dossier DISTANZA DALLE PARETI
FINESTRATE |
settembre 2023 |
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EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
Le distanze tra edifici nella bozza di T.U. delle Costruzioni
(25.09.2023 - link a www.dirittopa.it).
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Prime riflessioni sull'articolo 7 della bozza del nuovo
Testo Unico delle Costruzioni
Sembrerebbe che i tempi siano maturi perché il Testo Unico dell'Edilizia sia
sostituito da un nuovo testo unico, denominato «delle Costruzioni».
Circola in rete, infatti, il testo del Tavolo Tecnico istituito presso il
Ministero delle infrastrutture con lo scopo di scrivere una nuova legge
quadro.
Tra le innovazioni più attese vi è quella relativa alla normativa delle
distanze tra le costruzioni, oggi affidata all'articolo 9 del decreto
interministeriale 02.04.1968, n. 1444, norma tecnica nata per definire i
contenuti degli strumenti di pianificazione urbanistica ma declinata dalla
giurisprudenza in termini di pervasità nei rapporti tra cittadini e tra
cittadini e amministrazioni che i suoi estensori non immaginavano né
potevano immaginare.
In questa sede cerchiamo di fornire un primo quadro d'insieme delle novità
della bozza del nuovo Testo Unico. (...continua). |
dicembre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: In
termini generali giova rimarcare che, secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, le convenzioni tra privati che mirano ad introdurre
deroghe alle disposizioni regolamentari (urbanistiche) in materia di
distanze sono invalide; e ciò in quanto le norme contenute nei regolamenti
comunali che prevedono distanze delle costruzioni dal confine rivestono
carattere assoluto ed inderogabile, atteso che non mirano soltanto ad
evitare intercapedini dannose o pericolose, ma anche a tutelare l'assetto
urbanistico di una determinata zona e la densità degli edifici.
Le norme sui distacchi minimi fra edifici, in particolare, hanno natura
ambivalente, essendo preordinate sia alla tutela di interessi dei
proprietari finitimi (compendiabili nella nozione di "maggiore fruibilità
dell'immobile") sia alla tutela dell'interesse pubblico ad un corretto e
"sano" sviluppo urbanistico della città, per cui il Comune, in sede di
rilascio del permesso di costruire, è tenuto a verificare il rispetto delle
norme sulle distanze minime fra edifici.
Le eventuali clausole di carattere derogatorio delle distante legali
incidono soltanto con riferimento al rispetto delle norme sulle distanze tra
le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute nel Codice
Civile (come quelle contenute per es. nell'art. 873 e 905 C.C.), poiché tali
norme sono derogabili per usucapione o mediante convenzione, la quale in
tali casi costituisce un vero e proprio diritto di servitù, in quanto arreca
una menomazione per l'immobile che avrebbe diritto alla distanza legale, in
quanto la predetta normativa del Codice Civile ha lo scopo di tutelare i
reciproci diritti soggettivi dei singoli proprietari e/o i rapporti
intersoggettivi di vicinato.
Invece le norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni
confinanti, contenute negli strumenti urbanistici e/o nei Regolamenti
Edilizi comunali, poiché trascendono l'interesse meramente privatistico, in
quanto hanno la funzione di tutelare l'interesse pubblico alla realizzazione
di un determinato assetto urbanistico prefigurato, non possono essere
derogate (le apposite convenzioni sono invalide anche nei rapporti interni
tra i proprietari confinanti) e la loro violazione comporta la facoltà del
vicino di chiedere la riduzione in pristino.
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Non hanno alcun pregio giuridico le deduzioni della resistente e del
controinteressato secondo cui il permesso a costruire rilasciato in favore
del ricorrente per la realizzazione del fabbricato ubicato sulla particella
di sua proprietà sarebbe illegittimo e, pertanto, andrebbe disapplicato
incidentalmente da questo Tribunale.
Al riguardo deve osservarsi, preliminarmente, che al giudice amministrativo
è precluso il potere di disapplicazione incidentale del provvedimento
amministrativo non impugnato perché ciò comporterebbe l’aggiramento del
tassativo termine decadenziale, potendo il giudice amministrativo
disapplicare soltanto prescrizioni aventi contenuto propriamente normativo,
dotate di generalità e di astrattezza, e non atti amministrativi concreti
seppur di portata generale.
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... per l'annullamento del permesso a costruire n. 10/2021 del 25.03.2021
acquisito al protocollo n. 2246/2021 e di ogni altro atto ad esso
presupposto e conseguente.
...
1.§- Con ricorso ritualmente notificato CI.Pa.Ma. impugna il permesso a
costruire in sanatoria n. 10/2021 in data 25.03.2021 rilasciato dal
resistente Comune di CERCHIO in favore del controinteressato MA.Ju. per il
posizionamento di un box coibentato (di dimensioni in pianta di circa
2,40x6,00 metri) sulla particella 2053 del foglio 5 del Catasto Terreni del
Comune di Cerchio, confinante con la particella 2054 del medesimo foglio di
proprietà del ricorrente, lamentando che detto box sia stato realizzato a
ridosso del muro di confine con la sua proprietà e, quindi, senza il
rispetto delle distanze legali.
