il disposto dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444; tenendo in ogni caso conto che, nel caso di mancata ricezione delle prescrizioni del detto decreto, vi è inserzione automatica delle distanze minime prescritte dal detto art. 9 in relazione alla zona territoriale omogenea individuata; non potendo in tal modo trovare comunque applicazione, in materia di distanze legali, né il criterio stabilito dall'art. 873, né quello di cui all'art. 17, primo comma, legge n. 765 del 1967.
Nel riesaminare la fattispecie, la Corte di rinvio si conformerà ai seguenti principi di diritto:
  
«Lo strumento urbanistico comunale, nel disciplinare il territorio individuando le zone territoriali omogenee di cui all'art. 2 del d.m. 02.04.1968 n. 1968, deve osservare le prescrizioni in materia di distanze minime tra fabbricati previste per ciascuna delle dette zone dal primo comma dell'art. 9 del medesimo decreto ministeriale, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva»;
  
«Sussiste violazione delle prescrizioni dettate in materia di distanze minime tra fabbricati dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 sia qualora il regolamento locale preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte sia qualora il detto regolamento non preveda alcuna distanza tra fabbricati relativamente ad una o più zone territoriali omogenee dal medesimo individuate. In tali casi, si determinerà l'inserzione automatica, nello strumento urbanistico, della disciplina dettata dal detto art. 9 e tale disciplina si sostituirà ipso iure alle disposizioni regolamentari illegittime, divenendo così parte integrante del regolamento comunale e immediatamente operante —in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 cod. civ.— anche nei rapporti fra privati. In tal caso, non potranno trovare applicazione né i criteri stabiliti dall'art. 873, né quelli di cui all'art. 17 primo comma legge n. 765 del 1967»;
  
«Quando lo strumento urbanistico comunale prevede un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, a tutela del carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale di una parte del territorio, tale vincolo, per la sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a regolare, ha —per sua natura— carattere inderogabile e non è soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in forza delle diverse previsioni di uno strumento urbanistico successivo» (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 26.07.2016 n. 15458).

EDILIZIA PRIVATA: Qualora lo strumento urbanistico vieti ogni attività costruttiva in una determinata zona e per essa non dia quindi alcuna prescrizione sulle distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono disciplinati dall'art. 873 cod. civ., ma dall'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della legge n. 765 del 1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo residenziale, la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire.
Va ancora considerato che il decreto n. 1444 del 1968, dettato in tema di standards urbanistici e di definizione delle zone territoriali omogenee, ai quali i Comuni devono attenersi in sede di approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, ai sensi dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967, consente nelle zone A) -di carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale, come definite dall'art. 2 del citato decreto- esclusivamente interventi di risanamento conservativo senza incremento delle densità edilizia di zona e territoriale preesistenti (art. 7), prevedendo che le distanze fra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti (art. 9).
In sostanza, essendo imposto un vincolo conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del territorio -non temporaneo e, come tale, non caducabile- il mancato rispetto del divieto di nuove costruzioni nella zona A non è privo di conseguenze sul piano della violazione delle disposizioni concernenti le distanze legali tra costruzioni, che devono rimanere quelle preesistenti: la norma regolamentare ha efficacia precettiva nei rapporti privatistici, essendo integrativa delle disposizioni dettate dall'art. 873 cod. civ..
Pertanto, qualora il regolamento locale prescriva che nelle zone territoriali A) di interesse storico, artistico, culturale sono consentite esclusivamente opere di consolidamento o restauro con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, la norma, nel recepire le disposizioni di cui al decreto n. 1444 del 1968, stabilisce un vincolo di inedificabilità assoluta, dettando in sostanza la disciplina in materia di distanze legali da osservare, che sono determinate con riferimento a quelle intercorrenti fra gli edifici preesistenti nella relativa zona; quindi, non possono trovare applicazione i criteri stabiliti dall'art. 873 cod. civ. né quelli di cui all'art. 17, primo comma, legge n. 765 del 1967.
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1. Il primo motivo deduce che con il primo motivo di appello esso ricorrente aveva invocato l'applicabilità dell'art. 17 legge n. 765 del 1967, dando per presupposto che il Comune di Maiori fosse sprovvisto all'epoca di strumento urbanistico contenente norme regolatrici dei distacchi fra costruzioni. Evidenzia che era compito del giudice del merito individuare lo strumento urbanistico in vigore, censurando la sentenza impugnata laddove si era limitata a riportare alcuni brani della relazione del ctu, affermando che dalla stessa si desumeva che i luoghi in questione si trovavano in zona di interesse storico-ambientale da sottoporre a particolare tutela, nella quale sarebbero stati consentiti interventi di restauro e di rifacimento di vecchie strutture che non avessero comportato alterazione delle sagome volumetriche preesistenti; i Giudici, quindi, avevano affermato che la zona era gravata da un vincolo di inedificabilità assoluta, facendo riferimento a quanto apoditticamente affermato dal consulente di ufficio senza peraltro verificare e neppure indicare la fonte normativa regolamentare che aveva ritenuto di applicare.
2. Il secondo motivo deduce che la riduzione in pristino e prevista per quelle violazioni di prescrizioni urbanistiche dettate in materia di distanze legali, come tali integrative della norma dettata dall'art. 873 cod. civ., ma non di quelle disposizioni del presunto P.R.G dettate a tutela di interessi generali, urbanistici, quali la limitazione del volume, dell'altezza, della densità degli edifici ecc. ovvero che consentano, per ragioni di interesse storico ambientale, solo restauri e rifacimenti delle vecchie strutture senza alterazione di volumi preesistenti, trattandosi di disciplina che non riguarda i rapporti privatistici.
3. Il terzo motivo censura la sentenza laddove aveva erroneamente ritenuto che il citato art. 17 legge n. 765 del 1967 trova applicazione nel caso in cui lo strumento urbanistico consente la costruzione ma non disciplina la materia delle distanze delle costruzioni.
4. I motivi -che, per la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente- sono infondati, anche se deve essere corretta la motivazione della sentenza impugnata.
Occorre chiarire che, secondo la giurisprudenza di legittimità, qualora lo strumento urbanistico vieti ogni attività costruttiva in una determinata zona e per essa non dia quindi alcuna prescrizione sulle distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono disciplinati dall'art. 873 cod. civ., ma dall'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della legge n. 765 del 1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo residenziale, la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire (Cass. 26123/2015).
Va ancora considerato che il decreto n. 1444 del 1968, dettato in tema di standards urbanistici e di definizione delle zone territoriali omogenee, ai quali i Comuni devono attenersi in sede di approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, ai sensi dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967, consente nelle zone A) -di carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale, come definite dall'art. 2 del citato decreto- esclusivamente interventi di risanamento conservativo senza incremento delle densità edilizia di zona e territoriale preesistenti (art. 7), prevedendo che le distanze fra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti (art. 9).
In sostanza, essendo imposto un vincolo conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del territorio -non temporaneo e, come tale, non caducabile- il mancato rispetto del divieto di nuove costruzioni nella zona A non è privo di conseguenze sul piano della violazione delle disposizioni concernenti le distanze legali tra costruzioni, che devono rimanere quelle preesistenti (Cass. 1282/2006; S.U. 20354/2013): la norma regolamentare ha efficacia precettiva nei rapporti privatistici, essendo integrativa delle disposizioni dettate dall'art. 873 cod. civ..
Pertanto, qualora il regolamento locale prescriva che nelle zone territoriali A) di interesse storico, artistico, culturale sono consentite esclusivamente opere di consolidamento o restauro con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, la norma, nel recepire le disposizioni di cui al decreto n. 1444 del 1968, stabilisce un vincolo di inedificabilità assoluta, dettando in sostanza la disciplina in materia di distanze legali da osservare, che sono determinate con riferimento a quelle intercorrenti fra gli edifici preesistenti nella relativa zona; quindi, non possono trovare applicazione i criteri stabiliti dall'art. 873 cod. civ. né quelli di cui all'art. 17, primo comma, legge n. 765 del 1967.
Orbene, va considerato che:
   a) dalla sentenza impugnata non risulta che abbiano formato oggetto di specifica censura con l'appello gli accertamenti compiuti dal tribunale circa la ubicazione degli immobili nella zona A) del regolamento edilizio del Comune di Maiori e il vincolo di inedificabilità ad essa relativo, posto che evidentemente sarebbe stato onere del ricorrente riportare i motivi del gravame comprovanti la formulazione di specifiche censure formulate con l'atto di appello per contrastare le argomentazioni della decisione di primo grado (S.U. 23299/2011; Cass. 1651/2014; Ord. 18704/2015);
   b) si è, comunque, rivelata generica la denunciata violazione di legge con riferimento alla inesistenza dello strumento urbanistico, invece accertata dai Giudici, senza che peraltro siano riportati i passi salienti della consulenza tecnica alla quale ha fatto riferimento la Corte di appello (ne vengono estrapolati dei brani); pertanto, per le considerazioni sopra formulate, deve ritenersi che è stata correttamente esclusa la invocata applicabilità dell'art. 17 legge n. 765 del 1967, mentre si sono rivelati erronei i riferimenti compiuti dalla sentenza impugnata alle distanze previste dall'art. 873 cod. civ. (ciò dicasi, peraltro, nei limiti del sindacato consentito alla Cassazione dalla impugnazione proposta con il ricorso, che evidentemente non potrebbe portare a una decisione più sfavorevole al ricorrente) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.07.2016 n. 14552).

maggio 2016

EDILIZIA PRIVATADistanze tra edifici, la «prevenzione» vince il regolamento edilizio. Sezioni unite. Bocciata l’incompatibilità.
Non vi è alcun motivo di negare a chi costruisce per primo, anche in presenza di norme dei regolamenti edilizi che fissino distanze tra le costruzioni diverse da quelle stabilite dal Codice civile, la possibilità di avvalersi delle facoltà connesse al principio della “prevenzione”. Cioè di decidere se costruire sul confine o a distanza dal confine stesso. Questo, anche se i regolamenti locali prevedano solo una distanza tra costruzioni maggiore da quella stabilità dal Codice civile senza però stabilire espressamente anche una distanza minima dal confine.
Questo il principio fissato dalle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 19.05.2016 n. 10318 per porre fine al contrasto esistente tra varie sentenze in merito alla incompatibilità, o meno, del principio della prevenzione con la disciplina delle distanze.
La rilevanza del caso consiste nel fatto che chi costruisce per primo, ovviamente, potendo decidere dove costruire (sul confine o no) finisce per condizionare le possibilità di costruire del vicino, il quale a seconda della scelta operata dal “primo arrivato” si troverà costretto a decidere tra: costruire in aderenza (articolo 877 del Codice civile), chiedere la comunione forzosa del muro sul confine (articolo 874) oppure costruire arretrando il suo edificio in misura pari all’intero «distacco legale».
Il caso esaminato della Sezioni Unite nasceva dalla domanda di arretramento proposta da un proprietario nei confronti del fabbricato del confinante in quanto non rispettoso dei limiti di distanza tra edifici fissati dalla legge 765/1967. La sentenza del Tribunale di Nola stabiliva che si debba applicare non il termine sulla distanza indicato dalla legge 765/1967 ma quello di otto metri previsto viceversa dal regolamento edilizio del Comune (in questo caso quello di Ottaviano).
La Corte d’appello di Napoli riteneva invece che a dover essere arretrato fosse l’edificio del proprietario che aveva avviato la causa in quanto, come era risultato dalla istruttoria del procedimento, era stato costruito “per secondo”. Ma la vicenda andava avanti (ormai sono passati 26 anni!) sino in Cassazione, per poi ritornarvi in quanto il ricorrente sosteneva, appunto, l’inapplicabilità del principio della prevenzione in presenza di norme regolamentari che imponevano distanze differenti da quelle previste dal Codice civile. Così la vicenda veniva affrontata per la seconda volta dalla Cassazione, dove la Sezione II investiva della faccenda le Sezioni unite, ravvisando un contrasto interno alla stessa Sezione
Le Sezioni Unite hanno così chiarito come non vi sia alcuna incompatibilità del principio di prevenzione con la disciplina delle distanze di cui alla legge 765/1967
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2016).
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MASSIMA
1) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli arti. 873 e 875 cod. civ., nonché dell'art. 26 del regolamento edilizio del comune di Ottaviano.
Deducono che la Corte di Appello, dopo aver correttamente ritenuto l'applicabilità della norma di cui all'art. 26 del regolamento edilizio del Comune di Ottaviano, che impone un distacco di metri otto tra le costruzioni, ha erroneamente ritenuto applicabile alla fattispecie il criterio della prevenzione previsto dagli artt. 873 e 875 cod. civ., e supposto la priorità nel tempo della costruzione Del Giudice rispetto a quella del Guerriero.
Sostengono che, in materia di distanze fra fabbricati o di questi dal confine, stabilite dai regolamenti locali in misura maggiore di quella prevista dal codice civile, il principio della prevenzione trova applicazione solo ove lo strumento urbanistico consenta anche le costruzioni in appoggio o in aderenza, e colui che fabbrica per primo costruisca sul confine o a distanza regolamentare da questo.
Deducono che, al contrario, tale criterio non può mai trovare applicazione, consenta o meno lo strumento urbanistico le costruzioni in appoggio o in aderenza, allorché colui che fabbrica per primo costruisca a distanza dal confine inferiore a quella stabilita dal regolamento, avendo la norma locale che consente costruzioni sul confine la funzione di ripartire in maniera paritetica tra i costruttori confinanti la distanza dal confine, ovvero di eliminarla, ma sempre in modo paritetico, cioè con costruzioni in aderenza od in appoggio erette sulla linea di confine.
Rilevano, pertanto, che, poiché la Del Giudice ha eretto la sua costruzione a meno di quattro metri dal confine (distanza pari alla metà di quella minima prescritta fra edifici), nella specie, indipendentemente dal fatto che il regolamento locale preveda o meno la costruzione sul confine, è da escludere l'applicabilità del criterio della prevenzione.
Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano l'omessa o insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi, per avere la Corte di Appello ritenuto applicabile il criterio della prevenzione senza indagare se lo strumento urbanistico locale preveda o meno la facoltà per i proprietari confinanti di costruire in aderenza o in appoggio, e senza rilevare che la Del Gi., come accertato dal C.T.U., ha eretto il suo fabbricato a distanza dal confine inferiore a quella di metri quattro prescritta a suo carico dall'art. 26 del regolamento edilizio comunale.
...
2)
Queste Sezioni Unite sono state chiamate a comporre il contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità sulla questione -oggetto dei primi due motivi di ricorso- dell'applicabilità o meno del principio di prevenzione nell'ipotesi in cui le disposizioni di un regolamento edilizio locale prevedano esclusivamente una distanza tra fabbricati maggiore di quella codicistica, senza imporre altresì il rispetto di una distanza minima delle costruzioni dal confine.
L'ordinanza interlocutoria del 23.01.2009 della Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione ha preso le mosse dal principio di diritto enunciato da Cass. n. 13338/2006 nella precedente fase di legittimità, secondo cui le limitazioni previste dall'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dalla l. n. 765 del 1967, art. 17, riguardanti la distanza tra edifici vicini nei Comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione, si estendono anche ai Comuni dotati di regolamento edilizio, se questo è privo di norme disciplinanti i distacchi tra costruzioni; laddove, qualora il regolamento edilizio contenga tali norme e sia stato approvato anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 765 del 1967, prevalgono le norme locali.
Tale è il caso del Comune di Ottaviano, munito di un regolamento edilizio approvato in epoca anteriore all'entrata in vigore della c.d. "legge ponte", il quale all'art. 26 contiene una regolamentazione specifica nella suddetta materia, ponendo un divieto di spazi vuoti inferiori a otto metri "tra casa e casa".
La Seconda Sezione ha rilevato che il giudice del rinvio, nel riesaminare —alla luce del principio di diritto affermato nella sentenza di cassazione- la controversia alla stregua delle previsioni del regolamento edilizio locale, ha disposto l'arretramento del fabbricato del Guerriero a otto metri (invece che a quella di dodici metri stabilita nella sentenza cassata sulla base del disposto del citato art. 17 della c.d. legge ponte) da quello dell'attrice, affermando che, contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti, la documentazione in atti comprovava che era stata la Del Giudice a costruire per prima e a dover essere considerata, pertanto, "preveniente" rispetto al convenuto.
Ha, quindi, osservato che, avendo i ricorrenti censurato l'accertamento della prevenzione, occorreva soffermarsi sul relativo presupposto.
2.1) Nell'ordinanza di rimessione è stato dato atto del concorde orientamento della giurisprudenza di legittimità circa l'inoperatività del criterio della prevenzione allorquando la disciplina regolamentare imponga il rispetto di una distanza inderogabile delle costruzioni dai confini (cfr. Cass. n. 23693/2014, 18728/2005, 627/2003, 12561/2002, 4895/2002, 4366/2001, 10600/1999, 4438/1997, 3737/1994, 7747/1990 e 4737/1987, tutte precedute dall'incipit di S.U. n. 2846/1967).
La Seconda Sezione, al contrario, ha rilevato un contrasto interno alla stessa Sezione per l'ipotesi in cui le disposizioni locali prevedano solo una distanza minima tra costruzioni maggiore di quella codicistica, senza nulla disporre espressamente riguardo alla distanza delle costruzioni dal confine.
L'ordinanza interlocutoria ha richiamato, al riguardo, un primo indirizzo, secondo cui, nel caso in cui il regolamento edilizio determini solo la distanza minima fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione circa il distacco delle stesse dal confine, il principio della prevenzione deve ritenersi operativo, non ostandovi alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine (Cass. 05.12.2007 n. 25401; Cass. 20.04.2005 n. 8283; Cass. 01.06.1993 n. 6101; Cass. 16.05.1991 n. 5474; Cass. 07.06.1988 n. 3859; Cass. 20.11.1987 n. 8543 e Cass. 24.06.1983 n. 4352).
Ha rilevato che, invece, in base ad un diverso orientamento, allorquando i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, detta prescrizione deve intendersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, dell'operatività del cosiddetto criterio della prevenzione (Cass. 22.02.2007 n. 4199; Cass. 19.07.2006 n. 16574; Cass. 01.07.1996 n. 5953; Cass. 28.040.1992 n. 5062; Cass. 10.10.1984 n. 5055; Cass. 29.06.1981 n. 4246).
Ha accennato, inoltre, alla posizione intermedia assunta da altra pronuncia (Cass. 16.02.1999 n. 1282), la quale, pur affermando che la prevenzione non opera ove i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile -detta prescrizione dovendosi intendere comprensiva di un implicito riferimento al confine-, precisa che il metodo di misurazione dei distacchi -metà della distanza dal confine per ciascun proprietario- non è incompatibile con la previsione della facoltà di edificare sul confine ove lo spazio antistante sia libero fino alla distanza prescritta, oppure in aderenza o in appoggio a costruzioni preesistenti, con conseguente applicabilità del criterio della prevenzione.
Nell'ordinanza interlocutoria è stata poi richiamata una risalente pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte, nella quale è stato affermato che, nel caso di norma regolamentare che determini la distanza fra costruzioni non dal confine, ma in via assoluta, commisurandola alla maggiore altezza di uno dei corpi di fabbrica, rimane esclusa la possibilità di costruire sul confine e l'applicabilità del criterio di prevenzione, onde colui che costruisce per primo deve osservare, rispetto al confine, una distanza pari alla metà dell'altezza dell'erigendo fabbricato (Cass. Sez. Un. 27.11.1974 n. 3873).
La stessa ordinanza ha segnalato, peraltro, una più recente pronuncia delle Sezioni Unite, che ha affrontato, risolvendolo in senso affermativo, il problema della compatibilità del principio codicistico della prevenzione con la disciplina sulle distanze tra fabbricati vicini dettata dall'art. 41-quinquies, primo comma, lettera c), della legge 17.08.1942 n. 1150 (aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765), traendone la conseguenza che, quando il fabbricato del preveniente si trovi ad una distanza dal confine inferiore alla metà del distacco tra fabbricati prescritto dalla citata norma speciale, il prevenuto ha, ai sensi dell'art. 875 cod. civ., la facoltà di chiedere la comunione forzosa del muro allo scopo di costruirvi contro (Cass. Sez. Un. 01.08.2002 n. 11489).
2.2) Prima di affrontare la questione rimessa a queste Sezioni Unite,
occorre rammentare che, nel sistema delineato dagli artt. 873 ss. cod. civ., il principio della prevenzione comporta che il confinante che costruisce per primo viene a condizionare la scelta del vicino che voglia a sua volta costruire. Al preveniente, invero, è offerta una triplice facoltà, potendo egli edificare sia rispettando, una distanza dal confine pari alla metà di quella imposta dal codice, sia sul confine, sia ad una distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta.
A fronte alla scelta operata dal preveniente, il vicino che costruisce successivamente, nel primo caso, deve costruire anch'esso ad una distanza dal confine pari alla metà di quella prevista, in modo da rispettare il prescritto distacco legale dalla preesistente costruzione. Nel secondo caso, il prevenuto può chiedere la comunione forzosa del muro sul confine (art. 874 cod. civ.) o realizzare la propria fabbrica in aderenza allo stesso (art. 877, primo comma, cod. civ.); ove non intenda costruire sul confine, è tenuto ad arretrare il suo edificio in misura pari all'intero distacco legale. Nella terza ipotesi considerata, il prevenuto può chiedere la comunione forzosa del muro e avanzare la propria fabbrica fino ad esso, occupando lo spazio intermedio, dopo avere interpellato il proprietario se preferisca estendere il muro a confine o procedere alla sua demolizione (art. 875 cod. civ.); in alternativa, può costruire in aderenza (art. 877, secondo comma, cod. civ.) o rispettando il distacco legale dalla costruzione del preveniente.

Così sinteticamente riassunto il meccanismo della prevenzione, va precisato che esula dal quesito posto nell'ordinanza interlocutoria l'ipotesi dei regolamenti locali che, pur imponendo una distanza assoluta tra fabbricati, prevedano espressamente la possibilità di costruire sul confine, ovvero di costruire in appoggio o in aderenza. In una simile evenienza, infatti, è la stessa fonte regolamentare a sancire direttamente, senza necessità di alcuno sforzo interpretativo, l'operatività della regola della prevenzione prevista dal codice civile, con le relative implicazioni riguardo alle facoltà rispettivamente spettanti al preveniente e al prevenuto.
La questione rimessa alle Sezioni Unite, inoltre, si riferisce specificamente alla ipotesi dei regolamenti locali che, come quello in esame, stabiliscano una distanza minima dal confine in una misura fissa, non anche a quella dei regolamenti che prescrivano una distanza minima dal confine non predeterminata, ma commisurata all'altezza di una delle costruzioni.
Ipotesi, quest'ultima, per la quale può farsi riferimento alle indicazioni fornite dalle Sezioni Unite nella menzionata pronuncia n. 11489/2002 in relazione all'analoga previsione di cui alla c.d. legge ponte, per la quale è stata ritenuta -in mancanza di dati di segno contrario emergenti da specifiche disposizioni regolamentari- l'operatività del principio di prevenzione.
2.3) Così delimitato il campo di indagine, si osserva che i precedenti favorevoli all'applicabilità del criterio della prevenzione, citati nell'ordinanza di rimessione, si fondano essenzialmente sul rilievo della natura integrativa dei regolamenti edilizi con riferimento alle previsioni codicistiche in materia di distanze, che comprendono il criterio della prevenzione.
In questo senso, in particolare, le sentenze 07.06.1988 n. 3859 e 16.05.1991 n. 5474 affermano che "
le norme dei regolamenti comunali edilizi che fissano le distanze nelle costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal codice civile sono, per l'espresso disposto dell'art. 873 cod. civ., integrative del codice medesimo, il quale, rinviando ai regolamenti locali per tutto ciò che concerne le distanze nelle costruzioni, comprende tutta la disciplina predisposta da quelle fonti. Ne deriva che le norme dei regolamenti edilizi che si limitino a stabilire una distanza nelle costruzioni superiore a quella del codice civile, senza prescrivere tale distanza in rapporto al confine, non implicano il divieto di costruire in appoggio o in aderenza, ricorrendone i presupposti ai sensi degli artt. 874, 875, 877 cod. civ., e, di conseguenza, non incidono sull'esercizio del diritto di prevenzione, la cui operatività non esige un'espressa previsione ad opera delle norme regolamentari".
Dello stesso tenore la sentenza 01.07.1993 n. 6101, nella quale si afferma che "
le norme dei regolamenti comunali che fissano le distanze nelle costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal codice civile.., hanno natura di norme integrative dell'art. 873 cod. civ. e con esse trova, perciò, applicazione anche il regime del codice civile in tema di distanze nelle costruzioni in fondi finitimi, fra cui quello della prevenzione, che vieta al costruttore prevenuto il quale non possa o non voglia costruire in appoggio o in aderenza, di creare un distacco minore di quello corrispondente all'altezza che ha il suo edificio sul lato fronteggiante il fondo del vicino".
Le successive pronunce citate nell'ordinanza interlocutoria si rifanno sostanzialmente ai medesimi argomenti.
Così, la sentenza del 05.12.2007 n. 25401 si limita ad osservare che "
costituisce principio di diritto ormai consolidato in giurisprudenza di legittimità che il diritto del proprietario confinante di costruire in aderenza al confine non sussiste quando i regolamenti locali fissano solo la distanza minima delle costruzioni dal confine, ritenendosi in questo caso che l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come lo è il corrispondente divieto di costruire sul confine. Nel caso, invece, che il regolamento edilizio fissi solo la distanza fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione circa il distacco delle costruzioni dal confine, il principio della prevenzione deve ritenersi in vigore perché la sua operatività non è ostacolata da alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine".
Analoghe considerazioni vengono svolte nella sentenza 20.04.2005 n. 8283.
Non appaiono, invece, particolarmente significative ai fini della soluzione della questione che qui rileva le due ulteriori —e più risalenti- pronunce citate nell'ordinanza interlocutoria (Cass. 20.11.1987 n. 8543 e Cass. 24.06.983 n. 4352), le quali si riferiscono a regolamenti comunali che prevedevano espressamente la possibilità di edificare in aderenza, rendendo per ciò solo salvo il criterio della prevenzione.
L'opzione interpretativa in esame trova un autorevole conforto nella citata decisione a Sezioni Unite n. 11489 del 2002, nella cui motivazione è stata richiamata e ritenuta condivisibile la "
consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte in sede di applicazione dei regolamenti locali che non prescrivono distanze dei fabbricati dai confini, limitandosi a stabilire distacchi tra i fabbricati"; giurisprudenza che, secondo le Sezioni Unite, ha "correttamente" ritenuto che "solo in presenza di una norma regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine si ponga l'esigenza di un'equa ripartizione tra proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione, con la conseguente possibilità, per il prevenuto, di costruire in aderenza alla fabbrica costruita per prima, se questa sia stata posta sul confine od a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra fabbricati".
2.4) Le pronunce menzionate nell'ordinanza di rimessione a sostegno della tesi contraria all'operatività del criterio della prevenzione fanno perno essenzialmente sul rilievo secondo cui l'assolutezza del distacco previsto dai regolamenti locali non può ripercuotersi in danno di uno solo dei confinanti, ma va equamente ripartita tra le parti interessate.
In tal senso, si legge nella sentenza 22.02.2007 n. 4199 che, "quando i regolamenti edilizi prevedano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prescritta dal codice civile senza un riferimento esplicito al confine . la prevista assolutezza della distanza, rapportata ad un'equa ripartizione del relativo onere, è da ritenersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, della operatività del principio della prevenzione".
Dello stesso tenore appaiono le sentenze 29..06.1981 n. 4246 e 10.10.1984 n. 5055.
Non offrono, invece, particolari spunti le ulteriori pronunce menzionate.
La sentenza 28.04.1992 n. 5062 muove, infatti, dall'analisi della disciplina regolamentare applicabile in concreto, ove era prescritta una distanza minima assoluta fra edifici, con la possibilità, peraltro, di costruire in aderenza per una certa categoria di costruzioni; dal che la Corte, con un'opzione ermeneutica circoscritta allo specifico regolamento edilizio, ha desunto che nella generalità dei casi fosse stabilita un'implicita distanza dal confine in misura pari alla metà di quella fra edifici.
La sentenza 19.07.2006 n. 16574 si riferisce, poi, ad un regolamento locale che, seppure stabilendola in rapporto all'altezza degli edifici, prescriveva una distanza minima delle costruzioni dal confine.
L'ultima decisione menzionata (01.07.1996 n. 5953), a ben vedere, si presta ad una interpretazione contraria all'orientamento qui preso in considerazione: in motivazione, infatti, si afferma l'operatività del criterio della prevenzione nel caso in cui i regolamenti locali impongano unicamente una distanza minima fra gli edifici, a meno che l'interpretazione della norma regolamentare non porti ad escludere la facoltà di costruire in aderenza.
2.5)
Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto debba essere composto privilegiando l'interpretazione favorevole all'operatività, nella ipotesi considerata, del criterio della prevenzione, non apparendo convincenti le ragioni che nella elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sono state addotte a sostegno dell'opposta tesi.
2.6) Un argomento sovente utilizzato ai fini dell'esclusione del criterio della prevenzione poggia sul dato letterale delle disposizioni regolamentari che prescrivono un determinato distacco minimo "assoluto" tra costruzioni, per desumerne, anche in considerazione dell'esigenza di assicurare un'equa ripartizione del relativo onere tra le parti, il carattere "inderogabile" di tale distacco.
Più in generale, a sostegno dell'orientamento contrario alla operatività del criterio di prevenzione, sono state svolte considerazione attinenti alla natura stessa del relativo meccanismo, che si porrebbe in contrasto con la funzione propria della disciplina dei distacchi tra edifici, volta ad assicurare un equo contemperamento degli interessi e dei sacrifici dei proprietari dei fondi confinanti.
E' in tale prospettiva che si è formato l'orientamento giurisprudenziale che ha ravvisato nei regolamenti locali che impongono un distacco assoluto tra costruzioni un implicito riferimento al confine e, quindi, l'obbligo per ciascuna parte di rispettare una distanza minima dal confine pari alla metà di quella complessiva prescritta per i distacchi tra edifici. Solo in tal modo, infatti, secondo i fautori della tesi esposta, potrebbe essere soddisfatta l'esigenza di evitare eccessivi sacrifici a carico di colui che costruisca per secondo; obiettivo che verrebbe frustrato in caso di applicazione del principio di prevenzione, di per sé incompatibile con un'equa ripartizione tra le parti dell'onere imposto dalla previsione del distacco.
In dottrina, poi, alcuni autori hanno rimarcato il carattere di "specialità" della disciplina dettata dai regolamenti edilizi rispetto a quella codicistica, per ravvisare in tale normativa una deroga non solo al dato numerico della distanza, ma all'intero sistema dei rapporti tra proprietari limitrofi delineato dal codice civile.
Un ulteriore argomento invocato a sostegno della inoperatività del criterio della prevenzione è quello che si fonda sul rilievo della natura pubblicistica dei regolamenti locali, connessa al fatto che essi concorrerebbero a comporre la complessiva disciplina urbanistica; a detta natura conseguirebbe la non praticabilità della disciplina codicistica della prevenzione, tipicamente destinata a regolare i rapporti tra privati.
In tale ottica si pone la già citata pronunzia delle Sezioni Unite n. 3873/1974, che ha osservato come
l'intento insito nella norma regolamentare sia quello "di garantire in ogni caso un ampio spazio tra gli edifici onde soddisfare interessi di ordine generale, come quelli igienici, di quiete pubblica e di estetica edilizia.., intento, questo, che rimarrebbe ovviamente frustrato se, nel contempo, venissero consentite costruzioni sul confine e fosse quindi permessa, da parte del vicino, la costruzione in aderenza".
2.7) Gli argomenti sopra richiamati, ad avviso delle Sezioni Unite, non costituiscono un ostacolo all'affermazione dell'operatività in materia dell'istituto codicistico della prevenzione, apparendo agevolmente confutabili.
E invero, al criterio di interpretazione letterale, che si fonda sulla pretesa assimilazione degli attributi "assoluto" e "inderogabile", può opporsi, in conformità di un'autorevole opinione dottrinale, come la normativa edilizia contempli effettivamente la previsione di distanze "inderogabili", come tali destinate a non tollerare in alcun caso la possibilità di costruire sul confine o in aderenza. Al di fuori di tali ipotesi, tuttavia, in presenza di una norma regolamentare che si limiti a prevedere un distacco "assoluto" tra costruzioni, non sembra possibile escludere in radice la possibilità di edificare sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella legale, ferma restando la necessità, nel caso in cui non vengano realizzate costruzioni in appoggio o in aderenza, di rispettare la distanza minima prescritta dal regolamento locale.
Quanto all'ostacolo derivante dalla necessità di assicurare un'equa ripartizione dell'onere tra i proprietari confinanti, è facile obiettare che un equo contemperamento degli interessi delle parti è garantito dalla possibilità, offerta al prevenuto, di chiedere la comunione forzosa del muro o di costruire in aderenza alla fabbrica eretta dal preveniente sul confine o a distanza dallo stesso inferiore alla metà del distacco fissato dalla norma regolamentare. Il meccanismo della prevenzione, come congegnato dal codice civile, pertanto, consente di regolare armonicamente il rapporto di successione temporale tra le costruzioni che sorgono su fondi contigui, senza assicurare posizioni di vantaggio a colui che costruisce per primo in danno di colui che costruisce per secondo: alle facoltà riconosciute al preveniente, infatti, fanno da contrappeso quelle attribuite al prevenuto, alle quali il primo non può opporsi.
All'argomento basato sul carattere di "specialità" dei regolamenti edilizi, poi, può replicarsi che detti regolamenti, proprio in ragione di tale specialità, sono di stretta interpretazione; con la conseguenza che, allorché essi si limitino ad imporre un distacco minimo tra costruzioni, senza prescrivere espressamente altresì una distanza minima dal confine, non pare lecito cogliere negli stessi una deroga al criterio della prevenzione sancito in via generale dal codice civile. I regolamenti locali, infatti, in virtù del rinvio previsto nell'art. 873 c.c., hanno portata integrativa delle prescrizioni del codice civile in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi; sicché ad essi, salva espressa previsione contraria, deve ritenersi applicabile l'intera disciplina codicistica dettata in materia, compreso il meccanismo della prevenzione.
La tesi che ravvisa la ragione della incompatibilità del principio della prevenzione con la disciplina extracodicistica delle distanze nella natura "pubblicistica" di tale normativa, infine, è stata già considerata insostenibile da queste Sezioni Unite nella sentenza n. 11489/2002, nella quale è stato rilevato che è "evidente la componente pubblicistica, accanto a quella privatistica, di tutta la disciplina, anche codicistica, sulle distanze, volta, com'è noto, ad armonizzare la disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato con l'interesse pubblico ad un ordinato assetto urbanistico" .
Una simile componente pubblicistica, pertanto, così come non ha impedito la previsione nel codice civile della regola della prevenzione, allo stesso modo non può costituire un serio ostacolo all'estensione della relativa disciplina alla materia regolata dai regolamenti locali.
Né potrebbe sostenersi la natura esclusivamente pubblicistica della normativa extracodicistica in materia di distanze, ove solo si tenga conto della natura tipicamente privatistica della sanzione prevista in caso di violazione delle relative disposizioni, costituita dal rimedio della riduzione in pristino, rimesso all'iniziativa del vicino, il quale potrebbe anche non farvi ricorso.
Ove, poi, si consideri che la ratio delle norme sulle distanze minime tra costruzioni è, secondo l'opinione dominante, quella di evitare il pregiudizio che potrebbe derivare agli edifici dalla creazioni di intercapedini troppo ristrette, appare evidente che una simile finalità non viene frustrata dalla previsione della facoltà di costruire in aderenza o in appoggio, escludendosi in tal modo la possibilità stessa della formazione di intercapedini pericolose tra i due fabbricati.
2.8) In definitiva,
nessuna delle ragioni preclusive evidenziate in giurisprudenza e in dottrina osta all'applicabilità del principio codicistico della prevenzione nell'ipotesi in cui un regolamento locale si limiti a stabilire un distacco minimo tra le costruzioni maggiore rispetto a quello contemplato dall'art. 873 del codice civile, senza prescrivere altresì una distanza minima delle costruzioni dal confine o vietare espressamente la costruzione in appoggio o in aderenza.
Orbene,
se le norme regolamentari, così come in concreto strutturate, postulano solo l'esigenza del rispetto di una distanza minima tra fabbricati, non vi è alcun valido motivo per negare a colui che costruisca per primo la possibilità di avvalersi delle facoltà connesse al principio di prevenzione in base alla disciplina codicistica.
Le norme dei regolamenti edilizi che fissano le distanze tra le costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal codice civile, infatti, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 873 cod. civ., hanno portata integrativa delle disposizioni dettate in materia dal codice civile; e tale portata non si esaurisce nella sola deroga alle distanze minime previste dal codice, ma si estende all'intero impianto di regole e principi dallo stesso dettato per disciplinare la materia, compreso il meccanismo della prevenzione, che i regolamenti locali possono eventualmente escludere, prescrivendo una distanza minima delle costruzioni dal confine o negando espressamente la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza.
Ne discende che
un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal codice civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide sul principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al preveniente la possibilità di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni, ne al prevenuto la corrispondente facoltà di costruire in appoggio o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli artt. 874, 875 e 877 cod. civ.
2.9) Alla luce degli esposti principi, nella specie, contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, deve ritenersi l'operatività della regola della prevenzione, non risultando che il regolamento edilizio del Comune di Ottaviano, che impone un distacco tra costruzioni di metri otto, preveda altresì una distanza minima delle costruzioni dal confine.
I primi due motivi di ricorso, di conseguenza, devono essere disattesi.

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di limitazioni legali della proprietà, l'art. 873 cod. civ., avendo la finalità di impedire intercapedini dannose, prevede che le norme sulle distanze legali si applicano soltanto agli edifici che si fronteggiano, sicché la loro misurazione deve essere effettuata in modo lineare, e non in modo radiale (ossia "a raggio") come invece previsto in materia di vedute.
La norma dell'art. 873 cod. civ., pertanto, non trova applicazione se non nel caso in cui i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farli avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto.
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2. — Entrambe le censure non possono trovare accoglimento.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi, in tema di limitazioni legali della proprietà, l'art. 873 cod. civ., avendo la finalità di impedire intercapedini dannose, prevede che le norme sulle distanze legali si applicano soltanto agli edifici che si fronteggiano, sicché la loro misurazione deve essere effettuata in modo lineare, e non in modo radiale (ossia "a raggio") come invece previsto in materia di vedute (Sez. 2, Sentenza n. 7285 del 07/04/2005, Rv. 580948; Sez. 2, Sentenza n. 4639 del 24/05/1997, Rv. 504678; Sez. 2, Sentenza n. 7048 del 25/06/1993, Rv. 482917); la norma dell'art. 873 cod. civ., pertanto, non trova applicazione se non nel caso in cui i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farli avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto (Sez. 2, Sentenza n. 2548 del 25/07/1972, Rv. 360058).
Nella specie, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tale principio. Essa, infatti, tenendo conto del fatto che il confine tra il fondo degli attori e quello dei convenuti è obliquo, ha verificato —sulla base degli elaborati del C.T.U.— che la proiezione lineare del fabbricato dei convenuti non si interseca affatto col fabbricato degli attori, in tal modo pervenendo a conclusioni coincidenti con quelle del consulente tecnico d'ufficio (p. 4 della sentenza impugnata). Dal che esattamente la Corte territoriale ha concluso che le norme sulle distanze legali non fossero state violate (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.05.2016 n. 9649).

EDILIZIA PRIVATACriterio della prevenzione.
Inesistenza di alcun margine di discrezionalità in sede giurisdizionale nell’applicazione della disciplina. L’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, dovendosi dunque interpretare le distanze tra le costruzioni come predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, sentenza 09.05.2016 n. 152 -  massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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I motivi di gravame seguono due diverse linee direttrici. Da un lato, viene invocata la disciplina edilizia locale e pianificatoria, che consentirebbe il rispetto di distanze inferiori a quelle disposte dalla normativa statale applicata col provvedimento impugnato. Dall’altro lato, si contesta l’assenza dei presupposti per l’esercizio del potere di autotutela.
Sul primo versante, la posizione prospettata appare contrastante con la costante opinione giurisprudenziale, compiutamente posta a fondamento dell’atto impugnato. In materia, va pertanto ribadito che l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. ad es. Tar Liguria n 476/2013 e CdS 2861/2015).
Sul secondo versante, in linea di diritto per giurisprudenza consolidata e tradizionale l'annullamento in autotutela di una concessione edilizia rilasciata in violazione delle distanze minime tra fabbricati non necessita di specifica motivazione né dell'espressa comparazione tra l'interesse pubblico all'annullamento e quello del privato alla conservazione dell'atto illegittimo, essendo le norme sulla distanza tra fabbricati inderogabili ed esse stesse tese al rispetto di principi fondamentali in termini di salubrità, con la conseguenza che l'attività posta in essere dal comune è vincolata (cfr. ad es. CdS n. 3201/2006).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato ha preso in esame tutti gli elementi della fattispecie, evidenziando il vizio di legittimità che minava i titoli annullati; vizi di tale rilevanza da escludere la necessità, secondo il principio appena richiamato, dell’indicazione di ulteriori considerazioni e profili di interesse pubblico. Inoltre, nell’ambito dello stesso provvedimento risulta essere stata svolta una adeguata valutazione degli ulteriori elementi invocati, integranti l’esercizio di autotutela; in specie, relativamente all’affidamento del privato, assume rilievo dirimente l’immediata attivazione da parte della p.a. del rimedio della sospensione dei lavori, nelle more della necessaria valutazione degli elementi poi posti a fondamento dell’annullamento, avente altresì l’effetto di limitare il consolidarsi dell’invocato affidamento.
Né appare invocabile il termine finale o perentorio di diciotto mesi, introdotto ex novo dal d.l. 133/2014 e dalla legge 124/2015; in proposito, se per principio generale (tempus regit actum) tale nuova disposizione non è certo invocabile rispetto ad una fattispecie consumatasi oltre quattro anni prima la relativa entrata in vigore, nel caso di specie tale violazione neppure risulta tempestivamente dedotta né deducibile (risalendo lo stesso ricorso al 2010). In proposito, è erroneo il richiamo al precedente giurisprudenziale (C.S. n. 5625/2015), in quanto la sentenza invocata ha accolto il ricorso censurando l’irragionevolezza del termine di tredici anni trascorso fra il rilascio del titolo e l’annullamento nonché la mancata valutazione motivata della conseguente posizione assunta dai destinatari dell’atto; inoltre, proprio con riferimento alla nuova normativa la stessa decisione, all’opposto rispetto a quanto invocato dalla odierna difesa ricorrente, ne ha escluso l’applicazione alla fattispecie in esame ratione temporis, sottolineandone unicamente (in termini invero del tutto condivisibili) rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti.
Nel caso de quo, all’opposto, del tutto lineare appare il comportamento della p.a. procedente, la quale ha accertato e valutato tutti gli elementi della fattispecie, sia conformemente alla normativa preminente sia in termini di adeguatezza e completezza tali da escludere, negli ambiti di sindacabilità propri del presente giudizio di legittimità, il travisamento di quale elemento di fatto ovvero la manifesta irragionevolezza delle valutazioni svolte.

aprile 2016

EDILIZIA PRIVATANel calcolo del rispetto delle distanze, stabilite dagli strumenti urbanistici, deve tenersi conto di qualsiasi elemento sporgente e/o superficie aggettante dei fabbricati, non assumendo alcuna rilevanza che gli sporti siano inadatti all’incremento volumetrico o superficiario della costruzione o che si trovino solo su una parte della facciata, eccetto quelli esclusivamente ornamentali come i fregi e le decorazioni.
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Infatti, va disatteso il primo motivo di ricorso, atteso che secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale (cfr. per es. C.d.S. Sez. V n. 1267 del 13.03.2014; C.d.S. Sez. IV n. 5557 del 22.11.2013; C.d.S. Sez. IV n. 4968 del 02.09.2011; TAR Lecce Sez. III n. 1624 del 28.09.2012), nel calcolo del rispetto delle distanze, stabilite dagli strumenti urbanistici, deve tenersi conto di qualsiasi elemento sporgente e/o superficie aggettante dei fabbricati, non assumendo alcuna rilevanza che gli sporti siano inadatti all’incremento volumetrico o superficiario della costruzione o che si trovino solo su una parte della facciata, eccetto quelli esclusivamente ornamentali come i fregi e le decorazioni (TAR Basilicata, sentenza 23.04.2016 n. 421 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2016

EDILIZIA PRIVATAMisurazione della distanza tra edifici ed estensione del balcone.
In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell’articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 –applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967– stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell’estensione del balcone, è “contra legem” in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l’estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 22.03.2016 n. 5594 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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5. - I primi due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati perché presuppongono che la parete sud del fabbricato dei ricorrenti non sia finestrata, a norma delle N.T.A., in quanto il balcone ivi esistente non sarebbe da considerarsi quale finestra a tal fine.
In senso opposto va osservato, invece, che in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, come modificata dalla legge 06.08.1967 n. 765- stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla c.d. legge ponte (legge 06.08.1967 n. 765, che, con l'articolo 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 l'articolo 41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al d.m. 02.04.1968, che all'articolo 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10) (Cass. n. 17089/2006).
[Del resto, se anche le pareti finestrate fossero solo quelle munite di finestre e non anche quelle dotate di balconi, questi ultimi sarebbero pur sempre da considerare come parte della costruzione ai fini della distanza. E poiché, nella specie, gli stessi ricorrenti sostengono (v. pag. 24 del ricorso) che la parete del loro fabbricato è posta a mt. 3,10 dal confine, la presenza del balcone, che per definizione non può essere profondo soli 10 cm., già porterebbe la parete ad essere ad una distanza inferiore a quella legale, anche a voler applicare l'art. 6, lett. c). N.T.A. del Piano particolareggiato].

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Distanze in edilizia - REPERTORIO DI GIURISPRUDENZA (digesto giurisprudenziale in materia di regime delle distanze in edilizia, con particolare attenzione alla applicazione del d.m. 1444/1968, art. 9) (20.03.2016 - tratto da www.studiospallino.it cliccando qui).
febbraio 2016

EDILIZIA PRIVATAIn generale, rientra nel concetto di costruzione ogni manufatto, di qualunque materiale esso sia costituito, che emerga in modo sensibile al di sopra del livello del suolo o non sia completamente interrato e che, pur difettando di una propria individualità, per struttura, solidità, compattezza, consistenza e sporgenza dal terreno, sia idoneo a creare quelle intercapedini dannose, in quanto impediscono il passaggio di aria e luce, che la legge, stabilendo la distanza minima fra le costruzioni, intende evitare.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, appare coerente con le finalità di pubblico interesse l’esclusione dalla disciplina delle distanza dei manufatti non più alti di un metro in quanto, appunto, configurano entità trascurabili rispetto all'interesse tutelato dalla norma considerato nel suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.

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L’argomento della ricorrente, che attiene invero più all’interpretazione giurisprudenziale della normativa vigente che a concreti profili di illegittimità delle norme genericamente richiamate, non trova peraltro riscontro nel testo del R.E.
L’art. 11, comma 2, in materia di “distanze minime dei fabbricati dai confini di proprietà”, stabilisce infatti che “La distanza dei fabbricati dai confini di proprietà viene determinata quale distanza minima tra il fabbricato in qualsiasi punto, anche se aggettante, ed il confine”.
L’art. 12, comma 1°, dello stesso R.E., in materia di “Distanze minime tra edifici” precisa che con tale definizione si intende “…la distanza minima fra le proiezioni verticali dei fabbricati, misurata nei punti di massima sporgenza ad esclusione degli aggetti praticabili e non praticabili compresi entro m. 1,20. I distacchi variano da zona a zona ma è fissato un minimo assoluto”.
Il 2° comma dello stesso articolo precisa che “E’ prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e tra pareti di edifici antistanti”.
Alla luce dei ricordati testi normativi non è dato comprendere sotto quale aspetto la previsione comunale si ponga in concreto ed effettivo contrasto con i parametri normativi richiamati.
Del pari privo di pregio è il rilievo che sarebbe illegittima la disposizione impugnata nella parte in cui prevede che “Fanno eccezione alla distanza minima così definita i manufatti di qualsiasi genere, compresi gli interrati e i seminterrati, non più alti in ogni punto di 1,00 metro dalla quota del piano stradale o del piano di campagna allo stato naturale se più sfavorevole”.
Ed invero la pacifica giurisprudenza è concorde nel ritenere che ratio della disposizione in oggetto sia quella di impedire che tra costruzioni vicine si creino intercapedini che, per la loro esiguità, abbiano a risultare pericolose (sotto il profilo dell’insalubrità nonché dell’ordine pubblico).
In generale, rientra nel concetto di costruzione ogni manufatto, di qualunque materiale esso sia costituito, che emerga in modo sensibile al di sopra del livello del suolo o non sia completamente interrato e che, pur difettando di una propria individualità, per struttura, solidità, compattezza, consistenza e sporgenza dal terreno, sia idoneo a creare quelle intercapedini dannose, in quanto impediscono il passaggio di aria e luce, che la legge, stabilendo la distanza minima fra le costruzioni, intende evitare.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, appare coerente con le finalità di pubblico interesse l’esclusione dalla disciplina delle distanza dei manufatti non più alti di un metro in quanto, appunto, configurano entità trascurabili rispetto all'interesse tutelato dalla norma considerato nel suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dicembre 2015

EDILIZIA PRIVATA: Alla luce del disposto della d.G.R., che nel disciplinare la realizzazione di serre bioclimatiche fa salve le prescrizioni minime dettate dalla legislazione statale in tema di distanze, unitamente all’applicazione estensiva alle zone A della norma dettata dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, risulta evidente l’illecita realizzazione, della serra bioclimatica in questione a distanza inferiore, a quella stabilita dal D.M. 1444/1968, dalla parete finestrata dell’abitazione della ricorrente.
L'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 stabilisce al comma 1, che "Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: 1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti".
Dunque, a differenza delle altre zone, ove è prescritto il rispetto della distanza minima assoluta di 10 m tra gli edifici, per le zone A la norma nulla prevede in ordine alle distanze.
Come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza, la mancata previsione è dovuta al fatto che nelle zone A non sono ammesse nuove costruzioni, ma solo risanamenti o ristrutturazioni nei limiti dei volumi edificati preesistenti.
Ne deriva che agli interventi edilizi che assumano le caratteristiche della nuova edificazione non può che applicarsi la disciplina generale dettata per le nuove costruzioni (di cui al comma 1, n. 2, dell’art. 9), atteso che la necessità di evitare intercapedini dannose per la salute non cambia a seconda delle zone e anzi nelle zone A (caratterizzate da insediamenti più addensati) essa appare maggiormente pressante.
Questo Collegio, aderendo all’orientamento di tale giurisprudenza maggioritaria, è dunque del parere che anche nelle zone A debba essere rispettata la distanza minima di 10 m, qualora l’attività edilizia superi il semplice restauro conservativo o la ristrutturazione dei volumi già esistenti, prevedendo nuova cubatura e modifiche della sagoma attraverso sopraelevazioni o innalzamenti.
Va da ultimo segnalato che la norma dettata dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 è stata pacificamente ritenuta, da un lato integratrice dell’art. 873 c.c., dall’altro, dotata di “efficacia precettiva ed inderogabile”. Formula, quest’ultima, ribadita dalla recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 134 del 2014, la quale configura altresì l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 come “costituente un corpo unico con la regolazione codicistica” e fonte principale della disciplina nazionale in materia di distanze tra edifici.

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2.3.1. Con riferimento, invece, alla censura dedotta con il secondo ricorso per motivi aggiunti, si ricorda che l’art 5. della L.R. 13/2011 (sul piano casa) ha previsto una specifica deroga volumetrica per la realizzazione dei sistemi di captazione delle radiazioni solari addossati o integrati negli edifici, quali le serre bioclimatiche, etc., atti allo sfruttamento passivo dell'energia solare.
2.3.2. Con D.G.R.V. 1781/2011 si è quindi stabilito, all’art. 3, comma 2, che l’incremento volumetrico derivante dalla realizzazione di una serra bioclimatica “non concorre alla determinazione delle distanze tra edifici, fermo restando le prescrizioni minime dettate dalla legislazione statale”. Quest’ultimo inciso rende evidente che la Giunta Regionale abbia inteso considerare rilevante in tema di distanze (dettate dalla legislazione statale) la realizzazione di una serra bioclimatica, e quindi non l’abbia parificata in tutto ad un volume tecnico irrilevante ai fini del computo delle distanze.
2.3.4. La ricorrente, dunque, oppone la violazione delle distanze stabilite dall’art. 9 D.M. n. 1444/1968, che impone una distanza minima tra pareti finestrate di metri 10; viceversa, il controinteressato eccepisce l’inapplicabilità di tale norma alle zone A, come quella di specie.
2.3.5. Al riguardo giova ricordare che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 stabilisce al comma 1, che "Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: 1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti".
Dunque, a differenza delle altre zone, ove è prescritto il rispetto della distanza minima assoluta di 10 m tra gli edifici, per le zone A la norma nulla prevede in ordine alle distanze.
2.3.6. Come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza (ex multis: Cass. Civ. II, 12767/2008), la mancata previsione è dovuta al fatto che nelle zone A non sono ammesse nuove costruzioni, ma solo risanamenti o ristrutturazioni nei limiti dei volumi edificati preesistenti.
Ne deriva che agli interventi edilizi che assumano le caratteristiche della nuova edificazione non può che applicarsi la disciplina generale dettata per le nuove costruzioni (di cui al comma 1, n. 2, dell’art. 9), atteso che la necessità di evitare intercapedini dannose per la salute non cambia a seconda delle zone e anzi nelle zone A (caratterizzate da insediamenti più addensati) essa appare maggiormente pressante (in tal senso Consiglio di Stato, n. 5281/2012; Tar Liguria, I, n. 704/2013; Tar Campania-Salerno, n. 473/2014; TAR Toscana n. 1217/2014; TAR Bolzano n. 295/2014).
Questo Collegio, aderendo all’orientamento di tale giurisprudenza maggioritaria, è dunque del parere che anche nelle zone A debba essere rispettata la distanza minima di 10 m, qualora l’attività edilizia superi il semplice restauro conservativo o la ristrutturazione dei volumi già esistenti, prevedendo nuova cubatura e modifiche della sagoma attraverso sopraelevazioni o innalzamenti.
2.3.7. Va da ultimo segnalato che la norma dettata dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 è stata pacificamente ritenuta, da un lato integratrice dell’art. 873 c.c. (Cass. Civ. n. 7756/2013), dall’altro, dotata di “efficacia precettiva ed inderogabile”. Formula, quest’ultima, ribadita dalla recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 134 del 2014, la quale configura altresì l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 come “costituente un corpo unico con la regolazione codicistica” e fonte principale della disciplina nazionale in materia di distanze tra edifici.
2.3.8. In conclusione, alla luce del disposto della D.G.R.V. 1781/2011, che nel disciplinare la realizzazione di serre bioclimatiche fa salve le prescrizioni minime dettate dalla legislazione statale in tema di distanze, unitamente all’applicazione estensiva alle zone A della norma dettata dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, risulta evidente l’illecita realizzazione, della serra bioclimatica in questione a distanza inferiore, a quella stabilita dal D.M. 1444/1968, dalla parete finestrata dell’abitazione della ricorrente.
3. Pertanto, anche il secondo ricorso per motivi aggiunti deve essere accolto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.12.2015 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2015

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, prescrive, per i nuovi edifici, ricadenti, come quello di che trattasi, in zone diverse dalla zona A, “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, condizione indispensabile per potersi applicare il regime garantistico della distanza minima dei dieci metri, è l’esistenza di due pareti che si contrappongono di cui almeno una finestrata.
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha, inoltre, precisato, che la regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
Poiché la porta finestra dell’appellante non costituisce una veduta, come ha accertato l’impugnata sentenza, sul punto non fatta oggetto di censura, l’invocato art. 9 del D.M. n. 1444/1968 non risulta applicabile al caso di specie.

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Col primo motivo si deduce che erroneamente il giudice di prime cure avrebbe escluso la sussistenza della denunciata violazione dell’art. 9 del D.M. 02/04/1968 n. 1444.
Si afferma, infatti, che il progetto dei sig.ri D’Al. e Ca. prevede la realizzazione, al primo piano dell’immobile, di un corpo di fabbrica, caratterizzato da uno sporto di metri 1,30 (destinato secondo le tavole progettuali a “letto” e “bagno”), la cui parete laterale dista solo 3 metri dalla porta-finestra dell’appellante.
La doglianza è infondata.
L’art. 9 del citato D.M. n. 1444/1968, prescrive, per i nuovi edifici, ricadenti, come quello di che trattasi, in zone diverse dalla zona A, “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, condizione indispensabile per potersi applicare il regime garantistico della distanza minima dei dieci metri, è l’esistenza di due pareti che si contrappongono di cui almeno una finestrata (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 31/03/2015 n. 1670, sulle modalità di calcolo delle distanze, si veda Cons. Stato, IV Sez., 11/06/2015 n. 2861).
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha, inoltre, precisato, che la regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere (Cons. Stato, Sez. IV, 04/09/2013 n. 4451 e 22/01/2013 n. 844; Cass. Civ., Sez. II, 30/04/2012 n. 6604).
Poiché la porta finestra dell’appellante non costituisce una veduta, come ha accertato l’impugnata sentenza, sul punto non fatta oggetto di censura, l’invocato art. 9 del D.M. n. 1444/1968 non risulta applicabile al caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.11.2015 n. 5365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 –laddove all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai Comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati; conseguentemente l'adozione, da parte degli Enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9 divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.
Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, ragion per cui non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina.

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1. Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce l’eccesso di potere, la carenza di istruttoria e la violazione del DM n. 1444/1968.
2. Nella fattispecie in esame il Collegio ritiene di aderire alla consolidata giurisprudenza secondo la quale il D.M. 02.04.1968 n. 1444 –laddove all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai Comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati; conseguentemente (cfr. ex multis Cass. Civ., II, 01.11.2004, n. 21899) l'adozione, da parte degli Enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9 divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata (cfr. Cons. Stato, V, n. 7731/2010; TAR Lombardia, Brescia, I, 16.10.2009, n. 1742).
2.1 Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, ragion per cui non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr. TAR Toscana, III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Liguria, I, 12.02.2004 n. 145).
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina (cfr. Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.11.2015 n. 5164).

ottobre 2015

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La previsioni contenute in un piano di lottizzazione e nei progetti esecutivi ad esso allegati con le quali si deroga alle distanze legali tra le costruzioni, danno luogo alla costituzione di diritti rispettivamente a favore e contro ciascuno dei lotti del comprensorio e ne vincolano gli acquirenti.
La deroga approvata dall'ente locale si regge in quanto siano rispettati quegli equilibri volumetrici che sono oggetto di esame e di esplicita considerazione, nei limiti assentiti con il piano di lottizzazione, che trova giustificazione nell'equilibrio delle varie posizioni tra loro e nella complessiva armonia del complesso edilizio.
Una modifica individuale soggettiva non può pertanto giovarsi di quello ius singulare che è stato concepito e varato solo in relazione alla imprescindibile condizione di reciprocità e alla accettabilità della deroga in ragione della complessiva valutazione dell'edificazione assentita
.
Non è consentito pertanto ampliare singoli fabbricati, in epoca successiva alla costruzione del complesso approvato con il piano di lottizzazione, valendosi di regole derogatorie che trovavano fonte e legittimazione solo a condizione del rispetto delle volumetrie preesistenti.
La variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, aumenti della volumetria danno luogo, infatti, all'ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima.
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3) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell'art. 873 e vizi di motivazione.
Muovendo dalla premessa che il Comune aveva autorizzato la realizzazione del complesso edilizio secondo un piano di lottizzazione con disposizione planovolumetrica derogatoria delle norme del regolamento edilizio, il ricorso sostiene che le costruzioni accessorie o le modifiche delle costruzioni iniziali dovrebbero essere assoggettate alle disposizioni in tema di distanze previste dal codice civile, in ossequio alla disposizione planovolumerica, che non era stata integrata da norme specifiche comunali.
Contesta pertanto che possa essere applicato il regolamento edilizio della zona semintensiva e sostiene che l'ampliamento della precedente veranda non mutava la natura accessoria dell'iniziale manufatto, da sottoporre al regime agevolato previsto per le costruzioni accessorie.
La censura non è fondata.
La previsioni contenute in un piano di lottizzazione e nei progetti esecutivi ad esso allegati con le quali si deroga alle distanze legali tra le costruzioni, danno luogo alla costituzione di diritti rispettivamente a favore e contro ciascuno dei lotti del comprensorio e ne vincolano gli acquirenti.
La deroga approvata dall'ente locale si regge in quanto siano rispettati quegli equilibri volumetrici che sono oggetto di esame e di esplicita considerazione, nei limiti assentiti con il piano di lottizzazione, che trova giustificazione nell'equilibrio delle varie posizioni tra loro e nella complessiva armonia del complesso edilizio.
Una modifica individuale soggettiva non può pertanto giovarsi di quello ius singulare che è stato concepito e varato solo in relazione alla imprescindibile condizione di reciprocità e alla accettabilità della deroga in ragione della complessiva valutazione dell'edificazione assentita
(cfr Cass. 5104/2009).
Non è consentito pertanto ampliare singoli fabbricati, in epoca successiva alla costruzione del complesso approvato con il piano di lottizzazione, valendosi di regole derogatorie che trovavano fonte e legittimazione solo a condizione del rispetto delle volumetrie preesistenti.
La variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, aumenti della volumetria danno luogo, infatti, all'ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima (si veda su quest'ultimo punto Cass. 21578/2011; 74/2011).
4) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 873 sotto altro profilo.
Parte ricorrente espone che essa aveva ottenuto concessione edilizia per la realizzazione dell'ampliamento della preesistente veranda e che il terzo aveva l'onere di impugnare davanti al giudice amministrativo la concessione edilizia, senza potere altrimenti invocare tutela volta a disapplicare l'atto concessorio.
La doglianza è manifestamente infondata.
È ius receptum che le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità può essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo (SU 13673/2014).
Inoltre ogni concessione edilizia è rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi (Cass. 19650/2013; 11404/1998).
Il ruolo del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A. (Cass. 9869/2015), ma non può impedire l'esercizio della azione civilistica intrapresa dal vicino per far rispettare la normativa in tema di distanze, che siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti urbanistici.
Per il differente ordine in cui le azioni si muovono, essa non è subordinata all'annullamento dell'atto concessorio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 19.10.2015 n. 21119).

EDILIZIA PRIVATA: È ius receptum che le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità può essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo.
Inoltre ogni concessione edilizia è rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi.
Il ruolo del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A., ma non può impedire l'esercizio della azione civilistica intrapresa dal vicino per far rispettare la normativa in tema di distanze, che siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti urbanistici.
Per il differente ordine in cui le azioni si muovono, essa non è subordinata all'annullamento dell'atto concessorio.
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4) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 873 sotto altro profilo.
Parte ricorrente espone che essa aveva ottenuto concessione edilizia per la realizzazione dell'ampliamento della preesistente veranda e che il terzo aveva l'onere di impugnare davanti al giudice amministrativo la concessione edilizia, senza potere altrimenti invocare tutela volta a disapplicare l'atto concessorio.
La doglianza è manifestamente infondata.
È ius receptum che le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità può essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo (SU 13673/2014).
Inoltre ogni concessione edilizia è rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi (Cass. 19650/2013; 11404/1998).
Il ruolo del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A. (Cass. 9869/2015), ma non può impedire l'esercizio della azione civilistica intrapresa dal vicino per far rispettare la normativa in tema di distanze, che siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti urbanistici.
Per il differente ordine in cui le azioni si muovono, essa non è subordinata all'annullamento dell'atto concessorio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 19.10.2015 n. 21119).

EDILIZIA PRIVATADistanze minime edifici: le norme sulle distanze tra edifici ex art. 9 d.m. 1444/1968 non si applicano ai lucernari.
A prescindere dall'ambito di operatività dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, non v'è dubbio come lo stesso non possa comunque trovare applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima che deve intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” .
Sul piano formale, quindi, la stessa fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione, unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci”.
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo piano.
Sennonché i velux in questione non possono di certo considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-, ma semplici luci in quanto consentono il solo passaggio dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al riguardo, come già sopra segnalato, che l'invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque “trovare applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza le distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux”.

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1. Con il primo mezzo di gravame gli appellanti deducono l'erroneità della sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che “l’invocato articolo nove del D.M. n. 1444/1968 vincola le amministrazioni locali solo in sede di predisposizione della normativa urbanistica e comunque lo stesso non potrebbe trovare applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux” .
Per un verso, infatti, assumono che le norme sulle distanze tra edifici sono inderogabili e tale inderogabilità atterrerebbe “ai rapporti tra privati, ai quali è precluso di disporre convenzionalmente una distanza inferiore rispetto quella prevista dall'art. 9 del D. M. 02/04/1968 o dai regolamenti urbanistici locali”.
Per altro verso, sostengono poi gli appellanti che avuto riguardo alla ratio della norma in questione, la stessa dovrebbe ritenersi applicabile anche nel caso in cui la parete antistante sia in realtà un tetto dotato di aperture lucifere.
2. La doglianza non può essere condivisa.
3. Ed invero, a prescindere dall'ambito di operatività dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, non v'è dubbio come lo stesso non possa comunque trovare applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima che deve intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” .
Sul piano formale, quindi, la stessa fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione, unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci” (cfr. Cass. Civ. Sez. II 06.11.2012 n. 19092; 30.04.2012 n. 6604; Cons. Stato Sez. IV 04.09.2013; 12.02.2013 n. 844).
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo piano.
Sennonché i velux in questione non possono di certo considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-, ma semplici luci in quanto consentono il solo passaggio dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al riguardo, come già sopra segnalato, che l'invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque “trovare applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza le distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux”.
Ne, al riguardo, possono assumere rilievo le invocate disposizioni di cui all'art. 1 della legge regionale n. 12 del 1999, che mirano a promuovere il recupero dei sottotetti a fini abitativi, imponendo fra l'altro un particolare rapporto aeroilluminante.
Si tratta, infatti, di disposizioni preordinate a garantire luce ed aria ai sottotetti resi abitabili e non ad introdurre normativamente nuove tipologie di vedute in aggiunta a quella codicistica e, come tali, del tutto irrilevanti ai fini odiernamente considerati.
Inammissibile si appalesa poi l'ulteriore profilo di censura, sviluppato nell'ambito del motivo in esame, con cui gli appellanti assumono che la sentenza avrebbe omesso di considerare che l'edificio che verrà ad essere costruito dalla Casa di Riposo avrà un'altezza, per il fronte prospiciente la loro proprietà, di metri 15,29 e che conseguentemente ai sensi dell'articolo nove del D. M. n. 1444/1968, nel caso in cui il tetto in questione non fosse qualificato come parete finestrata, si dovrebbe applicare la distanza pari all'altezza del fronte dell'edificio più alto.
Infatti, non avendo costituito motivo di impugnazione nel ricorso di primo grado, la doglianza non può essere proposta per la prima volta nell'odierna sede di appello.
A ciò aggiungasi che si tratta comunque di censura priva di fondamento, in quanto la maggiorazione della distanza fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza del fabbricato più alto prevista dal terzo comma dell’art. 9 , si applica evidentemente negli stessi casi in cui sono prescritti i limiti di distanza indicati dal primo comma del medesimo articolo e, nel caso delle zone C, solo a pareti finestrate di edifici antistanti.
Il richiamato terzo comma, infatti, non prevede una ulteriore ipotesi distinta da quelle indicate dai commi precedenti, ma semplicemente una maggiorazione delle distanze “come sopra computate”, vale a dire nelle stesse ipotesi in cui i commi precedenti prevedono il rispetto di una determinata distanza tra fabbricati (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.10.2015 n. 4628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'infisso non è una veduta. Sentenza cds.
Via libera alla sopraelevazione al di sotto della distanza minima se il vicino ha lucernari sul tetto: gli infissi tipo velux, infatti, non possono essere considerati vere e proprie vedute, perché non consentono di affacciarsi, ma servono solo a far entrare in casa l'aria e i raggi del sole.
Insomma: costituiscono una mera luce e non fanno scattare il divieto di costruzione di cui all'articolo 9 del dm 1444/1968 che vale solo per le vere e proprie «pareti finestrate».

È quanto emerge dalla sentenza 05.10.2015 n. 4628, pubblicata dalla IV Sez. del Consiglio di stato.
Prospectio e Inspectio
Niente da fare per i vicini di una casa di riposo. Le suore possono ristrutturare l'immobile grazie alla concessione edilizia ottenuta dal comune. E ciò benché il tetto dei confinanti sia praticamente trasparente perché caratterizzato da ben sette finestre modello velux, che servono a illuminare i locali dal primo piano.
Il punto è che il divieto di costruire sotto la distanza minima vale solo in presenza di vere e proprie vedute, che in base all'articolo 900 cc sono soltanto quella che consentono di affacciarsi sul fondo del vicino e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (prospectio e inspectio).
Inutile per i titolari dell'immobile invocare le norme tecniche di attuazione del piano regolatore del Comune: nel nostro caso la sopraelevazione riguarda un fabbricato costruito in aderenza all'edificio degli appellanti ed è situata sul confine con il fondo. Spese di giudizio compensate per la peculiarità della controversia (articolo ItaliaOggi del 29.10.2015).
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MASSIMA
 1. Con il primo mezzo di gravame gli appellanti deducono l'erroneità della sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che “l’invocato articolo 9 del D.M. n. 1444/1968 vincola le amministrazioni locali solo in sede di predisposizione della normativa urbanistica e comunque lo stesso non potrebbe trovare applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux” .
Per un verso, infatti, assumono che le norme sulle distanze tra edifici sono inderogabili e tale inderogabilità atterrerebbe “ai rapporti tra privati, ai quali è precluso di disporre convenzionalmente una distanza inferiore rispetto quella prevista dall'art. 9 del D. M. 02/04/1968 o dai regolamenti urbanistici locali”.
Per altro verso, sostengono poi gli appellanti che avuto riguardo alla ratio della norma in questione, la stessa dovrebbe ritenersi applicabile anche nel caso in cui la parete antistante sia in realtà un tetto dotato di aperture lucifere.
2. La doglianza non può essere condivisa.
3. Ed invero, a prescindere dall'ambito di operatività dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968,
non v'è dubbio come lo stesso non possa comunque trovare applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima che deve intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” .
Sul piano formale, quindi,
la stessa fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione, unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci (cfr. Cass. Civ. Sez. II 06.11.2012 n. 19092; 30.04.2012 n. 6604; Cons. Stato Sez. IV 04.09.2013; 12.02.2013 n. 844).
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo piano.
Sennonché
i velux in questione non possono di certo considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-, ma semplici luci in quanto consentono il solo passaggio dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al riguardo, come già sopra segnalato, che
l'invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque “trovare applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza le distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux” .
Ne, al riguardo, possono assumere rilievo le invocate disposizioni di cui all'art. 1 della legge regionale n. 12 del 1999, che mirano a promuovere il recupero dei sottotetti a fini abitativi, imponendo fra l'altro un particolare rapporto aeroilluminante.
Si tratta, infatti, di disposizioni preordinate a garantire luce ed aria ai sottotetti resi abitabili e non ad introdurre normativamente nuove tipologie di vedute in aggiunta a quella codicistica e, come tali, del tutto irrilevanti ai fini odiernamente considerati.

luglio 2015

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALe norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori sono, per effetto del richiamo contenuto negli artt. 872, 873 cod. civ., integrative delle norme del codice civile in materia di distanze tra costruzioni, sicché il giudice deve applicare le richiamate norme locali indipendentemente da ogni attività assertiva o probatoria delle parti, acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale, la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni ai comuni.
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In materia urbanistica -poiché il piano regolatore generale edilizio si perfeziona, in quanto atto amministrativo complesso, solo dopo la sua approvazione da parte dei competenti organi di controllo e la relativa pubblicazione, non essendo sufficiente la mera adozione dello stesso- prima del perfezionamento di questo "iter" tale strumento urbanistico non può spiegare effetti integrativi del codice civile.
Infatti, «Il piano regolatore generale ha natura di atto complesso, risultando dal concorso delle volontà del Comune e della Regione (succeduta allo Stato ai sensi dell'art. 1, lett. a), d.P.R. 15.01.1972 n. 8) sì che l'efficacia normativa propria dello stesso e delle prescrizioni in esso contenute ha inizio non già dalla data della sua approvazione da parte del consiglio comunale, ma da quella della pubblicazione del decreto di approvazione del Presidente della giunta regionale».
In sostanza, «le prescrizioni del piano regolatore, atto complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche integrative del codice civile solo con l'approvazione del piano medesimo da parte dell'autorità regionale. Qualora uno dei due atti che costituiscono l'atto complesso sia annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze legali, fino a quando non intervenga una sua nuova approvazione e salva l'applicazione delle misure di salvaguardia».
Dunque, «i piani regolatori generali ed i regolamenti edilizi con annessi programmi di fabbricazione, le cui norme, essendo integrative di quelle contenute nel codice in materia di costruzioni, rientrano nella scienza ufficiale del giudice, il quale ha pertanto il dovere di accertarne l'effettiva vigenza per diventare esecutivi ed acquistare efficacia normativa, devono, dopo l'approvazione dell'autorità regionale, essere portati a conoscenza dei destinatari nei modi di legge, ossia mediante pubblicazione da eseguirsi con affissione all'albo pretorio, essendo tale pubblicazione condizione necessaria per l'efficacia e l'obbligatorietà dello strumento urbanistico, senza possibilità di efficacia retroattiva dalla data di approvazione da parte dell'organo regionale; ne consegue che, nel frattempo, la disciplina in materia di distanze fra costruzioni è quella del codice civile».

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L'eccezione è infondata.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato che «le norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori sono, per effetto del richiamo contenuto negli artt. 872, 873 cod. civ., integrative delle norme del codice civile in materia di distanze tra costruzioni, sicché il giudice deve applicare le richiamate norme locali indipendentemente da ogni attività assertiva o probatoria delle parti, acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale, la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni ai comuni» (Cass. n. 17692 del 2009; Cass. n. 2563 del 2009).
In particolare, si è precisato che «la vigenza o meno di una certa norma alla data rilevante in relazione al caso concreto non costituisce nuova questione di fatto, non deducibile in sede di legittimità, poiché rientra nella scienza ufficiale del giudice, il quale in sede di legittimità ha il dovere, prescindendo dalle deduzioni delle parti, di verificare se la disposizione applicata dai giudici di merito fosse effettivamente in vigore e, quindi, applicabile al caso esaminato (fattispecie relativa a distanze legali e all'accertamento della data di entrata in vigore del regolamento edilizio comunale applicato in concreto dalla corte di merito)» (Cass. n. 17692 del 2009, cit.).
Né potrebbe sostenersi che l'accertamento della normativa regolamentare applicabile nel caso di specie possa essere demandato, in via esclusiva, al consulente tecnico d'ufficio, come preteso dalla resistente, la quale ha appunto rilevato che ogni questione sarebbe preclusa perché non dedotta nei gradi di merito e perché il detto accertamento era contenuto nella c.t.u., non specificamente contestata sul punto. Il giudice deve, infatti, applicare le norme regolamentari locali indipendentemente da ogni attività assertiva o probatoria delle parti, trattandosi di esplicazione del principio iura novit curia, senza che la individuazione della normativa applicabile possa essere demandata in via esclusiva al consulente tecnico d'ufficio.
Nessuna preclusione è quindi ravvisabile in ordine alla deducibilità, in questa sede e per la prima volta, di una censura inerente alla erronea applicazione di uno strumento urbanistico sulla base della mera approvazione da parte del consiglio comunale e prima del completamento del procedimento di formazione con l'approvazione da parte della regione.
7. Nel merito, i tre motivi sono fondati.
Questa Corte ha reiteratamente avuto modo di precisare che «in materia urbanistica -poiché il piano regolatore generale edilizio si perfeziona, in quanto atto amministrativo complesso, solo dopo la sua approvazione da parte dei competenti organi di controllo e la relativa pubblicazione, non essendo sufficiente la mera adozione dello stesso- prima del perfezionamento di questo "iter" tale strumento urbanistico non può spiegare effetti integrativi del codice civile» (Cass. n. 11431 del 2009).
Infatti,
«Il piano regolatore generale ha natura di atto complesso, risultando dal concorso delle volontà del Comune e della Regione (succeduta allo Stato ai sensi dell'art. 1, lett. a), d.P.R. 15.01.1972 n. 8) sì che l'efficacia normativa propria dello stesso e delle prescrizioni in esso contenute ha inizio non già dalla data della sua approvazione da parte del consiglio comunale, ma da quella della pubblicazione del decreto di approvazione del Presidente della giunta regionale» (Cass. n. 1256 del 1997).
In sostanza, «le prescrizioni del piano regolatore, atto complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche integrative del codice civile solo con l'approvazione del piano medesimo da parte dell'autorità regionale. Qualora uno dei due atti che costituiscono l'atto complesso sia annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze legali, fino a quando non intervenga una sua nuova approvazione e salva l'applicazione delle misure di salvaguardia
» (Cass. n. 2149 del 2009).
Dunque, «i piani regolatori generali ed i regolamenti edilizi con annessi programmi di fabbricazione, le cui norme, essendo integrative di quelle contenute nel codice in materia di costruzioni, rientrano nella scienza ufficiale del giudice, il quale ha pertanto il dovere di accertarne l'effettiva vigenza per diventare esecutivi ed acquistare efficacia normativa, devono, dopo l'approvazione dell'autorità regionale, essere portati a conoscenza dei destinatari nei modi di legge, ossia mediante pubblicazione da eseguirsi con affissione all'albo pretorio, essendo tale pubblicazione condizione necessaria per l'efficacia e l'obbligatorietà dello strumento urbanistico, senza possibilità di efficacia retroattiva dalla data di approvazione da parte dell'organo regionale; ne consegue che, nel frattempo, la disciplina in materia di distanze fra costruzioni è quella del codice civile» (Cass. n. 10561 del 2011).
7.1. Nel caso di specie, poiché è documentalmente provato che la ricorrente ha realizzato l'intervento edilizio oggetto di causa sulla base di una licenza rilasciata il 06.10.1973 ed è altresì accertato, e comunque non contestato dalla resistente, che i lavori terminarono nel 1974, ai fini della individuazione della normativa regolamentare applicabile occorre fare riferimento alla data di ultimazione dei lavori.
Orbene, a tale data il regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione, del quale il giudice di primo grado e poi la Corte d'appello hanno fatto applicazione, era solo stato adottato (delibera del consiglio comunale del 16.11.1973), mentre l'approvazione dello stesso si è avuta solo con la delibera della giunta regionale del Veneto 06.10.1981, n. 5331 (documenti, questi, che la ricorrente ha puntualmente indicato con il riferimento agli allegati alla consulenza tecnica d'ufficio, riproducendoli altresì nel proprio fascicolo di parte).
Dall'esame delle menzionate delibere emerge dunque, con certezza, che alla data di inizio e di conclusione dei lavori da parte della ricorrente, il Comune di Vestenanuova era sprovvisto di un efficace strumento urbanistico; e ciò anche perché il precedente programma regolamento edilizio, approvato con delibera del consiglio comunale del 24.08.1968, non era poi stato approvato dalla giunta regionale del Veneto (delibera 17.07.1973, n. 1966).
Ne consegue che la sentenza impugnata è errata nella parte in cui ha risolto la controversia facendo applicazione di norme regolamentari non efficaci, anziché considerare, ai fini delle distanza del fabbricato dal confine, le disposizioni del codice civile, ivi compresa quella di cui all'art. 875 (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.07.2015 n. 14915).

EDILIZIA PRIVATAEntrambe le opere (piscina e annessi vani tecnici) non risultano rilevanti ai fini della violazione delle distanze legali trattandosi di opere interrate o che comunque non si innalzano oltre il livello del terreno, con conseguente inconfigurabilità di un corpo edilizio idoneo a creare dannose intercapedini e a pregiudicare la salubrità dell’ambiente collocato tra gli edifici.
Infatti, essendo la normativa dettata in materia di distanze legali diretta ad evitare la formazione di strette e dannose intercapedini per evidenti ragioni di igiene, areazione e luminosità, ne deriva che la suddetta normativa è inapplicabile relativamente ad un manufatto completamente interrato quale una piscina, in quanto i piani interrati devono ritenersi esonerati dal rispetto delle distanze legali.
In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione affermando che “Ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali, stabilite dall'art. 873 c.c. e dalle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, deve ritenersi costruzione qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua destinazione”.

... per l'annullamento del permesso di costruire n. 7/2009 per la realizzazione di una piscina e relative pertinenze.
...
Con ricorso notificato il 05.06.2009 e depositato il 03.07.2009 Ma.Pi., Pa. e Gi.Pi. del Ve. hanno impugnato il permesso di costruire in sanatoria n. 7/2009 rilasciato dal Comune di Pignataro Maggiore a Lu.Ar..
I ricorrenti hanno esposto di essere comproprietari del terreno composto dalle particelle 84 e 122 del Foglio 5 del Comune di Pignataro Maggiore, confinante con il suolo di proprietà di Lu.Ar.; quest’ultimo aveva avviato in assenza di permesso di costruire i lavori per la realizzazione di una piscina, un pergolato ed altri locali e, a seguito dell’esposto presentato dai ricorrenti e del sopralluogo dei tecnici comunali, aveva richiesto ed ottenuto il permesso di costruire in sanatoria impugnato.
...
Quanto alle distanze minime dal confine e dalla strada comunale, oggetto del terzo e quarto motivo di ricorso, l’istruttoria svolta nel corso del giudizio ha evidenziato l’insussistenza delle violazioni lamentate.
Il Servizio Tecnico comunale ha precisato, in particolare, che le zone E2, quale quella in cui insistono le opere in contestazione, sono disciplinate dall’art. 22 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G., e destinate “prevalentemente ad attività agricola”; in tale quadro risulta consentita la realizzazione di opere costituenti pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti, quale può essere considerata la piscina di modeste dimensioni al servizio del fabbricato del controinteressato.
Con riferimento ai locali al servizio della piscina, inoltre, nella relazione dei tecnici comunali si rileva che gli stessi sono completamente interrati e che i locali interrati, ai sensi dell’art. 25 del Regolamento Edilizio comunale, non sono considerati a fini volumetrici se hanno un’altezza inferiore a m. 2,50.
È stato chiarito altresì che l’art. 22 citato non prevede per le zone E2 distanze minime né dai confini, né dalle strade vicinali, né può essere applicata la distanza minima di m. 10 dalle strade vicinali di tipo “F” prevista dall’art. 26 del D.P.R. 495/1992 trattandosi di area ricompresa nel perimetro del centro abitato; l’intervento risulta invece rispettoso delle distanze previste dal codice civile (la cui violazione non è stata peraltro nemmeno contestata).
In ogni caso, poi, entrambe le opere (piscina e annessi vani tecnici) non risultano rilevanti ai fini della violazione delle distanze legali trattandosi di opere interrate o che comunque non si innalzano oltre il livello del terreno, con conseguente inconfigurabilità di un corpo edilizio idoneo a creare dannose intercapedini e a pregiudicare la salubrità dell’ambiente collocato tra gli edifici.
Infatti, essendo la normativa dettata in materia di distanze legali diretta ad evitare la formazione di strette e dannose intercapedini per evidenti ragioni di igiene, areazione e luminosità, ne deriva che la suddetta normativa è inapplicabile relativamente ad un manufatto completamente interrato quale una piscina (TAR Lombardia, Milano, 20.12.1988 n. 428), in quanto i piani interrati devono ritenersi esonerati dal rispetto delle distanze legali (TAR Puglia, Lecce, sez. III 30.12.2014 n. 3200).
In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione affermando che “Ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali, stabilite dall'art. 873 c.c. e dalle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, deve ritenersi costruzione qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua destinazione” (Cassazione civile sez. II 06.05.2014 n. 9679).
Infine deve rilevarsi che il pergolato non è ricompreso tra le opere sanate in quanto il permesso impugnato contiene l’espressa prescrizione dell’esclusione di tale opera ed il controinteressato ha rinunciato alla sua realizzazione.
In conclusione il ricorso va respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.07.2015 n. 3520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2015

EDILIZIA PRIVATA: La regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 deve ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni.
Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano, con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.

In riferimento alla violazione delle distanze, il Collegio deve rilevare che il D.M. 02.04.1968 n. 1444 all’art. 9 -Limiti di distanza tra i fabbricati- comma 1, n. 2, dispone: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:.. 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;”.
Al riguardo occorre innanzitutto precisare che, secondo la consolidata giurisprudenza (cfr. ex multis, in tal senso, Cassazione civile, sezione II, 27.03.2001, n. 4413, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759), dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art. 9 deve ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni.
Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano, con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile (per tali principi consolidati, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2007 , n. 3094, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tar Campania. Dieci metri di distanza tra gli edifici.
Dieci metri, balconi compresi. È la distanza minima che il nuovo fabbricato deve osservare dall'edificio preesistente che ha pareti con finestre, altrimenti non se ne fa niente. Lo stop al permesso di costruire scatta anche se il regolamento comunale consente di calcolare il minimo al lordo e non al netto dei balconi: la disposizione dell'ente deve infatti essere disapplicata e sostituita dalla norma generale ex articolo 9 del dm 1444/1968, dettata per evitare che nei complessi residenziali si formino intercapedini a rischio per l'igiene e la salute dei residenti.

È quanto emerge dalla sentenza 15.05.2015 n. 2688 della II Sez. del TAR Campania-Napoli.
Accolto il ricorso del condominio e di alcuni proprietari che fanno dichiarare illegittimo il titolo edilizio che il dirimpettaio ha ottenuto dall'amministrazione in un paesone dell'entroterra napoletano. I lavori puntano a riconvertire un capannone industriale trasformandolo in edificio residenziale, ma di fronte c'è un fabbricato con tanto di vedute che si aprono in quella direzione.
Per i condomini è come trovarsi qualcuno in casa da un giorno all'altro. La distanza minima di dieci metri può essere calcolata al lordo dei balconi soltanto quando si tratta di aggetti meramente decorativi e di piccole dimensioni: risulta sempre necessario calcolarla al netto quando le strutture sono invece «vivibili» perché consentono al proprietario di estendere l'uso dell'appartamento. Proprietario, impresa e comune pagano le spese (articolo ItaliaOggi del 06.06.2015).

EDILIZIA PRIVATACome evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati.
E da ciò deriva che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.
Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina.
La stessa giurisprudenza ha anche chiarito che solo gli aggetti costituenti elementi architettonici o meramente decorativi sono esclusi dal computo ai fini del calcolo della distanza in argomento, a condizione, peraltro, che presentino modeste dimensioni, sicché non può che concludersi nel senso della rilevanza di tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, aventi carattere di stabilità, solidità e della immobilizzazione ovvero idonei ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l’uso abitativo.
Si osserva, inoltre, che condizione indispensabile per l’applicazione del regime garantistico della distanza minima dei dieci metri è data dal fatto che esistano due pareti che si contrappongono di cui almeno una è finestrata: la sussistenza di tale condizione non è in contestazione nel caso che ne occupa, sussistendo, dunque, i presupposti di fatto e di diritto richiesti per l'applicabilità della disciplina qui in discussione.

2.1. L’eccezione non merita accoglimento.
2.2. Milita in tal senso in primo luogo l’analisi della documentazione in atti e, in particolare, lo stato di sviluppo del progetto all’epoca indicata dai controinteressati, dovendosi attribuire precipuo rilievo –al fine di escludere un livello di ragionevole certezza in ordine alla possibilità di percezione del profilo di illegittimità, imprescindibile al fine di fondare una valutazione di tardività del gravame– alla consistenza complessiva dell’intervento, sicché lo stato di avanzamento deve essere necessariamente rapportato all’intervento progettato nella sua integrità, stanti anche le difficoltà, in tali casi, di individuare nelle fasi prodromiche o intermedie dell’edificazione l’incidenza di singoli elementi costruttivi pure rilevanti nella rilevazione del contestato vizio.
2.3. Si osserva, inoltre, che la difficoltà di percezione del vizio dedotto in una fase antecedente all’acquisizione di dati connotati da una maggiore certezza ed attendibilità risulta, nella fattispecie, acuita dalla sussistenza di una disciplina regolamentare (art. 99, commi 18 e 19) che espressamente prevede che “i balconi aperti, le pensiline, i cornicioni non formano distanze fino ad un aggetto pari a 1/8,50 della distanza dai confini e per un massimo di metri 1,20”.
2.4. Ciò senza considerare che la violazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 è stata, comunque, dedotta con il ricorso introduttivo, notificato in data 07.08.2013, sicché le successive argomentazioni articolate con il ricorso per motivi aggiunti non costituiscono delle censure nuove, ponendosi quale sviluppo e puntualizzazione di una contestazione già lamentata, conseguente all’acquisizione dei dati necessari ad una più specifica e circostanziata qualificazione dell’asserito vizio.
3. Il Collegio rileva che proprio l’analisi di tale censura riveste, nell’articolato impianto delle doglianze sviluppate dalla difesa di parte ricorrente, carattere assorbente ai fini della fondatezza del ricorso nella parte riferita alla legittimità dei permessi di costruire n. 55 del 29.05.2012 e n. 26 del 22.02.2013.
3.1. Nella fattispecie, il C.T.U. (pagg. 36, 41 e 42 dell’elaborato peritale) ha espressamente rilevato che la conformità alla disciplina dettata dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 può essere affermata esclusivamente escludendo dal computo delle distanze i balconi, sicché la previsione del regolamento comunale sopra richiamata costituisce condizione imprescindibile al fine del rispetto dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444.
3.2. Il problema che si pone, dunque, è quello di verificare la legittimità della previsione regolamentare in rapporto alla ratio sottesa alla disposizione contenuta nel decreto ministeriale.
3.3. Il Collegio non ritiene suscettibili di un favorevole apprezzamento le controdeduzioni sviluppate dalle difese dei controinteressati, dirette a sostenere la ragionevolezza della previsione regolamentare e la possibilità per le amministrazioni di operare una valutazione “a monte”, attraverso, appunto, le norme regolamentari in ordine al computo o meno dei balconi.
3.4. Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati. E da ciò deriva (cfr. ex multis Cass. Civ. Sez. II 01.11.2004 n. 21899) che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata (cfr. Cons. St., sez. V, 02.11.2010 n. 7731; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 16.10.2009, n. 1742).
3.5. Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr. TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001 n. 1734, TAR Liguria Sez. I, 12.02.2004 n. 145). Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina (cfr. Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909).
3.6. La stessa giurisprudenza ha anche chiarito che solo gli aggetti costituenti elementi architettonici o meramente decorativi sono esclusi dal computo ai fini del calcolo della distanza in argomento, a condizione, peraltro, che presentino modeste dimensioni, sicché non può che concludersi nel senso della rilevanza di tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, aventi carattere di stabilità, solidità e della immobilizzazione ovvero idonei ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l’uso abitativo (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 21.10.2013, n. 5108).
3.7. Si osserva, inoltre, che condizione indispensabile per l’applicazione del regime garantistico della distanza minima dei dieci metri è data dal fatto che esistano due pareti che si contrappongono di cui almeno una è finestrata (Cons. St., sez. IV, 31.03.2015, n. 1670): la sussistenza di tale condizione non è in contestazione nel caso che ne occupa, sussistendo, dunque, i presupposti di fatto e di diritto richiesti per l'applicabilità della disciplina qui in discussione.
3.8. Come sopra esposto, infatti, a prescindere da ogni considerazione in merito all’impugnazione della disposizione regolamentare, la sussistenza dei suddetti presupposti consente la disapplicazione, pure richiesta dalla difesa di parte ricorrente, della norma regolamentare, dovendosi ritenere l’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 automaticamente inserito al posto della norma illegittima (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.05.2015 n. 2688 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale ai sensi del quale le norme degli strumenti urbanistici locali che impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di questi dai confini non sono derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali e pubblici in materia urbanistica.
Le norme sulle distanze di cui all’art. 873 e ss c.c. sono, invece, dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli e mirano unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose. Esse, in quanto tali, sono suscettibili di deroga mediante convenzione tra privati.
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L’art. 879 c.c., nel disporre che “alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano” va inteso nel senso che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali vanno annoverate le NTA del PRG del Comune, oltre al D.M. 1444/1968.
La giurisprudenza, nel ribadire la natura di norma primaria imperativa dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967), ne ha sancito la prevalenza anche rispetto ad eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione che, per questo, “vengono caducate ed automaticamente sostituite dalla anzidetta disposizione”.

Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente chiarire, da un lato, che le ricorrenti contestano l’applicazione dell’art. 46 NTA del PRG e delle previsioni di al D.M. 1444/1968, dall’altro, che la disposizione del D.M. 1444/1968 che trova indubbia applicazione è quella di cui al secondo comma dell’art. 9, che reca una disciplina specifica delle distanze tra edifici per il caso in cui tra i fabbricati siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli.
Poste tali premesse, è possibile procedere con l’esame delle singole censure.
Con riferimento alla pretesa applicazione della deroga di cui all’art. 879 cc., il Collegio richiama, condividendolo, il consolidato orientamento giurisprudenziale, ai sensi del quale, le norme degli strumenti urbanistici locali, che impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di questi dai confini non sono derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali e pubblici in materia urbanistica (v. in tal senso, ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.06.2010 n. 4181, Cass. Civ., Sez. II, 31.05.2006, n. 12966).
Le norme sulle distanze di cui all’art. 873 e ss c.c. sono, invece, dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli e mirano unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose. Esse, in quanto tali, sono suscettibili di deroga mediante convenzione tra privati.
Il fatto che gli edifici progettati confinano con vie pubbliche è pacifico e non contestato dalle ricorrenti, che anzi richiamano tale circostanza proprio al fine di rivendicare l’applicazione della previsione di cui all’art. 879 c.c..
Il diniego opposto all’istanza rileva distanze irregolari dalla viabilità di Via Marconi e Via Cortese.
In realtà, se ciò può valere ad escludere il rispetto delle distanze codicistiche (artt. 873, 878 e 879, comma secondo, codice civile), non può arrivare a far superare l’obbligo di rispetto delle distanze imposte da leggi e da regolamenti urbanistici (cfr. Cass. Civile II, 16.04.2007 n. 9077).
L’art. 879 c.c., nel disporre che “alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano” va inteso nel senso che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali vanno annoverate le NTA del PRG del Comune di Bari, oltre al D.M. 1444/1968 (in tal senso TAR Piemonte, sez. I, sent. 1034 del 13.06.2014, TAR Palermo,sez. III n. 2049, del 17/10/2012).
La giurisprudenza, nel ribadire la natura di norma primaria imperativa dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967), ne ha sancito la prevalenza anche rispetto ad eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione che, per questo, “vengono caducate ed automaticamente sostituite dalla anzidetta disposizione” (Così Cons. Stato, Sez. IV, sent. 7731 del 02.11.2010).
Nel caso in esame, tuttavia, non si rinvengono contrasti fra le NTA del PRG del Comune di Bari, in particolare la disposizione di cui all’art. 46, e l’art. 9 D.M. 1444/1968, risultando, piuttosto, il ricorso teso ad escludere l’applicabilità di entrambe le previsioni al progetto edilizio oggetto di istanza di permesso di costruire.
Né, per le medesime ragioni, assume rilievo la previsione inserita con il Decreto c.d. “del Fare” (D.L. 21.06.2013 n. 69 convertito, con modificazioni, dalla L. 09.08.2013, n. 98) che ha introdotto all’interno del Testo Unico dell’Edilizia l’art. 2-bis il quale prevede che “ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
Le ricorrenti, infatti, come già evidenziato, rivendicano l’applicazione della deroga di cui all’art. 879 c.c. e, più specificamente, delle deroghe alla disciplina delle distanze, non rinvenibili nel caso in esame, avendo il Comune resistente inteso, piuttosto, applicare l’art. 46 NTA del PRG, in senso conforme alle previsioni di cui all’art. 9 del D.M. 1444/1968 (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 14.05.2015 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Minori distanze per risparmio energetico: non esiste un "diritto" alla deroga.
Il TAR Abruzzo-Pescara,
interviene in materia di deroga alla normativa sulle distanze tra costruzioni affermando che l'applicazione della normativa speciale in materia di risparmio energetico non è ^automatica^ e che invece spetta al Comune valutare se esista la possibilità di ottenere i medesimi risultati energetici senza gravare sulle posizioni giuridiche di chi subisce la maggiore altezza e/o i minori distacchi.
Nella fattispecie l'A.C. aveva contestato delle irregolarità nella realizzazione di una palazzina residenziale.
Il privato proprietario aveva proposto istanza di accertamento di conformità invocando, quanto alle distanze, la normativa in materia di risparmio energetico (D.lgs. 102/2014 già D.lgs. 115/2008), sostenendo di avere con la richiesta di sanatoria proposto soluzioni tecniche idonee (pacchetti termici) ad eliminare le difformità in particolare relativamente all’altezza dell’edificio e all’aggetto dei balconi.
Il Comune aveva ritenuto che le soluzioni prospettate rappresentassero "un espediente o accorgimento fuorviante, o modo fittizio di far apparire l'altezza e la distanza rientranti nelle norme" nel tentativo di superare quanto contestato nell'ordinanza di demolizione.
Pronunciandosi su ordine di demolizione e diniego di sanatoria, il TAR Abruzzo ha statuito che poiché la norma (art. 11 D.Lgs. 102/2014) introduce una valutazione di tipo tecnico in ordine alla verifica di tale presupposto, essa esclude che sussista un “diritto” alla deroga.
Il che a dire:
• che la deroga ai parametri di altezza e distanze non costituisce l’automatica conseguenza di una scelta del costruttore di cui il Comune debba limitarsi a prendere atto;
• che l'applicazione della norma è invece la conseguenza di una valutazione effettuata dall’amministrazione in ordine al carattere necessario della soluzione prescelta, e quindi rispetto alla possibilità di ottenere i medesimi risultati energetici senza gravare sulle posizioni giuridiche di chi subisce la maggiore altezza e/o i minori distacchi;
• che il Comune non può assentire una deroga alle distanze laddove il maggiore spessore dei muri perimetrali possa essere “recuperato” verso l’interno, e perciò non necessariamente verso le proprietà altrui;
• che analoga considerazione può farsi per l’altezza complessiva dell’edificio, anch’essa in linea di principio comunque contenibile nell’ambito dei parametri vigenti.

Il che evidenzia l’incompatibilità della richiesta di deroga, che implica una valutazione tecnico-discrezionale, con il procedimento finalizzato ad attribuire un titolo postumo sulla base di un mero “accertamento di conformità”.
In conclusione: l’applicazione dei pacchetti termici ad una struttura ormai realizzata, con caratteristiche essenziali già acquisite, giustifica il rigetto della domanda di sanatoria sulla scorta della disciplina speciale, vera l’estraneità della suddetta disciplina al procedimento ex art. 36 t.u. ed. (commento tratto da http://studiospallino.blogspot.it - TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 14.05.2015 n. 206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2 – Quanto al merito, vanno preliminarmente esaminati i motivi aggiunti.
L’art. 11, co. 1. d.lgs. 115/2008, su cui essenzialmente si basa la domanda di sanatoria, è stato abrogato dall’art. 19, co. 1, lett. a), D.lgs. 04.07.2014, n. 102 (entrato in vigore il 19.07.2014). Tale circostanza, rilevata dal Comune, è tuttavia ininfluente alla luce dell’art. 36 t.u. ed., secondo cui gli interessati “possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Stabilito che la norma era all’epoca ancora in vigore, va evidenziato che,
ai fini delle previste deroghe, la stessa richiede che le maggiori dimensioni di muri e solai siano necessari “ad ottenere una riduzione minima…”, e perciò, introducendo una valutazione di tipo tecnico in ordine alla verifica di tale presupposto, esclude che sussista un “diritto” alla deroga, come invece sembrano in vario modo supporre i ricorrenti.
Deve infatti ritenersi che
la deroga ai parametri di altezza e distanze non costituisca l’automatica conseguenza di una scelta del costruttore di cui il Comune debba limitarsi a prendere atto, risultando della norma in parola che essa è invece la conseguenza di una valutazione effettuata dall’amministrazione in ordine al carattere necessario della soluzione prescelta, e quindi rispetto alla possibilità di ottenere i medesimi risultati energetici senza gravare sulle posizioni giuridiche di chi subisce la maggiore altezza e/o i minori distacchi.
Non sembra, cioè, che il Comune possa assentire una deroga alle distanze laddove il maggiore spessore dei muri perimetrali possa essere “recuperato” verso l’interno, e perciò non necessariamente verso le proprietà altrui. Analoga considerazione può farsi per l’altezza complessiva dell’edificio, anch’essa in linea di principio comunque contenibile nell’ambito dei parametri vigenti.
Il che evidenzia l’incompatibilità della richiesta di deroga, che implica una valutazione tecnico-discrezionale, con il procedimento finalizzato ad attribuire un titolo postumo sulla base di un mero “accertamento di conformità”, come del resto confermato dal dato normativo secondo cui la deroga è consentita “nell'ambito delle pertinenti procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo II del D.P.R. 06.06.2001, n. 380”, e quindi non nel procedimento di cui all’art. 36 (inserito nel titolo IV).
L’applicazione dei pacchetti termici ad una struttura ormai realizzata, con caratteristiche essenziali già acquisite, giustifica perciò le conclusioni del provvedimento, che ha in buona sostanza ritenuto l’estraneità della suddetta disciplina al procedimento ex art. 36 t.u. ed., e quindi irrilevante l’applicazione dei pacchetti termici sul calcolo dell’altezza del fabbricato e dell’aggetto dei balconi.
Poiché la domanda di sanatoria era (tranne un punto, su cui infra) pressoché interamente incentrata sulle pretese conseguenze derivanti dall’applicazione dei pacchetti termici (cfr. la relazione tecnico-illustrativa, doc. 3 produzioni comunali 12.01.2015), la rilevata carenza dei presupposti di per sé consolida il diniego riguardo ai punti 2) e 3) della pag. 3 della appena citata relazione. Ne consegue il rigetto del secondo motivo aggiunto.
In ordine al motivo con cui si deduce la mancata considerazione delle memorie presentate nel corso del procedimento di sanatoria, va osservato che la ragione sostanziale del diniego consiste nella ritenuta inapplicabilità alla fattispecie della invocata deroga, sicché è irrilevante il percorso interpretativo attraverso cui il Comune è pervenuto ad una conclusione che il Collegio considera corretta. Deve perciò escludersi che le osservazioni presentate in ordine al punto determinassero particolari oneri motivazionali.
Parte ricorrente effettua ulteriori considerazioni richiamando le conclusioni emergenti dalla relazione tecnica allegata ai motivi aggiunti, in cui si evidenzia tra l’altro l’alterazione del profilo naturale del lotto in conseguenza dei lavori eseguiti sui lotti circostanti (la circostanza è confermata dalle relazioni della Polizia Municipale, quale quella in data 08.11.2013, doc. 3 produzioni comunali 30.06.2014: “… le quote di riferimento relative alla pendenza del terreno sono state modificate a seguito delle opere di sbancamento eseguite per la realizzazione della strada di accesso e degli edifici circostanti”). Le circostanze suddette –che avrebbero influito sulle quote della costruzione ed interferito sulla misurazione dell’altezza- sono tuttavia estranee all’oggetto della sanatoria, che sul punto dell’altezza riguardava, come già osservato, esclusivamente l’accesso alle deroghe di cui all’art. 11 d.lgs. 115/2008.
L’ultima parte dei motivi aggiunti (pagg. 13 e seg.) presuppone che “la parte sub 3) dell’ordinanza demolitoria, nel silenzio del diniego, è stata risolta”, il che tuttavia non è, visto che il provvedimento impugnato ribadisce esplicitamente “le motivazioni espresse nell'avviso ed in particolare: 1. La misura dell’aggetto dei balconi superiore a mt. 1,60 (limite prescritto dalle NTA) rimane irregolare…; 2. La distanza dai confini della scalinata realizzata in aderenza al muro non di proprietà lato ovest rimane irregolare benché disegnata in parte come aiuola (perché in sostanza l'aiuola verrà a svolgere la medesima funzione di rampa d'accesso)”, rispetto alle quali non è stata comunque dedotta alcuna censura atta ad evidenziarne l’illegittimità.
Ne deriva il consolidamento del diniego anche riguardo a tali capi.
I motivi aggiunti vanno in conclusione rigettati.

aprile 2015

EDILIZIA PRIVATASecondo l’inequivocabile tenore della disposizione recata dall’art. 4 del D.M. n. 1444 del 1968 “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”; la giurisprudenza anche di questa Sezione ha avuto modo di affermare come le norme sulle distanze di cui al D. M. 1444/1968 hanno carattere pubblicistico ed inderogabile e vincolano i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici.
In particolare, la giurisprudenza in materia ha statuito che trattandosi di norma volta ad “impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è pertanto non eludibile”.
A tal proposito il Collegio sottolinea che “le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi”.
Ne deriva che il giudice è tenuto ad applicare le disposizioni concernenti la distanza minima tra gli edifici “anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali” dovendosi le prime ritenere automaticamente inserite nel p.r.g. al posto della norma illegittima.
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L’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, rubricato “Limiti di distanza tra i fabbricati”, prescrive i limiti minimi di distanza tra edifici a seconda delle diverse zone territoriali omogenee, e segnatamente, in ipotesi di costruzione di “nuovi edifici ricadenti in altre zone” (comma 1, n. 2), prevede che la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino all’altezza del fabbricato finitimo più alto, se questa sia maggiore di 10 metri (comma 2).
In altre parole, qualora uno o entrambi i fabbricati confinanti (l’edificio pregresso e/o quello di nuova costruzione) presentino un’altezza maggiore di 10 metri, la distanza minima tra edifici prescritta dalla legge (10 metri) va maggiorata sino all’altezza del fabbricato più alto.
La misura minima della distanza, tuttavia, è derogabile in due ipotesi tassative, contemplate dal comma 2 dell’art. 9: è consentito edificare a distanze inferiori rispetto a quelle previste dal comma 1 soltanto per i piani particolareggiati e per le lottizzazioni convenzionate, e non anche per gli interventi edilizi diretti, consentiti dallo strumento urbanistico, interventi tra i quali ricomprendere il permesso di costruire, come, appunto, nel caso in questione.

Occorre, anzitutto, premettere che secondo l’inequivocabile tenore della disposizione recata dall’art. 4 del D.M. n. 1444 del 1968 “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”; la giurisprudenza anche di questa Sezione ha avuto modo di affermare come le norme sulle distanze di cui al D. M. 1444/1968 hanno carattere pubblicistico ed inderogabile e vincolano i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici (cfr. Cons. St., Sez. IV 05.12.2005 n. 6909).
In particolare, la giurisprudenza in materia ha statuito che trattandosi di norma volta ad “impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è pertanto non eludibile”.
A tal proposito il Collegio sottolinea che “le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi” (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 6909 del 2005 cit.).
Ne deriva che il giudice è tenuto ad applicare le disposizioni concernenti la distanza minima tra gli edifici “anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali” dovendosi le prime ritenere automaticamente inserite nel p.r.g. al posto della norma illegittima (cfr. in tal senso Cass. civ., Sez. II, 29.05.2006, n. 12741).
In particolare, l’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, rubricato “Limiti di distanza tra i fabbricati”, prescrive i limiti minimi di distanza tra edifici a seconda delle diverse zone territoriali omogenee, e segnatamente, in ipotesi di costruzione di “nuovi edifici ricadenti in altre zone” (comma 1, n. 2), prevede che la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino all’altezza del fabbricato finitimo più alto, se questa sia maggiore di 10 metri (comma 2).
In altre parole, qualora uno o entrambi i fabbricati confinanti (l’edificio pregresso e/o quello di nuova costruzione) presentino un’altezza maggiore di 10 metri, la distanza minima tra edifici prescritta dalla legge (10 metri) va maggiorata sino all’altezza del fabbricato più alto.
La misura minima della distanza, tuttavia, è derogabile in due ipotesi tassative, contemplate dal comma 2 dell’art. 9: è consentito edificare a distanze inferiori rispetto a quelle previste dal comma 1 soltanto per i piani particolareggiati e per le lottizzazioni convenzionate, e non anche per gli interventi edilizi diretti, consentiti dallo strumento urbanistico, interventi tra i quali ricomprendere il permesso di costruire, come, appunto, nel caso in questione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.04.2015 n. 2130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA- Si ha veduta quando è consentita non solo una comoda "inspectio" -senza l'uso di mezzi artificiali- sul fondo del vicino ma anche una comoda, agevole e sicura "prospectio", cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente.
Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal legislatore nella definizione delle vedute, è il porsi l'osservatore di normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e lateralmente, l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da poter esser visto dall'esterno.
Per poter distinguere una veduta prospettica da una finestra lucifera, bisogna accertare, avuto riguardo non all'intenzione del proprietario, ma alle caratteristiche oggettive ed alla destinazione dei luoghi, se essa adempie alla funzione, normale e permanente non esclusiva, di dare aria e luce all'ambiente e di permettere la "inspectio" e la "prospectio" sul contiguo fondo altrui, in modo da determinare un inequivoco e durevole assoggettamento di quel fondo a tale peso. Non può sussistere veduta quando, pur essendo possibile l'affaccio attraverso un'apertura, non possa attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza pericoli, la sporgenza del capo per guardare di fronte, obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino.
- “Secondo l'uso corrente, che deve ritenersi recepito dal legislatore nella definizione delle vedute (art. 900 c.c.), l'espressione "affacciarsi" denota la posizione che l'osservatore assume per potere, comodamente, senza pericolo e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, vedere obliquamente e lateralmente sul fondo altrui, tenendo il petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera stessa, sicché l'esistenza di un parapetto alto soltanto cinquantacinque centimetri esclude che un'apertura possa considerarsi veduta”.
- “la "porta-finestra" che consenta la "inspectio", ma non la "prospectio", ossia lo sguardo frontale sul fondo del vicino, ma non lo sguardo obliquo e laterale, non integra veduta, sebbene permetta occasionalmente e fugacemente, nel momento dell'uscita, la visione globale e mobile del fondo alieno”.
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L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che impone la distanza minima di dieci metri, deve osservarsi solo tra edifici contrapposti ed anche se solo su uno di essi sono aperte le finestre, essendo tale norma volta a stabilire nell'interesse pubblico un'idonea intercapedine tra gli edifici e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza; mentre in caso di una parete finestrata perpendicolare, la distanza va computata sulla base dell'art. 907 c.c., che impone una distanza minima di tre metri dalle vedute esistenti sul fondo del vicino.

Quanto al secondo profilo, occorre indagare ed accertare la natura della porta-finestra ed in particolare se essa possa definirsi “veduta” (come sostiene la ricorrente, dedicando a tale qualificazione ampia parte del motivo di ricorso) ovvero “luce”, atteso che solo in ipotesi di veduta è applicabile l’invocato art. 907 c.c..
In punto di fatto, l’apertura in questione dà attualmente accesso ad un solaio che non risulta munito, su tutti i lati, di parapetto. Infatti, a seguito dell’ordinanza collegiale del Tribunale di Bari del 28.11.2009, alla originaria proprietaria dell’immobile dotato di porta-finestra (dante causa dell’odierna ricorrente) è stato ordinato di rimuovere la ringhiera apposta sul lastrico (originariamente sprovvisto di parapetto su tutti i lati) che, pertanto, è praticabile, dalla porta-finestra, in totale mancanza di protezioni e presidi di sicurezza per chi via acceda.
L’ordinanza in questione, peraltro, ha anche affermato che l’apposizione della ringhiera ha determinato la realizzazione di un’opera finalizzata all’esercizio di una servitù di affaccio non preesistente e tale da turbare il possesso della proprietà del lastrico.
Così ricostruita in fatto la situazione, deve escludersi, per la porta-finestra, la natura di veduta atteso che essa è sfornita di alcun parapetto che consenta di affacciare in sicurezza sul lastrico altrui.
(“Si ha veduta quando è consentita non solo una comoda "inspectio" -senza l'uso di mezzi artificiali- sul fondo del vicino ma anche una comoda, agevole e sicura "prospectio", cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente. Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal legislatore nella definizione delle vedute, è il porsi l'osservatore di normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e lateralmente, l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da poter esser visto dall'esterno. Per poter distinguere una veduta prospettica da una finestra lucifera, bisogna accertare, avuto riguardo non all'intenzione del proprietario, ma alle caratteristiche oggettive ed alla destinazione dei luoghi, se essa adempie alla funzione, normale e permanente non esclusiva, di dare aria e luce all'ambiente e di permettere la "inspectio" e la "prospectio" sul contiguo fondo altrui, in modo da determinare un inequivoco e durevole assoggettamento di quel fondo a tale peso. Non può sussistere veduta quando, pur essendo possibile l'affaccio attraverso un'apertura, non possa attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza pericoli, la sporgenza del capo per guardare di fronte, obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino.” Tribunale Bari, sez. I, del 18/01/2012, n. 201;
Secondo l'uso corrente, che deve ritenersi recepito dal legislatore nella definizione delle vedute (art. 900 c.c.), l'espressione "affacciarsi" denota la posizione che l'osservatore assume per potere, comodamente, senza pericolo e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, vedere obliquamente e lateralmente sul fondo altrui, tenendo il petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera stessa, sicché l'esistenza di un parapetto alto soltanto cinquantacinque centimetri esclude che un'apertura possa considerarsi veduta.” (Cassazione civile sez. II, del 12/12/1980, n. 6403).
Ed ancora: “la "porta-finestra" che consenta la "inspectio", ma non la "prospectio", ossia lo sguardo frontale sul fondo del vicino, ma non lo sguardo obliquo e laterale, non integra veduta, sebbene permetta occasionalmente e fugacemente, nel momento dell'uscita, la visione globale e mobile del fondo alieno.” Cassazione civile, sez. VI, del 13/08/2014, n. 17950;).
Esclusa la natura di veduta per l’apertura in esame, deve escludersi conseguentemente, l’applicabilità dell’art. 907 c.c. e della distanza legale di mt. 3 prescritta sia in obliquo sia al di sotto delle vedute.
Parimenti infondate sono le ulteriori doglianze articolate nell’unico motivo di ricorso.
Non risulta sussistente la violazione dell’art. 32 NTA (che prescrive il distacco minimo dai confini di mt. 5) in quanto tale disposizione, non vale, per sua espressa deroga, in ipotesi di costruzione in aderenza (recita testualmente l’art. 32 NTA: “distacco minimo dai confini (Dc)= 5 mt. salvo aderenza”); ipotesi ricorrente nel caso in esame.
Parimenti è a dirsi per l’invocato rispetto dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968.
Deve rilevarsi, infatti, che l’edificio da realizzarsi non ha alcuna parete frontistante con quella della ricorrente su cui insiste la porta-finestra, pertanto, non può trovare applicazione la disposizione invocata che riguarda le costruzioni antistanti (“L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che impone la distanza minima di dieci metri, deve osservarsi solo tra edifici contrapposti ed anche se solo su uno di essi sono aperte le finestre, essendo tale norma volta a stabilire nell'interesse pubblico un'idonea intercapedine tra gli edifici e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza; mentre in caso di una parete finestrata perpendicolare, la distanza va computata sulla base dell'art. 907 c.c., che impone una distanza minima di tre metri dalle vedute esistenti sul fondo del vicino” (Consiglio di Stato, sez. V, del 18/02/2003, n. 871 e TAR Genova (Liguria) sez. I , 16/02/2005 n. 221) (TAR Pugli-Bari, Sez. III, sentenza 22.04.2015 n. 641 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dicembre 2014

EDILIZIA PRIVATA: Circa la questione relativa al computo nelle distanze dei balconi e dei vani tecnici, va osservato in linea generale che le parti aggettanti di un fabbricato rientrano certamente tra gli elementi che costituiscono gli edifici da assoggettare al regime delle distanze in edilizia di cui all’articolo 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (“Limiti inderogabili di distanze tra i fabbricati”) per assicurare le note condizioni di salubrità sotto il profilo igienico-sanitario, mediante l’eliminazione di perniciose intercapedini.
E’ invero noto che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate ed edifici antistanti, prevista dall’art 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, come argomentato correttamente dalla difesa di parte ricorrente, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuole distanziare, sono solo i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle pareti con funzione decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari (e significative) dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo.
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In considerazione di tali inderogabili esigenze, ancora di recente si è espressa la IV Sezione del Consiglio di Stato, in fattispecie relativa al distacco di una scala, ritenendo che il vano scale e, a maggior ragione, una rampa di scala scoperta, pur non incidendo sulla volumetria, trattandosi di volume tecnico, può assumere diversa rilevanza sul piano della normativa dettata per le distanze dai confini, concludendo che deve ritenersi non tollerabile la presenza di una parte, sia pure di modesta entità, di un opus edilizio che vada ad insistere in maniera permanente su uno spazio territoriale che deve rimanere libero da qualsiasi ingombro.
Analoga conclusione ha tratto il Consiglio di Stato con riferimento espresso ai balconi, distinguendo, ai fini della determinazione del volume dell’edificio, i balconi aggettanti che sporgono dalla facciata dell’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, senza svolgere alcuna funzione di sostegno né di copertura, dalle terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio, il che ha consentito di argomentarne, invero non proprio pianamente, la sostanziale “irrilevanza” (o, al contrario, la rilevanza) anche ai fini del computo delle distanze “solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò”.
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E’ tuttavia certo che la eventuale norma di piano che, sul presupposto (e a condizione) della loro minima invadenza strutturale, escludesse i “balconi” dal computo delle distanze, o che ne individuasse le condizioni di esclusione, costituirebbe in ogni caso norma eccezionale e di favore, in quanto integrativa e “derogativa” della norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del D.M. più volte richiamato.

IV.4) Il Collegio ritiene di dover disattendere le contestazioni mosse e di dover al contrario assumere a proprie le conclusioni cui è pervenuto il consulente tecnico.
Quanto, anzitutto, al profilo relativo alla possibilità di deroghe delle distanze minime previste, va osservato che il provvedimento impugnato è il rilascio di un permesso di costruire e non già di una lottizzazione convenzionata ovvero di un piano particolareggiato che preveda espressamente distanze inferiori in deroga; la mera possibilità di deroga contenuta nel PRE, in definitiva, non importa ex se deroga alle distanze ed impone, al contrario, il rispetto delle stesse ogniqualvolta l’intervento si atteggi, come nel caso, come individuo.
La ratio della invocata disposizione è peraltro ben individuabile proprio nella natura unitaria di un intervento plurimo in tale consistenza autorizzato, che ben consentirebbe una diversa disposizione reciproca dei fabbricati edificandi, ove essa fosse, ben vero, convenzionalmente pattuita (in caso di intervento convenzionato) ovvero autoritariamente imposta (nel caso di piano particolareggiato), e nessuno dei due casi ricorre nella specie.
Quanto alla questione relativa al computo nelle distanze dei balconi e dei vani tecnici, va osservato in linea generale che le parti aggettanti di un fabbricato rientrano certamente tra gli elementi che costituiscono gli edifici da assoggettare al regime delle distanze in edilizia di cui all’articolo 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (“Limiti inderogabili di distanze tra i fabbricati”) per assicurare le note condizioni di salubrità sotto il profilo igienico-sanitario, mediante l’eliminazione di perniciose intercapedini.
E’ invero noto che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate ed edifici antistanti, prevista dall’art 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, come argomentato correttamente dalla difesa di parte ricorrente, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuole distanziare, sono solo i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle pareti con funzione decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari (e significative) dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 6909/2005).
IV.5) In considerazione di tali inderogabili esigenze, ancora di recente si è espressa la IV Sezione del Consiglio di Stato (con sentenza 04.03.2014, n. 1000), in fattispecie relativa al distacco di una scala, ritenendo che il vano scale e, a maggior ragione, una rampa di scala scoperta, pur non incidendo sulla volumetria, trattandosi di volume tecnico, può assumere diversa rilevanza sul piano della normativa dettata per le distanze dai confini, concludendo che deve ritenersi non tollerabile la presenza di una parte, sia pure di modesta entità, di un opus edilizio che vada ad insistere in maniera permanente su uno spazio territoriale che deve rimanere libero da qualsiasi ingombro.
Analoga conclusione ha tratto il Consiglio di Stato con riferimento espresso ai balconi, distinguendo, ai fini della determinazione del volume dell’edificio, i balconi aggettanti che sporgono dalla facciata dell’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, senza svolgere alcuna funzione di sostegno né di copertura, dalle terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio (cfr. Cons. di Stato, n. 3381/2008), il che ha consentito di argomentarne, invero non proprio pianamente, la sostanziale “irrilevanza” (o, al contrario, la rilevanza) anche ai fini del computo delle distanze “solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò” (cfr. TAR Lazio, n. 5319/2010; TAR Liguria, n. 1736/2009).
E’ tuttavia certo che la eventuale norma di piano che, sul presupposto (e a condizione) della loro minima invadenza strutturale, escludesse i “balconi” dal computo delle distanze, o che ne individuasse le condizioni di esclusione, costituirebbe in ogni caso norma eccezionale e di favore, in quanto integrativa e “derogativa” della norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del D.M. più volte richiamato (cfr. Cons. di Stato, n. 5557/2013)
(TAR Abruzzo-L’Aquila, sentenza 20.12.2014 n. 955 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze violate, demolizione anche se si è in buona fede. Balconi. Tutti i condòmini sono legittimati ad agire.
I balconi troppo vicini non evitano la demolizione, anche se nel frattempo l’orientamento delle sentenze sul calcolo delle distanze è cambiato.
Nella sentenza 02.12.2014 n. 25501 la II Sez. civile della Corte di Cassazione ha deciso sulla causa nata dalla domanda dei proprietari di un immobile, i quali avevano chiesto la demolizione di alcuni manufatti presenti in un edificio confinante, denunciando la violazione delle distanze legali tra costruzioni.
Questa domanda era stata proposta sia nei confronti della società costruttrice del fabbricato, sia nei confronti di coloro che si erano poi resi acquirenti dei singoli appartamenti del costituito condominio. Il tribunale di Sassari e la Corte d’appello di Cagliari avevano dato ragione a chi aveva promosso la causa, condannando ad arretrare, fino al rispetto della distanza dal confine stabilita dal vigente Piano regolatore comunale, l’ingresso del vano scala condominiale, i balconi e le canne fumarie.
Fra i diversi motivi del ricorso per cassazione, rigettato dalla Suprema Corte, il compratore di uno degli appartamenti oggetto della parziale demolizione aveva opposto il proprio legittimo affidamento e la propria buona fede, stante la regolarità urbanistica dell’edificio, dotato di regolare concessione edilizia, e tenuto conto che al momento dell’acquisto la giurisprudenza non considerava i balconi aperti ai fini del computo delle distanze.
Ma è ormai pacifico che, mentre non vanno calcolate come riferimento per le distanze le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, costituiscono invece «corpo di fabbrica» i balconi, anche se scoperti, che siano di apprezzabile profondità e ampiezza.
Il fatto che decenni orsono questa conclusione fosse controversa nelle aule dei tribunali non vale a fondare oggi l’affidamento incolpevole di chi avesse comprato all’epoca un immobile provvisto di balconi troppo vicini alla proprietà confinante: come spiega ora la Cassazione, infatti, perché si possa pretendere che un mutamento interpretativo non sia retroattivo (ovvero, perché si instauri la cosiddetta tutela da “prospective overruling”), si deve essere in presenza di un imprevedibile ribaltamento della giurisprudenza su di una regola del processo, e non su norme di carattere sostanziale, quali quelle attinenti ai limiti della proprietà.
È invece altrettanto evidente che, qualora l’immobile venduto risulti costruito in violazione delle distanze legali, in favore del compratore opera verso il venditore la garanzia per evizione, ai sensi degli articoli 1483 e 1484 del Codice civile, o la garanzia prevista dall’articolo 1489.
Quanto ai rapporti tra edifici condominiali e proprietà confinanti, si consideri come la domanda di arretramento di un fabbricato in condominio per violazione delle distanze legali deve essere proposta necessariamente nei confronti di tutti i condòmini, e non invece nei confronti dell’amministratore del condominio.
Così come tutti i condòmini, e non soltanto quelli che siano proprietari degli appartamenti direttamente prospettanti verso le costruzioni limitrofe che violano le distanze legali, sono legittimati ad agire per far valere il rispetto delle relative disposizioni.
Le norme sulle distanze sono poi applicabili anche nei rapporti tra i condòmini di uno stesso edificio condominiale, purché compatibili, però, con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime.
Pertanto, se il giudice accerti che non sia alterata la destinazione delle parti condominiali e non sia impedito il pari uso agli altri partecipanti, riterrà legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra le proprietà contigue. Né possono operare le norme del Codice civile in tema di distanze, nell’ipotesi dell’installazione di impianti indispensabili ai fini di una reale abitabilità delle singole unità immobiliari
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

novembre 2014

EDILIZIA PRIVATA: SULLA VALENZA DEL D.M. 1444/1968.
In materia di distanze fra costruzioni, l’art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 ha efficacia di legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art. 21-quinquies L. 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), come novellato dall’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765 (c.d. legge ponte).
In ragione di ciò, poiché tale articolo dispone l'inderogabilità dei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto.

Sorge, fra due privati, una controversia che investe l’applicazione
delle distanze di cui all’art. 9 D.M. n. 1444/1968 -norma posta a tutela di un interesse d’igiene pubblica- a mente della quale nei centri urbani, le distanze minime fra pareti finestrate di edifici antistanti non può essere inferiore dieci metri.
Il Tribunale civile condannava la parte convenuta all’arretramento del fabbricato di metri cinque dal confine. Il giudice d’appello, in parziale riforma, dimidiava la distanza. Per quanto qui interessi, la Corte di merito affermò che la norma in esame -diretta ai Comuni nella redazione degli strumenti urbanistici- non ha immediata efficacia nei confronti dei privati e opera esclusivamente per i regolamenti edilizi successivi all’entrata in vigore del decreto stesso, avvenuta in data 17.04.1968.
Nella fattispecie, all'epoca della costruzione realizzata dalla convenuta, era in vigore il preesistente regolamento edilizio, che prescriveva una diversa e inferiore distanza dal confine (di metri 2,50).
La questione giunge all’esame della Cassazione, che accoglie il ricorso osservando che in tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 ha efficacia di legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art. 21-quinquies della L. 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), come novellato dall’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765 (c.d. legge ponte).
In ragione di ciò, poiché tale articolo dispone l'inderogabilità dei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 11.11.2014 n. 24013 - tratto da Urbanistica e appalti n. 1/2015).

settembre 2014

EDILIZIA PRIVATA: Il criterio della prevenzione, quale si evince dal combinato disposto degli articoli 873 e 875 c.c., è derogato dal regolamento comunale edilizio nel caso in cui questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle stesse costruzioni dal confine; che siffatta deroga non opera allorché il regolamento edilizio, pur imponendo il rispetto di una data distanza altresì dal confine, consenta anche le costruzioni in aderenza o in appoggio, con la conseguenza che in tale ipotesi il primo costruttore ha la scelta tra il costruire alla distanza regolamentare dal confine e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo; che, tuttavia, in tal ultima evenienza il preveniente non ha anche la possibilità di costruire a distanza inferiore dal confine.
Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli articoli 872, 873 e 875 c.c. e del regolamento edilizio del Comune di (OMISSIS) emanato nell’anno 1955.
Adducono che “la circostanza che nella specie il regolamento edilizio della (OMISSIS) del 1955, dopo la norma posta dalla Corte genovese a fondamento della sentenza…, prevedesse che “è permessa la costruzione a muro cieco sul confine” impone di ricondurre la fattispecie nell’ambito di applicazione del criterio della prevenzione” (così ricorso, pag. 8), cosicché “l’attivita’ edilizia degli appellati (OMISSIS) e (OMISSIS) sarebbe… legittima” (così ricorso, pag. 8).
Il motivo è destituito di fondamento.
E’ bastevole, da un canto, reiterare gli insegnamenti di questa Corte (il riferimento è a Cass. 11.08.1990, n. 8222), alla cui stregua il criterio della prevenzione, quale si evince dal combinato disposto degli articoli 873 e 875 c.c., è derogato dal regolamento comunale edilizio nel caso in cui questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle stesse costruzioni dal confine; che siffatta deroga non opera allorché il regolamento edilizio, pur imponendo il rispetto di una data distanza altresì dal confine, consenta anche le costruzioni in aderenza o in appoggio, con la conseguenza che in tale ipotesi il primo costruttore ha la scelta tra il costruire alla distanza regolamentare dal confine e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo; che, tuttavia, in tal ultima evenienza il preveniente non ha anche la possibilità di costruire a distanza inferiore dal confine.
E’ bastevole, dall’altro, evidenziare che i medesimi ricorrenti riconoscono che il piano regolatore generale del comune di (OMISSIS) –da applicare al caso di specie– prefigurava la distanza di m. 4 dal confine ed ancora che è fuor di discussione, siccome il secondo giudice ha evidenziato, che “l’ampliamento –per una larghezza di cm. 192 dal filo del preesistente fabbricato– si spinge fino a cm. 173 dal confine col terreno mappale 1237 degli attori” (così sentenza d’appello, pag. 5) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.09.2014 n. 19408 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di distanze legali fra edifici, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando la modifica della volumetria del fabbricato con aumento della sagoma di ingombro, costituisce nuova costruzione, soggetta alla disciplina sulle distanze legali in vigore al momento della sua effettuazione; ne consegue che, qualora tale normativa sia diversa da quella prevista per la costruzione originaria, il preveniente non potrà sopraelevare in allineamento con l’originaria costruzione, non trovando applicazione il criterio della prevenzione, che –nel caso di costruzione sul confine– impone a colui che edifica per primo di costruire in corrispondenza della stessa linea di confine su cui ha innalzato il piano inferiore oppure a distanza non inferiore a quella legale, in modo da non costringere il prevenuto ad elevare a sua volta un immobile a linea spezzata.
Fondato e meritevole di accoglimento è il primo motivo del ricorso principale.
È bastevole reiterare l’insegnamento di questa Corte alla cui stregua, in materia di distanze legali fra edifici, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando la modifica della volumetria del fabbricato con aumento della sagoma di ingombro, costituisce nuova costruzione, soggetta alla disciplina sulle distanze legali in vigore al momento della sua effettuazione; ne consegue che, qualora tale normativa sia diversa da quella prevista per la costruzione originaria, il preveniente non potrà sopraelevare in allineamento con l’originaria costruzione, non trovando applicazione il criterio della prevenzione, che –nel caso di costruzione sul confine– impone a colui che edifica per primo di costruire in corrispondenza della stessa linea di confine su cui ha innalzato il piano inferiore oppure a distanza non inferiore a quella legale, in modo da non costringere il prevenuto ad elevare a sua volta un immobile a linea spezzata (cfr. Cass. 12.01.2005, n. 400; cfr. altresì Cass. 03.01.2011, n. 74, secondo cui in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione; ad essa, pertanto, è applicabile la normativa vigente al momento della modifica e non opera il criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione).
In questo quadro si da atto che i medesimi controricorrenti riferiscono e non disconoscono che il “regolamento edilizio del Comune di Castel S. Angelo, adottato dal Comune con delibera Consiliare n. 62 del 14/1076 e approvato dalla Regione Lazio con delibera n. 2452 del 06/06/1978… per la zona C1 prevede una distanza di m. 5,00 dai confini interni e di 10 m. dagli altri fabbricati con possibilità di costruire in aderenza in presenza di una convenzione tra i privati” (così memoria ex art. 378 c.p.c. diparte controricorrente, pag. 5).
Ne discende, naturaliter, che del tutto infondato è l’assunto degli stessi T.B. e R. secondo cui “potevano senz’altro sopraelevare il proprio fabbricato… in aderenza in un lotto nel quale si è già costruito sulla linea di confine” (così memoria ex art. 378 c.p.c. di parte controricorrente, pag. 6).
Fondato e meritevole di accoglimento è parimenti il secondo motivo del ricorso principale.
Vero è, certo, che questa Corte spiega che la disposizione normativa di cui all’art. 873 c.c., dettata in tema di distanze tra fabbricati e diretta a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitanti (tale, pertanto, da consentire anche una più rigorosa valutazione in sede locale), non ha alcuna correlazione con la norma di cui all’art. 905 c.c., relativa alla distanza delle vedute e volta, dal suo canto, a salvaguardare il fondo finitimo dalle indiscrezioni attuabili mediante la realizzazione e l’uso di un'”opera obbiettivamente destinata a tale scopo” (cfr. Cass. 26.02.2001, n. 2765).
Nondimeno questa Corte esplicita altresì che siffatto postulato esegetico opera a condizione che la maggior distanza tra costruzioni imposta dai regolamenti locali non sia riferita, specificamente, anche al confine, ma risulti sancita in via assoluta, indipendentemente dalla dislocazione delle costruzioni nei rispettivi fondi (cfr. Cass. 26.02.2001, n. 2765, ove si soggiunge che, al di fuori dell’ipotesi in cui la distanza sia riferita in modo specifico anche al confine, la distanza delle vedute dal confine stesso deve intendersi regolata, in via esclusiva, dalla norma di cui all’art. 905 c.c., non potendo una norma sulla distanza sui fabbricati incidere, ex se, su quelle relative alle vedute; cfr. anche Cass. 27.01.1988, n. 741).
Ebbene si è premesso –in sede di disamina del primo motivo del ricorso principale– che il regolamento edilizio del Comune di Castel S. Angelo consente di costruire sul confine esclusivamente in presenza di un accordo tra i privati confinanti, sicché, in assenza, impone l’osservanza della distanza di m. 5 dal confine.
In questi termini risulta del tutto ingiustificato l’assunto di parte controricorrente secondo cui nella fattispecie non è utilizzabile la diversa disciplina di cui all’art. 873 c.c. (cfr. memoria ex art. 378 c.p.c. di parte controricorrente, pag. 7) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 08.09.2014 n. 18889 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell’osservanza delle distanze legali tra costruzioni finitime, non assume rilevanza la circostanza che il nuovo manufatto non risulti in regola con i permessi amministrativi bensì il solo fatto che la violazione dei limiti privatistici ad esso ricondotta sia effettivamente sussistente.
1 – Con il primo motivo del ricorso della (OMISSIS) – che trova perfetta corrispondenza argomentativa nel primo mezzo del ricorso incidentale della società (OMISSIS) – si assume la violazione o la falsa applicazione dei confini applicativi dell’articolo 872 cod. civ. per aver ritenuto, la Corte territoriale, da un lato di accogliere il terzo motivo dell’appello incidentale della esponente –affermando dunque l’assenza di violazione sulle distanze– salvo poi a mantener ferma la decisione del Tribunale sul diverso presupposto della mancata regolarizzazione amministrativa di tali vedute; erroneamente poi la Corte romana avrebbe accolto la domanda ripristinatoria che è concessa –a mente del combinato disposto degli articoli 872 ed 873 cod. civ.– solo per le violazioni delle distanze tra edifici; mentre le irregolarità amministrative in edilizia potrebbero, se del caso, determinare una tutela risarcitoria; dette considerazioni sarebbero state ancor più evidenti nel capo di decisione che aveva ordinato l’arretramento del parapetto del proprio balcone, rispetto al quale, del pari, non era stata riscontrata alcuna violazione delle distanze.
1a – Il motivo è fondato.
1.a.1 – Pur non essendo in rilievo la violazione dell’articolo 872 cod. civ. –in quanto, sia pure confusamente, la Corte di Appello pose a parametro normativo della misurazione delle distanze l’articolo 905 cod. civ.- è certo che la semplice mancanza di assenso amministrativo all’apertura di vedute – che però siano state giudicate (non importa se, correttamente o meno, mancando ricorso incidentale sul punto), rispettose delle distanze legali- non incide sulla legittimità dell’opera con riferimento al diritto del confinante; le osservazioni contenute nel controricorso del (OMISSIS) in merito alla sussistenza della violazione delle distanze –data per accertata come pacifica a fol 5 del controricorso– non sono idonee ad incidere sulle divergenti conclusioni della Corte di Appello, in quanto non assumono la struttura di un motivo di ricorso incidentale secondo i parametri indicati dall’articolo 366 c.p.c.; ad identiche conclusioni si deve pervenire in merito alle articolate contestazioni contenute ai foll 8-10 dello stesso controricorso in merito ai criteri di calcolo delle distanze tra le finestre ed il balcone rispetto al terrazzo sottostante (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 04.09.2014 n. 18689 - link a http://renatodisa.com).

luglio 2014

EDILIZIA PRIVATA: Apertura pareti finestrate.
L'apertura di pareti finestrate sul prospetto di un edificio necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si tratta d'intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore".
Quanto al secondo motivo, con cui la difesa censura l'impugnata sentenza per aver ritenuto penalmente rilevante la realizzazione delle luci sulla parete, la Corte d'Appello ha chiarito che ciò aveva determinato una modifica del prospetto, sicché era necessario il permesso di costruire o, in alternativa la c.d. SuperDIA, con conseguente rilevanza penale del fatto (v. Sez. 3, n. 9894 del 20.01.2009 - dep. 05.03.2009, Tarallo, Rv. 243099).
Sul punto, peraltro, deve rilevarsi che, nel caso in esame, l'intervento riguardava la realizzazione di pareti finestrate, ciò che comportava, in ogni caso, la modifica dei prospetti; per "pareti finestrate", infatti, ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi non (soltanto) le pareti munite di "vedute" ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008, n. 2565; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Ne discende, conclusivamente, che l'apertura di pareti finestrate sul prospetto di un edificio necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si tratta d'intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore".
Infatti, il permesso di costruire è richiesto, per il disposto dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U. Edilizia (pur a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 30, comma 1, lett. c), legge n. 98 del 2013) per le ristrutturazioni che comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici (ovvero si riconnettano a mutamenti di destinazione d'uso limitatamente agli immobili comprese nelle zone omogenee A).
Può, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto:
«L'apertura di pareti finestrate sul prospetto di un edificio necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si tratta d'intervento comportante una modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore"» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.07.2014 n. 30575 - tratto da www.lexambiente.it).

giugno 2014

EDILIZIA PRIVATA: Distanze in edilizia: quando è necessaria la rimozione delle balconate?
La Corte di Cassazione conferma l'orientamento della giurisprudenza in materia di edificazione di balconate sulle facciate degli edifici
All'interno della labirintica tematica delle distanze in edilizia grande rilievo assumono le controversie sull'edificazione di balconate sulle facciate delle costruzioni edili: in tal senso è intervenuta l'importante sentenza 20.06.2014 n. 14118 della Corte di Cassazione, Sez. II civile, la quale conferma l'orientamento consolidato per cui vanno rimosse le vedute e le balconate costruite senza rispettare le distanze legali, con l’eccezione dell'eventuale acquisto del diritto di veduta per usucapione.
La Suprema Corte ha affermato testualmente che "
l'inosservanza delle distanze legali per l'apertura delle vedute concretizza una molestia di diritto legittimante il possessore del fondo finitimo ad esercitare l'azione di manutenzione, intesa a tutelare in via provvisoria ed immediata l'integrità del fondo medesimo con il ripristino dello stato dei luoghi".
Non va infatti dimenticato che la giurisprudenza civile ed amministrativa da anni reitera il seguente concetto: ovverosia che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell’intercapedine (Consiglio di Stato, 05.12.2005, n. 6909).
La sentenza della Cassazione in questione fa riferimento alla costruzione (precedente al 1969) di una balconata in aggetto, "frontistante per buona parte l'immobile di proprietà dei convenuti" attraverso la quale si era dato inizio all'esercizio, continuativo e pacifico, di una servitù di veduta diretta ed obliqua in danno dell'edificio in questione.
Per la decisione finale i giudici si sono focalizzati sulla disciplina di usucapione e servitù. Ma per giungere a tale decisione viene data conferma evidente al fondamentale concetto: balconate e vedute edificate in spregio del rispetto delle distanze legali devono essere rimosse a spese di colui che ha cagionato l'abuso. Ovviamente l’usucapione può sanare la questione mediante il decorso del tempo (commento tratto da www.ediliziaurbanistica.it).

marzo 2014

EDILIZIA PRIVATA: P. de Paolis, Le distanze legali tra pareti finestrate con particolare riguardo al computo di balconi e sporgenze (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 3/2014).

EDILIZIA PRIVATA: Sopraelevare corrisponde a realizzare una nuova costruzione. Rispetto delle distanze legali.
In tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione, con la conseguenza che ad essa è applicabile la normativa vigente al momento della modifica e non opera il criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione.
1. Con il primo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata assumendo l’insufficiente valutazione della stessa sul punto decisivo della controversia relativo alla ravvisata inapplicabilità, nella specie, del principio della prevenzione, sul presupposto del ritenuto accertamento che la ricostruzione della nuova opera in sopraelevazione non era stata realizzata sulla stessa area di sedime in cui insisteva la costruzione precedente. Quale (così qualificato) ipotetico quesito (non richiesto per i motivi proposti a mente dell’art. 360 n. 5 c.p.c.), il ricorrente ha chiesto a questa Corte di precisare se:
a) a fronte delle deduzioni su riportate svolte negli atti del giudizio di appello (in citazione ed in conclusionale), facenti riferimento a diverse circostanze probatorie favorevoli alle tesi del ricorrente,
b) presenti agli atti del giudizio ed ivi precisate (addirittura, anche con accertamento in sede penale di quella circostanza),
c) su quello che lo stesso giudicante ha ritenuto essere il punto decisivo per l’accoglibilità o meno delle argomentazioni difensive, possa ritenersi compiutamente svolta e motivata l’attività processuale valutativa degli elementi decisori della causa, così come presenti agli atti e richiamati dalla difesa, da parte della sentenza n, 866/2007, qui impugnata, o se, viceversa, questa non risulti viziata per omesso esame di quegli elementi decisivi, presenti ed evidenziati.
2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto un ulteriore, ancorché in via subordinata, vizio di insufficiente valutazione circa il medesimo punto decisivo della controversia, reiterando lo stesso “ipotetico” quesito di diritto formulato con riguardo alla prima doglianza.
3. I due motivi –esaminabili congiuntamente siccome riferiti alla stessa doglianza– sono destituiti di fondamento e vanno respinti.
In primo luogo, occorre evidenziare che, a supporto delle due richiamate censure, pur facendosi con esse valere dei vizi di motivazione (e di ciò dimostra consapevolezza lo stesso ricorrente ponendo in equivoco riferimento al vizio contemplato dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), risultano formulati –ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (“ratione temporis” applicabile nella fattispecie)– due quesiti di diritto, oltretutto qualificati come “ipotetici”, nel mentre, diversamente da quanto ritenuto dalla difesa del P., sarebbe stato necessario –per concorde giurisprudenza di questa Corte– provvedere all’illustrazione, ancorché libera da rigidità formali, della esposizione chiara e sintetica del fatto controverso –in relazione al quale la motivazione si assumeva omessa o contraddittoria– ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rendeva inidonea la motivazione stessa a giustificare la decisione.
In ogni caso le dedotte doglianze motivazionali risultano assolutamente generiche ed apodittiche, attenendo, peraltro, ad un accertamento di fatto (quello della mancata ricostruzione dell’opera in sopraelevazione sulla stessa area di sedime occupata dal manufatto precedente) congruamente motivato dalla Corte territoriale al fine di farne conseguire l’inapplicabilità dei principio della prevenzione.
Ed infatti la Corte veneta –sulla base di motivazione sufficientemente logica ed adeguata, in quanto supportata anche dai riscontri documentali acquisiti (come, ad es., il progetto di ampliamento e sopraelevazione presentato da ricorrente prima dell’inizio dei lavori in funzione dell’ottenimento della relativa concessione) e dalle univoche risultanze della c.t.u. esperita (dalle quali era emerso che, poiché i fabbricati delle parti erano frontistanti, nell’esecuzione della sopraelevazione del suo immobile il P. avrebbe dovuto rispettare le distanze legali da quello della M. anche per la parte che si elevava al di sopra dell’altro edificio, ancorché non prospettante direttamente su di esso)– ha rilevato che, in effetti, il P. aveva edificato una “nuova costruzione”, ragion per cui –nella fattispecie– andava rispettata la prescritta distanza minima tra fabbricati, la quale, perciò, avrebbe dovuto essere osservata per l’intera sua altezza e, quindi, non soltanto per la parte dell’edificio che fronteggiava la parete di quello confinante, ma anche per la parte sopraelevata.
Del resto, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (v., ad es., Cass. n. 6809 del 2000 e Cass. n. 21059) che la sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione (per la distinzione, in generale, tra le definizioni di “ristrutturazione” e di “nuova costruzione”, v., anche, Cass. n. 9637 del 2006 e Cass., S.U., n. 21578 del 2011, ord.).
Deve, in conclusione, trovare conferma in questa sede il principio (già affermato, da ultimo, anche da Cass., S.U., n. 74 del 2011) secondo cui, in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione, con la conseguenza che ad essa è applicabile la normativa vigente al momento della modifica e non opera il criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione.
4. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate nei sensi di cui in dispositivo, sulla scorta dei nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal D.M. Giustizia 20.07.2012, n. 140 (applicabile nel caso di specie in virtù dell’art. 41 dello stesso D.M.: cfr. Cass., S.U., n. 17405 del 2012) (Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 27.03.2014 n. 7291 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: La Consulta ha statuito che "In materia di distanze tra fabbricati, sono principi inderogabili della legislazione statale sul governo del territorio (ai sensi degli artt. 873 Cod. civ. e 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444, applicativo dell'art. 41-quinquies L. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dall'art. 17 L. 06.08.1967 n. 765) quelli secondo i quali la distanza minima è determinata dalla legge statale, in sede locale (entro limiti di ragionevolezza) si possono solo fissare limiti maggiori e le deroghe locali devono essere previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio e non ai rapporti tra vicini isolatamente considerati. Pertanto, è incostituzionale, per violazione dei detti principi, l'art. 50, comma 8, lett. c), L. reg. Veneto 23.04.2004 n. 11, che disciplina le distanze solo in funzione degli interessi privati, autorizzando il confinante a costruire a distanza inferiore a quella prescritta, salva la distanza dal confine, quando un fabbricato finitimo già esistente sia stato posto, rispetto al medesimo confine, a distanza inferiore dai limiti in atto vigenti, pur se legittimamente all'epoca dell'edificazione".
Pertanto, la possibilità di costruire sul confine è consentita soltanto se vi è la possibilità di costruire in aderenza rispetto ad un fabbricato già edificato e non laddove il fabbricato già esistente non sia stato costruito sul confine, ma discosto da esso, ma dall’esame documentale si apprezza che i box in questione verrebbero realizzati in aderenza alla rete metallica che separa le due proprietà.
Al suddetto precetto soggiacciono anche le costruzioni destinate a ricovero per autovetture, come ha già avuto modo di chiarire questo Consiglio, precisando che persino: “La tettoia di dimensioni sufficienti al parcheggio di un'autovettura, pur avendo pareti laterali a graticcio, va considerata alla stregua di una costruzione col conseguente obbligo di osservanza delle distanze legali ai sensi dell'art. 873 Cod. civ., in quanto essa è idonea a creare intercapedini pregiudizievoli alla sicurezza e alla salubrità del godimento della proprietà”.

Quanto alla lamentata erroneità della sentenza di primo grado circa la non corretta esegesi della disciplina delle distanze che avrebbe condotto il TAR all’erroneo annullamento nei limiti sopra indicati della concessione edilizia 14.11.1996, n. 43/96 e dell’art. 45.9 del regolamento edilizio del comune di Rho, non può convenirsi con le tesi proposte in entrambi i gravami.
Appare, infatti, corretta la ricostruzione giuridica offerta dal TAR per la Lombardia, che ha rilevato il contrasto insanabile tra il citato art. 45.9 del regolamento edilizio e l’art. 873 c.c., la cui portata precettiva è stata chiaramente indicata da Corte cost., 16.06.2005, n. 232: “In materia di distanze tra fabbricati, sono principi inderogabili della legislazione statale sul governo del territorio (ai sensi degli artt. 873 Cod. civ. e 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444, applicativo dell'art. 41-quinquies L. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dall'art. 17 L. 06.08.1967 n. 765) quelli secondo i quali la distanza minima è determinata dalla legge statale, in sede locale (entro limiti di ragionevolezza) si possono solo fissare limiti maggiori e le deroghe locali devono essere previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio e non ai rapporti tra vicini isolatamente considerati; pertanto, è incostituzionale, per violazione dei detti principi, l'art. 50, comma 8, lett. c), L. reg. Veneto 23.04.2004 n. 11, che disciplina le distanze solo in funzione degli interessi privati, autorizzando il confinante a costruire a distanza inferiore a quella prescritta, salva la distanza dal confine, quando un fabbricato finitimo già esistente sia stato posto, rispetto al medesimo confine, a distanza inferiore dai limiti in atto vigenti, pur se legittimamente all'epoca dell'edificazione”.
Pertanto, la possibilità di costruire sul confine è consentita soltanto se vi è la possibilità di costruire in aderenza rispetto ad un fabbricato già edificato e non laddove il fabbricato già esistente non sia stato costruito sul confine, ma discosto da esso (Cons. St., Sez. V, 27.04.2012, n. 2458; Id., 13.01.2004, n. 46), ma dall’esame documentale si apprezza che i box in questione verrebbero realizzati in aderenza alla rete metallica che separa le due proprietà.
Al suddetto precetto soggiacciono anche le costruzioni destinate a ricovero per autovetture, come ha già avuto modo di chiarire questo Consiglio, precisando che persino: “La tettoia di dimensioni sufficienti al parcheggio di un'autovettura, pur avendo pareti laterali a graticcio, va considerata alla stregua di una costruzione col conseguente obbligo di osservanza delle distanze legali ai sensi dell'art. 873 Cod. civ., in quanto essa è idonea a creare intercapedini pregiudizievoli alla sicurezza e alla salubrità del godimento della proprietà” (Cons. St., Sez. II, 10.11.2004, n. 3523)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.03.2014 n. 1272 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, soltanto l'opera edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima.
E tale non può considerarsi il balcone che non si connoti per una mera funzionalità decorativa: “Ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene”.

Neanche coglie nel segno l’appello dell’amministrazione comunale nella parte in cui sostiene che nel computo delle distanze non potrebbero calcolarsi i balconi.
Milita in senso contrario l’orientamento consolidato del Consiglio di Stato, secondo il quale: “In tema di distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, soltanto l'opera edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima” (Cons. St., Sez. IV, 15.01.2013, n. 223) e tale non può considerarsi il balcone che non si connoti per una mera funzionalità decorativa: “Ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene” (Cons. St., Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731; Id., 14.10.1998, n. 1467)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.03.2014 n. 1272 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl richiamo all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza di 10 metri per l’apertura di finestre antistanti l’edificio confinante, si fonda sull’interesse pubblico di impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario: trattasi, come ha rilevato la giurisprudenza, di prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali (ed è quindi irrilevante il riferimento, operato dall’appellante, all’art. 27 del regolamento edilizio del Comune di Milano), da sola sufficiente a fondare la legittimità dell’annullamento del titolo edilizio senza spazio per la considerazione e la ponderazione di opposti interessi.
L
’appellante asserisce poi l’irrilevanza della mancata rappresentazione, nella documentazione originaria, di una finestra sull’immobile antistante la parete dell’immobile da ristrutturare: ma è argomentazione fuorviante, dal momento che il provvedimento impugnato in primo grado si basa non sulla presenza di una tale finestra, ma sulla circostanza che il manufatto “non è stato ricostruito fedelmente quanto a volumetria e sagoma, giacché sono state operate correzioni dell’area di sedime, traslate pareti, ampliate le aree, razionalizzata la conformazione delle aree di sedime, comportando la modifica del perimetro considerato in senso orizzontale e verticale, in difetto pertanto del principio di mantenimento della sagoma”; che il manufatto adibito a box e caldaia “si pone a distanza inferiore ai tre metri dal confine con una proprietà di terzi”; che, infine, “nel recupero del sottotetto, sul lato fronteggiante la proprietà confinante, è stata aperta una finestra a distanza inferiore a mt. 10”.
Queste sono, pertanto, le motivazioni che sorreggono il provvedimento in esame, rispetto alle quali la considerazione della mancata rappresentazione della finestra sull’edificio confinante non assume alcuna decisiva rilevanza, essendo la distanza appena richiamata considerata con riferimento, invece, alla finestra aperta sul manufatto oggetto dell’intervento contestato.
Il richiamo, pure operato dal provvedimento, all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444 che prescrive la distanza di 10 metri per l’apertura di finestre antistanti l’edificio confinante, si fonda sull’interesse pubblico di impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario: trattasi, come ha rilevato la giurisprudenza, di prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali (ed è quindi irrilevante il riferimento, operato dall’appellante, all’art. 27 del regolamento edilizio del Comune di Milano), da sola sufficiente a fondare la legittimità dell’annullamento del titolo edilizio senza spazio per la considerazione e la ponderazione di opposti interessi
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1054 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una scala esterna scoperta non incide sulla volumetria ma rileva ai fini della distanza dai confini.
Esclusione dei balconi dal computo delle distanze.
Vero è che il vano scale e in particolare, a maggior ragione, una rampa di scala scoperta non incide sulla volumetria, trattandosi, di un volume c.d. tecnico, ma altre conseguenze può avere la stessa struttura sul diverso versante della normativa dettata per le distanze dai confini.
Invero, nel calcolo della distanza minima fra costruzioni posta dall’art. 873 codice civile o da norme regolamentari di esso integrative (come nel caso di specie) deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato come la scala esterna in muratura anche scoperta, se ed in quanto presenta connotati di consistenza e stabilità.
A deporre nel senso della computabilità del manufatto in parola nella misurazione delle distanze dai confini, induce la non irrilevante considerazione sulle finalità sottese al rispetto della normativa sui distacchi dal confine e in generale delle disposizioni, di tipo inderogabile recate dal D.M. n. 1444 del 1968, volte, com’è noto, ad assicurare le necessarie condizioni di salubrità sotto il profilo igienico-sanitarie, mediante l’eliminazione di perniciose intercapedini.
A fronte, perciò, del contenuto “pubblicistico” della disciplina all’uopo dettata e del carattere inderogabile della stessa, deve ritenersi non tollerabile la presenza di una parte sia pure di modesta entità di un opus edilizio che va ad insistere in maniera permanente su uno spazio territoriale che deve libero da qualsiasi ingombro.

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L’esclusione dei balconi dal computo delle distanze, deve avvenire in ragione di un criterio interpretativo sottolineato da un preciso orientamento giurisprudenziale secondo cui il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza dal confine solo nel caso in cui una norma di piano lo preveda espressamente e tale ultima circostanza nella specie non è rinvenibile, posto che le NTA di Piano del Comune non lo prevede.
Inoltre, non si rinvengono elementi tali da far ritenere che la maggiore profondità dei balconi sia idonea ad evidenziare una sorta di ampliamento della consistenza del fabbricato, giacché se si versasse in tale ultima ipotesi, sicuramente le sporgenze andrebbero computate ai fini del rispetto delle distanze.

Viene poi in rilievo la questione relativa alla lamentata violazione da parte degli originari ricorrenti di primo grado della distanza dal confine del lotto costruito, in relazione ad rampa di scala che aggetterebbe ad una distanza inferiore ai 5 metri e a dei balconi che pure sopravanzano il fabbricato
Sul punto le osservazioni del primo giudice in ordine alla sussistenza del vizio dedotto dai sigg.ri Ciavarella, Sollazzo e Magaraggia con riferimento alla scala meritano condivisone mentre si ritiene debbano essere disattesi i rilievi mossi dallo stesso giudicante a carico dei balconi
L’art. 10 delle NTA prevede un’area di distacco dal confine pari a 5 mt. e l’art. 6 delle stesse norme tecniche di attuazione stabilisce che le aree di distacco sono inedificabili.
Come riferito peraltro dagli stessi appellanti in tale area di distacco viene a posizionarsi sia pure solo per una parte una scala che partendo in area coperta dell’edificio dei sigg.ri Losurdo-Dipede si prolunga, sino ad invadere l’area inedificabile per circa 40 cm (il dato per il vero non è pacifico, e oscilla, come pare di capire, tra i 30 e i 50 cm).
Ora, vero è che il vano scale e in particolare, a maggior ragione, una rampa di scala scoperta non incide sulla volumetria, trattandosi, di un volume c.d. tecnico (Cons. Stato Sez. IV 07.07.2008 n. 3381), ma altre conseguenze può avere la stessa struttura sul diverso versante della normativa dettata per le distanze dai confini.
Invero, nel calcolo della distanza minima fra costruzioni posta dall’art. 873 codice civile o da norme regolamentari di esso integrative (come nel caso di specie) deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato come la scala esterna in muratura anche scoperta, se ed in quanto presenta connotati di consistenza e stabilità (Cassazione civile Sez. II 30/01/2007 n. 1966; Tar Basilicata 19/09/2013 n. 574).
A deporre nel senso della computabilità del manufatto in parola nella misurazione delle distanze dai confini, induce la non irrilevante considerazione sulle finalità sottese al rispetto della normativa sui distacchi dal confine e in generale delle disposizioni, di tipo inderogabile recate dal D.M. n. 1444 del 1968, volte, com’è noto, ad assicurare le necessarie condizioni di salubrità sotto il profilo igienico-sanitarie, mediante l’eliminazione di perniciose intercapedini.
A fronte, perciò, del contenuto “pubblicistico” della disciplina all’uopo dettata e del carattere inderogabile della stessa, deve ritenersi non tollerabile la presenza di una parte sia pure di modesta entità di un opus edilizio che va ad insistere in maniera permanente su uno spazio territoriale che deve libero da qualsiasi ingombro.
A diversa conclusione invece si deve pervenire in ordine alla questione dei balconi, senza che per il vero si possa accedere alla tesi pure propugnata dagli appellanti dell’assimilabilità e/o equiparabilità tra la scala scoperta e i balconi in questione in quanto tra le due “strutture” vi è diversità di tipologia e di consistenza e, conseguentemente, diversi sono gli effetti derivanti dalla loro presenza in ordine al rispetto del parametro edilizio in discussione
In realtà l’esclusione dei balconi dal computo delle distanze, nella specie deve avvenire in ragione di un criterio interpretativo sottolineato da un preciso orientamento giurisprudenziale secondo cui il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza dal confine solo nel caso in cui una norma di piano lo preveda espressamente e tale ultima circostanza nella specie non è rinvenibile, posto che le NTA di Piano del Comune di Cellamare non lo prevede.
Va peraltro pure dato atto che nella vicenda all’esame non si rinvengono elementi tali da far ritenere che la maggiore profondità dei balconi sia idonea ad evidenziare una sorta di ampliamento della consistenza del fabbricato, giacché se si versasse in tale ultima ipotesi, sicuramente le sporgenze andrebbero computate ai fini del rispetto delle distanze ( Cons. Stato Sez. IV 17/05/2012 n.2847).
Con colgono nel segno, infine, le critiche formulate da parte appellante alla statuizione del primo giudice circa la sussistenza del vizio di violazione delle disposizioni recate dal D.M. n. 1444/1968 in ordine alla distanza minima da osservarsi tra pareti finestrate di edifici prospicienti.
Invero, rilevato che la scala costituisce, come già sopra evidenziato, struttura o corpo aggettante da considerarsi ai fini del computo della distanza, quest’ultima con riferimento al parametro edilizio posto dalla norma di cui all’art. 9 del citato Decreto risulta inferiore ai previsti 10 metri, limite minimo da ritenersi inderogabile, fermo restando che la disposizione statale in rassegna si rivela sovraordinata ad altra norma regolamentare locale che fissi una diversa, minore distanza (ex multis, Cons. Stato Sez. IV 17/05/2012 n. 2847) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2014 n. 1000 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2014

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze tra edifici, ove le costruzioni non siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è recata dal Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c., che consente ai Comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì dal primo comma dello stesso articolo 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
1.1.- La censura non coglie nel segno e non può essere accolta.
La Corte torinese ha correttamente identificato la situazione di fatto sottoposta al suo esame, relativa alla distanza tra l’edificio dei sigg. (G) e (S) e l’edificio realizzato dalla società (IE) srl, ed, ad un tempo ha, correttamente, interpretato ed individuato la norma applicabile alla fattispecie esaminata. Pertanto, la sentenza impugnata non merita alcuna censura.
1.1.a).- Appare opportuno chiarire:
-A) che gli edifici oggetto della controversia sono collocati nella zona che il Piano Regolatore Generale del Comune di Torino contraddistingue con la lettera b). Detta zona è qualificata dall’articolo 15 delle Norme urbanistiche di attuazione del Piano Regolatore Generale del Comune di Torino (NUEA) tra quelle zone definite “zone urbane di trasformazione: le parti del territorio per le quali indipendentemente dallo stato di fatto sono previsti interventi di radicale ristrutturazione urbanistica e di nuovo impianto”.
Per tali zone l’articolo 7 del NUEA prevede due possibilità di trasformazioni: a) una trasformazione unitaria e una trasformazione per sub ambiti.
-B) che l’edificio dei sigg. (G) e (S), non formava oggetto del piano di lottizzazione di cui faceva parte l’edifico realizzato dalla società (IE) srl. (l’edificio del condominio), ma formava oggetto dello Studio Unitario d’Ambito (SUA) proposto al Comune di Torino dai danti causa degli attuali ricorrenti, approvato dall’Amministrazione comunale con delibera n. 278797 del 1997 ed era stata stipulata la Convenzione programmata. Il caso in esame, in particolare, integrava gli estremi di un’ipotesi di trasformazione sub ambiti.
1.1.b).- A questa situazione di fatto va riferita –come bene ha chiarito la Corte torinese- la normativa di cui al Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 9, laddove stabilisce, per quanto qui può interessare, che la distanza minima assoluta tra fabbricati per le zone territoriali omogenee diverse dalla zone A e dalla zona C dovrà essere quella di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Tuttavia, la stessa norma nell’ultima parte dell’ultimo comma prevede che “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Pertanto, posto che gli edifici oggetto della controversia, nominalisticamente, e come già si è detto, non facevano parte unitariamente di alcun piano particolareggiato, né di alcuna lottizzazione convenzionale, restava acquisito che, sic et simpliciter, la deroga prevista dall’articolo 9, appena citato, non poteva essere estesa al caso in esame.
D’altra parte, come ha già avuto modo di evidenziare questa Corte in altra occasione (sent. n. 12424 del 2010): in tema di distanze tra edifici, ove le costruzioni non siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è recata dal Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c., che consente ai Comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì dal primo comma dello stesso articolo 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (
Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 18.02.2014 n. 3803 - link a http://renatodisa.com).

gennaio 2014

EDILIZIA PRIVATA: I regolamenti edilizi comunali possono stabilire distanze tra edifici o dal confine, maggiori (e non minori) da quelle stabilite dal codice civile.
In tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. "aggettanti") che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
D'altra parte, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica.
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2. - La censura, nella sua duplice articolazione, risulta in parte inammissibile, in parte priva di fondamento.
2.1. - Deve, anzitutto, osservarsi, quanto al primo quesito, che esso risulta del tutto inconferente -e la relativa doglianza, di conseguenza, inammissibile- non trattandosi, nella specie, di porre in discussione in via generale l'applicabilità della normativa di cui al Regolamento Edilizio, ma, come esattamente rilevato nel controricorso, ove, appunto, viene sollevata eccezione di inammissibilità, di determinare il criterio applicativo dell'art. 873 cod. civ. alla luce dell'art. 101 del predetto Regolamento.
2.2. - La norma citata esclude l'obbligo di rispetto delle distanze per gli aggetti senza sovrastanti corpi chiusi, cioè, evidentemente, aggetti aventi funzione esclusivamente ornamentale.
Al riguardo, questa Corte ha chiarito che in tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. "aggettanti") che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
D'altra parte, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica (v. Cass., sent. n. 1556 del 2005).
Nella specie, la Corte di merito ha escluso, attraverso una indagine di fatto, che la terrazza costituisca un aggetto sottratto alla disciplina in materia di distanze, rilevando che essa è costituita da un piano di calpestio, da un parapetto in muratura e da una stabile copertura sovrastante, che concorrevano alla creazione di un volume, e che, quindi, essendo posta ad una distanza dal confine inferiore ai cinque metri, come rilevato in sede di c.t.u., è soggetta al rispetto delle distanze. Ne deriva la infondatezza della censura sotto il profilo dell'art. 873 cod.civ.
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.01.2014 n. 2094 - link a www.avvocatocassazionista.it).

novembre 2013

EDILIZIA PRIVATA: Perché si applichi la disciplina inderogabile di legge in materia di distanze, non è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di esse.
Si è detto in particolare in passato, che: “la norma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati -che, siccome emanata in attuazione dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, non può essere derogata dalle disposizioni regolamentari locali- va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre".
Questo Consiglio di Stato ha condiviso –o forse è meglio dire anticipato- tale approdo, affermando che: “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra.
Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo".
Si evidenzia soprattutto che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti.
Ne consegue che, posto che la parete dell’edificio di parte appellante era munito di una porta finestra, e che per tal motivo rientrava nel concetto di “parete finestrata” si sarebbe dovuta rispettare la distanza minima. Il detto argomento difensivo svolto dall’amministrazione comunale, palesemente inaccoglibile, va pertanto respinto, il che assume portata decisiva, imponendo l’accoglimento del ricorso di primo grado (si veda: TAR Abruzzo L'Aquila Sez. I, 20.11.2012, n. 788: “per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 devono intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l`esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo -di veduta o di luce, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l'illegittimo avvicinamento”).
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V’è concordia in dottrina ed in giurisprudenza civile ed amministrativa in ordine al principio per cui, “nella materia delle distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la norma dell'art. 9, numero 2, del d.m. 02.04.1968, che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata.”.
Con più specifica aderenza al caso devoluto alla cognizione del Collegio, è stato in passato affermato che “in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.”.
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Di recente è stato affermato il principio secondo il quale "ha natura di norma di ordine pubblico l'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Si precisa che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.”.
Nella richiamata decisione è stato, infatti, affermato che “la giurisprudenza ha, infatti, ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell'art. 9 del D.M. 1444/68, che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò”.
Altra decisione del Consiglio di Stato, per il vero, contiene questa significativa affermazione: “secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio, con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione del volume.”.

Il Collegio infatti condivide la consolidata giurisprudenza di legittimità civile ed amministrativa, secondo la quale, perché si applichi la disciplina inderogabile di legge in materia di distanze, non è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di esse.
Si è detto in particolare in passato, che (Cass. civ. Sez. II, 20.06.2011, n. 13547): “la norma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati -che, siccome emanata in attuazione dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, non può essere derogata dalle disposizioni regolamentari locali- va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre.” (vedasi anche Cass. civ. Sez. II, 28.09.2007, n. 20574).
Questo Consiglio di Stato ha condiviso –o forse è meglio dire anticipato- tale approdo (Cons. Stato Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909), affermando che: “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra.
Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo
" (Cons. di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Si evidenzia soprattutto che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Ne consegue che, posto che la parete dell’edificio di parte appellante era munito di una porta finestra, e che per tal motivo rientrava nel concetto di “parete finestrata” si sarebbe dovuta rispettare la distanza minima. Il detto argomento difensivo svolto dall’amministrazione comunale, palesemente inaccoglibile, va pertanto respinto, il che assume portata decisiva, imponendo l’accoglimento del ricorso di primo grado (si veda: TAR Abruzzo L'Aquila Sez. I, 20.11.2012, n. 788: “per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 devono intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l`esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo -di veduta o di luce, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l'illegittimo avvicinamento”, ma anche TAR Puglia Lecce Sez. III, Sent., 28.09.2012, n. 1624).
Pur potendosi –alla luce di quanto si è dianzi precisato- assorbire le restanti censure, a cagione della già avvenuta dimostrazione della illegittimità del titolo abilitativo edilizio rilasciato a parte contro interessata, in quanto non rispettoso del principio della prevenzione in punto di rispetto delle distanze, ritiene il Collegio di affrontare la tematica che ha costituito l’elemento centrale della decisione di primo grado (motivo n. 1 del mezzo introduttivo del giudizio di prime cure).
Si rammenta che la disposizione prima richiamata di cui all’art. 9 del d.M. 02.04.1968 n. 1444 così prevede: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche
.”.
V’è concordia in dottrina ed in giurisprudenza civile ed amministrativa in ordine al principio per cui, “nella materia delle distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la norma dell'art. 9, numero 2, del d.m. 02.04.1968, che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata.”.
Con più specifica aderenza al caso devoluto alla cognizione del Collegio, è stato in passato affermato che (Cass. civ. Sez. Unite, 07.07.2011, n. 14953) “in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.”.
La gravata decisione ha applicato il principio –di recente predicato dalla giurisprudenza amministrativa– secondo il quale (TAR Toscana Firenze Sez. III, 09.06.2011, n. 993) “ha natura di norma di ordine pubblico l'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Si precisa che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.”. Nella richiamata decisione è stato, infatti, affermato che “la giurisprudenza ha, infatti, ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell'art. 9 del D.M. 1444/68, che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381; TAR Lazio, 31.03.2010 n. 5319; TAR Liguria, Genova, sez. I, 10.07.2009 n. 1736).”.
La decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381, per il vero, contiene questa significativa affermazione: “secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio (Cass. civ. sez. II, 17.07.2007, n. 15913; 07.09.1996, n. 8159), con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione del volume.”.
Sennonché, anche sotto tale profilo, la censura dell’appellante appare persuasiva sotto un ulteriore aspetto: la norma del regolamento comunale (articolo 3 comma 8 delle NTA del Piano delle Regole: “nella verifica delle distanze non si tiene conto di scale aperte –omissis-, di balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60, nonché di altri tipi di aggetti che siano inferiori a m 0,50 e nuovi spessori delle murature perimetrali determinati dalla realizzazione di “cappotti termici”) costituisce norma eccezionale e di favore, in quanto integra e “deroga” (con il favore della giurisprudenza, come si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del dM più volte richiamato".
Non v’è dubbio che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere interpretate in senso restrittivo: ai fini del calcolo della distanza, quindi, il balcone aggettante comunque non può che essere calcolato partendo dalle finestre, arretrate rispetto al fronte dell’edificio: come rimasto incontestato, in tale ipotesi il balcone avrebbe un aggetto di mt. 2,40, e quindi non rientrerebbe nel precetto “di favore” di cui alla norma regolamentare comunale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5557 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2013

EDILIZIA PRIVATAIn tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione. Deriva da quanto precede, pertanto, l’applicazione della normativa urbanistica vigente al momento della modifica e l’inoperatività del criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione (In applicazione del riferito principio la Suprema Corte ha accertato che la parte, nel trasformare in vano chiuso e coperto il terrazzo a livello posto al primo piano del suo fabbricato, a confine con il fondo della controparte, avrebbe dovuto comunque rispettare la distanza prescritta dallo strumento urbanistico vigente, anche se il nuovo manufatto era contenuto entro l’ingombro orizzontale del piano inferiore).
E, infatti, l’istituto della prevenzione, secondo l’interpretazione consolidata del combinato disposto di cui agli art. 873, 875 e 877 c.c., muove dalla circostanza di fatto che, a partire dalla linea di confine, non siano intervenute costruzioni nelle due proprietà sicché, il soggetto che costruisce per primo, potendo scegliere se edificare sul confine o a distanza da esso, condiziona il proprietario del fondo limitrofo che, a propria volta, può scegliere di costruire in aderenza ovvero mantenendo la distanza legale minima prescritta: detta figura non può, quindi, trovare applicazione laddove sui due fondi finitimi, esistano già edifici, come è nel caso sottoposto all’esame del Collegio.
Ne discende, quindi, che il principio della prevenzione non è applicabile quando l’obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali. Proprio in quest’ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel caso in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine non può ritenersi consentita la costruzione in aderenza o in appoggio a meno che tale facoltà non sia consentita come alternativa all’obbligo di rispettare le suddette distanze.