...
5.§- L’assunto non persuade.
In termini generali giova rimarcare che, secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, le convenzioni tra privati che mirano ad introdurre
deroghe alle disposizioni regolamentari (urbanistiche) in materia di
distanze sono invalide; e ciò in quanto le norme contenute nei regolamenti
comunali che prevedono distanze delle costruzioni dal confine rivestono
carattere assoluto ed inderogabile, atteso che non mirano soltanto ad
evitare intercapedini dannose o pericolose, ma anche a tutelare l'assetto
urbanistico di una determinata zona e la densità degli edifici (ex
plurimis, TAR Sicilia Catania Sez. I, Sent., (ud. 26/03/2015)
09.04.2015, n. 1050; TAR Sicilia sez. II Palermo, 23/10/2014 n. 2540).
Le norme sui distacchi minimi fra edifici, in particolare, hanno natura
ambivalente, essendo preordinate sia alla tutela di interessi dei
proprietari finitimi (compendiabili nella nozione di "maggiore fruibilità
dell'immobile") sia alla tutela dell'interesse pubblico ad un corretto e
"sano" sviluppo urbanistico della città, per cui il Comune, in sede
di rilascio del permesso di costruire, è tenuto a verificare il rispetto
delle norme sulle distanze minime fra edifici (TAR Campania sez. II Napoli,
01/04/2011 n. 1899).
Le eventuali clausole di carattere derogatorio delle distante legali
incidono soltanto con riferimento al rispetto delle norme sulle distanze tra
le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute nel Codice
Civile (come quelle contenute per es. nell'art. 873 e 905 C.C.), poiché tali
norme sono derogabili per usucapione o mediante convenzione, la quale in
tali casi costituisce un vero e proprio diritto di servitù, in quanto arreca
una menomazione per l'immobile che avrebbe diritto alla distanza legale, in
quanto la predetta normativa del Codice Civile ha lo scopo di tutelare i
reciproci diritti soggettivi dei singoli proprietari e/o i rapporti
intersoggettivi di vicinato (TAR Basilicata-Potenza Sez. I, (ud. 05/07/2007)
04.09.2007, n. 515).
Invece le norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni
confinanti, contenute negli strumenti urbanistici e/o nei Regolamenti
Edilizi comunali, poiché trascendono l'interesse meramente privatistico, in
quanto hanno la funzione di tutelare l'interesse pubblico alla realizzazione
di un determinato assetto urbanistico prefigurato, non possono essere
derogate (le apposite convenzioni sono invalide anche nei rapporti interni
tra i proprietari confinanti) e la loro violazione comporta la facoltà del
vicino di chiedere la riduzione in pristino (ibidem, TAR Basilicata
Potenza Sez. I, (ud. 05/07/2007) 04.09.2007, n. 515).
6.§- Ebbene, applicate le superiori coordinate ermeneutiche al caso in
esame, rileva il Collegio che se è pur vero, da un lato, che la lett. n)
dell’art. 3 delle NTA del PRG consente di costruire sul confine di proprietà
quando vi è, come nella fattispecie, un accordo tra i proprietari confinanti
a mezzo di atto trascrivibile, è altrettanto indubitabile, dall’altro, che
il medesimo articolo subordina tale effetto ad una espressa previsione delle
norme del Piano Regolatore e, comunque, al “rispetto delle distanze tra
pareti finestrate”.
La distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti trova la
sua disciplina nella precedente lett. m) ove viene stabilita
inderogabilmente nella misura minima assoluta di 10 metri, come desumibile
chiaramente, sotto il profilo del drafting normativo, dall’uso della
locuzione avverbiale “in tutti i casi”.
Nella vicenda all’attenzione del Collegio, invece, la costruzione per la
quale il controinteressato ha richiesto ed ottenuto il permesso a costruire
in sanatoria è stata posta ad una distanza di 5 metri dalla costruzione
realizzata dal ricorrente, decisamente inferiore rispetto a quella indicata
dalla sopra richiamata lett. m) che non può costituire oggetto di deroga
pattizia ai sensi della lett. n).
7.§- Non hanno poi alcun pregio giuridico le deduzioni della resistente e
del controinteressato secondo cui il permesso a costruire n. 10 del
18.04.2011 rilasciato in favore del ricorrente per la realizzazione del
fabbricato ubicato sulla particella di sua proprietà sarebbe illegittimo e,
pertanto, andrebbe disapplicato incidentalmente da questo Tribunale.
Al riguardo deve osservarsi, preliminarmente, che al giudice amministrativo
è precluso il potere di disapplicazione incidentale del provvedimento
amministrativo non impugnato perché ciò comporterebbe l’aggiramento del
tassativo termine decadenziale, potendo il giudice amministrativo
disapplicare soltanto prescrizioni aventi contenuto propriamente normativo,
dotate di generalità e di astrattezza, e non atti amministrativi concreti
seppur di portata generale (in tali termini, TAR Abruzzo, L’Aquila, sentenza
03.11.2021, n. 494).