Ne risulta confermata la legittimità anche del secondo motivo di diniego, cui non osta l’invocato, da parte ricorrente, criterio della prevenzione.
Si consideri, al riguardo, quanto risulta dalla parte motiva della sentenza del TAR Veneto – Sez. II, dell’11.11.2011, n. 1683: “Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, condivisa dal Collegio, in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione. Deriva da quanto precede, pertanto, l’applicazione della normativa urbanistica vigente al momento della modifica e l’inoperatività del criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione (In applicazione del riferito principio la Suprema Corte ha accertato che la parte, nel trasformare in vano chiuso e coperto il terrazzo a livello posto al primo piano del suo fabbricato, a confine con il fondo della controparte, avrebbe dovuto comunque rispettare la distanza prescritta dallo strumento urbanistico vigente, anche se il nuovo manufatto era contenuto entro l’ingombro orizzontale del piano inferiore) (cfr. Cassazione civile, sez. II, 03.01.2011, n. 74).
E, infatti, l’istituto della prevenzione, secondo l’interpretazione consolidata del combinato disposto di cui agli art. 873, 875 e 877 c.c., muove dalla circostanza di fatto che, a partire dalla linea di confine, non siano intervenute costruzioni nelle due proprietà sicché, il soggetto che costruisce per primo, potendo scegliere se edificare sul confine o a distanza da esso, condiziona il proprietario del fondo limitrofo che, a propria volta, può scegliere di costruire in aderenza ovvero mantenendo la distanza legale minima prescritta: detta figura non può, quindi, trovare applicazione laddove sui due fondi finitimi, esistano già edifici, come è nel caso sottoposto all’esame del Collegio (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 24.12.2001, n. 6374).
Ne discende, quindi, che il principio della prevenzione non è applicabile quando l’obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali. Proprio in quest’ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel caso in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine –come nell'ipotesi dell’art. 18, comma 3, delle N.T.A. vigenti nel Comune di Baone– non può ritenersi consentita la costruzione in aderenza o in appoggio a meno che tale facoltà non sia consentita come alternativa all’obbligo di rispettare le suddette distanze (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 13.01.2004, n. 46)
” (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.10.2013 n. 2039 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari di esso integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, come la scala esterna in muratura anche se scoperta, quando presenta connotati di consistenza e stabilità ed emerge in modo sensibile al di sopra del livello del suolo.
Al riguardo, va statuito che nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari di esso integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, come la scala esterna in muratura anche se scoperta, quando presenta connotati di consistenza e stabilità ed emerge in modo sensibile al di sopra del livello del suolo (cfr. Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 1966 del 30.1.2007; TAR Bari Sez. III Sent. n. 1219 del 21.06.2012; CONTRA TAR Piemonte Sez. I Sent. n. 505 del 25.03.2008, che richiama le Sentenze Cass. Civ. Sez. II n. 14379 del 21.12.1999 e n. 5467 dell’08.09.1986).
Il vigente art. 10 delle N.T.A. del P.R.G. non contraddice il suddetto principio giurisprudenziale, quando stabilisce che la distanza degli edifici dai confini e dalle strade va “misurata nel punto di massima sporgenza della parete delle edificio, di logge, balconi, etc.”, atteso che, anche se non vengono citate espressamente le scale esterne scoperte, dalla parola abbreviata “etc.” si desume agevolmente che la predetta norma urbanistica, al fine di evitare un lungo elenco, intende riferirsi a tutti i corpi aggettanti e perciò anche alle scale esterne scoperte, che sono materialmente unite alla parete dell’edificio, come le logge ed i balconi.
Ma, poiché dalla documentazione acquisita in giudizio non risulta che il progetto, assentito con l’impugnato permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 ed in variante (al permesso di costruire del 16.12.2005), prevedeva che le predette scale esterne scoperte erano posizionate ad una distanza dal confine inferiore a quella prescritta di minimo 5 m. ed ad una distanza dai fabbricati inferiore a quella prescritta di minimo 10 m., deve ritenersi che la violazione delle N.T.A. del P.d.L., approvato con Del. C.C. n. 220 del 06.01.1983, assume la configurazione di un abuso edilizio, in quanto non autorizzata dall’impugnato permesso di costruire.
Comunque, nella specie, il Comune di Matera ha l’obbligo di ordinare la demolizione delle scale esterne, già realizzate, ed il loro arretramento fino a 5 m. dal confine e 10 m. dalle adiacenti costruzioni compreso quella dei ricorrenti
(TAR Basilicata, sentenza 02.10.2013 n. 574 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2013

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'osservanza della norma generale sulle distanze, di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione avallata dalla Corte di Cassazione non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi opera non completamente interrata, avente i requisiti della solidità, dell'immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso con una preesistente fabbrica, e ciò indipendentemente dal livello di posa e di elevazione, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e continuità della massa e dal materiale impiegato per la sua realizzazione (è stato affermato, per esempio, che ai fini dell'osservanza delle distanze di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione comprende qualunque opera non completamente interrata avente i requisiti della solidità e dell'immobilizzazione rispetto al suolo; nello stesso senso, è stata annullata la sentenza impugnata che aveva negato il carattere di costruzione, assoggettata al rispetto delle distanze legali, ad un'opera edilizia seminterrata, sporgente dal suolo per un altezza di cm. 70).
Ne consegue che, sempre al fine della determinazione della distanza prescritta dall'art. 873 cod. civ., possono non essere prese in considerazione soltanto le costruzioni che si sviluppino interamente nel sottosuolo, in guisa da non formare dannose intercapedini con i fabbricati alieni frontistanti.

Tanto premesso, reputa il Collegio come la tesi del Comune, per cui le costruzioni seminterrate poste ai lati ovest ed est dell’intervento in esame non possono rilevare alla stregua di costruzioni o muri di fabbrica, ai fini della costruzione in aderenza ad esse, non possa essere condivisa.
Come correttamente rilevato dall’esponente, ai fini dell'osservanza della norma generale sulle distanze, di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione avallata dalla Corte di Cassazione non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi opera non completamente interrata, avente i requisiti della solidità, dell'immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso con una preesistente fabbrica, e ciò indipendentemente dal livello di posa e di elevazione, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e continuità della massa e dal materiale impiegato per la sua realizzazione (cfr. così Cass. Sez. II, sent. n. 10608 del 05.11.1990; analogamente, cfr. Cass. S.U., sent. n. 7067 del 09.06.1992, per cui, ai fini dell'osservanza delle distanze di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione comprende qualunque opera non completamente interrata avente i requisiti della solidità e dell'immobilizzazione rispetto al suolo; nello stesso senso, cfr. la sentenza della Cass. Sez. II, n. 12489 del 04.12.1995, citata nelle difese di parte ricorrente, ove la S.C. ha annullato la sentenza impugnata che aveva negato il carattere di costruzione, assoggettata al rispetto delle distanze legali, ad un'opera edilizia seminterrata, sporgente dal suolo per un altezza di cm. 70).
Ne consegue che, sempre al fine della determinazione della distanza prescritta dall'art. 873 cod. civ., possono non essere prese in considerazione soltanto le costruzioni che si sviluppino interamente nel sottosuolo, in guisa da non formare dannose intercapedini con i fabbricati alieni frontistanti (cfr. Cass. Sez. II, sent. n. 2343 del 01.03.1995) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2013 n. 2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADecreto del fare. La finalità di «governo del territorio» può consentire la riduzione delle soglie minime fissate dallo Stato.
Deroghe locali per le distanze. Regioni e Province autonome possono ridurre anche gli standard urbanistici.

Regioni e Province autonome possono ridurre le distanze legali tra fabbricati o gli standard urbanistici richiesti in fase di pianificazione. Il principio è in vigore dal 21 agosto con la legge n. 98/2013, di conversione del decreto "del fare" (Dl 69/2013).
L'articolo 30 contiene varie disposizioni di semplificazione in materia edilizia. Tra queste, il comma 1, lettera a), ha introdotto nel Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001) l'articolo 2-bis, la cui rubrica riporta «Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati», ma ha in realtà un ambito più ampio. Infatti, alle Regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano viene ora consentito di introdurre deroghe al Dm 1444/1968 e di dettare proprie disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali o produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi.
Le deroghe
La possibilità di un intervento normativo regionale investe anche gli standard urbanistici, come oggi definiti dagli articoli 3 e seguenti del decreto del 1968 e non si limita, quindi, alle sole distanze tra edifici.
La nuova norma statale costituisce senz'altro un vincolante "principio della materia", non solo in quanto viene inserita tra le disposizioni generali del Dpr 380/2001, ma anche perché la determinazione di standard minimi rappresenta un obbligo stabilito dall'articolo 41-quinquies, comma 8 della legge urbanistica n. 1150/1942, tuttora vigente. Qui si stabilisce che, nella formazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, in tutti i Comuni debbono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi. La definizione di questi limiti e rapporti è contenuta nel Dm 1444/1968.
Le sue previsioni hanno costituito sinora la disciplina di riferimento unitaria e ritenuta inderogabile dalla giurisprudenza, specie per quel che attiene alle distanze minime tra fabbricati, tanto che il giudice è tenuto a disapplicare le norme del piano regolatore in contrasto il Dm (tra le altre Consiglio di stato, sezione IV, n. 7731/2010). È dunque questo l'ambito in cui potranno da oggi intervenire le Regioni, anche se la nuova disposizione pone
una duplice condizione cui il legislatore regionale dovrà attenersi nell'esercizio della propria potestà legislativa e regolamentare nella materia di competenza concorrente del «governo del territorio».
Il perimetro
Innanzitutto gli interventi normativi –non solo quelli a contenuto derogatorio– dovranno riferirsi al momento della definizione o revisione di strumenti urbanistici ed essere comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario del territorio oppure di specifiche aree territoriali, come nel caso di piani particolareggiati o di lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.
In secondo luogo, le disposizioni regionali non dovranno risultare invasive della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile, con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del Codice civile e alle relative disposizioni integrative. Tra queste ultime, tuttavia, come segnalato negli stessi lavori preparatori alla legge di conversione, è ricompreso proprio l'articolo 9 del Dm 1444/1968, i cui contenuti le Regioni e le Province autonome potrebbero derogare in forza del nuovo articolo 2-bis.
L'effettiva portata della disposizione, nella parte in cui fa «salva la competenza statale in materia di ordinamento civile» dovrà quindi necessariamente essere letta alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, anche nella sentenza n. 6/2013, ha legittimato l'intervento legislativo regionale solo se chiaramente correlato al perseguimento delle finalità pubblicistiche di complessiva gestione del territorio.
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Gli spazi di manovra
L'applicazione delle novità dettate dal decreto "del fare"
01 | LE DEROGHE
Il Dl 69/2013 (articolo 30) ha introdotto la possibilità per le Regioni e le Province autonome di prevedere deroghe alle distanze minime tra fabbricati vicini e alle norme statali che impongono gli standard urbanistici, ovvero gli spazi minimi per abitante da distribuire tra residenziale, verde pubblico, parcheggi e altre funzioni
02 | LE LEGGI STATALI
La normativa statale sulle distanze minime tra i fabbricati è contenuta nel Codice civile e nel Dm 1444/1968. Quest'ultimo provvedimento ha anche dettato le regole per gli standard urbanistici
03 | EDIFICI RESIDENZIALI: I LIMITI
Regioni e Province autonome possono ora derogare alle indicazioni del Dm 1444/1968. Queste prevedono rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, con esclusione degli spazi destinati alle sedi viarie.
Oggi per ogni abitante –insediato o da insediare– la dotazione minima, inderogabile, è di 18 metri quadri ripartiti in: 4,50 metri quadrati di aree per l'istruzione; 2 metri quadrati di aree per attrezzature di interesse comune; 9 metri quadrati di aree per spazi pubblici attrezzati a parco; 2,50 metri quadrati di aree per parcheggi in aggiunta a quelli pertinenziali
04 | EDIFICI INDUSTRIALI: I LIMITI
Il Dm 1444/1968 fissa questi limiti (ora derogabili) nei rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi: nei nuovi insediamenti di carattere industriale compresi nelle zone D) la superficie non può essere inferiore al 10% (escluse le sedi viarie); nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale, a 100 metri quadrati di superficie lorda di pavimento di edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di 80 mq di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli pertinenziali); tale quantità, per le zone A e B (centro storico e semi-centro) è ridotta alla metà, purché siano previste adeguate attrezzature integrative
05 | GLI ALTRI VINCOLI
Sempre il Dm 1444/1968 indica anche i limiti inderogabili di densità edilizia e di altezza massima degli edifici, diversi a seconda della zona territoriale
06 | LE DISTANZE
Nei centri storici (zone A) è obbligatorio mantenere le distanze preesistenti in caso di ristrutturazione: nelle altre zone il Dm 1444 impone una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate.
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Un potere nuovo con limiti già scritti dalla Consulta.
I limiti imposti dal decreto "del fare" alle deroghe alle distanze minime tra fabbricati e agli standard urbanistici non sono una novità. Il nuovo articolo 2-bis del Testo unico dell'edilizia –nello stabilire che le norme regionali recanti eccezioni al Dm n. 1444/1968 debbano essere emanate «nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali»– traduce in legge il costante orientamento della Corte costituzionale in tema di deroghe alle distanze tra fabbricati, rimarcato, anche di recente, dalla sentenza n. 6/2013.
Con questa pronuncia, ritenendo fondata la questione sollevata dalla Corte di cassazione, è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 2, della legge delle Marche, n. 31/1979. La norma censurata permetteva ai Comuni di individuare gli edifici suscettibili di ampliamento tra i fabbricati aventi impianto edilizio preesistente, compresi nelle zone di completamento con destinazione residenziale previste dagli strumenti urbanistici generali, riconoscendo al provvedimento di individuazione valenza di piano particolareggiato e consentendo la deroga alle distanze previste dal piano regolatore, con l'unico obbligo di mantenere la distanza minima di 3 metri dagli altri manufatti.
La Suprema corte aveva denunciato il contrasto della disposizione regionale con l'articolo 9 del Dm 1444/1968, che fissa una distanza minima tra fabbricati e consente l'edificazione a distanze inferiori solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
La Consulta, confermando l'orientamento già più volte espresso (sentenze n. 232/2005, n. 173/2011, n. 114/2012) ha rimarcato che la regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nell'ordinamento civile, materia di competenza esclusiva dello Stato –in quanto afferente in via diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi– e disciplinata innanzitutto dal Codice civile, nonché dal Dm 1444. Tuttavia, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio... la disciplina che li riguarda tocca anche interessi pubblici», la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di governo del territorio.
Alle Regioni è quindi consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, ma solo per soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Pertanto, la legislazione regionale è legittima se persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico e riferisce l'operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali a un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio». Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da queste finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata allo Stato.
Nella fattispecie la sentenza ha ritenuto illegittima la norma delle Marche poiché consentiva ai Comuni di individuare gli edifici che potevano derogare alle distanze minime fissate nel Dm 1444; la deroga, riguardando singole costruzioni non risultava ancorata all'esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell'assetto urbanistico di una determinata zona (articolo Il Sole 24 Ore del 16.09.2013).

EDILIZIA PRIVATAQuesta Corte ha infatti affermato il principio che l’art. 873 cod. civ. trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quello superiore, in quanto il rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d’intercapedini dannose.
Questa giurisprudenza si ricollega a principi già in precedenza costantemente affermati, secondo i quali:
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ai fini delle prescrizioni che impongono distacchi minimi è indifferente che i fondi siano posti a dislivello o si trovino alla medesima quota;
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le relative misurazioni vanno effettuate sul piano virtuale orizzontale, prendendo in considerazione, come su una mappa, le proiezioni in verticale delle sagome degli edifici e delle linee dei confini;
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soltanto le costruzioni completamente interrate rispetto al suolo in cui sono realizzate –o che non ne emergono in misura apprezzabile, come i cordoli ai margini di un campo da tennis– non sono soggette alla disciplina contenuta nell’art. 873 c.c. e ss., o a quella più restrittiva dettata dai regolamenti locali.
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In tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria.

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Il primo quesito (se l’art. 873 c.c. sia applicabile qualora i fabbricati non abbiano pareti contrapposte ovvero tra le frontistanti facciate non sussista almeno un segmento tale che l’avanzamento ideale di una o entrambe le facciate porti al loro incontro), tra l’altro, ha già avuto risposta nella costante giurisprudenza di questa Corte (allo stato non contraddetta da contrarie decisioni) che ha negato la necessità, ai fini del rispetto delle distanze tra costruzioni, che le pareti si trovino allo stesso livello (cfr. Cass. 15/07/2008 n. 19486).
Questa Corte ha infatti affermato il principio che l’art. 873 cod. civ. trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quello superiore, in quanto il rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d’intercapedini dannose.
Questa giurisprudenza si ricollega a principi già in precedenza costantemente affermati, secondo i quali:
- ai fini delle prescrizioni che impongono distacchi minimi è indifferente che i fondi siano posti a dislivello o si trovino alla medesima quota (Cass. 21.05.1997 n. 4511);
- le relative misurazioni vanno effettuate sul piano virtuale orizzontale, prendendo in considerazione, come su una mappa, le proiezioni in verticale delle sagome degli edifici e delle linee dei confini (Cass. 24.11.1995 n. 12163);
- soltanto le costruzioni completamente interrate rispetto al suolo in cui sono realizzate –o che non ne emergono in misura apprezzabile, come i cordoli ai margini di un campo da tennis– non sono soggette alla disciplina contenuta nell’art. 873 c.c. e ss., o a quella più restrittiva dettata dai regolamenti locali (Cass. 01.07.1996 n. 5956).
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Con il sesto motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 949, 2043 c.c. e 278 c.p.c. quanto alla condanna generica al risarcimento del danno, sul presupposto che le opere che le opere da lui realizzate non siano illegittime.
Il motivo resta assorbito dall’accertata illegittimità delle opere; quanto all’esistenza di un danno in re ipsa per la violazione delle distanze tra costruzioni, la decisione impugnata è conforme alla più recente giurisprudenza di questa Corte che qui si condivide integralmente, secondo la quale in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria (cfr. Cass. 16/12/2010 n. 25475; Cass. 07/05/2010 n. 11196) (Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 11.09.2013 n. 20850 - tratto da e link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATAVa rilevato come l’edificazione dei cinque abbaini in luogo dei preesistenti lucernai abbia indubbiamente determinato un’alterazione della sagoma dell’edificio, comportando altresì un aumento della volumetria.
Stante la rilevanza edilizia delle opere, che hanno comportato una sopraelevazione ed un incremento dell’altezza massima relativamente alle diagonali della precedente copertura, nonché un incremento di volume in rapporto alla sostituzione di ciascun lucernaio con un abbaino, è indubbio che ci si trovi di fronte ad un significativo mutamento della preesistente costruzione, con una parziale costruzione ‘nuova’ in senso tecnico.
Per la giurisprudenza che la Sezione condivide e fa propria, una sopraelevazione, pur se di ridotte dimensioni, nella parte in cui determini aumento della volumetria e della superficie di ingombro, va qualificata come nuova costruzione.
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La distanza tra gli edifici va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano, sicché nella specie risulta illegittimo l’atto che ha consentito la creazione di una sopraelevazione, nella forma di un abbaino, in sostituzione di un preesistente lucernaio, che ha determinato, per alcune parti del tetto, una distanza inferiore a quella prevista per le nuove costruzioni dalle NTA.

Sotto un profilo fattuale, va rilevato come l’edificazione dei cinque abbaini in luogo dei preesistenti lucernai abbia indubbiamente determinato un’alterazione della sagoma dell’edificio, comportando altresì un aumento della volumetria.
Stante la rilevanza edilizia delle opere, che hanno comportato una sopraelevazione ed un incremento dell’altezza massima relativamente alle diagonali della precedente copertura, nonché un incremento di volume in rapporto alla sostituzione di ciascun lucernaio con un abbaino, è indubbio che ci si trovi di fronte ad un significativo mutamento della preesistente costruzione, con una parziale costruzione ‘nuova’ in senso tecnico.
Per la giurisprudenza che la Sezione condivide e fa propria, una sopraelevazione, pur se di ridotte dimensioni, nella parte in cui determini aumento della volumetria e della superficie di ingombro, va qualificata come nuova costruzione (Cassazione civile, Sezione terza, 01.10.2009, n. 21059).
Le nuove opere così realizzate, in ragione della loro rilevanza, non potevano quindi considerarsi sottratte all’obbligo del rispetto delle distanze minime (5 metri) di cui all’art. 16 delle NTA del piano regolatore comunale di Vercelli.
La risalenza dell’edificio (nella sua originaria consistenza) esclude, evidentemente, che debba richiedersi ‘retroattivamente’ –a seguito delle modifiche apportate– il rispetto della distanza di cinque metri, oggi prevista dalle NTA: è ovvio che una disposizione (di per sé innovativa) sulle distanze non rende contra ius un manufatto realizzato in precedenza.
Tuttavia, non può ammettersi che le modifiche dell’edificio comportino una distanza tra i due edifici che sia inferiore alla misura imposta da una disposizione nel frattempo entrata in vigore: l’art. 16 si applica senz’altro per la nuova costruzione che si intenda realizzare su un edificio preesistente.
Peraltro, la distanza tra gli edifici va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (Consiglio di Stato Sezione Quarta, 02.11.2010, n. 7731, e 05.12.2005, n. 6909), sicché nella specie risulta illegittimo l’atto che ha consentito la creazione di una sopraelevazione, nella forma di un abbaino, in sostituzione di un preesistente lucernaio, che ha determinato, per alcune parti del tetto, una distanza inferiore a quella prevista per le nuove costruzioni dalle NTA (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.09.2013 n. 4501 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: Il decreto ministeriale n. 1444 del 02.04.1968, in tema di rispetto delle distanze di vicinato, ha una valenza direttamente precettiva, sino a comportare la disapplicazione degli strumenti urbanistici, anche di tipo regolamentare, con esso contrastanti.
In particolare, la prescrizione di cui all’art. 9, che fissa la distanza di dieci metri fra pareti finestrate di edifici fronteggianti, in quanto volta a salvaguardare imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ha natura tassativa ed inderogabile.
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Un preciso orientamento sia della Cassazione, sia di questo Consiglio di Stato, ha avuto modo di affermare come la regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere.

Il Collegio, tenuto conto della già resa sentenza parziale, è chiamato in questa sede unicamente a dirimere la questione se il rilascio dell’impugnato titolo ad aedificandum, con cui si autorizza l’esecuzione di lavori di recupero di un sottotetto, comporti o meno la violazione del limite di distanza di dieci metri tra fabbricati vicini, di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
A tale problematica si ritiene debba darsi risposta negativa, in senso non favorevole alla tesi difensiva propugnata dall’appellante, che tale vizio di violazione di legge ha (erroneamente) denunciato come sussistente.
Com’è noto, il decreto ministeriale n. 1444 del 02.04.1968, in tema di rispetto delle distanze di vicinato, ha una valenza direttamente precettiva, sino a comportare la disapplicazione degli strumenti urbanistici, anche di tipo regolamentare, con esso contrastanti (Cons. Stato Sez. IV 27.10.2011 n. 5759).
In particolare, la prescrizione di cui all’art. 9, che fissa la distanza di dieci metri fra pareti finestrate di edifici fronteggianti, in quanto volta a salvaguardare imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ha natura tassativa ed inderogabile (ex plurimis Cons. Stato Sez. IV 12.06.2009 n. 3094).
Ciò preliminarmente precisato, nel caso di specie, in ragione delle caratteristiche dello stato dei luoghi come confermate dalle risultanze emerse dai compiuti accertamenti istruttori, non è ravvisabile, ad opera dell’assentimento alle opere di recupero del sottotetto del fabbricato del sig. Novaro, una situazione comportante il mancato rispetto del limite di distanza dei dieci metri fra pareti finestrate di edifici prospicienti.
Ed invero, come rilevasi dal documento contenente i rilievi tecnici all’uopo esperiti, il fabbricato di proprietà del controinteressato Novaro (indicato sub “A” nella relazione) e quello dell’appellante sig.ra Lantero (indicato sub “B”) sono asimmetrici (il primo è arretrato rispetto al secondo) e tanto sia con riferimento alle altezze, laddove l’edificio della Lantero è più alto, sia per la sagoma, nel senso che i fabbricati sono disallineati, per cui , ai fini de quibus, viene in rilievo solo una porzione di pareti fronteggianti che, però, non sono parimenti finestrate.
Più specificatamente, a fronte del muro perimetrale del fabbricato di proprietà dell’appellante su cui insistono tre finestre allineate verticalmente (e che prospetta sull’edificio dirimpettaio ) sussiste il muro perimetrale dell’edificio di proprietà del controinteressato, ad una distanza di 4,05 metri, la cui parete però non può considerarsi finestrata, giacché la stessa non gode di vedute ma solo di luce.
Ebbene, un preciso orientamento sia della Cassazione (Cass. Sez. Civ., Sez. II 30.04.2012 n. 6604), sia di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato Sez. IV 22.01.2013 n. 844) -dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi- ha avuto modo di affermare come la regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere (come nel caso di specie).
Ciò che rileva, insomma, è che il Novaro non ha la possibilità di “inspicere” nell’altrui prospiciente proprietà; e se così è, non v’è luogo all’applicazione della norma ex art. 9 citato, non esistendo, appunto, pareti finestrate su edifici fronteggianti e/o contrapposti (illuminante al riguardo è la riproduzione fotografica n. 4 della documentazione acclusa alla relazione dell’Ufficio accertatore) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.09.2013 n. 4451 - link a www.giustizia-amministrativa).

agosto 2013

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, pur non essendo immediatamente operante nei rapporti fra privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali di strumenti urbanistici con esso contrastanti, comporta l'obbligo, per il giudice, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione in esso recata, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.
Va invero rilevato che in giurisprudenza è risalente e consolidato il principio secondo cui l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, pur non essendo immediatamente operante nei rapporti fra privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali di strumenti urbanistici con esso contrastanti, comporta l'obbligo, per il giudice, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione in esso recata, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata (cfr. Cass. Civ., sez. II, 30.03.2006 n. 7563; id. 29.01.1999 n. 811; id. 11.01.1992 n. 249) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.08.2013 n. 2087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia. Il Decreto del Fare consente alle Regioni di autorizzare la realizzazione di edifici a meno di 10 metri l'uno dall'altro.
Meno vincoli sulle costruzioni. Derogabili le regole nazionali sulla distribuzione degli spazi urbanistici.
LA CONDIZIONE/ La normative locali non potranno comunque andare oltre il Codice civile e le disposizioni integrative sulla proprietà.

Il decreto del fare (Dl 69/2013) ha modificato uno dei princìpi finora considerati inviolabili in edilizia: l'inderogabilità dei limiti delle distanze tra costruzioni stabiliti dal Dm 02.04.1968 n. 1444. La legge di conversione del Dl (la 98/2013) ha, infatti, introdotto un nuovo articolo –il 2-bis– al Testo unico dell'edilizia (Tue, Dpr 380/2001), secondo cui le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, deroghe al Dm 1444/1968, che disciplina i limiti di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati.
Questi enti potranno, poi, dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.
Con il nuovo articolo 2-bis, le Regioni e le Province autonome hanno ora la possibilità di modificare l'assetto normativo finora regolato dal Dm 1444/1968. Esso contiene il "cuore" della normativa nazionale su densità abitativa e dimensione e posizione degli edifici, mentre il Codice civile si occupa principalmente di distanze rispetto a siepi, alberi, muri di cinta, pozzi, comunioni forzose, finestre, balconi eccetera. Il Dm 1444 prevede, in sintesi, per i nuovi edifici una distanza minima di 10 metri, per risanamenti conservativi e ristrutturazioni uno spazio non inferiori a quello tra i volumi edificati preesistenti (contati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale).
Il nuovo articolo 2-bis del Tue va inquadrato in un contesto caratterizzato, da un lato, dalla tendenza di Regioni e Comuni di introdurre disposizioni legislative e regolamentari derogatorie al Dm 1444/1968 e, dall'altro, da un costante e consolidato principio giurisprudenziale che dà efficacia precettiva e inderogabile all'articolo 9 del Dm: spesso, i giudici sono stati chiamati a valutare norme comunali contenute nei piani regolatori, nelle Nta (Norme tecniche di attuazione) e negli strumenti attuativi che si discostavano variamente dai limiti del Dm, prevedendo distanze minori, dichiarandole illegittime.
Anche la Corte costituzionale si è più volte pronunciata sulla legittimità di alcune disposizioni regionali che, forzando il dettato del Dm 1444/1968, introducevano disposizioni derogatorie ai limiti fissati dal legislatore nazionale. Nelle sue pronunce, la Consulta ha costantemente ribadito che le Regioni che derogano ai limiti nazionali travalicano le proprie competenze in materia di governo del territorio interferendo con la competenza esclusiva dello Stato a fissare le distanze minime (sentenze 232/2005, 114/212 e 6/2013).
In tale quadro, tuttavia, è lo stesso Dm 1444/1968 che qualifica i limiti in tema di distanze come «inderogabili» ammettendo, al contempo, distanze inferiori per gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche. La deroga, in tali casi, è consentita perché i piani particolareggiati e le lottizzazioni convenzionate sono forme di pianificazione attuativa che regolamentano in modo complessivo e unitario determinate zone. Nell'ambito di tale normativa è consentito ai Comuni sacrificare l'interesse al rispetto delle distanze con altri vantaggi per il bene pubblico (ad esempio, aumento delle aree verdi).
È su questa possibilità di deroga prevista dal Dm 1444/1968 che fa leva la Scheda di lettura redatta dal servizio Studi della Camera il 7 agosto scorso, quando suggerisce che le nuove disposizioni derogatorie introdotte dall'articolo 2-bis a favore di Regioni e Province autonome dovrebbero essere dettate nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario del territorio o di specifiche aree.
Tuttavia, il punto sembra restare controverso in quanto il tenore letterale dell'articolo 2-bis sembra prevedere due distinte facoltà: quella di dettare disposizioni derogatorie al Dm 1444/1968 accanto a quella di dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi.
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Licenze. Snellite le procedure di rilascio. Se c'è un obbligo ambientale 30 giorni per l'ok dell'ufficio.
LA PROROGA/ Possono slittare di tre anni i termini di inizio e fine lavori nelle convenzioni di lottizzazione.

Il decreto del fare (Dl 69/2013) contiene numerose semplificazioni nelle costruzioni. Tra queste, oltre alle innovazioni "sostanziale" (liberalizzazione della sagoma e derogabilità dei limiti delle distanze tra le costruzioni), spiccano le modifiche "procedurali" che hanno mutato il rilascio dei titoli abilitativi. In tale ambito c'è la sostanziale riscrittura dell'articolo 20 del Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001, Tue) sulla disciplina per gli immobili vincolati.
In particolare l'articolo 20 del Tue prevede ora che quando sia richiesto un permesso di costruire per un intervento soggetto a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali il dirigente (o il responsabile dell'ufficio competente) deve adottare il provvedimento finale entro 30 giorni dal rilascio del nulla osta da parte dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo: in caso di valutazione positiva, il procedimento amministrativo andrà concluso con l'adozione di un provvedimento espresso. In caso di diniego dell'atto di assenso (sia trasmesso dall'amministrazione competente sia acquisito in conferenza di servizi), se il dirigente non emana il provvedimento conclusivo (di rigetto) entro 30 giorni, la domanda si intende respinta e, in tal caso, il responsabile del procedimento sarà comunque tenuto trasmettere al richiedente il provvedimento di diniego.
La trasmissione in un termine molto celere –cinque giorni– garantisce l'effettività dell'azione giudiziale per chi si è visto negare il provvedimento: in tal modo, si conoscono i motivi giuridici che ostano all'accoglimento.
Novità anche per l'autorizzazione paesaggistica. Il Dl 69/2013 interviene, in primo luogo, sui termini per il completamento dei lavori: resta fermo che l'autorizzazione è efficace per cinque anni, ma il decreto precisa che, se i lavori sono iniziati nel quinquennio, l'autorizzazione si considera efficace per tutta la loro durata. Nella precedente formulazione, scaduto il termine, i lavori ancora da realizzare dovevano essere nuovamente autorizzati.
Sempre nell'ambito del procedimento per l'autorizzazione paesaggistica, viene dimezzato il termine di rilascio entro il quale l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione: da 90 a 45 giorni dalla ricezione degli atti endoprocedimentali.
Ulteriore agevolazione per il settore delle costruzioni è la possibilità di ottenere una proroga per i termini di inizio e fine lavori stabiliti dall'articolo 15 del Tue. Per ottenerla, il titolare di un permesso di costruzione potrà comunicare all'amministrazione di avvalersi della facoltà riconosciuta dal comma 3 dell'articolo 30 del Dl 69/2013. La comunicazione potrà essere presentata a condizione che:
i termini non siano già decorsi al momento della presentazione;
i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati;
la normativa regionale non preveda disposizioni differenti.
Il decreto del fare prevede una proroga di validità anche per i termini di inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione o degli accordi simili comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012: la norma, nella versione convertita dalla legge 98/2013, accorda uno slittamento dei citati termini di tre anni.
Si ricorda che la possibilità di ottenere una proroga dei termini di inizio e fine lavori previsti dall'articolo 15 del Tue prima della nuova disposizione del decreto del fare esisteva già, ma era sottoposta ad una stringente valutazione degli uffici tecnici comunali, che la concedevano soltanto se l'istanza di proroga era giustificata da serie e non prevedibili ragioni (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2013
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EDILIZIA PRIVATA: Il computo della distanza tra edifici, in base alle norme del d.m. n. 1444/1968, nel caso in cui le pareti dei fabbricati non si estendano linearmente in altezza, ma manifestino rientranze e sporgenze, deve operarsi distinguendo fra gli sporti dalle ridotte dimensioni, aventi scopo meramente ornamentale e decorativo, da quelli costituenti sporgenze di particolari proporzioni, destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
Di questi ultimi deve tenersi conto nel computo anzidetto, essendo veri e propri corpi di fabbrica che determinano un aumento dell'edificio in superficie ed incidono quindi sulla consistenza volumetrica dello stesso come pure deve tenersi conto di altre sporgenze, quali i balconi, che vengono ad ampliare in superficie e in volume il fabbricato da cui sporgono, occupando lo spazio che deve invece rimanere libero per assicurare il prescritto distacco.
Nel caso di specie, il progetto è, pertanto, illegittimo non considerando, nel calcolo della distanza di dieci metri, i balconi che, per la loro sporgenza, pari a 50 cm, non possono essere qualificati quale mero elemento ornamentale.

È invero fondato il quarto motivo di ricorso con cui viene lamentata la violazione dell’art. 9, d.m. n. 1444/1968, non sussistendo la distanza ivi prevista di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
La giurisprudenza ha difatti affermato che il computo della distanza tra edifici, in base alle norme del d.m. n. 1444/1968, nel caso in cui le pareti dei fabbricati non si estendano linearmente in altezza, ma manifestino rientranze e sporgenze, deve operarsi distinguendo fra gli sporti dalle ridotte dimensioni, aventi scopo meramente ornamentale e decorativo, da quelli costituenti sporgenze di particolari proporzioni, destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
Di questi ultimi deve tenersi conto nel computo anzidetto, essendo veri e propri corpi di fabbrica che determinano un aumento dell'edificio in superficie ed incidono quindi sulla consistenza volumetrica dello stesso (cfr. Cass., Sez. II, 26.11.1996 n. 10497) come pure deve tenersi conto di altre sporgenze, quali i balconi, che vengono ad ampliare in superficie e in volume il fabbricato da cui sporgono, occupando lo spazio che deve invece rimanere libero per assicurare il prescritto distacco (cfr. Cass., Sez. II, 24.03.1993 n. 3533; 10.11.2011, n. 23553, Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909; ord. n. 1914 del 28.04.2010; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 11.01.2013, n. 83).
Nel caso di specie, il progetto è, pertanto, illegittimo non considerando, nel calcolo della distanza di dieci metri, i balconi che, per la loro sporgenza, pari a 50 cm, non possono essere qualificati quale mero elemento ornamentale.
La circostanza che la controinteressata abbia presentato un’istanza di variazione al progetto, volta alla riduzione della superficie dei balconi aggettanti, non fa venire meno l’illegittimità del titolo abilitativo, ma anzi la conferma (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.08.2013 n. 2065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2013

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra edifici senza deroghe. Il limite legale di dieci metri si applica anche alle tettoie e alle autorimesse.
Costruzioni e ristrutturazioni. Le interpretazioni dei giudici rafforzano il divieto di procedere sul confine tra fabbricati limitrofi.
Le questioni relative alle distanze dai confini e tra fabbricati continuano a dare vita ad un notevole contenzioso giudiziale, tanto che ormai è possibile individuare orientamenti consolidati, anche nella giurisprudenza della seconda Sezione della Cassazione, secondo la quale ad esempio sono soggette ai limiti di distanze anche le autorimesse e le tettoie.
Le disposizioni in tema di distanze tra edifici sono contenute nel Codice civile (articoli 873 e seguenti), in cui si prescrive che le costruzioni su fondi finitimi devono essere tenute a distanza non minore di tre metri, a meno che non siano realizzate in unione, cioè strutturalmente collegate, oppure in aderenza. In questo caso (sentenza n. 21227/2009) è necessario che la nuova opera e quella preesistente combacino perfettamente da uno dei lati, in modo che non rimanga tra i due muri, nemmeno per un breve tratto o ad intervalli, una intercapedine, che lasci scoperte anche solo parzialmente le relative facciate.
I casi
Il termine "costruzione" viene riferito dalla giurisprudenza a qualsiasi opera non completamente interrata e che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche se realizzata mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua destinazione, come nel caso di elementi accessori e pertinenze, quali le autorimesse, che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell'immobile (sentenze n. 72/2013, n. 13389/2011 e n. 4277/2011). È stata ritenuta una «costruzione» anche il manufatto che, anche se privo di pareti, come nel caso delle tettoie, determini un incremento del volume, della superficie e della funzionalità dell'immobile (sentenze n. 16776/2012, n. 5934/2011 e n. 22127/2009).
Rientrano nella nozione di "costruzione" anche tutte quelle parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti «aggettanti») che, pur non essendo volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato, salvo siano di ridotte dimensioni o abbiano un carattere meramente decorativo. Non sono infatti computabili ai fini delle distanze, solo quegli elementi con funzione ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni o le grondaie (sentenza n. 17242/2010)
La sopraelevazione
le distanze vanno rispettate anche nel caso di sopraelevazione, «per tale intendendosi qualsiasi costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda di un preesistente fabbricato» (sentenza n. 22895/2004), allorquando sviluppi effettivamente una nuova cubatura. Anche la modifica del tetto di un fabbricato integra una sopraelevazione, ma viene considerata "costruzione" solo se produce aumento della superficie esterna e della volumetria dei piani sottostanti (sentenza n. 20786/2006)
Al regime delle distanze legali, secondo quanto previsto dall'articolo 879, comma 2, del Codice civile, non sono soggette le costruzioni realizzate a confine con le piazze e le vie pubbliche, anche di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio (sentenza n. 6006/2008).
Le previsioni del codice civile vengono integrate da quelle dei regolamenti edilizi locali, che possono anche fissare distanze superiori, purché nel rispetto della disciplina urbanistico-edilizia nazionale e regionale, in particolare quella del Dm 1444/1968. Le distanze minime tra costruzioni indicate dall'articolo 9 del decreto variano in relazione alle zone territoriali omogenee in cui ricadono gli edifici, alla loro altezza ed alla presenza o meno di strade destinate al traffico veicolare.
Solo per i centri storici (le zone A), in caso di ristrutturazione vi è l'obbligo di mantenere le distanze intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, mentre nelle altre zone omogenee per gli edifici di nuova costruzione è prescritta in ogni caso una distanza minima di dieci metri tra le pareti finestrate e quelle degli edifici antistanti. In presenza di strade, le distanze minime corrisponderanno alla larghezza della sede stradale maggiorata, per ciascun lato, ad una misura variabile dai 5 ai 10 metri, a seconda dell'ampiezza della strada. Di conseguenza, in questo caso, la distanza minima potrà andare dai 17 ai 35 metri.
La norma ammette distanze inferiori, ma solo nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate, con esclusione degli interventi diretti, realizzati sulla base di un singolo permesso di costruire.
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Gli orientamenti
01 | A TUTTE LE FINESTRE LO STESSO PESO
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'articolo 9 del Dm 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e con riguardo a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 7731/2010)
02 | NESSUNA DEROGA NEI PIANI URBANISTICI
L'articolo 9 del Dm 02.04.1968 n. 1444, che impone la distanza minima di dieci metri tra costruzioni vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima, essendo consentita all'amministrazione locale solo la fissazione di distanze superiori (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 1491/2009)
03 | I BALCONI E LE LOGGE ESCLUSI DAL CALCOLO
La distanza dei dieci metri (fissati dall'ex Dm n. 1444/1968) tra pareti finestrate è stata stabilita in funzione della tutela della riservatezza delle abitazioni situate in fabbricati che si fronteggiano, ratio che viene meno in presenza di balconi e di logge, che quindi non debbono essere tenuti presenti ai fini del calcolo della distanza (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 3889/2006)
04 | L'ASCENSORE SUPERA I VINCOLI DI LEGGE
L'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'articolo 1102 del Codice civile, senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi la disciplina dettata dall'articolo 907 del Codice civile sulla distanza delle costruzioni dalle vedute (Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 14096/2012)
05 | NESSUNA SANATORIA PER LE VIOLAZIONI
In tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del Codice civile, a tutela dell'interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati. Tali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l'avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici (Consiglio di Stato, sezione II, sentenza. n. 9751/2010)
06 | NON BASTA UNO SPIGOLO PER I FONDI FINITIMI
In materia di rispetto delle distanze legali delle costruzioni rispetto al confine, la nozione di fondi finitimi è diversa da quella di fondi meramente "vicini", dovendo per fondi finitimi intendersi quelli che hanno in comune, in tutto o in parte, la linea di confine, ossia quelli le cui linee di confine, a prescindere dall'essere o meno parallele, se fatte avanzare idealmente l'una verso l'altra, vengono ad incontrarsi almeno per un segmento; ne consegue che non possono essere invocate le norme sul rispetto delle distanze ove i fondi abbiano in comune soltanto uno spigolo o i cui spigoli si fronteggino pur rimanendo distanti (Cassazione civile, sezione II, sentenze n. 3036/2009)
07 | PER LE APERTURE SUFFICIENTE UNA PARETE
In tema di distanze tra le costruzioni, l'articolo 9, n. 2), del Dm 02.04.1968 n. 1444 prescrive, con disposizione tassativa e inderogabile, la distanza minima assoluta di dieci metri tra i fabbricati anche nel caso in cui solo una delle pareti antistanti risulti finestrata e non entrambe (Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 22495/2007)
08 | PER I CENTRI STORICI VIGE L'ESONERO
L'articolo 9, comma 1, n. 2), del Dm 02.04.1968 n. 1444 in base al quale la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo ultimo, dove vige il generale divieto di costruzioni ex novo, la norma si limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti (Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 12767/2008)
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FOCUS
La finestra è decisiva

La Cassazione ha precisato per le pareti finestrate il rispetto della distanza di dieci metri dagli edifici prospicienti si riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come vedute, cioè quelle che permettono di affacciarsi per guardare di fronte, ma non comprende anche le pareti cui si aprono finestre cosiddette "lucifere", che consentono solo il passaggio di luce e aria, senza possibilità di affaccio (sentenza n. 6604/2012). Per questa ragione e in quanto l'articolo 9 del Dm 1444/1968 è da considerarsi «norma eccezionale, e perciò insuscettibile di interpretazione analogica», la Cassazione ha anche affermato che non possono ricomprendersi tra le pareti finestrate né le vetrate fisse e prive di aperture, poiché non consentono l'affaccio, né un terrazzo di copertura, il quale non è elemento integrante della parete sottostante, ma costituisce parte distinta e sovrapposta dell'edificio (sentenza n. 19092/2012).
Per le sole zone C), l'articolo 9 del Dm stabilisce inoltre che la distanza minima tra pareti finestrate di edifici antistanti debba essere pari all'altezza del fabbricato più alto. Questa previsione si applica anche nel caso in cui una sola parete sia finestrata, se gli edifici si fronteggiano per oltre dodici metri lineari.
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I paletti. Norma statale invalicabile.
Comuni vincolati nei regolamenti e nei piani urbani.

Le distanze fissate dalle norme nazionali (Dm 1444/1968) non possono essere scavalcate dai regolamenti comunali.
Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 14953/2011) hanno da tempo riconosciuto a questo decreto efficacia analoga a quella della legge statale, con la conseguenza che i Comuni hanno l'obbligo di conformarsi alle sue previsioni nella formazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, e che le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle previsioni eventualmente contrastanti contenute in un regolamento locale.
Proprio in ragione della sua forza di legge, la Cassazione penale (Sezione III, sentenze n. 10431/2012) ha stabilito che il pubblico ufficiale che rilascia il titolo abilitativo edilizio, in caso di dolosa violazione della disciplina in tema di distanze legali, risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'articolo 323 del Codice penale.
La seconda Sezione della Cassazione (n. 7563/2006) ha comunque precisato che la norma non è immediatamente operante nei rapporti fra i privati e va interpretata nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con questa disposizione comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente le previsioni dell'articolo 9 del Dm, che è divenuto, «per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico».
La stessa sezione (sentenze n.13547/2011 e n. 5741/2008) ha anche chiarito che la finalità perseguita dalla norma non è la tutela della riservatezza, bensì la salubrità e la sicurezza, quindi essa va applicata «indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti».
Resta comunque salva la possibilità per gli strumenti attuativi di derogare legittimamente alle prescrizioni generali sulle distanze, purché gli stessi risultino effettivamente «volti a disciplinare l'attività urbanistico-edilizia in particolari zone del territorio comunale, secondo uniformi criteri planovolumetrici, organici e funzionali, adeguati alla specificità di singoli settori urbani» (Cassazione, sezione II, sentenza n. 56/2010).
Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è espressa nello stesso senso, stabilendo che la norma vincola i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con il limite minimo è illegittima, essendo consentita all'amministrazione locale solo la fissazione di distanze superiori ai dieci metri (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 844/2013).
Unica eccezione è costituita dagli edifici situati nei centri storici (zone A), (Sezione IV, n. 3614/2006), anche se oggetto di ricostruzione a seguito di demolizione, volontaria o per evento naturale, ma a condizione che l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro (sezione IV, n. 844/2013).
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La Consulta. Gli aspetti da contemperare. Le lottizzazioni fanno eccezione.
LE PRONUNCE/ Le Regioni hanno margini di manovra in presenza di interessi legati alla materia del governo del territorio.

Il carattere inderogabile delle norme sulle distanze legali (articolo 9 del Dm 1444/1968) e la sua portata integrativa delle disposizioni del Codice civile, sono stati ripetutamente affermati anche dalla Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi in sede di conflitto di attribuzione tra il legislatore statale e quello regionale. Quest'ultimo, infatti, è spesso intervenuto in materia rivendicando la propria potestà legislativa concorrente nella materia del governo del territorio.
Secondo la Consulta (da ultimo sentenza n. 232/2005) le norme sulle distanze legali costituiscono uno dei limiti alla proprietà previsti dalla legge per assicurarne la funzione sociale, così come previsto dall'articolo 832 del Codice civile e dall'articolo 42 della Costituzione. Al fine di garantire la coesistenza dei diritti dei singoli proprietari, «alle facoltà di ciascuno sono imposti dalla legge limiti atti a conciliare il godimento del diritto sul proprio bene con quello degli altri sui loro beni». Tra questi limiti vi sono le norme che impongono di rispettare determinate distanze minime nell'eseguire costruzioni, «la cui violazione è suscettibile anche della drastica forma di risarcimento in forma specifica, attraverso la riduzione in pristino», ai sensi dell'articolo 872, comma 2, del Codice.
Le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze tra le costruzioni in forza del rinvio contenuto nell'articolo 873 del Codice hanno carattere integrativo dello stesso Codice, in quanto concorrono alla stessa configurazione del diritto di proprietà, disciplinando i rapporti di vicinato, assicurando un'equità nell'utilizzazione edilizia dei suoli privati ed attribuendo il diritto reciproco al loro rispetto.
Ne discende che anche le norme degli strumenti urbanistici devono essere rispettose della normativa statale anche di livello regolamentare. Secondo la Consulta alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. In particolare, le deroghe sono legittime se funzionali «agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati».
Sulla base di questi presupposti, con la sentenza n.114/2012, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme della legge della Provincia di Bolzano n. 13/1997 (modificate dalla Lp n. 15/2011), nella parte in cui, ai fini dell'isolamento termico degli edifici, consentiva di derogare nella misura massima di 20 cm alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici e alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale, con il solo rispetto «delle distanze prescritte dal codice civile» e non anche di quelle del Dm n. 1444/1968.
Più di recente, la sentenza n. 6/2013 ha ribadito questo principio, ricordando che le deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici vanno lette con riferimento all'articolo 9 del decreto, il quale «consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.07.2013).

maggio 2013

EDILIZIA PRIVATA: E' infondata la tesi per cui un lotto è da ricondursi a "centro storico” per il solo fatto che ivi insiste un vincolo a suo tempo imposto ex L. 1497 del 1939, posto che così argomentando tutte le aree assoggettate a vincolo paesistico risulterebbero automaticamente classificate sotto il profilo urbanistico-edilizio quali zone A.
Del resto, la risalente, ma ancor valida Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 3210 dd. 28.10.1967 n. 3210 chiarisce senza ombra di dubbio che l’inclusione di aree nelle zone A concerne segnatamente gli “agglomerati urbani”, e ciò non può dirsi per l’area in questione, stante la sua ben evidente marginalità rispetto al centro urbano.
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L’art. 9 del D.M. 1444 del 1968, laddove impone la distanza di 10 metri tra parete finestrata e corpo edificato, è norma di ordine generale, prevalente anche sulla disciplina regionale eventualmente difforme, e va pertanto applicata anche a corpi distinti di un’unica costruzione, ivi dunque compresa l’ipotesi di sopraelevazione.

Convince viceversa il Collegio la censura rimasta assorbita nel giudizio di primo grado e riproposta in via tuzioristica dal Wurthner circa la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, violazione e falsa applicazione dell’art. 11 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380, violazione e falsa applicazione dell’art. 31 della L.R. 06.06.2008 n. 16, nonché eccesso di potere per carenza assoluta di istruttoria e di motivazione e difetto del presupposto ed illogicità manifesta: ossia che, sinteticamente, in difformità da tali disposizioni normative il progetto prevede che i muri perimetrali della porzione immobiliare di proprietà Ascheri distino all’incirca 7,15 metri dalle pareti finestrate di proprietà Wurthner.
A fronte dell’eccezione del Comune e dell’Ascheri secondo la quale la disciplina di cui all’art. 9, secondo comma, del D.M. 02.04.1968 n. 1444 –segnatamente contemplata nella misura di 10 metri per i nuovi edifici– non si applica alle zone A così come definite dall’art. 2 dello stesso D.M., la Sezione ha disposto un’istruttoria chiedendo al Comune medesimo di produrre agli atti di causa un certificato di destinazione urbanistica del sito in cui ricade la costruzione Ascheri – Wurthner.
Il documento prodotto certifica che il foglio 8 del mappale n. 972 ricade integralmente nella Zona A.12 del P.U.C. (Piano urbanistico comunale) comprendente l’ambito di conservazione e riqualificazione delle località Pian dei Rossi, Sciarto, Mei, Feu … Torre del Mare, nonché secondo il P.T.C.P. –Piano territoriale di coordinamento paesistico (Assetto insediativo) nella Zona ID-MA– Regime normativo di mantenimento, in Zona COL-ISS del P.T.C.P. (Assetto vegetazionale), secondo il P.T.C.P. (Assetto Geomorfologico) in Zona MO-A – Aree assoggettate a regime normativo di modificabilità di tipo-A.
Lo stesso foglio 8, mappale 972, ricade integralmente nella Carta della suscettività al dissesto dei versanti quale PG1 – Area a suscettività al dissesto bassa, è sottoposta integralmente a vincolo paesistico-ambientale a’ sensi del D.L.vo 22.01.2004 n. 42 ed è inoltre assoggettata integralmente a vincolo idrogeologico a’ sensi della L.R. 16.04.1984 (peraltro ad oggi abrogata dalla L.R. 03.01.2001 n. 1) e del R.D. 30.12.1923 n. 3267.
Secondo la tesi del Comune e dell’Ascheri l’area in questione ricadrebbe nella Zona A contemplata dall’art. 2 del D.M. 1444 del 1968 in quanto ivi si menzionano “le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”, e l’ambito A.12 del P.U.C. di Bergeggi, con superficie territoriale di mq. 540.146 è definito da tale strumento di pianificazione “della grande edificazione residenziale per la seconda casa”, completato da “vaste aree boscate di notevole pregio ambientale, soprattutto sul versante a mare”.
Sempre secondo il Comune il vincolo paesaggistico introdotto sull’area medesima a’ sensi del D.M. 06.04.1957 emanato sulla base dell’allora vigente L. 29.06.1939 n. 1497 in tal senso dirimente, posto che ivi si definisce l’area stessa di “una bellezza paesistica costituente un quadro naturale unitamente all’isolotto omonimo”.
In dipendenza di tutto ciò, quindi, la distanza di cui trattasi –ossia “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”– non si applicherebbe al caso di specie, stante la vigenza della disciplina specificamente contemplata relativamente alla zona A “per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni”, laddove –per l’appunto- “le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”.
Né, da ultimo, andrebbe sottaciuto che la distanza predetta di m. 10 non si applicherebbe se i fabbricati non hanno tra loro pareti contrapposte (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 05.10.2005 n. 5348), stante il fatto che la relativa disciplina non è deputata alla tutela del diritto alla riservatezza, ma alla “salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie”, nella specie non sussistenti (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 22.01.2013 n. 354).
Orbene, ad avviso del Collegio risulta innanzitutto infondata la tesi che riconduce l’ambito A.12 – Torre di Porto a “centro storico” per il solo fatto che ivi insiste un vincolo a suo tempo imposto ex L. 1497 del 1939, posto che così argomentando tutte le aree assoggettate a vincolo paesistico risulterebbero automaticamente classificate sotto il profilo urbanistico-edilizio quali zone A.
Del resto, la risalente, ma ancor valida Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 3210 dd. 28.10.1967 n. 3210 chiarisce senza ombra di dubbio che l’inclusione di aree nelle zone A concerne segnatamente gli “agglomerati urbani”, e ciò non può dirsi per l’area in questione, stante non solo la sua ben evidente marginalità rispetto al centro urbano di Bergeggi, ma anche –e soprattutto– sia la circostanza che l’art. 28 del P.U.C. la definisce quale ambito della “grande edificazione residenziale della seconda casa, realizzata fra gli anni ’50 e ’90, costituito da grandi condomίni e ville unifamiliari”, sia l’avvenuta inclusione nel previgente P.R.G. della zona di “Torre del Mare” in zona SR, espressamente equiparata dal Piano stesso a Zona B.
Né –ancora– può convenirsi, sempre in proposito, con la tesi dell’Ascheri secondo la quale il suo progetto sarebbe una mera “sopraelevazione” riconducibile, al più, ad un intervento di “nuova ristrutturazione” e non già di “nuova costruzione”, con la conseguente applicazione in tale ultimo caso soltanto della distanza di m. 10 da corpi antistanti.
Tale tesi risulta infatti smentita dalla giurisprudenza, come ad es. Cons. Stato, Sez. IV, 27.10.2011 n. 5759, anche sulla scorta di Cass., Civ., Sez. II, 27.03.2001 n. 4413.
Né –ancora– può convenirsi, sempre in proposito, con la tesi dell’Ascheri, secondo la quale il suo progetto sarebbe una mera “sopraelevazione” riconducibile, al più, ad un intervento di “nuova ristrutturazione” e non già di “nuova costruzione”, con la conseguente applicazione in tale ultimo caso soltanto della distanza di m. 10 da corpi antistanti.
Va, infatti, in primo luogo evidenziata l’intrinseca contraddittorietà della tesi dell’Ascheri secondo la quale la distanza di m. 10 non si applicherebbe alle ipotesi di “edificio unico”, come –per l’appunto– nel caso in esame, posto che l’Ascheri medesimo ha ben più fondatamente sostenuto per l’innanzi, anche con l’adesione di questo stesso giudice, che l’edificio di cui trattasi non costituisce un “condominio” ma due unità abitative tra di loro autonome.
Ma, soprattutto, è assorbente la constatazione, derivante dalla giurisprudenza dianzi citata, che l’art. 9 del D.M. 1444 del 1968, laddove impone l’anzidetta distanza di 10 metri tra parete finestrata e corpo edificato, è norma di ordine generale, prevalente anche sulla disciplina regionale eventualmente difforme, e va pertanto applicata anche a corpi distinti di un’unica costruzione, ivi dunque compresa l’ipotesi di sopraelevazione (cfr. sul punto, ad es., Cass. Civ., Sez. II, 27.03.2001 n. 4413)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2013 n. 2483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2013

URBANISTICA: La possibilità di variare il sedime è implicita nella previsione dell’obbligo di piano di recupero, e costituisce del resto una facoltà normalmente ricompresa nella nozione di ristrutturazione edilizia pesante di cui all’art. 10, comma 1-c, del DPR 06.06.2001 n. 380.
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Per quanto riguarda poi il problema delle distanze all’interno di un piano di recupero situato in zona A, non vige la regola della distanza minima di 10 metri dalle pareti finestrate, in analogia a quanto previsto per i piani particolareggiati relativi al centro storico.
I piani particolareggiati hanno infatti ampi margini di discrezionalità per disciplinare direttamente questi profili ma possono anche rimettere le scelte di dettaglio ai singoli piani di recupero fissando solo alcune disposizioni generali, come è avvenuto nel caso in esame.
L’unico limite per la zona A desumibile dall’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 è che non sia aggravata la situazione esistente.

Sulle questioni proposte nel ricorso si possono formulare le seguenti considerazioni:
Sul condono della tettoia abusiva
(c) il punto da cui occorre partire è quindi la data di realizzazione della tettoia. Nel provvedimento di sanatoria del 03.10.2000 si prende atto che la tettoia è stata realizzata prima del 01.09.1967, ossia prima dell’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765, come dichiarato dalla dante causa dei controinteressati nella domanda di condono presentata il 18.09.1986. L’ipotesi di condono utilizzata dal Comune è pertanto quella disciplinata dall’art. 31, comma 5, della legge 28.02.1985 n. 47. In questo caso la sanatoria è assoggettata al pagamento dell’oblazione ma non del contributo di concessione, dovuto invece per le opere abusive realizzate tra il 01.09.1967 e il 01.10.1983;
(d) a proposito dell’epoca di realizzazione della tettoia il Comune non ha svolto alcun approfondimento (ad esempio attraverso le aerofotogrammetrie) e dunque non è possibile stabilire se l’opera sia effettivamente anteriore al 01.09.1967;
(e) esiste però un elemento che avvicina notevolmente la presenza della tettoia alla data del 01.10.1983, utile per beneficiare del condono alle condizioni ordinarie e quindi con pagamento del contributo di concessione. Si tratta del provvedimento dell’assessore all’Urbanistica del 20.02.1985, con il quale sono stati autorizzati lavori di manutenzione straordinaria sulla tettoia. Questo provvedimento dimostra l’esistenza della tettoia. La retrodatazione della costruzione a un momento anteriore al 01.10.1983 può essere raggiunta in via presuntiva considerando (1) il carattere pertinenziale del manufatto rispetto all’attività produttiva, (2) il dato di comune esperienza secondo cui una manutenzione straordinaria interviene a una certa distanza temporale dalla costruzione, (3) la necessità di interpretare i casi dubbi a favore del soggetto che chiede il condono (v. TAR Brescia Sez. II 10.05.2012 n. 825; TAR Brescia Sez. I 22.11.2010 n. 4664);
(f) il fatto che la tettoia si trovasse a circa 2,5 metri dalla parete finestrata dell’edificio di proprietà del ricorrente non impediva la concessione del condono. Gli immobili sono infatti collocati in zona A, all’interno della quale in base all’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 non vige la regola della distanza minima di 10 metri. Occorre poi sottolineare che la sanatoria è comunque ammissibile quando sia accompagnata dal vincolo della traslazione del volume e della superficie oggetto di condono allo scopo di conseguire un complessivo riordino del comparto (v. TAR Brescia Sez. II 08.05.2012 n. 788).
Questa condizione nel caso in esame si è realizzata, in quanto la tettoia è stata assoggettata a condono esclusivamente per recuperarne la superficie e riversarla nel nuovo intervento edilizio regolato dal piano di recupero, con il coinvolgimento di un sedime in parte diverso da quello originario. Il punto di osservazione del problema delle distanze si trasferisce in questo modo dall’opera abusiva storica alla nuova disciplina del piano di recupero. In proposito si osserva che la possibilità di variare il sedime è implicita nella previsione dell’obbligo di piano di recupero, e costituisce del resto una facoltà normalmente ricompresa nella nozione di ristrutturazione edilizia pesante di cui all’art. 10, comma 1-c, del DPR 06.06.2001 n. 380 (v. TAR Brescia Sez. II 07.04.2011 n. 525);
(g) la prospettiva dell’utilizzo della superficie della tettoia a vantaggio di un nuovo edificio consente di completare la procedura di condono anche se nel frattempo il manufatto sia stato rimosso. Normalmente infatti l’esistenza materiale dell’opera abusiva è un presupposto per la condonabilità della stessa (v. TAR Brescia Sez. I 12.10.2009 n. 1741), ma se la demolizione era già stata in precedenza valutata e autorizzata in un provvedimento edilizio, o in un piano urbanistico almeno adottato, il diritto edificatorio corrispondente all’abuso si può considerare ormai scorporato dall’opera materiale e acquisito al patrimonio giuridico del proprietario del terreno, subordinatamente al rilascio del provvedimento formale di condono;
Relativamente al piano di recupero
(h) per quanto riguarda poi il problema delle distanze all’interno di un piano di recupero situato in zona A, parimenti non vige la regola della distanza minima di 10 metri dalle pareti finestrate, in analogia a quanto previsto per i piani particolareggiati relativi al centro storico.
I piani particolareggiati hanno infatti ampi margini di discrezionalità per disciplinare direttamente questi profili (v. TAR Brescia Sez. I 29.09.2009 n. 1712) ma possono anche rimettere le scelte di dettaglio ai singoli piani di recupero fissando solo alcune disposizioni generali, come è avvenuto nel caso in esame. L’unico limite per la zona A desumibile dall’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 è che non sia aggravata la situazione esistente, cosa che in concreto non sembra essersi verificata;
(i) circa gli aspetti propriamente qualitativi della progettazione, e in particolare sul disturbo che il nuovo edificio arreca a quello del ricorrente e sulla possibilità di individuare soluzioni di maggiore pregio urbanistico, si tratta di questioni che si collocano ai limiti della sindacabilità nel processo amministrativo.
La commissione edilizia nel parere del 03.04.2000 ha considerato soddisfacenti le controdeduzioni elaborate per conto dei controinteressati dall’ing. Angelo Laffranchini. Tale valutazione non presenta profili di irragionevolezza, e in definitiva non sembra che il Comune autorizzando l’intervento edilizio abbia favorito una parte procurando un danno ingiusto all’altra.
Le soluzioni urbanistiche alternative avrebbero infatti comportato sacrifici non necessari per la proprietà dei controinteressati, e la gronda del nuovo edificio non sembra idonea a provocare un oscuramento intollerabile del primo piano del ricorrente, mentre per quanto riguarda il piano terra, effettivamente oscurato, una concausa rilevante è il muro di confine posto a breve distanza;
(j) la superficie della tettoia trasferita nel nuovo intervento edilizio è pari a 93,35 mq, mentre la superficie indicata nella domanda di condono era pari a 87,50 mq e quella riportata sull’elaborato tecnico allegato alla suddetta domanda era pari a 85 mq. Le differenze sono certamente significative, ma non implicano che le misure del progetto siano sbagliate o non veritiere.
In realtà la misurazione effettuata ai fini del condono è diretta a stabilire se siano rispettati i limiti di legge entro cui la sanatoria è ammissibile e a individuare gli importi a carico del richiedente. Quando la superficie condonata deve essere traslata e riutilizzata valgono le normali regole della progettazione, ossia è richiesta una più accurata misurazione dell’opera mediante i punti fiduciali per armonizzarne i valori a quelli degli edifici confinanti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.04.2013 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2013

EDILIZIA PRIVATA: Le norme sulle distanze dai fabbricati hanno carattere pubblicistico e inderogabile, a differenza di quelle sulle distanze dai confini, che sono derogabili mediante convenzione tra privati.
A tale proposito, questo Tribunale, nella sentenza n. 327/2005 del 12.10.2005, confermata dalla Sezione VI del Consiglio di stato con la decisione n. 6475 del 18.12.2012, con riferimento alle distanze in materia di costruzioni, ha già esposto che “è ben noto al Collegio l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale le norme sulle distanze dai fabbricati hanno carattere pubblicistico e inderogabile, a differenza di quelle sulle distanze dai confini, che sono derogabili mediante convenzione tra privati (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.07.2002, n. 3929 e TAR Lazio, Sez. II, 11.10.2004, n. 10705) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 20.03.2013 n. 95 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini dell’applicabilità della disciplina in materia di “pareti finestrate” di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, nr. 1444, ed a tutti i regolamenti edilizi locali che a questo si richiamano, è indifferente che le aperture preesistenti rientrino nella nozione civilistica di “luci” o in quella di “vedute” (ciò in considerazione della ratio di dette regole, che va ricondotta a esigenze igienico-sanitarie e non di tutela di diritti di vicinato).
Ritenuto che detti approfondimenti, al contrario, si impongono ai fini della definizione del giudizio nel merito, tenuto conto anche della circostanza che la Sezione –contrariamente all’assunto di fondo espresso nella sentenza impugnata– reputa che, ai fini dell’applicabilità della disciplina in materia di “pareti finestrate” di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, nr. 1444, ed a tutti i regolamenti edilizi locali che a questo si richiamano, è indifferente che le aperture preesistenti rientrino nella nozione civilistica di “luci” o in quella di “vedute” (ciò in considerazione della ratio di dette regole, che va ricondotta a esigenze igienico-sanitarie e non di tutela di diritti di vicinato) (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 13.03.2013 n. 844 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2013

EDILIZIA PRIVATA: Allorché due terreni finitimi sono separati da una striscia intermedia, inedificata o per qualsiasi ragione inedificabile, e di larghezza inferiore al distacco dal confine prescritto per le costruzioni, ciascuno dei proprietari deve costruire sul proprio fondo ad una distanza, rispetto al confine con il terreno di proprietà aliena, che non sia inferiore alla metà della differenza che residua sottraendo dal distacco imposto dalla normativa edilizia la misura dello spazio occupato dalla striscia di terreno interposta.
 
A tale orientamento, che stabilisce, in sostanza, che nel computo della distanza minima imposta dalla legge o dal regolamento locale la larghezza della striscia di terreno interposta tra i due fondi debba essere "neutralizzata", cioè eliminata concettualmente, anche nel caso in cui la distanza sia imposta tra la costruzione ed il confine, occorre dare continuità, soffermata l'attenzione su due aspetti della problematica.
Quanto al primo,
è ben vero che "finitimo" è perfettamente sinonimico rispetto a "confinante" e che dunque a rigori un'area interposta tra due fondi rende questi ultimi non reciprocamente confinanti.
Tuttavia occorre osservare che allorquando l'area interposta e inedificabile abbia una larghezza inferiore a quella prescritta per il distacco tra costruzioni o tra costruzione e confine, e non si versi nell'ipotesi di cui all'art. 879, cpv. c.c., l'inapplicabilità della regola del distacco comporterebbe esattamente le medesime conseguenze negative che l'art. 873 c.c. e le disposizioni locali integrative sono dirette ad evitare.
Del tutto assenti indicazioni normative di segno diverso, tali, cioè, da rendere plausibile la volontà del legislatore di accettare un tale effetto pratico, s'impone mediante lo strumento dell'analogia o dell'interpretazione estensiva una soluzione che collochi la fattispecie entro l'ambito di applicazione delle regole dettate in materia di distanze.
Per di più, va considerato che la stessa nozione di distanza non definisce un dato meramente strutturale, ma disciplina la relazione dinamica fra contrapposte facoltà edificatorie, sicché anche il concetto di fondi confinanti o finitimi deve essere inteso in funzione dello scopo normativo ogni qual volta l'esercizio di tali facoltà incroci le esigenze d'ordine pubblico e privato tutelate congiuntamente dagli artt. 873 e ss. c.c.

La seconda considerazione è data dal fatto che
la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo attestata nel senso di ritenere che le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto la loro violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino.
Nel contesto edilizio, pertanto, le norme degli strumenti urbanistici che impongono l'osservanza di una determinata distanza della costruzione dal confine non esprimono una regola diversa rispetto a quella codicistica basata sulla distanza tra fabbricati, ma una differente tecnica di protezione interna alla medesima regola del distacco, che in tutte le sue applicazioni va declinata unitariamente.

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7. - I primi due motivi, da esaminare congiuntamente perché inerenti alla medesima quaestio iuris, sono infondati, anche se per ragioni che richiedono una parziale correzione ex art. 384, ult. comma c.p.c. della motivazione in diritto della sentenza impugnata (basata sul fatto che della particella di terreno intermedia i Ma. siano comproprietari).
7.1. - Questa Corte ha già avuto modo di osservare che allorché due terreni finitimi sono separati da una striscia intermedia, inedificata o per qualsiasi ragione inedificabile, e di larghezza inferiore al distacco dal confine prescritto per le costruzioni, ciascuno dei proprietari deve costruire sul proprio fondo ad una distanza, rispetto al confine con il terreno di proprietà aliena, che non sia inferiore alla metà della differenza che residua sottraendo dal distacco imposto dalla normativa edilizia la misura dello spazio occupato dalla striscia di terreno interposta (Cass. nn. 3506/1999 e 7129/1993; vedi anche Cass. n. 20606/2004, che però si limita a richiamare detto principio, applicato dal giudice di merito; una soluzione sostanzialmente analoga era stata accolta da Cass. n. 3480/1978, che tuttavia, a differenza dell'indirizzo in esame, non aveva escluso l'applicabilità sia pur parziale del principio della prevenzione).
7.2. - A tale orientamento, che stabilisce, in sostanza, che nel computo della distanza minima imposta dalla legge o dal regolamento locale la larghezza della striscia di terreno interposta tra i due fondi debba essere "neutralizzata" (così, in motivazione, la n. 3506/1999 cit.), cioè eliminata concettualmente, anche nel caso in cui la distanza sia imposta tra la costruzione ed il confine, occorre dare continuità, soffermata l'attenzione su due aspetti della problematica.
7.2.1. - Quanto al primo, è ben vero che "finitimo" è perfettamente sinonimico rispetto a "confinante" e che dunque a rigori un'area interposta tra due fondi rende questi ultimi non reciprocamente confinanti.
Tuttavia occorre osservare che allorquando l'area interposta e inedificabile abbia una larghezza inferiore a quella prescritta per il distacco tra costruzioni o tra costruzione e confine, e non si versi nell'ipotesi di cui all'art. 879, cpv. c.c., l'inapplicabilità della regola del distacco comporterebbe esattamente le medesime conseguenze negative che l'art. 873 c.c. e le disposizioni locali integrative sono dirette ad evitare.
Del tutto assenti indicazioni normative di segno diverso, tali, cioè, da rendere plausibile la volontà del legislatore di accettare un tale effetto pratico, s'impone mediante lo strumento dell'analogia o dell'interpretazione estensiva una soluzione che collochi la fattispecie entro l'ambito di applicazione delle regole dettate in materia di distanze.
Per di più, va considerato che la stessa nozione di distanza non definisce un dato meramente strutturale, ma disciplina la relazione dinamica fra contrapposte facoltà edificatorie, sicché anche il concetto di fondi confinanti o finitimi deve essere inteso in funzione dello scopo normativo ogni qual volta l'esercizio di tali facoltà incroci le esigenze d'ordine pubblico e privato tutelate congiuntamente dagli artt. 873 e ss. c.c.
7.2.2. - La seconda considerazione, che dà conto della preferenza dell'indirizzo predetto rispetto a quello di Cass. n. 7525/2002 invocato dal ricorrente, è data dal fatto che la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo attestata nel senso di ritenere che le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto la loro violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino (Cass. nn. 7384/2001, 6209/1996 e 12918/1991).
Nel contesto edilizio, pertanto, le norme degli strumenti urbanistici che impongono l'osservanza di una determinata distanza della costruzione dal confine non esprimono una regola diversa rispetto a quella codicistica basata sulla distanza tra fabbricati, ma una differente tecnica di protezione interna alla medesima regola del distacco, che in tutte le sue applicazioni va declinata unitariamente.
7.3. - Pertanto, ricondotta la fattispecie sotto gli artt. 873 e ss. c.c. così come integrati dall'intera disciplina degli strumenti urbanistici locali in tema di distanze, viene meno anche il rilievo della giusta obiezione mossa a Cass. n. 7525/2002, ossia di non dare contezza del fondamento normativo del reciproco diritto dei proprietari dei fondi confinanti di pretendere il rispetto di una distanza maggiore di quella legale e calcolata non dal confine comune, ma da quello col fondo intermedio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 18.02.2013 n. 3968).

EDILIZIA PRIVATA: Esiste il principio giurisprudenziale secondo cui, posto che nella disciplina legale dei rapporti di vicinato l'obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo relativamente alle vedute e non anche dalle luci, la dizione pareti finestrate contenuta in un regolamento edilizio che, ispirandosi all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, prescrive nelle sopraelevazioni il rispetto della distanza di 10 metri dalle pareti finestrate di edifici prospicienti, si riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
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Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.
Infatti, nella suddetta materia deve ritenersi che in tema di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 -che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- comporterebbe l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale.
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, oltre alla considerazione che nella specie la disciplina è stata integrata dal regolamento comunale in senso ancora più rispettoso e rigoroso.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.

Va ora esaminato quanto sostenuto dalla società appellante incidentale, che sottolinea come il Vannucchi, nell’appello, abbia ammesso che la violazione della distanza si ponga in relazione a parete finestrata, dove tuttavia non gode di veduta ma di luce. Al riguardo invoca il principio secondo cui il rispetto delle distanze può essere invocato per le vedute e non per le luci.
Il Collegio osserva che, in realtà, esiste il principio giurisprudenziale (Cassazione civile sez. II, 30.04.2012, n. 6604) secondo cui, posto che nella disciplina legale dei rapporti di vicinato l'obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo relativamente alle vedute e non anche dalle luci, la dizione pareti finestrate contenuta in un regolamento edilizio che, ispirandosi all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, prescrive nelle sopraelevazioni il rispetto della distanza di 10 metri dalle pareti finestrate di edifici prospicienti, si riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
Nella specie, tuttavia, il regolamento edilizio comunale, all’art. 5.11, rubricato “Distanze fra edifici”, rinvia sì al D.M. 1968/1444, ma stabilisce che “per i nuovi edifici è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m.10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti anche non finestrate”. Conseguentemente, in assenza di impugnazione o contestazione di tale clausola del regolamento edilizio comunale, la eventuale mancanza di veduta nella parete finestrata di Vannucchi non rileva ai fini di annientare la pretesa al rispetto delle distanze, che vanno quindi in ogni caso rispettate.
In ordine alla valenza direttamente precettiva tra privati del decreto ministeriale sulle distanze (questione oggetto degli appelli incidentali) questo Consesso (Consiglio di Stato sez. IV, 27.04.2011, n. 5759) e alla eventuale disapplicazione di strumenti urbanistici con esso contrastanti nel senso della minore tutela, ha già avuto modo di osservare che le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile (per tali principi consolidati, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2007, n. 3094).
Infatti, nella suddetta materia deve ritenersi che in tema di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 -che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- comporterebbe l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale (così Cassazione civile, II, 27.03.2001, n. 4413 su richiamata; così anche Consiglio di Stato, IV, 12.06.2007, n. 3094).
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, oltre alla considerazione che nella specie la disciplina è stata integrata dal regolamento comunale in senso ancora più rispettoso e rigoroso.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
D’altra parte, come visto, nella specie non solo la norma comunale ha tenuto conto della disposizione ministeriale esistente, ma l’ha appunto integrata in senso ancora più rigoroso
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2013 n. 844 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADISCIPLINA URBANISTICA E DEROGABILITA' DELLE NORME IN TEMA DI DISTANZE.
Le disposizioni in tema di distanze debbono considerarsi non derogabili dalla disciplina urbanistica, sicché il permesso di costruire rilasciato senza che siano stati rispettati tali limiti comporta la illegittimità dell’atto amministrativo; ne consegue che l’ente competente può procedere in via di autotutela qualora ravvisi l’esistenza di detta illegittimità.
La Corte Suprema si sofferma con la sentenza in esame su un tema che si pone nella sottile linea di confine tra la disciplina amministrativa e quella penale, riguardante segnatamente l’esercizio del potere di autotutela dell’amministrazione in presenza di atto amministrativo illegittimo.
La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario e direttore dei lavori nonché l’esecutore degli stessi, ritenuti responsabili del reato previsto dall’art. 44, lett. b), del D.P.R. n. 547/1955; in particolare agli imputati era stato addebitato di avere proseguito, nonostante l’ordine di sospensione dei lavori di ristrutturazione ed elevazione, la realizzazione di un solaio di circa mq. 140 situato al terzo livello di un immobile urbano. In sede di merito, gli imputati erano stati condannati, nonostante le censure sollevate in appello, ed incentrate essenzialmente sulla illegittimità dell’ordine di sospensione dei lavori, a fronte di un previo rilascio di permesso di costruire, e dunque di lavori legittimamente avviati.
Secondo i giudici di appello l’ordine di sospensione era legittimo, e anzi doveroso, in quanto rispettoso del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (art. 9) in tema di distanze tra edifici, che il permesso di costruire non aveva invece preso in considerazione così autorizzando opere non conformi alla disciplina primaria. Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per Cassazione gli imputati, sostenendo -per quanto di interesse con riferimento allo specifico profilo- che la Corte di appello avrebbe omesso di considerare che il permesso di costruire non era stato revocato e che l’ordinanza di sospensione dei lavori è illegittima se non preceduta da un provvedimento che in sede di autotutela intervenga sull’atto autorizzatorio: posto che il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 è disposizione che ha come destinatari i soli enti territoriali e non i privati, non può sostenersi per la difesa che il permesso di costruire fosse illegittimo.
La testi ha convinto i giudici della Suprema Corte che hanno, sul punto, annullato con rinvio la decisione. In particolare, ha osservato la Cassazione, le disposizioni in tema di distanze debbono considerarsi non derogabili dalla disciplina urbanistica e il permesso di costruire rilasciato senza che siano stati rispettati tali limiti comporta la illegittimità dell’atto amministrativo (v. Cass. pen., sez. III, 16.03.2012, n. 10431, in Ced. Cass., n. 252247): ciò comporta, per la Corte, la conseguenza di ordine generale che l’ente competente può procedere in via di autotutela qualora ravvisi l’esistenza di detta illegittimità.
Venendo al contenuto della decisione impugnata, la Corte rileva che la sentenza d’appello è caduta in errore quando omette di rilevare che il provvedimento amministrativo opera un rinvio alla natura sismica del suolo. Tale rinvio potrebbe risultare coerente, secondo la Cassazione, qualora l’ordine di sospensione fosse stato emanato in ragione della tutela sismica; al contrario, il provvedimento che dispone la sospensione dei lavori venne emesso per motivi attinenti il rispetto delle distanze legali tra edifici, e non può certamente essere invocata la natura sismica del suolo come motivazione che ne prolunga gli effetti oltre il termine fissato dalla legge. Da qui, dunque, la necessità dell’annullamento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2013 n. 5487 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

gennaio 2013

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, DISTANZE TRA FABBRICATI (commento a caldo della sentenza 23.01.2013 n. 6/2013 della Corte costituzionale) (25.01.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALa Consulta sui poteri delle regioni. Distanze edifici? Solo se servono.
Le regioni possono introdurre deroghe alle distanze tra edifici solo per «interessi pubblici di territorio». La disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra infatti nella materia dell'ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale. Alle regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.
Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l'operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio». Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Questo è quanto contenuto nella sentenza 23.01.2013 n. 6 della Corte Costituzionale.
Il fatto in sintesi: l'articolo 1, 2° comma, della legge della regione Marche 04/09/1979 n. 31 prevede che i comuni possono individuare gli edifici da ampliare nelle zone di completamento con destinazione residenziale. Procedura che ha l'efficacia di piano particolareggiato.
Sulla base di questa disposizione normativa, un cittadino aveva effettuato un ampliamento, ma il suo vicino ne aveva chiesto la demolizione. La Corte costituzionale ha precisato che la deroga alle distanze è consentita solo per interessi pubblici legati al governo del territorio. Ed ha affermato che le regioni possono introdurre delle deroghe in considerazione degli interessi e delle specificità territoriali.
Pertanto la disposizione della regione Marche è stata considerata illegittima in quanto non rispetta i limiti entro i quali la deroga è ammessa (articolo ItaliaOggi del 09.04.2013).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 1, secondo comma, della legge regionale Marche n. 31 del 1979 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, in quanto eccede la competenza regionale concorrente del «governo del territorio», violando il limite dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Invero, la norma de qua consente (ndr: consentiva) espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, il quale esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio. La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate.

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La regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato. Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice civile.
La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda –ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo –il governo del territorio– che ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio».
Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato». Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.

Come ricorda correttamente l’ordinanza di rimessione, questa Corte ha già affermato che la regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 114 del 2012, n. 173 del 2011, n. 232 del 2005). Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice civile.
La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda –ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo –il governo del territorio– che ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005).
Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005). Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
La norma regionale censurata infrange i principi sopra ricordati, in quanto consente espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio. La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate.
La procedura delineata dal legislatore regionale non è dunque conforme ai principi sopra enunciati, né il vizio può ritenersi insussistente in ragione dell’art. 2, quarto comma, della legge regionale impugnata, che intende conferire a tale procedura «efficacia di piano particolareggiato», ex lege. Anzi, attraverso tale autoqualificazione, il legislatore regionale pretende di attribuire gli effetti tipici degli strumenti urbanistici a un procedimento che non ne rispecchia la sostanza e le finalità. L’attribuzione, per via legislativa, della qualifica formale di piano particolareggiato ad una procedura che del piano urbanistico non ha le caratteristiche, perché permette di derogare caso per caso alle regole sulle distanze tra edifici, non offre alcuna garanzia che la legge regionale persegua quelle finalità pubbliche di governo del territorio che, sole, possono giustificare l’esercizio di una competenza legislativa regionale in un ambito strettamente connesso alla competenza statale in materia di «ordinamento civile».
Pertanto, l’art. 1, secondo comma, della legge regionale Marche n. 31 del 1979 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, in quanto eccede la competenza regionale concorrente del «governo del territorio», violando il limite dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (Corte Costituzionale, sentenza 23.01.2013 n. 6).

EDILIZIA PRIVATA: E’ illegittimo il permesso di costruire che non rispetti le distanze minime tra gli edifici previste dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444.
In tema di distanze tra edifici la disposizione di cui all'art. 9, comma 1 n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
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In tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato.
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Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
Ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera, comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale “costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio)”.
Analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere (nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione)”.
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In ordine alla illegittimità di una costruzione inferiore alla distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444, in ordine alla cogenza ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine alla doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la stessa venga violata, la giurisprudenza è assolutamente concorde. Si è detto in proposito, infatti, che “laddove si afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva”.
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di legittimità penale ha affermato di recente che “è illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze tra costruzioni, il D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla legge 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa violazione della disciplina in tema di distanze legali da parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p.".
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile”.
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di conseguenza applicativa del principio, il condivisibile principio per cui “in tema di distanze tra costruzioni, applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale”.

La facoltà di costruire sul confine (peraltro neppure ricorrente nel caso di specie, come si è dimostrato dianzi) non comporta certo che si possa omettere di rispettare la successiva disposizione delle n.t.a. laddove la distanza tra edifici, per effetto della costruzione sul confine, venga ad essere inferiore al minimo inderogabile stabilito ex lege.
Tale conseguenza pretesa da parte appellante non si evince dalla combinata lettura delle due prescrizioni; e, laddove ciò si riscontrasse effettivamente (ma così non è), il dato interpretativo non potrebbe che importare la disapplicazione della disposizione, siccome collidente con la disciplina nazionale inderogabile (ex multis: “in tema di distanze tra edifici la disposizione di cui all'art. 9, comma 1 n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione” -TAR Puglia Lecce Sez. III, 28.09.2012, n. 1624-).
Anche la lettura “combinata” delle due disposizioni comunali suggerita da parte appellante deve essere pertanto disattesa.
In ultimo, rammenta il Collegio che, per condivisa giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato. Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso. Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato” (Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539).
In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera” (Cassazione civile, sez. II, 17.06.2011, n. 13389).
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto condivisibilmente, ad avviso del Collegio, ha poi fatto presente che ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera, comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale “costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio)” (Cassazione civile, sez. II, 24.05.1997, n. 4639).
Per completezza si evidenzia che analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione)” (Cassazione civile , sez. II, 21.10.1980, n. 5652).
Già alla stregua della sistematica esposizione che precede, appare evidente che appare destituito di fondamento il primo caposaldo dell’impianto dell’appello volto a contestare la sussumibilità nella nozione di “costruzione” rilevante in punto di omesso rispetto delle distanze legali dell’immobile per cui è causa.
E’ appena il caso di rammentare, conclusivamente, che in ordine alla illegittimità di una costruzione inferiore alla distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444, in ordine alla cogenza ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine alla doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la stessa venga violata, la giurisprudenza è assolutamente concorde. Si è detto in proposito, infatti, che “laddove si afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva” (Cons. Stato Sez. IV, 09.10.2012, n. 5253).
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di legittimità penale ha affermato di recente che “è illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze tra costruzioni, il D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla legge 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa violazione della disciplina in tema di distanze legali da parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p." (Cass. pen. Sez. III, 12.01.2012, n. 10431 -rv. 252247-).
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile” (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759).
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di conseguenza applicativa del principio, il condivisibile principio per cui “in tema di distanze tra costruzioni, applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale” (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.01.2013 n. 354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444 detta una prescrizione tassativa e inderogabile, in quanto finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata.
La norma -emanata in forza dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765– è dettata in materia inerente all'ordinamento civile, rientrante, come tale, nella competenza legislativa esclusiva dello Stato: essa non può, pertanto, trovare un limite nella classificazione -differente rispetto a quella prevista dall’art. 2 del d.m. n. 1444/1968- delle zone omogenee in cui è articolato il territorio comunale delineata all’art. 10, l.reg. Lombardia n. 12/2005, pena l’incostituzionalità della legge regionale stessa.
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L’art. 103, c. 1-bis, l.reg. Lombardia n. 12/2005, inserito dalla l.reg. Lombardia n. 4/2008, dispone che “Ai fini dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all'interno di piani attuativi”.
Questa norma deve essere interpretata conformemente a quanto sostenuto dalla giurisprudenza, nel senso che rientrano nella nozione di nuova costruzione ai fini del computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche interventi, quali quelli di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente.

L’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444 prescrive che la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non sia inferiore a dieci metri per le nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo ultimo -dove vige il generale divieto di costruzioni "ex novo"- la norma si limita a disporre che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti.
Per giurisprudenza unanime, la norma detta una prescrizione tassativa e inderogabile, in quanto finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata (Cassazione civile sez. II, 27.05.2011, n. 11842).
La norma -emanata in forza dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765– è dettata in materia inerente all'ordinamento civile, rientrante, come tale, nella competenza legislativa esclusiva dello Stato: essa non può, pertanto, trovare un limite nella classificazione -differente rispetto a quella prevista dall’art. 2 del d.m. n. 1444/1968- delle zone omogenee in cui è articolato il territorio comunale delineata all’art. 10, l.reg. Lombardia n. 12/2005, pena l’incostituzionalità della legge regionale stessa.
Nel caso di specie, l’immobile non ricade nel centro storico né all’interno del nucleo urbano di antica formazione (aree in cui la facoltà di ampliamento in questione non è neppure consentita dall’art. 3, c. 1, l.reg. Lombardia n. 13/2009), zone che possono ritenersi corrispondenti alla zona A di cui al d.m. n. 1444/1968: esso soggiace, pertanto alla norma sulle distanze dettata all’art. 9, c. 1, n. 2.
Né, per escludere l’applicabilità della norma del d.m. 1444/1968 al caso di specie, può validamente invocarsi la previsione di cui all’art. 103, l.reg. Lombardia n. 12/2005 e la qualificazione dell’intervento quale ristrutturazione e non quale nuova costruzione.
L’art. 103, c. 1-bis, l.reg. Lombardia n. 12/2005, inserito dalla l.reg. Lombardia n. 4/2008, dispone che “Ai fini dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all'interno di piani attuativi”.
Questa norma deve essere interpretata conformemente a quanto sostenuto dalla giurisprudenza, nel senso che rientrano nella nozione di nuova costruzione ai fini del computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche interventi, quali quelli di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente (cfr.: cass. civ., sez. 2, sent. 27.04.2006, n. 9637; cass. civ., sez. 2, sent. 26.10.2000, n. 14128; TAR Milano Lombardia sez. II, 10.12.2010, n. 7505).
L’intervento edilizio in questione, che prevede l’ampliamento, entro il limite del 20% della volumetria esistente, così come consentito dall’art. 3, c. 1 e 2, l.reg. Lombardia n. 13/2009, a prescindere dalla sua qualificazione quale nuova costruzione o quale ristrutturazione edilizia, porta indubbiamente alla realizzazione di un’opera oggettivamente diversa da quella preesistente: esso soggiace, pertanto, al limite di distanza previsto all’art. 9, c. 1, n. 2, d.m. n. 1444/1968.
Attesa la legittimità del motivo di diniego legato al contrasto con l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, gli ulteriori motivi di ricorso –che si appuntano avverso le altre ragioni di diniego addotte dall’amministrazione- anche ove fondati, non porterebbero comunque all’annullamento dell’atto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.01.2013 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2012

EDILIZIA PRIVATAL’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in questione non può essere derogato neppure nelle ipotesi in cui fra due edifici preesistenti esista già un’intercapedine limitata in altezza (nella fattispecie, si tratta dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto, laddove il nuovo edificio superi in altezza –e in modo notevole– la preesistente cui aderisce, l’effetto è di determinare una nuova e diversa intercapedine, riferita allo sviluppo verticale dei due edifici e non soltanto al piano terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione si determina.

Al riguardo giova premettere che non è contestato in atti che fra la parete sul lato nord dell’edificio realizzato dall’appellante e l’edificio frontista del vicino esistesse una distanza inferiore ai 10 metri, così come non è contestato che, nell’area in cui ricade l’intervento, trovi applicazione la previsione di cui all’art. 15, pt. 1), lett. c), del P.R.G., il quale (in sostanziale continuità con la generale previsione di cui all’articolo 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444) stabilisce che fra i fabbricati non può in alcun caso esistere una distanza inferiore a 10 metri.
Ebbene, questo essendo lo stato di fatto e di diritto sotteso alla vicenda di causa, il Collegio ritiene che la questione debba essere risolta facendo applicazione del consolidato orientamento secondo cui l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (in tal senso: Cons. Stato, IV, 02.11.2010, n. 7731; id., IV, 05.12.2005, n. 6909).
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in questione non possa essere derogato neppure nelle ipotesi in cui (come nel caso di specie) fra due edifici preesistenti esista già un’intercapedine limitata in altezza (si tratta dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto, laddove (come nel caso in parola) il nuovo edificio superi in altezza –e in modo notevole– la preesistente cui aderisce, l’effetto è di determinare una nuova e diversa intercapedine, riferita allo sviluppo verticale dei due edifici e non soltanto al piano terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione si determina
(Cons. Stato Sez. VI, sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra fabbricati e intercapedine preesistente.
La preesistenza di un’intercapedine di circa 3,5 mt. fra il manufatto cui è stato edificato in aderenza e il diverso immobile ad uso abitativo appartenente ad altra persona non esclude l’applicabilità delle disposizioni in materia di distanze. Infatti, l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, dispone la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.

Al riguardo giova premettere che non è contestato in atti che fra la parete sul lato nord dell’edificio realizzato dall’appellante e l’edificio frontista del vicino esistesse una distanza inferiore ai 10 metri, così come non è contestato che, nell’area in cui ricade l’intervento, trovi applicazione la previsione di cui all’art. 15, pt. 1), lett. c), del P.R.G., il quale (in sostanziale continuità con la generale previsione di cui all’articolo 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444) stabilisce che fra i fabbricati non può in alcun caso esistere una distanza inferiore a 10 metri.
Ebbene, questo essendo lo stato di fatto e di diritto sotteso alla vicenda di causa, il Collegio ritiene che la questione debba essere risolta facendo applicazione del consolidato orientamento secondo cui l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (in tal senso: Cons. Stato, IV, 02.11.2010, n. 7731; id., IV, 05.12.2005, n. 6909).
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in questione non possa essere derogato neppure nelle ipotesi in cui (come nel caso di specie) fra due edifici preesistenti esista già un’intercapedine limitata in altezza (si tratta dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto, laddove (come nel caso in parola) il nuovo edificio superi in altezza –e in modo notevole– la preesistente cui aderisce, l’effetto è di determinare una nuova e diversa intercapedine, riferita allo sviluppo verticale dei due edifici e non soltanto al piano terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione si determina (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’impianto di ascensore –al pari di quelli serventi alle condotte idriche, termiche etc. dell’edificio principale– rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell’immobile.
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Circa la costruzione di un vano ascensore esterno al corpo di fabbrica, non può il Comune denegare il rilascio del permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 873 cod. civ., applicandosi in ogni caso l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001.

Innanzi tutto, il Collegio reputa fondato il primo motivo di appello nella parte in cui si sostiene l’estraneità dell’ascensore oggetto della richiesta di permesso di costruire alla nozione di “costruzione” di cui all’art. 873 cod. civ., e quindi l’inapplicabilità ad esso delle disposizioni in tema di distanze dallo stesso poste.
Ed invero, alla stregua della giurisprudenza più recente l’impianto di ascensore –al pari di quelli serventi alle condotte idriche, termiche etc. dell’edificio principale– rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell’immobile (cfr. Cass. civ., sez. II, 03.02.2011, nr. 2566).
Ma, anche al di là di quanto sopra, appare condivisibile l’impostazione sviluppata nel secondo mezzo, secondo cui, nell’interpretazione dell’eccezione alla regola del rispetto delle distanze posta dall’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può prescindersi dal tener conto dell’inserimento della norma –come già rilevato- all’interno della disciplina volta all’eliminazione delle barriere architettoniche nell’interesse dei soggetti portatori di handicap.
Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto bilanciamento di interessi, come quello cui ha proceduto il primo giudice (e al quale gli odierni appellanti, soprattutto col terzo mezzo, contrappongono un opposto bilanciamento), quanto soprattutto nell’accezione da dare a locuzioni ed espressioni tecniche impiegate dal legislatore, quali quella di “spazio o area di proprietà o di uso comune”, le quali non possono essere recepite in un’ottica strettamente civilistica, ma vanno calate nell’ambito della normativa tecnica esistente in subiecta materia.
Sotto tale profilo, soccorre il d.m. 14.06.1989, nr. 236, contenente la normativa regolamentare a suo tempo adottata in attuazione della legge 09.01.1989, nr. 13, e che ancora oggi costituisce il riferimento dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001 (nel quale la predetta legge è confluita).
L’art. 2 del citato decreto contiene una serie di definizioni tecniche utili all’applicazione della normativa de qua e, in particolare, qualifica come “spazio esterno (...) l’insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più edifici” (lett. F) e come “parti comuni dell’edificio (...) quelle unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente più unità immobiliari” (lett. E).
Applicando tali coordinate interpretative all’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, risulta chiaro come il legislatore, nel far riferimento a spazi o aree “di proprietà o di uso comune”, ha inteso richiamare non soltanto il dato giuridico dell’esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche il semplice dato materiale dell’esistenza di uno spazio comunque denominato, che per le sue caratteristiche si presti a essere impiegato dai residenti di entrambi gli immobili confinanti; ed è appena il caso di aggiungere che la definizione della lettera E non presuppone affatto che le “unità immobiliari” cui essa fa riferimento debbano necessariamente essere parte di un medesimo edificio (ché, anzi, dal combinato disposto di detta definizione con quella di cui alla successiva lettera F si ricava che uno spazio esterno comune può certamente interessare anche “più edifici”).
Con riguardo al caso di specie, se è vero che il cortile esistente fra i due immobili e nel quale dovrebbe insistere l’ascensore per cui è causa non risulta essere in comproprietà fra i due condomini, non risulta però contraddetto l’assunto degli appellanti secondo cui esso risulta de facto utilizzato materialmente e per la sua interezza dai residenti di entrambi gli immobili; per vero, il TAR si è limitato a rilevare l’esistenza di un confine catastale che dividerebbe a metà il cortile medesimo, senza però che questo risulti tagliato da muro o recinzioni (unico elemento che sarebbe idoneo a escluderne l’ “uso comune” nel senso sopra precisato).
Ne discende che non poteva il Comune denegare il rilascio del permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 873 cod. cov., applicandosi in ogni caso l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.12.2012 n. 6253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per “pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce), bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Deve tuttavia rilevarsi che, per il vaglio di fondatezza del ricorso incidentale, basta fermarsi al dirimente accertamento storico di una porta che (indipendentemente se ora sostituita o da sostituire con una nuova finestra) preesisteva sulla parete dei controinteressati allorquando il ricorrente principale è stato (illegittimamente) autorizzato a realizzare opere edilizie, in violazione delle distanze legali.
Come correttamente evidenziato dal patrono incidentale, infatti, per “pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce), bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento (cfr. Tar Lombardia -MI- n. 1419/2011, Tar Piemonte 2565/2008, TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734).
Pertanto, la circostanza accertata in giudizio di una edificazione ad eccessivo ridosso della confinante parete finestrata (nel caso di specie, porta del sottotetto) ha a suo tempo postulato la violazione della normativa inderogabile sulle distanze di cui al DM 1444/1968, con conseguente illegittimità del permesso di costruire rilasciato in sanatoria alla ricorrente principale (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 20.11.2012 n. 788 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 fissa i limiti "inderogabili" di distanza fra i fabbricati e prevede all'art. 9 che tra i fabbricati debba essere rispettata "in tutti i casi" la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Lo stesso decreto, peraltro, ammette distanze inferiori, solo relativamente alle ipotesi di ristrutturazione in zone A e "nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche".
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è quella non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie: trattasi cioè di norma volta a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario. Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni d’igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
Tale previsione è dunque, tassativa e inderogabile e può essere derogata solo relativamente alle zone A e nel caso di “strumenti attuativi con previsioni plano volumetriche"; si tratta proprio del caso in esame, ricadendo l’immobile in zona A interessata da un piano particolareggiato con previsioni plano-volumetriche.
Al contrario, solo per gli edifici ricadenti in zona territoriale diversa dalla A la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prescritta ai sensi dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, modificato dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, e dell'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce una prescrizione di carattere cogente e generale e comporta altresì l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, nel caso di strumenti urbanistici contrastanti, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato art. 9, che, per inserzione automatica, diviene parte integrante dello strumento urbanistico, anche in sostituzione della eventuale norma illegittima a disapplicata.

Va poi ricordato che il decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444, invocato da parte ricorrente, fissa i limiti "inderogabili" di distanza fra i fabbricati e prevede all'art. 9 che tra i fabbricati debba essere rispettata "in tutti i casi" la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Lo stesso decreto, peraltro, ammette distanze inferiori, solo relativamente alle ipotesi di ristrutturazione in zone A e "nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche".
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è quella non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie: trattasi cioè di norma volta a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario. Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni d’igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (Cons. St., sez. IV, 12.06.2007, n. 3094, e 05.12.2005, n. 6909).
Tale previsione è dunque, tassativa e inderogabile e può essere derogata solo relativamente alle zone A e nel caso di “strumenti attuativi con previsioni plano volumetriche"; si tratta proprio del caso in esame, ricadendo l’immobile in zona A interessata da un piano particolareggiato con previsioni plano-volumetriche.
Al contrario, solo per gli edifici ricadenti in zona territoriale diversa dalla A la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prescritta ai sensi dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, modificato dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, e dell'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce una prescrizione di carattere cogente e generale e comporta altresì l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, nel caso di strumenti urbanistici contrastanti, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato art. 9, che, per inserzione automatica, diviene parte integrante dello strumento urbanistico, anche in sostituzione della eventuale norma illegittima a disapplicata (Cass. Civ. sez. II 07.01.2010 n. 56) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 15.11.2012 n. 411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di un porticato chiuso (come nel caso di specie) lateralmente su due lati (cfr. allegazioni fotografiche prodotte dal ricorrente in atti del giudizio) va a costituire una nuova superficie utile, essendo il porticato destinato ad ospitare arredi fissi e, quindi, a consentire di svolgervi in ipotesi varie attività della vita quotidiana. Se ciò e vero e non si è dunque in presenza di mera pertinenza, allora la costruzione del porticato (terrazzato) deve necessariamente rispettare le distanze previste dalle disposizioni attuative del piano regolatore generale.
E regola generale è che la distanza tra costruzioni su fondi finitimi va calcolata tenendo conto di qualsiasi elemento che sporga da una di esse, addirittura non assumendo rilevanza, ai fini dell'interesse tutelato dalla norma (nel suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della salubrità e dell'igiene), che lo sporto sia inadatto all'incremento volumetrico o superficiario della costruzione o che aggetti solo per una parte della facciata.

Quanto al “merito” della questione, occorre cominciare con il rilevare che il porticato per cui è causa deve essere considerato organismo edilizio avente natura e consistenza tali da ampliare in superficie o volume l'edificio stesso (si pensi alla sovrastante terrazza). Esso necessita dunque di permesso di costruire ed in tal senso si è mosso invero lo stesso ricorrente. Infatti, la realizzazione di un porticato chiuso (come nel caso di specie) lateralmente su due lati (cfr. allegazioni fotografiche prodotte dal ricorrente in atti del giudizio) va a costituire una nuova superficie utile, essendo il porticato destinato ad ospitare arredi fissi e, quindi, a consentire di svolgervi in ipotesi varie attività della vita quotidiana (cfr. TAR Napoli, VII Sezione, 14.01.2011 n. 176). Se ciò e vero e non si è dunque in presenza di mera pertinenza, allora la costruzione del porticato (terrazzato) deve necessariamente rispettare le distanze previste dalle disposizioni attuative del piano regolatore generale (cfr. TAR Piemonte, 15.12.2004 n. 3585).
E regola generale è che la distanza tra costruzioni su fondi finitimi va calcolata tenendo conto di qualsiasi elemento che sporga da una di esse, addirittura non assumendo rilevanza, ai fini dell'interesse tutelato dalla norma (nel suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della salubrità e dell'igiene), che lo sporto sia inadatto all'incremento volumetrico o superficiario della costruzione o che aggetti solo per una parte della facciata.
I 10 metri di distanza tra fabbricati, prescritti dal regolamento edilizio del Comune di Mileto, non vi sono tra il fabbricato di altra ditta, che fronteggia quello di proprietà del ricorrente, ed il porticato realizzando ma, sia pure di misura, vi sono tra il detto fabbricato e la parte interna del porticato (e cioè l’attuale muro esterno dell’edificio di proprietà del ricorrente che sarebbe stato interessato dalla richiesta realizzazione).
E tuttavia la distanza deve avere riguardo non già a detta parte interna (del porticato ovvero esterna del fabbricato per come è allo stato) ma alla linea del porticato, peraltro terrazzato e che costituisce dunque pacificamente affaccio e veduta verso altro fabbricato. Non sussiste, del pari e per le medesime ragioni, la prescritta distanza minima dal ciglio stradale, risultando peraltro ininfluente ai fini di che trattasi la circostanza per cui si tratterebbe, allo stato, di strada privata (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 10.11.2012 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe si sia, nel caso di specie, in presenza di una nuova attività di allevamento, soggetta all’obbligo del rispetto delle distanze minime imposto dal regolamento di igiene, ovvero all’adeguamento, previo rilascio di una nuova autorizzazione, di un’attività già esistente, legittimata a continuare il suo esercizio anche in deroga all’obbligo delle distanze minime.
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Ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato. Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve, pertanto, essere considerato al fine della verifica del rispetto della distanza minima.
Peraltro deve tenersi in debito conto il concetto generale in materia edilizia, in ragione del quale, per la sua natura e consistenza costituisce "nuova costruzione" ex art. 3, lettera e5), d.p.r. n. 380/2001 che esclude dall'ambito applicativo della norma i soli manufatti che, indipendentemente dalla loro amovibilità, "non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee".

Al fine della definizione della controversia in esame, attinente al lamentato mancato rispetto delle distanze minime intercorrenti tra l’abitazione del ricorrente e l’allevamento controinteressato, deve, in primo luogo, risolversi la querelle se si sia, nel caso di specie, in presenza di una nuova attività di allevamento, soggetta all’obbligo del rispetto delle distanze minime imposto dal regolamento di igiene, ovvero all’adeguamento, previo rilascio di una nuova autorizzazione, di un’attività già esistente, legittimata a continuare il suo esercizio anche in deroga all’obbligo delle distanze minime.
A tal fine viene in soccorso il regolamento di igiene comunale. Esso ammette gli ampliamenti di allevamenti esistenti e dismessi da meno di tre anni, purché nel rispetto delle distanze preesistenti. Se, dunque, la deroga all’obbligo delle distanze minime è ammessa nel caso di ampliamenti di stabilimenti già esistenti, purché entro il termine massimo di tre anni dalla loro chiusura e a condizione che non intervengano variazioni nelle distanze già esistenti, deve presumersi che la stessa possa, a maggior ragione, trovare applicazione anche nel caso in cui lo stabilimento non sia stato ampliato, ma solo adeguato alla sopravvenuta normativa attraverso un complesso iter che ha conosciuto una molteplice serie di solleciti e proroghe di termini e la successiva declaratoria di decadenza dall’originaria autorizzazione, cui ha fatto seguito, però, il rilascio di una nuova autorizzazione al suo esercizio.
Invero, nel caso di specie, appare ragionevole ritenere che un ampliamento vi sia in concreto stato, dal momento che sono stati realizzati ex novo quattro box esterni in sostituzione di quelli preesistenti e il cui utilizzo era stato negato dall’autorizzazione del 2001. Peraltro, a prescindere dal fatto che vi sia stato, o meno, nel caso di specie, un ampliamento (accertamento di per sé irrilevante, dal momento che la norma comunque lo ammetterebbe) ciò che appare determinante è che dal regolamento richiamato si deve desumere che, per quanto di rilievo, un’autorizzazione non può essere considerata “nuova” se non dopo almeno tre anni dalla dismissione del precedente allevamento.
In altre parole, il fatto che l’edificio fosse già adibito ad allevamento è sufficiente a rendere possibile la ripresa dell’attività, nel rispetto delle distanza preesistenti ed entro il termine massimo di tre anni dalla dismissione, a prescindere dal fatto che l’esercizio dell’attività sia stato continuativamente autorizzato o, al contrario, interrotto.
Nel caso di specie risulta rispettata la prima condizione, essendo stata rilasciata la nuova dichiarazione a pochi giorni di distanza dalla decadenza della originaria. Né può rilevare in senso contrario il cambio di denominazione subito dall’azienda agricola esercitante l’attività di allevamento in questione.
Chiarito, dunque, che ci si trova in presenza di un allevamento “esistente”, si rende allora necessario verificare il rispetto della seconda condizione e cioè se la preesistente distanza dall’abitazione del ricorrente sia stata rispettata e non anche ulteriormente ridotta, come invece lamentato da parte ricorrente.
Nell’ottica di tale verifica viene in rilievo il par. 3.10.5 del regolamento d’igiene, il quale prevede che, ai fini del rispetto delle distanze minime, l’allevamento debba essere considerato come il perimetro dei fabbricati adibiti a ricovero.
Ci si deve, però, allora, interrogare sul concetto di “perimetro”.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, “ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato” (Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2010, n. 424; Corte appello Brescia, sez. II, 18.05.2009; Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539). Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve, pertanto, essere considerato al fine della verifica del rispetto della distanza minima.
Peraltro deve tenersi in debito conto il concetto generale in materia edilizia, in ragione del quale, per la sua natura e consistenza costituisce "nuova costruzione" ex art. 3, lettera e5), d.p.r. n. 380/2001 che esclude dall'ambito applicativo della norma i soli manufatti che, indipendentemente dalla loro amovibilità, "non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee".
Il Collegio ritiene, pertanto, che sia escluso che i box esterni, per il solo fatto di essere stati realizzati in rete metallica, non debbano essere considerati ai fini del rispetto delle distanze minime o non possano essere, in linea di principio, riconducibili al concetto di ampliamento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato.
Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve, pertanto, essere considerato al fine della verifica del rispetto della distanza minima.

Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, “ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato” (Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2010, n. 424; Corte appello Brescia, sez. II, 18.05.2009; Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539). Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve, pertanto, essere considerato al fine della verifica del rispetto della distanza minima (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 07.11.2012 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E. Boscariol, Le distanze in edilizia (Il Tecnico Legale n. 17/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'osservanza delle disposizioni in materia di distanze tra edifici, non rileva l'eventuale carattere abusivo delle opere realizzate sul fondo confinante. Ciò, in quanto le disposizioni sulle distanze tra le costruzioni sono preordinate non solo alla tutela degli interessi dei proprietari frontisti, ma, in una più ampia prospettiva, anche alla salvaguardia di esigenze generali, tra cui la salubrità e la sicurezza pubblica.
Pertanto, l'interesse pubblico primario tutelato dalle norme urbanistiche sulle distanze impone di prendere in considerazione la situazione di fatto quale si presenta in concreto in sede di rilascio di un nuovo titolo edilizio, a nulla rilevando che taluno dei fabbricati preesistenti, in relazione al quale va calcolata la distanza, presenti connotati di abusività.

Contrariamente alla tesi propugnata da parte ricorrente, ai fini dell'osservanza delle disposizioni in materia di distanze tra edifici, non rileva l'eventuale carattere abusivo delle opere realizzate sul fondo confinante. Ciò, in quanto le disposizioni sulle distanze tra le costruzioni sono preordinate non solo alla tutela degli interessi dei proprietari frontisti, ma, in una più ampia prospettiva, anche alla salvaguardia di esigenze generali, tra cui la salubrità e la sicurezza pubblica.
Pertanto, l'interesse pubblico primario tutelato dalle norme urbanistiche sulle distanze impone di prendere in considerazione la situazione di fatto quale si presenta in concreto in sede di rilascio di un nuovo titolo edilizio, a nulla rilevando che taluno dei fabbricati preesistenti, in relazione al quale va calcolata la distanza, presenti connotati di abusività (cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 12.11.2008, n. 930; TAR Campania, Napoli, sez. III, 12.07.2005, n. 9499; sez. II, 02.12.2009, n. 8326) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 30.10.2012 n. 4328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel disporre che <alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano>, intende significare che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali -per l’appunto- il D.M. 1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono ammesse, in deroga, “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M. 1444/1968), cioè soltanto se previste –a loro volta- in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario (cioè, che contempli la contestuale edificazione degli edifici antistanti) di determinate zone del territorio.
In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante, in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di natura urbanistica, superiore a quello individuale dei proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879 comma 2 c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si applica in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui limiti di distanza tra i fabbricati ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, costituisce un principio assoluto ed inderogabile … che prevale –ad un tempo- sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (C. Cost., 16.06.2005, n. 232), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata, sia, infine, sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che, per loro natura, non sono nella disponibilità delle parti.
Esso, inoltre, è applicabile anche quando tra le pareti finestrate (o tra una parete finestrata e una non finestrata) si interponga una via pubblica. La fattispecie è specificamente regolata dal comma 2 del medesimo art. 9, che prescrive in questo caso distacchi addirittura maggiorati in relazione alla larghezza della strada, con la precisazione che l'esclusione della viabilità a fondo cieco prevista nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e non alla distanza minima assoluta di 10 metri, che rimane inderogabile.
In conclusione, in presenza di pareti finestrate poste a confine con la via pubblica, non è mai ammissibile la deroga prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le distanze tra edifici.

RITENUTO, altresì, che è fondato anche il quarto motivo di ricorso, nella parte in cui si deduce, che, nel caso di specie, non potrebbe trovare applicazione, in funzione derogatoria della distanza minima di 10 metri di cui al D.M. 1444/1968, l’art. 879, comma 2, cod. civ..
Il Collegio ritiene, infatti, condivisibile, anche riguardo al caso di specie, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “la disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel disporre che <alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano>, intenda significare che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali -per l’appunto- il D.M. 1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono ammesse, in deroga, “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M. 1444/1968), cioè soltanto se previste –a loro volta- in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario (cioè, che contempli la contestuale edificazione degli edifici antistanti) di determinate zone del territorio (Cons. di St., IV, 12.03.2007, n. 1206).
In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante, in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di natura urbanistica, superiore a quello individuale dei proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879 comma 2 c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si applica in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui limiti di distanza tra i fabbricati ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, costituisce un principio assoluto ed inderogabile … che prevale –ad un tempo- sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (C. Cost., 16.06.2005, n. 232), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni (Cons. di St., IV, 02.11.2010, n. 7731), in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata, sia, infine, sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che, per loro natura, non sono nella disponibilità delle parti.
Esso, inoltre, è applicabile anche quando tra le pareti finestrate (o tra una parete finestrata e una non finestrata) si interponga una via pubblica. La fattispecie è specificamente regolata dal comma 2 del medesimo art. 9, che prescrive in questo caso distacchi addirittura maggiorati in relazione alla larghezza della strada, con la precisazione che l'esclusione della viabilità a fondo cieco prevista nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e non alla distanza minima assoluta di 10 metri, che rimane inderogabile.
In conclusione, in presenza di pareti finestrate poste a confine con la via pubblica, non è mai ammissibile la deroga prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le distanze tra edifici (così TAR Lombardia, Brescia, I, 03.07.2008, n. 788; nello stesso senso, più recentemente, Tribunale di Teramo, 10.01.2011, n. 4)
” (TAR Liguria, Genova, I, 20.07.2011, n. 1148)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.10.2012 n. 2049 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto concerne la distanza tra edifici, la normativa civilistica esclude dal calcolo gli elementi ornamentali e gli aggetti di minima entità.
Per quanto concerne la distanza tra edifici, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la normativa civilistica escluda dal calcolo gli elementi ornamentali e gli aggetti di minima entità (ex plurimis: Cass.civ., II, 22.07.2010 n. 17242; TAR Lombardia, Milano, IV, 04.05.2011 n. 1174).
In tal senso si colloca la norma regolamentare vigente a Velletri (art. 103.1 del regolamento edilizio), la quale, richiamando le disposizioni del codice civile, determina la distanza tra fabbricati nella lunghezza del segmento minimo congiungente la parte più sporgente e quella prospiciente, esclusi gli aggetti di copertura, gli elementi ornamentali, le pensiline e i balconi a sbalzo fino a 1 ml, ecc., che non concorrono alla determinazione della sagoma dell’edificio.
La norma non presenta aspetti di irrazionalità, mentre appare generica la censura di parte ricorrente
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 10.10.2012 n. 8371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza, laddove afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, impone l’applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello della salubrità dell’edificato, da non confondersi con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva.
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Il Collegio evidenzia pure che la giurisprudenza ritiene applicabile in via analogica la norma della distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate anche nelle zone A nelle ipotesi di nuova edificazione: ipotesi che, peraltro, ragionevolmente non può estendersi ai casi nei quali l’edificazione avviene nel contesto di un Piano di Recupero.

Il Collegio non sottace a tale riguardo che la giurisprudenza, laddove afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, impone l’applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 12.07.2007 n. 3094), posto che l’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello della salubrità dell’edificato, da non confondersi con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva (cfr. ibidem).
Tuttavia, dall’esame del dato letterale dell’art. 9 risulta che per le zone di tipo A, in cui ricade l’ambito del Piano di Recupero contemplante la realizzazione dell’edificio da parte di C.S.T., “per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”, nel mentre soltanto per i “nuovi edifici ricadenti in altre zone …è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
A questo punto il Collegio evidenzia pure che la giurisprudenza ritiene applicabile in via analogica la norma della distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate anche nelle zone A nelle ipotesi di nuova edificazione (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 27.01.2003 n. 419): ipotesi che, peraltro, ragionevolmente non può estendersi ai casi nei quali -come, per l’appunto, nell’evenienza in esame- l’edificazione avviene nel contesto di un Piano di Recupero, atteso che gli edifici preesistenti di cui si è già detto al § 5.2.2. erano addossati all’anzidetta parete non finestrata dell’edificio di proprietà dei Ferrario
(Cons. Stato Sez. IV, sentenza 09.10.2012 n. 5253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo giurisprudenza consolidata:
- nella fattispecie disciplinata dagli artt. 873 e seguenti del codice civile, in applicazione del principio di prevenzione gli stessi attribuiscono a chi edifica per primo una triplice facoltà alternativa: a) costruire sul confine; b) costruire con il distacco previsto dalla normativa vigente; c) costruire con distacco inferiore alla metà della distanza minima prescritta, salva la possibilità per il vicino di costruire successivamente avanzando la propria fabbrica fino a quella preesistente, pagando la metà del valore del muro del vicino che diventerà comune, oltreché il valore del suolo occupato per effetto dell’avanzamento della fabbrica ovvero arretrare la costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico;
- la realizzazione di strutture in muratura, pur sovrastate da una terrazza, per il loro carattere di stabilità e permanenza costituiscono intervento di sopraelevazione che rappresenta una vera e propria “costruzione” in relazione alla quale deve trovare applicazione la disciplina del codice civile sulle distanze legali;
- la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo;
- per “pareti finestrate”, ai sensi dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti.

La ricorrente censura il permesso di costruire da ultimo rilasciato sostenendo, a ragione, che, per quanto concerne il nuovo manufatto costruito sul confine, limitatamente alla parte che fuoriesce sia in altezza, rispetto al piano di copertura, che in larghezza rispetto al box di proprietà in adesione del quale è costruito e che, come tale, fronteggia la facciata finestrata del proprio fabbricato, il titolo sia stato rilasciato in violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 (ora art. 136 del d.P.R. n. 380/2001), per violazione delle distanze legali tra gli edifici (m. 10) e delle distanze degli edifici rispetto al confine (m. 5).
In particolare, deduce parte ricorrente che avendo la medesima costruito per prima a una distanza inferiore dal confine (a circa m. 4,10, per quanto riguarda l’edificio, e sul confine, per quanto concerne il box), per il principio di prevenzione temporale, dovrebbe essere la confinante controinteressata a dovere arretrare, con la sola esclusione della parte costruita sul confine in aderenza al citato box e per la relativa altezza ed estensione.
Invero, secondo giurisprudenza consolidata:
- in tale ultimo caso si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e seguenti del codice civile, che in applicazione del principio di prevenzione attribuisce a chi edifica per primo una triplice facoltà alternativa: a) costruire sul confine; b) costruire con il distacco previsto dalla normativa vigente; c) costruire con distacco inferiore alla metà della distanza minima prescritta, salva la possibilità per il vicino di costruire successivamente avanzando la propria fabbrica fino a quella preesistente, pagando la metà del valore del muro del vicino che diventerà comune, oltreché il valore del suolo occupato per effetto dell’avanzamento della fabbrica ovvero arretrare la costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (Cass. Civ. sez. II, 07.08.2002, n. 11899; Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2009, n. 1998);
- la realizzazione di strutture in muratura, pur sovrastate da una terrazza, per il loro carattere di stabilità e permanenza costituiscono intervento di sopraelevazione che rappresenta una vera e propria “costruzione” in relazione alla quale deve trovare applicazione la disciplina del codice civile sulle distanze legali (Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2009, n. 1998);
- la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo (Cons. di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909);
- per “pareti finestrate”, ai sensi dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d’Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 28.09.2012 n. 1624 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disposizione di cui all’art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d’imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell’area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell’art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
Secondo giurisprudenza consolidata, dal cui orientamento il Collegio non ravvisa valide ragioni per discostarsi, la disposizione di cui all’art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d’imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell’area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell’art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione (Cons. di Stato, sez. IV, 27.10.2011, n. 5759; Idem, 12.06.2007, n. 3094) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 28.09.2012 n. 1624 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha di recente precisato la natura di norma cogente che va ascritta al’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, che costituisce fonte primaria alla quale gli strumenti urbanistici locali debbono conformarsi e che ha attitudine sostitutiva di eventuali norme locali difformi.
Si è infatti precisato che “Sono inderogabili le prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (che prevede la necessità per le costruzioni di rispettare una distanza di 10 metri tra pareti finestrate); tali prescrizioni non possono essere disattese dalle normative urbanistiche locali ed i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate dalla citata norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto.”
Conseguendone anche che “Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 è una fonte sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi comunali, e contiene norme inderogabili, di ordine pubblico; in caso di contrasto dei regolamenti edilizi comunali con le prescrizioni del citata decreto, il giudice deve disapplicare i regolamenti contrastanti, applicando, in via di sostituzione, la fonte statale imperativa.

Orbene, l’art. 51 delle NTA al regolamento urbanistico del resistente Comune, stabilisce a chiare note che “la distanza tra fabbricati (muniti di pareti finestrate, n.d.s.) non deve essere inferiore a quella prescritta dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444”.
Non è chi non veda dunque, che si è al cospetto di un rinvio integrale alla disposizione sulle distanze legali tra pareti finestrate recata dal richiamato art. 9 del D.M. n. 1444/1968, il quale si applica in toto alla fattispecie la vaglio della Sezione.
Va all’uopo rammentato che la giurisprudenza ha di recente precisato la natura di norma cogente che va ascritta al’art. 9 del D..M. n. 1444/1968, che costituisce fonte primaria alla quale gli strumenti urbanistici locali debbono conformarsi e che ha attitudine sostitutiva di eventuali norme locali difformi.
Si è infatti precisato che “Sono inderogabili le prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (che prevede la necessità per le costruzioni di rispettare una distanza di 10 metri tra pareti finestrate); tali prescrizioni non possono essere disattese dalle normative urbanistiche locali ed i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate dalla citata norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto.”
Conseguendone anche che “Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 è una fonte sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi comunali, e contiene norme inderogabili, di ordine pubblico; in caso di contrasto dei regolamenti edilizi comunali con le prescrizioni del citata decreto, il giudice deve disapplicare i regolamenti contrastanti, applicando, in via di sostituzione, la fonte statale imperativa“ (TAR Piemonte, Sez. I, 10.10.2008 n. 2565, in termini già Cass. civile, Sez. II, 03.03.2008, n. 5741). Nel senso che gli strumenti urbanistici non possono infrangere le previsioni di cui al D.M. n. 1444/1968, cfr. già TAR Liguria, Sez. I, 07.03.2008, n. 379 (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.08.2012 n. 1483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Ascensore a distanza ravvicinata. Sì all'impianto in deroga alla vicinanza minima dall'immobile. La Cassazione: l'opera abbatte le barriere architettoniche ed è funzionale all'abitabilità.
L'installazione dell'ascensore in un edificio condominiale, in quanto opera finalizzata all'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche e necessaria per la piena ed effettiva abitabilità di un appartamento, può avvenire anche senza il rispetto delle distanze legali tra immobili.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente sentenza 03.08.2012 n. 14096.
Il caso concreto. Nella specie l'assemblea di un condominio aveva deliberato l'avvio di opere volte all'installazione di un impianto di ascensore esterno all'edificio e che avrebbe occupato una parte del cortile, venendo a trovarsi a distanza inferiore ai tre metri previsti dalla legge (art. 907 c.c.) rispetto alle finestre di alcuni appartamenti. Alcuni dei rispettivi proprietari avevano quindi impugnato giudizialmente la delibera condominiale sia per la predetta lesione del diritto di veduta sia per il pregiudizio che tale opera avrebbe comportato per il decoro architettonico dell'edificio.
Il tribunale, tuttavia, aveva respinto il ricorso, qualificando l'ascensore quale impianto necessario all'effettiva abitabilità di un immobile, al pari di quelli di acqua, luce e gas, come tale non sottostante al regime civilistico delle distanze legali. Di avviso contrario era però stata la corte d'appello presso la quale i condomini avevano deciso di impugnare la decisione di primo grado, che aveva invece ritenuto pienamente applicabile nella specie il disposto di cui all'art. 907 c.c.. Infatti, secondo il giudice di secondo grado, poiché l'art. 2 della legge n. 13/1989 sull'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche impone in ogni caso il rispetto della destinazione delle parti comuni (art. 1120, comma 2, c.c.), a maggior ragione deve ritenersi che tale norma non consenta di recare pregiudizio alle proprietà esclusive.
Inoltre, sempre secondo la corte di merito, sarebbe stata la stessa legge or ora richiamata, laddove all'art. 3 si deroga espressamente al rispetto delle distanze previste dai regolamenti locali, senza fare alcuna menzione delle distanze minime previste dal codice civile, a rendere applicabili anche in materia condominiale le disposizioni in materia di vedute.
La decisione della Suprema corte. La decisione della corte di appello è quindi stata portata all'esame della Cassazione dal condominio, che reclamava la piena legittimità della deliberazione assembleare. E la Suprema corte, a sua volta, ha completamente ribaltato le argomentazioni giuridiche seguite dai giudici di merito, annullando la sentenza impugnata e stabilendo una serie di interessanti principi in materia di installazione degli ascensori e abbattimento delle c.d. barriere architettoniche.
In estrema sintesi, i giudici di legittimità hanno infatti ritenuto che la normativa sulle distanze legali, per quanto applicabile anche in ambito condominiale (seppure in via subordinata alla disciplina delle cose comuni di cui all'art. 1102 c.c.), non opera nei confronti di quegli impianti, tra i quali è sicuramente compreso anche l'ascensore, che siano necessari all'effettiva abitabilità di un immobile.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l'applicabilità della normativa in materia di vedute anche in ambito condominiale non può ritenersi implicitamente confermata dal predetto art. 3 della legge n. 13/1989 che, contrariamente a quanto ritenuto nella specie dai giudici di appello, riguarda soltanto i rapporti tra immobili confinanti appartenenti a diversi proprietari e non anche le ipotesi di condominio degli edifici (articolo ItaliaOggi Sette del 27.08.2012).

EDILIZIA-PRIVATA: L'edificazione di abbaini sul tetto, contraddistinti da rilevanti dimensioni tali da trasformare la struttura preesistente, con conseguente creazione di nuovi spazi interni dapprima non utilizzabili per esigenze abitative, comporta aumento di volumetria, incidendo significativamente sulla sagoma dell'edificio. Del resto, la realizzazione di tali nuove strutture coperte laddove prima esse non esistevano, implica una radicale trasformazione della sagoma del tetto.
Le opere così realizzate, pertanto, proprio in virtù della loro rilevanza edilizia, non possono considerarsi sottratte all'obbligo generale del rispetto delle distanze. Ed infatti, gli aumenti della volumetria o delle superfici occupate, in relazione all'originaria sagoma di ingombro, anche qualora siano definiti come ristrutturazione, sono rilevanti ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui, come previste dagli strumenti urbanistici locali.
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Le distanze tra edifici, anche in relazione a quanto previsto dal d.m. n. 1444 del 1968, vanno calcolate con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.

Nel merito si deve osservare, innanzi tutto, che l’edificazione dei cinque “abbaini” sul tetto dell’edificio di proprietà del controinteressato ha determinato un’evidente alterazione della sagoma di esso insieme ad un innegabile avanzamento (nonché innalzamento) della struttura coperta. Sono stati, infatti, ricavati cinque spazi chiusi innestati sulla superficie curva del tetto con altrettante strutture aventi pavimentazione piana, che fuoriescono notevolmente dalla struttura preesistente, con altezza pari a m. 3,20 (cfr. tavola n. 3/5 del progetto: doc. n. 20 del controinteressato) tale da poter essere sfruttata anche per esigenze abitative.
Deve, in proposito, richiamarsi la giurisprudenza amministrativa dominante, secondo la quale l’edificazione di abbaini sul tetto, caratterizzati da rilevanti dimensioni tali da trasformare la struttura preesistente, con conseguente creazione di nuovi spazi interni dapprima non utilizzabili per esigenze abitative, comporta aumento di volumetria ed incide significativamente sulla sagoma dell’edificio (cfr. ex multis: TAR Veneto, sez. II, n. 1692 del 2003; Cons. Stato, sez. V, n. 689 del 1996; TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 13309 del 2010).
Non può avere rilevanza, in proposito, quanto eccepiscono in fatto l’amministrazione resistente e il controinteressato, ossia che le cinque nuove strutture non fuoriescono né rispetto al filo di gronda né rispetto al colmo del tetto: se ciò è vero, è anche vero però che sono state realizzate nuove strutture coperte laddove prima esse non esistevano, ossia previa occupazione di spazi (sia verso l’esterno, sia verso l’alto) prima liberi, con conseguente radicale trasformazione della sagoma del tetto.
Le opere così realizzate, pertanto, proprio per effetto della loro rilevanza edilizia, non potevano non considerarsi sottratte all’obbligo generale del rispetto delle distanze: come si precisa in giurisprudenza, infatti, gli aumenti della volumetria o delle superfici occupate, in relazione all’originaria sagoma di ingombro, anche qualora siano definiti come “ristrutturazione”, sono rilevanti ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui, come previste dagli strumenti urbanistici locali (cfr., ad es.: Cassaz. civ., sez. un., n. 21578 del 2011; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 7505 del 2010; TAR Liguria, sez. I, n. 3566 del 2009).
L’assunto, del resto, trova conferma anche in quelle pronunce giurisprudenziali (come Cons. Stato, sez. IV, n. 5490 del 2011, invocata dall’amministrazione resistente) che, pur ricordando che gli interventi di ristrutturazione effettuati sopra un manufatto già esistente non impongono il rispetto delle distanze minime, evidenziano però l’inoperatività di tale “principio” allorché risulti essere stata realizzata “un'opera difforme da quella preesistente per sagoma, volume e superficie, anche in termini di ampliamento e sopraelevazione” (così, per l’appunto, Cons. Stato n. 5490 del 2011, cit.), come è avvenuto nel caso oggetto del presente giudizio.
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Quanto, poi, all’ulteriore circostanza di fatto (evidenziata dal controinteressato) che i due edifici “non si fronteggiano e non vi è pericolo di creazione di intercapedini nocive”, si deve comunque osservare che le distanze tra edifici, anche in relazione a quanto previsto dal d.m. n. 1444 del 1968, vanno calcolate con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 7731 del 2010 e n. 6909 del 2005) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 05.07.2012 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl d.m. 02.04.1968 n. 1444, che fissa i limiti “inderogabili” di distanza fra i fabbricati, prevede all’art. 9 che tra i fabbricati debba rispettata “in tutti i casi” la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, con possibilità di ammettere distanze inferiori, solo relativamente alle ipotesi di ristrutturazione in zone A e “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche”.
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è quella non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie: trattasi cioè di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario. Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.

Va, invero, rilevato che il decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444, che fissa i limiti “inderogabili” di distanza fra i fabbricati, prevede all’art. 9 che tra i fabbricati debba rispettata “in tutti i casi” la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, con possibilità di ammettere distanze inferiori, solo relativamente alle ipotesi di ristrutturazione in zone A e “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche”.
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è quella non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie: trattasi cioè di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario. Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (Cons. St., sez. IV, 12.06.2007, n. 3094, e 05.12.2005, n. 6909) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.07.2012 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Scala esterna in muratura e distanze tra costruzioni.
La scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l’altro e quindi a pregiudicare l’esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime.
Infine, con riferimento alla lamentata violazione della distanza dal confine prevista dall’art. 10 N.T.A. (m. 5), essendo prevista una rampa di scale a distanza inferiore, osserva il Collegio che la scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l’altro e quindi a pregiudicare l’esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime.
In tal senso si è espressa con orientamento costante la giurisprudenza della Cassazione in materia di distanze, evidenziando che “Nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (nella specie, scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia” (Cass. 1966/2007, 17390/2004, 4372/2002, tutte con riferimento a scale esterne) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 21.06.2012 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici - Concessione per nuove costruzioni.
La scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l’altro e quindi a pregiudicare l’esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime.
Nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (nella specie, scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia.
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Mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono invece corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
Il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza ai sensi della norma in questione solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, mentre nel caso di specie il regolamento prevede norma contraria.

Infine, con riferimento alla lamentata violazione della distanza dal confine prevista dall’art. 10 N.T.A. (m. 5), essendo prevista una rampa di scale a distanza inferiore, osserva il Collegio che la scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l’altro e quindi a pregiudicare l’esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime.
In tal senso si è espressa con orientamento costante la giurisprudenza della Cassazione in materia di distanze, evidenziando che “Nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (nella specie, scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia” (Cass. 1966/2007, 17390/2004, 4372/2002, tutte con riferimento a scale esterne).
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Va quindi esaminata la violazione dell’art. 26-bis del Regolamento Edilizio Comunale, dedotta come secondo motivo di ricorso.
La norma citata prevede infatti la distanza minima di m. 8 dalle finestre nei cortili interni, senza contare gli aggetti e i balconi se di profondità inferiore a cm 80, mentre nel caso di specie essendo i balconi di profondità di m. 1,20 la distanza non sarebbe rispettata.
Sul punto risulta pacifico che il balcone ha un aggetto superiore al limite di 80 cm, avendo anche il Comune confermato tale circostanza, deducendo che è prassi dell’ente autorizzare balconi di maggiore aggetto senza computarli ai fini del rispetto delle distanze.
Tale assunto, tuttavia, non è idoneo a fondare la legittimità del titolo edilizio, a fronte della perdurante vigenza della regola di cui al regolamento edilizio secondo la quale non vengono computati ai fini del rispetto delle distanza solo i balconi di sporgenza inferiore a cm. 80; il balcone in questione, profondo m. 1,20, va quindi computato ai fini della determinazione della distanza minima e deve, pertanto, costituire il limite esterno a partire dal quale va misurata la distanza di m. 8, con conseguente illegittimità della sua edificazione a distanza inferiore di m. 8 dalla parete dell’edificio dei ricorrenti.
La norma del regolamento è coerente con la giurisprudenza in materia di distanze fra edifici, secondo la quale, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono invece corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (TAR Lombardia, Milano, 04.05.2011, n. 1174, Cass. 17242/2010, TAR Sardegna sez. II, 06.04.2009, n. 432).
Il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza ai sensi della norma in questione solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (TAR Liguria, sez. I, 10.07.2009 n. 1736, TAR Toscana sez. III, 09.06.2011 n. 993), mentre nel caso di specie il regolamento prevede norma contraria.
Si consideri, altresì, che la realizzazione di cortili secondari e chiostrine a cavallo sul confine tra due proprietà é possibile secondo la disciplina edilizia applicabile nel Comune di Cellamare ove sia stipulata, a tale scopo, una apposita convenzione, la quale non deve pregiudicare in alcun modo le possibilità costruttive sui fondi, mentre in tal caso nessuna convenzione è stata stipulata tra le parti
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 21.06.2012 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate è prevista dalla norma –assolutamente inderogabile e prevalente sulle eventuali differenti prescrizioni degli strumenti urbanistici– di cui all’art. 9 del DM 1444/1968.
In ordine alle distanze, come risulta dalla tavola planimetrica (doc. 5 del Comune), l’edificio del ricorrente, insistente sul mappale 629, é distante 2,1 metri dal mappale 826, oltre che meno di 10 metri dall’edificio con parete finestrata di cui al mappale 160.
Si tratta di distanze inferiori a quelle di legge; in particolare la distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate è prevista dalla norma –assolutamente inderogabile e prevalente sulle eventuali differenti prescrizioni degli strumenti urbanistici– di cui all’art. 9 del DM 1444/1968 (sul carattere inderogabile della norma, applicabile a qualsivoglia intervento edilizio, anche di ristrutturazione, si vedano, fra le tante, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 08.09.2011, n. 2187 e 04.11.2011, n. 2654; TAR Piemonte, sez. I, 17.01.2007, n. 22 e TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.07.2008, n. 788).
Il Comune non poteva pertanto avallare un intervento edilizio in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici e della normativa in materia di distanze minime fra edifici (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.06.2012 n. 1721 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina delle distanze minime fra gli edifici tra i quali sono interposte strade destinate al traffico di veicoli è quella di cui all'art. 9, d.m. n. 1444/1968.
La definizione di strada cui questa disposizione fa riferimento, in linea con l’art. 1 del codice della strada, va riferita alle sole aree ad uso pubblico destinate alla circolazione, essendo tali norme finalizzate a disciplinare le fasce di rispetto delle costruzioni ai fini della sicurezza della circolazione.
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L'accertamento in ordine alla natura pubblica di una strada presuppone l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente, a tal fine, l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta

L'art. 28 delle n.t.a. del piano regolatore comunale disciplina le distanze minime fra gli edifici tra i quali sono interposte strade destinate al traffico di veicoli, riproducendo le prescrizioni di cui all'art. 9, d.m. n. 1444/1968.
La definizione di strada cui queste disposizioni fanno riferimento, in linea con l’art. 1 del codice della strada, va riferita alle sole aree ad uso pubblico destinate alla circolazione, essendo tali norme finalizzate a disciplinare le fasce di rispetto delle costruzioni ai fini della sicurezza della circolazione (si richiamano al riguardo le motivazioni espresse, in una fattispecie analoga, dal Consiglio di Stato, sez. V, 28.06.2011, n. 3868).
Nel caso di specie, l'amministrazione ha invece ritenuto applicabile la normativa in questione per il solo fatto che si tratta di strada con passaggio di veicoli, circostanza meramente fattuale che non coincide con l'uso pubblico della strada.
L'accertamento in ordine alla natura pubblica di una strada presuppone, invero, l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente, a tal fine, l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta (Cassazione civile, sez. II, 07.04.2006, n. 8204).
Il provvedimento impugnato è quindi affetto dai vizi di difetto di istruttoria e di motivazione. Le ulteriori censure possono essere assorbite.
La domanda di risarcimento dei danni deve essere respinta perché la società ha tempestivamente ottenuto la tutela cautelare richiesta ed anche poiché non è stata offerta, in corso di giudizio, una prova dei danni derivanti del ritardo nella edificazione, mediante l'allegazione di precise circostanze di fatto.
Per le ragioni esposte la domanda di annullamento è fondata e va quindi accolta. Va invece respinta la domanda di risarcimento dei danni (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.06.2012 n. 1612 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Ai fini del calcolo delle distanze devono essere computate scale, terrazze, corpi avanzati ed opere di contenimento.
2. Nozione di opera interrata.
3. Calcolo della cubatura. Inclusione nel caso di opere non completamente interrate.

1. In tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso (1).
2. Al fine di individuare se un manufatto sia o meno interrato, va fatto riferimento al livello naturale del terreno, con la conseguenza che la sporgenza di un manufatto dal suolo va riscontrata con riferimento al piano di campagna, cioè al livello naturale del terreno, e non al livello eventualmente inferiore cui si trovi un finitimo edificio realizzato con abbassamento di quel piano (2).
3. Ai sensi dell'art. 9 della l. 24.03.1989 n. 122, la realizzazione di autorimesse e parcheggi è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale (3).
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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539.
V. anche Cassazione civile, sez. II, 17.06.2011, n. 13389, secondo cui, "ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto condivisibilmente, ad avviso del Collegio ha poi fatto presente che ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale "costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio). "(Cassazione civile, sez. II, 24.05.1997, n. 4639).
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.12.2010, n. 8547 ed in passato Cons. Stato, sez. V, 21.10.1991, n. 1231, secondo la quale soltanto "i locali costruiti al di sotto dell'originario piano di campagna non sono infatti computabili ai fini dell'applicazione degli standards urbanistici e non concernono al computo della volumetria.".
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8260
(massima tratta da www.regione-piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato.
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Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
Ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
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Costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio).
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Analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere (nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione).

Rileva in proposito il Collegio che, per condivisa giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato
” (Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539)
In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera” (Cassazione civile, sez. II, 17.06.2011, n. 13389).
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto condivisibilmente, ad avviso del Collegio ha poi fatto presente che ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale “costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio)“ (Cassazione civile, sez. II, 24.05.1997, n. 4639).
Per completezza –tenuto conto dei profili sollevati dall’appellato nella propria memoria di replica- si evidenzia che analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (Nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione)” (Cassazione civile, sez. II, 21.10.1980, n. 5652)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra edifici - Art. 9 del d.m. 1444/1968.
Sull'incostituzionalità di una norma provinciale che, ai fini dell’isolamento termico per garantire le prestazioni energetiche, consente agli edifici già legalmente esistenti alla data del 12.01.2005 o concessionati prima di tale data di derogare nella misura massima di 20 centimetri alle distanze tra edifici.
Le norme in materia di distanze fra edifici costituiscono principio inderogabile che integra la disciplina privatistica delle distanze.
In particolare, data la connessione e le interferenze tra interessi privati e interessi pubblici in tema di distanze tra costruzioni, l’assetto costituzionale delle competenze in materia di governo del territorio interferisce con la competenza esclusiva dello Stato a fissare le distanze minime, sicché le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione statale, potendo, nei limiti della ragionevolezza, fissare limiti maggiori. Le deroghe alle distanze minime, poi, devono essere inserite in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, poiché la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati.
Nel caso di specie, la norma in questione (
«6. Ai fini dell’isolamento termico per garantire le prestazioni energetiche, definite ai sensi del comma 2, degli edifici già legalmente esistenti alla data del 12.01.2005 o concessionati prima di tale data, è permesso derogare nella misura massima di 20 centimetri alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici e alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile, salvo quanto disposto dalla normativa di attuazione della direttiva 2006/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 05.04.2006 relativa all’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi. La deroga può essere esercitata nella misura massima da entrambi gli edifici confinanti.
7. La Giunta provinciale definisce le caratteristiche tecniche delle verande la cui costruzione vale come misura per l’utilizzo di energia solare ai sensi del comma 5. A tal fine si può derogare alle distanze tra edifici, alle distanze dai confini nonché all’indice di area coperta previsti nel piano urbanistico, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile e purché la distanza dal confine di proprietà non sia inferiore alla metà dell’altezza della facciata della veranda»
), attraverso il mero richiamo delle norme del codice civile, è suscettibile di consentire l’introduzione di deroghe particolari in grado di discostarsi dalle distanze di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, recante «Legge urbanistica» (introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), avente, per giurisprudenza consolidata, un’efficacia precettiva e inderogabile.
In quanto tali deroghe non attengono all’assetto urbanistico complessivo delle zone di cui si verte, il mancato richiamo alle norme statali vincolanti per la Provincia, determina l’illegittimità costituzionale delle relative norme per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., avendo invaso la competenza statale in materia di ordinamento civile.

8.― Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 9, commi 6 e 7 (recte: art. 9, comma 4, alinea 6 e 7, trattandosi dei commi 6 e 7 dell’articolo 127 della legge provinciale 11.08.1997, n. 13, modificato dalla legge impugnata), nella parte in cui prevedono, ai fini dell’isolamento termico degli edifici e dell’utilizzo dell’energia solare, la possibilità di derogare alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici ed alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile.
A suo avviso, dette disposizioni, non prevedendo il rispetto delle altezze e delle distanze di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765), contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
8.1.― La questione è fondata.
8.2.― In linea preliminare, va osservato che i commi 6 e 7 dell’articolo 127 della legge provinciale n. 13 del 1997, nel testo modificato dalle disposizioni impugnate, così dispongono: «6. Ai fini dell’isolamento termico degli edifici già legalmente esistenti alla data del 12.01.2005 o concessionati prima di tale data, è possibile derogare alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici e alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile.
7. La Giunta provinciale definisce le caratteristiche tecniche delle verande la cui costruzione vale come misura per l’utilizzo di energia solare ai sensi del comma 5. A tale fine si può derogare alle distanze tra edifici, alle distanze dai confini nonché all’indice di area coperta previsti nel piano urbanistico o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile e purché la distanza verso il confine di proprietà non sia inferiore alla metà dell’altezza della facciata della veranda
».
Successivamente alla proposizione del ricorso, l’art. 26, comma 3, della legge provinciale n. 15 del 2011, ha nuovamente modificato tali disposizioni, così sostituendole: «6. Ai fini dell’isolamento termico per garantire le prestazioni energetiche, definite ai sensi del comma 2, degli edifici già legalmente esistenti alla data del 12.01.2005 o concessionati prima di tale data, è permesso derogare nella misura massima di 20 centimetri alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici e alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile, salvo quanto disposto dalla normativa di attuazione della direttiva 2006/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 05.04.2006 relativa all’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi. La deroga può essere esercitata nella misura massima da entrambi gli edifici confinanti.
7. La Giunta provinciale definisce le caratteristiche tecniche delle verande la cui costruzione vale come misura per l’utilizzo di energia solare ai sensi del comma 5. A tal fine si può derogare alle distanze tra edifici, alle distanze dai confini nonché all’indice di area coperta previsti nel piano urbanistico, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile e purché la distanza dal confine di proprietà non sia inferiore alla metà dell’altezza della facciata della veranda
».
Dal raffronto fra le disposizioni risulta evidente che l’ultima modifica, dato il suo carattere sostanzialmente marginale, non incide in modo significativo sul contenuto precettivo delle disposizioni impugnate, e certamente non ha contenuto satisfattivo, per cui la questione va trasferita sulla nuova norma, in applicazione del succitato principio di effettività della tutela costituzionale.
8.3.― La censura verte sul mancato richiamo al rispetto delle norme sulle distanze fra edifici, integrative del codice civile e, in particolare, dell’art. 9 del citato d.m. n. 1444 del 1968.
In tale ambito, questa Corte ha in più occasioni precisato che le norme in materia di distanze fra edifici costituiscono principio inderogabile che integra la disciplina privatistica delle distanze.
In particolare, data la connessione e le interferenze tra interessi privati e interessi pubblici in tema di distanze tra costruzioni, l’assetto costituzionale delle competenze in materia di governo del territorio interferisce con la competenza esclusiva dello Stato a fissare le distanze minime, sicché le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione statale, potendo, nei limiti della ragionevolezza, fissare limiti maggiori. Le deroghe alle distanze minime, poi, devono essere inserite in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, poiché la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati (sentenza n. 232 del 2005).
Nel caso di specie, la norma in questione, attraverso il mero richiamo delle norme del codice civile, è suscettibile di consentire l’introduzione di deroghe particolari in grado di discostarsi dalle distanze di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, recante «Legge urbanistica» (introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), avente, per giurisprudenza consolidata, un’efficacia precettiva e inderogabile.
In quanto tali deroghe non attengono all’assetto urbanistico complessivo delle zone di cui si verte, il mancato richiamo alle norme statali vincolanti per la Provincia, determina l’illegittimità costituzionale delle relative norme per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., avendo invaso la competenza statale in materia di ordinamento civile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) (omissis)
2) dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 2, comma 10, 3, commi 1 e 3, 5, comma 1, 9, comma 4, alinea 6 e 7, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 21.06.2011, n. 4 (Misure di contenimento dell’inquinamento luminoso ed altre disposizioni in materia di utilizzo di acque pubbliche, procedimento amministrativo ed urbanistica);
3) dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 24, comma 2, e 26, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 21.12.2011, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2012 e per il triennio 2012-2014 – Legge finanziaria 2012);
4) (omissis) (Corte Costituzionale, sentenza 10.05.2012 n. 114).

EDILIZIA PRIVATA: Serre, inapplicabili le norme sulle distanze per gli edifici.
I dati normativi convergono nel disporre che le serre non debbano essere qualificate come costruzioni. Pertanto, nel caso di specie avrebbe dovuto essere applicata non la distanza per le edificazioni ma quella prevista per la piantagione degli alberi, misurata, per le ragioni esposte, a partire dalla sede di occupazione dell’autostrada.
La corte amministrativa pugliese ha esaminato le disposizioni relative alla violazione sostanziale delle norme in materia di distanze delle costruzione e delle piantagioni dalla sede autostradale.
Il disposto dell’art. 9 L. 729/1961, prevede che “Lungo i tracciati delle autostrade e i relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell’autostrada stessa. La distanza è ridotta a metri 10 per gli alberi da piantare”.
La lettura della norma chiarisce quindi expressis verbis, innanzitutto, che la distanza va misurata a partire dalla zona di occupazione dell’autostrada, e non dal confine della proprietà autostradale; pertanto il parere negativo espresso dalla società Autostrade, sulla cui base è stata negata dal Comune la sanatoria, risulta viziato nella parte in cui quantifica la distanza minima delle opere dal confine autostradale, riportando la misura di m. 1,50.
Ma deve anche rilevarsi che, nel caso di specie, non è applicabile, come sostenuto dalla ricorrente, la distanza prevista per le costruzioni.
A tale conclusione conducono infatti sia il disposto del decreto del Ministro dei lavori pubblici del 16.12.1987, secondo cui la costruzione di serre smontabili in fregio all’autostrada non costituisce edificazione, sia la disciplina dell’art. 59 l.r. 1/2005, secondo cui “le serre e i loro annessi non sono da considerarsi costruzioni, indipendentemente dai materiali usati per la loro realizzazione e dai sistemi di ancoraggi”.
I dati normativi convergono dunque nel disporre che le serre non debbano essere qualificate come costruzioni e, pertanto, nel caso di specie avrebbe dovuto essere applicata non la distanza per le edificazioni ma quella prevista per la piantagione degli alberi, misurata, per le ragioni esposte, a partire dalla sede di occupazione dell’autostrada (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 05.04.2012 n. 682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 d.m. 1444/1968 non può essere derogato dalle disposizioni regolamentari locali e, in caso di contrasto, prevale su di esse.
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L'art. 9 d.m. n. 1444/1968 va rispettato anche in caso di realizzazione di interventi di recupero del sottotetto: si richiama al riguardo il precedente di questa Sezione, 10.12.2010, n. 7505, oltre a quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 19.05.2011, n. 173, secondo cui l'art. 64, comma 2, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 "deve interpretarsi nel senso che esso consente la deroga dei parametri e indici urbanistici ed edilizi di cui al regolamento locale ovvero al piano regolatore comunale, fatto salvo il rispetto della disciplina sulle distanze tra fabbricati, essendo quest'ultima materia inerente all'ordinamento civile e rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato".

Anche il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso –che possono essere trattati congiuntamente perché strettamente connessi sul piano logico e giuridico- sono privi di fondamento in quanto:
- per giurisprudenza costante, l'art. 9 d.m. 1444/1968 non può essere derogato dalle disposizioni regolamentari locali e, in caso di contrasto, prevale su di esse (cfr. da ultimo, Cassazione civile sez. un., 07.07.2011, n. 14953); non assume, dunque, alcun rilievo il rispetto, nel caso di specie, della previsione dell'art. 27, c. 2 del r.e.c.;
- l'art. 9 d.m. n. 1444/1968 va rispettato anche in caso di realizzazione di interventi di recupero del sottotetto: si richiama al riguardo il precedente di questa Sezione, 10.12.2010, n. 7505, oltre a quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 19.05.2011, n. 173, secondo cui l'art. 64, comma 2, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 "deve interpretarsi nel senso che esso consente la deroga dei parametri e indici urbanistici ed edilizi di cui al regolamento locale ovvero al piano regolatore comunale, fatto salvo il rispetto della disciplina sulle distanze tra fabbricati, essendo quest'ultima materia inerente all'ordinamento civile e rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenza n. 232 del 2005)";
- legittimamente l'amministrazione ha qualificato l'intervento in questione quale nuova costruzione e non quale ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, essendo incontestato il mutamento della sagoma del fabbricato.
Né può invocarsi la previsione di cui all'art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, come interpretato dall'art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7 del 2010, in quanto dichiarato incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale n. 309 del 23.11.2011.
Non può, inoltre, condividersi, al riguardo, quanto affermato dal ricorrente circa l'inapplicabilità della pronuncia di incostituzionalità al caso di specie.
Per giurisprudenza costante, infatti, l'efficacia delle sentenze dichiarative della illegittimità costituzionale di una norma incontra il solo limite dei rapporti esauriti in modo definitivo ed irrevocabile per avvenuta formazione del giudicato o per essersi comunque verificato altro evento cui l'ordinamento ricollega il consolidamento del rapporto, laddove il rapporto in questione, insorto in conseguenza dell'annullamento in autotutela della d.i.a., è lungi dall'essere esaurito; né assume rilievo la circostanza che il titolo edilizio si fosse perfezionato in epoca antecedente la pronuncia di illegittimità costituzionale, avendo l'amministrazione inciso sulla sua validità mediante il potere di autotutela (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2012 n. 1002 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: V. Lioniello, Le distanze tra gli edifici: il contrasto tra la normativa nazionale e quella regolamentare adottata dai Comuni - Nota a Cass. Civ., Sez. II, 14.03.2012 n. 4076 (link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATALe opere funzionali all’eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non già le opere dirette alla migliore fruibilità dell’edificio e alla maggior comodità dei residenti.
Sicché, nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela del patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla salvaguardia del diritto alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche, la normativa ha dato prevalenza in via generale al secondo, consentendo, purtuttavia, il diniego dell’autorizzazione alla realizzazione di interventi su beni vincolati nei soli casi di accertato e motivato «serio pregiudizio» del bene vincolato; mentre, nel bilanciamento degli interessi in gioco si è ritenuto, al contrario, prevalente quello relativo al rispetto della normativa antincendio.
Per quando attiene, in particolare, l’eliminazione di tali barriere negli edifici in condominio, la normativa vigente sopra richiamata nel contrasto tra l’interesse dei condomini a non vedere modificati i beni comuni e quello dei soggetti portatori di minorazioni fisiche ha tutelato questi ultimi in termini assoluti ed inderogabili, per cui non è richiesto il consenso di tutti i proprietari del fabbricato ove l’opera debba essere realizzata in cortili o chiostrine “interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”.
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Relativamente al conflitto tra gli interessi dei soggetti portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti terzi, il legislatore con la previsione contenuta nell'art. 79 dpr 380/2001 e nell'art. 873 del codice civile, ha ritenuto di dare prevalenza al diritto di questi ultimi al rispetto delle distanze tra le costruzioni, che quindi non può mai essere “minore di 3 metri”, in base alla previsione codicistica, all’evidente fine di garantire la salubrità delle costruzioni. In definitiva, il legislatore nel bilanciamento degli interessi in gioco nel mentre ha ritenuto prevalente l’interesse dei portatori di handicap rispetto a quello degli altri “condomini”, ha ritenuto al contrario recessivo tale interesse rispetto a quello dei soggetti “terzi”, cioè dei proprietari di immobili finitimi, che non possono veder leso il loro diritto alla salute, ugualmente meritevole di tutela, a non vedere create delle intercapedini che possono incidere sulla salubrità delle costruzioni.
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La costruzione di un ascensore esterno in facciata di condominio per un verso ha quei connotati e quelle caratteristiche di stabilità che impongono di ricomprenderlo nella nozione di “costruzione” di cui al predetto art. 873 del codice civile e per altro verso, per le sue caratteristiche costruttive, viene a creare una permanente intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità delle costruzioni vicine; per cui tale opera deve necessariamente rispettare le distanze legali.

... per l'annullamento del provvedimento 24.05.2011, prat. n. 4/2001, con il quale il Responsabile del III Settore (Assetto ed uso del territorio) del Comune di Loreto Aprutino ha rigettato la domanda di permesso di costruire presentata dal ricorrenti per l’esecuzione dei lavori di installazione di un ascensore esterno ...
...
L’impugnato provvedimento di rigetto della domanda di permesso di costruire presentata dai ricorrenti per l’esecuzione dei lavori di installazione di un ascensore esterno è motivato con riferimento alla testuale considerazione che, in violazione dell’art. 79 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, non era rispettata la “distanza di tre metri di cui all’art. 873 del codici civile, ricorrendo il caso in cui tra le opere da realizzare (ascensore finalizzato all’eliminazione delle barriere architettoniche) ed il fabbricato alieno … non è interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”.
Tale ragione giustificativa del diniego del titolo edilizio richiesto si sottrae, ad avviso del Collegio, alle censure di legittimità dedotte con il ricorso.
Va al riguardo premesso che il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel disciplinare all’art. 79 le opere finalizzate all’eliminazione delle barriere architettoniche dispone testualmente al suo primo comma che tali opere “possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”; al suo secondo comma precisa, inoltre, che “è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”.
Tale richiamato art. 873 del codice civile, nel disciplinare le distanze nelle costruzioni, dispone a sua volta che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri”.
Va, infine, ricordato che con Decreto ministeriale 14.06.1989, n. 236, sono state dettate le prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità degli edifici privati ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche.
Così puntualizzato il quadro normativo di riferimento, va evidenziato che tali previsioni per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati -dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989, poi trasfusa nel predetto t.u., ed articolate in dettaglio nella normativa tecnica di attuazione di cui al D.M. 14.06.1989, n. 236- hanno elevato il livello di tutela dei soggetti portatori di minorazioni fisiche, che oggi non è più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed individuale, ma è ormai considerato come interesse primario dell’intera collettività, da soddisfare con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione (Corte Costituzionale 10.03.1999, n. 167, e 04.07.2008, n. 251, e da ultimo TAR Campania, sede Napoli, sez. IV, 14.11.2011, n. 5343).
Purtuttavia, va anche precisato che la giurisprudenza ha al riguardo meglio precisato che tale sistema di tutela delle persone disabili è, in concreto, applicabile compatibilmente con altri interessi pubblici che non possono essere pretermessi e che devono essere, invece, bilanciati con quello, superiore, alla tutela ottimale delle medesime persone; con la conseguenza che le misure necessarie a rendere effettiva la tutela delle persone disabili, alla stregua degli art. 2, 3 e 32 della Costituzione possono essere legittimamente graduate in vista dell’attuazione del principio di parità di trattamento, tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco e fermo comunque il rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati. In definitiva, tale normativa consente il diniego della richiesta autorizzazione qualora non sia possibile realizzare le opere senza pregiudizio di altri beni ugualmente tutelati.
Premesso che le opere funzionali all’eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e non già le opere dirette alla migliore fruibilità dell’edificio e alla maggior comodità dei residenti (TAR Abruzzo, sede L'Aquila, 08.11.2011, n. 526), va ricordato che il legislatore ha effettuato delle scelte puntuali in ordine alla graduazione degli interessi coinvolti.
Così, in particolare, nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela del patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla salvaguardia del diritto alla salute ed al normale svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche, tale normativa ha dato prevalenza in via generale al secondo, consentendo, purtuttavia, il diniego dell’autorizzazione alla realizzazione di interventi su beni vincolati nei soli casi di accertato e motivato «serio pregiudizio» del bene vincolato (TAR Sicilia, sede Palermo, sez. I, 04.02.2011, n. 218, TAR Campania, sede Napoli, sez. IV, 15.09.2011, n. 4402, e TAR Toscana sez. III, 25.10.2011, n. 1546); mentre, nel bilanciamento degli interessi in gioco si è ritenuto, al contrario, prevalente quello relativo al rispetto della normativa antincendio (Cons. St. sez. V, 08.03.2011, n. 1437).
Per quando attiene, in particolare, l’eliminazione di tali barriere negli edifici in condominio, la normativa vigente sopra richiamata nel contrasto tra l’interesse dei condomini a non vedere modificati i beni comuni e quello dei soggetti portatori di minorazioni fisiche ha tutelato questi ultimi in termini assoluti ed inderogabili, per cui non è richiesto il consenso di tutti i proprietari del fabbricato ove l’opera debba essere realizzata in cortili o chiostrine “interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati” (TAR Lazio, sez. Latina, 04.03.2011, n. 221, e Cons. St. sez. IV, 04.05.2010, n. 2546).
Relativamente, invece, al conflitto tra gli interessi dei soggetti portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti terzi, il legislatore con la sopra ricordata previsione contenuta nel predetto art. 79 e nel richiamato art. 873 del codice civile, ha ritenuto di dare prevalenza al diritto di questi ultimi al rispetto delle distanze tra le costruzioni, che quindi non può mai essere “minore di tre metri”, in base alla previsione codicistica, all’evidente fine di garantire la salubrità delle costruzioni. In definitiva, il legislatore nel bilanciamento degli interessi in gioco nel mentre ha ritenuto prevalente l’interesse dei portatori di handicap rispetto a quello degli altri “condomini”, ha ritenuto al contrario recessivo tale interesse rispetto a quello dei soggetti “terzi”, cioè dei proprietari di immobili finitimi, che non possono veder leso il loro diritto alla salute, ugualmente meritevole di tutela, a non vedere create delle intercapedini che possono incidere sulla salubrità delle costruzioni.
Tale scelta legislativa, ad avviso del Collegio, non sembra inficiata da profili di costituzionalità, in quanto rientra nella discrezionalità del legislatore dare la prevalenza all’uno o all’altro degli interessi in conflitto; inoltre, la scelta effettuata con la normativa di cui al più volte ricordato art. 79 non sembra illogica o particolarmente penalizzante degli interessi dei soggetti portatori di handicap, ove si consideri che nella specie tale diritto è stata ritenuto recessivo nei confronti del diritto alla salute, di pari rilevanza, dei soggetti confinanti.
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I ricorrenti con i tre motivi di gravame si sono nella sostanza lamentati delle seguenti circostanze:
1) che l’opera da realizzare non doveva rispettare le distanze legali, in quanto non creava una intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità della collettività e che, peraltro, non era rispettata la distanza in questione solo per una parte marginale;
2) che l’opera era conforme alle prescrizioni vigenti in quanto realizzata su uno “spazio o area comune”;
3) che la legislazione di favore nei confronti dei portatori di handicap, volta all’eliminazione delle barriere architettoniche, deve essere interpretata nel senso che è consentita la deroga della predetta distanza di tre metri ove sia impossibile una diversa collocazione dell’opera da realizzare.
Se, con riferimento a quanto sopra esposto, sembra evidente la mancanza di pregio di quanto dedotto con il terzo motivo, in quanto il vigente sistema non tutela le persone disabili in termini assoluti ed inderogabili (Cons. St. sez. V, 08.03.2011, n. 1437), ma effettua un bilanciamento degli interessi in gioco, ponendo dei precisi limiti alla realizzazione delle opere in questione quando venga leso il diritto alla salute dei confinanti, va evidenziato in punto di fatto che l’opera da realizzare -contrariamente a quanto dedotto con il ricorso- non si sviluppa solo fino al primo piano dell’edificio, ma è destinata a raggiungere anche gli ulteriori piani dell’edificio, che non sono abitati dal soggetto portatore di handicap.
Conseguentemente, ritiene il Collegio che l’opera -così come si rileva dagli atti progettuali versati in giudizio anche dalla parte ricorrente- per un verso ha quei connotati e quelle caratteristiche di stabilità che impongono di ricomprenderla nella nozione di “costruzione” di cui al predetto art. 873 del codice civile e per altro verso, per le sue caratteristiche costruttive, viene a creare una permanente intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità delle costruzioni vicine; per cui tale opera deve necessariamente rispettare le distanze legali. Mentre appare in merito irrilevante il fatto che tale distanza non era rispettata solo per una parte dell’opera, in quanto la norma sui distacchi tra le costruzione prevede delle precise distanze che, salva la c.d. tolleranza di cantiere, debbono essere necessariamente rispettate.
Quanto, infine, alla circostanza che l’ascensore sarebbe stato realizzato su uno “spazio o area comune”, va evidenziato che la normativa in questione, quando utilizza tale espressione, intende riferirsi all’esistenza di un diritto di comunione sull’area sulla quale deve essere realizzata l’opera. Ora dagli atti di causa non risulta che il cortile in questione sia in comunione, né risulta dimostrata che sull’area esista una servitù di passaggio; al contrario, dalle mappe catastali e dagli atti progettuali si evince che i due edifici che si fronteggiano sono separati da una precisa linea di confine posta a distanza di un metro e mezzo dai due edifici.
Non trattandosi di un’area “comune” la costruzione dell’ascensore, in assenza del consenso dei proprietari dell’edificio adiacente, avrebbe dovuto, pertanto, rispettare le distanze di legge; né appare utile al riguardo il riferimento alle definizioni contenute nel predetto decreto ministeriale 14.06.1989, n. 236, con il quale sono state dettate le prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità degli edifici privati ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche, e ciò non solo per il rango nella gerarchia delle fonti di tale decreto e per la sua inidoneità a modificare norme di legge, ma anche e soprattutto per il fatto che le definizioni contenute in tale decreto si riferiscono alle prescrizioni tecniche disciplinate con la normativa in questione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 24.02.2012 n. 87 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza minima di 10 metri tra fabbricati imposta dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 costituisce limite inderogabile che prevale sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali e che la norma sopra indicata si applica anche alle sopraelevazioni.
Ai fini della verifica del rispetto delle distanze tra edificio sono computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti di edificio quali scale, terrazze e corpi avanzati.
Invero, a voler tralasciare il fatto che nella specie le terrazze prese in considerazione sembrano costituire una soluzione architettonica volta a consentire il passaggio di luce ed aria proprio al fine di evitare intercapedini igienicamente dannose, rimane nella vicenda all’esame applicabile la deroga prevista dall’ultimo comma dell’art. 9 del citato D.M. secondo cui “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piano particolareggiato con previsioni planovolumetriche”, evenienza, questa, che ricorre nel caso di specie in cui viene in rilievo una variante urbanistica ad un piano particolareggiato con previsioni plano-volumetriche.

Sono noti alla Sezione gli orientamenti giurisprudenziali secondo i quali la distanza minima di 10 metri tra fabbricati imposta dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 costituisce limite inderogabile che prevale sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali (Cons. Stato, Sez. IV 02/11/2010 n. 7731) e che la norma sopra indicata si applica anche alle sopraelevazioni (Corte Costituzionale 19/05/2011 n. 173).
Parimenti questa Sezione ha avuto modo di affermare che ai fini della verifica del rispetto delle distanze tra edificio sono computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti di edificio quali scale, terrazze e corpi avanzati (decisione 27/10/2010 n. 424; idem, 30/06/2005 n. 3539) ma le critiche formulate dalla parte appellante (che prende a riferimento della misurazione le terrazze) non paiono cogliere nel segno.
Invero, a voler tralasciare il fatto che nella specie le terrazze prese in considerazione sembrano costituire una soluzione architettonica volta a consentire il passaggio di luce ed aria proprio al fine di evitare intercapedini igienicamente dannose, rimane nella vicenda all’esame applicabile la deroga prevista dall’ultimo comma dell’art. 9 del citato D.M. (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 02/11/2010 n. 7731) secondo cui “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piano particolareggiato con previsioni planovolumetriche”, evenienza, questa che ricorre nel caso di specie in cui viene in rilievo una variante urbanistica ad un piano particolareggiato con previsioni plano-volumetriche
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.01.2012 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostruzioni in aderenza e problematiche connesse alle previsioni urbanistiche del p.r.g..
Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato ha fatto proprio l'orientamento secondo cui “la previsione urbanistica del p.r.g. secondo cui nella zona destinata alla costruzione di case a schiera non sono stabiliti limiti di distanza tra edifici, non trova applicazione ove nel fondo finitimo preesista un edificio non posizionato sul confine, non essendo ipotizzabile, in tale evenienza, l'edificazione in aderenza, secondo la tipologia delle costruzioni a schiera, senza alcun titolo pattizio.” (Consiglio Stato, sez. V, 08.02.1991, n. 114).
D’altro canto, la giurisprudenza civilistica è attenta nel contenere l’applicabilità del principio della “prevenzione” in termini analoghi a quelli applicati (reiettivamente) dall’amministrazione comunale, essendosi in proposito rilevato che “In tema di distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire «in aderenza» od «in appoggio», la preclusione di dette facoltà non consente l'operatività del principio della prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli art. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza -eventualmente esercitando le opzioni previste dagli art. 875 e 877, comma 2, c.c.- , ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.” (Cassazione civile, sez. II, 09.04.2010, n. 8465).
La giurisprudenza della Sezione ha affermato costantemente analoghi principi (ex multis: “il principio della prevenzione ex art. 873 e ss. c.c. trova applicazione non soltanto nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, ma altresì in quelli nei quali gli strumenti urbanistici non vietino l'edificazione sul confine: in questo caso, dunque, essendo ammessa la costruzione in aderenza, a chi edifica per primo sul fondo contiguo ad altro spettano tre diverse facoltà: in primo luogo, quella di costruire sul confine; in secondo luogo, quella di costruire con distacco dal confine, osservando la distanza minima imposta dal codice civile ovvero quella maggiore distanza stabilita dai regolamenti edilizi locali; ed infine quella di costruire con distacco dal confine a distanza inferiore alla metà di quella prescritta per le costruzioni su fondi finitimi, facendo salvo in questa evenienza la facoltà per il vicino, il quale edifichi successivamente, di avanzare il proprio manufatto fino a quella preesistente, previa corresponsione della metà del valore del muro del vicino e del valore del suolo occupato per effetto dell'avanzamento della fabbrica.” (Consiglio Stato, sez. IV, 04.02.2011, n. 802) (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.01.2012 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa norma di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444  parla genericamente di “pareti finestrate”, e deve dunque essere riferita, in generale, a tutte le pareti con aperture non solo di veduta, ma anche di luce, di qualsiasi genere, verso l'esterno, mentre la distanza a sua volta “va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela”.
La norma di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444  parla genericamente di “pareti finestrate”, e deve dunque essere riferita, in generale, a tutte le pareti con aperture non solo di veduta, ma anche di luce, di qualsiasi genere, verso l'esterno (conf. TAR Lombardia Milano, sez. IV, 19.05.2011, n. 1282), mentre la distanza a sua volta “va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela” (C.d.S. IV, 02.11.2010, n. 7731) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 32 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 9 dm 1444/1968 riferisce letteralmente il limite corrispondente all’altezza dell’edificio più alto ai soli edifici ricadenti nelle zone C.
Trattandosi nella fattispecie di edificio ricadente in zona B, si applica, invece, il solo limite di 10 metri fra pareti finestrate.

Con il nono e decimo motivo di ricorso, viene denunciata la violazione dell’art. 9 del d.M. lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, che prevede una distanza minima assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti ovvero, quando uno degli edifici che si fronteggiano abbia altezza superiore a metri 10, una distanza almeno pari all’altezza del fabbricato più alto.
Sarebbero pertanto illegittime, ad avviso di parte ricorrente, le impugnate varianti parziali al P.R.G.C. che hanno consentito una distanza fra gli edifici di 10 metri, mentre avrebbero dovuto imporre il rispetto di una distanza pari all’altezza del fabbricato maggiormente sviluppato in altezza, ossia di oltre 22 metri.
Ne conseguirebbe, inoltre, l’illegittimità derivata del permesso di costruire rilasciato alla controinteressata.
La censura non considera esattamente il tenore testuale della disposizione normativa che si assume violata.
Il citato art. 9, infatti, riferisce letteralmente il limite corrispondente all’altezza dell’edificio più alto ai soli edifici ricadenti nelle zone C.
Trattandosi nella fattispecie di edificio ricadente in zona B, si applica, invece, il solo limite di 10 metri fra pareti finestrate, il cui rispetto non è fatto oggetto di contestazione
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 12.01.2012 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le norme locali possono derogare alle distanze su edifici preesistenti.
Quando gli strumenti urbanistici locali prevedano, riguardo ad edifici preesistenti, la facoltà di costruire in deroga alle prescrizioni contenute nel piano regolatore sulle distanze, si applica il principio di prevenzione.
Questo principio, in caso di sopraelevazione, comporta che “mentre il preveniente deve attenersi, nella prosecuzione in altezza del fabbricato, della scelta operata originariamente, di guisa che ogni parte dell’immobile risulti conforme al criterio di prevenzione adottato sulla base di esso, a ciò non può frapporre ostacoli il confinante (prevenuto) che, se a sua volta abbia costruito in aderenza fino all’altezza inizialmente raggiunta dal preveniente, ha diritto di sopraelevare soltanto sul confine, ovvero a distanza da questo (e, quindi, dalla eventuale sopraelevazione del preveniente) pari a quella globale minima di legge o dei regolamenti” (Cass. civ. Sez. III, 27.08.1990, n. 8849).
Nel caso in commento il ricorrente aveva contestato l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia per un intervento di ristrutturazione e sopraelevazione, motivato sulla violazione dell’art. 873 cod. civ., in quanto la distanza del fabbricato da quello di altra proprietà era risultata inferiore alla normativa. Ma secondo il ricorrente, trattandosi di costruzione su confine eretta anteriormente a quella del vicino (che avrebbe costruito in violazione della distanza di tre metri), spetterebbe al preveniente regolare le distanze anche per la successiva sopraelevazione.
E i giudici del Consiglio di Stato, appoggiando questa posizione, hanno chiarito che, quando gli strumenti urbanistici locali fissino senza alternativa le distanze delle costruzioni dal confine, salva soltanto la possibilità di costruzione in aderenza, non può farsi luogo all’applicazione del principio di prevenzione; ma, al contrario, quando essi prevedano, riguardo ad edifici preesistenti, la facoltà di costruire in deroga alle prescrizioni contenute nel piano regolatore sulle distanze, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dall’art. 873 c.c., “con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (Cassazione civile, sez. II, 09.04.2010, n. 8465)” (Cons. St. Sez. IV, 09.05.2011, n. 2749; analogamente, Cons. St. Sez. IV, 31.03.2009, n. 1998) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.01.2012 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre il preveniente deve attenersi, nella prosecuzione in altezza del fabbricato, della scelta operata originariamente, di guisa che ogni parte dell’immobile risulti conforme al criterio di prevenzione adottato sulla base di esso, a ciò non può frapporre ostacoli il confinante (prevenuto) che, se a sua volta abbia costruito in aderenza fino all’altezza inizialmente raggiunta dal preveniente, ha diritto di sopraelevare soltanto sul confine, ovvero a distanza da questo (e, quindi, dalla eventuale sopraelevazione del preveniente) pari a quella globale minima di legge o dei regolamenti.
Mentre quando gli strumenti urbanistici locali fissino senza alternativa le distanze delle costruzioni dal confine, salva soltanto la possibilità di costruzione in aderenza, non può farsi luogo all’applicazione del principio di prevenzione, quando, al contrario, essi prevedono, riguardo ad edifici preesistenti, la facoltà di costruire in deroga alle prescrizioni contenute nel piano regolatore sulle distanze, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dall’art. 873 c.c., “con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.

Il ricorrente ha impugnato dinanzi al Tar per l’Emilia Romagna il provvedimento di annullamento d’ufficio della concessione edilizia rilasciata in suo favore dal Comune di Rimini per un intervento di ristrutturazione e sopraelevazione di edificio di sua proprietà. L’ annullamento è motivato sulla violazione dell’art. 873 cod. civ., in quanto la concessione sarebbe stata rilasciata sul falso presupposto che la distanza del fabbricato di proprietà del ricorrente da quello di altra proprietà fosse di ml 3,00, mentre, successivamente al rilascio, essa sarebbe risultata invece variabile da ml 2,63 a ml 2,70.
Il Tar ha respinto il ricorso, giudicando la concessione effettivamente contrastante con l’art. 873 cod. civ e con gli artt. 19 e 2.04 delle N.T.A. del piano regolatore generale del Comune, che ammettono interventi ampliativi purché nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile.
Propone appello l’interessato, denunciando l’erroneità della sentenza per violazione della normativa urbanistica generale e di zona, l’errata applicazione dell’art. 873 cod. civ e l’irrilevanza dell’errore incolpevole della rappresentazione della distanza negli elaborati grafici. Invero, come evidenziato nell’istruttoria del Responsabile del procedimento, la sopraelevazione per la costruzione del tetto sarebbe impostata sulla stessa quota dell’edificio preesistente e sarebbe conforme alle previsioni dell’art. 4.04, in quanto l’innalzamento era previsto su una parete già preesistente sul confine, e dell’art. 16 della n.t.a. del PRG, che consente la costruzione sul confine.
La costruzione non violerebbe, pertanto, l’art. 873, dovendosi armonizzare il principio della distanza con quello della prevenzione.
Si è costituito in resistenza il Comune di Rimini, evidenziando l’erroneità della rappresentazione grafica presentata dal ricorrente e la non pertinenza del richiamo all’art. 16 n.t.a., riguardante l’ipotesi di distanza degli edifici dai confini di proprietà, e chiedendo la conferma della sentenza di primo grado.
...
Gli art. 2.04 e 19 n.t.a. del piano regolatore generale, nello stabilire le distanze tra costruzioni, ammettono interventi ampliativi, anche tramite sopraelevazione, sugli edifici esistenti in contrasto con dette distanze, purché nel rispetto delle norme del codice civile.
In effetti, il provvedimento di annullamento d’ufficio, riguardante immobili preesistenti non rispettosi delle distanze introdotte dalla normativa urbanistica, è motivato sulla violazione dell’art. 873 c.c. in materia di distanza tra edifici .
Considera, tuttavia, il Collegio che la corretta applicazione dei principi civilistici in materia di distanza tra edifici, richiamati dalle norme tecniche di attuazione del piano regolatore, involga anche quello di prevenzione, data la circostanza (non contestata) che l’edificio che il ricorrente intende sopraelevare preesiste rispetto a quello del vicino, costruito ad una distanza inferiore a tre metri.
Detto principio, in caso di sopraelevazione, comporta che “mentre il preveniente deve attenersi, nella prosecuzione in altezza del fabbricato, della scelta operata originariamente, di guisa che ogni parte dell’immobile risulti conforme al criterio di prevenzione adottato sulla base di esso, a ciò non può frapporre ostacoli il confinante (prevenuto) che, se a sua volta abbia costruito in aderenza fino all’altezza inizialmente raggiunta dal preveniente, ha diritto di sopraelevare soltanto sul confine, ovvero a distanza da questo (e, quindi, dalla eventuale sopraelevazione del preveniente) pari a quella globale minima di legge o dei regolamenti” (Cass. civ. Sez. III, 27.08.1990, n. 8849).
La possibilità, nella specie, di fare applicazione di detto principio trova conferma nel consolidato orientamento per cui, mentre quando gli strumenti urbanistici locali fissino senza alternativa le distanze delle costruzioni dal confine, salva soltanto la possibilità di costruzione in aderenza, non può farsi luogo all’applicazione del principio di prevenzione, quando, al contrario, essi prevedono, riguardo ad edifici preesistenti, la facoltà di costruire in deroga alle prescrizioni contenute nel piano regolatore sulle distanze, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dall’art. 873 c.c., “con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (Cassazione civile, sez. II, 09.04.2010, n. 8465)” (Cons. St. Sez. IV, 09.05.2011, n. 2749; analogamente, Cons. St. Sez.IV, 31.03.2009, n. 1998).
Dalle suesposte considerazioni discende la fondatezza dell’appello in punto di erronea applicazione dell’art. 873 c.c., richiamato dalle n.t.a., non essendosi tenuto conto della prevenzione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.01.2012 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2011

EDILIZIA PRIVATADeterminazione della misura delle distanze fra nuove costruzioni in mancanza di norme nel regolamento edilizio comunale.
In materia di distanze tra nuove costruzioni, quando il regolamento edilizio comunale presenta una lacuna normativa, la disciplina applicabile è quella contenuta nell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942 che richiama l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, ed ha natura di norma integrativa dell'art. 873 c.c..
In difetto di norme regolamentari, quindi deve applicarsi la norma del d.m. del 1968, n. 1444 (art. 9), concernente la distanza minima di dieci metri tra edifici finestrati e, per dato logico, in assenza di tali edifici, di 5 metri dal confine in quanto se e' pur vero che l’art. 9 citato è nella sua formulazione rivolto ad indirizzare la pianificazione urbanistica (formazione degli strumenti urbanistici), è altrettanto vero che in assenza di norme locali esso è direttamente applicabile in sede di rilascio degli assensi edilizi (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6955 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, nel prescrivere, per gli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate, pone una prescrizione tassativa ed inderogabile.
L'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur riferendosi (comma 1 n. 2) alla realizzazione di "nuovi edifici", è applicabile anche agli interventi di sopraelevazione.
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Poiché l'art. 9, d.m. 1444/1968 è stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.

La giurisprudenza è costante nell'affermare che l'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, nel prescrivere, per gli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate, ponga una prescrizione tassativa ed inderogabile (Cassazione civile, sez. II, 22.04.2008, n. 10387; sez. II, 03.03.2008, n. 5741).
È ugualmente pacifico che l'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur riferendosi (comma 1 n. 2) alla realizzazione di "nuovi edifici", sia applicabile anche agli interventi di sopraelevazione (Corte costituzionale, 19.05.2011, n. 173; Cass. Civ., sez. II, 27.03.2001, n. 4413; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 10.12.2010, n. 7505).
Questi principi trovano piena applicazione nella fattispecie oggetto del presente giudizio non potendo condividersi quanto sostenuto dalla difesa dell'amministrazione resistente circa la assimilazione dei nuclei rurali in questione -azzonati dal p.r.g. in zona agricola E- alle zone A, e, quindi, l'esclusione dall'ambito di applicazione dell'art. 9, d.m. 1444/1968.
La norma, invero, non può che fare riferimento alla classificazione operata dallo strumento urbanistico comunale ai sensi dell'art. 2, d.m. 1444/1968 e non possono, quindi, invocarsi asserite caratteristiche obiettive della zona contrastanti con la qualificazione operata dal p.r.g.
Né trova applicazione la deroga prevista all'ultimo comma dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, concernendo solo i piani particolareggiati e le lottizzazioni convenzionate e non i permessi di costruire (cfr. Consiglio Stato sez. IV, 02.11.2010, n. 7731).
Per le ragioni esposte va quindi affermata l'illegittimità del permesso di costruire rilasciato dal Comune di Premana a favore dei sig.ri ... poiché prevede la realizzazione di una sopraelevazione senza che sia rispettata la distanza di 10 metri tra pareti finestrate (rispetto all'edificio di proprietà del ricorrente) prevista dall'art. 9, d.m. 1444/1999. Le altre censure proposte possono essere assorbite.
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Poiché l'art. 9, d.m. 1444/1968 è stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cassazione civile sez. un., 07.07.2011, n. 14953; Consiglio Stato, sez. IV, 02.11.2010, n. 7731) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.12.2011 n. 3248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disposizione di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, che impone la distanza minima di 10 metri tra pareti contrapposte di edifici antistanti, è norma volta a evitare, nell'interesse pubblico, la formazione di intercapedini nocive tra edifici, e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza.
Essa costituisce un limite alla stessa potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio, ed, a maggior ragione, preclude il rilascio di titoli edilizi per la realizzazione di interventi comportanti la violazione della distanza minima di dieci metri.
Pacifico che tale distanza debba essere osservata anche nel caso in cui una sola delle pareti contrapposte risulti finestrata, le caratteristiche del progetto assentito dal Comune di Recco agli odierni controinteressati non consentono di qualificare l’intervento di recupero del sottotetto come semplice ristrutturazione. Questa, infatti, ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, si contraddistingue dalla nuova edificazione per il fatto di operare su un territorio già trasformato, conservando la struttura fisica dell'edificazione preesistente (sia pure con la sovrapposizione di un insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente), ovvero sostituendola, ma, in questo caso, con ricostruzione rispettosa quantomeno della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.

Com’è noto, la disposizione di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, che impone la distanza minima di dieci metri tra pareti contrapposte di edifici antistanti, è norma volta a evitare, nell'interesse pubblico, la formazione di intercapedini nocive tra edifici, e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza (per tutte, da ultimo cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.11.2010, n. 7731).
Ciò posto, non è dubitabile che, con riferimento all’impugnazione di un titolo edilizio che consenta l’edificazione in spregio della distanza minima prescritta dal citato art. 9, riveste una posizione differenziata il proprietario dell’edificio frontistante la nuova costruzione illegittimamente autorizzata, quale soggetto direttamente coinvolto nella situazione di rischio igienico-sanitario che il D.M. n. 1444/1968 mira a scongiurare: se, pertanto, è innegabile la configurabilità della legittimazione ad agire in capo al ricorrente ..., proprietario dell’abitazione rispetto alla quale il nuovo corpo di fabbrica verrebbe a trovarsi a distanza inferiore a quella legale, le medesime conclusioni valgono per anche per le altre ricorrenti, condomine dello stabile di via Roma 250, e perciò –in quanto titolari di diritti sulle parti comuni, ivi compresi i muri perimetrali– portatrici di un interesse differenziato alla salvaguardia delle condizioni di salubrità dell’immobile (il rilievo conferma l’omogeneità delle posizioni soggettive fatte valere dai ricorrenti).
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L'art. 9 D.M. n. 1444/1968, lo si è detto, è norma di ordine pubblico sanitario preordinata a vietare le intercapedini dannose fra edifici. Per costante giurisprudenza, essa costituisce un limite alla stessa potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio (cfr. TAR Liguria, sez. I, 30.06.2009, n. 1621), ed, a maggior ragione, preclude il rilascio di titoli edilizi per la realizzazione di interventi comportanti la violazione della distanza minima di dieci metri.
Pacifico che tale distanza debba essere osservata anche nel caso in cui una sola delle pareti contrapposte risulti finestrata (cfr. Cons. Stato, sez. V, 18.02.2003, n. 871), le caratteristiche del progetto assentito dal Comune di Recco agli odierni controinteressati non consentono di qualificare l’intervento di recupero del sottotetto come semplice ristrutturazione. Questa, infatti, ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, si contraddistingue dalla nuova edificazione per il fatto di operare su un territorio già trasformato, conservando la struttura fisica dell'edificazione preesistente (sia pure con la sovrapposizione di un insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente), ovvero sostituendola, ma, in questo caso, con ricostruzione rispettosa quantomeno della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente (così Cons. Stato, sez. IV, 04.02.2011, n. 802).
Nella specie, di contro, è vero che il colmo del tetto della porzione oggetto di intervento, attualmente appoggiato in aderenza all’edificio adiacente, viene complessivamente innalzato dalla quota di 8,91 a quella di 10,34; ma è altrettanto vero che, per effetto della mutata tipologia e orientamento delle falde, l’altezza della parete frontistante l’edificio di proprietà dei ricorrenti sale di oltre tre metri, da quota 6,96 a quota 10,34, appunto (si vedano le tavole di progetto 2a e 2b), dando luogo ad una radicale modifica della sagoma e della volumetria del manufatto preesistente: modifica annoverabile alla tipologia della nuova costruzione anche ai sensi della legge regionale n. 24/2001 sul recupero dei sottotetti esistenti, perché ampiamente eccedente il modesto incremento delle altezze che –secondo la giurisprudenza della Sezione (TAR Liguria, sez. I, 19.12.2006, n. 1711), come richiamata dalla stessa circolare regionale invocata dai controinteressati– potrebbe risultare compatibile con la nozione di ristrutturazione e, conseguentemente, legittimare la sottrazione dell’intervento all’ambito operativo dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968 (del resto, basta esaminare le tavole progettuali di raffronto tra lo stato attuale e quello di progetto per apprezzare in tutta la sua evidenza come l’innalzamento della parete determini il formarsi di una nuova intercapedine con la parete frontistante) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 16.12.2011 n. 1858 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato.
Quanto alla diversa questione della distanza dal fabbricato lato est, che il Comune chiede di rispettare entro i 10 ml, la difesa di parte ricorrente ne deduce l’illegittimità, perché avrebbe considerato il vano scale come chiuso, invece che aperto, e dunque non rilevante ai fini del calcolo della distanza. Ma tale deduzione difensiva, a tacere di ogni questione inerente il calcolo delle distanze nelle operazioni di ricostruzione previa demolizione limitatamente all’aumento di cubatura del 20%, è comunque infondata, perché –così come prospettata da parte ricorrente- urta con il pacifico insegnamento giurisprudenziale secondo cui, “ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato” (Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2010 , n. 424; cfr. anche ex plurimis e tra le più recenti Corte appello Brescia, sez. II, 18.05.2009; Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539; cfr. anche Cassazione civile, sez. II, 03.02.2011, n. 2566, che considera computabile ai fini delle distanze il torrino cassa scale) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 23.11.2011 n. 832 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione. Deriva da quanto precede, pertanto, l'applicazione della normativa urbanistica vigente al momento della modifica e l'inoperatività del criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione.
L’istituto della prevenzione, secondo l'interpretazione consolidata del combinato disposto di cui agli art. 873, 875 e 877 c.c., muove dalla circostanza di fatto che, a partire dalla linea di confine, non siano intervenute costruzioni nelle due proprietà sicché, il soggetto che costruisce per primo, potendo scegliere se edificare sul confine o a distanza da esso, condiziona il proprietario del fondo limitrofo che, a propria volta, può scegliere di costruire in aderenza ovvero mantenendo la distanza legale minima prescritta: detta figura non può, quindi, trovare applicazione laddove sui due fondi finitimi, esistano già edifici, come è nel caso sottoposto all’esame del Collegio).
Ne discende, quindi, che il principio della prevenzione non è applicabile quando l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali. Proprio in quest'ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel caso in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine non può ritenersi consentita la costruzione in aderenza o in appoggio a meno che tale facoltà non sia consentita come alternativa all'obbligo di rispettare le suddette.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, condivisa dal Collegio, in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione. Deriva da quanto precede, pertanto, l'applicazione della normativa urbanistica vigente al momento della modifica e l'inoperatività del criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione (In applicazione del riferito principio la Suprema Corte ha accertato che la parte, nel trasformare in vano chiuso e coperto il terrazzo a livello posto al primo piano del suo fabbricato, a confine con il fondo della controparte, avrebbe dovuto comunque rispettare la distanza prescritta dallo strumento urbanistico vigente, anche se il nuovo manufatto era contenuto entro l'ingombro orizzontale del piano inferiore) (cfr. Cassazione civile, sez. II, 03.01.2011, n. 74).
E, infatti, l’istituto della prevenzione, secondo l'interpretazione consolidata del combinato disposto di cui agli art. 873, 875 e 877 c.c., muove dalla circostanza di fatto che, a partire dalla linea di confine, non siano intervenute costruzioni nelle due proprietà sicché, il soggetto che costruisce per primo, potendo scegliere se edificare sul confine o a distanza da esso, condiziona il proprietario del fondo limitrofo che, a propria volta, può scegliere di costruire in aderenza ovvero mantenendo la distanza legale minima prescritta: detta figura non può, quindi, trovare applicazione laddove sui due fondi finitimi, esistano già edifici, come è nel caso sottoposto all’esame del Collegio (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 24.12.2001, n. 6374).
Ne discende, quindi, che il principio della prevenzione non è applicabile quando l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali. Proprio in quest'ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel caso in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine non può ritenersi consentita la costruzione in aderenza o in appoggio a meno che tale facoltà non sia consentita come alternativa all'obbligo di rispettare le suddette distanze (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 13.01.2004, n. 46) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.11.2011 n. 1683 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASono soggetti alla disciplina delle distanze tutti gli interventi edilizi, ancorché definiti come “ristrutturazione”, che comportino l'ampliamento di edifici «all'esterno della sagoma esistente» [cfr. le «definizioni» di cui all'art. 27, comma 1, lett. e), n. 1), l.rg. n. 12 del 2005, che testualmente annovera tale fattispecie tra gli «interventi di nuova costruzione»].
Infatti la disposizione di cui all’art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur riferendosi (comma 1 n. 2) alla realizzazione di "nuovi edifici", è applicabile anche agli interventi di sopraelevazione e dunque anche alle ristrutturazioni, quando comportano un incremento dell'altezza del fabbricato.

Con il ricorso principale viene impugnata la delibera di approvazione del piano di recupero, interessante un immobile limitrofo alla proprietà di parte ricorrente.
...
Nel merito il ricorso merita accoglimento, essendo prima facie fondato il motivo n. 4 (indicato nel ricorso al punto 9), relativo alla violazione delle distanze.
Dalla ricostruzione dei fatti è evidente che la torretta è stata ampliata e sostituita con un nuovo piano, violando la distanza dai confini e dagli edifici.
...
Questa Sezione ha recentemente affermato che sono soggetti alla disciplina delle distanze tutti gli interventi edilizi, ancorché definiti come “ristrutturazione”, che comportino l'ampliamento di edifici «all'esterno della sagoma esistente» [cfr. le «definizioni» di cui all'art. 27, comma 1, lett. e), n. 1), l.rg. n. 12 del 2005, che testualmente annovera tale fattispecie tra gli «interventi di nuova costruzione»] (TAR Lombardia Milano, sez. II, 10.12.2010, n. 7505).
Infatti la disposizione di cui all’art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur riferendosi (comma 1, n. 2) alla realizzazione di "nuovi edifici", è applicabile anche agli interventi di sopraelevazione e dunque anche alle ristrutturazioni, quando comportano un incremento dell'altezza del fabbricato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.11.2011 n. 2654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art. 9 DM 1444/1968 è applicabile anche alle sopraelevazioni.
In tema di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche alle sopraelevazioni, l’adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell’art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 –che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti– comporta l’obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale.
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907 comma 3, c.c.
Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici. Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.

E’ da rigettarsi anche l’altro motivo di appello, con il quale si deduce la inapplicabilità alla fattispecie del richiamato art. 9, comma 2 D.M. 02.04.1968 n. 1444, perché esso sarebbe applicabile alle sole nuove costruzioni e non anche alle sopraelevazioni.
Infatti, è vero il contrario, secondo consolidata giurisprudenza (si veda, tra tante, in tal senso, Cassazione civile, sezione II, 27.03.2001, n.4413) che ritiene che la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art. 9 sia applicabile anche alle sopraelevazioni.
Sono infondati anche gli altri motivi, sostenuti in entrambi gli appelli, con i quali si sostiene la erroneità della sentenza impugnata perché:
a) il PRG vigente all’epoca dei fatti faceva unicamente riferimento ai limiti di altezza e non di distanze;
b) era ammessa la deroga di cui al secondo comma dell’art. 9 su menzionato;
c) la delibera comunale avrebbe natura di piano particolareggiato e non di mero studio urbanistico, travisando dalla intitolazione.
Infatti, ad opinione del Collegio nella suddetta materia deve ritenersi che in tema di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche alle sopraelevazioni, l’adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell’art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 –che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti– comporta l’obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale (così Cassazione civile, II, 27.03.2001, n. 4413 su richiamata; così anche Consiglio di Stato, IV, 12.06.2007, n. 3094).
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907 comma 3, c.c.
Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici. Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile (per tali principi consolidati, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2007, n. 3094) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.10.2011 n. 5759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 873 c.c. non contiene una definizione di costruzione, rilevante ai fini del calcolo delle distanze tra edifici; tale definizione è data dall’interpretazione giurisprudenziale, secondo cui vi rientra qualsiasi opera non totalmente interrata avente i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al suolo, compresi i balconi e le scale esterne in muratura.
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La concessione edilizia in sanatoria può introdurre o recepire prescrizioni tese ad imporre correttivi sull’esistente, qualora si tratti, come nel caso di specie, di integrazioni minime, di esigua entità, che consentano il ripristino della salvaguardia di diritti dei terzi.

L’art. 17 delle N.T.A. del piano regolatore approvato con deliberazione regionale n. 11302 del 12/12/1988 (richiamato da Grilli s.a.s. nella memoria difensiva; documento n. 4 depositato in giudizio dalla stessa) prevede che non vadano considerate, ai fini del calcolo delle distanze tra edifici e dai confini, “le sporgenze dei balconi che abbiano uno sbalzo inferiore a 2 metri e, sempre nel limite di 2 metri dal corpo di fabbrica principale, tutte le scale esterne sia principali che di servizio insieme agli aggetti delle coperture”. Analoga esclusione dal computo delle distanze è prevista dall’art. 7 delle N.T.A. del regolamento urbanistico, nel testo vigente al momento dell’emissione del gravato provvedimento.
La disposizione di cui al citato art. 17, tuttavia, è intitolata “distanze tra gli edifici”, assume a presupposto la distanza, maggiore di quella prevista dall’art. 873 c.c., dettata dalla normativa comunale, sviluppa la disciplina dell’art. 16 dedicata alla distanza degli edifici dai confini (disciplina che completa quanto statuito dall’art. 873 c.c., facente riferimento non alla distanza dal confine ma alla distanza tra costruzioni), e fa espressamente salve le disposizioni del codice civile, con la conseguenza che il criterio di esclusione da essa introdotto riguarda il computo delle distanze da rispettare nella costruzione degli edifici, e non l’apertura di vedute e balconi, la cui dislocazione è disciplinata dall’art. 905 c.c., ispirato a finalità del tutto diverse da quelle perseguite dall’art. 873 c.c. ed applicabile alle scale esterne o ai pianerottoli in cui sia possibile l’affaccio verso il fondo altrui (ex multis: Cons. Stato, IV, 21/02/2011, n. 1086; Cass., II, 15/10/2008, n. 25188).
Invero l’art. 873 c.c. non contiene una definizione di costruzione, rilevante ai fini del calcolo delle distanze tra edifici; tale definizione è data dall’interpretazione giurisprudenziale, secondo cui vi rientra qualsiasi opera non totalmente interrata avente i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al suolo (Cass., II, 19/10/2009, n. 22127), compresi i balconi (Cass., II, 25/03/2004, n. 5963) e le scale esterne in muratura (Cass., II, 30/01/2007, n. 1966).
In tale contesto l’art. 17 delle N.T.A. si limita a precisare la nozione di costruzione rilevante ai fini del computo delle distanze dell’edificio dal confine o tra edifici, escludendo da essa, con statuizione chiarificatrice, i balconi e le scale esterne, integrando così quanto sancito dall’art. 873 c.c. e facendo salva per il resto la normativa codicistica (compreso l’art. 905 c.c.).
Di ciò è apparsa consapevole la stessa parte controinteressata, in quanto, nella relazione annessa alla domanda di concessione in sanatoria, il tecnico incaricato ha precisato che “in corrispondenza del confine dovrà essere installato un parapetto frangisole di altezza tale da non consentire la vista diretta o laterale verso la proprietà confinante” (documento n. 3 depositato in giudizio da Grilli s.a.s.).
Il Comune di Monsummano, nel rilasciare il titolo richiesto, non ha espressamente recepito la prescrizione indicata nella relazione tecnica; tuttavia il gravato provvedimento, richiamando indistintamente la relazione tecnica medesima e tutti gli elaborati e documenti annessi all’istanza, non prescinde dalla dichiarazione scritta del tecnico incaricato in punto di necessità di installare un adeguato parapetto frangisole a tutela del diritto del confinante, dichiarazione che vale come persistente impegno del richiedente ad integrare l’opera in tal senso.
Invero la concessione edilizia in sanatoria può introdurre o recepire prescrizioni tese ad imporre correttivi sull’esistente, qualora si tratti, come nel caso di specie, di integrazioni minime, di esigua entità (TAR Liguria, I, 04/11/2004, n. 1515; idem, 11/07/2007, n. 1380; TAR Campania, Napoli, VIII, 30/10/2006, n. 9249), che consentano il ripristino della salvaguardia di diritti dei terzi
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 25.10.2011 n. 1541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche con riferimento alle luci; ne deriva che la dizione "pareti finestrate", che si ispiri all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 riguardo la distanza minima nelle sopraelevazioni di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, va riferita esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come "vedute", senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette "lucifere".
In tema di limitazioni legali della proprietà, l'art. 873 cod. civ., per evitare intercapedini dannose, prevede che le norme sulle distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come invece avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare. Questo modo di misurazione comporta anche che, in ragione della ratio che governa la specifica disciplina in esame, le norme sulle distanze legali si applicano soltanto agli edifici che si fronteggiano, mentre non hanno rilievo le distanze calcolate fra gli spigoli delle costruzioni prese in esame.

Osserva il Collegio che, in linea generale non ha motivo di discostarsi dall’orientamento della giurisprudenza riguardo la materia delle distanze nelle costruzioni e nel richiamare la disciplina legale dei "rapporti di vicinato" rileva che l'obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche con riferimento alle luci; ne deriva che la dizione "pareti finestrate", che si ispiri all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 riguardo la distanza minima nelle sopraelevazioni di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, va riferita esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come "vedute", senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette "lucifere" (cfr. Cass. civile, sez. II, 04.02.1999, n. 982).
In tema di limitazioni legali della proprietà, l'art. 873 cod. civ., per evitare intercapedini dannose, prevede che le norme sulle distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come invece avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare. Questo modo di misurazione comporta anche che, in ragione della ratio che governa la specifica disciplina in esame, le norme sulle distanze legali si applicano soltanto agli edifici che si fronteggiano, mentre non hanno rilievo le distanze calcolate fra gli spigoli delle costruzioni prese in esame (cfr. Cass. civile, sez. II, 07.04.2005, n. 7285; Corte Appello Salerno, 29.01.2007, n. 66) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 11.10.2011 n. 7896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici.
Va ribadito il carattere inderogabile delle disposizioni di legge sulle distanze tra gli edifici (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.10.2011 n. 35749).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Distanze - Pareti finestrate e edifici antistanti - Art. 9, D.M. n. 1444 del 1968 - Inderogabilità.
2. Distanze - Aggetti che estendano il volume edificatorio - Applicabilità normativa sulle distanze legali - Necessità.

1. La distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti prevista dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6909/2005; TAR Milano, sent. n. 1419/2011).
2. Gli aggetti presenti sull'edificio che estendano il volume edificatorio non possono considerarsi meri elementi decorativi: al contrario, essi costituiscono corpo di fabbrica e vanno, pertanto, conteggiati nel calcolo della distanza (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Gli aggetti (bow window) presenti sull’edificio in questione non possono considerarsi meri elementi decorativi; al contrario, estendendo il volume edificatorio, costituiscono corpo di fabbrica e vanno, pertanto, conteggiati nel calcolo della distanza.

Con la seconda censura il ricorrente lamenta la violazione della distanza di 10 metri dall’immobile di sua proprietà -situato sul mappale n. 4705, esterno al piano di lottizzazione– in quanto il p.d.l. ometterebbe di considerare la presenza in aggetto alla facciata nord-ovest dell’edificio, di un bow window.
Questa censura è fondata.
La tavola 3.1. non raffigura, invero, la presenza sulla facciata dell’edificio di proprietà del ricorrente, situato sul mappale n. 4705, di due bow window e non ne tiene, dunque, in considerazione nel conteggio della distanza prevista di 10 metri.
Per costante giurisprudenza, l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Gli aggetti presenti sull’edificio in questione non possono considerarsi meri elementi decorativi; al contrario, estendendo il volume edificatorio, costituiscono corpo di fabbrica e vanno, pertanto, conteggiati nel calcolo della distanza.
Le deliberazioni n. 24 del 28.05.2010 e n. 58 del 22.12.2009 sono pertanto illegittime nella parte in cui consentono l’edificazione ad una distanza inferiore ai 10 metri dall’immobile situato sul mappale 4705, per non avere tenuto conto degli aggetti presenti sulla facciata nord ovest dell’edificio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVa sottolineata la prevalenza della disciplina imperativa delle distanze di cui all'art. 9 del DM 1444/1968 che, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione, per cui le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai rapporti privati, anche ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori. Si tratta di una disposizione dettata in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
In merito poi alle modalità di calcolo di tale distanza, va ricordato come questa va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, e va computata in relazione a tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.

La censura proposta sottolinea come l’edifico progettato, che prevede la realizzazione di balconi per i tre piani previsti in elevazione, dell’ampiezza pari a ml. 1,5, non rispetterebbe le disposizioni sulle distanze tra edifici, posto che la distanza, nel caso di specie, tenuto conto dei balconi previsti e di quelli del frontistante fabbricato condominiale, sarebbe senz’altro inferiore a quella indicata in ml. 10.50, calcolata appunto senza tenere conto dei balconi. Ci sarebbe quindi violazione dell’art. 22 N.T.A. del P.R.G. che prevede che “il distacco minimo tra pareti che fronteggino edifici preesistenti deve essere pari ad almeno l’altezza dell’edificio da costruire e, comunque, mai inferiore a ml. 10”, dove il costruendo fabbricato è posto ad una distanza di ml. 10.50 rispetto alla parete del fabbricato antistante il condominio “Verde Sud”.
Il giudice di prime cure, evidenziando come l’art. 5, lett. A), IV comma della NTA, preveda che dal calcolo delle distanze “restano esclusi gli sporti dalle pareti quali cornicioni, balconi, pensiline, ecc.”, ha escluso l’illegittimità della previsione ed ha ritenuto che non fosse applicabile la normativa nazionale sui distacchi tra edifici, in quanto questa, avendo la funzione di evitare la produzione di intercapedini da dannose, riguarda espressamente le “pareti finestrate”.
Va tuttavia rimarcato come la giurisprudenza di questa Sezione (Consiglio di Stato, sez. IV, 02.11.2010, n. 7731) abbia già osservato come la questione debba essere diversamente valutata. In primo luogo, va sottolineata la prevalenza della disciplina imperativa delle distanze di cui all'art. 9 che, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione (Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909), per cui le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai rapporti privati, anche ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori. Si tratta di una disposizione dettata in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
In merito poi alle modalità di calcolo di tale distanza, va ricordato come questa va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, e va computata in relazione a tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n. 268).
Nel caso in specie, l’ampiezza dei balconi, pari a ml. 1,50, è tale da non poter essere inclusa nel concetto di modeste dimensioni, stante la loro funzione di estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.09.2011 n. 4968 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'atto edificatorio del vicino in violazione delle norme, del codice o regolamentari comunali, sulle distanze, oltre a ledere gli interessi pubblici sottesi alla disciplina concernente l'assetto del territorio, pone in essere un'attività edilizia eccedente quanto è previsto, nei rapporti tra confinanti, dalla normativa conformativa del diritto di proprietà, sicché il privato che, nei confronti dell'edificante illegittimo, lamenti la lesione della sua sfera proprietaria, ha diritto, ai sensi dell'art. 872 c.c., comma 2, ad una doppia tutela: all'eliminazione dello stato di cose che si è illegittimamente creato e al risarcimento del danno patito medio tempore.
L'inosservanza delle distanze legali nelle costruzioni sui fondi finitimi costituisce per il vicino una limitazione al godimento del bene, e quindi all'esercizio di una delle facoltà che si riconnettono al diritto di proprietà: per questo il danno è in re ipsa, perché l'azione risarcitoria è volta a porre rimedio all'imposizione di una servitù di fatto e alla conseguente diminuzione di valore del fondo subita dal proprietario in conseguenza dell'edificazione illegittima del vicino, per il periodo di tempo anteriore all'eliminazione dell'abuso.
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Non può essere accolta l'ulteriore domanda di risarcimento dei danni esistenziali e morali lamentati genericamente dalla istante “in quanto trattasi di domanda che ... non risulta assistita dalla prova concreta del danno non patrimoniale paventato, e, neppure, da un principio di prova in ordine ad eventuali ripercussioni negative .... sulle consuetudini di vita degli istanti.
Infatti, come ribadito anche di recente dal Consiglio di Stato, la pretesa risarcitoria avente ad oggetto il danno non patrimoniale -ove non si sia verificato un mero disagio o fastidio, inidoneo, ex se, a fondare una domanda di risarcimento del danno- esige una allegazione di elementi concreti e specifici da cui desumere, secondo un criterio di valutazione oggettiva, l'esistenza e l'entità del pregiudizio subito, il quale non può essere ritenuto sussistente in re ipsa, né è consentito l'automatico ricorso alla liquidazione equitativa”.
Secondo altro condivisibile arresto giurisprudenziale, “la sussistenza di un danno non patrimoniale risarcibile di cui all'art. 2059 c.c., difatti, deve essere dimostrata, sempre secondo la Suprema Corte, anche quando derivi dalla lesione di diritti inviolabili della persona, dal momento che costituisce "danno conseguenza", e non "danno evento"; né può sostenersi fondatamente che "nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo".

La giurisprudenza richiamata a sostegno delle ragioni introdotte in giudizio (Cassazione civile, sez. II, 07.05.2010, n. 11196), limitano alla violazione delle distanze legali l’ipotesi della configurabilità del danno in re ipsa.
In maniera più dettagliata si esprime altra decisione della Suprema Corte (cfr. Cassazione civile, sez. II, 16.12.2010, n. 25475), secondo la quale “in materia di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria, e, determinando la suddetta violazione un asservimento di fatto del fondo, il danno deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria".
E' vero che nella giurisprudenza di questa Corte è presente anche un indirizzo di segno diverso, a termini del quale la violazione delle norme codicistiche sulle distanze legali (ovvero delle norme locali richiamate dal codice), mentre legittima sempre la condanna alla riduzione in pristino, non costituisce di per sé fonte di danno risarcibile, essendo al riguardo necessario che chi agisca per la sua liquidazione deduca e dimostri l'esistenza, oltre che la misura, del pregiudizio effettivamente realizzatosi (Cass., Sez. 2^, 23.03.1982, n. 1838; Cass., Sez. 2^, Cass., Sez. 2^, 02.08.1990, n. 7747; Cass., Sez. 2^, 24.09.2009, n. 20608).
Quest'ultimo orientamento non è condiviso dal Collegio.
L'atto edificatorio del vicino in violazione delle norme, del codice o regolamentari comunali, sulle distanze, oltre a ledere gli interessi pubblici sottesi alla disciplina concernente l'assetto del territorio, pone in essere un'attività edilizia eccedente quanto è previsto, nei rapporti tra confinanti, dalla normativa conformativa del diritto di proprietà, sicché il privato che, nei confronti dell'edificante illegittimo, lamenti la lesione della sua sfera proprietaria, ha diritto, ai sensi dell'art. 872 c.c., comma 2, ad una doppia tutela: all'eliminazione dello stato di cose che si è illegittimamente creato e al risarcimento del danno patito medio tempore.
L'inosservanza delle distanze legali nelle costruzioni sui fondi finitimi costituisce per il vicino una limitazione al godimento del bene, e quindi all'esercizio di una delle facoltà che si riconnettono al diritto di proprietà: per questo il danno è in re ipsa, perché l'azione risarcitoria è volta a porre rimedio all'imposizione di una servitù di fatto e alla conseguente diminuzione di valore del fondo subita dal proprietario in conseguenza dell'edificazione illegittima del vicino, per il periodo di tempo anteriore all'eliminazione dell'abuso.
Il Collegio intende dare continuità al prevalente indirizzo -non soltanto risalente nella giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. 2^, 27.02.1946, n. 201; Cass., Sez. 2^, 08.05.1946, n. 551; Cass., Sez. Un., 24.06.1961, n. 1520; Cass., Sez. 2^, 12.02.1970, n. 341), ma anche ribadito negli arresti degli ultimi lustri (Cass., Sez. 2^, 15.12.1994, n. 10775; Cass., Sez. 2^, 25.09.1999, n. 10600; Cass., Sez. 2^, 07.03.2002, n. 3341; Cass., Sez. 2^, 27.03.2008, n. 7972; Cass., Sez. 2^, 07.05.2010, n. 11196)- che, in caso di violazione delle norme sulle distanze, concede al proprietario, nei confronti dell'edificante illegittimo, l'azione risarcitoria per il danno determinatosi prima della riduzione in pristino, senza la necessità di una specifica attività probatoria.
Questa soluzione non determina un eccesso di tutela per il proprietario od uno snaturamento del sistema della responsabilità civile, che, com'è noto, ammette la risarcibilità del solo danno conseguenza (cfr., con riguardo al danno non patrimoniale, Cass., Sez. Un., 11.11.2008, n. 26972).
Discorrere di danno in re ipsa, infatti, non significa riconoscere che il risarcimento venga accordato per il solo fatto del comportamento lesivo o si risolva in una pena privata nei confronti di chi violi l'altrui diritto di proprietà, in contrasto, tra l'altro, con la tavola dei valori espressa dalla Carta costituzionale, che riconosce e garantisce la proprietà privata, ma non la inquadra tra i diritti fondamentali della persona umana, per i quali soltanto è predicabile una connotazione di inviolabilità, di incondizionatezza e di primarietà.
Significa, piuttosto, ammettere che, nel caso di violazione di una norma relativa alle distanze tra edifici, il danno che il proprietario subisce (danno conseguenza e non danno evento) è l'effetto, certo ed indiscutibile, dell'abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo, e quindi della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima.
Il principio della immancabilità del risarcimento del danno non vale invece là dove si tratti di violazioni di disposizioni non integrative di quelle sulle distanze: in tale evenienza, mancando un asservimento di fatto del fondo contiguo, la prova del danno è richiesta ed il proprietario è tenuto a fornire una dimostrazione precisa dell'esistenza del danno, sia in ordine alla sua potenziale esistenza che alla sua entità obiettiva, in termini di amenità, comodità, tranquillità ed altro (tra le tante, Cass., Sez. 2^, 05.06.1998, n. 5514; Cass., Sez. 2^, 12.06.2001, n. 7909; Cass., Sez. 2^, 07.03.2002, n. 3341, cit.).
Prendendo spunto da detta ultima affermazione, il Collegio ritiene che la sopraelevazione, oggetto della contestazione in esame, non necessariamente costituisca un nocumento (o un apprezzabile pregiudizio) per il fondo limitrofo, dovendosi dimostrare l’effettività del danno, quale, ad esempio, la limitazione del panorama o degli altri connotati del godimento immobiliare.
Basterebbe pensare all’immobile sovrastante quello abusivo o realizzato per effetto di titolo ritenuto, come nel caso in esame, illegittimo, di tal guisa che l’eventuale sopraelevazione di quest’ultimo non abbia affatto impedito al primo la vista e le comodità connesse all’uso del bene di proprietà.
Da qui la necessità della prova del pregiudizio, mancando la quale, non è possibile accedere ad alcun risarcimento e, comunque, a graduarlo.
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Analogamente, non può essere accolta l'ulteriore domanda di risarcimento dei danni esistenziali e morali lamentati genericamente dalla istante (sempre nella memoria del 07.04.2011), “in quanto trattasi di domanda che ... non risulta assistita dalla prova concreta del danno non patrimoniale paventato, e, neppure, da un principio di prova in ordine ad eventuali ripercussioni negative .... sulle consuetudini di vita degli istanti.
Infatti, come ribadito anche di recente dal Consiglio di Stato (cfr. decisione Sez. VI, 18.03.2011 n. 1672), la pretesa risarcitoria avente ad oggetto il danno non patrimoniale -ove non si sia verificato un mero disagio o fastidio, inidoneo, ex se, a fondare una domanda di risarcimento del danno- esige una allegazione di elementi concreti e specifici da cui desumere, secondo un criterio di valutazione oggettiva, l'esistenza e l'entità del pregiudizio subito, il quale non può essere ritenuto sussistente in re ipsa, né è consentito l'automatico ricorso alla liquidazione equitativa
” (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 30.03.2011, n. 854).
Secondo altro condivisibile arresto giurisprudenziale (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia Trieste, sez. I, 26.05.2011, n. 260), “la sussistenza di un danno non patrimoniale risarcibile di cui all'art. 2059 c.c., difatti, deve essere dimostrata, sempre secondo la Suprema Corte, anche quando derivi dalla lesione di diritti inviolabili della persona, dal momento che costituisce "danno conseguenza", e non "danno evento"; né può sostenersi fondatamente che "nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo" (Cass. Civ., SS.UU, sentenza n. 26972 dell'11.11.2008).
Conclusivamente, la genericità della richiesta e la mancata dimostrazione del danno ricevuto determinano il rigetto della domanda risarcitoria.
E’ possibile accedere, invece, alla richiesta di cui all’art. 26, comma 2, c.p.a., articolata in udienza pubblica, posto che la stessa può anche essere delibata d’ufficio e, pertanto, non richiede gli adempimenti ritenuti necessari sia per la corretta introduzione della domanda che per la dimostrazione del danno ricevuto.
Invero, il precedente giudicato formatosi di seguito alla sentenza n. 2210/2001 di questo stesso Tribunale, in mancanza di altri apporti giustificativi e di una motivazione “forte”, tali, cioè, da consentire la riedizione del medesimo provvedimento ritenuto dalla detta decisione in precedenza illegittimo, ha reso, così come richiesto dalla invocata norma del codice, manifeste le ragioni di parte ricorrente (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 01.08.2011 n. 2044 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra le costruzioni – Tutela della salubrità degli edifici – Sussiste – Tutela della riservatezza – Non sussiste.
La distanza tra costruzioni, prevista dall'art. 9 del DM 02.04.1968, n. 1444, è volta non alla tutela della riservatezza, ma alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico sanitarie ed è dunque tassativa ed inderogabile (a differenza delle distanze dal confine) per via di private pattuizioni.
Conseguentemente, essa deve operare, per un verso, anche nel caso in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, per l'altro, anche nel caso in cui la nuova opera sia di altezza inferiore rispetto alle preesistenti vedute o parzialmente nascosta dal muretto e dalla recinzione di confine.
L'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della salubrità dell'edificato e non va confuso con l'interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.07.2011 n. 4374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl muro di contenimento tra due aree poste a livello differente va considerato costruzione, se il dislivello deriva dall'opera dell'uomo o è stato artificialmente accentuato; in quanto costruzione, esso è soggetto all'osservanza delle norme sulle distanze.
La disciplina delle distanze ex D.M. n. 1444/1968 è applicabile anche ai beni e alle opere pubblici, secondo quanto affermato (tra l'altro con specifico riferimento alle distanze tra pareti finestrate ex art. 9) dal TAR Liguria, sez. I, nella recente sentenza 26.03.2010 n. 1235 che richiama la decisione del Consiglio di Stato, sez. V, 03.11.2000 n. 5907; e d'altra parte, tenuto conto che la norma citata è volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario ed è perciò ineludibile non si vede perché le opere pubbliche dovrebbero sottrarsi alla sua osservanza.

In proposito si osserva quanto segue:
- come evidenziato al precedente punto 3.2), la realizzazione della nuova strada è prevista ad una quota superiore di oltre 3 metri rispetto al piano terreno dell’abitazione dei ricorrenti; ciò presuppone la realizzazione di un rilevato artificiale e di muri di contenimento, come risulta chiaro dalla planimetria doc. 20 depositata dal Comune resistente il 27/04/2011;
- la giurisprudenza è orientata a ritenere che il muro di contenimento tra due aree poste a livello differente va considerato costruzione, se il dislivello deriva dall'opera dell'uomo o è stato artificialmente accentuato, come nel caso in esame; in quanto costruzione, esso è soggetto all'osservanza delle norme sulle distanze (cfr. Cass. Civile, sez. II, 22.01.2010 n. 1217; TAR Marche 10.02.2009 n. 18);
- contrariamente a quanto sostenuto dalle controparti la disciplina delle distanze ex D.M. n. 1444/1968 è applicabile anche ai beni e alle opere pubblici, secondo quanto affermato (tra l'altro con specifico riferimento alle distanze tra pareti finestrate ex art. 9) dal TAR Liguria, sez. I, nella recente sentenza 26.03.2010 n. 1235 che richiama (oltre a precedenti del medesimo Tribunale) la decisione del Consiglio di Stato, sez. V, 03.11.2000 n. 5907; e d'altra parte, tenuto conto che la norma citata è volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario ed è perciò ineludibile (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 02.11.2010 n. 7731 e 05.12.2005 n. 6909; TAR Toscana, sez. III, 04.12.2001 n. 1734) non si vede perché le opere pubbliche dovrebbero sottrarsi alla sua osservanza;
- perché debba trovare applicazione il citato art. 9 in tema di "pareti finestrate" è sufficiente che sia tale anche una sola delle due pareti frontistanti (TAR Milano, sez. IV, 19.05.2011 n. 1282): e questo è proprio il caso di cui controverte, in cui la norma in questione risulta dunque violata (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 20.07.2011 n. 1251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI limiti di distanza tra i fabbricati di cui al D.M. 1444/1968, una volta recepiti nelle norme tecniche di attuazione dei singoli piani regolatori comunali, assumono “altresì” veste regolamentare e natura integrativa del codice civile, ex art. 873 c.c., in quanto regolatrici (anche) dei rapporti tra vicini, isolatamente considerati in funzione degli interessi privati dei proprietari dei fondi finitimi.
E' evidente come la disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel disporre che “alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano”, intenda significare che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali -per l’appunto- il D.M. 1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono ammesse, in deroga, “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M. 1444/1968), cioè soltanto se previste –a loro volta- in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario (cioè, che contempli la contestuale edificazione degli edifici antistanti) di determinate zone del territorio.
In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante, in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di natura urbanistica, superiore a quello individuale dei proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879 comma 2 c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i regolamenti” di cui all’art. 879 comma 2 c.c.), che si applica in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui limiti di distanza tra i fabbricati ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, costituisce un principio assoluto ed inderogabile che prevale –ad un tempo- sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata, sia, infine, sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che, per loro natura, non sono nella disponibilità delle parti. Esso, inoltre, è applicabile anche quando tra le pareti finestrate (o tra una parete finestrata e una non finestrata) si interponga una via pubblica.
In conclusione, in presenza di pareti finestrate poste a confine con la via pubblica, non è mai ammissibile la deroga prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le distanze tra edifici.

I
l D.M. 02.04.1968, emanato in forza dell’art. 41-quinquies commi 8 e 9 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, detta “limiti inderogabili” di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, da osservarsi dai comuni in sede di formazione degli strumenti urbanistici (così anche l’art. 1 del D.M. 1444/1968).
Si tratta dunque –sicuramente- di norme così dette di azione, in quanto volte a disciplinare il potere pianificatorio dei comuni.
Ovviamente, i limiti di distanza tra i fabbricati di cui al D.M. 1444/1968, una volta recepiti nelle norme tecniche di attuazione dei singoli piani regolatori comunali, assumono “altresì” veste regolamentare e natura integrativa del codice civile, ex art. 873 c.c., in quanto regolatrici (anche) dei rapporti tra vicini, isolatamente considerati in funzione degli interessi privati dei proprietari dei fondi finitimi.
Stando così le cose, è evidente come la disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel disporre che “alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano”, intenda significare che, in presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali -per l’appunto- il D.M. 1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono ammesse, in deroga, “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M. 1444/1968), cioè soltanto se previste –a loro volta- in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario (cioè, che contempli la contestuale edificazione degli edifici antistanti) di determinate zone del territorio (Cons. di St., IV, 12.03.2007, n. 1206).
In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante, in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di natura urbanistica, superiore a quello individuale dei proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879 comma 2 c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i regolamenti” di cui all’art. 879 comma 2 c.c.), che si applica in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui limiti di distanza tra i fabbricati ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, costituisce un principio assoluto ed inderogabile (così l’art. 41-quinquies comma 8 L.U. –cfr. TAR Liguria, I, 12.02.2004, n. 145), che prevale –ad un tempo- sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (C. Cost., 16.6.2005, n. 232), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni (Cons. di St., IV, 2.11.2010, n. 7731), in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata, sia, infine, sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che, per loro natura, non sono nella disponibilità delle parti.
Esso, inoltre, è applicabile anche quando tra le pareti finestrate (o tra una parete finestrata e una non finestrata) si interponga una via pubblica.
La fattispecie è specificamente regolata dal comma 2 del medesimo art. 9, che prescrive in questo caso distacchi addirittura maggiorati in relazione alla larghezza della strada, con la precisazione che l'esclusione della viabilità a fondo cieco prevista nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e non alla distanza minima assoluta di 10 metri, che rimane inderogabile.
In conclusione, in presenza di pareti finestrate poste a confine con la via pubblica, non è mai ammissibile la deroga prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le distanze tra edifici (così TAR Lombardia-Brescia, I, 03.07.2008, n. 788; nello stesso senso, più recentemente, Tribunale di Teramo, 10.01.2011, n. 4)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 20.07.2011 n. 1148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pareti finestrate, distanze legali da interpretare.
La Corte di legittimità ritorna sulle insidiose problematiche delle distanze legali e sui criteri interpretativi al riguardo delle norme regolamentari locali.
Ai fini dell'osservanza delle distanze legali, ove sia applicabile il d.m. n. 1444/1968 in quanto recepito negli strumenti urbanistici, l'obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, mentre l'altra risulti parzialmente composta da un avancorpo cieco di altezza inferiore all'edificio finestrato, atteso che la norma in esame è finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata e non, quindi, a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza.
In altri termini, il citato d.m. n. 1444 del 1968, che, in applicazione dell'art. 41-quinquies della legge urbanistica, come modificato dall'art. 17 della cosiddetta legge ponte, detta i limiti di densità, altezza, distanza tra i fabbricati, pone all'art. 9, secondo comma, una prescrizione tassativa ed inderogabile, e cioè che negli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona "A" debba essere rispettata in tutti i casi una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra.
E’ stato, in proposito, precisato che l'indicato art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 in materia di distanze fra fabbricati va interpretato nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente per l'applicazione di tale distanza che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta.
Infine la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che la distanza minima di dieci metri tra le costruzioni stabilita dall'articolo 9, n. 2, del d.m. 02.04.1968 n. 1444, traente la sua efficacia precettiva inderogabile dall'articolo 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150 (come modificato dall'articolo 17 della legge 06.08.1967 n. 765) -"ratione temporis" applicabile-, deve osservarsi in modo assoluto e che, pertanto essa va applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle pareti di questi, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento.
Per utili riferimenti sul principio essenziale affermato dalla S.C. cfr. Cass. n. 1984 del 1999; Cass. n. 1108 del 2001 e, da ultimo, Cass. n. 20574 del 2007 (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile, sentenza 20.06.2011 n. 13547).

EDILIZIA PRIVATASussiste il carattere di assolutezza e di inderogabilità delle prescrizioni dettate con il D.M. 02.04.1968 n. 1444, in tema di distanze minime tra i fabbricati. Le stesse hanno carattere pubblicistico e inderogabile e vincolano anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici; in particolare, quella che prescrive la distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti ha carattere di assolutezza ed inderogabilità e risulta dalla citata fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli organi urbanistici locali.
La regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dalla suddetta norma vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori.
La suindicata inderogabilità da parte degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi comunali della normativa del D.M. n. 1444/1968, comporta che l’eventuale introduzione, in via tacita o espressa, da parte della normativa edilizia comunale di deroghe alla normativa nazionale sulle distanze minima, risulterebbe del tutto illegittima e, come tale, la norma comunale andrebbe disapplicata.

In punto di diritto il Collegio evidenzia il carattere di assolutezza e di inderogabilità delle prescrizioni dettate con il D.M. 02.04.1968 n. 1444, in tema di distanze minime tra i fabbricati.
Le stesse hanno carattere pubblicistico e inderogabile e vincolano anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici; in particolare, quella che prescrive la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti ha carattere di assolutezza ed inderogabilità e risulta dalla citata fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli organi urbanistici locali (TAR Toscana Firenze, sez. III, 22.06.2004, n. 2289), rendendo illegittima ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo, essendo consentita alla p.a. solo la fissazione di distanze superiori (TAR Abruzzo Pescara, 09.01.2006, n. 11).
Tale inderogabilità è stata reiteratamente affermata in giurisprudenza anche in recentissime decisioni che hanno puntualizzato come il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all'art. 872 c.c.; la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dalla suddetta norma vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Lombardia - Milano, Sez. IV - sentenza 19.05.2011, n. 1282)
L’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione di un piano regolatore; la prescritta distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, infatti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario e della sicurezza, per cui il suo disposto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine stessa (Consiglio Stato, Sez. IV - sentenza 09.05.2011, n. 2749).
A questo punto viene in rilievo la questione dell’applicabilità della normativa sulle distanze minime dell’indicato art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 all’intervento in esame.
L’articolo in questione prevede la necessità del rispetto della distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti solo per i “nuovi edifici”.
Tale necessità non ricorre invece per gli interventi di operazioni di risanamento conservativo o ristrutturazione, ove è sufficiente che le distanze tra gli edifici non siano inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
I
l Collegio osserva che la suindicata inderogabilità da parte degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi comunali della normativa del D.M. n. 1444/1968, comporta che l’eventuale introduzione, in via tacita o espressa, da parte della normativa edilizia comunale di deroghe alla normativa nazionale sulle distanze minima, risulterebbe del tutto illegittima e, come tale, la norma comunale andrebbe disapplicata (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 15.06.2011 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli accessori e le pertinenze che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell'immobile in maniera tale da ampliarne la superficie o la funzionalità pratico-economica oltre alla superficie e alla funzionalità, assumono il carattere di costruzione anche sotto il profilo delle distanze tra edifici che devono essere calcolate non dall'edificio principale bensì dal nuovo complesso edilizio unitario.
Ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dagli artt. 873 e seguenti c.c. e delle disposizioni legislative e regolamentari aventi carattere integrativo, gli accessori e le pertinenze che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell'immobile, in guisa da ampliarne la superficie o la funzionalità pratico-economica, costituiscono con l'immobile principale una costruzione unitaria, che va considerata nel suo insieme indipendentemente dallo sviluppo orizzontale o verticale dei singoli corpi di fabbrica di cui si compone, e senza distinguere tra immobile principale e accessori o pertinenze aventi le ridette caratteristiche, di guisa che le distanze devono essere calcolate non dalla parete dell'edificio maggiore, ma da quella che risulti più prossima alla proprietà antagonista (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza n. 4277/2011 - link a www.pausania.it).

EDILIZIA PRIVATAIl balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza minima di mt. 10,00 tra fabbricati solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.
Le norme di cui al D.M. 1444/1968, emanate in forza dell’art. 17 della legge n. 765/1967, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.

La giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell’art. 9 del D.M. 1444/1968, che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381; TAR Lazio, 31.03.2010 n. 5319; TAR Liguria, Genova, sez. I, 10.07.2009 n. 1736).
E tale norma nel caso di specie non è rinvenibile.
Vi è, peraltro, una norma (art. 3, comma 6, delle N.T.A. del P.R.G.) che detta la definizione di “Distanza dai confini”, stabilendo che “è la distanza fra le proiezioni orizzontali dei fabbricati per la parte fuori terra e i confini escluse le terrazze e gli aggetti di carattere ornamentale e strutturale con sporgenze inferiori o uguali a mt. 2,00”.
Dunque, se la terrazza non supera i due metri di sporgenza non viene computata ai fini delle distanze dai confini.
E tale disposizione, ancorché non dettata ai fini del calcolo della distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, di cui al ripetuto art. 9 del D.M. 1444/1968, in assenza di una norma di piano ad hoc, può comunque fungere da utile parametro di riferimento per il computo della distanza in questione.
Ne consegue che nella fattispecie in esame le terrazze non sono computabili ai fini delle distanze fra edifici, in quanto hanno una sporgenza di ml. 1,76 e sono completamente aperte.
Le considerazioni sin qui svolte sono assorbenti di ogni altra e determinano la reiezione del ricorso principale, senza che occorra verificare la portata delle norme tecniche di attuazione operanti nel caso di specie, in quanto, per consolidata giurisprudenza, le norme di cui al ripetuto D.M. 1444/1968, emanate in forza dell’art. 17 della legge n. 765/1967, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2007 n. 3094) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 09.06.2011 n. 993 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Distanze - Pareti finestrate e edifici antistanti - D.M. n. 1444 del 1968 - Inderogabilità in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici comunali - Conseguenze.
2. Distanze - Pareti finestrate - Nozione - Art. 9 D.M. n. 1444 del 1968.

1. Il D.M. 02.04.1968, n. 1444, ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all'art. 872 c.c.: la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori.
2. Con riferimento alla nozione di pareti finestrate, per pareti finestrate, ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di vedute, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) (tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.06.2011 n. 1419 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza minima, decide lo Stato. I comuni non possono diminuire i limiti tra gli edifici. Il Tar Lombardia chiarisce i rapporti tra normativa nazionale e locale in tema di costruzioni.
I regolamenti comunali non possono diminuire la distanza minima tra edifici richiesta dalla disciplina di livello nazionale. I dieci metri previsti dalla normativa edilizia statale come limite minimo da rispettare per le nuove costruzioni da erigere a fronte delle pareti finestrate non possono quindi essere derogati dagli enti locali.
Lo ha stabilito di recente il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la sentenza 07.06.2011 n. 1419, nella quale i giudici amministrativi hanno chiarito i rapporti tra normativa statale e locale in materia di distanze tra le costruzioni.
La sentenza del Tar Lombardia. Nel caso in questione alcuni privati avevano impugnato la concessione edilizia rilasciata da un comune lombardo ai rispettivi vicini di casa per la costruzione di un'autorimessa ritenuta troppo vicina al proprio fabbricato.
Il provvedimento di autorizzazione comunale era infatti stato adottato sulla base di quanto previsto dal regolamento edilizio locale, che ammetteva l'erezione di nuovi manufatti con l'osservanza della distanza minima di soli cinque metri tra una costruzione e l'altra. I ricorrenti avevano quindi chiesto l'annullamento della concessione edilizia, segnalando la violazione dell'art. 9 del decreto ministeriale n. 1444/1968, che prevede il rispetto di una distanza minima di 10 metri tra nuovo e vecchio edificio.
La quarta sezione del Tribunale amministrativo regionale lombardo, richiamando un proprio recentissimo precedente (sentenza n. 1282/2011), ha quindi avuto modo di chiarire che la misura minima tra le costruzioni prevista dall'art. 9 del dm n. 1444/1968 ha valore cogente e non derogabile nei confronti delle pubbliche amministrazioni, nemmeno in sede di formazione e revisione dei propri strumenti urbanistici, con la conseguenza che eventuali norme locali in contrasto con la disciplina regolamentare nazionale devono ritenersi illegittime e, come tali, vanno disapplicate, potendo i comuni disporre soltanto la fissazione di distanze minime in misura superiore a quella prevista nella citata disposizione.
Il Tar ha quindi fornito anche una lettura estensiva dell'espressione «pareti finestrate» di cui all'art. 9, comma 2, del predetto decreto ministeriale, chiarendo che con tale termine devono intendersi non soltanto le pareti munite di vedute ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi e finestre di ogni tipo.
Le distanze minime tra gli edifici. Il tema delle distanze minime da rispettare nella costruzione di nuovi edifici appassiona spesso gli operatori del diritto e i tecnici, affollando di conseguenza le aule dei tribunali civili e amministrativi di cause, c.d. di vicinato, nelle quali si litiga appunto per fare accertare il diritto a che il vicino costruisca a una distanza maggiore dal proprio confine.
Nel codice civile è contenuto un articolo, il numero 873, che prescrive una distanza minima di tre metri fra le costruzioni, a meno che le stesse non siano unite o aderenti (fattispecie che presuppone la mancanza nelle pareti di luci o vedute: si veda il relativo approfondimento). La norma in questione, proprio per la sua collocazione, riguarda però i rapporti tra i privati e rileva ai fini del risarcimento del danno da riconoscere in favore del soggetto vittima del comportamento illegittimo del vicino.
A livello edilizio e urbanistico, invece, la norma di riferimento per le distanze tra edifici è l'art. 9 del dm 02.04.1968, n. 1444, emanato in esecuzione dell'art. 41-quinquies della legge urbanistica n. 1150/1942, come modificato dalla successiva legge n. 765/1967, che come detto prescrive la distanza minima inderogabile di 10 metri tra pareti finestrate o pareti di edifici antistanti.
La disposizione in questione impone infatti determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o nella revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante nei rapporti tra i privati. Pertanto, come evidenziato dalla Corte di cassazione (sezione seconda, sentenza n. 3771/2001), l'eventuale previsione nei regolamenti urbanistici locali di distanze inferiori a quelle prescritte dal predetto art. 9 è da considerarsi illegittima e deve essere disapplicata.
Tuttavia la previsione del dm n. 1444/1968 non può considerarsi immediatamente applicabile nei rapporti tra i privati, almeno fino a che non la misura della distanza minima tra edifici non sia stata inserita negli stessi strumenti urbanistici adottati o modificati a livello locale.
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Almeno tre metri tra finestre e fabbricati.
Le distanze tra le luci e le vedute (con tali termini si intendono, in buona sostanza, i balconi e le finestre di qualsiasi dimensione e forma) e i fabbricati, secondo quanto previsto dall'art. 907 c.c., non possono essere inferiori ai tre metri (e, quindi, non può essere mai ammessa la costruzione in aderenza, che equivarrebbe alla chiusura della luce o della veduta). Secondo il disposto dell'art. 900 c.c., infatti, le luci «danno passaggio alla luce e all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino», mentre le vedute o prospetti «permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente».
Da evidenziare come, secondo la giurisprudenza ormai consolidata di legittimità (Cassazione, sezione seconda, sentenza n. 12097/1995 e sentenza n. 10500/1994), la nozione di costruzione comprende non solo i manufatti in calce e mattoni, ma qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata eretta, sia di ostacolo alla libera visuale del proprietario dell'immobile confinante. La norma in questione attribuisce al privato un vero e proprio diritto soggettivo, con la conseguenza che anche la pubblica amministrazione non può legittimamente autorizzare la costruzione di opere che non rispettino tali distanze minime.
Il presupposto logico-giuridico dell'applicazione della disciplina della distanza delle costruzioni dalle vedute è ovviamente quello dell'anteriorità dell'acquisto del diritto alla veduta sul fondo vicino rispetto all'esercizio, da parte del proprietario di quest'ultimo, del proprio ius aedificandi, ovvero del proprio diritto di elevare delle costruzioni sul proprio terreno. Perché si possa parlare di veduta la situazione di fatto dell'immobile dal quale si pretende di esercitare tale diritto deve consentire le c.d. inspectio e prospectio sul fondo vicino, ovvero una piena e comoda visione del paesaggio circostante.
In particolare la inspectio si concreta nella possibilità di guardare nel fondo del vicino senza l'uso di mezzi artificiali, mentre la prospectio consiste nello sporgere il capo e nel vedere nelle diverse direzioni in modo agevole e non pericoloso (si veda Cassazione, sentenza n. 15371/2000). In altre parole, l'apertura sul fondo del vicino costituisce veduta quando la stessa consenta di affacciarsi e di guardare secondo una valutazione rapportata a criteri di comodità, sicurezza e normalità.
È appena il caso di osservare che è del tutto irrilevante l'amenità del paesaggio che è possibile osservare dalla veduta: che si tratti di un pittoresco paesaggio marino, piuttosto che di un povero orto di campagna o di una ciminiera industriale, il diritto del proprietario della veduta è appunto quello di avere libero e senza ostacoli il relativo spazio visivo (articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2011).

EDILIZIA PRIVATA: D.M. n. 1444/1968 - Forza vincolante - Integrazione del regime delle distanze di cui all’art. 872 c.c. - Previsioni di P.R.G. difformi - Illegittimità - Disapplicazione.
Il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all'art. 872 c.c.: la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola pertanto anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n. 832).
D.M. n. 1444/1968 - Pareti finestrate - Nozione.
Per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) (Corte d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, 10/10/2008 n. 2565) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.06.2011 n. 1419 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATASostituzione ope legis delle N.T.A di un Comune e nozione di pareti finestrate.
Il TAR Milano, Sez. IV, con sentenza 07.06.2011 n. 1419, in conformità a quanto espresso dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 2749/2011, ha dichiarato l’illegittimità di una concessione edilizia rilasciata sulla base di norme tecniche di attuazione che, trovandosi in contrasto con la previsione contenuta nell’articolo 9 del D.M. 1444/1968 del Comune, dovevano ritenersi sostituite ope legis dalle disposizioni del decreto ministeriale.
La sentenza in commento è stata pronunciata in seguito ad un ricorso con il quale veniva contestata la legittimità di una concessione edilizia che in attuazione delle N.T.A. (Norme tecniche di attuazione) del Comune aveva consentito, in contrasto con le disposizioni contenute nell’articolo 9 del D.M., la costruzione di un’autorimessa ad una distanza di cinque metri dal fabbricato dei ricorrenti.
Sul punto i giudici milanesi hanno chiarito come “La giurisprudenza ha costantemente affermato che il d.m. 02.04.1968 n. 1444 –emanato in virtù dell’art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall’art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)– ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all’art. 872 c.c.: la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n. 832)”.
Sulla nozione di pareti finestrate i giudici del TAR Milano, richiamando quanto statuito in precedenti sentenze sia dal giudice amministrativo che civile, hanno precisato come con tale definizione si devono intendere non soltanto le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche un sola delle due pareti.
In attuazione di tali principi i giudici hanno dunque dichiarato l’illegittimità della concessione, disapplicando le regole poste dalle N.T.A., in quanto contrastanti con la previsione dell’articolo 9 del d.m. 1444/1968 (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittima la concessione edilizia per la costruzione di una autorimessa posta a 5,00 mt. dalla parete finestrata del fabbricato dei ricorrenti.
L'art. 15.2.7 delle N.T.A. del Comune, essendo in contrasto con la previsione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, deve ritenersi sostituito ope legis dal precetto contenuto in questa norma di diretta applicazione secondo il principio di gerarchia delle fonti che si applica nel caso di contrasto apparente tra le norme.

La difesa dei ricorrenti ha prodotto la sentenza del Tribunale di Como che aveva deciso la controversia tra i ricorrenti medesimi e i controinteressati e nella quale, per quanto di interesse nel presente giudizio, era stata negata la diretta applicabilità nei rapporti tra privati dell’art. 9 D.M. 1444/1968 anche superando la normativa urbanistica comunale vigente.
L’interpretazione offerta dal Tribunale di Como è in linea con l’orientamento espresso dalla Suprema Corte in alcune sentenze pure richiamate dalla decisione del giudice lariano (Cass. 3771/2001, 5889/1997), che però ha sempre sostenuto come la norma contenuta nell’art. 9 D.M. 1444/1968 dovesse ritenersi cogente per l’amministrazione locale superando anche la previsione di norme urbanistiche locali difformi.
In merito all’unico motivo di ricorso non può che ribadirsi un recente orientamento espresso da questa stessa sezione nella sentenza 1282/2011 che in merito ha affermato: “L’art. 9 del D.M. 1444/1968 misura le distanze con riferimento alle pareti finestrate con riferimento a: 2) Nuovi edifici ricadenti zone diverse dalla zona A: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto.
La giurisprudenza ha costantemente affermato che il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all'art. 872 c.c.: la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n. 832).
Con riferimento alla nozione di pareti finestrate la giurisprudenza afferma che "per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce)" (Corte d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, 10/10/2008 n. 2565).
”.
Orbene nel caso di specie non vi è dubbio che l’autorimessa di cui alla concessione impugnata sia posta a cinque metri dalla parete finestrata del fabbricato dei ricorrenti.
Ciò comporta l’illegittimità della concessione impugnata in quanto l’art. 15.2.7 delle N.T.A. del Comune, essendo in contrasto con la previsione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, deve ritenersi sostituita ope legis dal precetto contenuto in questa norma di diretta applicazione secondo il principio di gerarchia delle fonti che si applica nel caso di contrasto apparente tra le norme (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.06.2011 n. 1419 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Lavatelli, Le distanze tra i fabbricati e dai confini in materia edilizia (nota 05.06.2010 - tratto da www.cameramministrativacomo.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze - Violazione normativa - Tutela giurisdizionale - Ripartizione giurisdizione tra AGO e AGA - Fattispecie.
E' opinione comune nella giurisprudenza che i proprietari di fabbricati vicini possono chiedere il rispetto delle norme che prescrivono distanze tra le costruzioni innanzi al giudice ordinario, allorquando la controversia sia instaurata nei soli confronti di altri soggetti privati, vertendosi in tal caso su questioni di diritto soggettivo, ovvero innanzi al giudice amministrativo quando sia contestata la legittimità del titolo abilitativo rilasciato in violazione delle norme sulle distanza, vertendosi in tal caso in tema di interessi legittimi (tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.05.2011 n. 1282 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici.
Il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all'art. 872 c.c.; la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dalla suddetta norma vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n. 832).
Per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) (Corte d’Appello di Catania, 22.11.2003); ai fini dell’applicazione della norma è inoltre sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734 e TAR Piemonte, 10.10.2008 n. 2565)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.05.2011 n. 1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi non (soltanto) le pareti munite di "vedute" ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti.
L’art. 9 del D.M. 1444/1968 misura le distanze con riferimento alle pareti finestrate con riferimento a: 2) Nuovi edifici ricadenti zone diverse dalla zona A: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto.
La giurisprudenza ha costantemente affermato che il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all'art. 872 c.c.: la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n. 832).
Con riferimento alla nozione di pareti finestrate la giurisprudenza afferma che “per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce)” (Corte d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, 10/10/2008 n. 2565).
Il secondo motivo è infondato in quanto la norma delle n.t.a. riprende l’art. 873 c.c. e non interferisce con l’applicazione delle disposizioni previste da norme speciali in materia di distanze. La distanza prevista dall’art. 873 c.c., infatti, non può essere inferiore a quella prevista dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 in quanto la norma è obbligatoria e vincolante per la potestà regolamentare comunale e prevale sulla norma locale con il sistema dell’inserzione automatica di clausole (Cass. civ., sez. II, 24.01.2006, n. 1282)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.05.2011 n. 1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di demolizione e ricostruzione innovativa, ossia quando l’area è assoggettata a una trasformazione tale da recidere il rapporto di continuità con la sagoma e i volumi preesistenti, sono applicabili le regole sulle distanze previste per le nuove costruzioni.
Nel caso di demolizione e ricostruzione innovativa che fronteggi un edificio con pareti finestrate viene in rilievo, accanto all’interesse urbanistico, anche l’interesse igienico-sanitario essendo necessario garantire l’aerazione degli spazi interni ed evitare la formazione di intercapedini malsane. Questo secondo interesse non è nella disponibilità dei privati e neppure delle amministrazioni locali, ed è protetto su tutto il territorio nazionale dalla disposizione sulla distanza minima assoluta di 10 metri di cui all’art. 9 del DM 1444/1968.
Il vincolo della distanza minima deve però essere applicato secondo il canone di proporzionalità, ossia nei limiti necessari a prevenire il degrado igienico-sanitario dei luoghi. Si può infatti ritenere che anche all’esterno dei piani attuativi la deroga alla distanza minima dalle pareti finestrate risulti in concreto ammissibile quando non vi siano pericoli di peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie nelle abitazioni servite dalle finestre.
Questa situazione può verificarsi in fattispecie particolari, ad esempio quando non vi sia esatta contrapposizione tra il nuovo muro e la parete finestrata preesistente oppure quando attorno a quest’ultima rimanga comunque spazio sufficiente per conservare inalterate l’aerazione e l’illuminazione

Nel caso di demolizione e ricostruzione innovativa, ossia quando l’area (come nella vicenda in esame) è assoggettata a una trasformazione tale da recidere il rapporto di continuità con la sagoma e i volumi preesistenti, sono applicabili le regole sulle distanze previste per le nuove costruzioni.
Se l’aspetto di un’area viene significativamente alterato, la demolizione e ricostruzione svincola i proprietari dai condizionamenti connessi ai vecchi edifici ma allo stesso tempo fa perdere il diritto di prevenzione fondato sugli stessi.
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Nel caso di demolizione e ricostruzione innovativa che fronteggi un edificio con pareti finestrate viene in rilievo, accanto all’interesse urbanistico, anche l’interesse igienico-sanitario essendo necessario garantire l’aerazione degli spazi interni ed evitare la formazione di intercapedini malsane.
Questo secondo interesse non è nella disponibilità dei privati e neppure delle amministrazioni locali, ed è protetto su tutto il territorio nazionale dalla disposizione sulla distanza minima assoluta di 10 metri di cui all’art. 9 del DM 1444/1968 (v. C.Cost. 16.06.2005 n. 232). È vero che proprio l’art. 9, comma 3, del DM 1444/1968 contiene l’originaria deroga poi ripresa anche dalla disciplina comunale in esame, ossia la facoltà di costruire a distanze inferiori nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o di lottizzazioni convenzionate con previsioni planivolumetriche.
Tale norma è però fondata sul presupposto che la realizzazione ex novo e così pure la sistemazione integrale di un insieme di edifici consentano di adottare soluzioni progettuali e accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10 metri. Di conseguenza la deroga è logicamente riferibile soltanto all’ambito territoriale ricompreso nei suddetti piani e considerato nella progettazione unitaria;
In concreto il vincolo della distanza minima deve però essere applicato secondo il canone di proporzionalità, ossia nei limiti necessari a prevenire il degrado igienico-sanitario dei luoghi. Si può infatti ritenere che anche all’esterno dei piani attuativi la deroga alla distanza minima dalle pareti finestrate risulti in concreto ammissibile quando non vi siano pericoli di peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie nelle abitazioni servite dalle finestre.
Questa situazione può verificarsi in fattispecie particolari, ad esempio quando non vi sia esatta contrapposizione tra il nuovo muro e la parete finestrata preesistente oppure quando attorno a quest’ultima rimanga comunque spazio sufficiente per conservare inalterate l’aerazione e l’illuminazione (v. TAR Brescia Sez. I 27.08.2010 n. 3240; TAR Brescia Sez. I 03.07.2008 n. 788)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 17.05.2011 n. 730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 9 del d.m. 20.04.1968 n. 1444, il quale detta le citate disposizioni in tema di distanze tra le costruzioni, stante la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione di un piano regolatore e la prescritta distanza di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario e della sicurezza, per cui esso disposto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine stessa.
In tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell'interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati e tali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l'avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici.
Qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire “in aderenza” od “in appoggio”, la preclusione di dette facoltà non consente l'operatività del principio della prevenzione, mentre, nel caso in cui invece tali facoltà siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli art. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dagli art. 875 e 877, comma 2, c.c.), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.
La giurisprudenza (cfr. Cons. St., IV, 02.11.2010 n. 7731), da tempo ha chiarito che l'art. 9 del d.m. 20.04.1968 n. 1444, il quale detta le citate disposizioni in tema di distanze tra le costruzioni, stante la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione di un piano regolatore e la prescritta distanza di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario e della sicurezza, per cui esso disposto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine stessa.
Segue da ciò -a prescindere dalla rilevanza o incidenza connesse alle ventilate disposizioni del regolamento edilizio comunale e poiché la norma di cui all'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 è finalizzata a stabilire un'idonea intercapedine tra edifici nell'interesse pubblico, non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza- che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di distanze e comunque non possano dispiegare alcun effetto distintivo la circostanza che si tratti di corpi di uno stesso edificio ovvero di edifici distinti oppure assumere ruolo interpretazioni intorno alle caratteristiche dello spazio interno, quantunque chiostrina o cortile o pozzo luce, specie in zona sismica nella quale occorre in ogni caso garantire l’intervallo di sicurezza.
Va richiamata consolidata giurisprudenza civile in ordine alla sopravvenienza di norme urbanistiche e relativamente all’applicabilità di un regime edificatorio in deroga convenzionale, secondo la quale:
- in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell'interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati e tali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l'avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici (Cassazione civile , sez. II, 23.04.2010, n. 9751);
- qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire “in aderenza” od “in appoggio”, la preclusione di dette facoltà non consente l'operatività del principio della prevenzione, mentre, nel caso in cui invece tali facoltà siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli art. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dagli art. 875 e 877, comma 2, c.c.), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (Cassazione civile , sez. II, 09.04.2010, n. 8465)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.05.2011 n. 2749 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del rispetto delle distanze, soltanto le strutture edilizie meramente accessorie o ornamentali possono essere escluse dall’obbligo del rispetto delle stesse, come chiarito dalla giurisprudenza, secondo la quale “in tema di distanze fra edifici, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza".
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Mentre non sono [ai fini delle distanze] computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di costruzione le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato; e che, agli effetti dell'art. 873 c.c., la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, è unica, e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell’art. 873 c.c., è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica.

Nel provvedimento impugnato si assume, erroneamente, che il progetto presentato dai ricorrenti sia destinato a creare un ampliamento in sopraelevazione, mentre appare evidente che con lo stesso si mira a creare una maggiore volumetria dell’immobile, non modificando in alcun modo l’altezza massima dell’edificio.
Difatti la presenza di un muro di altezza di 6,20 metri su un lato dell’edificio non può essere considerata come un’appendice di carattere puramente estetico, rappresentando al contrario una struttura di sicura rilevanza e impatto in termini urbanistici.
Del resto, ai fini del rispetto delle distanze, soltanto le strutture edilizie meramente accessorie o ornamentali possono essere escluse dall’obbligo del rispetto delle stesse, come chiarito dalla giurisprudenza, secondo la quale “in tema di distanze fra edifici, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza” (Cassazione civile, II, 22.07.2010, n. 17242).
Con il secondo motivo si assume che nessuna violazione delle distanze tra la costruzione e la strada sarebbe realizzata con la concessione richiesta, visto che nessuna modifica sarebbe effettuata con riferimento alla parete più vicina alla strada, oggetto di concessione in sanatoria nel 1995.
Anche questa doglianza è fondata.
In tal senso la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha costantemente affermato che “mentre non sono [ai fini delle distanze] computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di costruzione le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato; e che, agli effetti dell'art. 873 c.c., la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, è unica, e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell’art. 873 c.c., è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica” (Cassazione civile, II, 10.09.2009, n. 19554).
Essendo la parete di 6,20 m. già esistente, nessuna violazione di distanze si può configurare in relazione al richiesto intervento edilizio della cui legittimità si controverte (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 04.05.2011 n. 1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Le luci e vedute (link a www.iussit.eu).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, LE DISTANZE TRA LE COSTRUZIONI ex artt. 873 e ss. c.c. (link a www.iussit.eu).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze legali, prova del danno influenzata dall'urbe locale.
La S.C. ritorna sulla discussa questione delle condizioni di risarcibilità del danno in caso di opere illegittime che violano i limiti legali di vicinato. Mentre in tema di violazioni di norme prescrittive di distanze legali la giurisprudenza della S.C. ritiene configurabile un danno “in re ipsa”, per le altre violazioni è necessario provare in concreto il danno subito.
E’ stato, infatti, statuito, in materia di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria, e, determinando la suddetta violazione un asservimento di fatto del fondo del vicino, il danno deve ritenersi "in re ipsa", senza necessità di una specifica attività probatoria.
In altri termini, ricorrendo tali violazioni, al proprietario confinante che deduca il superamento delle distanze legali spetta sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l'effetto, certo ed indiscutibile, dell'abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi "in re ipsa", senza necessità di una specifica attività probatoria.
Per contro, la realizzazione di opere in violazione di norme recepite dagli strumenti urbanistici locali, diverse da quelle in materia di distanze, non comportano immediato e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone l'accertamento di un nesso tra la violazione contestata e l'effettivo pregiudizio subito.
La prova di tale pregiudizio deve essere fornita dagli interessati in modo preciso, con riferimento alla sussistenza del danno ed all'entità dello stesso.
Con la segnalata sentenza è stato, altresì, precisato che, in tema di "servitus non aedificandi", il contenuto del diritto si concreta nel corrispondente dovere del proprietario del fondo servente di astenersi da qualsiasi attività edificatoria che abbia come risultato quello di comprimere o ridurre le condizioni di vantaggio derivanti al fondo dominante dalla costituzione di detta servitù, quale che sia, in concreto, l'entità di siffatta compressione o riduzione e indipendentemente dalla misura dell'interesse del titolare del diritto a far cessare impedimenti e turbative del medesimo; ne consegue che non è possibile subordinare la tutela giudiziale di una tale servitù, come, in genere, di ogni diritto reale, all'esistenza di un concreto pregiudizio derivante dagli atti lesivi, attesa l'assolutezza propria di tali situazioni giuridiche soggettive, tutelate da ogni forma di compressione o ingerenza da parte di terzi, col solo limite del divieto di atti emulativi e salva la rilevanza dell'entità del pregiudizio al solo fine della quantificazione dell'eventuale risarcimento.
Per opportuni riferimenti cfr. Cass. n. 7909 del 2001 e, da ultimo, Cass. n. 24387 del 2010 (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile,  sentenza 31.03.2011 n. 7479).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9, punto 2, d.m. n. 1444/1968 (implicante m. 10 lineari fra le pareti) risulta applicabile solo in aree diverse dalla zona A.
Deve precisarsi come il ricordato art. 9, punto 2, d.m. n. 1444/1968 (implicante m. 10 lineari fra le pareti) risulti applicabile solo in aree diverse dalla zona A e, quindi, in situazioni completamente differenziate da quella in questione (relativa al semplice ampliamento di un manufatto già edificato) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.03.2011 n. 1781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Le Luci e Vedute (24.03.2011 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 è norma assolutamente inderogabile, sicché le previsioni urbanistiche locali, con essa contrastanti, devono essere disapplicate dal giudice, tenuto ad applicare direttamente quelle di cui all’art. 9: e ciò perché la ratio di questa prescrizione non è tanto la tutela di interessi di carattere privatistico come la riservatezza, bensì la salvaguardia d’imprescindibili esigenze di natura pubblicistica quali la sicurezza e la salubrità dei luoghi.
L’ultimo motivo di ricorso lamenta la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, nonché l’eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto: l’intervento autorizzato comporterebbe, infatti, la violazione della disciplina delle distanze tra pareti finestrate rispetto ad un fabbricato, distante sette metri, preesistente e parzialmente prospiciente.
Orbene, il citato art. 9 dispone che per i “nuovi edifici”, ricadenti in zone diverse dalla A –come nel caso– “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
Si tratta, non v’è dubbio, di una norma assolutamente inderogabile, sicché le previsioni urbanistiche locali, con essa contrastanti, devono essere disapplicate dal giudice, tenuto ad applicare direttamente quelle di cui all’art. 9: e ciò perché la ratio di questa prescrizione non è tanto la tutela di interessi di carattere privatistico come la riservatezza, bensì la salvaguardia d’imprescindibili esigenze di natura pubblicistica quali la sicurezza e la salubrità dei luoghi (cfr., ex multis Cass. 07.01.2010, n. 56; id. 03.03.2008, n. 5741, C.d.S., IV, 12.03.2009, n. 1491).
Ciò posto, è tuttavia da ritenere che, nella fattispecie, non tale disposizione sia rilevante, ma vi si applichino soltanto le norme civilistiche sulle distanze, la cui osservanza non è qui in questione.
L’art. 9, infatti, trova applicazione ai “nuovi edifici”, mentre, nel caso in esame, si è ristrutturato un edificio preesistente, conservandone dimensioni e sagoma.
E se è bensì vero che la forometria è stata modificata, bisogna osservare che lo stesso edificio già prima dell’intervento presentava, sul lato fronteggiante la costruzione più vicina –posta in effetti a meno di 10 metri- una serie di aperture, alcune vere e proprie finestre, altre semplici luci: tali tuttavia, nel complesso, da poter escludere che la ristrutturazione operata abbia condotto, almeno sotto questo specifico profilo, ad un nuovo edificio (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 23.02.2011 n. 300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444 è inteso a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario.
Si tratta poi di disposizione tassativa ed inderogabile, la quale trova applicazione anche nel caso in cui solo una delle pareti antistanti risulti finestrata e non entrambe.

Per costante giurisprudenza (tra le ultime, TAR Liguria Genova, sez. I, 30.06.2009, n. 1621), l'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444 è inteso a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario.
Si tratta poi di disposizione tassativa ed inderogabile, la quale trova applicazione anche nel caso in cui solo una delle pareti antistanti risulti finestrata e non entrambe (Cass., sez. II, 26.10.2007, n. 22495) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 23.02.2011 n. 298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Le distanze tra le costruzioni ex artt. 873 e ss., c.c. (03.03.2011 - tratto da http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATADistanze legali in caso di demolizione e ricostruzione. Se la ricostruzione non è fedele si tratta di nuova costruzione; cosa cambia ai fini delle distanze tra costruzioni.
Con l'importante sentenza 04.02.2011 n. 802, il Consiglio di Stato, Sez. IV, ha chiarito in quali casi un intervento di demolizione e ricostruzione va considerato come «nuova costruzione», e come questo debba essere trattato ai fini dell'applicazione delle norme sulle distanze legali, ed in particolare del principio della prevenzione.
Ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso un’edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un «insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente»), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma, in quest'ultimo caso, con ricostruzione, se non «fedele» (termine espunto dall'attuale disciplina), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
il principio della prevenzione, che ricorre quando il fondo è situato in un comune sprovvisto di strumenti urbanistici, non è applicabile quando l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali.
Proprio in quest’ottica la giurisprudenza sottolinea che solo nel caso in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine, non può ritenersi consentita la costruzione in aderenza o in appoggio a meno che tale facoltà non sia consentita come alternativa all'obbligo di rispettare le suddette distanze.
Non verificandosi la situazione appena esaminata, il principio della prevenzione assume tutta la sua valenza, consentendo, in ossequio a quanto previsto dagli art. 873 e seguenti del Codice Civile, a chi edifica per primo sul fondo contiguo ad altro tre diverse facoltà:
• in primo luogo, quella di costruire sul confine;
• in secondo luogo, quella di costruire con distacco dal confine, osservando la distanza minima imposta dal codice civile ovvero quella maggiore distanza stabilita dai regolamenti edilizi locali;
• infine quella di costruire con distacco dal confine a distanza inferiore alla metà di quella prescritta per le costruzioni su fondi finitimi, facendo salvo in questa evenienza la facoltà per il vicino, il quale edifichi successivamente, di avanzare il proprio manufatto fino a quella preesistente, previa corresponsione della metà del valore del muro del vicino e del valore del suolo occupato per effetto dell'avanzamento della fabbrica.
Nel caso concreto esaminato dalla Corte con la pronuncia in commento, l'intervento edilizio assentito con il permesso di costruire impugnato, prevedendo la realizzazione di un intervento di demolizione e ricostruzione con sagoma e volumi diversi rispetto al fabbricato preesistente, è stato ritenuto inquadrabile tra le nuove costruzioni, e dunque è stato ritenuto applicabile, stante il rispetto degli altri requisiti di legge, il principio della prevenzione, che tra i due proprietari confinanti consente a quello che costruisce per primo le possibilità sopra elencate (commento tratto da www.legislazionetecnica.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati.
L'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati.
E da ciò deriva (cfr. ex multis Cass. Civ. Sez. II 01.11.2004 n. 21899) che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata (cfr. Cons. St., sez. V, 02.11.2010 n. 7731; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 16.10.2009, n. 1742).
Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr. TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001 n. 1734, TAR Liguria Sez. I, 12.02.2004 n. 145).
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina (cfr. Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 01.02.2011 n. 185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. "doppia tutela", per cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del G.O.) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata, consentita, permessa (conosciuto dal G.A.).
La controversia derivante dalla impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali costituisce una disputa non già tra privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione (anche e certamente) al giudice amministrativo.

Costituisce principio consolidato e pacifico che in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. "doppia tutela", per cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del G.O.) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata, consentita, permessa (conosciuto dal G.A.).
Il privato, che si ritiene danneggiato da un'attività edilizia autorizzata, che ha violato le norme in tema di distanza fra costruzioni o di queste con i confini, ha diritto alla c.d. "doppia tutela" che si caratterizza per essere concorrente ma separata per le diverse posizioni giuridiche di diritto soggettivo e interesse.
Pertanto per tali controversie la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, qualora si tratti di impugnazione del relativo provvedimento per l'annullamento di quest'ultimo, poiché in tal caso si fa valere una posizione di interesse legittimo, mentre spetta al giudice ordinario, qualora venga richiesto il risarcimento del danno, ovvero alla rimozione dell'opera (in tal caso infatti è implicita una richiesta di disapplicazione dell'atto medesimo) (in tal senso, tra tante, si veda Consiglio Stato, sez. V, 24.10.1996 , n. 1273).
La controversia derivante dalla impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali costituisce una disputa non già tra privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione (anche e certamente) al giudice amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.01.2011 n. 678 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: D.M. n. 1444/1968 - Prescrizioni su altezze e distanze - Natura - Tutela dell'interesse pubblico - Legittimazione a ricorrere - Qualsiasi soggetto in situazione di stabile collegamento con l'area interessata.
L'art. 8 del D.M. 1444/1968 in materia di altezze degli edifici è posto a tutela non dell'interesse privatistico dei confinanti, bensì dell'interesse pubblico affinché si realizzi un determinato assetto urbanistico: pertanto, tale interesse può essere fatto valere da tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento con l'area interessata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2010

EDILIZIA PRIVATALa normativa sui distacchi tra edifici riguarda espressamente le “pareti finestrate”, nel senso che “il balcone aggettante può essere compreso nel computo delle distanze solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, posto che uno sporto non integra la specie dell’intercapedine dannosa che legittima l’applicazione della norma di ordine pubblico derivante dal D.M. 02.04.1968, n. 1444".
La normativa sui distacchi tra edifici, che ha, com’è noto, la funzione di evitare la produzione di intercapedini da dannose, riguarda espressamente le “pareti finestrate”, nel senso che “il balcone aggettante può essere compreso nel computo delle distanze solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, posto che uno sporto non integra la specie dell’intercapedine dannosa che legittima l’applicazione della norma di ordine pubblico derivante dal D.M. 02.04.1968, n. 1444" (cfr., ex pluris, TAR Lombardia, Milano, n. 91/2010; TAR Abruzzo, Pescara, n. 579/2009 e TAR Liguria, n. 1736/2009) (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 22.12.2010 n. 865 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Distanza minima tra edifici - Art. 9 D.M. 1444/1968 - Sopraelevazioni e recupero sottotetti - Rispetto delle distanze - Necessità - Ratio.
2. Distanza minima tra edifici - Art. 9 D.M. 1444/1968 - Sopraelevazioni e recupero sottotetti - Rispetto delle distanze - In caso di demolizione e ricostruzione a medesima distanza - Inapplicabilità.

1. In tema di distanze fra edifici, ed in particolare la distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate, ex art. 9 D.M. 1444/1968, le porzioni di edificio risultanti dal recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti devono considerarsi, ai fini del rispetto dell'art. 9, quali nuove costruzioni, con la conseguenza che dovranno necessariamente essere collocate ad almeno 10 metri dalla parete dell'edificio antistante: ciò, in quanto l'art. 9 è norma di ordine pubblico, insuscettibile di deroga negli strumenti urbanistici e nei regolamenti locali, volta ad impedire la realizzazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico, cosicché deve essere rispettata anche in caso di sopraelevazioni o di recupero di sottotetti (cfr. TAR Milano, sent n. 3262/2010, n. 1991/2007; Cons. di Stato, sent. n. 7731/2010).
2. L'art. 9 D.M. 1444/1968 è applicabile ai nuovi edifici e tale non può essere considerato lo stabile demolito e poi ricostruito alla stessa distanza del precedente (cfr. TAR Milano, sent. n. 1220/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7511 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Distanze legali tra fabbricati - In caso di ristrutturazione con ampliamento di edifici all'esterno della sagoma esistente - Applicabilità normativa sulle distanze legali - Inderogabilità.
2. Distanze legali tra fabbricati - In caso di modifica del tetto incidente sulla sagoma esterna dell'edificio con aumento di volumetria dei piani sottostanti - Applicabilità normativa sulle distanze legali - Necessità.

1. Sono soggetti alla disciplina delle distanze tutti gli interventi edilizi, ancorché definiti come "ristrutturazione" (recupero del sottotetto) che comportino l'ampliamento di edifici all'esterno della sagoma esistente (cfr. TAR Milano, n. 1991/2007).
In particolare, l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, mirando ad evitare la creazione di intercapedini in grado di impedire la libera circolazione dell'aria, come tali produttive di insalubrità oltreché riduttive di luminosità e dunque non autorizzabili per motivi igienico-sanitari, risponde ad esigenze pubblicistiche che sovrastano gli interessi dei singoli, per soddisfare interessi generali, e non è pertanto suscettibile di deroghe pattizie (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1565/1999; TAR Catania, sent. n. 2373/1994).
2. Ogni modifica del tetto incidente sulla sagoma esterna dell'edificio che produca aumento della volumetria dei piani sottostanti è soggetta all'osservanza delle distanze legali (cfr. Cass. Civ., sent. n. 20786/2006) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7505 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sono soggetti alla disciplina delle distanze tutti gli interventi edilizi, ancorché definiti come “ristrutturazione”, che comportino l’ampliamento di edifici “all’esterno della sagoma esistente”.
L’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur riferendosi (comma 1, n. 2) alla realizzazione di “nuovi edifici”, è applicabile anche agli interventi di sopraelevazione e, dunque, anche alle ristrutturazioni che comportino un incremento non trascurabile dell’altezza del fabbricato.

Come statuito dal Tribunale in casi analoghi (cfr. TAR Milano 2^, 29.05.2007 n. 1991, richiamata in sede cautelare) sono soggetti alla disciplina delle distanze tutti gli interventi edilizi, ancorché definiti come “ristrutturazione”, che comportino l’ampliamento di edifici “all’esterno della sagoma esistente” [cfr. le “definizioni” di cui all’art. 27, primo comma, lettera e), n. 1), legge regionale n. 12/2005, che testualmente annovera tale fattispecie tra gli “interventi di nuova costruzione”].
L’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur riferendosi (comma 1, n. 2) alla realizzazione di “nuovi edifici”, è applicabile anche agli interventi di sopraelevazione (Cass. 2^ 27.03.2001 n. 4413; Cons. Stato V, 19.10.1999 n. 1565), e dunque anche alle ristrutturazioni che -volte, come quella de qua, al recupero del sottotetto- comportino un incremento non trascurabile dell’altezza del fabbricato.
La normativa in questione, mirando ad evitare la creazione di intercapedini in grado di impedire la libera circolazione dell’aria, come tali produttive di insalubrità oltreché riduttive di luminosità e dunque non autorizzabili per motivi igienico-sanitari (Cons. Stato V, 19.10.1999 n. 1565; TAR Catania, 27.10.1994 n. 2373), risponde ad esigenze pubblicistiche che sovrastano gli interessi dei singoli, per soddisfare interessi generali, e non è pertanto suscettibile di deroghe pattizie.
Si tratta di una disciplina di carattere tassativo e inderogabile, non eludibile da parte dello strumento urbanistico comunale, e direttamente applicabile, per inserzione automatica, quale parte integrante del piano regolatore, in sostituzione di eventuali norme locali difformi, che devono essere disapplicate e, in caso di impugnazione, annullate (cfr. Cons. Stato IV, 18.06.2009 n. 4015).
A sostegno dell’opposta tesi non può essere invocato l’art. 64, secondo comma, della legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per il governo del territorio), secondo cui il recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti “.... è ammesso anche in deroga ai limiti e alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale …”, dovendo la norma interpretarsi nel senso che la derogabilità non opera nei casi in cui lo strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di rango superiore, a carattere inderogabile, qual è appunto il decreto ministeriale nella parte in cui disciplina le distanze tra fabbricati, trattandosi di materia inerente all’ordinamento civile e rientrante, come tale, nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (cfr. Corte cost. 16.06.2005 n. 232).
Non a caso, l’art. 103 della legge regionale n. 12/2005, pur disponendo la disapplicazione del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, fa salvo, per gli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile solo all’interno di piani attuativi (cfr. comma 1-bis, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lett. xxx), l.r. 14.03.2008 n. 4) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7505 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe distanze tra pareti di edifici ex art. 9 D.M. 1444/1968 valgono anche per le luci, non solo per le finestre.
La norma delle N.T.A. del P.R.G., nella parte in cui prescrive che “non s’intenderanno come pareti finestrate quelle in cui siano praticate esclusivamente luci (art. 901 c.c.)”, è illegittima per violazione del citato art. 9, comma 1, del D.M 02.04.1968 n. 1444, il quale non consente di escludere dal concetto di “pareti finestrate” le ipotesi in cui nella parere siano presenti esclusivamente “luci”.

Considerato, in punto di diritto:
- che l’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968 n. 1444 prescrive, per i “nuovi edifici” ricadenti in zone diverse dalla zona A), il rispetto di una distanza minima assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
- che la norma in esame, in quanto finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata, ha carattere tassativo ed inderogabile, non eludibile da parte dello strumento urbanistico comunale, il quale può solo prescrivere distanze maggiori, ma non limitarne l’applicazione (Cons. Stato, sez. IV; 05.12.2005, n. 6909; Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3929; Cass. Civ., sez. II, 10.01.2006, n. 145; TAR Piemonte, sez. I, 17.01.2007, n. 22);
- che la suddetta prescrizione, data la finalità igienico-sanitaria che intende perseguire, vale anche per la distanza da edificio adibito ad autorimessa, come nel caso di specie;
- che il concetto di “parete finestrata” va interpretato in conformità a quanto previsto dall’art. 900 c.c., secondo cui il concetto di “finestra” include, oltre alle vedute, anche le luci (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 18.06.2009, n. 4015; TAR Campania Napoli, sez. II, 02.12.2009, n. 8326; TAR Puglia Lecce, sez. III, 07.07.2008, n. 2058; TAR Piemonte, sez. I, 17.01.2007, n. 22),
alla luce di quanto esposto:
- la norma di cui all’art. 15 delle N.T.A. del P.R.G.C del Comune di Almese, nella parte in cui prescrive che “non s’intenderanno come pareti finestrate quelle in cui siano praticate esclusivamente luci (art. 901 c.c.)”, è illegittima per violazione del citato art. 9, comma 1, del D.M 02.04.1968 n. 1444, il quale, correttamente interpretato nei termini sopra esposti, non consente di escludere dal concetto di “pareti finestrate” le ipotesi in cui nella parere siano presenti esclusivamente “luci”;
- il permesso di costruire impugnato nel presente giudizio è parimenti illegittimo avendo consentito l’edificazione di una nuova costruzione (non qualificabile come intervento edilizio “minore”) a distanza inferiore a quella inderogabile di 10 metri dalla “parere finestrata” dell’antistante edificio di proprietà dei ricorrenti (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 02.12.2010 n. 4374 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di Costruire - Distanze tra i fabbricati - Art. 878 c.c. - Caratteristiche della costruzione - Sopravvenuta carenza di interesse.
Considerato l'art. 878 c.c. secondo cui il muro di cinta con altezza inferiore ai tre metri non è considerato per il computo delle distanze di cui all'art. 873 c.c., e le caratteristiche del manufatto (modificate con D.I.A.) si deve escludere la rilevanza, ai fini delle distanze, di una costruzione (muro di cinta, appunto) avente le caratteristiche di cui alla citata norma del codice civile, risultando conseguente improcedibile il gravame per sopravvenuta carenza di interesse (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.11.2010 n. 7236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra le costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell’igiene.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo.

L'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra le costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione (Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai rapporti privati, ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
In materia di distanze legali, l’art. 136 d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 47-quinquies, commi 6, 8, 9, della legge nazionale n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate e di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, ed il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel prg al posto della norma illegittima (Cassazione civile, Sez. II, 29.05.2006, n. 12741).
Inoltre, se la deroga è consentita solo per piani particolareggiati e le lottizzazioni convenzionate, in tale previsione non può ricomprendersi il permesso di costruire.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (così, Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell’igiene (Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n.268).
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo (Consiglio Stato , Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.11.2010 n. 7731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ricostruzione con varianti rispetto all’edificio preesistente - Rispetto delle distanze legali dagli edifici limitrofi - DM 1444/1968 - Necessità.
La ricostruzione che contempla varianti rispetto all’edificio preesistente deve sempre essere rispettosa delle distanze legali dagli edifici limitrofi prescritte dal D.M. 1444/1968 e dalle NN.TT.AA. (cfr. nello stesso senso Tar Genova, 3566/2009; Cass. civ., II, 22689/2009), venendo in rilievo prescrizioni rivolte a tutela di imprescindibili interessi pubblici quali quelli della salubrità, dell’igiene, della viabilità, che non possono naturalmente essere compressi in via convenzionale o in forza di una (illegittima, ancorché diffusa) prassi amministrativa (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.10.2010 n. 4099 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cassazione: nelle distanze tra costruzioni regole più restrittive non sono retroattive.
Con la sentenza 22.09.2010 n. 20038 la Corte di Cassazione, Sez.  è intervenuta sul tema delle distanze tra costruzioni quando intervengano regole più restrittive durante il corso dell'edificazione.
La Corte di Cassazione ha affermato che nelle distanze tra le costruzioni, eventuali sopravvenute disposizioni più restrittive devono essere applicate per tutte le nuove costruzioni che siano ancora da realizzare anche se il titolo abilitativo è stato rilasciato precedentemente all'entrata in vigore delle nuove disposizioni, mentre non hanno efficacia quando si tratta di manufatti che possono considerarsi già completati nelle strutture essenziali (link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Sopraelevazione - Distacco tra costruzioni - Pareti finestrate - art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 - Norma inderogabile.
2. Sopraelevazione - Distacco tra costruzioni - Deroga - presupposti.

1. Qualora la sopraelevazione si collochi di fronte a pareti finestrate la distanza minima di 10 metri prevista (al di fuori della zona A) dall'art. 9, comma 1, n. 2, del DM 1444/1968 costituisce un ostacolo insuperabile.
Tale norma per la sua genesi (è stata adottata ex art. 41-quinquies, comma 8, della legge 17.08.1942 n. 1150, come introdotto dall'art. 17 della 06.08.1967 n. 765) e per la sua funzione igienico-sanitaria (evitare intercapedini malsane) costituisce un principio inderogabile della materia che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (v. C.Cost. 16.06.2005 n. 232), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata, sia infine sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che per la loro natura igienico-sanitaria non sono nella disponibilità delle parti.
2. Non è possibile per la legge regionale (e nemmeno per gli strumenti urbanistici comunali) intervenire nei rapporti tra i privati autorizzando in via generale la sopraelevazione in deroga alla distanza minima dalle pareti finestrate disposta disposta dall'art. 9, comma 1, n. 2, del DM 1444/1968: la deroga può essere inserita unicamente in una previsione normativa dedicata a una situazione urbanistica particolare in una precisa zona del territorio in modo da garantire che gli interessi pubblici coinvolti (e specificamente quelli di natura igienico-sanitaria) siano stati in concreto valutati e tutelati mediante soluzioni planivolumetriche adeguate (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.08.2010 n. 3240 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul recupero del sottotetto in Lombardia con innalzamento di quota in merito: alla distanza minima dai confini di proprietà, al rispetto della distanza di mt. 10,00 tra pareti finestrate di cui anche abusiva, alla nozione di sottotetto utile da recuperare in deroga ex L.R. 12/2005.
Occorre precisare in primo luogo che la qualificazione del recupero del sottotetto come ristrutturazione non è idonea da sola a rendere automaticamente possibile la sopraelevazione dell’edificio.
La ristrutturazione è una categoria di interventi edilizi che si può ripartire in due sottogruppi: da un lato la ristrutturazione pesante di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), del DPR 380/2001 (ossia quella che conduce a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e comporta aumento di unità immobiliari o modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti, delle superfici) e dall’altro la ristrutturazione leggera (definita per residualità).
La ristrutturazione pesante equivale nella sostanza a una nuova costruzione che si aggiunge a una costruzione esistente. In questo quadro la scelta del legislatore regionale di definire il recupero del sottotetto come ristrutturazione non ha contenuto innovativo ma si limita a utilizzare il concetto di ristrutturazione pesante già presente nella normativa statale.
Il problema diventa allora fino a che punto la ristrutturazione pesante abbia regole diverse dalla nuova edificazione su area libera. In negativo, ovvero sotto il profilo sanzionatorio, non vi è nessuna differenza, in quanto l’art. 33, comma 6-bis, e l’art. 34, comma 2-bis, del DPR 380/2001 prevedono anche in questo caso l’applicazione di misure ripristinatorie o in subordine pecuniarie come negli abusi edilizi maggiori. In positivo, ovvero per quanto riguarda i diritti edificatori, dipende dal grado di resistenza delle norme che devono essere derogate.
Relativamente alla distanza dai confini si può ritenere che il recupero del sottotetto comportante sopraelevazione possa avvenire in deroga alle previsioni stabilite negli strumenti urbanistici comunali.
In via generale la giurisprudenza (v. Cass. civ. Sez. II 11.06.2008 n. 15527; Cass. civ. Sez. II 12.01.2005 n. 400; Cass. civ. Sez. II 27.05.2003 n. 8420; Cass. civ. Sez. II 08.01.2001 n. 200) si attiene alla seguente regola:
(a) la sopraelevazione, comportando nuovo volume, richiede sempre il rispetto della distanza dai confini indipendentemente dal fatto che in origine vi sia stata prevenzione nei confronti del proprietario confinante;
(b) tuttavia la normativa comunale può stabilire se e a quali condizioni sia ammessa la costruzione senza arretramento.
Nel caso del sottotetto è direttamente il legislatore regionale che pone la disciplina, sovrapponendosi alle scelte dei singoli comuni, con un chiaro favore per la realizzabilità di questo tipo di interventi.
L’art. 64, comma 1, della LR 12/2005 consente modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde (con il solo limite dell’altezza massima di zona) senza alcun riferimento all’arretramento dei muri esterni in relazione alla distanza dai confini.
L’art. 64, comma 2, della LR 12/2005 precisa ulteriormente che il recupero del sottotetto è ammesso anche in deroga ai limiti e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, ad eccezione del reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali.
La finalità che emerge da queste norme è di far prevalere su ogni diversa valutazione comunale l’interesse all’insediamento di nuova volumetria residenziale in continuità con le costruzioni sottostanti. Vi è quindi incompatibilità logica con il vincolo della distanza minima dai confini, che potrebbe compromettere l’utilità del recupero del sottotetto e alterare in modo disarmonico la sagoma degli edifici.
Poiché il legislatore regionale si è sostituito ai comuni in una materia nella disponibilità dei comuni stessi non vi sono altre ragioni che si oppongano alla possibilità di sopraelevare lungo il perimetro dell’edificio esistente.
La situazione cambia però radicalmente quando la sopraelevazione si collochi di fronte a pareti finestrate. In questo caso la distanza minima di 10 metri prevista (al di fuori della zona A) dall’art. 9, comma 1, n. 2, del DM 1444/1968 costituisce un ostacolo insuperabile.
La giurisprudenza ha chiarito che questa norma per la sua genesi (è stata adottata ex art. 41-quinquies, comma 8, della legge 17.08.1942 n. 1150, come introdotto dall’art. 17 della 06.08.1967 n. 765) e per la sua funzione igienico-sanitaria (evitare intercapedini malsane) costituisce un principio inderogabile della materia.
In particolare si tratta di una norma che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (v. C.Cost. 16.06.2005 n. 232), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata (v. Cass. civ. Sez. II 31.10.2006 n. 23495), sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che per la loro natura igienico-sanitaria non sono nella disponibilità delle parti (v. CS Sez. IV 12.06.2007 n. 3094).
Si può aggiungere che un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 64 della LR 12/2005 impedisce di leggervi una deroga estesa anche all’art. 9 del DM 1444/1968.
La Corte Costituzionale nella sentenza n. 232/2005 afferma al punto 4 che le normative locali (regionali o comunali) possono prevedere distanze inferiori alla misura minima, però fissa precisi limiti (“le deroghe, per essere legittime, devono attenere agli assetti urbanistici e quindi al governo del territorio e non ai rapporti tra vicini isolatamente considerati in funzione degli interessi privati dei proprietari dei fondi finitimi”).
Se ne deduce che l’introduzione di deroghe è consentita solo nell’ambito della pianificazione urbanistica, come nell’ipotesi espressamente prevista dall’art. 9 comma 3 del DM 1444/1968, che riguarda edifici tra loro omogenei perché inseriti in un piano particolareggiato o in un piano di lottizzazione (per una fattispecie relativa al centro storico v. TAR Brescia Sez. I 29.09.2009 n. 1712).
Di conseguenza non è possibile per la legge regionale (e nemmeno per gli strumenti urbanistici comunali) intervenire nei rapporti tra i privati autorizzando in via generale la sopraelevazione in deroga alla distanza minima dalle pareti finestrate: la deroga può essere inserita unicamente in una previsione normativa dedicata a una situazione urbanistica particolare in una precisa zona del territorio.
In questo modo si ottiene una ragionevole garanzia circa il fatto che gli interessi pubblici coinvolti (e specificamente quelli di natura igienico-sanitaria) siano stati in concreto valutati e tutelati mediante soluzioni planivolumetriche adeguate.
Estendendo questa linea argomentativa si può sostenere che la deroga alla distanza minima dalle pareti finestrate diventa ammissibile quando non vi siano in concreto pericoli di peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie all’interno delle abitazioni servite dalle finestre.
Questa situazione può verificarsi in fattispecie particolari, ad esempio quando il muro da sopraelevare non si trovi esattamente in corrispondenza della parete finestrata (v. TAR Brescia Sez. I 03.07.2008 n. 788).
Nel caso in esame i ricorrenti con le due DIA in variante (v. sopra ai punti 4 e 7) hanno cercato di limitare la sopraelevazione nella porzione del muro di confine che fronteggia il cavedio con la parete finestrata, tuttavia non è stato dimostrato che attraverso queste modifiche il progetto lasci del tutto immutata la condizione dei locali che ricevono luce e aria dalle finestre. In realtà per raggiungere questo obiettivo sarebbe necessario garantire alle finestre una fascia di rispetto (intesa come volume vuoto) di ampiezza tale da rendere neutre le sopraelevazioni ai lati.
Si osserva che il vincolo della distanza minima dalle pareti finestrate è efficace anche quando la presenza delle finestre sia abusiva. L’interesse pubblico di natura igienico-sanitaria che vieta la formazione di intercapedini malsane vale infatti in qualunque situazione, indipendentemente dalla regolarità della costruzione, in quanto non si colloca soltanto sul piano urbanistico ma coinvolge anche la tutela della salute.
È quindi necessario ottenere prima la rimozione dell’abuso: l’eliminazione delle finestre abusive determina di conseguenza anche la fuoriuscita dalla fattispecie di cui all’art. 9 del DM 1444/1968. Nel caso in esame i ricorrenti sostengono che il cavedio, in corrispondenza del primo piano, sarebbe stato realizzato abusivamente in luogo di un ripostiglio senza finestre. Peraltro la licenza edilizia relativa a questi lavori è del 1965 e quindi l’altezza del cavedio e la presenza delle relative finestre sono ormai elementi consolidati anche sotto il profilo giuridico.
L’art. 63, comma 1-bis, della LR 12/2005 definisce il sottotetto come il volume sovrastante l'ultimo piano degli edifici dei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura.
La norma non richiede che lo spazio sia praticabile e non indica la volumetria o l’altezza minima che distinguono il sottotetto dalle semplici intercapedini. In considerazione del favore legislativo per gli interventi di recupero è preferibile aderire a un’interpretazione estensiva della nozione di sottotetto, qualificando come tale qualsiasi volume non del tutto irrilevante che sia compreso tra il solaio e le falde del tetto e abbia la funzione di tenere separati questi elementi architettonici. La soglia di rilevanza può variare a seconda della morfologia dell’edificio.
Nel caso in esame l’altezza di 0,91 metri (media tra il valore minimo di 0,60 metri e quello massimo di 1,22 metri) si può considerare idonea a definire un vero e proprio locale con autonome seppure limitate funzionalità (ad esempio soffitta o ripostiglio).
Non è quindi corretto parlare di mera intercapedine, concetto da riservare agli spazi marginali.
In via generale è compito del responsabile del procedimento assicurare la completezza della documentazione ai sensi dell’art. 38, comma 5, della LR 12/2005 prima del rilascio del permesso di costruire.
L’omissione di questi controlli non garantisce al privato l’esenzione dall’onere di produzione ma impone all’amministrazione di fissare un termine per la regolarizzazione della pratica edilizia prima della conclusione dei lavori.
Solo nel caso in cui il supplemento istruttorio finalizzato alla regolarizzazione non abbia dato alcun esito l’amministrazione è legittimata a considerare inesistente la certificazione dell’invalidità e ad annullare in autotutela il permesso di costruire nella parte in cui prevede la deroga alla distanza minima dai confini (oppure integralmente se la deroga alla distanza non è scindibile dal resto del progetto)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.08.2010 n. 3240 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra costruzioni - Art. 9 D.M. 1444/1968 - Natura - E' norma di ordine pubblico - Applicabilità in caso di unica parete finestrata - Sussiste.
In materia di distanze tra edifici, l'art. 9 D.M. 1444/1968 -applicabile in Regione Lombardia in virtù del richiamo contenuto nell'art. 103, comma 1-bis, L.R. 12/2005- è norma di ordine pubblico, destinata a soddisfare interessi generali di carattere igienico-sanitario, mirando ad evitare la creazione di intercapedini in grado di impedire la libera circolazione dell'aria ed è applicabile anche nel caso in cui una sola parete sia finestrata (cfr. Cassaz. Civ., sent. n. 22495/2007; Cons. di Stato, sent. n. 1565/1999; TAR Catania, sent. n. 2373/1994; TAR Milano, sent. n. 1991/2007) (nel caso di specie il TAR ha quindi ritenuto legittimo l'annullamento da parte di un Comune di un permesso di costruire che prevedeva una distanza tra pareti finestrate inferiore a dieci metri) (massima tratta da www.solom.it -  TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.07.2010 n. 3262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra costruzioni - Art. 9 D.M. 1444/1968 - Pareti finestrate di edifici antistanti - Distanza di 10 metri - Finalità della norma - Interesse del frontista alla riservatezza - Esclusione - Profilo igienico sanitario - Carattere cogente - Corpi di un medesimo edificio - Irrilevanza.
L'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
Invero, essendo la norma finalizzata a stabilire un'idonea intercapedine tra edifici nell'interesse pubblico, e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108), non può dispiegare alcun effetto distintivo la circostanza che si tratti di corpi di uno stesso edificio ovvero di edifici distinti (cfr. ex multis Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.07.2010 n. 2461 - link a www
.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATANegli edifici ricadenti in zona territoriale diversa dalla A è prescritta, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
Negli edifici ricadenti in zona territoriale diversa dalla A è prescritta, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Ciò, a tenore della normativa di cui all’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150, nonché all’art. 9, comma primo, n. 2), del d.m. 02.04.1968 n. 1444.
Quest’ultima norma regolamentare trae dalla predetta norma di legge la capacità di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni (cfr.: Cons. Stato IV, 12.03.2009 n. 1491).
E’ plausibile ritenere che tale orientamento ermeneutico della giurisprudenza sopravviva persino alla riforma del testo unico dell’edilizia (cfr.: TAR Molise 08.07.2009 n. 599) (TAR Molise, sentenza 08.07.2010 n. 267 - link a ww
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EDILIZIA PRIVATA: Le norme degli strumenti urbanistici locali sulle distanze tra fabbricati sono inderogabili.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità le norme degli strumenti urbanistici locali, che impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di questi dai confini –a differenza dalle norme sulle distanze di cui all’art. 873 c.c., dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli e miranti unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose, come tali suscettibili di deroga mediante convenzione tra privati–, non sono derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali e pubblici in materia urbanistica (v. in tal senso, ex plurimis, Cass. Civ., Sez. II, 31.05.2006, n. 12966) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.06.2010 n. 4181 - link a ww
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EDILIZIA PRIVATALe logge (alla pari dei balconi coperti e tamponati) costituiscono perimetro del fabbricato e quindi valgono ai fini del computo delle distanze previste per le pareti esterne.
Vale la regola per cui le logge (alla pari dei balconi coperti e tamponati) costituiscono perimetro del fabbricato e quindi valgono ai fini del computo delle distanze previste per le pareti esterne, ai sensi dell’articolo 65 del regolamento edilizio comunale.
Oltre alla previsione del regolamento edilizio comunale, si può richiamare anche l’articolo 873 codice civile, in materia di distanze tra costruzioni, quale principio generale della materia.
Ai sensi di tale articolo “le costruzioni sui fondi finitimi, se non sono unite e aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.”
La giurisprudenza ritiene al proposito che il concetto di costruzione, proprio per l’interesse tutelato dalla norma, comprenda tutte le opere infisse stabilmente al suolo, anche se in legno o altro materiale idoneo.
Il concetto di costruzione, ai fini del rispetto della regola delle distanze, non necessariamente quindi deve essere un edificio, ma anche un qualsiasi manufatto e quindi anche un loggiato, come nella specie (in tal senso, per il caso di una tettoia, avente caratteristiche di consistenza e stabilità o che emerge in modo sensibile dal suolo, Cassazione civile, n. 3199 del 06.03.2002) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.06.2010 n. 3542 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Distanze legali tra fabbricati - In caso di nuova costruzione - Applicabilità normativa sulle distanze legali - Necessità.
2. Distanze legali tra fabbricati - Mancato rispetto delle distanze - Ordinanza di sospensione lavori - Presupposti - Necessità di indagine sul carattere originario o sopravvenuto della violazione - Non sussiste.

1. Nei rapporti tra proprietà immobiliari private, ancorché facenti parte del medesimo condominio, ovvero nei rapporti tra condominio e singolo condòmino, operano le norme sulle distanze ogniqualvolta un intervento, comunque lo si qualifichi, comporti l'aggiunta, alle preesistenze, di nuovi elementi, tale da configurare, sotto questo profilo, una "nuova costruzione" (cfr. Cassaz. Civile, sent. n. 7044/2004, n. 8978/2003).
2. La realizzazione di un'opera edilizia a distanza inferiore a quella legale è sufficiente a legittimare l'ordine di sospensione dei lavori: ciò, a prescindere dall'indagine se la violazione della distanza trovi causa nelle difformità dal progetto, ovvero nel progetto originario (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.05.2010 n. 1725 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Lavatelli, Le distanze tra i fabbricati e dai confini in materia edilizia (link a www.lavatellilatorraca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Applicazione P.R.G.C. in tema di distanze.
Viene richiesto parere al Servizio scrivente in ordine all’interpretazione ed all’applicazione di situazioni –talora presenti nei Piani Regolatori Generali dei Comuni piemontesi– in tema di distanze.
Si tratta di stabilire quale sia la distanza dal confine di proprietà da mantenere nel caso di ampliamenti e nuove costruzioni, nel silenzio della norma sul punto, ed in presenza di disposizioni che disciplinano solamente il cd. indice di visuale libera richiamando poi quanto stabilito dal Codice Civile.
Il Comune elenca quindi una serie di casi e chiede al servizio di consulenza di valutare la correttezza delle soluzioni proposte (Regione Piemonte, parere n. 18/2010 - link a www.regione.piemonte.it).

EDILIZIA PRIVATAIl diritto di ottenere la riduzione in pristino di un immobile costruito senza il rispetto delle distanze legali non si estingue per il decorso del tempo ma subisce gli effetti dell'usucapione, in quanto quest’ultimo istituto può dar luogo all'acquisto di un contrario (e prevalente) diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale.
La giurisprudenza equipara l'azione per il rispetto delle distanze legali a una negatoria servitutis (v. Cass. civ. Sez. II 21.10.2009 n. 22348) e precisa che il diritto di ottenere la riduzione in pristino di un immobile costruito senza il rispetto delle distanze legali non si estingue per il decorso del tempo ma subisce gli effetti dell'usucapione, in quanto quest’ultimo istituto può dar luogo all'acquisto di un contrario (e prevalente) diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale (v. Cass. civ. Sez. II 07.09.2009 n. 19289).
Dunque da una parte non vi è un affidamento tutelabile dei destinatari della concessione, che hanno fuorviato il Comune, ma dall’altra non vi è più un affidamento tutelabile del terzo.
A questo punto solo un autonomo e attuale interesse pubblico potrebbe sostenere l’annullamento d’ufficio, ma tale interesse evidentemente non può essere costituito dal mero ripristino delle distanze minime dal confine, dove vengono in rilievo norme integrative del codice civile (v. Cass. civ. Sez. II 10.01.2006 n. 145) che tutelano primariamente la proprietà confinante. Quando i rapporti tra i privati a proposito dei confini hanno stabilmente assunto una diversa sistemazione è preclusa all’amministrazione la possibilità di intervenire per il ripristino della legalità.
Sarebbero necessari altri interessi pubblici (ad esempio di natura igienico-sanitaria o collegati alla sicurezza collettiva) ma di questi non è fornita alcuna puntuale dimostrazione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.05.2010 n. 1733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L’articolo 9 del D.M. 1444/1968 consente “distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. Tale deroga può applicarsi agli strumenti di recupero (ndr: Piani di Recupero) ma solo allorquando le opere preesistenti non vengano demolite ovvero vengano fedelmente ricostruite con gli ingombri originari; viceversa l’art. 9 citato non può mai riferirsi alle nuove costruzioni per le parti eccedenti i limiti dell’immobile demolito.
Il sig. Teseo impugna i citati provvedimenti di pianificazione (Piano di Recupero), lamentando che l’attuazione dello strumento urbanistico così deliberato comporterebbe fatalmente –a causa del costruendo fabbricato in luogo del modesto capannone esistente- una notevole violazione delle distanze rispetto all’immobile finitimo, di cui egli è comproprietario. Si tratterebbe peraltro di una demolizione irrazionalmente disposta su di un manufatto ancora valido e comunque ben suscettibile di interventi di restauro, risanamento e ristrutturazione.
Il ricorso trova accoglimento per l’assorbente fondatezza della prima censura con cui viene dedotta l’illegittimità del piano per violazione degli artt. 8 e 9 del D.M. 1444/1968, senza che in contrario possa essere invocato l’articolo 9 del citato D.M., ove si consentono “distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi , nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche” (il Comune resistente ha per l’appunto sostenuto che la valenza attuativa del piano di recupero –simile al piano particolareggiato- ben avrebbe legittimato la deroga alle distanze lamentata dal ricorrente).
Va infatti rilevato che tale deroga può applicarsi agli strumenti di recupero ma solo allorquando le opere preesistenti non vengano demolite ovvero vengano fedelmente ricostruite con gli ingombri originari; viceversa l’art. 9 citato non può mai riferirsi alle nuove costruzioni per le parti eccedenti i limiti dell’immobile demolito (tar Abruzzo -AQ- n. 903/2007, Cass. Civ. n. 3762/1989; C.S. sez. IV, n. 3929/2002).
Nel caso di specie non è controverso in atti né la rilevante diversità dimensionale del nuovo immobile rispetto al modesto manufatto preesistente, né la circostanza che le distanze rispetto al fabbricato di comproprietà del ricorrente si attesterebbero al di sotto dei limiti previsti dal citato D.M. 1444/1968 (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 05.05.2010 n. 395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire - Violazione delle distanze fra edifici D.M. n. 1444/1968 - Opere di ristrutturazione - Inapplicabilità.
Non sussiste in relazione al permesso di costruire impugnato la lamentata violazione della disciplina sulle distanze tra edifici, prevista sia dal codice civile sia dal D.M. n. 1444/1968, in quanto tale disciplina trova applicazione in caso di nuove costruzioni ma non di ristrutturazione mediante demolizione di edificio esistente e costruzione nel rispetto del volume e della sagoma originari, con mantenimento dell'originaria distanza (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.05.2010 n. 1220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza minima tra edifici di cui al D.M. 1444/1968 trova applicazione in caso di nuove costruzioni e non in caso di ristrutturazione mediante demolizione di edificio esistente e costruzione nel rispetto del volume e della sagoma originari, con mantenimento dell’originaria distanza.
Nel sesto mezzo, è lamentata la violazione della disciplina sulle distanza fra edifici, prevista sia dal codice civile sia dal DM 1444/1968.
La censura deve essere respinta, in quanto la normativa sopra indicata trova applicazione in caso di nuove costruzioni ma non, come nella presente controversie, di ristrutturazione mediante demolizione di edificio esistente e costruzione nel rispetto del volume e della sagoma originari, con mantenimento dell’originaria distanza (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.04.2007 n. 1991 e Cass. Civ., sez. II, 27.10.2009, n. 22689) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.05.2010 n. 1220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAll'interno di un giudizio riguardante le costruzioni su fondi finitimi, in cui l'attore abbia chiesto la condanna del proprietario frontista alla demolizione del fabbricato costruito in violazione delle distanze legali, non costituisce domanda nuova in appello il rilievo relativo all'illegittimità dell'adozione di un regolamento comunale contrastante con il dm pro tempore vigente (nella specie, il dm 02.04.1968, n. 1444) in quanto il giudice adito, nell'ambito della sua verifica delle norme applicabili, è tenuto a rilevare l'illegittimità dell'adozione da parte dell'amministrazione comunale di un regolamento edilizio contrastante con le norme vigenti e ad applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, le norme violate, in quanto divenute automaticamente parte integrante del successivo strumento urbanistico locale.
- Poiché il balcone, estendendo in superficie e volume l'edificio, costituisce corpo di fabbrica e poiché l'art. 9 del dm n. 1444 del 1968 stabilisce la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza la estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati interiore a 10 metri, violando il distacco voluto dalla legge ponte.

Da lunghi anni, è costante e consolidata la giurisprudenza che afferma la diretta applicabilità della norma sulle distanze di cui al dm 02.04.1968, n. 1444 in ipotesi di norma locale contrastante colla norma ministeriale (cfr., in tal senso, tra le ultime, Cassazione civile, sez. II, 03.03.2008, n. 5741: «All'interno di un giudizio riguardante le costruzioni su fondi finitimi, in cui l'attore abbia chiesto la condanna del proprietario frontista alla demolizione del fabbricato costruito in violazione delle distanze legali, non costituisce domanda nuova in appello il rilievo relativo all'illegittimità dell'adozione di un regolamento comunale contrastante con il dm pro tempore vigente (nella specie, il dm 02.04.1968, n. 1444) in quanto il giudice adito, nell'ambito della sua verifica delle norme applicabili, è tenuto a rilevare l'illegittimità dell'adozione da parte dell'amministrazione comunale di un regolamento edilizio contrastante con le norme vigenti e ad applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, le norme violate, in quanto divenute automaticamente parte integrante del successivo strumento urbanistico locale»): dunque, è prioritaria l’interpretazione della norma ministeriale ché, se la interpretazione della norma locale dovesse condurre a un risultato contrastante colla prima, non vi sarebbe che da disapplicare quella locale.
Sul punto della interpretazione della norma ministeriale la Corte non ha ragione di disattendere la persuasiva giurisprudenza del SC secondo la quale, «poiché il balcone, estendendo in superficie e volume l'edificio, costituisce corpo di fabbrica e poiché l'art. 9 del dm n. 1444 del 1968 stabilisce la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza la estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati interiore a 10 metri, violando il distacco voluto dalla legge ponte» (Cassazione civile, sez. II, 2707.2006, n. 17089) (Corte d'Appello-Firenze, Sez. I, sentenza 04.05.2010 n. 679).

EDILIZIA PRIVATA: Non può essere imposta, mediante regolamento comunale edilizio, l'osservanza di determinate distanze dagli edifici esistenti; ugualmente, ed anzi a maggior ragione, non si può pretendere di localizzare gli impianti ad una determinata distanza dal confine di proprietà, trattandosi di previsione che appare priva di giustificazione alcuna e rappresenta solo un indebito impedimento nella realizzazione di una rete completa di telecomunicazioni.
E' condivisibile l'affermazione contenuta nella decisione n. 8214/2009 secondo cui “- riguardo alla competenza regolamentare in materia, in particolare attribuita ai Comuni con l’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001, la giurisprudenza ha precisato la differenza fra "criteri localizzativi” e “limiti alla localizzazione” ritenendosi consentiti i primi, in quanto recanti criteri specifici rispetto a localizzazioni puntuali, e non i secondi, in quanto recanti divieti generalizzati per intere aree (ex multis: Cons. Stato, Sez. VI: 05.06.2006, n. 3452; 19.05.2008, n. 2287; 17.07.2008, n. 3596), dovendosi concludere, su questa base, che la citata norma del regolamento edilizio comunale, riguardando l’intero centro abitato, viene a rientrare nella normativa del secondo tipo;
- la realizzazione degli impianti in questione è subordinata soltanto all’autorizzazione prevista dall’art. 87 del Codice, che pone una normativa speciale esaustiva dell’esame di diversi profili implicati, incluso quello della compatibilità edilizio-urbanistica dell’intervento, non occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli articoli 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 (ex multis: Cons. Stato, Sez. VI: 17.10.2008, 5044; 05.08.2005, n. 4159)
”.
Già in passato, peraltro, la Sezione, coerentemente con l’impostazione sopra riportata la cui piena condivisibilità deve ribadirsi in questa sede, aveva evidenziato che “il regolamento comunale che delinei la suddivisione del territorio comunale in tre tipologie di aree (maggiormente idonee, di attenzione e sensibili) si pone in contrasto con il d.lg. n. 259 del 2003, non consentendo tale decreto alle amministrazioni comunali di estendere la propria competenza sino a selezionare le aree del territorio, individuandone solo alcune come idonee ad ospitare gli impianti. L'installazione di impianti di telecomunicazione, infatti, deve ritenersi in generale consentita sull'intero territorio comunale in modo da poter realizzare, con riferimento a quelli di interesse generale, un'uniforme copertura di tutta l'area comunale interessata” (Consiglio Stato, sez. VI, 28.03.2007, n. 1431)
Tale orientamento è stato ancora di recente ribadito dalla Sezione (Consiglio Stato, sez. VI, 23.06.2008, n. 3133), e da esso non si ravvisano motivi per discostarsi.
Si è detto in passato, pertanto, che “va dichiarata l'illegittimità di un regolamento comunale adottato ai sensi dell'art. 8 comma 6 l. 22.02.2001 n. 36, laddove l'ente territoriale si sia posto quale obiettivo, sebbene non dichiarato, ma evincibile dal contenuto dell'atto regolamentare, quello di preservare la salute umana dalle emissioni elettromagnetiche promananti da impianti di radiocomunicazione (ad esempio attraverso la fissazione di distanze minime delle stazioni radio base da particolari tipologie d'insediamenti abitativi), essendo tale materia attribuita alla legislazione concorrente Stato-regioni dell'art. 117 cost., come riformato dalla l. cost. 18.10.2001 n. 3“ (Consiglio Stato, sez. VI, 20.12.2002, n. 7274).
Del pari, è stato rilevato che “come non può essere imposta, mediante regolamento comunale edilizio l'osservanza di determinate distanze dagli edifici esistenti; ugualmente, ed anzi a maggior ragione, non si può pretendere di localizzare gli impianti ad una determinata distanza dal confine di proprietà, trattandosi di previsione che appare priva di giustificazione alcuna e rappresenta solo un indebito impedimento nella realizzazione di una rete completa di telecomunicazioni” (Consiglio Stato, sez. VI, 25.06.2007, n. 3536).
Si è addirittura escluso che la stessa “causale” dell’esercizio della potestà regolamentare possa essere determinata da esigenze protettive di interessi diversi da quelli relativi a “valutazioni strettamente riguardanti interessi riferibili ad aspetti urbanistici, edilizi, architettonici, di decoro o di protezione del territorio” (Consiglio Stato, sez. VI, 06.08.2002, n. 4096).
Sul punto può aggiungersi che, ancora di recente, si è affermato che “ai sensi dell'art. 8, comma 6, della legge quadro sulla protezione dalle esposizioni ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici 22.02.2001 n. 36, i comuni possono adottare un regolamento atto ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione comunale ai campi elettromagnetici. Tuttavia, il potere regolamentare comunale non può implicare la fissazione di limiti di esposizione ai campi elettromagnetici diversi da quelli stabiliti dallo Stato, non rientrando tale potere nell'ambito delle competenze comunali. Non può, pertanto, il comune, attraverso il formale utilizzo degli strumenti di natura edilizia-urbanistica, adottare misure derogatorie ai predetti limiti di esposizione fissati dallo Stato, quali, ad esempio, il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radio base per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale; ovvero, introdurre misure che pur essendo tipicamente urbanistiche (distanze, altezze, ecc.) non siano funzionali al governo del territorio, quanto piuttosto alla tutela della salute dai rischi dell'elettromagnetismo (Consiglio Stato, sez. VI, 03.10.2007, n. 5098, ma si veda anche Consiglio Stato, sez. VI, 05.06.2006, n. 3332, secondo cui “è illegittimo il regolamento comunale che, in materia di installazione di impianti di telefonia mobile, contiene prescrizioni che non costituiscono espressione di pianificazione urbanistica, ma di tutela della salute e ciò in quanto la l. quadro 22.02.2001 n. 36 ha attribuito esclusivamente allo Stato la funzione di fissazione dei criteri e dei limiti rilevanti ai fini della protezione della popolazione dalle potenzialità nocive insite nell'esposizione ai campi magnetici”)"
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.04.2010 n. 2436 - link a www.giustizia-aministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le norme sulle distanze tra costruzioni, contenute nei piani regolatori e nei regolamenti comunali di edilizia, contrariamente a quelle contenute nel codice civile, essendo essenzialmente dettate a tutela dell’interesse generale, quale la realizzazione di un modello urbanistico prefigurato, non tollerano deroghe convenzionali che, se concordate, sono invalide anche nei rapporti interni tra i proprietari confinanti, salva per quest’ultimi la possibilità di accordarsi sulla ripartizione tra i rispettivi fondi del distacco da osservare.
Le norme sulle distanze tra costruzioni, contenute nei piani regolatori e nei regolamenti comunali di edilizia, contrariamente a quelle contenute nel codice civile, essendo essenzialmente dettate a tutela dell’interesse generale, quale la realizzazione di un modello urbanistico prefigurato, non tollerano deroghe convenzionali che, se concordate, sono invalide anche nei rapporti interni tra i proprietari confinanti, salva per quest’ultimi la possibilità di accordarsi sulla ripartizione tra i rispettivi fondi del distacco da osservare (Cass. nn. 237/2000; 12984/1999 ed altre conformi) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 23.04.2010 n. 9751).

EDILIZIA PRIVATA: Per il risparmio energetico è possibile derogare alle distanze legali.
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 92 del 21.04.2010 è stato pubblicato il d.lgs. 29.03.2010, n. 56 recante "Modifiche ed integrazioni al decreto 30.05.2008, n. 115, recante attuazione della direttiva 2006/32/CE, concernente l'efficienza degli usi finali dell'energia e i servizi energetici e recante abrogazioni della direttiva 93/76/CEE.".
Tra le modifiche apportate al provvedimento segnaliamo quelle apportate all'art. 11.
L'art. 11 del provvedimento prevede incentivi "urbanistici" per gli edifici (di nuova costruzione o esistenti) più efficienti dal punto di vista energetico.
Per gli edifici di nuova costruzione, in particolare, il comma 1 del suddetto articolo prevede che non siano considerati nei computi per la determinazioni dei volumi, delle superfici e nei rapporti di copertura:
- gli spessori delle murature esterne, delle tamponature o dei muri portanti superiori ai 30 centimetri (per la sola parte eccedente, fino ad un massimo di 25 cm.);
- il maggiore spessore dei solai e tutti i maggiori volumi e superfici necessari all'esclusivo miglioramento dei livelli di isolamento termico o di inerzia termica degli edifici (fino ad un massimo di 15 cm. per i solai intermedi).
Sempre nel rispetto di tali limiti è permesso derogare a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito:
- alle distanze minime tra edifici;
- alle distanze minime di protezione del nastro stradale;
- alle altezze massime degli edifici.

Per gli edifici esistenti, sui quali si intende realizzare interventi di riqualificazione energetica che comportano maggiori spessori delle murature esterne e degli elementi di copertura, è prevista (art. 11 comma 2) la deroga alle normative nazionali e locali, alle distanze minime tra edifici e dalle strade:
- nella misura massima di 20 cm. per il maggiore spessore delle pareti verticali esterne e delle altezze massime degli edifici;
- nella misura massima di 25 cm. per il maggior spessore degli elementi di copertura.

Tale deroga può essere esercitata nella misura massima da entrambi gli edifici confinanti.
In base alle modifiche apportare dal D.Lgs. 56/2010, in entrambi i precedenti casi e sempre nel rispetto dei limiti predetti, è ora possibile derogare anche alle distanze minime dai confini della proprietà.
È stata quindi ampliata la casistica originariamente prevista dal D.Lgs. 115/2008, che prevedeva la possibilità di non considerare gli spessori aggiuntivi di elementi verticali, solai e coperture, derogando ad altezze massime e distanze minime tra edifici ...
(link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: V. Montaruli e S. Rocca, La disciplina delle distanze minime tra i fabbricati nel nuovo assetto costituzionale (link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATACiò che rende computabili i balconi ai fini della misurazione delle distanze tra fondi finitimi è la loro riconducibilità al concetto di costruzione edilizia, comportando essi un ampliamento della consistenza dell'edificio tale da doversi senz'altro considerare nel calcolo delle distanze legali.
In merito alla distanza minima di 10 mt. tra fabbricati, il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.

Al riguardo va ricordato che, come affermato da costante giurisprudenza, ai fini del computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
Infatti, ciò che rende computabili i balconi ai fini della misurazione delle distanze tra fondi finitimi è la loro riconducibilità al concetto di costruzione edilizia, comportando essi un ampliamento della consistenza dell'edificio tale da doversi senz'altro considerare nel calcolo delle distanze legali (TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 06.04.2009, n. 432).
La giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (TAR Liguria Genova, sez. I, 10.07.2009, n. 1736) ed ha altresì precisato che i muri di contenimento non possono essere considerati “costruzioni” ai fini della disciplina della distanze (cfr. Cons. St., sez. VI, n. 2954 del 13.6.2008) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 31.03.2010 n. 5319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina delle distanze legali tra costruzioni di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 è applicabile anche alle sopraelevazioni e nel caso di edifici pubblici.
E' noto infatti che la disciplina delle distanze legali tra costruzioni di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 è applicabile anche alle sopraelevazioni.
La fattispecie riguarda la costruzione della sede centrale del Comando provinciale dei Vigili del fuoco.
In mancanza di una disposizione delle norme attuative del P.R.G. che, per la zona SP, detti una speciale disciplina sulle distanze delle opere di interesse statale dalle altre costruzioni, debbono dunque trovare diretta applicazione i limiti di cui all’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444, il quale trae dall'art. 41-quinquies della legge urbanistica la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni (Cons. di St., V, 26.10.2006, n. 6399; cfr. anche TAR Liguria, I, 30.6.2009, n. 1621; id., 19.12.2006, n. 1711; id., 07.07.2005, n. 1027).
Ed è appena il caso di osservare che, quand’anche la deroga alle prescrizioni spaziali contenuta nell’art. 19 delle N.T.A. del P.R.I.S. dovesse ritenersi applicabile anche alle opere di interesse statale (il che pacificamente non è, non rientrando lo Stato tra gli enti locali territoriali), la disposizione, di natura regolamentare, dovrebbe essere disapplicata perché in contrasto con il D.M. 02.04.1968, n. 1444, che trae dall’art. 41-quinquies, comma 8, della L. 17.08.1942, n. 1150 la natura di norma primaria (in tal senso Cons. di St., IV, 05.12.2005, n. 6909), ad essa sovraordinata.
E’ noto infatti che il giudice amministrativo, in conformità al principio di gerarchia delle fonti, anche in sede di giurisdizione generale di legittimità ha il potere di disapplicare un regolamento non conforme a legge (TAR Lombardia, IV, 18.07.2007, n. 5424)
(TAR Liguria, sentenza 26.03.2010 n. 1235 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le norme degli strumenti urbanistici locali che prescrivono le distanze tra le costruzioni sui fondi finitimi ad integrazione di quella previste del codice civile sono dettate a tutela sia dell'interesse del privato proprietario del fondo finitimo sia a tutela dell'interesse pubblico, che trascende quello dei privati, essendo espressione del potere che è dato all'Ente locale di adottare, nell'interesse generale, norme preordinate all'ordinato sviluppo urbanistico del territorio comunale.
È noto, per pacifica giurisprudenza, che le norme degli strumenti urbanistici locali, che prescrivono le distanze tra le costruzioni sui fondi finitimi, ad integrazione di quella previste del codice civile, sono dettate a tutela sia dell'interesse del privato proprietario del fondo finitimo sia, essenzialmente, a tutela dell'interesse pubblico, che trascende quello dei privati, essendo espressione del potere che è dato all'Ente locale di adottare, nell'interesse generale, norme preordinate all'ordinato sviluppo urbanistico del territorio comunale (cfr., ex multis, Cassazione sez. II, 03.10.2007, n. 20769, Cass. Sez. 2^ n. 11633/2003; Cass. Sez. 2^, 31/05/2006, n. 12966).
La finalità insita nella natura di dette norme comporta che esse siano derogabili solo nei casi previsti dalla normativa urbanistica sopra richiamata proprio per la natura pubblicistica dell'esigenza di garantire, in ogni caso, un certo distacco tra fabbricati così che si versa nell'ambito dei diritti indisponibili dei proprietari dei fondi confinanti, con la conseguenza che una eventuale convenzione tra costoro per la costruzione dei loro edifici in deroga delle distanze prescritte dalle norme integrative contenute nei regolamenti edilizi o piani urbanistici non comporta l'acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata da norme inderogabili, non potendo l'ordinamento accordare tutela ad una situazione che, attraverso l'inerzia del vicino, finisce per aggirare l'interesse pubblico rendendo legittima la permanenza di un manufatto edificato in maniera che tale interesse contrasta (TRGA Trentino Alto Adige, sentenza 19.03.2010 n. 81 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 è una disposizione tassativa ed inderogabile, la quale trova applicazione anche nel caso in cui solo una delle pareti antistanti risulti finestrata e non entrambe.
Il permesso di costruire impugnato ha consentito, sul terreno confinante con quello dei ricorrenti, la realizzazione di un intervento edilizio che, per le sue caratteristiche (demolizione integrale dell’esistente; costruzione di un edificio a due piani in luogo di quello precedente ad un solo piano, il quale utilizza in parte la volumetria preesistente, che era collocata in manufatti ora non riedificati, e si prolunga in parallelo con l’edificio dei ricorrenti per una lunghezza ben maggiore del precedente) non può essere qualificato come di semplice ricostruzione.
Tale nuovo edificio si colloca alla distanza di 8 metri circa dalla casa del Gobbi, mentre avrebbe dovuto rispettare la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prescritta, tra l’altro, dall’art. 20 delle n.t.a. applicabili alla fattispecie e, comunque dall'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444: né si ravvisa contrasto tra quest’ultima norma regolamentare e l’altra disposizione qui citata.
Il fatto che, dopo la presentazione del ricorso sia stata presentata dai controinteressati una denuncia d’inizio attività al Comune, destinata a modificare la parete finestrata, occludendo le relative vedute, non basta a far venir meno l’originario profilo d’illegittimità del provvedimento (appunto costituito dalla violazione del ripetuto art. 9).
Infatti, per costante giurisprudenza (tra le ultime, TAR Liguria Genova, sez. I, 30.06.2009, n. 1621), la norma de qua è intesa a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario.
Si tratta poi di disposizione tassativa ed inderogabile, la quale trova applicazione anche nel caso in cui solo una delle pareti antistanti risulti finestrata e non entrambe (Cass., sez. II, 26.10.2007, n. 22495): ciò che appunto continua a verificarsi nella fattispecie (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.03.2010 n. 823 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze tra fabbricati: é usucapibile il diritto a mantenere le costruzioni a distanza inferiore a quella di legge.
Su indicazione dello Studio legale Carrara e Luzzi di Sondrio, segnaliamo una interessante sentenza della Corte di Cassazione in materia di distanze tra fabbricati.
Afferma la Corte che, ferma la distinzione dei caratteri tra potere privato e potere pubblico, deve ritenersi ammissibile l'acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali.
Non sono di ostacolo a questa concezione -afferma la Corte- le possibili frodi prospettate dalla giurisprudenza.
Si tratta, infatti:
- di un inconveniente (dipendente comunque da un congegno macchinoso e precario) che non giustifica un inquadramento incoerente dei principi vigenti sui modi di acquisto dei diritti reali e sulla disciplina dei limiti legali della proprietà.
Tantomeno questo inconveniente vale a giustificare la illogica dicotomia tra tutela delle distanze di fonte codicistica e di fonte regolamentare.
Non sarebbero neppure configurabili le temibili diseconomie esterne (conseguenze negative sul piano della salute e dell'ambiente) che gli studiosi di analisi economica del diritto rinvengono nella deroga pattizia alle distanze.
Altro è infatti incidere sui poteri pubblici, o consentire una generalizzata derogabilità, il che può cagionare effetti lesivi permanenti dell'interesse generale tutelato; altro è ammettere che operi il fenomeno dell'usucapione.
Esso vale soltanto a riportare il meccanismo di contemperamento dei diritti soggettivi nell'alveo ordinario previsto dal legislatore, escludendo la sussistenza, nel circoscritto ambito della proprietà immobiliare, di diritti soggettivi a tutela rafforzata
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 22.02.2010 n. 4240 - commento e sentenza tratti da http://studiospallino.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATAUsucapione della servitù avente ad oggetto il diritto di mantenere l'edificio a distanza inferiore a quella legale.
In materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l'acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali (massima tratta da www.lavatellilatorraca.it - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 22.02.2010 n. 4240).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Distanze tra fabbricati - Previsioni regolamentari in contrasto con art. 872 c.c. - Illegittimità.
2. Distanze tra fabbricati - Nozione di costruzione ai fini del rispetto dell'art. 9, comma 2, D.M. n. 1444/1968 - Sopraelevazione - Rilevanza.
3. Distanze tra fabbricati - Computo della distanza - Funzione della costruzione - Irrilevanza - Consistenza fisica- Rilevanza.
4. Distanze tra fabbricati - Edificio realizzato in violazione di norme civilistiche sulle distanze - Diniego di sanatoria - Motivazione - E' sufficiente il richiamo alle norme del codice civile.
1. Ogni previsione regolamentare in contrasto con il limite minimo in materia di distanze dettato dall'art. 872 c.c. è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (cfr. TAR Pescara, sent. n. 494/2007; Cons. Stato, sent. n. 3930/2002): ciò in forza dell'art. 9 D.M. 1444/1968 secondo il quale in materia di distanze tra fabbricati sussiste un vincolo a carattere pubblicistico ed inderogabile, diretto non soltanto a salvaguardare interessi privati, ma anche a tutelare interessi generali in materia urbanistica, di igiene, decoro e sicurezza degli abitati (cfr. Cass. Civ., sent. n. 1201/1996; TAR Bologna, sent. n. 136/2004).
2. In materia di distanze le disposizioni dell'art. 9, comma 2, D.M. n. 1444/1968 si applicano anche alle sopraelevazioni, le quali, ai fini del rispetto delle distanze fra edifici, rientrano nella nozione di nuova costruzione, la quale a sua volta comprende qualsiasi modifica della volumetria di un fabbricato preesistente che comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, così da incidere direttamente sulla situazione di distanza tra edifici ed indipendentemente dalla sua utilizzabilità ai fini abitativi (cfr. TAR Brescia, sent. nn. 832/2007 e 244/2006; TAR Milano, sent. n. 5831/2007).
3. Ai fini del computo delle distanze tra fabbricati non si deve tenere conto della funzione principale od accessoria o pertinenziale del vano realizzato, quanto la sua consistenza fisica.
4. Dal momento che la costruzione realizzata a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 873 c.c. rende impossibile qualsiasi indagine circa l'esistenza ed i limiti della dannosità della intercapedine -giacché siffatta valutazione deve ritenersi implicita nella imposizione di determinate distanze nelle costruzioni, alla cui precisa osservanza il legislatore ha inteso affidare la tutela dell'interesse pubblico e privato della salubrità, igiene e sicurezza negli abitati (cfr. Cassaz. Civile, sent. n. 1911/1980)- ne consegue che il diniego di sanatoria è sufficientemente motivato anche con il solo riferimento alla violazione delle distanze previste dal codice civile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.02.2010 n. 271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFanno distanza, ai fini del rispetto dei 10 mt. tra fabbricati, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, seppur non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato.
In tema di distanze legali tra edifici, mentre non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili), sono invece computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, seppur non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la consistenza del fabbricato (Cass. Civ., 10.09.2009, n. 19554) (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 27.01.2010 n. 424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Conferma TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 24.07.2009 n. 944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra costruzioni - Art. 9 del DM 1444/1968 - Fattispecie.
Gli ultimi due capoversi dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 contengono una disciplina, tra loro integrativa, per il calcolo delle distanze nel solo caso di edifici tra i quali sono interposte strade, con la chiara ipotesi di esclusione delle strade a fondo cieco, che è stata accertata nel caso de quo.
Anche la disposizione secondo cui va calcolata la distanza va maggiorata fino al raggiungimento della misura corrispondente all'altezza del fabbricato più alto si applica solo nell'ipotesi di edifici tra i quali sono interposte strade destinate al traffico dei veicoli (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2010 n. 191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella distanza tra fabbricati frontistanti una strada a fondo cieco, quest'ultima non deve essere tenuta in considerazione, trovando applicazione il disposto di cui all'art. 9, comma 2, del DM 1444/1968.
Parte ricorrente insiste nel ritenere applicabile l’ultimo comma dell’art. 9 del DM 1444/1968, secondo cui “qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.” Pertanto, secondo i calcoli di parte ricorrente, il nuovo edificio sarebbe tenuto a rispettare una distanza pari alla sua progettata altezza dalle costruzioni.
Secondo le difese avversarie la disposizione va invece letta unitamente al capoverso precedente, dettato per la disciplina delle distanze tra fabbricati tra i quali siano interposte strade destinate al traffico, ad esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici e di insediamenti.
E’ emerso dall’istruttoria che Via Mocchetti è una strada a fondo cieco, il fabbricato erigendo dista dagli altri fabbricati rispettivamente mt. 10,05 a sud e 10,75 a nord, mentre l’altezza prevista nel permesso di costruire è di 11,70, a fronte di quella massima consentita di 12,50.
Ad avviso del Collegio la distanza è rispettata, dovendo trovare applicazione nel caso de quo l’art. 9, punto 2), che prescrive la distanza di 10 mt..
Gli ultimi due capoversi invece contengono una disciplina, tra loro integrativa, per il calcolo delle distanze nel caso di edifici tra i quali sono interposte strade, con la chiara ipotesi di esclusione delle strade a fondo cieco, che è stata accertata nel caso de quo.
Anche la disposizione secondo cui va calcolata la distanza va maggiorata fino al raggiungimento della misura corrispondente all’altezza del fabbricato più alto si applica solo nell’ipotesi di edifici tra i quali sono interposte strade destinate al traffico dei veicoli.
Quanto alla distanza dal box e dal muro, si osserva che correttamente il box non è stato considerato, in quanto lo stesso è interrato e pertanto non integra, ai fini delle distanze, la nozione di costruzione.
Rispetto al muro di sostegno, parte ricorrente afferma la violazione della distanza in quanto disterebbe mt. 8,10 dal suddetto muro, da considerarsi come muro di fabbrica e non di cinta e quindi assoggettato al rispetto delle distanze legali.
Il Comune ha invece qualificato il muro come muro di sostegno del terreno di proprietà del ricorrente, in quanto ha la funzione di contenimento del dislivello naturale; pertanto è corretta la scelta di non considerare detto manufatto rilevante ai fini delle distanze ai fini dell'art. 9 del d.m. 1444/1968, dal momento che la norma presuppone che le pareti siano «costruzioni» in senso edilizio, non mere opere di contenimento del declivio naturale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2010 n. 191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra fabbricati - Sporti - Computabilità nel calcolo della distanza - Solo in presenza di specifiche norme di piano - Fattispecie.
Il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza, in conformità di quanto disposto dall'art. 9 del D.M. 1444/1968, solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, posto che uno sporto non integra la specie dell'intercapedine dannosa che legittima l'applicazione della norma di ordine pubblico derivante dal D.M. n. 1444/1968, (cfr. TAR Pescara, sent. n. 579/2009; TAR Genova, sent. n. 1736/2009) (nel caso di specie il balcone di misura modesta, ossia mt. 1,60, non contrasta con la funzione igienico-sanitaria -evitare intercapedini malsane- di cui alla disposizione comunale oggetto del contendere: un balcone di tali dimensioni si configura infatti come un manufatto di modesta estensione, che costituisce una entità trascurabile rispetto agli interessi tutelati dalla normativa di sicurezza, salubrità e igiene) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.01.2010 n. 91 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2009

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici.
L'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.1444, nell’imporre la distanza di 10 metri tra costruzioni, rende illegittima ogni eventuale previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo, mentre è indubbiamente consentito alle amministrazioni comunali fissare distanze superiori.
Ai fini dell’applicazione della normativa in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione deve intendersi non solo la realizzazione ex novo d’un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria d’un fabbricato preesistente, che ne comporti l’aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi; per il che si è ripetutamente ritenuto che la sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti, nuova costruzione (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 02.12.2009 n. 8326 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici - Art. 9 D.M. n. 1444/1968 - Distanza di dieci metri - Amministrazioni comunali - Fissazione di distanze superiori - Legittimità.
L’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, nell’imporre la distanza di dieci metri tra costruzioni, rende illegittima ogni eventuale previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo, mentre è indubbiamente consentito alle amministrazioni comunali fissare distanze superiori (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 12.03.2009, n. 1491; Cassazione civ., 29.10.1994, n. 8944).
Distanze tra edifici - Nozione di “nuova costruzione” - Aumento della sagoma d’ingombro - Maggior volumetria o utilizzabilità a fini abitativi - Irrilevanza- Fattispecie: sopraelevazione.
Ai fini dell’applicazione della normativa in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione deve intendersi non solo la realizzazione ex novo d’un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria d’un fabbricato preesistente, che ne comporti l’aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi; per il che la sopraelevazione costituisce, a tutti gli effetti, nuova costruzione (cfr. TAR Campania, Sezione II, 12.04.2006, n. 3457; Consiglio di Stato, Sezione IV, 31.03.2009, n. 1998; Sezione V, 14.03.1993, n. 481; Cassazione civ., Sezione II, 11.06.2008, n. 15527).
Distanze tra edifici - Carattere abusivo dei fabbricati preesistenti - Irrilevanza - Finalità delle disposizioni in materia di distanze - Salvaguardia della salubrità e della sicurezza pubblica.
Ai fini dell’osservanza delle disposizioni in materia di distanze fra immobili, non rileva l’eventuale carattere abusivo dei fabbricati preesistenti. Le disposizioni sulle distanze tra le costruzioni sono infatti preordinate non solo alla tutela degli interessi dei frontisti ma, in una più ampia visione, anche alla salvaguardia di esigenze generali, tra cui la salubrità e la sicurezza pubblica.
Pertanto, l’interesse pubblico primario tutelato dalle norme urbanistiche sulle distanze impone di prendere in considerazione la situazione di fatto quale si presenta in concreto in sede di rilascio di un nuovo titolo edilizio, a nulla rilevando che taluno dei fabbricati preesistenti, in relazione al quale va calcolata la distanza, sia abusivo, ferma restando l’attività repressiva rimessa allo stesso ente (cfr. TAR Campania, Sezione III, 12.07.2005, n. 9499; Consiglio Giust. Amm. Sicilia, 12.11.2008, n. 930; Consiglio di Stato, Sezione V, 06.11.1992, n. 1174) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 02.12.2009 n. 8326 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATALe norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute nel Codice Civile (come quelle contenute per es. negli artt. 873, 905, 906 e 907 C.C.), sono derogabili (per usucapione o mediante convenzione, la quale in tali casi costituisce un vero e proprio diritto di servitù, in quanto arreca una menomazione per l’immobile che avrebbe diritto alla distanza legale), in quanto la predetta normativa del Codice Civile ha lo scopo di tutelare i reciproci diritti soggettivi dei singoli proprietari e/o i rapporti intersoggettivi di vicinato (per es. l’art. 873 C.C. mira unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose.
Mentre le norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute negli strumenti urbanistici e/o nei Regolamenti Edilizi comunali, poiché trascendono l’interesse meramente privatistico, in quanto hanno la funzione di tutelare l’interesse pubblico alla realizzazione di un determinato assetto urbanistico prefigurato, non possono essere derogate (le apposite convenzioni sono invalide anche nei rapporti interni tra i proprietari confinanti) e la loro violazione comporta la facoltà del vicino di chiedere la riduzione in pristino.

Secondo pacifico orientamento giurisprudenziale (cfr. con riferimento all’art. 905 C.C. Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 4605 del 14.07.1981; con riferimento all’art. 873 C.C. cfr. Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 19449 del 28.09.2004; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 2117 del 04.02.2004; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 12984 del 23.11.1999; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 8260 del 13.08.1990; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 5711 del 27.06.1987; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 4737 del 27.05.1987; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 2331 del 30.03.1983; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 5117 del 05.10.1982; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 287 del 12.01.1980; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 60 del 05.01.1980), che questo Tribunale condivide (cfr. TAR Basilicata Sent. n. 519 del 04.09.2007):
1) le norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute nel Codice Civile (come quelle contenute per es. negli artt. 873, 905, 906 e 907 C.C.), sono derogabili (per usucapione o mediante convenzione, la quale in tali casi costituisce un vero e proprio diritto di servitù, in quanto arreca una menomazione per l’immobile che avrebbe diritto alla distanza legale), in quanto la predetta normativa del Codice Civile ha lo scopo di tutelare i reciproci diritti soggettivi dei singoli proprietari e/o i rapporti intersoggettivi di vicinato (per es. l’art. 873 C.C. mira unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose; mentre l’art. 905 C.C. ha la finalità di proteggere la riservatezza del proprietario frontistante, la quale ai sensi del 3° comma dello stesso art. 905 viene meno se tra i due fondi vi è una via pubblica o soggetta ad uso pubblico);
2) mentre le norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute negli strumenti urbanistici e/o nei Regolamenti Edilizi comunali, poiché trascendono l’interesse meramente privatistico, in quanto hanno la funzione di tutelare l’interesse pubblico alla realizzazione di un determinato assetto urbanistico prefigurato, non possono essere derogate (le apposite convenzioni sono invalide anche nei rapporti interni tra i proprietari confinanti) e la loro violazione comporta la facoltà del vicino di chiedere la riduzione in pristino
(TAR Basilicata, sentenza 17.11.2009 n. 766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANozione di costruzione.
Ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, la nozione di «costruzione» comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo (nella specie, si è ritenuto che integrasse la nozione di «costruzione», ai predetti fini, una baracca di zinco costituita solo da pilastri sorreggenti lamiere, priva di mura perimetrali ma dotata di copertura) (massima tratta da www.lavatellilatorraca.it - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 19.10.2009 n. 22127).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Distacco tra costruzioni - art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444.
2. Distacco tra costruzioni - c.d. doppia tutela.
1. L'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 che prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati: da ciò deriva che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.
2. Nel nostro ordinamento vige il regime della c.d. "doppia tutela" in relazione a possibili violazioni della disciplina vigente in materia di distacco delle costruzioni dai confini del fondo ovvero da altre costruzioni, a seconda che si agisca nei riguardi del confinante ovvero nei confronti dell'Amministrazione Comunale che ha rilasciato il titolo edilizio, ben potendo le azioni stesse coesistere e ben potendo il titolare dell'interesse qualificato alla legittimità dell'azione amministrativa ottenere, comunque, in sede di giurisdizione amministrativa l'annullamento ope iudicis del titolo edilizio reputato illegittimo anche a prescindere dalla sua eventuale disapplicazione da parte del giudice ordinario concomitantemente adito, a' sensi degli artt. 4 e 5 della L. 25.03.1965 n. 2248, all. E (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 16.10.2009 n. 1742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra fabbricati.
L'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dalla l. 06.08.1967 n. 765), là dove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.10.2009 n. 1742 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze - Pareti finestrate e pareti di edifici antistanti - D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9 - Strumenti urbanistici contrastanti con la norma - Giudice di merito - Disapplicazione.
Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all’art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Da ciò deriva (cfr. ex multis Cass. Civ. Sez. II 01.11.2004 n. 21899) che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.
Distanza fra costruzioni - Regime della cd. “doppia tutela”.
In tema di distanza fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. “doppia tutela”. Questo vuol dire che il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata. (cfr., ex multis, Cass., SS.UU., 01.07.2002 n. 9555).
Consegue, quindi, da ciò che sussistono nel nostro ordinamento ipotesi di doppia tutela in relazione a possibili violazioni della disciplina vigente in materia di distacco delle costruzioni dai confini del fondo ovvero da altre costruzioni, a seconda che si agisca nei riguardi del confinante ovvero nei confronti dell'Amministrazione Comunale che ha rilasciato il titolo edilizio, ben potendo le azioni stesse coesistere e ben potendo il titolare dell'interesse qualificato alla legittimità dell'azione amministrativa ottenere, comunque, in sede di giurisdizione amministrativa l'annullamento ope iudicis del titolo edilizio reputato illegittimo anche a prescindere dalla sua eventuale disapplicazione da parte del giudice ordinario concomitantemente adito, a' sensi degli artt. 4 e 5 della L. 25.03.1965 n. 2248, all. E. (cfr. TAR Veneto Sez 2° 17.06.2005 n. 2504).
Distanze tra edifici - Proprietario frontista - Diritto al mantenimento di un fabbricato preesistente costruito a distanza inferiore a quella legale - Ulteriore diritto ad apportare modifiche o aggiunte - Esclusione.
L'eventuale diritto del proprietario frontista a mantenere un fabbricato preesistente sin dall'origine costruito ad una distanza inferiore a quella legale rispetto all'immobile limitrofo non conferisce al predetto l'ulteriore diritto di apportare al manufatto aggiunte e/o modifiche di qualsiasi natura nella parte che, in base alla normativa attualmente vigente, risulti a distanza inferiore a quella minima legale, atteso che dette aggiunte o modifiche costituirebbero un'ulteriore -e non consentita- violazione della normativa in materia di distanze. (cfr. Cass. Civ. Sez. II, 26.08.2002, n. 12483) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.10.2009 n. 1742 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e -pertanto- non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
La questione portata all’esame della Sezione riguarda l’autorizzazione alla realizzazione da parte dei controinteressati, in forza dell’impugnata concessione edilizia, di una parete in muratura a chiusura di una tettoia -posta a protezione di un bocciodromo- in sostituzione della antecedente protezione, costituita da un telone di plastica (cellophane).
Va innanzi tutto ricordato che il D.M. 02.04.1968 n. 1444 –recante “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765”– all’art 9. “Limiti di distanza tra i fabbricati” stabilisce che: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
…omissis …
”.
Va innanzitutto disattesa la prospettazione della difesa dell’Amministrazione comunale, secondo cui la norma in questione troverebbe ingresso solamente nei rapporti tra privati .
E’ anzi vero l’opposto (cfr. ex multis Cass. Civ., Sez. II, 02.10.2000 n. 13011, idem, Sez. II, 22.09.2004 n. 19009), poiché il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all’art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti– è norma che impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati. E da ciò deriva (cfr. ex multis Cass. Civ. Sez. II 01.11.2004 n. 21899) che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.
Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dalla l. 06.08.1967 n. 765), là dove prescrive la distanza di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e -pertanto- non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr. TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001 n. 1734, TAR Liguria Sez. I, 12.02.2004 n. 145). Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909).
Va ulteriormente osservato che in tema di distanza fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. “doppia tutela”. Questo vuol dire che il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata.
Più specificamente, per consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, "le controversie tra proprietari di fabbricati vicini aventi ad oggetto questioni relative all'osservanza di norme che prescrivano distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, essendo anche a tale materia applicabile il principio secondo il quale nei rapporti tra privati non si pone una questione di giurisdizione, essendo la posizione di interesse legittimo prospettabile solo in rapporto all'esercizio del potere della pubblica amministrazione che, invece, in tali controversie non è parte in causa. Né a tal fine rileva l'avvenuto rilascio di concessione edilizia, atteso che il giudice ordinario, cui spetta la giurisdizione, vertendosi in tema di assunta violazione di un diritto soggettivo, può incidentalmente accertare l'eventuale illegittimità della concessione edilizia medesima, onde disapplicarla; mentre la giurisdizione del giudice amministrativo è al riguardo configurabile allorché la controversia sia insorta tra il privato e la pubblica amministrazione, per avere il primo impugnato detta concessione al fine di ottenerne l'annullamento nei confronti della seconda" (cfr., ex multis, Cass., SS.UU., 01.07.2002 n. 9555).
Consegue, quindi, da ciò che sussistono nel nostro ordinamento ipotesi di doppia tutela in relazione a possibili violazioni della disciplina vigente in materia di distacco delle costruzioni dai confini del fondo ovvero da altre costruzioni, a seconda che si agisca nei riguardi del confinante ovvero nei confronti dell'Amministrazione Comunale che ha rilasciato il titolo edilizio, ben potendo le azioni stesse coesistere e ben potendo il titolare dell'interesse qualificato alla legittimità dell'azione amministrativa ottenere, comunque, in sede di giurisdizione amministrativa l'annullamento ope iudicis del titolo edilizio reputato illegittimo anche a prescindere dalla sua eventuale disapplicazione da parte del giudice ordinario concomitantemente adito, a' sensi degli artt. 4 e 5 della L. 25.03.1965 n. 2248, all. E. (cfr. TAR Veneto Sez 2° 17.06.2005 n. 2504).
In tale contesto deve dunque affermarsi che la sostituzione della preesistente chiusura laterale con telo di cellophane con una parete di chiusura in muratura dotata di finestre costituisce trasformazione della res, con conseguente obbligo di rispetto della disposizione di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
Va soggiunto (cfr. Cass. Civ. Sez. II, 26.08.2002, n. 12483) che l'eventuale diritto del proprietario frontista a mantenere un fabbricato preesistente sin dall'origine costruito ad una distanza inferiore a quella legale rispetto all'immobile limitrofo non conferisce al predetto l'ulteriore diritto di apportare al manufatto aggiunte e/o modifiche di qualsiasi natura nella parte che, in base alla normativa attualmente vigente, risulti a distanza inferiore a quella minima legale, atteso che dette aggiunte o modifiche costituirebbero un'ulteriore -e non consentita- violazione della normativa in materia di distanze (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.10.2009 n. 1742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di 10 metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto d’impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
E ciò nella preminente considerazione che tale distanza “va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario (…); pertanto, le distanze fra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni d’igiene e di sicurezza”. Ed ancora: “Ai sensi dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 (…) è prescritta in tutti i casi, con disposizione tassativa e inderogabile, la distanza minima assoluta di dieci metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Tale disposizione, stante la sua assolutezza e inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali, comporta…”.
In tema di distanze fra costruzioni, l’art. 9, comma 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, ha efficacia di legge dello Stato (…); i comuni sono obbligati –in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici– a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono, ove i regolamenti comunali siano con esse in contrasto” (Cass. 11.02.2008 n. 3199). “L’adozione da parte degli enti locali di strumenti urbanistici contrastanti con la norma, comporta l’obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.

Per consolidata ed ormai costante giurisprudenza,” scrive il primo giudice, “l’art. 9 D.M. n. 1444/1968 che prescrive la distanza minima di 10 mt tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti impone, sì, limiti ai Comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati.”
L’assunto è inesatto, perché la giurisprudenza non è in questo senso, e non lo era già alla data della decisione, cioè nel 2005.
Ci fu, in effetti, intorno agli anni ’90, un disorientamento, sfociato nella sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 01.07.1997 n. 5889, la quale, effettivamente, in un caso (riguardava il Comune di Vittoria, sprovvisto, allora, di piano regolatore) di totale assenza di strumento urbanistico generale, ritenne che le prescrizioni tecniche contenute nel D.M. del 1968, servissero solamente di direttiva per i comuni in vista della elaborazione dei loro strumenti urbanistici, e che perciò, “dato il carattere della norma, destinato a sopperire alla carenza di strumenti urbanistici e ad incentivarne la rapida formazione e approvazione”, in quanto diretta ai comuni, e non alla generalità dei soggetti, non fosse per questi ultimi fonte di diritti. Non recependo il comune la prescrizione ministeriale della distanza minima tra fabbricati, o perfino rifiutandola illegittimamente con l’adottarne una minore, il cittadino non avrebbe avuto azione diretta per imporre al vicino il rispetto di quella distanza.
Una tale interpretazione non ha avuto più seguito, né nella giurisprudenza della stessa Suprema Corte, né in quella del Consiglio di Stato. “Le prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di 10 metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto d’impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata” (Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2007 n. 3094; non diversamente, Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2005 n. 6909; Cons. Stato, sez. IV, 17.02.2002 n. 3229 ed altre).
E ciò nella preminente considerazione che tale distanza “va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario (…); pertanto, le distanze fra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni d’igiene e di sicurezza” (Cons. Stato 6909/2005 cit.). Ed ancora: “Ai sensi dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 (…) è prescritta in tutti i casi, con disposizione tassativa e inderogabile, la distanza minima assoluta di dieci metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Tale disposizione, stante la sua assolutezza e inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali, comporta…” (Cass. 10.01.2006 n. 145).
In tema di distanze fra costruzioni, l’art. 9, comma 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, ha efficacia di legge dello Stato (…); i comuni sono obbligati –in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici– a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono, ove i regolamenti comunali siano con esse in contrasto” (Cass. 11.02.2008 n. 3199). “L’adozione da parte degli enti locali di strumenti urbanistici contrastanti con la norma, comporta l’obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata” (Cass. 19.11.2004 n. 21899).
Se lo stato della giurisprudenza è questo, come in effetti è, e cioè se le disposizioni dell’art. 9 del D.M. del 1968, tutt’altro che essere mero strumento a finalità provvisoria, d’incentivazione delle amministrazioni comunali nel loro obbligo di dotarsi di strumenti urbanistici (come affermano le Sezioni Unite della Cassazione nel 1997), sono norme assolute e inderogabili, dettate per esigenze collettive di igiene e sicurezza, tali da comportare la loro inserzione automatica negli strumenti urbanistici difettosi, al giudice non rimane che tenerne conto, come fonte diretta di diritti del cittadino, disapplicando le eventuali contrarie disposizioni della regolamentazione locale, siano esse antecedenti, che successive.
Né avrebbe senso, in relazione a tale ratio iuris della normativa, sottilizzare (è l’estrema risorsa, in definitiva, a cui si appiglia l’appellato) distinguendo fra strumenti urbanistici anteriori al 1968, ossia all’entrata in vigore delle prescrizioni contenute nel decreto ministeriale, e strumenti urbanistici sopravvenuti, in guisa da poter dire che la inserzione automatica delle prescrizioni del decreto ministeriale avrebbe luogo solo nei confronti degli strumenti urbanistici sopravvenuti, e non pure in quelli preesistenti, e che, conseguentemente, al giudice, adito dal privato per il rispetto della distanza legale fra costruzioni, sarebbe dato disapplicare, in quanto illegittima per contrasto con la norma dello Stato, la prescrizione del regolamento locale solo se sopravvenuta al decreto ministeriale.
Una tale interpretazione, tutt’altro che incentivare, come pensavano di poter dire le Sezioni Unite nel 1997, la volontà di adeguamento dei comuni alla mutate esigenze urbanistiche, avrebbe finito per sortire l’effetto contrario di premiare l’inerzia, la pigrizia, e perfino il preordinato disegno di sottrarsi deliberatamente alle più rigorose prescrizioni imposte dallo Stato nell’interesse dell’igiene e della sicurezza di tutti, rinunciando o ritardando di proposito l’adozione dello strumento urbanistico o la revisione di quello preesistente.
Completamente illogica, giuridicamente inspiegabile e incostituzionale, sarebbe poi l’idea di ammettere due differenti parametri di valutare le esigenze assolute d’igiene e di sicurezza, ed i diritti dei singoli ad esse connessi, a seconda che nel comune di residenza sia in vigore uno strumento urbanistico successivo al 1968 o antecedente o addirittura (è il caso di Vittoria, risolto in quel modo dalle Sezioni Unite) ne sia del tutto privo. D’altronde, se, per effetto del decreto ministeriale in questione (nonché, beninteso, per effetto della legge da cui esso traeva la sua forza normativa) è indubitabile che tutti i comuni fossero tenuti ad adeguare ad esso i propri strumenti urbanistici –segnatamente in punto di distanze fra costruzioni– non si vede come la posizione soggettiva del privato, tesa, cioè a vedere rispettata la distanza prevista dalla normativa nazionale, si atteggiasse come diritto soggettivo (di proprietà), tutelabile come tale, se il comune, pur continuando a violare quella distanza, si fosse nel frattempo provvisto di uno, o di un nuovo strumento urbanistico, e come interesse se il comune, rendendosi ancor più inadempiente, avesse omesso completamente qualsiasi revisione del suo apparato strumentale.
Ancora più difficile sarebbe giustificare il potere del giudice ordinario di disapplicare, per contrarietà alla distanza legale, contenuta, appunto, nell’art. 9 del decreto ministeriale, la regolamentazione locale sopravvenuta, e negare un tale potere se la disposizione difforme è antecedente alla legge, il che, in altri termini, si traduce nell’impossibilità di giustificare l’inserzione automatica della norma nazionale, assoluta e inderogabile, solo nelle regolamentazioni successive alla sua emanazione, e non anche in quelle preesistenti.
Per altro verso, lasciando, in pratica, ai comuni, la facoltà di ritardare, o omettere del tutto, il recepimento della distanza imposta a livello nazionale, si determina una situazione esattamente inversa a quella prevista dall’art. 873 c.c., laddove ai comuni è fatta salva la facoltà dei comuni di stabilire una distanza maggiore di quella legale, ma non inferiore. Qui, nel comune di Pisa e in quanti possono trovarsi in situazione analoga, varrebbe la regola contraria: che, per inerzia o volontà contraria dello stesso comune, non si applica la distanza prescritta dalla legge per tutto il territorio nazionale, ma la distanza regolamentare “minore”, illegittimamente mantenuta ferma dagli organi locali.
Alla luce di tali considerazioni, la denunciata costruzione appare illegittima, per violazione della distanza legale, e se ne deve ordinare l’arretramento.
La norma in questione, come è orientamento pacifico (Cass. 26.10.2007 n. 22495; Appello Firenze, 01.10.2005 n. 1386), si applica anche quando una sola delle due pareti frontiste sia provvista di finestre (CORTE DI APPELLO di Firenze, Sez. I, sentenza 09.2009 n. 1165).

EDILIZIA PRIVATALe disposizioni sulle distanze fra i fabbricati dettate dall'art. 873 c.c., che hanno lo scopo di evitare pericolose intercapedini tra pareti che si fronteggiano, vincolano, con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e sicurezza, anche i Comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici.
La normativa sulle distanze deve essere quindi rispettata quando attraverso la ristrutturazione si modifica sostanzialmente il manufatto esistente, realizzando un organismo edilizio diverso dal precedente per volume e sagoma, perché in tal caso si integrano gli estremi di una vera e propria nuova costruzione non riconducibile concettualmente né tipologicamente alla categoria giuridica della ristrutturazione come disciplinata dall’art. 3 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante il Testo Unico dell’Edilizia.
L’ordinamento giuridico prevede, in via generale, limitazioni di varia natura al diritto di costruire, a tutela dell’ordinato sviluppo del territorio e dei diritti dei terzi controinteressati.
Tali limiti possono essere di natura civilistica e dipendere direttamente dalla legge (come stabilito nel libro terzo, capo secondo, del codice civile con le norme sulle distanze, le luci, le vedute, etc.) o dall’autonomia pattizia delle parti o essere di natura pubblicistica, e dipendere dalle scelte urbanistiche ed edilizie effettuate dall’amministrazione.
I limiti legali, come quelli sulle distanze, peraltro non sono diretti solo a tutelare la proprietà privata ed i rapporti tra vicini ma anche l’ordinato sviluppo urbanistico del territorio, ed infatti molto spesso tali limiti coincidono con i limiti che i vari Comuni inseriscono nei piani regolatori o sono da questi resi più rigorosi. Per tali profili gli aspetti pubblicistici e gli aspetti privatistici dell’attività edificatoria si sovrappongono ed assumono rilevanza qualificata nel procedimento di rilascio di un permesso di costruire.
Per quanto riguarda in particolare le distanze fra i fabbricati, i limiti all’edificazione sono dettati, oltre che dalle norme del codice civile, dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (che, al di fuori delle zone A dei Piani Regolatori, prevede una distanza minima assoluta di 10 metri tra le pareti finestrate e le pareti degli edifici antistanti) e dalla disciplina di dettaglio contenuta nella strumentazione urbanistica ed edilizia dei singoli Comuni.
In proposito si è affermato che le disposizioni sulle distanze fra i fabbricati dettate dall'art. 873 c.c., che hanno lo scopo di evitare pericolose intercapedini tra pareti che si fronteggiano (Consiglio di Stato, sez. IV, 05.10.2005, n. 5348), vincolano, con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e sicurezza, anche i Comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici (Consiglio di Stato, sez. V, 26.10.2006, n. 6399).
In conseguenza gli organi comunali, a seguito della richiesta di rilascio di un permesso di costruire, sono tenuti a verificare il rispetto delle norme previste dagli strumenti urbanistici ed edilizi in materia di distanza tra gli edifici, così garantendo anche il rispetto delle norme codicistiche sulle distanze (TAR Campania, Napoli, Sez. II, n. 19795 del 2008).
le disposizioni sulle distanze dettate dall'art. 9 del DM n. 1444 del 1968 (e dal Regolamento Edilizio Comunale) si applichino a tutti gli interventi edilizi che abbiano il contenuto sostanziale di nuova costruzione, e quindi anche alle ristrutturazioni con ampliamento dei volumi (Cassazione civile, Sez. II, 28 settembre 2007 n. 20574).
La normativa sulle distanze deve essere quindi rispettata quando attraverso la ristrutturazione si modifica sostanzialmente il manufatto esistente, realizzando un organismo edilizio diverso dal precedente per volume e sagoma, perché in tal caso si integrano gli estremi di una vera e propria nuova costruzione non riconducibile concettualmente né tipologicamente alla categoria giuridica della ristrutturazione come disciplinata dall’art. 3 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante il Testo Unico dell’Edilizia.
Infatti il concetto di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione seguita dalla ricostruzione del manufatto, ma tanto può ritenersi consentito alla precisa condizione che la riedificazione assicuri la piena conformità di sagoma e volume tra il vecchio e il nuovo manufatto. È quindi possibile pervenire in tal modo ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, purché la diversità sia dovuta ad interventi comprendenti il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, e non già la realizzazione di nuovi volumi o una diversa ubicazione. Ciò in quanto, diversamente opinando, sarebbe sufficiente la preesistenza di un edificio per definire ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in luogo o sul luogo di quella preesistente (Consiglio di Stato, sez. V, 04.03.2008, n. 918).
Le disposizioni sulle distanze devono essere poi applicate anche nel caso di sopraelevazione di un immobile esistente. Infatti la circostanza che un edificio preesista non dà diritto a mantenere l'allineamento acquisito per una eventuale sopraelevazione, fatti salvi casi particolari, quando l'allineamento corrisponda a un interesse pubblico autonomo e attinente all'assetto urbanistico complessivo di una zona urbanistica (Corte Costituzionale 16.06.2005 n. 232) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 30.09.2009 n. 5110 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza minima tra edifici di nuova costruzione in zona A - pareti finestrate - scelta comunale - art. 9 DM 1444/1968 comma 3 - ammissibilità.
E' rimessa ai Comuni la scelta (da esercitarsi in base al comma 3, art. 9, DM 1444/1968) della distanza minima tra edifici con pareti finestrate nel caso di nuova costruzione in zona A stante la lacuna ex art. 9, comma 1, n. 1, dm 1444/1968 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 29.09.2009 n. 1712 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa possibilità di realizzare in zona A nuove costruzioni a meno di 10 metri da pareti finestrate si deve considerare subordinata alla presenza di una specifica disciplina comunale adottata in relazione al particolare stato dei luoghi.
Con il primo motivo viene proposta un’interpretazione dell’art. 9, comma 1, n. 1 e 2 del DM 1444/1968 in base alla quale in zona A per gli interventi qualificabili come nuova costruzione (ossia diversi dal risanamento conservativo e dalla ristrutturazione) dovrebbe comunque essere applicata la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate prevista per le nuove costruzioni al di fuori della zona A.
La tesi contiene elementi di ragionevolezza, in quanto la necessità di evitare intercapedini malsane si fonda su esigenze igienico-sanitarie che valgono l’intero territorio comunale. La soluzione proposta non può tuttavia essere condivisa. Gli argomenti che impediscono l’accoglimento della tesi dei ricorrenti sono essenzialmente due, uno formale e uno sostanziale.
Sul piano formale occorre prendere atto della formulazione dell’art. 9 del DM 1444/1968, che non prevede per la zona A una distanza minima tra pareti finestrate nel caso di nuova costruzione. È vero che il centro storico è per definizione edificato e quindi normalmente non esiste il problema di inserire nuovi edifici, ma questa evenienza non può neppure essere del tutto esclusa. Occorre poi considerare che nella terminologia dell’art. 9 del DM 1444/1968 hanno valore di nuova costruzione tutti gli interventi comportanti ulteriore volumetria, come emerge dal fatto che gli edifici sono presi in considerazione in quanto “volumi edificati preesistenti”.
Aumenti di volumetria possono quindi certamente riguardare anche il centro storico, prevalentemente in occasione di interventi di ristrutturazione o di recupero del sottotetto. Accertata una lacuna nell’art. 9, comma 1, n. 1 del DM 1444/1968 non sarebbe tuttavia corretto, per il principio generale che vieta l’analogia in malam partem, applicare le norme limitative previste per le altre zone del territorio. Il risultato logico è invece l’estensione del potere di regolamentazione dei comuni, ai quali è in definitiva rimessa la scelta della distanza minima (v. Cass. civ. Sez. II 03.02.1999 n. 879: “il punto n. 1 dell'art. 9 di tale decreto, autorizza i Comuni a prevedere in queste aree dei distacchi diversi e minori da quelli che devono essere rispettati nelle altre parti del territorio”).
Sul piano sostanziale il riconoscimento di un ampio potere regolatorio dei comuni impone che sia raggiunto a livello locale un equilibrio accettabile tra le esigenze edificatorie dei privati e la tutela degli interessi pubblici urbanistici e igienico-sanitari. Di conseguenza, a parte i casi in cui non vi sia in concreto il rischio di intercapedini (v. TAR Brescia 03.07.2008 n. 788), la possibilità di realizzare in zona A nuove costruzioni a meno di 10 metri da pareti finestrate si deve considerare subordinata alla presenza di una specifica disciplina comunale adottata in relazione al particolare stato dei luoghi.
Sotto questo profilo può essere applicato il comma 3 (secondo periodo) dell’art. 9 del DM 1444/1968, in quanto norma che precisa le condizioni di esercizio del potere regolatorio dei comuni. Indubbiamente questa norma ha come oggetto primario l’edificazione al di fuori del centro storico (circostanza evidenziata dal riferimento alle convenzioni di lottizzazione con previsioni planivolumetriche).
Potendo impostare ex novo l’urbanizzazione di un’area vi è l’opportunità di superare attraverso apposite soluzioni costruttive i problemi derivanti dalla vicinanza degli edifici. Non si può tuttavia escludere che una valutazione in questo senso sia possibile anche in relazione al tessuto urbano già edificato, e in effetti il riferimento della norma ai piani particolareggiati (utilizzabili per qualsiasi parte del territorio, compreso il centro storico) lascia aperta questa opzione interpretativa.
Nel caso in esame esiste un piano particolareggiato del centro storico che per l’edificio della controinteressata consente espressamente la sopraelevazione ai fini del recupero del sottotetto. L’intervento edilizio in questione si colloca quindi all’interno di una puntuale valutazione urbanistica, il che equivale all’autorizzazione a mantenere invariate le distanze preesistenti rispetto alle pareti finestrate dei fabbricati vicini.
È vero che il piano particolareggiato è risalente nel tempo e ormai scaduto per decorrenza del termine decennale (previsto dall’art. 2 del piano stesso) ma gli effetti conformativi sono per interpretazione giurisprudenziale tendenzialmente permanenti (v. CS Sez. IV 04.12.2007 n. 6170). Dunque l’attività edificatoria consiste tuttora nelle facoltà e nelle prescrizioni stabilite dal piano (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.09.2009 n. 1712 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze legali tra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di costruzione le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato; e che, agli effetti dell’art. 873 Cc, la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, è unica, e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell’art. 873 Cc, è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica.
Il danno derivante dalla violazione sulle distanze nelle costruzioni -consistente non solo nel deprezzamento commerciale del bene (aspetto che viene superato dalla tutela ripristinatoria) ma anche dalla indebita limitazione del pieno godimento del fondo in termini di diminuzione di amenità, comodità e tranquillità, trattandosi di effetti egualmente suscettibili di valutazione patrimoniale- è in re ipsa, sicché, una volta dimostrato il fatto obiettivo della violazione, non occorre un’autonoma e specifica prova del pregiudizio sofferto, che può essere valutato dal giudice equitativamente a norma dell’art. 1226 Cc, ove risulti la difficoltà di una sua precisa determinazione in relazione alla peculiarità del fatto dannoso.

Se è possibile per i Comuni integrare l’art. 873 Cc, per quanto riguarda le prescritte distanze tra edifici, non è possibile indicare nelle norme tecniche di attuazione una nozione di costruzione diversa da quella già presente nell’ordinamento giuridico.
In tema di distanze legali tra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di costruzione le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato; e che, agli effetti dell’art. 873 Cc, la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, è unica, e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell’art. 873 Cc, è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica (Cass., Sez. II, 26.05.2005, n. 1556).
Il limite imposto dall’art. 873 Cc, ai regolamenti locali in tema di distanze tra costruzioni è che in nessun caso essi possono stabilire distanze inferiori a tre metri: purché non sia stato violato questo limite, i regolamenti locali, nello stabilire distanze maggiori, possono anche determinare punti di riferimento, per la misurazione delle distanze, diversi da quelli indicati dal codice civile, escludendo taluni elementi della costruzione dal calcolo delle più ampie distanze previste in sede regolamentare (Cass., Sez. II, 22.06.1990, n. 6351; Cass., Sez. II, 13.05.1998, n. 4819).
La norma, così interpretata, si porrebbe in contrasto con quella del codice civile solo nel caso in cui, misurata la distanza regolamentare in questo modo, i balconi esistenti determinassero poi una distanza tra le due costruzioni in questione inferiore a quella prescritta dal codice civile.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. II, 23.03.1993, n. 3414; Cass., Sez. II, 17.05.2000, n. 6414; Cass., Sez. II, 07.03.2002, n. 3341; Cass., Sez. II, 27.03.2008, n. 7972), il danno derivante dalla violazione sulle distanze nelle costruzioni -consistente non solo nel deprezzamento commerciale del bene (aspetto che viene superato dalla tutela ripristinatoria) ma anche dalla indebita limitazione del pieno godimento del fondo in termini di diminuzione di amenità, comodità e tranquillità, trattandosi di effetti egualmente suscettibili di valutazione patrimoniale- è in re ipsa, sicché, una volta dimostrato il fatto obiettivo della violazione, non occorre un’autonoma e specifica prova del pregiudizio sofferto, che può essere valutato dal giudice equitativamente a norma dell’art. 1226 Cc, ove risulti la difficoltà di una sua precisa determinazione in relazione alla peculiarità del fatto dannoso
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.09.2009 n. 19554).

EDILIZIA PRIVATA: F. Botteon, Le distanze dalle strade nelle costruzioni: fasce di inedificabilità assoluta o relativa? (link a www.lexitalia.it).

EDILIZIA PRIVATANon v'è dubbio in ordine alla qualificazione della sopraelevazione di un edificio alla stregua di una nuova costruzione per cui essa deve rispettare le norme di legge e del piano a tale riguardo.
Il collegio osserva al riguardo che non v’è dubbio in giurisprudenza in ordine alla qualificazione della sopraelevazione di un edificio alla stregua di una nuova costruzione (ad esempio, in epoca recente, cons. Stato, 31.03.2009, n. 1998; cass., 11.06.2008, n. 15527), per cui essa deve rispettare le norme di legge e del piano a tale riguardo: la scheda d’ambito prodotta dalla ricorrente in data 08.04.2009 come documento sub-13 prescrive una distanza dal confine metri cinque ed una distanza tra le pareti finestrate di metri dieci (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 10.07.2009 n. 1736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza tra edifici solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, posto che uno sporto come quello effigiato in atti non integra la specie dell’intercapedine dannosa che legittima l’applicazione della norma di ordine pubblico derivante dal d.m. 02.04.1968, n. 1444 (vengono pertanto in applicazione le norme di piano, ed a tale stregua si osserva che l’art. 4 del vigente PUC di Varazze attribuisce rilevanza ai fini del calcolo delle distanze solo ai balconi che superano la misura di m. 1,20, circostanza che incombeva alla ricorrente comprovare e che risulta invece senza riscontri in atti, derivandone l’infondatezza del motivo).
A tale proposito l’amministrazione ha considerato legittimo il progetto assentito, dal quale risulta che la distanza tra lo spigolo più vicino della casa della ricorrente e la parte meno rientrante della sopraelevazione in progetto supera i dieci metri lineari: l’interessata eccepisce che non s’è tenuto conto dei balconi sporgenti dalla facciata della sua casa, che contribuiscono al computo delle distanze (tar Campania, Napoli, 23.04.2007, n. 4215, cass., 31.05.2006, n. 12964).
Il tribunale rileva che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza ai sensi della norma in questione solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, posto che uno sporto come quello effigiato in atti non integra la specie dell’intercapedine dannosa che legittima l’applicazione della norma di ordine pubblico derivante dal d.m. 02.04.1968, n. 1444: vengono pertanto in applicazione le norme di piano, ed a tale stregua si osserva che l’art. 4 del vigente PUC di Varazze attribuisce rilevanza ai fini del calcolo delle distanze solo ai balconi che superano la misura di m. 1,20, circostanza che incombeva alla ricorrente comprovare e che risulta invece senza riscontri in atti, derivandone l’infondatezza del motivo (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 10.07.2009 n. 1736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza ai sensi del D.M. 02.04.1968 n. 1444 solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, posto che uno sporto come quello effigiato in atti non integra la specie dell’intercapedine dannosa che legittima l’applicazione della norma di ordine pubblico derivante dal d.m. 1444/1968.
Non v’è dubbio in giurisprudenza in ordine alla qualificazione della sopraelevazione di un edificio alla stregua di una nuova costruzione (ad esempio, in epoca recente, cons. Stato, 31.03.2009, n. 1998; cass., 11.06.2008, n. 15527), per cui essa deve rispettare le norme di legge e del piano a tale riguardo: la scheda d’ambito prodotta dalla ricorrente in data 08.04.2009 come documento sub 13 prescrive una distanza dal confine metri cinque ed una distanza tra le pareti finestrate di metri dieci.
A tale proposito l’amministrazione ha considerato legittimo il progetto assentito, dal quale risulta che la distanza tra lo spigolo più vicino della casa della ricorrente e la parte meno rientrante della sopraelevazione in progetto supera i dieci metri lineari: l’interessata eccepisce che non s’è tenuto conto dei balconi sporgenti dalla facciata della sua casa, che contribuiscono al computo delle distanze (TAR Campania, Napoli, 23.04.2007, n. 4215, Cass., 31.05.2006, n. 12964).
Il tribunale rileva che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza ai sensi della norma in questione solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, posto che uno sporto come quello effigiato in atti non integra la specie dell’intercapedine dannosa che legittima l’applicazione della norma di ordine pubblico derivante dal d.m. 02.04.1968, n. 1444: vengono pertanto in applicazione le norme di piano, ed a tale stregua si osserva che l’art. 4 del vigente PUC di Varazze attribuisce rilevanza ai fini del calcolo delle distanze solo ai balconi che superano la misura di m. 1,20, circostanza che incombeva alla ricorrente comprovare e che risulta invece senza riscontri in atti, derivandone l’infondatezza del motivo
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 10.07.2009 n. 1736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina delle distanze tra costruzioni si applica anche alle sopraelevazioni.
La disciplina dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, integrata dalle disposizioni dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, prevede una distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti non inferiore a 10 metri, prescindendo dall’altezza della parete, ovvero dal fatto che la parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente.
Negli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, è prescritta, in tutti i casi, una distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti e tale prescrizione ha carattere di assolutezza e di inderogabilità. Pertanto, l’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -prescrivente la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti- deve essere rispettato, trattandosi di norma intesa a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario. Tale orientamento ermeneutico della giurisprudenza sopravvive alla riforma del Testo Unico dell’edilizia.
La disciplina delle distanze legali tra costruzioni è applicabile anche alle sopraelevazioni.
Se è vero che due edifici frontistanti confinano con la pubblica via, è altresì vero che ciò può valere ad escludere il rispetto delle distanze codicistiche (artt. 873, 878 e 879, comma secondo, codice civile), non già il rispetto delle distanze imposte da leggi e da regolamenti urbanistici
(TAR Molise, Sez. I, sentenza 08.07.2009 n. 599 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Negli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A è prescritta, in tutti i casi, una distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti e tale prescrizione ha carattere di assolutezza e di inderogabilità.
L’edificio frontistante a quello del ricorrente, da ampliare in sopraelevazione, dista appena 5 metri lineari, anche se lo spazio teorico antistante la parte alta dell’edificio, in caso di sopraelevazione, sarebbe superiore ai 10 metri. Sennonché, la disciplina dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150, integrata dalle disposizioni dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, prevede una distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti non inferiore a 10 metri, prescindendo dall’altezza della parete, ovvero dal fatto che la parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente (cfr.: Cons. Stato IV, 12.06.2007 n. 3094; TAR Emilia Romagna, Bologna II, 30.03.2006 n. 348; idem TAR Toscana III, 22.01.2007 n. 55).
E’ orientamento di una autorevole giurisprudenza ritenere che, negli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, sia prescritta, in tutti i casi, una distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti e che tale prescrizione abbia carattere di assolutezza e di inderogabilità. Pertanto, l’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 -prescrivente la distanza di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti- deve essere rispettato, trattandosi di norma intesa a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario (cfr.: Cons. Stato IV, 05.12.2005 n. 6909; idem 12.07.2002 n. 3929; Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 17.05.2000 n. 240; Cass. Civile II, 10.01.2006 n. 145). Tale orientamento ermeneutico della giurisprudenza sopravvive alla riforma del Testo Unico dell’edilizia, atteso che l’art. 136 del T.U. 06.06.2001 n. 380, nell’abrogare l’art. 17, comma primo, lett. c), della legge n. 765 del 1967, lascia in vigore i commi sesto, ottavo e nono dell’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, di talché gli strumenti urbanistici locali devono osservare la prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (cfr.: Cass. Civile II, 29.05.2006 n. 12741).
La disciplina delle distanze legali tra costruzioni è, ovviamente, applicabile anche alle sopraelevazioni (cfr.: Cass. Civile II, 27.03.2001 n. 4413).
Se è vero che i due edifici frontistanti confinano con la pubblica via, è altresì vero che ciò può valere ad escludere il rispetto delle distanze codicistiche (artt. 873, 878 e 879 comma secondo codice civile), non già il rispetto delle distanze imposte da leggi e da regolamenti urbanistici (cfr.: Cass. Civile II, 16.04.2007 n. 9077).
E' da qualificarsi come nuova costruzione la realizzazione di un intero piano, in aumento volumetrico, con la conseguente modificazione dei parametri edilizi (cfr.: Cons. Stato V, 26.10.2006 n. 6399; TAR Bologna II, 30.03.2006 n. 348) (TAR Molise, Sez. I, sentenza 08.07.2009 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 (pareti finestrate tra edifici antistanti) ha natura primaria e si sostituisce ad ogni eventuale disposizione contraria contenuta nelle NTA; essa, pertanto, va rispettata in tutti casi, avendo natura cogente e suscettibile di inserzione automatica nello strumento urbanistico.
La distanza di 10 mt. va calcolata con riferimento ad ogni punto del fabbricato e per tutte le pareti finestrate.

Il punto nodale è rappresentato dalla nozione di “sopraelevazione” che, ancorché nominalmente distinta nel regolamento edilizio (art. 2) dalle nuove costruzioni, non ha avuto una sua autonoma configurazione giuridica e non può non essere ricompresa nella stessa unitaria disciplina (lex ubi voluit, dixit), rappresentando la sopraelevazione un “plus” aggiuntivo rispetto all’esistente, che, con un’elevazione dell’edificio, viene ad assumere altra consistenza (volumetria, superficie, sagoma, parametri edilizi).
Da ciò discende la violazione degli artt. 7, 8, 9 del REC, essendo stato omesso il parere obbligatorio.
L’art. 41 delle NTA del PRG viene impugnato, non in quanto tale, bensì per l’interpretazione data dal Comune nel rilasciare la concessione edilizia e, quindi, non è possibile eccepire alcuna tardività; esso, invero, consente di realizzare sopraelevazioni, nei limiti della sagoma planimetrica, in deroga alle norme sulle distanze e nel rispetto del c.c.; l’espressione è generica ed ambigua, anche perché l’art. 873 “distanze nelle costruzioni” si riferisce ai “fondi finitimi”, stabilendo il limite minimo di mt. 3.
Nella fattispecie sono in discussione gli standards di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 (pareti finestrate tra edifici antistanti), che non sono stati considerati nella loro specificità; la norma ha, comunque, natura primaria e si sostituisce ad ogni eventuale disposizione contraria contenuta nelle NTA (C.S., IV, n. 6909/2005); essa, pertanto, va rispettata in tutti casi, avendo natura cogente e suscettibile di inserzione automatica nello strumento urbanistico (Cass. Civ., II, n. 21899/2004).
La distanza di 10 mt. va calcolata con riferimento ad ogni punto del fabbricato e per tutte le pareti finestrate (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 06.07.2009 n. 481 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Applicabilità art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444.
Si pongono diversi quesiti in merito all’applicabilità, o meno, dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, (e quindi della disciplina delle distanze tra fabbricati) nell’ipotesi di pareti finestrate appartenenti ad un unico edificio (Regione Piemonte, parere n. 53/2009 - tratto da www.regione.piemonte.it).

EDILIZIA PRIVATAL’obbligo di rispettare una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, ex art. 9 DM 1444/1968, presenta carattere tassativo in quanto tale non derogabile dalla disciplina urbanistica comunale.
Con l'espressione “pareti finestrate” occorre fare riferimento, in via interpretativa, all’articolo 900 c.c. che include nella stessa oltre alle vedute anche le luci.

La questione controversa tra le parti attiene all’ambito di applicazione dell’articolo 9 del D.M. n. 1444 del 1968, nella parte in cui impone l’obbligo di rispettare una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
La disposizione mira ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico sanitario e presenta pertanto carattere tassativo, come esattamente rilevato dal primo giudice, in quanto tale non derogabile dalla disciplina urbanistica comunale.
Quanto al significato della espressione “pareti finestrate”, occorre fare riferimento, in via interpretativa, all’articolo 900 c.c., che include nella stessa, oltre alle vedute, anche le luci.
Sul significato del termine “edifici”, esso va ragionevolmente inteso come “edificato” ed indipendentemente dalla destinazione dello stesso, avuto riguardo alla evidenziata finalità della disposizione (nella specie, risulta rilevante la inferiore distanza, rispetto al prescritto limite minimo, tra il muro di cui alla nuova edificazione e la parete finestrata).
Circa la “novità” della costruzione, va osservato che nella specie è stato realizzato un organismo edilizio diverso da quello preesistente per volumetria, sagoma e dislocazione nel lotto: basti fare riferimento alla rappresentazione grafica contenuta nella memoria dell’appellato depositata in vista dell’udienza di discussione della causa per percepire con immediatezza la diversità del realizzato rispetto al preesistente relativamente agli elementi sopra indicati
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.06.2009 n. 4015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di distanze nelle costruzioni, nel caso di trasformazione del tetto in terrazzo, munito di riparo o ringhiera, che venga a trovarsi a distanza inferiore a quella legale rispetto all'altrui fondo, il comodo affaccio esercitabile su di questo costituisce turbativa del possesso del vicino. Tale possesso è reclamabile con l'azione di manutenzione ed alla predetta turbativa è possibile porre rimedio con l'esecuzione di opere idonee, secondo l'insindacabile apprezzamento del giudice di merito in quanto sorretto da coerente motivazione, ad evitare l'affaccio a distanza inferiore a quella legale.
In tema di distanze legali, sono da ritenere integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d'interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano, nell'ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini; ne consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria.
In linea di principio, una recente pronuncia della Corte di Cassazione insegna che: “in tema di distanze nelle costruzioni, nel caso di trasformazione del tetto in terrazzo, munito di riparo o ringhiera, che venga a trovarsi a distanza inferiore a quella legale rispetto all'altrui fondo, il comodo affaccio esercitabile su di questo costituisce turbativa del possesso del vicino. Tale possesso è reclamabile con l'azione di manutenzione ed alla predetta turbativa è possibile porre rimedio con l'esecuzione di opere idonee, secondo l'insindacabile apprezzamento del giudice di merito in quanto sorretto da coerente motivazione, ad evitare l'affaccio a distanza inferiore a quella legale” (massima tratta da Cass. 07.05.2008 n. 11201).
I
n ordine all’efficacia civilistica delle norme urbanistiche, la giurisprudenza della Suprema Corte si esprime nel senso che: “in tema di distanze legali, sono da ritenere integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d'interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano, nell'ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini; ne consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria” (massima tratta da Cass. 16.01.2009 n. 1073.  (Corte d'Appello di Firenze, Sez. I civile, sentenza 04.06.2009 n. 758).

EDILIZIA PRIVATALa distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.
Tale norma sulle distanza, infine, non è derogabile neanche pattiziamente dai privati.

Carattere pregiudiziale ed assorbente riveste in merito la censura di violazione del D.M. 02.04.1968, n. 1444, con la quale la parte istante si è lamentata nella sostanza del fatto che la nuova costruzione non rispetta la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate.
Premesso che l’art. 9 di tale D.M. dispone che le nuove costruzioni debbono rispettare la distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e che è consentito derogare a tale prescrizione nelle zone "A" solo relativamente alle operazioni di risanamento conservativo ed alle ristrutturazioni, in quanto in tali zone vige il generale divieto di costruzioni “ex novo” (Cass. Civ., sez. II, 20.05.2008, n. 12767), va osservato che tale prescrizione -come costantemente chiarito dalla giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. IV, 12.06.2007, n. 3094)- è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.
Tale prescrizione per la sua funzione igienico-sanitaria di evitare intercapedini malsane costituisce, invero, un principio inderogabile della materia e prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata, e sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che per la loro natura igienico-sanitaria non sono nella disponibilità delle parti (TAR Lombardia, sez. Brescia, 03.07.2008, n. 788); in particolare, come anche questa stessa Sezione ha anche di recente precisato (con sentenza 24.11.2007, n. 903), tale disposizione comporta che, ove lo strumento urbanistico contenga disposizioni contrastanti, il giudice deve non solo disapplicare tali disposizioni illegittime, ma anche applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserimento automatico, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata. Tale norma sulle distanza, infine, non è derogabile neanche pattiziamente dai privati (TAR Sicilia, sez. Catania, sez. I, 26.06.2008, n. 1232) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 11.05.2009 n. 336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per pareti finestrate -circa il rispetto della distanza minima di mt. 10 di cui al D.M. 1444/1968- devono intendersi non soltanto le pareti munite di "vedute" ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce), essendo sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti.
Come la Sezione ha già recentemente affermato, è cogente il disposto di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 che ha natura di fonte inderogabile anche da parte dei regolamenti locali e prevale anche su eventuali difformi disposizioni regolamentari locali (TAR Piemonte, Sez. I, 10.10.2008, n. 2565) essendo dettata dall’esigenza di tutelare interessi pubblici superindividuali.
Ne consegue che la necessità del rispetto degli standard in materia di distanze, contemplati dalla predetta norma di fonte primaria, è elevata a precetto inderogabile dalla seconda parte dell’art. 32, comma 27, lett. d), del D.L. n. 269/2003, là dove viene sancita la non sanabilità delle opere abusive “non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
E’ di palmare evidenza e di cristallina chiarezza, a parere della Sezione, che il riferimento contenuto nella norma appena riportata alle “norme urbanistiche” va sicuramente esteso alla disposizione di cui all’art. 9 del D.M. cit. che impone il rispetto della distanza minima di metri 10 tra pareti finestrate, all’uopo bastando, come pure ha rilevato il Tribunale con la ricordata recente sentenza, che sia finestrata una sola delle due pareti, indifferentemente del ricorrente o del controinteressato e che per pareti finestrate “devono intendersi, non soltanto le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce), essendo sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti” (TAR Piemonte, Sez. I, 10.10.2008, n. 2565)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.04.2009 n. 987 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre rientrano nella categoria delle sporgenze, non computabili ai fini delle distanze, soltanto gli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari dimensioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
In tema di distanze legali fra edifici non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati.
Ai fini del computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.

In tema di distanze fra edifici, infatti, per consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, mentre rientrano nella categoria delle sporgenze, non computabili ai fini delle distanze, soltanto gli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari dimensioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr: TAR Campania, Napoli, Sez. II, 23.04.2007 n. 4215).
Anche la Corte di Cassazione è pacificamente orientata nel senso di ritenere che “In tema di distanze legali fra edifici non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati” (Cass. Civ., Sez. II, 26.05.2006 n. 12964).
Deve quindi concludersi nel senso che, ai fini del computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 06.04.2009 n. 432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra fabbricati - Recinzioni tra costruzioni - Irrilevanza.
La presenza di una recinzione tra due fabbricati (nel caso di specie recinzione di mattoni forati tra box e abitazione) non esime dal rispetto della distanza tra fabbricati (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3094/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.03.2009 n. 1924 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La distanza minima di mt. 10,00 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti (ex art. 9 DM 1444/1968) vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima essendo consentita alla Pubblica amministrazione solo la fissazione di distanze superiori.
Questo Consesso ha già affermato che l’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444, che pone l’inderogabile distanza minima assoluta di 10 metri tra costruzioni, trae dall’art. 41-quinquies L. 17.08.1942 n. 1150 (modificato dall’art. 17 L. 06.08.1967 n. 765) la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché la distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prederminata con carattere cogente in via generale ed astratta in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima essendo consentita alla Pubblica amministrazione solo la fissazione di distanze superiori (Cons. di Stato, sez. V, n. 6399/2006).
In particolare l’applicazione dell’art. 9 alla fattispecie edilizia dell’aumento di volume di un edificio esistente si spiega con l’evidente “ratio” di tutelare le posizioni soggettive del confinante, il quale subisce la vicinanza alla medesima distanza originaria di un fabbricato però maggiormente ingombrante, destinatario di un intervento che non può essere collocato nella categoria delle ristrutturazioni con fedele ricostruzione, ma che, rientrando piuttosto in quella della costruzione “ex novo”, deve rispettare la distanza minima stabilita dal cennato art. 9, nella sua cennata valenza integrativa. L’interpretazione contraria, privilegiata dal Comune di San Bonifacio, comporterebbe peraltro che, successivamente al varo di uno strumento urbanistico conforme al DM n. 1444/1968, si pervenga ad una regolamentazione derogatoria che in origine non avrebbe potuto essere adottata ed approvata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.03.2009 n. 1491 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIntegrazione dell'art. 873 C.C. da parte delle norme degli strumenti urbanistici sulle distanze.
Le prescrizioni dei piani regolatori generali e degli annessi regolamenti comunali edilizi, che disciplinano le distanze nelle costruzioni anche con riguardo ai confini, sono integrative del codice civile, sicché il giudice, in applicazione del principio iura novit curia, deve acquisirne diretta conoscenza d'ufficio, quando la violazione di queste sia dedotta dalla parte (massima tratta da www.lavatellilatorraca.it - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 02.02.2009 n. 2563).

EDILIZIA PRIVATAAltezza e distanza tra le costruzioni: la sola violazione delle altezze non comporta la demolizione.
Sono da ritenere integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni relative alla determinazione della distanza tra fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità (quali la previsione di spazi liberi o il rapporto tra altezza e distanza tra edifici), la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni: in tal caso le distanze legali sono calcolate con riferimento all'altezza dei fabbricati. Le norme che, invece, disciplinano solo l'altezza in sé degli edifici, a differenza di quelle che invece impongono l'altezza dei fabbricati in rapporto alla distanza intercorrente tra gli stessi, tutelano, oltre che l'interesse pubblico di ordine igienico ed estetico, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini, per il che comportano, in caso di loro violazione, il solo risarcimento dei danni.
Pertanto, nell'ambito delle norme dei regolamenti locali edilizi, hanno carattere integrativo delle disposizioni dettate nelle materie disciplinate dagli art. 873 e ss. c.c. quelle dirette a completare, rafforzare, armonizzare con il pubblico interesse di un ordinato assetto urbanistico la disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato. Se violate, sussiste in favore del danneggiato il diritto alla riduzione in pristino.
Non rivestendo, invece, tale carattere le norme che hanno come scopo principale la tutela di interessi generali urbanistici, quali la limitazione del volume, dell'altezza e della densità degli edifici, le esigenze dell'igiene, della viabilità, la conservazione dell'ambiente ed altro. In questa seconda ipotesi la tutela accordata al privato nel caso di violazione della norma rimane limitata al risarcimento del danno eventualmente subito (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 16.01.2009 n. 1073).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Diniego di intervento interdittivo da parte della P.A. - Distanze tra i fabbricati previste dall'art. 9 D.M. 1444/1968 - Sopraelevazione per recupero abitativo di sottotetto - Applicabilità - Illegittimità.
2. Diniego di intervento interdittivo da parte della P.A. - Risarcimento del danno - Mancanza di prova di colpa dell'amministrazione e del danno sofferto - Non sussiste.

1. L'art. 9 D.M. 1444/1968, pur riferendosi ai nuovi edifici, è applicabile anche agli interventi di sopraelevazione e dunque anche alle ristrutturazioni che -volte al recupero del sottotetto- comportano un incremento dell'altezza non trascurabile del fabbricato. La possibilità di realizzare ai sensi della L.R. 15/1996 volumetrie aggiuntive da destinarsi al recupero dei sottotetti in deroga agli strumenti urbanistici non opera in relazione alle previsioni dello strumento urbanistico che riproducono disposizioni normative di rango superiore, quale la disciplina delle distanze tra fabbricati del D.M. 1444/1968 che ha carattere inderogabile in quanto materia inerente all'ordinamento civile, che risponde ad esigenze pubblicistiche sovrastanti gli interessi dei singoli, e rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. Pertanto, il provvedimento comunale che motiva la mancata adozione di un provvedimento interdittivo delle opere oggetto di D.I.A. per non essere il recupero abitativo di sottotetto realizzato soggetto alle prescrizioni dell'art. 9 D.M. 1444/1968, è illegittimo.
2. Non è accoglibile la richiesta avanzata dal ricorrente di risarcimento del danno patito per il mancato intervento interdittivo del Comune in quanto l'imputabilità della responsabilità all'Amministrazione non consegue al mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, ma richiede l'accertamento in concreto della colpa dell'Amministrazione che, nel caso specie, non è stata provata dal ricorrente (che non ha provato neppure il danno sofferto), né risulta aliunde (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.01.2009 n. 77).

EDILIZIA PRIVATA: Normative di settore - Distanze in materia sanitaria.
Nel caso in cui il regolamento edilizio prescriva, per il rilascio della concessione di costruzione di porcilaie, una determinata distanza da una sorgente, agli effetti della verifica della legittimità dell'impugnato diniego è ininfluente accertare se nella specie si trattava di nuova costruzione ovvero di mera ristrutturazione di un locale prima destinato all'allevamento di bovini ed ora da utilizzare per l'allevamento di suini, atteso che non è il tipo di intervento, ma la destinazione dell'impianto alla produzione suinicola a imporre l'osservanza della disciplina edilizia sulle distanze di sicurezza (massima tratta da www.studiospallino.it - TAR Molise, Sez. I, sentenza 14.01.2009 n. 6 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2008

EDILIZIA PRIVATA: Quesito 7 - Sull'applicabilità anche alle "luci" e non solo alle "vedute" della norma che impone un distacco minimo tra le pareti finestrate di 10 metri (Geometra Orobico n. 6/2008).

EDILIZIA PRIVATA: Quesito 9 - Sull'obbligo di rispettare o meno la distanza di 10 metri tra pareti finestrate per la sopraelevazione di un edificio che fronteggi in altro edificio più basso già esistente (Geometra Orobico n. 5/2008).

EDILIZIA PRIVATA: A. Berto, Distanze tra le costruzioni e principio della prevenzione (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATALe norme sulle distanze dei fabbricati contenute nel d.m. n. 1444/1968 hanno carattere pubblicistico ed inderogabile.
La sopraelevazione di un fabbricato esistente costituisce nuova costruzione.

Secondo un preciso e ormai consolidato orientamento giurisprudenziale cui la Sezione ritiene di aderire pienamente, le norme sulle distanze dei fabbricati contenute nel d.m. n. 1444/1968 hanno carattere pubblicistico ed inderogabile e vincolano i Comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici (cfr. Cons. Stato Sez. IV 05/12/2005 n. 6909; questa Sezione 22.06.2004 n. 2289). In particolare, poi, quella che prescrive la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è un previsione che ha carattere di assolutezza ed inderogabilità e, in quanto derivante da fonte normativa statale, deve considerarsi sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali (cfr. Cons. Stato sezione IV 12/07/2002 n. 3929; Cass. Civ. II 07/06/1993 n. 6360; TAR Lombardia Milano Sez. II 15/04/2003 n. 1007).
Il manufatto da realizzarsi in sopraelevazione (un piano abitabile) costituisce una nuova costruzione, dacché comporta modifiche planovolumetriche e comunque significative innovazioni in ordine al volume, all’altezza e alla forma del fabbricato, tali da far meritare all’aggiuntivo piano che si va a realizzare la natura e consistenza di una nuova costruzione, che, come tale, ricade nella previsione del D.M. prescrittiva dell’osservanza del limite di distanza di 10 metri: all’uopo, nei sensi testé illustrati depone un preciso orientamento giurisprudenziale che il Collegio ritiene di dover condividere (cfr. Tar Campania Napoli Sez. II 12/04/2006 n. 3547; questa Sezione 22/01/2007 n. 55, idem 13.04.2007) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 19.12.2008 n. 4160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla distanza di 10 mt. dai fabbricati nel caso di demolizione/ricostruzione.
La demolizione e la ricostruzione di un fabbricato esistente, opere queste che connotano esattamente la nozione di ristrutturazione edilizia che, come ripetutamente sancito in giurisprudenza (vedi Cons. Stato Sezione 31.10.2006 n. 6464; idem Sezione V 26/05/1992 n. 464; questa Sezione 02/07/2007 n. 1022; idem n. 662/2001) riveste un’ampia portata, da comprendere, appunto, la demolizione dell’immobile preesistente, la sua successiva ricostruzione, fino all’inserimento di un quid novi, il tutto nel rispetto del canone legislativo di definizione degli interventi di ristrutturazione di cui all’originario testo dell’art. 31 della legge n. 457 del 1978 e alle attuali disposizioni recate dal testo unico dell’edilizia contenuto nel DPR n. 380 del 06.06.2001 (art. 3, lettera c).
Nel caso di un intervento edilizio consistente nella demolizione/ricostruzione fedele di un fabbricato non è invocabile la denunciata violazione delle disposizioni vigenti in materia di rispetto delle distanze di cui al D.M. n. 1444/1968 dal momento che i limiti imposti valgono per le nuove costruzioni e tale non può qualificarsi l’intervento assentito.
In altri termini, nella specie siamo in presenza ad un intervento di ristrutturazione edilizia in cui è stata previsto il mantenimento del muro di confine di proprietà in relazione al quale non appaiono applicabili i limiti dei 10 metri tra le pareti finestrate e dei 3 metri tra costruzioni su fondi finitimi
(TAR Toscana, Sez. II, sentenza III, sentenza 19.12.2008 n. 4159 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze tra pareti finestrate - Portico aperto su tre lati - Non si applicano.
Non ricorrono i presupposti per applicare la distanza minima di 10 metri verso pareti finestrate prevista dall'art. 9, comma 1, n. 2, DM 02.04.1968 n. 1444, in caso di realizzazione di un portico, destinato a rimanere aperto su tre lati, e quindi è inidoneo a costituire le strette intercapedini vietate sotto il profilo igienico-sanitario dalla suddetta norma (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, sentenza 11.11.2008 n. 1601 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' finestrata non solo la parete munita di vedute ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce).
Il Collegio condivide l’assunto della giurisprudenza di legittimità che ha, di recente, ribadito l’imperatività e inderogabilità delle prescrizioni di cui al D.M. 1444/1968, che non possono essere disattese dalle normative urbanistiche locali, conseguendone che “i comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto” (Cassazione Civile, Sez. II, 11.02.2008, n. 3199) .
Il Tribunale è anche dell’avviso che il D.M. n. 1444/1968 sia una fonte sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici, in quanto contenente norme inderogabili, di ordine pubblico e che in caso di contrasto dei primi con le prescrizioni del Decreto, il Giudice debba disapplicare i predetti regolamenti comunali contrastanti, applicando, in via di sostituzione, la fonte statale imperativa (Cassazione civile, Sez. II, 03.03.2008, n. 5741; nel senso che gli strumenti urbanistici non possono infrangere tali previsioni, TAR Liguria, Sez. I, 07.03.2008, n. 379).
Per la giurisprudenza è finestrata non solo la parete munita di vedute, in quanto “per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce)” (Corte d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.10.2008 n. 2565 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le distanze ex d.m. 1444/1968 non si applicano tra edifici posti in zone omogenee diverse.
L’articolo 9 del DM n. 1444/1968 non si applica tra fabbricati posti l’uno in zona omogenea A, l’altro in zona omogenea B, poiché diversamente dovrebbe affermarsi, in modo illogico e contrario alla disposizione del D.M. citato, l'ultrattività delle maggiori distanze di 10 mt., anche nella zona A (TRIBUNALE di Como, Sez. distaccata di Menaggio, ordinanza 10.10.2008 - link a
www.cameramministrativacomo.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le terrazze non devono rispettare la distanza minima di mt. 10,00 tra pareti finestrate.
Il Collegio osserva, infatti, che le terrazze non possono venire considerate ai fini del calcolo delle distanze tra pareti finestrate, non essendo sussumibili nel paradigma dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 richiamato dagli istanti (decreto recante: “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765”): ed invero, la terrazza, priva di qualsiasi manufatto, non conta in alcun modo ai fini delle distanze qui in esame, essendo palese che i distacchi individuati dal suddetto decreto sono da calcolarsi tra le pareti degli edifici propriamente dette.
La disposizione testé citata così recita:
“9. Limiti di distanza tra i fabbricati. Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
- ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
- ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche”.
Il punto 2) dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 prescrive “in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”: nel caso di specie la distanza contestata non è tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”, bensì tra una veranda ed una parete (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 04.08.2008 n. 422 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla distanza minima di mt. 10,00 tra fabbricati che si applica non solo alle "vedute" ma anche alle "luci".
Le norme del regolamento edilizio si applicano a prescindere dal richiamo che ne facciano le altre disposizioni di natura edilizio-urbanistica, e ciò in quanto il R.E.C. disciplina in generale l’attività edilizia e quindi pone precetti che sono validi in qualsiasi zona del territorio, salvo deroghe espresse. E la norma che impone distacchi minimi tra fabbricati è una norma di portata generale, considerata la ratio che è alla base della disposizione in parola (ossia, quella di evitare le c.d. intercapedini dannose).
Non si può ritenere che la norma che impone un distacco minimo tra pareti finestrate presuppone l’esistenza solo di “vedute”, in quanto la fruibilità dell’immobile è intaccata anche quando viene violata la distanza minima fra “luci” (riducendosi in questo caso l’illuminazione naturale all’interno dell’edificio) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.07.2008 n. 2058 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul rispetto o meno dei 10 mt. tra pareti finestrate nel caso di ristrutturazione edilizia con sopralzo e nel caso si interponga una strada pubblica.
Il progetto del piano di recupero prevede la realizzazione di un sopralzo dell’edificio da ristrutturare in parziale corrispondenza di una parete finestrata posta a una distanza inferiore a 10 metri. Questa previsione progettuale contrasta con l’art. 9, comma 1 n. 2, del DM 1444/1968, il quale impone per gli edifici realizzati al di fuori della zona A una distanza minima di 10 metri dalle pareti finestrate. La giurisprudenza ha chiarito che questa norma per la sua genesi (è stata adottata ex art. 41-quinquies comma 8 della legge 17.08.1942 n. 1150, come introdotto dall’art. 17 della 06.08.1967 n. 765) e per la sua funzione igienico-sanitaria (evitare intercapedini malsane) costituisce un principio inderogabile della materia. In particolare si tratta di una norma che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (v. C.Cost. 16.06.2005 n. 232, punto 4, con le eccezioni ivi previste), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata (v. Cass. civ. Sez. II 31.10.2006 n. 23495), sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che per la loro natura igienico-sanitaria non sono nella disponibilità delle parti (v. CS Sez. IV 12.06.2007 n. 3094).
Più in dettaglio si osserva che l’art. 9, comma 1 n. 2, del DM 1444/1968 si applica a tutti gli interventi edilizi che abbiano il contenuto sostanziale di costruzione, e quindi anche alle ristrutturazioni con ampliamento del volume e della superficie (v. Cass. civ. Sez. II 28.09.2007 n. 20574). Il fatto che l’edificio preesista e venga sopraelevato non dà diritto a mantenere l’allineamento acquisito. Una simile conclusione potrebbe essere ammissibile solo in circostanze particolari, quando l’allineamento corrisponda a un interesse pubblico autonomo e attinente all'assetto urbanistico complessivo di una zona urbanistica (v. ancora C.Cost. 16.06.2005 n. 232, punto 4). Nel caso in esame un tale interesse non è evidenziato, e dunque è necessario disapplicare l’art. 22 comma 16 delle NTA che consente la sopraelevazione sugli allineamenti esistenti senza tenere in considerazione la presenza di pareti finestrate.
L’art. 9 comma 1 n. 2 del DM 1444/1968 è applicabile anche quando tra le pareti finestrate (o tra una parete finestrata e una non finestrata) si interponga una via pubblica. La fattispecie è regolata dal comma 2 del medesimo art. 9, che prescrive in questo caso distacchi maggiorati in relazione alla larghezza della strada. L’esclusione della viabilità a fondo cieco prevista nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e non alla distanza minima di 10 metri, che rimane inderogabile a salvaguardia delle esigenze igienico-sanitarie. In presenza di pareti finestrate poste a confine con la via pubblica non è quindi mai ammissibile la deroga prevista dall’art. 879 comma 2 c.c. per le distanze tra edifici e dall’art. 905 comma 3 c.c. per le vedute (v. CS Sez. IV 19.06.2006 n. 3614). Per imporre l’obbligo di arretramento è sufficiente che anche solo una porzione del nuovo edificio (o del sopralzo) fronteggi la parete finestrata. Occorre peraltro stabilire fino a che punto si spinga tale obbligo. Trattandosi di edifici con altezze diverse la giurisprudenza afferma che vi è sempre obbligo di arretramento anche se la nuova costruzione sia mantenuta a una quota inferiore a quella delle finestre antistanti e a una distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907 comma 3 c.c. (v. Cass. civ. Sez. II 31.10.2006 n. 23495). L’obbligo di rispettare la distanza è stato affermato anche nel caso di edifici che si fronteggiano con pareti aventi andamento non parallelo (v. Cass. civ. Sez. II 30.03.2001 n. 4715). Nel caso in esame tuttavia una parte dell’edificio rialzato non fronteggia in orizzontale alcuna parete è dunque con riguardo a questa porzione l’arretramento costituirebbe una misura sproporzionata, quantomeno se il risultato complessivo consentisse di escludere la formazione di un’intercapedine. Questo non esime però dal rispetto della distanza nei punti in cui esiste una parete finestrata, e dunque è necessario che l’intero progetto sia rivisto.
La presenza di una via pubblica consente la deroga alle norme sulle distanze tra gli edifici ma non incide sull’applicazione, che rimane necessaria, dell’art. 9 comma 1 n. 2 del DM 1444/1968. La qualificazione del vicolo chiuso come via pubblica non consente quindi al Comune di concedere una deroga alla distanza di 10 metri dalle pareti finestrate. La questione della natura pubblica o privata dell’area rimane peraltro rilevante al più limitato fine di individuare le possibilità di utilizzazione da parte della controinteressata (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 03.07.2008 n. 788 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl balcone aggettante deve essere conteggiato al fine del rispetto dei 10 mt. tra pareti finestrate.
I seguenti principi sono stati più volte affermati da questa Corte:
- nel calcolo delle distanze fra le costruzioni devono trascurarsi soltanto quegli sporti che non siano idonei a determinare intercapedini dannose o pericolose, consistendo in sporgenze di limitata entità, con funzione meramente decorativa, mentre vengono in considerazione le sporgenze costituenti, per i loro caratteri strutturali e funzionali, veri e propri aggetti, implicanti, perciò, un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come, appunto, i balconi formati da solette aggettanti (anche se scoperti) di apprezzabile profondità, ampiezza e consistenza (sentenze 27/07/2006 n. 17089; 31/05/2006 n. 12964; 25/03/2004 n. 5963; 02/10/2000 n. 13001; 18/06/1998 n. 5719);
- la concessione edilizia ha il limitato fine di rimuovere un ostacolo pubblicistico alla esplicazione del diritto di edificare e la sanatoria (cosiddetto condono edilizio) attiene esclusivamente alla regolarizzazione delle opere dal punto di vista amministrativo, penale e fiscale, senza però incidere nei rapporti fra privato costruttore e i suoi vicini, che conservano il diritto di ottenere il risarcimento del danno e, in ipotesi di violazione delle norme sulle distanze, la riduzione in pristino (sentenze 23/11/1999 n. 12984; 22/07/1999 n. 7892; 22/03/1999 n. 2658);
- nell'ambito delle opere edilizie, la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali (sentenze 27/04/2006 n. 9637; 15/07/2003 n. 11027; 26/10/2000 n. 14128);
- in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché il D.M. 02.04.1968, art. 9, applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, come modificata dalla L. 06.08.1967, n. 765, stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (sentenza 27/07/2006 n. 17089) (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 20.06.2008 n. 16950).

EDILIZIA PRIVATA: DISTANZE TRA FABBRICATI - NORMATIVA APPLICABILE – INAPPLICABILITA’ IN RIFERIMENTO AD UNA PUBBLICA VIA - PRESUPPOSTI.
…l'esonero dal rispetto delle distanze legali previsto dall'art. 879, comma 2, c.c. per le costruzioni a confine con le piazze e vie pubbliche, vada riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio, attenendo il carattere pubblico della strada -rilevante ai fini dell'applicazione della norma citata- più che alla proprietà formale del bene all'uso concreto di esso da parte della collettività ….
…anche una strada privata poteva assumere una connotazione pubblicistica rilevante ex art. 879 cit. laddove essa fosse stata effettivamente asservita ad uso pubblico e tale uso avesse trovato titolo, se non in una convenzione tra i proprietari del suolo stradale e l'ente pubblico, in una protrazione di fatto del medesimo per il tempo necessario alla relativa usucapione (
Tribunale di Nola, Sez. II civile, sentenza 17.06.2008 - link a www.iussit.eu).

EDILIZIA PRIVATA: A. Rinaldi, Le distanze tra profili amministrativi, edilizi e civilistici (link a www.greenlex.it).

EDILIZIA PRIVATALa sopraelevazione di un fabbricato che fronteggi un altro edificio esistente più basso deve, comunque, rispettare la distanza minima di mt. 10,00.
Il Collegio ritiene condivisibile l’orientamento Giurisprudenziale secondo il quale le previsioni di cui all’art. 9 DM 1444/1968 traggono dall’art. 41-quinquies L. 1150/1942 la forza di integrare con efficacia precettiva le eventuali norme regolamentari contrastanti, che pertanto possono essere disapplicate anche in mancanza di specifica impugnativa. L’art. 2.18 delle NTA, come si è visto, impone il rispetto di una distanza tra fabbricati non inferiore a quella intercorrente tra i volumi preesistenti, ma tale distanza può risultare inferiore a 10 metri: trattasi pertanto di norma illegittima, suscettibile di essere disapplicata siccome contrastante con l’art. 9 del DM 1444/1968, nella parte in cui implicitamente consente che pareti finestrate di nuove costruzioni possano essere realizzate ad una distanza inferiore a dieci metri rispetto a fabbricati già esistenti.
La distanza tra fabbricati imposta dall’art. 9 del DM 1444/1968 è, come noto, assolutamente inderogabile, in quanto finalizzata a garantire igiene e salubrità dei fabbricati, e deve essere osservata anche se una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata: di guisa che non è pensabile di superare il problema mediante accordi tra vicini o prescrivendo, al primo che sopraeleva, di mantenere cieca la parete prospiciente il fondo confinante: anche il tal caso, infatti, si creerebbe una limitazione alla possibilità per il confinante di sopraelevare a propria volta. Si deve pertanto ritenere che, seppure nel momento in cui viene realizzata non fronteggi alcuna parete, una sopraelevazione deve comunque essere attuata osservando sia le distanze dai confini, ove previste; sia i dieci metri di cui all’art. 9 DM 1444/1968 dagli eventuali fabbricati –più bassi- già esistenti. Unica eccezione può essere data nel caso in cui il proprietario del fondo confinante, che non abbia ancora sopraelevato, rinunci a costruire in sopraelevazione, con atto costituito nelle forme previste per la costituzione di servitù “altius non tollendi” (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 04.06.2008 n. 1387 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAApplicazione dell'art. 9 D.M. 1444/1968.
L'art. 9, comma 1 n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in forza dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765- in base al quale la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo ultimo, dove vige il generale divieto di costruzioni "ex novo", la norma si limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti (massima tratta da www.lavatellilatorraca.it - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 20.05.2008 n. 12767).

EDILIZIA PRIVATA: La distanza si conta dal balcone. Ogni «corpo avanzato» va considerato se non è solo ornamentale. La Cassazione allarga il concetto di costruzione ai fini del calcolo dello spazio minimo.
Si allarga il concetto di «costruzione». E ai fini delle distanze si calcolano anche terrazze e scale sterne.
Con la sentenza 28.09.2007 n. 20574 la Corte di Cassazione ha affermato che ai fini dell'osservanza delle distanze legali deve considerarsi costruzione qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato. E ciò indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera, dai caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno, dall'uniformità o continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione e dalla sua funzione o destinazione ... (
articolo Il Sole 24 Ore del 28.04.2008, pag. 48).

EDILIZIA PRIVATALa sopraelevazione di un fabbricato esistente costituisce, a tutti gli effetti, nuova costruzione e, come  tale, deve rispettare la distanza minima di mt. 10 dai fabbricati circostanti.
Ai fini dell’applicazione della normativa in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione deve intendersi non solo la realizzazione ex novo d’un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria d’un fabbricato preesistente, che ne comporti l’aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi; per il che si è ripetutamente ritenuto che la sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti, nuova costruzione (cfr. Consiglio di Stato, V Sezione, 14.03.1993 n. 481; Cassazione civ., 11.06.1997 n. 5246).
Va poi aggiunto che le norme di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444, hanno carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali in materia urbanistica (cfr. Cassazione civ., II, 16.02.1996, n. 1021).
Il D.M. 02.04.1968, infatti, emanato ai sensi dell'art. 17 della n. 765 del 1967, trae da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti –ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A, come nel caso di specie, ove trattasi di zona B del P.d.F.– vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima (cfr. Cassazione civ., SS.UU., 21.02.1994, n. 1645), essendo consentita alla P.A. solo la fissazione di distanze superiori (cfr. Consiglio di Stato, IV Sezione, 13.05.1992, n. 511; Cassazione civ., 29.10.1994, n. 8944).
Il Collegio condivide il pacifico orientamento giurisprudenziale in base al quale la norma richiamata trova applicazione indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente (cfr. Cassazione civ., II Sezione, 26.01.2001, n. 1108, 03.08.1999, n. 8383; 18.02.1997, n. 1486) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 12.04.2006 n. 3547 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa normativa in materia di distanze minime che debbono essere osservate in caso di edificazione trova applicazione solo laddove il confinante realizzi una “costruzione”, non rilevando a tale fine la realizzazione di manufatti che, per le loro caratteristiche, non possono essere ritenute tali.
Seppure non è contestata dal ricorrente la circostanza che l’estradosso della parte del seminterrato a confine con altro lotto fuoriesce di 15 centimetri dalla recinzione del lotto assegnato alla ditta ..., non è logico assimilare ad una costruzione tale parte della copertura del seminterrato.
Infatti, la normativa in materia di distanze minime che debbono essere osservate in caso di edificazione trova applicazione solo laddove il confinante realizzi una “costruzione”, non rilevando a tale fine la realizzazione di manufatti che, per le loro caratteristiche, non possono essere ritenute tali.
Nel caso di specie, il Comune ritiene che la piccola porzione della copertura del seminterrato che fuoriesce dalla recinzione (a causa, fra l’altro, del dislivello esistente fra i due lotti) sia da equiparare ad una costruzione, la qual cosa, come detto, non appare logica, proprio a causa del limitatissimo impatto che il manufatto è in grado di provocare sulla proprietà confinante (TAR Puglia-Lecce, sez. III, sentenza 29.03.2008 n. 910 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Violazione distanze legali tra fabbricati.
La concessione edilizia rilasciata in violazione sulle distanze legali tra fabbricati investe anche un rapporto pubblicistico con l’Ente territoriale a tutela di una posizione di interesse legittimo (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 03.01.2008 n. 2 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze tra edifici - Art. 873 c.c. - Regime derogatorio per i vani tecnici - Inconfigurabilità.
Quantunque il vano tecnico partecipi di un regime differenziato, nel senso che esso può essere portato in aggiunta alla volumetria massima realizzabile in fase di progettazione dell’immobile (T.A.R Lazio II sez. 21/06/04 n. 6016; Cons. St. V sez. 23/03/1991 n. 329), ciò non significa che il regime derogatorio riguardi anche il distacco degli edifici. Va da sé infatti che la realizzazione di vani tecnici a distanza minore da quella normativamente prevista inevitabilmente comprometterebbe il raggiungimento delle finalità perseguite dalle regole di cui all’art. 873 c.c..
Distanze tra edifici - Concessione edilizia rilasciata in violazione dell’art. 873 c.c. - Giurisdizione ordinaria - Giurisdizione amministrativa.
L’obbligo del rispetto della distanza minima assoluta tra edifici (nel caso di specie imposto anche da norme regolamentari) è inderogabile anche per la P.A preposta al rilascio della concessione edilizia (C.G.R.S 17/05/2000 n. 240). Sicché, ferma restando la possibilità per l’interessato di tutelare innanzi al giudice ordinario il diritto leso dalla esecuzione di opere edilizie non conformi alle prescrizioni di legge o degli strumenti urbanistici (Cass. SS. UU. 12/06/1999 n. 333), deve comunque riconoscersi altresì legittima la reazione giurisdizionale in sede amministrativa, posto che la concessione edilizia rilasciata in violazione sulle distanze legali tra fabbricati investe anche un rapporto pubblicistico con l’Ente territoriale a tutela di una posizione di interesse legittimo (Cons. St. V sez. 13/01/2004 n. 46) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 03.01.2008 n. 2 - link a www.ambientediritto.it).

anno 2007

EDILIZIA PRIVATA1. Scelta urbanistica volta alla tutela dell'ambiente - Motivazione ampia - Non necessità.
2. Distanze tra fabbricati - Limiti minimi del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -Inderogabilità - Ulteriori limiti di P.R.G. - Ammissibilità.
3. Condono edilizio - Coordinamento artt. 39, comma 4 della L. n. 724/1994 e art. 35, comma 18 della L. n. 47/1985 - Sussiste - Silenzio assenso ex art. 35, comma 18 della L. n. 47/1985 - Ipotesi di cui all'art. 33 della L. n. 47/1985 - Inapplicabilità.

1. La scelta urbanistica dichiaratamente destinata a tutelare l'ambiente, anche laddove si risolve nell'imprimere ad un'area il connotato di zona agricola o parco privato o verde pubblico, non necessita di una motivazione particolarmente ampia, avuto riguardo al valore costituzionale ex art. 9 Cost. della tutela dell'ambiente.
2. Il D.M. 02.04.1968 stabilisce standards invalicabili solo per quanto riguarda la misura minima delle distanze tra i fabbricati, sicché il Comune con lo strumento urbanistico può discrezionalmente fissare standards superiori, pur se entro limiti ragionevoli, per scongiurare situazioni pregiudizievoli sotto il profilo igienico-sanitario e dell'ordinato assetto del territorio.
3. L'art. 39, comma 4 della L. n. 724/1994 deve essere coordinato con l'art. 35, comma 18 della L. n. 47/1985 che esclude la possibilità del silenzio assenso sulle domande di condono nelle ipotesi di cui all'art. 33 della L. n. 47/1985 tra le quali rientra quella dei vincoli preordinati all'esproprio   (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.12.2007 n. 6675 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASolo nel caso in cui il nuovo edificio (demolizione/ricostruzione) non esorbita dalle dimensioni di quello preesistente, non trova applicazione l’art. 9 del DM 1444/1968, che è riferito alle nuove costruzioni e che risulta applicabile, in caso di ricostruzione di fabbricati, solo alla parte eccedente i limiti dell’immobile preesistente.
Il D.M. 1444/1968 ha imposto ai Comuni di adeguare i propri strumenti urbanistici alle prescrizioni edilizie in esso contenute, in sede di formazione di detti strumenti o di revisione degli stessi (TAR Emilia Romagna, BO, sez. II, 26.05.2003, n. 645).
La giurisprudenza, con indirizzo unanime e costante, ha chiarito che l’art. 9 del citato DM, che non è immediatamente operante nei rapporti tra privati, va interpretato nel senso che l’adozione da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma, comporta l’obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserimento automatico, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata (Cass. civ., sez. II, 19.11.2004, n. 21899; C.S., sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Dalle tavole di progetto relative allo stato futuro si evince chiaramente che sul fronte di via Cespa l’altezza del fabbricato da recuperare o recuperato risulta, all’evidenza, non solo maggiore di quella preesistente, ma presenta diverse vedute aperte a seguito della realizzazione del terzo piano e del quarto piano mansardato, piani che, esorbitando dall’altezza precedente, vanno sicuramente qualificati come nuova costruzione e che in quanto tali dovevano rispettare la distanza inderogabile di 10 mt. tra pareti finestrate di edifici che si fronteggiano, ex art. 9 del D.M. 1444/1968, per cui avrebbero dovuto essere costruiti in arretramento.
Solo nel caso in cui il nuovo edificio non esorbita dalle dimensioni di quello preesistente, non trova applicazione l’art. 9 citato, che è riferito alle nuove costruzioni e che risulta applicabile, in caso di ricostruzione di fabbricati, solo alla parte eccedente i limiti dell’immobile preesistente (Cass. Civ., 25.08.1989, n. 3762; C.S., sez. IV, n. 3929/2002)
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 24.11.2007 n. 903 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa normativa dettata dall’art. 9 DM 1444/1968, essendo diretta ad evitare intercapedini nocive tra i fabbricati e a garantire condizioni di igiene, luminosità ed aria, è norma tassativa e inderogabile, con l’unica eccezione, prevista dall’ultimo comma, di edifici ricompresi in un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata con previsioni planivolumetriche.
La giurisprudenza ha chiarito che l’eventuale adozione da parte degli enti locali di strumenti urbanistici contrastanti con l’art. 9 del DM 1444/1968, che è norma primaria, ricevendo forza dall’art. 17 della L. n. 765/1967 (introduttiva dell’art. 41-quinquies della L.U. 1150/1942), comporta l’obbligo da parte del giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata (Cass. Civ., sez. II, 19.11.2004, n. 21899; 24.01.2006, n. 1282; C.S., sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
La normativa dettata dall’art. 9, essendo diretta ad evitare intercapedini nocive tra i fabbricati e a garantire condizioni di igiene, luminosità ed aria, è norma tassativa e inderogabile, con l’unica eccezione, prevista dall’ultimo comma, di edifici ricompresi in un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata con previsioni planivolumetriche (TAR Liguria, GE, sez. I, 12.02.2004, n. 145; 14.01.2005, n. 38) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 24.11.2007 n. 900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANozione di parete finestrata e distanza tra fabbricati.
In tema di distanze tra le costruzioni, l'art. 9 n. 2 d.m. 02.04.1968 n. 1444 prescrive, con disposizione tassativa ed inderogabile, la distanza minima assoluta di 10 metri tra i fabbricati anche nel caso in cui solo una delle pareti antistanti risulti finestrata e non entrambe (massima tratta da www.lavatellilatorraca.it - Corte di Cassazione, Sez. II civile, 26.10.2007 n. 22495).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione edilizia - Distanze dei fabbricati.
Per giurisprudenza costante le norme sulle distanze dei fabbricati contenute nel D.M. n. 1444/1968, a differenza di quelle sulle distanze dai confini, derogabili mediante una convenzione tra privati, hanno carattere pubblicistico ed inderogabile, in quanto dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali in materia urbanistica (T.A.R. Liguria, Sez. I, n. 1711/2006 cit.) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.10.2007 n. 6128 - massima tratta da www.solom.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. e dalle disposizioni dei regolamenti locali da esso richiamate, deve farsi riferimento alle costruzioni che, essendo erette sopra il suolo, ne sporgano stabilmente (essendo escluse dal rispetto delle distanze legali soltanto i manufatti completamente interrati), viceversa ai fini del rispetto delle norme contenute nei regolamenti edilizi, che stabiliscono le distanze tra le costruzioni e di esse dal confine, essendo tali norme volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive fra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l’assetto urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione all'ambiente, ciò che rileva è la distanza in sé delle costruzioni a prescindere dal loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello dei fondi su cui insistono.
La giurisprudenza (Cass. civ., sez. II, 04.10.2005, n. 19350), con riferimento alla necessità di rispettare la distanza dai confini, ha già avuto modo di chiarire che mentre ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. e dalle disposizioni dei regolamenti locali da esso richiamate, deve farsi riferimento alle costruzioni che, essendo erette sopra il suolo, ne sporgano stabilmente (essendo escluse dal rispetto delle distanze legali soltanto i manufatti completamente interrati), viceversa ai fini del rispetto delle norme contenute nei regolamenti edilizi, che stabiliscono le distanze tra le costruzioni e di esse dal confine, essendo tali norme volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive fra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l’assetto urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione all'ambiente, ciò che rileva è la distanza in sé delle costruzioni a prescindere dal loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello dei fondi su cui insistono (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 18.10.2007 n. 819 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra fabbricati - Demolizione e ricostruzione fedele - Distanza preesistente, inferiore alla distanza minima tra fabbricati.
La conservazione della distanza preesistente, inferiore alla distanza minima tra fabbricati prescritta dal decreto ministeriale n. 1444/1968, può ritenersi ammissibile nei soli casi di demolizione e ricostruzione fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne), configurandosi in tal caso non una nuova costruzione, ma un recupero edilizio realizzato con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione straordinaria; nessuna deroga è ammissibile, viceversa, nel caso in cui, previa demolizione di un edificio preesistente, venga ricostruito al suo posto un fabbricato completamente diverso (cfr. Cons. Stato IV 12.07.02 n. 3929) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.10.2007 n. 5831 - massima tratta da www.solom.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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EDILIZIA PRIVATALa disciplina delle distanze tra costruzioni su fondi finitimi è applicabile anche alle sopraelevazioni di edifici preesistenti.
In materia edilizia, la disciplina delle distanze tra costruzioni su fondi finitimi è applicabile anche alle sopraelevazioni di edifici preesistenti, le quali rappresentano a tutti gli effetti delle nuove costruzioni, considerato che ogni intervento destinato a creare nuovi volumi deve essere ricondotto al concetto di “nuovo edificio” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.09.2007 n. 4826 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, sulla questione del recupero dei sottotetti ex L.R. n. 12/2005.
Sulla distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate.

L’art. 873 del c.c. rubricato “Distanze nelle costruzioni” stabilisce che “Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore”.
La disposizione è stata interpretata nel senso che le norme del piano regolatore generale e quelle tecniche di attuazione dello stesso –che fissano la distanza tra le costruzioni facendo riferimento alla distanza dal confine– sono integrative delle norme del codice civile ed hanno carattere assoluto e non derogabile dai privati (Corte di Cassazione, sez. II civile – 09/06/1999 n. 5666), in quanto volte a salvaguardare sia l’interesse della collettività locale ad un migliore assetto dell'agglomerato urbano sia l’aspirazione dei singoli a fruire di un distacco congruo dalle proprietà limitrofe: esse dunque tendono a regolare i rapporti tra residenti su fondi finitimi in modo equo e fanno sorgere a favore del soggetto danneggiato da una nuova costruzione il diritto di chiedere la riduzione in pristino ai sensi dell’art. 872 c.c. (Corte di Cassazione, sez. II civile – 10/04/2001 n. 10471).
E’ stato peraltro rilevato che l’applicazione della sanzione della riduzione in pristino, richiesta dal vicino danneggiato dalla costruzione realizzata a distanza non legale, consegue ipso iure alla violazione della norma, la quale non lascia al giudice alcun margine di apprezzamento in ordine ai pregiudizi prodotti dalla sua inosservanza (Corte di Cassazione, sez. II civile – 11/01/2006 n. 213).
In definitiva i regolamenti locali richiamati dall'art. 873 del c.c., i quali stabiliscono una distanza maggiore di tre metri per le costruzioni sui fondi finitimi, attribuiscono a ciascun proprietario un diritto soggettivo perfetto al rispetto della maggiore distanza, il quale è tutelabile, in caso di inosservanza, sia con la riduzione in pristino sia con il risarcimento del danno (Corte di Cassazione, sez. II civile – 06/12/1984 n. 6402; sez. unite civili – 18/06/1985 n. 3659).
Deve altresì essere puntualizzato che le sopraelevazioni, ai fini del rispetto delle distanze, rientrano nella nozione di nuova costruzione, la quale comprende qualsiasi modifica della volumetria di un fabbricato preesistente che comporti l'aumento della sagoma d'ingombro in guisa da incidere direttamente sulla situazione di distanza tra edifici ed indipendentemente dalla sua utilizzabilità ai fini abitativi (cfr. ex plurimis Corte di Cassazione, sez. II civile – 12/01/2005 n. 400; 05/07/2000 n. 8954; 24/05/2000 n. 6809).
Il panorama normativo si è arricchito in seguito alla riforma del titolo V della Costituzione. Per effetto di essa il “governo del territorio” è divenuta materia a competenza legislativa ripartita tra Stato e Regione (cfr. nuovo art. 117) e lo Stato esercita la propria potestà dettando soltanto i principi fondamentali.
In materia di sottotetti è da ultimo intervenuta la L.r. 11/03/2005 n. 12 ai sensi della quale “La Regione promuove il recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti con l'obiettivo di contenere il consumo di nuovo territorio e di favorire la messa in opera di interventi tecnologici per il contenimento dei consumi energetici” (art. 63 comma 1), mentre “Si definiscono sottotetti i volumi sovrastanti l'ultimo piano degli edifici dei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura” (art. 63 comma 1-bis).
Il successivo art. 64 stabilisce al comma 1 che “Gli interventi edilizi finalizzati al recupero volumetrico dei sottotetti possono comportare l'apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi …, nonché, … modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde, purché nei limiti di altezza massima degli edifici posti dallo strumento urbanistico ed unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all'articolo 63, comma 6” (altezza media ponderale di m. 2,40). Aggiunge al comma 2 che “Il recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti è classificato come ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 27, comma 1, lettera d). Esso non richiede preliminare adozione ed approvazione di piano attuativo ed è ammesso anche in deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale vigenti ed adottati, …”.
Osserva il Collegio anzitutto che ogni questione che coinvolge le relazioni tra privati individui appartiene all’ampia materia dell’ordinamento civile, enucleata dall’art. 117 Cost. e riservata alla competenza esclusiva dello Stato.
Ad avviso dei ricorrenti la normativa regionale citata opererebbe in deroga al regime delle distanze, precludendo a priori alle amministrazioni locali di stabilire misure superiori allo “standard” di 3 metri fissato dal codice civile.
Una simile impostazione non può essere condivisa dal Collegio, anche alla luce della significativa pronuncia della Corte costituzionale 16/06/2005 n. 232 sui rapporti tra potestà statale e potestà regionale in materia.
Secondo la Corte, con riferimento alla disciplina delle distanze tra fabbricati l’attribuzione alle Regioni di competenza concorrente in materia di governo del territorio interferisce con l’ordinamento civile di spettanza esclusiva dello Stato, e in tale contesto “le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione statale”.
Il primo principio, fissato in epoca risalente, “è che la distanza minima sia determinata con legge statale, mentre in sede locale, sempre ovviamente nei limiti della ragionevolezza, possono essere soltanto fissati limiti maggiori”.
In secondo luogo, l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze con normative locali, “purché però siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio”. Tali principi si ricavano dall'art. 873 cod. civ. e dall'ultimo comma dell'art. 9 del D.M. 1444/1968 ai sensi del quale “Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
L’ipotesi prospettata riguarda ad es. Piani particolareggiati, Piani di recupero o Piani di lottizzazione, strumenti di pianificazione che hanno la funzione di determinare un ordinato assetto di un ambito individuato o di una zona identificata del territorio comunale.
In ogni caso secondo la Corte Costituzionale i suindicati limiti alla possibilità di fissare distanze difformi da quelle previste dalla normativa statale “trovano la loro ragione nel rilievo che le deroghe, per essere legittime, devono attenere agli assetti urbanistici e quindi al governo del territorio e non ai rapporti tra vicini isolatamente considerati in funzione degli interessi privati dei proprietari dei fondi finitimi”.
Al riguardo la normativa regionale invocata è chiaramente ispirata al principio di favore per il recupero dei sottotetti, perseguendo l’interesse pubblico di evitare il consumo di nuovo territorio, e dunque estende il proprio raggio di applicazione a tutte le zone residenziali o comunque abitate e non limita la propria portata a particolari aree o ambiti. Non sembra viceversa che il legislatore regionale abbia inteso incidere sulle relazioni intersoggettive tra privati, rispetto alle quali la disciplina sui sottotetti non può interferire dovendo arrestarsi di fronte ai limiti invalicabili dell’ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato.
In quest’ottica i Comuni esercitano una potestà straordinaria ed integrano una norma di rango statale con efficacia immediata sui rapporti tra privati individui, introducendo regole riconosciute e tutelate dal diritto comune, e in questo senso l’art. 873 del c.c. è norma di rinvio dinamico (o mobile) che fa riferimento alla fonte richiamata, ossia ai regolamenti locali abilitati a stabilire la misura delle distanze.
La “doppia funzione” di tale disposizione –che appunto tutela sia l'interesse dei privati alla fruizione di un distacco congruo sia quello della collettività ad un ordinato assetto del territorio– comporta che, anche ammettendo una potestà derogatoria in capo alla Regione in merito ai profili urbanistici, la stessa incontrerebbe un ostacolo ineludibile rappresentato dai puntuali diritti soggettivi dei singoli, la cui fonte è rintracciabile in una norma statale inderogabile. In definitiva alla Regione è preclusa ogni ingerenza nei rapporti interprivatistici, ai quali la disciplina delle distanze tra costruzioni attiene in via primaria e diretta.
Nella specie la Regione non può in buona sostanza incidere sui diritti soggettivi che traggono origine dal binomio norma statale-regolamento locale, secondo un atipico sistema di fonti che non sovverte il principio di gerarchia ma rappresenta oggi la logica traduzione del principio di sussidiarietà, il quale impone che l’esercizio delle funzioni pubblicistiche –nel loro momento decisionale ed attuativo– debba essere riservato al livello istituzionale che presenta la maggiore prossimità con i cittadini, salve le ipotesi che richiedono necessariamente la competenza del livello successivo e più ampio: espressione del principio di sussidiarietà è infatti il canone secondo cui il potere centrale non deve intervenire quando l’autorità periferica è in grado di curare efficacemente i propri interessi.
E’ evidente che in materia di distanze tra costruzioni il legislatore nazionale ha ritenuto giustificato il diretto intervento del pianificatore locale per la sua conoscenza del territorio e dei fabbisogni dei singoli (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 30.08.2007 n. 834 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, sulla questione del recupero dei sottotetti ex L.R. n. 12/2005.
Sulla distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate.
L’art. 9 del D.M. 02/04/1968 n. 1444, rubricato “Limiti di distanza tra i fabbricati” stabilisce testualmente al comma 1 che “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
…”

La giurisprudenza ha costantemente affermato che il citato D.M. –emanato in virtù dell’art. 41-quinquies della L. 1150/1942 introdotto a sua volta dall’art. 17 della L. 06/08/1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)– ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all’art. 872 c.c.: la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Abruzzo Pescara – 28/04/2007 n. 494; Consiglio di Stato, sez. IV – 12/07/2002 n. 3930). E’ stato dunque introdotto un vincolo a carattere pubblicistico ed inderogabile, diretto non soltanto a salvaguardare interessi privati ma anche a tutelare interessi generali in materia urbanistica, di igiene, decoro e sicurezza degli abitati (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile – 16/02/1996 n. 1201; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II – 29/01/2004 n. 136).
In punto di fatto l’intervento in esame comporta un sopralzo di 1 metro alla distanza di 3,15 mt. da un fabbricato antistante. In proposito si è detto che le disposizioni di cui all'art. 9 comma 2 del D.M. citato sono applicabili anche alle sopraelevazioni, giacché tendono ad evitare la creazione di intercapedini che impediscono la libera circolazione dell'aria con effetti produttivi di insalubrità e di riduzione della luminosità (T.A.R. Veneto, sez. II – 22/04/2005 n. 1778; Consiglio di Stato, sez. V – 19/10/1999 n. 1565): in definitiva le sopraelevazioni, ai fini del rispetto delle distanze fra edifici, rientrano nella nozione di nuova costruzione, la quale comprende qualsiasi modifica della volumetria di un fabbricato preesistente che comporti l'aumento della sagoma d'ingombro in guisa da incidere direttamente sulla situazione di distanza tra edifici ed indipendentemente dalla sua utilizzabilità ai fini abitativi (cfr. ex plurimis Corte di Cassazione, sez. II civile – 12/01/2005 n. 400; 05/07/2000 n. 8954; 24/05/2000 n. 6809).
In materia di distanze legali l’art. 136 del D.P.R. 06/06/2001 n. 380 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies commi 6, 8, 9 della L. 1150/1942, per cui in forza dell’art. 9 del D.M. 1444/68 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, mentre il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima. (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile – 29/05/2006 n. 12741).
Osserva il Collegio anzitutto che la disciplina civilistica delle distanze tra costruzioni investe principalmente i rapporti tra proprietari di fondi limitrofi, e i loro diritti sono tutelati –in caso di inosservanza– dall’autorità giudiziaria ordinaria alla quale è possibile rivolgersi anche per ottenere la riduzione in pristino (cfr. art. 872 c.c.); è altrettanto evidente che ogni questione che coinvolge le relazioni tra privati individui appartiene all’ampia materia dell’ordinamento civile, enucleata dall’art. 117 Cost. e riservata alla competenza esclusiva dello Stato.
Ad avviso della ricorrente la normativa regionale sui sottotetti opererebbe in deroga al regime delle distanze tra fabbricati, senza che il Comune di Bovezzo abbia ritenuto di avvalersi della facoltà di sottrarsi alla disciplina regionale così come consentito dall’art. 65 della L.r. 12/2005.
Una simile impostazione non può essere condivisa dal Collegio, anche alla luce della significativa pronuncia della Corte costituzionale 16/06/2005 n. 232 sui rapporti tra potestà statale e potestà regionale in materia.
Secondo la Corte, con riferimento alla disciplina delle distanze tra fabbricati l’attribuzione alle Regioni di competenza concorrente in materia di governo del territorio interferisce con l’ordinamento civile di spettanza esclusiva dello Stato, e in tale contesto “le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione statale”.
Il primo principio, fissato in epoca risalente, “è che la distanza minima sia determinata con legge statale, mentre in sede locale, sempre ovviamente nei limiti della ragionevolezza, possono essere soltanto fissati limiti maggiori”.
In secondo luogo, l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, “purché però siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio”. Tali principi si ricavano dall'art. 873 cod. civ. e dall'ultimo comma dell'art. 9 del D.M. 1444/1968 ai sensi del quale “Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
L’ipotesi prospettata riguarda ad es. Piani particolareggiati, Piani di recupero o Piani di lottizzazione, strumenti di pianificazione che hanno la funzione di determinare un ordinato assetto di un ambito individuato o di una zona identificata del territorio comunale.
In ogni caso secondo la Corte Costituzionale i suindicati limiti alla possibilità di fissare distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale “trovano la loro ragione nel rilievo che le deroghe, per essere legittime, devono attenere agli assetti urbanistici e quindi al governo del territorio e non ai rapporti tra vicini isolatamente considerati in funzione degli interessi privati dei proprietari dei fondi finitimi”.
Al riguardo la normativa regionale invocata è chiaramente ispirata al principio di favore per il recupero dei sottotetti, perseguendo l’interesse pubblico di evitare il consumo di nuovo territorio, e dunque estende il proprio raggio di applicazione a tutte le zone residenziali o comunque abitate e non limita la propria portata a particolari aree o ambiti. Non sembra viceversa che il legislatore regionale abbia inteso incidere sulle relazioni intersoggettive tra privati, rispetto alle quali la disciplina sui sottotetti non può interferire dovendo arrestarsi di fronte ai limiti invalicabili dell’ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato.
Il Collegio richiama la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale ha ripetutamente affermato che le norme degli strumenti urbanistici in materia di distanze – sia che si riferiscano al confine oppure all'altra costruzione – sono destinate a tutelare sia l'interesse dei vicini alla fruizione di un distacco congruo, sia quello della collettività all'instaurazione di un assetto urbanistico sotto ogni aspetto ordinato (cfr. ex plurimis Corte di Cassazione, sez. II civile – 24/03/2005 n. 6401; 29/04/1999 n. 4343).
La “doppia funzione” di tali disposizioni comporta che, anche ammettendo una potestà derogatoria in capo alla Regione in merito ai profili urbanistici, la stessa incontrerebbe un ostacolo ineludibile rappresentato dai puntuali diritti soggettivi dei singoli, la cui fonte è rintracciabile in una norma statale inderogabile. In definitiva alla Regione è preclusa ogni ingerenza nei rapporti interprivatistici, ai quali la disciplina delle distanze tra costruzioni attiene in via primaria e diretta.
Sul punto esiste, infine, un precedente specifico, ed il Tribunale adito, con pronuncia in forma semplificata, ha sostenuto che l’art. 64 comma 2 della L.r. 12/2005 deve interpretarsi “… nel senso che la derogabilità non opera nei casi in cui lo strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di rango superiore, a carattere inderogabile, qual è appunto il decreto ministeriale nella parte in cui disciplina le distanze tra fabbricati, trattandosi di materia inerente all’ordinamento civile e rientrante, come tale, nella competenza legislativa esclusiva dello Stato” (TAR Lombardia-Milano, sez. II – 26/04/2007 n. 1991) (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 30.08.2007 n. 832 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza di 10 metri fra pareti finestrate vincola con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e sicurezza, anche i Comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici.
L’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 che prevede la distanza minima assoluta di 10 metri tra costruzioni in applicazione dell’art. 41-quinquies l.u. integra con efficacia precettiva, in forza della norma di legge appena richiamata, il regime delle distanze nelle costruzioni.
Sicché la distanza di 10 metri fra pareti finestrate vincola con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e sicurezza, anche i Comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici (cfr. Cons. St., sez. V, 26.10.2006 n. 6399).
Limite minimo integrativo, inoltre, delle disposizioni previste agli artt. 872 ss c.c. ritenuto espressione di disciplina d’ordine pubblico a tutela della salubrità dei luoghi (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 11.07.2007 n. 1367 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla distanza minima tra pareti finestrate di edifici antistanti.
Come è noto, l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 prescrive che, nella costruzione di nuovi immobili non ricompresi (come quelli in controversia) in zona A di P.R.G. deve osservarsi la distanza minima inderogabile di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
Tale distanza standard è volta non alla tutela della riservatezza, come l’appellante sembra ritenere, ma alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico sanitarie ed è dunque tassativa ed inderogabile (a differenza delle distanze dal confine) per via di private pattuizioni.
Conseguentemente, essa deve operare per un verso anche nel caso, qui ricorrente, in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata; per l’altro, anche nel caso in cui la nuova opera sia di altezza inferiore rispetto alle preesistenti vedute o parzialmente nascosta dal muretto e dalla recinzione di confine.
L’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello della salubrità dell’edificato e non va confuso con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva.
La preesistenza di un muro a confine (che già precluda in parte il prospicere al titolare della veduta) è dunque sostanzialmente irrilevante, ove come nel caso in questione si controverta del rispetto della norma sulle distanze tra edifici e frontistanti pareti finestrate.
In tal senso è stato infatti chiarito che la disposizione di cui all’art. 9 primo comma n. 2 del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell’area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell’art. 907, 3º comma, cod. civ. (cfr. Cass. II Sez. n. 11013 del 2002).
Ne deriva da un lato che ha errato il Tribunale allorché ha tenuto conto solo della porzione di parete sovrastante la recinzione; dall’altro che in ogni caso –ciò che qui conta- il permesso di costruire rilasciato all’Impresa appellata viola in parte qua l’art. 9 del ridetto D.M. n. 1444.
Tanto chiarito, e venendo all’esame della normativa urbanistica comunale, si premette che per consolidata giurisprudenza le norme di cui al D.M. in questione, emanate in forza dell' art. 17 L. 06.08.1967 n. 765, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.06.2007 n. 3094 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, i sottotetti di cui alla l.r. n. 12/2005 devono rispettare la distanza minima di mt. 10,00 dai fabbricati confinanti.
L'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, pur riferendosi (comma 1, n. 2) alla realizzazione di "nuovi edifici", è applicabile anche agli interventi di sopraelevazione (Cass. 2^, 27.03.2001, n. 4413; Cons. Stato, V, 19.10.1999, n. 1565), e dunque anche alle ristrutturazioni che -volte, come quella de qua, al recupero del sottotetto- comportino un incremento non trascurabile dell'altezza del fabbricato (da mt. 7,60 a mt. 9,54);
La normativa in questione, mirando ad evitare la creazione di intercapedini in grado di impedire la libera circolazione dell'aria, come tali produttive di insalubrità oltre che riduttive di luminosità e dunque non autorizzabili per motivi igienico-sanitari (Cons. Stato, V, 19.10.1999, n. 1565; T.A.R. Catania, 27.10.1994, n. 2373), risponde ad esigenze pubblicistiche che sovrastano gli interessi dei singoli, per soddisfare interessi generali, e non è pertanto suscettibile i deroghe pattizie.
Considerato, inoltre, che a sostegno dell'opposta tesi non può essere invocato l'art. 64, secondo comma, della legge regionale n. 12 del 2005 (legge per il governo del territorio), secondo cui il recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti "... è ammesso anche in deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale ....", dovendo la norma interpretarsi nel senso che la derogabilità non opera nei casi in cui lo strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di rango superiore, a carattere inderogabile, qual è appunto il decreto ministeriale nella parte in cui disciplina le distanze tra fabbricati, trattandosi di materia inerente l'ordinamento civile e rientrante, come tale, nella competenza esclusiva dello Stato (cfr. Corte cost. 16.06.2005, n. 232) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.04.2007 n. 1991).

EDILIZIA PRIVATA: Un balcone in cemento armato della profondità di mt. 1.20 fa distanza.
Ai fini del computo delle distanze tra fabbricati (10 mt. di cui al D.M. 1444/1968), assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.

La parte ricorrente assume che l’erigenda costruzione, per una sua parte (8 balconi ed alcune pilastrature), risulterebbe collocata ad una distanza (pari a mt. 6,35) inferiore a quella di 10 metri, prescritta dalla normativa di settore.
Tanto violerebbe l’art. 2 del locale regolamento edilizio che, conformemente alle prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 e relativamente alle distanze intercorrenti tra fabbricati, indica una distanza minima di 10 mt. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
Di contro, la parte controinteressata oppone che le deduzioni attoree sarebbero inconferenti, in quanto l’incidenza degli sporti e degli aggetti suindicati dovrebbe essere valutata, ai fini del computo delle distanze, in una diversa dimensione prospettica.
Più precisamente, i balconi in questione, in quanto posti lungo le pareti est ed ovest del fabbricato, non sarebbero rilevanti, atteso che la parete dell’edificio frontista insiste sul confine nord.
A giudizio del Collegio va condivisa l’opzione ermeneutica attorea, in quanto non può essere revocata in dubbio l’appartenenza delle sporgenze in contestazione (aggetto costituente copertura del piano seminterrato e balconi) anche alla “parete nord”, della quale costituiscono un prolungamento a tutti gli effetti.
Come di recente evidenziato in giurisprudenza, anche accettando, in linea di principio, il criterio del computo in modo “lineare" e non “radiale” della distanza minima tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, il D.M. cit. sottolinea che la distanza debba essere “assoluta” e prescritta “in tutti i casi”. Si deve pertanto convenire che debba essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (cfr. Tar Toscana n. 55 del 22.01.2007; C.d.S., V, 16/02/79 n. 89)
Le strutture in questione risultano, invero, stabilmente incorporate alla suddetta parete e si pongono anche a servizio di essa come accessorio edilizio ovvero permettendo la sosta e l’affaccio: quanto a tale ultimo profilo, le dette sporgenze, per la tipica strutturazione dei balconi, che consentono un affaccio diretto su tre lati, recano in sé, anche sul versante nord, la dimensione tipica di pareti finestrate.
Trova, dunque, applicazione il principio di portata generale, secondo cui in tema di distanze fra edifici, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari dimensioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (la Corte, nel confermare la sentenza impugnata, ha qualificato come costruzione la realizzazione di un balcone della profondità di mt. 1,20 con soletta in cemento armato, rilevando come per le dimensioni, per la natura, la destinazione e l'utilizzo, detto balcone, costituendo un elemento funzionale dell'edificio, non potesse rivestire funzione ornamentale)” (Cassazione civile, sez. II, 25.03.2004, n. 5963; cfr. anche ex plurimis Cassazione civile, sez. II, 02.10.2000, n. 13001, e Cassazione civile, sez. II, 29.03.1999, n. 2986).
In altri termini, deve concludersi nel senso che, ai fini del computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
Vale aggiungere che il limite in questione deve essere osservato anche nel caso in cui una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata, posto che detta norma è finalizzata a stabilire nell’interesse pubblico un’idonea intercapedine tra edifici, e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza (vedi tra le più recenti pronunce Cass. S.U. 18.02.1997 n. 1486; Cass. 09.03.1999 n. 1984).
Viene cioè in rilievo l’esigenza di evitare la realizzazione di spazi tra fabbricati la cui ampiezza non sia sufficiente ad assicurare quella condizione, d'aerazione, luminosità ed igiene che è considerata minima indispensabile alle esigenze di vita degli abitanti.
Tanto premesso, ed in disparte quanto finora osservato in ordine all’attitudine funzionale del balcone ad integrare di per se stesso una parete finestrata su tre prospetti, non può essere obliterato che le sporgenze in contestazione, nella parte in cui prospettano su via cittadella, risultano frontistanti rispetto ad una parete finestrata del fabbricato di proprietà attorea ( terrazzo e due finestre), come evincibile dal corredo fotografico della relazione di parte prodotta a corredo del gravame.
In altri termini, anche a voler prescindere dalla natura delle suddette sporgenze (balconi), le stesse, quali semplici elementi costitutivi e, dunque, parti integranti di una parete dell’edificio in costruzione, si trovano collocate ad una distanza non consentita: ed, invero, pur fronteggiando una parete finestrata dell’edificio di proprietà di Sasso Giovanni si trovano collocate ad una distanza (mt. 6.35) inferiore a quella minima di 10 mt. (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 23.04.2007 n. 4215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel caso di sopraelevazione di preesistente fabbricato non è possibile derogare alle distanze fissate dal piano mediante allineamento col sottostante corpo di fabbrica, atteso che, in assenza di una apposita norma derogatoria, le due porzioni di fabbricato, in quanto eseguite in tempi diversi, restano regolate dalla disciplina vigente al momento della rispettiva costruzione.
Deve trovare applicazione, nel caso di specie, l'indirizzo giurisprudenziale e i principi già più volte affermati da questo Tribunale, secondo cui “nel caso di sopraelevazione di preesistente fabbricato non è possibile derogare alle distanze fissate dal piano mediante allineamento col sottostante corpo di fabbrica, atteso che, in assenza di una apposita norma derogatoria, le due porzioni di fabbricato, in quanto eseguite in tempi diversi, restano regolate dalla disciplina vigente al momento della rispettiva costruzione” (Tar Sardegna n. 2014 del 27.09.2006; Tar Lazio, Roma, sez. II, n. 557/1995; Tar Piemonte, Torino, n. 849/2001).
Le medesime censure risultano altresì fondate anche avuto riguardo alla demolizione e ricostruzione del corpo di fabbrica destinato a pollaio, dovendosi ritenere che il mutamento di destinazione d’uso della parte di fabbricato in questione e il mutamento delle caratteristiche edilizie del medesimo, comporti che l’intervento edilizio debba essere correttamente qualificato come nuova costruzione e, in quanto tale, debba essere soggetto alle limitazioni imposte dalle norme urbanistiche in vigore al momento in cui viene esaminata la domanda di concessione edilizia ed in particolare a quelle stabilite dalle norme di attuazione del vigente piano di fabbricazione del Comune di Narcao in materia di distanze dai confini e dai fabbricati già esistenti (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 15.03.2007 n. 455 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze legali minime tra costruzioni - Disciplina applicabile ai rapporti tra privati - Art. 9 del D.M., n. 1444/1968 - Esclusione - Disciplina codicistica - Art. 873 segg. cod. civ..
La disciplina delle distanze legali minime tra costruzioni posta dall'art. 9 del D.M., n. 1444/1968 non è applicabile ai rapporti tra privati, trattandosi di disposizione esclusivamente dedicata ai Comuni, i quali sono tenuti al rispetto delle menzionate distanze nella predisposizione degli strumenti urbanistici.
Ne consegue che: a) se lo strumento urbanistico si ponga in contrasto con l'art. 9 del D.M. n 1444/1968, esso può essere finanche disapplicato dal giudice ordinario, che può riconoscere immediata precettività al predetto art. 9, divenuto, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della disposizione disapplicata; b) se lo strumento urbanistico non stabilisca distanze legali minime per le costruzioni in una determinata area, dall'impossibilità di applicazione dell'art, 9 D.M. n. 1444/1968 nei rapporti interprivati discende che alla costruzioni si applica la disciplina codicistica, con possibilità di edificazioni sul confine o in aderenza (artt. 873 segg. cod. civ.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1894 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze minime tra fabbricati: la lettura della c.d. ''distanza lineare''.
Quanto alle modalità di calcolo della distanza, il Collegio che, anche accettando, in linea di principio, il criterio del computo in modo “lineare" e non “radiale” della distanza minima tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, il D.M. cit. sottolinei che la distanza debba essere “assoluta” e prescritta “in tutti i casi”.
Si deve pertanto convenire che debba essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano ed indipendentemente dal fatto che la parete sopraelevata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.01.2007 n. 55 - link a www.altalex.com).
EDILIZIA PRIVATALa distanza di mt. 10 va rispettata indipendentemente dal fatto che la parete sopraelevata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra.
Reputa il Collegio che, anche accettando, in linea di principio, il criterio del computo in modo “lineare" e non “radiale” della distanza minima tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, il D.M. 1444/1968 sottolinei che la distanza debba essere “assoluta” e prescritta “in tutti i casi”.
Si deve pertanto convenire che debba essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (C.d.S., V, 16/02/1979 n. 89) ed indipendentemente dal fatto che la parete sopraelevata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (Cass., II, 03/08/1999 n. 8383, nonché TAR Emilia-Romagna, II, 30/03/2006 n. 348) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.01.2007 n. 55 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 dm n. 1444 del 1968, relativo all’obbligo di rispettare una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate (e quindi munite di luci e/o vedute, secondo la definizione contenuta nell’art. 900 cod. civ.) ed edifici antistanti, è volto ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico sanitario: ha, pertanto, carattere tassativo ed inderogabile, non eludibile da parte dello strumento urbanistico comunale, il quale può solo prescrivere distanze maggiori, ma non limitarne l’applicazione.
L’adozione, da parte dell’ente locale, di una prescrizione contenuta nello strumento urbanistico contrastante con la citata norma, anche in senso meramente limitativo, comporta l’obbligo di applicare direttamente la disposizione del menzionato art. 9 divenuta, per inserzione automatica, parte integrante del piano regolatore, in sostituzione della norma illegittima, che deve essere disapplicata ovvero annullata.

E' evidente la fondatezza del ricorso, che denuncia la violazione dell’art. 9 dm n. 1444 del 1968, relativo all’obbligo di rispettare una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate (e quindi munite di luci e/o vedute, secondo la definizione contenuta nell’art. 900 cod. civ.) ed edifici antistanti, obbligo che, essendo volto ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico sanitario, ha pertanto carattere tassativo ed inderogabile, non eludibile da parte dello strumento urbanistico comunale, il quale può solo prescrivere distanze maggiori, ma non limitarne l’applicazione (per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909; Cass. civ., sez. II, 10.01.2006, n. 145).
Ne deriva che l’adozione, da parte dell’ente locale, di una prescrizione contenuta nello strumento urbanistico contrastante con la citata norma, anche in senso meramente limitativo, comporta l’obbligo di applicare direttamente la disposizione del menzionato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante del piano regolatore, in sostituzione della norma illegittima che, deve essere disapplicata (per tutte, Cass. Civ., sez. II, 30.03.2006, n. 7563 e 29.05.2006, n. 12741) ovvero annullata, ove (come nella specie) impugnata.
Lla suddetta prescrizione, data la finalità che intende perseguire, che è, come si è detto, di natura igienico–sanitaria, vale anche per la distanza da edificio adibito ad autorimessa, come nel caso di specie (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 17.01.2007 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Recupero sottotetti - Disciplina transitoria - Irragionevolezza - Non sussiste - Disparità di mero fatto - Sussiste -Questione di legittimità costituzionale art. 63 L.R. 12/2005 - è manifestamente infondata.
2. Recupero sottotetti - Sopraelevazione - Distanze tra fabbricati - E' derogabile.

1. E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione all'art. 63 L.R. 12/2005, in quanto lesivo del criterio generale di ragionevolezza desumibile dagli artt. 3 e 97 Cost. nella parte in cui attribuirebbe una sorta di bonus edificatorio a chi ha avuto la ventura di ottenere un permesso di costruire prima del 31 dicembre 2005. Per il Collegio, infatti, il co. 2 dell'art. 63 costituisce norma speciale rispetto alla regola generale di cui ai commi 2 e 4 del medesimo articolo, avente la finalità di disciplinare le fattispecie in esso previste nel periodo transitorio: in tale ottica le possibili diversità di regime rappresentano delle disparità di mero fatto che scaturiscono dalla natura stessa del regime transitorio, il quale, chiamato ad introdurre una disciplina di passaggio tra sistemi normativi, necessariamente si salda ad un determinato momento o fatto, da individuare quale linea di demarcazione a partire dalla quale il regime stesso è chiamato ad operare.
2. L'art. 64, co. 1, della L.R.12/2005 ammette il recupero del sottotetto mediante sopraelevazione, nel rispetto dei limiti massimi di altezza stabiliti dallo strumento urbanistico per la zona, senza imporre l'arretramento dei muri esterni per adeguare il distacco tra gli edifici a causa della maggiore altezza. Ciò in quanto l'imposizione di un simile onere avrebbe potuto compromettere la fattibilità del recupero (e, quindi, la realizzazione degli obiettivi di riduzione del consumo di territorio indicata dall'art. 63 sopra citato) che non avrebbe comunque potuto essere realizzato ove l'edificio preesistente fosse già posto alla minima distanza possibile, secondo le leggi vigenti, dagli edifici confinanti. E' evidente peraltro che la norma regionale ha voluto evitare proprio tale conseguenza ed ha perciò previsto la possibilità di derogare ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale, ivi comprese le norme sui distacchi e sulle distanze. Si deve quindi ritenere che, sotto questo profilo, prevalga la qualificazione dell'intervento di recupero del sottotetto come ristrutturazione e che conseguentemente si estenda al nuovo piano sottotetto il regime delle distanze acquisito per il resto dell'edificio (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 12.01.2007 n. 11 - massima tratta da www.solom.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).
anno 2006

EDILIZIA PRIVATAInteresse ad agire dei vicini, sopraelevazione, distanze dei fabbricati.
La situazione giuridica soggettiva azionata dai proprietari di immobili situati nelle immediate vicinanze dell'opera assentita ed ivi residenti, comporta la sussistenza di quella situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato richiesta per la titolarità della potestà di impugnativa in materia e al riguardo laddove i ricorrenti facciano valere in primo luogo un interesse giuridicamente protetto di natura urbanistica, quale è quello dell'osservanza delle prescrizioni regolatrici dell'edificazione, non occorre procedere ad alcuna ulteriore indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione (vd. ad es. CdS, IV, n. 6467/2005);
La sopraelevazione -per tale intendendosi qualsiasi costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda di un preesistente fabbricato- deve rispettare le distanze legali tra costruzioni stabilite dalla normativa vigente al momento della realizzazione della stessa, poiché comporta sempre un aumento della volumetria preesistente (vd. ad es. TAR Puglia Lecce, n. 565/2006);
Le norme sulle distanze dei fabbricati contenute nel D.M. n. 1444 del 1968, a differenza di quelle sulle distanze dai confini derogabili mediante convenzione tra privati, hanno carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette alla tutela di interessi generali in materia urbanistica, sicché l'inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con il suddetto limite minimo è illegittima essendo consentito alla p.a. solo la fissazione di distanze superiori (vd. ad es. TAR Liguria, 1027/2005);
Gli strumenti urbanistici locali devono osservare la prescrizione di cui all'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 che prevede la distanza minima inderogabile di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; pertanto, nel caso di norme contrastanti , il giudice è tenuto ad applicare la disposizione di cui al citato art. 9, in quanto automaticamente inserita nello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima (vd. ad es. Cass. Civile, n. 12741/2006);
In linea di diritto deve escludersi che l'ampliamento di un fabbricato attraverso la sopraelevazione di un piano possa configurarsi alla stregua di una mera ristrutturazione. Infatti ai fini dell'individuazione della tipologia di un intervento edilizio, il concetto di sopraelevazione si differenzia da quello di mero innalzamento, dovendosi considerare che quest'ultimo, specie se modesto ed inidoneo a determinare un incremento volumetrico, può risultare compatibile con la nozione di ristrutturazione, mentre altrettanto non può affermarsi nel caso di una sopraelevazione che sia inscindibilmente connessa all'incremento volumetrico in ragione di un rapporto di causa ed effetto e che sia quindi diretta all'accrescimento della cubatura di un fabbricato (vd. ad es. TAR Piemonte, n. 1603/2003);
Le autorizzazioni paesaggistiche, sebbene abbiano natura di atti ampliativi della sfera giuridica dei destinatari, debbono essere congruamente motivate in modo che possa essere ricostruito l'iter logico che ha condotto a ritenere le opere autorizzate non lesive dei valori paesistici sottesi all'imposizione del vincolo (vd. ad es. TAR Liguria n. 1408/2005)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 19.12.2006 n. 1711 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie in materia di ristrutturazione - Sopraelevazione.
Costituisce principio costante e pienamente condivisibile quello in base al quale la sopraelevazione -per tale intendendosi qualsiasi costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda di un preesistente fabbricato- deve rispettare le distanze legali tra costruzioni stabilite dalla normativa vigente al momento della realizzazione della stessa, poiché comporta sempre un aumento della volumetria preesistente (cfr. ad es. TAR Puglia Lecce, sez. III, 27.01. 2006, n. 565 e Cassazione civile, sez. II, 12.01.2005, n. 400).
Ha natura inderogabile la norma sulle distanze minime fra edifici, essendo disposizione di ordine pubblico atta ad evitare intercapedini dannose per la salute pubblica; in particolare, la normativa dettata dall'art. 9, comma 1, d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive per gli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A la distanza minima assoluta di 10 metri tra le pareti di edifici antistanti, è tassativa ed inderogabile, con l'unica eccezione di edifici ricompresi in un piano particolareggiato.
Le norme sulle distanze dei fabbricati contenute nel d.m. citato quindi, a differenza di quelle sulle distanze dai confini derogabili mediante convenzione tra privati, hanno carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali in materia urbanistica, sicché l'inderogabile distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima essendo consentita alla p.a. solo la fissazione di distanze superiori (cfr. ad es. TAR Liguria Genova, sez. I, 07.07.2005, n. 1027).
Più in generale, sulla costante valenza della disciplina predetta, poiché l'art. 136 t.u. 06.06.2001 n. 380, nell'abrogare (con effetto ex nunc) l'art. 17, comma 1, lett. c, delle legge n. 765 del 1967, ha lasciato in vigore i commi 6, 8, 9, dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, gli strumenti urbanistici locali devono osservare la prescrizione di cui all'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che prevede la distanza minima inderogabile di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; pertanto, nel caso di norme contrastanti, il giudice è tenuto ad applicare la disposizione di cui al citato art. 9, in quanto automaticamente inserita nello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima (cfr. ad es. Cassazione civile, sez. II, 29.05.2006, n. 12741).
Inoltre, nel nuovo contesto costituzionale post riforma del titolo V della parte seconda della Carta fondamentale, assumono rilievo la natura delle norme sulle distanze, il richiamo espresso contenuto nel testo unico dell'edilizia ed il loro inquadramento ai sensi dell'art. 117 lett. l) ed m) cost.: da ciò non può che conseguire un’applicazione della normativa in materia sulla scorta dell’unica opzione ermeneutica conforme a Costituzione.
Ai fini dell’individuazione della tipologia di un intervento edilizio, il concetto di sopraelevazione si differenzia da quello di mero innalzamento, dovendosi considerare che quest’ultimo, specie se modesto ed inidoneo a determinare un incremento volumetrico, può risultare compatibile con la nozione di ristrutturazione, mentre non altrettanto può affermarsi nel caso di una sopraelevazione che sia inscindibilmente connessa all’incremento volumetrico in ragione di un rapporto di causa ed effetto e che sia quindi diretta all’accrescimento della cubatura di un fabbricato (cfr. ad es. TAR Piemonte Torino, sez. I, 19.11.2003, n. 1603)  (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 19.12.2006 n. 1711 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla distanza da osservare tra pareti finestrate.
Costituisce principio costante e pienamente condivisibile quello in base al quale la sopraelevazione -per tale intendendosi qualsiasi costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda di un preesistente fabbricato- deve rispettare le distanze legali tra costruzioni stabilite dalla normativa vigente al momento della realizzazione della stessa, poiché comporta sempre un aumento della volumetria preesistente (cfr. ad es. TAR Puglia-Lecce, sez. III, 27.01.2006 , n. 565 e Cassazione civile , sez. II, 12.01.2005 , n. 400).
Analoga natura di principio deve essere riconosciuta alla normativa in tema di distanze tra edifici statuita dalla normativa invocata da parte ricorrente. Al riguardo va infatti ribadito che ha natura inderogabile la norma sulle distanze minime fra edifici, essendo disposizione di ordine pubblico atta ad evitare intercapedini dannose per la salute pubblica; in particolare, la normativa dettata dall'art. 9, comma 1, d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive per gli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A la distanza minima assoluta di dieci metri tra le pareti di edifici antistanti, è tassativa ed inderogabile , con l'unica eccezione di edifici ricompresi in un piano particolareggiato.
Le norme sulle distanze dei fabbricati contenute nel d.m. citato quindi, a differenza di quelle sulle distanze dai confini derogabili mediante convenzione tra privati, hanno carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali in materia urbanistica, sicché l' inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima essendo consentita alla p.a. solo la fissazione di distanze superiori. (cfr. ad es. TAR Liguria-Genova, sez. I, 07.07.2005 , n. 1027).
Più in generale, sulla costante valenza della disciplina predetta, poiché l'art. 136 t.u. 06.06.2001 n. 380, nell'abrogare (con effetto ex nunc) l'art. 17, comma 1 lett. c, delle legge n. 765 del 1967, ha lasciato in vigore i commi 6, 8, 9, dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, gli strumenti urbanistici locali devono osservare la prescrizione di cui all'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che prevede la distanza minima inderogabile di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; pertanto, nel caso di norme contrastanti, il giudice è tenuto ad applicare la disposizione di cui al citato art. 9, in quanto automaticamente inserita nello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima (cfr. ad es. Cassazione civile, sez. II, 29.05.2006 , n. 12741).
Inoltre, nel nuovo contesto costituzionale post riforma del titolo V della parte seconda della Carta fondamentale, assumono rilievo la natura delle norme sulle distanze, il richiamo espresso contenuto nel testo unico dell'edilizia ed il loro inquadramento ai sensi dell'art. 117 lett. l) ed m) cost.: da ciò non può che conseguire un’applicazione della normativa in materia sulla scorta dell’unica opzione ermeneutica conforme a Costituzione (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 19.12.2006 n. 1711 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici.
Secondo pacifico orientamento giurisprudenziale il d.m. 02.04.1968 n. 1444 trae dall'art. 41-quinquies della legge urbanistica (come modificato dall’art. 17 L. 06.08.1967 n. 765, c.d. legge ponte) la forza di integrare con efficacia precettava il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché la distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, predeterminata con carattere cogente in via generale ed astratta in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima (cfr. Cass. Civ., SS.UU., 21.02.1994 n. 1645), essendo consentita alla pubblica Amministrazione solo la fissazione di distanze superiori (cfr. Cons. St., sez. IV, 05.12.2005 n. 6909; id., 12.07.2002 n. 3929; 13.05.1992 n. 511; Cass. Civ., 29.10.1994 n. 8944; id., 21.02.1994 n. 1645; id. 04.02.1998 n. 1132) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.10.2006 n. 6399 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Distanze.
Nella nozione di ristrutturazione edilizia rientrano anche gli interventi consistenti nella demolizione e nella successiva ricostruzione di un manufatto, a condizione che siano rispettate la sagoma e la volumetria della costruzione preesistente (da ultimo Cons. St., sez II, 2526/2004 del 22.02.2006).
Le norme in tema di distanze contenute negli strumenti urbanistici sopravvenuti disciplinano le nuove costruzioni e non riguardano affatto, in mancanza di contraria espressa e specifica previsione, gli interventi di ristrutturazione che osservano le distanze preesistenti fra edifici limitrofi (massima tratta da www.studiospallino.it - TAR Liguria, Sez. I, sentenza 13.10.2006 n. 1209 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANozione di costruzione e distanze legali tra fabbricati.
In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'art. 9 d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, come modificata dalla l. 06.08.1967 n. 765- stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (l. 06.08.1967 n. 765, che, con l'art. 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 l'art. 41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al d.m. 02.047.1968, che all'art. 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10) (massima tratta da www.lavatellilatorraca.it - Corte di Cassazione, Sez II civile, sentenza 27.07.2006 n. 17089).

EDILIZIA PRIVATASostituzione automatica delle norme degli strumenti urbanistici difformi dall'art. 9 D.M. 1444/1968.
Poiché l'art. 136 t.u. 06.06.2001 n. 380, nell'abrogare (con effetto ex nunc) l'art. 17, comma 1, lett. c, delle legge n. 765 del 1967, ha lasciato in vigore i commi 6, 8, 9, dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, gli strumenti urbanistici locali devono osservare la prescrizione di cui all'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che prevede la distanza minima inderogabile di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; pertanto, nel caso di norme contrastanti, il giudice è tenuto ad applicare la disposizione di cui al citato art. 9, in quanto automaticamente inserita nello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima (massima tratta da www.lavatellilatorraca.it - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 29.05.2006 n. 12741).

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Distanze e nozione
Nell’ambito delle opere edilizie, la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all’esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell’edificio originario (massima tratta da www.studiospallino.it - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 27.04.2006 n. 9637).

EDILIZIA PRIVATAI 10 mt. vanno rispettati anche se una sola delle due pareti che si fronteggiano è finestrata.
A livello nazionale, la normativa standard, a cui i comuni non possono derogare se non nel senso di un maggior rigore, ossia prevedendo distanze maggiori (la giurisprudenza è, su questo punto, consolidata: Cass. 19.11.2004 n. 21899; Cass. 10.01.2003 n. 158; Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002 n. 3229), è quella del D.M. 02.04.1968 n. 1444, emesso in attuazione dell’art. 41-quinquies della legge urbanistica del 1942, come modificata dalla n. 765 del 1967.
La tesi dei convenuti, secondo la quale la distanza reciproca dei 10 metri sarebbe necessaria solo quando entrambe le pareti sono finestrate, manca di ratio iuris, perché se la ragione di distanziare le costruzioni è, indubitabilmente, quella di evitare le c.d. intercapedini dannose, cioè situazioni di asfitticità ambientale, tale ragione sussiste anche quando la parete finestrata sia una sola. Seguendo la tesi dei convenuti, si arriverebbe all’assurdo di consentire la realizzazione di pareti cieche anche a soli tre metri dalle finestre del vicino, che potrebbe significare anche due metri e perfino meno ove si trattasse di finestre provviste di ballatoio: un’edilizia, insomma, da quartieri spagnoli.
Che il D.M. 1444 del 1968 prescriva l’obbligo della distanza minima di 10 metri anche nell’ipotesi in cui solo la parete dell’edificio preesistente sia finestrata è un dato di giurisprudenza consolidata (Cass. Sez. Un. 18.02.1997 n. 1486, e, precedentemente, Cass. 08.05.1993 n. 5226; Cass. 05.11.1992 n. 12001; Cass. 28.08.1991 n. 9207; Cass. 05.03.1986 n. 1387). D’altronde, pur essendo riconosciuto (Cass. Sez. Un. 01.07.1997 n. 5889) che destinatari diretti della normativa ministeriale sono i comuni, e non i cittadini, la giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che essa in ogni caso prevale, anche nei rapporti fra privati, rispetto alle disposizioni dei regolamenti locali che ammettano distanze inferiori alle minime prescritte dal decreto ministeriale. Infatti, secondo Cass. 19.11.2004 n. 21899, “in tema di distanze fra costruzioni, il principio secondo il quale la norma di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti) imponendo limiti edilizi ai comuni nella formazione di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei rapporti tra privati, va interpretato nel senso che l’adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l’obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare la disposizione illegittima, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuto, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.” . Il principio si ritrova altresì in Cass. 10.01.2003 n. 158, così pure in Cass. 27.03.2001 n. 4413 (Corte d’Appello di Firenze, Sez. I, sentenza 30.03.2006 n. 785).

EDILIZIA PRIVATAL'obbligo di rispettare le distanze tra edifici applicazione anche con riferimento ad un precedente fabbricato realizzato in tutto o in parte abusivamente od illegittimamente.
a) la disciplina dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150, integrato dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, riguarda espressamente la distanza fra fabbricati e non la distanza di questi dal confine (Cass, II, 16.02.1996 n. 1021), ed in questo senso costituisce un vincolo per i Comuni in sede di predisposizione degli strumenti urbanistici: vincolo a carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto diretto, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali in materia urbanistica (igiene, decoro e sicurezza degli abitati);
b) se è vero che l’applicazione dell’art. 17 della legge n. 765/1967 e del DM 1444/1968 sulla distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti sono subordinati all’inesistenza di strumenti urbanistici anteriori contenenti norme sulle distanze (Cass, SS.UU n. 9871/1994), tuttavia gli strumenti urbanistici e le relative revisioni approvati successivamente all’entrata in vigore del citato decreto non possono contrastare con le direttive del decreto stesso (Cass, II, 24.07.2001 n. 10062; Cons. Stato, IV, 12.07.2002 n. 3929);
c) le sopraelevazioni, ai fini del rispetto delle distanze fra edifici, rientrano nella nozione di nuova costruzione, dovendosi considerare tale qualsiasi modificazione dei parametri edilizi idonea a creare quelle intercapedini dannose, riduttive di aria e di luce, che la norma appunto vuole evitare (ex multis, Cons. Stato, V, 19,10.1999 n. 1565, TAR Sicilia, Catania, n. 225/2002; TAR Friuli n. 22/2001);
d) la prescrizione opera indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (TAR per l’Emilia–Romagna, sez. II n. 136/2004; Cons. Stato, IV, n. 3929/2002 e giurisprudenza ivi richiamata sul punto).
e) La disposizione normativa di cui all'art. 873 c.c. in tema di distanze tra fabbricati, diretta a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitanti, e tale da consentire anche una più rigorosa valutazione in sede locale, non ha alcuna correlazione con la norma di cui all'art. 905 c.c. relativa alla distanza delle vedute, volta a salvaguardare il fondo finitimo dalle indiscrezioni attuabili mediante la realizzazione e l'uso di un'opera obbiettivamente destinata a tale scopo (Cass. civ. II, 05.06.1998 n. 5518).
Come chiarito dalla giurisprudenza anche costituzionale (Corte Costituzionale n. 120 del 18.04.1996) l'obbligo di rispettare le distanze tra edifici, perseguendo il pubblico interesse (igiene, decoro, sicurezza e assetto urbanistico) trova applicazione anche con riferimento ad un precedente fabbricato realizzato in tutto o in parte abusivamente od illegitimamente. Tale aspetto meramente prospettato, pertanto, è irrilevante nel presente giudizio e potrà eventualmente essere accertato in un separato giudizio (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 30.03.2006 n. 348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl sopralzo del sottotetto deve rispettare la distanza minima di mt. 10,00 dai fabbricati limitrofi.
Il recupero volumetrico (sopraelevazione) dei sottotetti in Lombardia, in forza della l.r. n. 12/2005 e s.m.i., non può derogare dalla distanza minima di mt. 10,00 tra fabbricati di cui al D.M. 02.04.1968 1444 (TRIBUNALE di Como, Sez. civile,
sentenza 06.02.2006).

EDILIZIA PRIVATAIn merito alla distanza di 10 mt. tra pareti finestrate di fabbricati, appare più coerente con il sistema una interpretazione della dizione “parete finestrata” nel senso di parete munita di "vedute" e non anche parete su cui si aprono finestre lucifere, così come ritenuto anche dalla giurisprudenza della Cassazione.
La questione giuridica da risolvere è se per “parete finestrata”, ai sensi dell’art. 9 del D.M. del 02.04.1968 debba intendersi una parete sulla quale si aprano delle semplici luci, o solo delle vedute.
Come è noto la giurisprudenza della Cassazione definisce veduta o prospetto una finestra che consente non soltanto una comoda inspectio sul fondo vicino senza l'impiego di mezzi artificiali, ma anche una comoda prospectio e cioè la possibilità di affacciarsi con lo sporgere il capo. In particolare, la Cassazione ha chiarito che la possibilità di prospicere, in astratto, può anche non essere impedita dall'esistenza di un'inferriata, purché, in relazione all'ampiezza delle maglie di questa, possa essere in concreto stabilita la possibilità di affaccio con la possibilità di protendere il capo (Cassazione civile, sez. II, 17.01.2002, n. 480).
Di contro la nozione di luce si trae in negativo dall’art. 902 c.c., secondo il quale “L'apertura che non ha i caratteri di veduta o di prospetto è considerata come luce, anche se non sono state osservate le prescrizioni indicate dall'articolo 901”.
Chiarito ciò, occorre stabilire se la presenza di luci comporti o meno l’applicazione della distanza minima di 10 m.
Ritiene il collegio che la questione debba essere risolta alla luce del complessivo sistema delineato dal codice civile che, nell'ambito della disciplina legale dei rapporti di vicinato, impone di osservare nelle costruzioni determinate distanze solo dalle vedute (art. 907) e non anche dalle luci.
L'art. 907 C.C., in particolare, nel disporre che rispetto alle vedute dirette verso il fondo vicino il proprietario di questo non possa fabbricare a distanza inferiore a tre metri, non menziona le aperture lucifere (la cui realizzazione rappresenta di norma l'esercizio di una mera facoltà del diritto di proprietà art. 901 C.C.), così manifestando di tutelare le vedute, attesa la loro funzione economico-sociale nel campo edilizio, in modo più netto e deciso rispetto alle luci, in relazione alle quali è consentito al proprietario confinante di costruire in appoggio o in aderenza al muro perimetrale che le contiene con conseguente liceità della chiusura delle stesse ricorrendone, ai sensi dell'art. 904 C.C., i presupposti di legge.
In questo quadro, appare dunque più coerente con il sistema una interpretazione della dizione “parete finestrata” nel senso di parete munita di "vedute" e non anche parete su cui si aprono finestre lucifere, così come ritenuto anche dalla giurisprudenza della Cassazione (Cassazione civile, Sezione II, 22.02.1996, n. 1362) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,  sentenza 27.01.2006 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANozione di costruzione e distanze legali.
In tema di distanze legali, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione" agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c. per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l'altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento; la parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, invece, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico, ed alla medesima disciplina devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente (massima tratta da www.lavatellilatorraca.it - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.01.2006 n. 145).

anno 2005

EDILIZIA PRIVATA: La distanza di 10 metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano. Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra.
Ai fini della misurazione delle distanze tra edifici non si deve tenere conto delle rientranze delle pareti o altri artifici architettonici che interrompono il fronte naturale dell'edificio; gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo.

La disciplina di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, in tema di distanze tra costruzioni, stante la sua natura di norma primaria, è obbligatoriamente applicabile in sostituzione di eventuali disposizioni comunali illegittime (Cass. Civ., Sez. II, 10.01.2003, n. 158; 27.03.2001, n. 4713).
Giova richiamare, sia bure brevemente, i principi che la giurisprudenza, civile ed amministrativa, ha enunciato in materia:
a). l’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, (legge urbanistica), integrato dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, nella parte in cui stabilisce che la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore a quella di ciascun fronte dell'edificio da costruire, fa riferimento alla distanza fra fabbricati e non alla distanza di questi dal confine (cfr. Cass, Sez. II, 16.02.1996 n. 1201);
b). l'art. 9 del citato D.M. del 1968, laddove prescrive la distanza di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr. Cass., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108; Cons. Stato, Sez. V, 19.10.1999 n. 1565); conseguentemente, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. Cass., Sez. II, 16.08.1993 n. 8725 e 07.06.1993 n. 6360);
c). la distanza di 10 metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (CdS, Sez. V, 16.02.1979, n. 89). Tale calcolo, infatti, si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Cass., Sez. II, 30.03.2001 n. 4715), indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra (cfr. Cass., Sez. II, 03.08.1999 n. 8383);
d). il computo della distanza tra edifici, in base alle norme del più volte citato decreto ministeriale del 1968, nel caso in cui le pareti dei fabbricati non si estendano linearmente in altezza, ma che manifestino rientranze e sporgenze, deve operarsi distinguendo fra gli sporti dalle ridotte dimensioni, aventi scopo meramente ornamentale e decorativo, da quelli costituenti sporgenze di particolari proporzioni, destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, dei quali soltanto deve tenersi conto nel computo anzidetto, essendo veri e propri corpi di fabbrica che determinano un aumento dell'edificio in superficie ed incidono quindi sulla consistenza volumetrica dello stesso (cfr. Cass., Sez. II, 26.11.1996 n. 10497) nonché di altre sporgenze, quali i balconi, che vengono ad ampliare in superficie e in volume il fabbricato da cui sporgono, occupando lo spazio che deve invece rimanere libero per assicurare il prescritto distacco (cfr. Cass., Sez. II, 24.03.1993 n. 3533).
Ai fini della misurazione delle distanze tra edifici non si deve tenere conto delle rientranze delle pareti o altri artifici architettonici che interrompono il fronte naturale dell'edificio (venga interrotto) (CGA, 06.05.1998, n. 291; CdS, Sez. V, 24.11.1990, n. 791), e che gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo (CdS, Sez. V, 19.03.1996, n. 268) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.12.2005 n. 6909 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe sopraelevazioni, poiché pacificamente includibili nella categoria delle “nuove opere”, risultano sottoposte al regime delle distanze previsto per queste ultime, pur se con opportune armonizzazioni con il principio della prevenzione; per cui, in linea generale, sia il preveniente che il prevenuto possono costruire sul filo della precedente costruzione, e, solo se non ritengano di rispettare tale linea costruttiva, devono osservare dall’altro fabbricato, indipendentemente dal superamento o meno del livello di quest’ultimo, il distacco minimo previsto dal codice civile o dal regolamento locale.
Osserva il Tribunale che, se è certamente vero che una sostituzione (eventualmente con modifiche) della struttura costituente la copertura di un edificio già esistente non può, ex sé, costituire una sopraelevazione, poiché in tal caso l’attività edilizia viene ad essere soltanto volta ad assicurare il permanere di un elemento accessorio indispensabile per l’immobile; tuttavia quando –come nel caso di specie– l’esecuzione di lavori comporta innovazioni tali da determinare la creazione di un nuovo volume utile per il proprietario (ancorché “tecnico”, cioè non utilizzabile per fini abitativi, esso risulta però destinato ad un uso diverso, quale “lavanderia”, “stenditoio”, etc.), è evidente che l’opera non può non qualificarsi come “sopraelevazione”, trattandosi di nuove fabbriche, dotate di autonoma utilità e determinanti l’innalzamento dell’originaria altezza dell’edificio (cfr. Cass. Civ. n° 7764 del 20.07.1999; Cass. Civ. n° 10568 del 24.10.1998; Cass. Civ. n° 5839 dell’01.07.1997; Cass. Civ. n° 5164 del 10.06.1997; Tribunale Bologna 24.06.1998, in Arch. Locazioni 1999, 286).
Ebbene, anche le sopraelevazioni, poiché pacificamente includibili nella categoria delle “nuove opere”, risultano sottoposte al regime delle distanze previsto per queste ultime, pur se con opportune armonizzazioni con il principio della prevenzione; per cui, in linea generale, sia il preveniente che il prevenuto possono costruire sul filo della precedente costruzione, e, solo se non ritengano di rispettare tale linea costruttiva, devono osservare dall’altro fabbricato, indipendentemente dal superamento o meno del livello di quest’ultimo, il distacco minimo previsto dal codice civile o dal regolamento locale (cfr. Cass. Civ. n° 9726 del 27.09.1993; Cass. Civ. n° 11284 del 15.10.1992; Cass. Civ. n° 8849 del 27.08.1990; Cass. Civ. n° 4352 del 24.06.1983; Cass. Civ. n° 3742 del 18.06.1982): ma nel caso di specie, oltre a non essere stata rispettata la linea costruttiva originaria (atteso che il nuovo “tetto termico” risulta posto a distanza di mt. 0,88 dal confine, ove insistono le preesistenti fabbriche), comunque la normativa locale attualmente vigente impone in via assoluta un distacco di mt. 5,00 dal confine stesso o di mt. 10,00 da fabbriche, cosicché la normativa sulla prevenzione viene ad essere recessiva e non più applicabile.
Pertanto, in definitiva, è da escludere che a Barone Francesco potesse essere consentito di realizzare una sopraelevazione in allineamento con l’originaria costruzione, per cui la nuova opera avrebbe dovuto rispettare le distanze imposte dalla citata normativa regolamentare locale in vigore (cfr. Cass. Civ. n° 200 dell’08.01.2001; Cass. Civ. n° 10864 del 30.10.1998; Cass. Civ. n° 5246 dell’11.06.1997; Cass. Civ. n° 3817 del 09.06.1986) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.11.2005 n. 2479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl sopralzo di un fabbricato esistente è subordinato al rispetto delle norme sulle distanze dalle strade o da altre costruzioni.
Il rilascio del titolo edilizio, con riguardo alla parte dell’intervento qualificabile come nuova costruzione, è subordinato al rispetto delle norme sulle distanze dalle strade o da altre costruzioni (v. Cass. Civ., Sez. II, 16.03.2000, n. 3054; id., 24.05.2000, n. 6809; TAR Veneto, sez. II, 22.04.2005, n. 1778, relative ad interventi di sopraelevazione di edifici esistenti) (TAR Valle d'Aosta, sentenza 18.10.2005 n. 109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo i principi generali elaborati in campo civilistico in materia di distanze tra edifici, anche la sopraelevazione è considerata nuova costruzione, la quale deve osservare le distanze prescritte dalla legge.
In base alle disposizioni del Codice della Strada e del suo regolamento di attuazione, fuori dai centri abitati (come nel caso di specie ove è stato perimetrato il centro abitato), è fatto divieto di costruire o ampliare gli edifici fronteggianti le strade.
Detto divieto risulta reiterato, in quanto norma di principio volta a tutelare la pubblica incolumità, inderogabile da parte delle amministrazioni, rispetto alla disciplina previgente (r.d. n. 1740/1933, art. 1 rimasto in vigore a seguito dell’emanazione del vecchio codice della strada del 1959; d.m. 01.04.1968, n. 1404, art. 4).
Dette prescrizioni continuano a trovare applicazione, indipendentemente dall’avvenuta classificazione delle strade ad opera delle amministrazioni locali, stante il disposto di cui all’art. 234 del Codice della Strada, nella parte in cui dispone che “…Fino all’attuazione di tali adempimenti (classificazione delle strade ad opera degli enti proprietari) si applicano le previgenti disposizioni in materia”.
Il richiamo, contenuto nel provvedimento impugnato, alla sentenza di questo Tribunale, n. 5363/2003, risulta pertinente nella parte in cui si afferma che le disposizioni contenute nella legge regionale n. 24/1985, le quali consentono l’ampliamento degli edifici esistenti ubicati nelle zone di protezione delle strade di cui al D.M. n. 1404/1968, sono divenute incompatibili con l’art. 26 del regolamento esecutivo del nuovo codice della strada e soprattutto con l’art. 16 dello stesso codice, da cui il divieto di realizzare ampliamenti fronteggianti le strade.
Detta incompatibilità deve ritenersi sussistente anche con riferimento alla disciplina previgente ancora applicabile nelle more dell’attuazione delle nuove disposizioni; pertanto, non può trovare applicazione il richiamo alla normativa regionale effettuato dalle norme contenute nel regolamento edilizio comunale.
Nel caso di specie l’intervento progettato dal ricorrente risulta in contrasto con il divieto suddetto quanto meno con riferimento alla parte in cui viene progettata la sopraelevazione dell’edificio esistente, in quanto, secondo i principi generali elaborati in campo civilistico in materia di distanze tra edifici, anche la sopraelevazione è considerata nuova costruzione, la quale deve osservare le distanze prescritte dalla legge (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 744/1980; Cons. Giust. Amm. Sicilia, Sez. giurisd., n. 37/1997) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.04.2005 n. 1778 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA L’obbligo del rispetto della distanza minima tra fabbricati frontistanti è previsto non soltanto a tutela dei proprietari frontisti, ma anche per finalità di pubblico interesse e va dunque rispettato anche nel caso di costruzioni abusive ed a prescindere se sia intervenuta la relativa sanatoria amministrativa.
Anche chi ha costruito abusivamente può pretendere che l’altro fabbricato, pure eseguito illegittimamente, sia ridotto a distanza legale o, se del caso, abbattuto.
Non può fondatamente sostenersi che il rilascio del provvedimento di condono edilizio è precluso dalla violazione delle norme sulle distanze, essendo l’atto volto a regolare i rapporti tra privato costruttore e pubblica amministrazione e restando naturalmente illesi i diritti dei terzi, che potranno essere fatti valere in sede di giurisdizione civile, chiedendo, a seconda dei casi, la demolizione delle opere abusive od il risarcimento dei danni.
Le norme disciplinanti la distanza tra fabbricati, da osservare in sede di rilascio di concessione di costruzione, sono applicabili anche nel caso di sopraelevazione di un fabbricato preesistente.

Il Tribunale deve disattendere l’eccezione della controinteressata, secondo cui l’obbligo di rispettare le distanze legali non sussisterebbe, nella specie, in quanto il fabbricato frontista è abusivo.
Per vero, l’obbligo citato è previsto non soltanto a tutela dei proprietari frontisti, ma anche per finalità di pubblico interesse e va dunque rispettato anche nel caso di costruzioni abusive ed a prescindere se sia intervenuta la relativa sanatoria amministrativa (cfr. Cass. civ., II Sez., 24.05.2004 n. 9911 e 02.08.1995 n. 8476).
Ne consegue, sotto il versante del diritto civile, anche chi ha costruito abusivamente può pretendere che l’altro fabbricato, pure eseguito illegittimamente, sia ridotto a distanza legale o, se del caso, abbattuto (cfr. Cass. civ., I Sez., 17.11.2003 n. 17339).
Infine, non può fondatamente sostenersi che il rilascio del provvedimento di condono è precluso dalla violazione delle norme sulle distanze, essendo l’atto volto a regolare i rapporti tra privato costruttore e pubblica amministrazione e restando naturalmente illesi i diritti dei terzi, che potranno essere fatti valere in sede di giurisdizione civile, chiedendo, a seconda dei casi, la demolizione delle opere abusive od il risarcimento dei danni (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 16.10.1998 n. 1306; TAR Toscana, III Sez., 11.03.2004 n. 675).
Tanto esposto, al collegio non resta che prendere atto di quel che tra i contendenti è rimasto fuori discussione: e cioè che la sopraelevazione del fabbricato della controinteressata si pone a distanza inferiore, per circa la metà, rispetto a quella legale di ml. 3, contenuta nell’art. 873 c.c. (sulla tassatività ed inderogabilità delle norme sulle distanze dai fabbricati, cfr. Cass. civile, II Sez., 03.08.1999 n. 8383; Cons. Stato, IV Sez., 12.07.2002 n. 3929).
D’altro canto, le norme disciplinanti la distanza tra fabbricati, da osservare in sede di rilascio di concessione di costruzione, sono applicabili anche nel caso di sopraelevazione di un fabbricato preesistente (cfr. Cass. civile, II Sez., 07.12.2004 n. 22895; TAR Molise 05.07.1990, n. 186)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 22.04.2005 n. 665 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La distanza di mt. 10,00 deve sempre essere rispettata, anche se una delle due pareti non è finestrata.
L’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1404, in applicazione dell'articolo 41-quinquies della legge urbanistica, come modificato dall'articolo 17 della legge 06.08.1967 n. 765 (cosiddetta «legge ponte»), detta i limiti di densità, altezza, distanza tra i fabbricati, pone al secondo comma dell'articolo 9 una prescrizione tassativa ed inderogabile, secondo la quale «Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: (…) 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti».
Questa distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti deve perciò essere sempre rispettata, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra (Cass., 03.08.1999, n. 8383).
Ed è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente per l'applicazione di tale distanza che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela e ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta (Cass., 26.07.2002, n. 11013; Cass., 30.03.2001, n. 4715; Cass., 24.07.2001, n. 10062, in Arch. locaz. e cond. 2001, 797; Cass., 03.08.1999, n. 8383; Cass., sez. un., 18.02.1997, n. 1486; Cass., 06.05.1993, n. 5226; Cass., 05.11.1992, n. 12001, in Riv. giur. edilizia 1993, I, 776; Cass., 28.08.1991, n. 9207).
Pertanto, la disciplina sulle distanze deve esser osservata anche se soltanto su uno di essi sono aperte le finestre, mentre quello di fronte ha una parete cieca, perché l’articolo 9 del decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1404 è volto a stabilire, nell'interesse pubblico, un'idonea intercapedine tra edifici, e non a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza (Cass., 06.07.2002, n. 11013; Cass., 03.05.2001, n. 6176; Cass., 26.01.2001, n. 1108; Cass., 09.03.1999, n. 1984).
Ciò posto, è ius receptum che, ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dagli articoli 873 e seguenti del codice civile e delle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, deve ritenersi «costruzione» qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo aereo dall'uniformità e continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua destinazione.
In particolare, quando si realizzi un edificio dotato di sporti od aggetti, ovvero un'opera ad esso accessiva consistente in sporti od aggetti, questi, ove non presentino funzione complementare meramente decorativa ma dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati nell'immobile, del quale vengono a costituire un accessorio o una pertinenza di guisa da ampliarne la superficie o la funzionalità, assumono il carattere di costruzione e se ne deve tener conto ai fini dell'accertamento del rispetto della normativa sulle distanze (Cass., 15.02.2001, n. 2228).
Sicché, nel calcolo delle distanze fra le costruzioni devono trascurarsi solo gli sporti che consistono in sporgenze di limitata entità, con funzione meramente decorativa, mentre vengono in considerazione le sporgenze costituenti, per i loro caratteri strutturali e funzionali, veri e propri aggetti (Cass., 02.10.2000, n. 13001).
Con la conseguenza che il proprietario del terreno confinante non può, in violazione delle distanze legali, realizzare una tettoia che avanzi rispetto all'edificio già esistente, dovendo la tettoia considerarsi parte integrante del fabbricato (Cass., 30.10.2003, n. 16358; Cass., 06.03.2002, n. 3199, in Riv. giur. edilizia 2002, I, 1073) (Corte d’Appello di Firenze, Sez. I, ottobre 2005 n. 1386).

EDILIZIA PRIVATAL'obbligo del rispetto della distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici esistenti è inderogabile anche per la p.a. preposta al rilascio della concessione edilizia.
Il controricorso avversario si limita ad osservare che la concessione edilizia rilasciata fa salvi i diritti dei terzi e che "non spetta al Giudice Amministrativo indagare sulla effettiva distanza tra le costruzioni o sulla natura delle stesse circa la loro contiguità".
Il Collegio a tal proposito osserva che, per costante giurisprudenza, l'obbligo del rispetto della distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici esistenti è inderogabile anche per la p.a. preposta al rilascio della concessione edilizia (Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz., 17.05.2000, n. 240, TAR Sicilia, sez. 2^, Catania, 16.12.1993, n. 1003) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 31.01.2005 n. 140 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2004

EDILIZIA PRIVATAUna costruzione può essere realizzata sul confine del vicino limitatamente all’altezza del preesistente muro di fabbrica, mentre una volta superata tale altezza debbono essere rispettate le distanze previste tra le costruzioni dalla disciplina urbanistica.
Come correttamente evidenziato dal TAR, il ricorrente stava realizzando una costruzione che era solo in parziale aderenza con quanto costruito in precedenza dal Sig. Greco, con superamento in altezza del muro di confine, con la conseguenza che parte della nuova costruzione era stata edificata ad una distanza di circa 5 metri dalla preesistente parete finestrata del confinante, mentre il limite minimo in questi casi era stabilito in 10 metri dalla locale normativa urbanistica.
L’appellante non contesta detta situazione di fatto ma sostiene che essendoci un muro di confine tra i due fabbricati non occorreva rispettare alcuna distanza per la nuova costruzione.
Occorre invece tener presente che una costruzione può essere realizzata sul confine del vicino limitatamente all’altezza del preesistente muro di fabbrica, mentre una volta superata tale altezza debbono essere rispettate le distanze previste tra le costruzioni dalla disciplina urbanistica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.11.2004 n. 7746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla distanza tra pareti finestrate ricomprendendo o meno il balcone.
A quest’ultimo proposito si noti, peraltro, per completezza, in relazione alla censura svolta in primo grado, che la disciplina vigente al momento del rilascio della contestata concessione edilizia era, come si ripete, quella promanante dell’art. 44 del Regolamento edilizio del 1982 e dall’art. 4 delle NTA del PRG del 1980.
In base all'art. 44 del vigente Regolamento Edilizio “la distanza dai confini” (fissata, in linea generale e salve talune eccezioni qui non rilevanti, in mt. 5) “si misura sulla normale portata al confine dal punto più vicino dell’edificio che faccia parte del volume o della superficie coperta dello stesso”.
In base all'art. 4 delle NTA del PRG, poi, il volume delle costruzioni “si ricava moltiplicando la superficie lorda di pavimento dei singoli piani per l’altezza virtuale dell’interpiano…….”; e nella superficie lorda di pavimento, in base alla stessa norma, non sono da ricomprendere, tra gli altri, gli aggetti aperti, i balconi e le terrazze; quanto alla superficie coperta, sempre in base al ripetuto art. 4, sono da essa pure escluse le parti aggettanti e i balconi.
Ne consegue che, nel calcolo delle distanze dai confini, correttamente non si è tenuto conto, nella specie, da parte del Comune, dei contestati balconi, in quanto non rientranti, in base alla disciplina locale, nel volume, né nella superficie lorda, né in quella coperta dell’edificio da realizzare; la distanza di mt. 5, infatti, andava calcolata non a partire dal punto più vicino dell’erigendo edificio, bensì solo dalle parti dell’edificio stesso costituenti volume o superficie coperta del medesimo, mentre tali non sono stati considerati, in base alla predetta disciplina normativa e nel rispetto della medesima, le parti aggettanti e, in particolare, i balconi; si può discutere della legittimità di una disciplina siffatta che, di fatto, esclude, dal computo delle distanze, parti dell’edificio che, normalmente, vanno considerate a tali fini; ma la disciplina stessa non è stata fatta oggetto di specifico gravame (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza V, sentenza 12.08.2004 n. 5554 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza minima di mt. 10,00 deve essere rispettata anche nel caso di sopralzo.
La previsione di un obbligo di distanza maggiore (rispetto a quella imposta dal codice civile) fra costruzioni, quando vi sono finestre, si ricollega alla necessità di offrire uno strumento di conservazione di spazi di un certo respiro (in termini di aria, luce e panorama), non angusto, tutelando le posizioni di coloro che hanno affacci e vedute in parete.
La distanza minima di mt. 10 fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prescritta dall'art. 9, comma 2°, D.M. 02.04.1968 n. 1444, è applicabile anche in caso di sopraelevazione, atteso che la sua ratio è di evitare la creazione di intercapedini in grado di impedire la libera circolazione dell' aria e la riduzione della luminosità (Cfr. TAR Puglia, Bari, 1386 - 26.03.2003; Cons. Stato, V Sez., 19.10.1999 n. 1565) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 18.04.2004 n. 757).

EDILIZIA PRIVATAL'articolo 878 del codice civile si riferisce soltanto ad un muro che abbia entrambe le facce isolate dalle altre costruzioni e non racchiuda, quindi, uno spazio coperto con una propria volumetria come nel caso in esame e, pertanto, le norme tecniche di attuazione di un Comune non sono autorizzate a modificare la definizione codicistica.
Il ricorrente, in qualità di proprietario confinante, ha impugnato la concessione edilizia in epigrafe indicata, nonché l'articolo 27, commi 4° e 5°, delle NTA della variante al PRG, sulla quale si fonda il rilascio del suddetto provvedimento, con il quale la controinteressata è stata autorizzata a costruire un fabbricato ad uso autorimessa, di altezza di circa m. 3, da porsi sul confine di proprietà per un fronte di m. 4, deducendone l’illegittimità sotto vari profili.
Si è costituito in giudizio il Comune intimato che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Non si sono costituiti in giudizio né la provincia di Ferrara né la controinteressata.
L'istanza cautelare è stata accolta con ordinanza n. 399 del 25.06.2003 e la causa è stata trattenuta in decisione all'udienza del 18.03.2004.
Il ricorso è fondato con specifico riferimento alle censure di violazione degli articoli 873 e 878 del codice civile e di eccesso di potere per irragionevolezza e falso presupposto di diritto.
Già in un'analoga controversia promossa dall'odierno ricorrente avverso un'altra simile costruzione da realizzare sempre sul confine di proprietà da parte di un altro confinante, sul lato nord, questo Tribunale Amministrativo Regionale, con sentenza n. 2770 del 31.12.2003, ha rilevato uno specifico contrasto tra l'articolo 27, comma quinto, delle predette norme tecniche di attuazione rispetto agli articoli suddetti del codice civile.
Infatti, la citata disposizione comunale dispone che "nelle zone residenziali è possibile, anche in deroga alle distanze fissate dall'articolo 12 delle presenti norme, l'edificazione sul confine di proprietà di edifici, privi di pareti finestrate, di altezza esterna, intesa come massimo ingombro, inferiore a metri tre, senza necessità di convenzione tra confinanti, intendendo tali edifici come muri di cinta, ai sensi del codice civile".
Invero, come già precisato dalla suddetta sentenza, l'articolo 878 del codice civile si riferisce soltanto ad un muro che abbia entrambe le facce isolate dalle altre costruzioni e non racchiuda, quindi, uno spazio coperto con una propria volumetria come nel caso in esame e, pertanto, le norme tecniche di attuazione di un Comune non sono autorizzate a modificare la definizione codicistica.
Del resto la strumentazione urbanistica del Comune intimato, per regola generale, all'articolo 12, lettera c, dispone che gli interventi di nuove costruzioni debbano osservare una distanza minima di 5 metri dai confini di proprietà, riducibile a metri 3 soltanto con apposita convenzione tra confinanti, con ciò escludendo l'applicazione diretta del criterio civilistico della prevenzione, di cui all’articolo 873 del codice civile, che non può indirettamente essere reintrodotto attraverso un'illogica ed illegittima equiparazione di una vera e propria costruzione, a tutti gli effetti, ad un muro privo di volumetria coperta (TAR Emilia Romagna, sez. II, sent. n. 2770 del 31.12.2003).
Per tali ragioni, di carattere assorbente rispetto alle ulteriori censure dedotte, il ricorso va accolto, e per l’effetto, si conferma l’annullamento dell'articolo 27, comma 5°, delle NTA della variante al PRG del comune di Poggiorenatico (FE), ivi comprese, in parte qua, le deliberazioni di adozione e di approvazione meglio indicate in epigrafe (già pronunciato con la citata sentenza del TAR Emilia Romagna, sez. II, sent. n. 2770 del 31.12.2003), nonché, per illegittimità derivata, la concessione edilizia impugnata n. C034/2002 rilasciata a Masina Margherita (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 08.04.2004 n. 509 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Distanze.
Poiché nel concetto di ristrutturazione rientrano anche le opere di totale demolizione e di fedele ricostruzione di un edificio, ove la ricostruzione assicuri la piena conformità di sagoma, di volume e di superficie tra il vecchio ed il nuovo fabbricato (fra le tante: Cons. St., Sez. V, 09.07.1990 n. 594; 18.12.1997 n. 1581; 20.10.1998 n. 1491; 03.04.2000 n. 1906; 09.10.2002 n. 5410), sono illegittime le Norme tecniche di attuazione di un comune che impongono il rispetto delle distanze dai confini e dalle strade laddove gli interventi di ristrutturazione edilizia siano attuati mediante demolizione e ricostruzione, perché in tal modo si impedisce nella sostanza la ricostruzione fedele del preesistente edificio (massima tratta da www.studiospallino.it - TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 11.03.2004 n. 266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2003

EDILIZIA PRIVATALa distanza minima di mt. 10 tra fabbricati non è soggetta ad essere derogata con accordi pattizi tra privati.
La disciplina delle distanze legali tra fabbricati è sancita da norme poste a tutela delle superiori esigenze di ordine pubblico ad una ordinata e razionale edificazione, e perciò non soggette ad essere derogate da accordi pattizi privati (cfr. Cons. Stato, IV Sezione, n. 3929 del 12.07.2002) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.09.2003 n. 5032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl comune può prevedere distanze maggiori, tra fabbricati, di quella minima di 10 mt. di cui al DM 02.04.1968 n. 1444.
L'art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 non preclude ai comuni, nella formazione dei piani regolatori generali e dei regolamenti edilizi, la possibilità di prescrivere un distacco fra edifici che si fronteggino, maggiore rispetto a quello minimo imposto dal decreto (Cass. civ. sez. II, 04.02.1998, n. 1132) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.01.2003 n. 419 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di distanza minima di 10 mt. tra fabbricati, ex art. 9 DM 1444/1968, in presenza di contrasto tra norma legislativa e norma regolamentare, deve ritenersi disapplicabile la seconda.
In tema di distanze tra costruzioni restano salvi i diritti dei terzi i quali, ove lesi dalla costruzione realizzata senza il rispetto delle disposizioni sulle distanze, conservano il diritto ad ottenere la riduzione in pristino.

La distanza di mt. 10 tra pareti finestrate rappresenta quella minima inderogabile prestabilita dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, decreto che, in quanto emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell’art. 41-quinquies della L. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dalla L. 06.08.1967 n. 765, ripete dal rango della stessa legge delegante la forza di norma legislativa capace di integrare l’art. 872 cod.civ..
Tanto comporta che, in presenza di contrasto tra norma legislativa e norma regolamentare, deve ritenersi disapplicabile la seconda, giacché, secondo la giurisprudenza, pur in difetto di specifica doglianza di parte, è consentito al Giudice Amministrativo sindacare gli atti di normazione secondaria, incidenti su diritti soggettivi di terzi, al fine di accertarne l’idoneità ad innovare l’ordinamento e, in concreto, a fornire la regola di giudizio per risolvere la questione controversa (Cons. St., Sez. V, 26.02.1992 n. 154; 24.07.1993 n. 799; 07.04.1995 n. 531; Sez. IV, 29.02.1996 n. 222).
Peraltro, in tema di distanze tra costruzioni restano salvi i diritti dei terzi i quali, ove lesi dalla costruzione realizzata senza il rispetto delle disposizioni sulle distanze, conservano il diritto ad ottenere la riduzione in pristino (Cass., Sez. II, 13.10.2000 n. 13639)
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.01.2003 n. 197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2002

EDILIZIA PRIVATALa deroga alle distanze tra fabbricati può trovare applicazione solo relativamente alle distanze tra edifici facenti parte della stessa lottizzazione. Nel caso di un Piano di Recupero, avente natura attuativa alla stessa stregua del piano di lottizzazione, tale deroga può trovare applicazione solo tra edifici compresi nel perimetro del piano stesso.
Secondo la giurisprudenza, l’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, che consente una deroga alle distanze tra fabbricati, può trovare applicazione solo relativamente alle distanze tra edifici facenti parte della stessa lottizzazione (Cass., SS.UU., 18.02.1997 n. 1486), sicché, nel caso di che trattasi, concernente un piano di recupero, avente natura attuativa alla stessa stregua del piano di lottizzazione, tale deroga può trovare applicazione solo tra edifici compresi nel perimetro del piano stesso, mentre gli immobili dei ricorrenti sono esterni ad esso.
Peraltro, in tema di distanze tra costruzioni, l’esistenza di un’autorizzazione da parte del Comune all’edificazione fa salvi i diritti dei terzi, pertanto è priva di rilevanza nei rapporti tra privati i quali, ove lesi dalla costruzione realizzata senza il rispetto delle disposizioni sulle distanze, conservano il diritto ad ottenere la riduzione in pristino (Cass., Sez. II, 13.10.2000 n. 13639).
Né giova a far ritenere legittima, sul punto, la concessione edilizia in discorso l’esistenza del presupposto piano di recupero, divenuto inoppugnabile, che prevede la possibilità di derogare alle norme sulle distanze, previste in m. 10 tra pareti finestrate dal PRG vigente.
Infatti, deve ricordarsi che tale distanza rappresenta quella minima inderogabile prestabilita dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.1444, decreto che, in quanto emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell’art. 41-quinquies della L. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dalla L. 06.08.1967 n. 765, ripete dal rango della stessa legge delegante la forza di norma legislativa capace di integrare l’art. 872 cod. civ..
Tanto comporta che, in presenza di contrasto tra norma legislativa e norma regolamentare, deve ritenersi disapplicabile la seconda, giacché, secondo la giurisprudenza, pur in difetto di specifica doglianza di parte, è consentito al Giudice Amministrativo sindacare gli atti di normazione secondaria, incidenti su diritti soggettivi di terzi, al fine di accertarne l’idoneità ad innovare l’ordinamento e, in concreto, a fornire la regola di giudizio per risolvere la questione controversa (Cons. St., Sez.V, 26.02.1992 n. 154; 24.07.1993 n. 799; 07.04.1995 n. 531; Sez. IV, 29.02.1996 n. 222)
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 25.10.2002 n. 1023 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Distanze.
Il riattamento di un sottotetto di edificio esistente, con rialzo del medesimo, non costituisce realizzazione di un nuovo edificio, ma ristrutturazione dell'esistente.
Ne consegue che non trova applicazione la disciplina delle distanze dai confini e non esistono potenziali controinteressati, e che il recupero del sottotetto va considerato ristrutturazione ex art. 3, comma 2, della l.reg. Lombardia, 15.07.1996, n. 15, anche se comporta un aumento dell'altezza dell'edificio (massima tratta da www.studiospallino.it - TAR Lombardia-Brescia, sentenza 18.09.2002 n. 1176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl D.M. 02.04.1968 n. 1444, emanato in forza dell’art. 17 della <<legge ponte>>, trae da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima, essendo consentita alla P.A. solo la fissazione di distanze superiori.
Non può, pertanto, escludersi la legittimazione e l’interesse del privato confinante ad impugnare le norme dello strumento urbanistico comunale ed i conseguenti atti applicativi nel momento in cui in base ad essi sia prevista a favore del vicino costruttore una consistente deroga alla rigida osservanza delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. n.1444/1968 cit., nella specie attuata, come dedotto dagli appellati, tramite la demolizione di un edificio preesistente -una villetta- e la ricostruzione al suo posto di un fabbricato di sei piani posto a una distanza inferiore ai dieci metri prescritti; la deroga, infatti, viene ritenuta ammissibile unicamente nei casi di demolizione e ricostruzione in forma fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne), non potendosi ritenere sussistente in tal caso una nuova costruzione, ma solo il suo recupero, con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione straordinaria.

Il D.M. 02.04.1968 cit., infatti, emanato in forza dell’art. 17 della <<legge ponte>> trae da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima (cfr. Cass. civ., SS.UU., 21.02.1994, n.1645), essendo consentita alla P.A. solo la fissazione di distanze superiori (cfr. Cons. St., IV, 13.05.1992, n. 511; Cass. civ., 29.10.1994, n. 8944; id., 21.02.1994, n. 1645; id. 04.02.1998, n.1132); non può, pertanto, escludersi la legittimazione e l’interesse del privato confinante ad impugnare le norme dello strumento urbanistico comunale ed i conseguenti atti applicativi nel momento in cui in base ad essi sia prevista a favore del vicino costruttore una consistente deroga alla rigida osservanza delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. n. 1444/1968 cit., nella specie attuata, come dedotto dagli appellati, tramite la demolizione di un edificio preesistente -una villetta- e la ricostruzione al suo posto di un fabbricato di sei piani posto a una distanza inferiore ai dieci metri prescritti; la deroga, infatti, viene ritenuta ammissibile unicamente nei casi di demolizione e ricostruzione in forma fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne), non potendosi ritenere sussistente in tal caso una nuova costruzione, ma solo il suo recupero, con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione straordinaria (cfr. Cass. civ., 25.08.1989, n. 3762) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.07.2002 n. 3929 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’inderogabile distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima.
Le norme di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444, hanno carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali in materia urbanistica, norme che si riferiscono alla distanza fra fabbricati e non alla distanza di questi dal confine (cfr. Cass. civ., II, 16.02.1996, n. 1021). 
Il D.M. 02.04.1968 cit., infatti, emanato in forza dell’art. 17 della <legge ponte> trae da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima (cfr. Cass. civ., SS.UU., 21.02.1994, n. 1645), essendo consentita alla P.A. solo la fissazione di distanze superiori (cfr. Cons. St., IV, 13.05.1992, n. 511; Cass. civ., 29.10.1994, n. 8944; id., 21.02.1994, n. 1645; id. 04.02.1998, n. 1132); non può, pertanto, escludersi la legittimazione e l’interesse del privato confinante ad impugnare le norme dello strumento urbanistico comunale ed i conseguenti atti applicativi nel momento in cui in base ad essi sia prevista a favore del vicino costruttore una consistente deroga alla rigida osservanza delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. n. 1444/1968 cit., nella specie attuata, come dedotto dagli appellati, tramite la demolizione di un edificio preesistente -una villetta- e la ricostruzione al suo posto di un fabbricato di sei piani posto a una distanza inferiore ai dieci metri prescritti; la deroga, infatti, viene ritenuta ammissibile unicamente nei casi di demolizione e ricostruzione in forma fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne), non potendosi ritenere sussistente in tal caso una nuova costruzione, ma solo il suo recupero, con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione straordinaria (cfr. Cass. civ., 25.08.1989, n. 3762).
Se è vero che l’applicazione dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967 e della disposizione del D.M. n. 1444 del 1968, secondo cui le costruzioni debbono osservare una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, sono subordinate all’inesistenza di strumenti urbanistici anteriori contenenti norme sulle distanze (cfr. Cass. civ., SS.UU., 22.11.1994, n. 9871), tuttavia gli strumenti urbanistici (e le relative revisioni) approvati successivamente all’entrata in vigore del citato decreto non possono contrastare con le direttive del decreto stesso (cfr. Cass. civ., II, 24.07.2001, n. 10062)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.07.2002 n. 3929 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2001

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Distanze.
La demolizione e ricostruzione di un edificio rientra nel concetto di ristrutturazione edilizia allorché ricorrono i seguenti presupposti: sostituzione di elementi strutturali quali le pareti perimetrali, ricostruzione nel medesimo sito, cubatura identica salvo gli scostamenti di modesto rilievo correlati alla c.d. "tolleranza di cantiere" (variazione nel limite del 3% rispetto alle precedenti dimensioni per cubatura altezze, distanze ecc.) (massima tratta da www.studiospallino.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.12.2001 n. 2400).

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Distanze.
La demolizione e ricostruzione di un edificio rientra nel concetto di ristrutturazione edilizia allorché ricorrono i seguenti presupposti: sostituzione di elementi strutturali quali le pareti perimetrali, ricostruzione nel medesimo sito, cubatura identica salvo gli scostamenti di modesto rilievo correlati alla c.d. "tolleranza di cantiere" (variazione nel limite del 3% rispetto alle precedenti dimensioni per cubatura altezze, distanze ecc.) (massima tratta da www.studiospallino.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 05.12.2001 n. 2203).

anno 2000

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Distanze.
Nell’ambito delle opere edilizie, va tenuta distinta la semplice ristrutturazione, che si verifica ove gli interventi abbiano interessato un edificio del quale sussistano, ed, all’esito degli stessi, rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, sicché le modificazioni siano solo interne, dalla ricostruzione, ravvisabile allorché dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, ed, in particolare, senza aumenti né della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell’edificio originario (massima tratta da www.studiospallino.it - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 26.10.2000 n. 14128).

EDILIZIA PRIVATA1 - Concessione - Distanze legali tra edifici - Ratio della norma.
2 - Concessione - Distanze legali tra edifici - Violazione del D.M. 1444/1968 - Annullamento in via di autotutela -Legittimità - Irrilevanza della destinazione dello spazio tra edifici e dell'unicità del fabbricato.

1 - La disciplina legale delle distanze è preordinata alla tutela di interessi generali sussumibili nell'esigenza di evitare la creazione di intercapedini tra fabbricati dannose dal punto di vista igienico ma anche alla tutela di privati diritti soggettivi da individuarsi nella pretesa per ciascun proprietario o possessore di un edificio di godere di sufficiente veduta e di luce.
2 - E' legittimo l'annullamento in via di autotutela della concessione edilizia rilasciata in violazione dell'art. 9 del D.M. 1444/1968 in quanto, ai fini dell'osservanza delle distanze legali, la realizzazione di una sopraelevazione (e più precisamente il piano rialzato di un edificio) costituisce una nuova costruzione (o nuovo edificio, i due termini devono considerarsi sinonimi) che va ad occupare nuovi spazi a fronte dei quali sorge l'indefettibile esigenza, affermata dal legislatore, di assicurare al proprietario frontista un "minimum" di distacco commisurato appunto nei 10 metri di cui all'art. 9 del D.M. 1444/1968.
A tal fine, non rileva né l'eventuale circostanza che trattasi di un unico edificio, né la funzione riservata dai proprietari agli spazi esistenti tra edifici vicini, ma solo la loro oggettiva idoneità a costruire intercapedini vietate dalla legge, cosicché la distanza tra costruzioni imposta ex lege deve essere osservata anche nell'ipotesi in cui lo spazio tra detti edifici abbia funzione di cortile, costituendo questo, se largo meno della distanza minima prescritta, una intercapedine vietata.
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1. - Sulla rilevanza pubblicistica degli standard imposti dal D.M. 1444/1968 con riguardo ai distacchi tra fabbricati e i confini, si veda Tar Toscana, sez. III, 02.12.1999 n. 676 in Rass. TAR 2000 pag. 773 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 19.05.2000 n. 922 - link a www.giustizia-amministrativa.it).