Ad ogni modo, la questione di cui innanzi appare esulare dal thema
decidendum che ha ad oggetto unicamente la legittimità del permesso a
costruire in sanatoria rilasciato dall’ente resistente al controinteressato
Ma.Ju. che, peraltro, non ha mai mosso alcuna contestazione rispetto al
permesso di costruire ottenuto a suo tempo dal ricorrente.
E’ davvero singolare inoltre che il Comune deduca solo oggi, ed in questa
sede, l’illegittimità del titolo abilitativo a costruire rilasciato dal
medesimo ente comunale al ricorrente e ne pretenda la disapplicazione
incidentale in totale spregio ai canoni fondamentali di buona
amministrazione e di tutela del legittimo affidamento, senza che mai abbia
attivato nel tempo alcuna iniziativa in autotutela tesa a rimuovere gli
effetti (a suo dire illegittimi, ma oramai) consolidatisi del predetto
titolo edilizio adottato ben 10 anni fa
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 06.12.2021 n. 543 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: Richiamando
i consolidati principi giurisprudenziali, laddove vi sia una modifica anche
solo dell’altezza dell’edificio sono ravvisabili gli estremi della nuova
costruzione, da considerare tale anche ai fini del computo delle distanze
rispetto agli edifici contigui.
Peraltro, secondo consolidata giurisprudenza la regola delle distanze legali
tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle
sopraelevazioni.
Infine la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere
rispettata anche in caso di interventi di recupero dei sottotetti a fini
abitativi.
Non è, dunque, pertinente la tesi difensiva del Comune appellante secondo
cui la asserita modesta modifica di altezza non impatterebbe sulla veduta
del vicino, mantenendosi la sopraelevazione ad una quota più bassa, atteso
che ciò che rileva, alla stregua dell’art. 9 D.M. 1444/1968, non è la
distanza della sopraelevazione dalla specifica veduta bensì la distanza
della stessa dalla parete finestrata.
Né è necessario accertare, come opinato dall’appellante, se l’edificio, come
sopraelevato, raggiunga la quota della finestra del vicino, in quanto ciò
che rileva è che, incontestata essendo la sopraelevazione, si è in presenza
di una nuova costruzione, cui consegue l’effetto obbligatorio del rispetto
delle distanze di dieci metri tra pareti finestrate e edifici antistanti:
non è fondata, dunque, la censura di omessa pronuncia sul punto.
In materia di distanze tra fabbricati, l'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, che
prescrive una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle
due pareti fronteggiantesi sia finestrata e indipendentemente dalla
circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio
preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa
rispetto all'altro.
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444,
essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area
confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad
almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota
inferiore a quella dalle finestre antistanti.
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Questo Consesso ha già avuto
modo di osservare che le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444
integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o
revisione degli strumenti urbanistici.
Invero è stato affermato dalla costante giurisprudenza che la disposizione
contenuta nell'art. 9 D.M. 1444/1968, che prescrive la distanza di dieci
metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile,
trattandosi di norma imperativa che predetermina in via generale ed astratta
le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti
con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del
diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova
costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta,
anche in tema di distanze, dal codice civile.
Ne discende che, in presenza di strumenti urbanistici contenenti
disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di cui all'art. 9
D.M. 02.04.1968 n. 1444, il giudice avrebbe comunque l'obbligo di applicare
la norma di rango superiore.
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L’appello è infondato.
1. Oggetto del titolo edilizio in contestazione è un intervento che prevede
il recupero abitativo del sottotetto, con realizzazione di un volume in
sopraelevazione.
Tale circostanza di fatto, come correttamente rilevato dal TAR, non è
contestata.
Non possono quindi che applicarsi le conseguenze che derivano dal richiamo
di consolidati principi giurisprudenziali secondo cui laddove vi sia una
modifica anche solo dell’altezza dell’edificio (come nel caso di specie)
sono ravvisabili gli estremi della nuova costruzione, da considerare tale
anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui (Cons.
Stato, Sez. IV, 12.02.2013, n. 844).
Peraltro, secondo consolidata giurisprudenza (si veda, tra tante, in tal
senso, Cass., Sez. II, 27.03.2001, n. 4413) la regola delle distanze legali
tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle
sopraelevazioni (Cons. Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759).
Infine la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere
rispettata anche in caso di interventi di recupero dei sottotetti a fini
abitativi (Cons. Stato, Sez. IV, 16.09.2020, n. 5466).
Non è, dunque, pertinente la tesi difensiva del Comune appellante secondo
cui la asserita modesta modifica di altezza non impatterebbe sulla veduta
del vicino, mantenendosi la sopraelevazione ad una quota più bassa, atteso
che ciò che rileva, alla stregua dell’art. 9 D.M. 1444/1968, non è la
distanza della sopraelevazione dalla specifica veduta bensì la distanza
della stessa dalla parete finestrata.
Né è necessario accertare, come opinato dall’appellante, se l’edificio, come
sopraelevato, raggiunga la quota della finestra del vicino, in quanto ciò
che rileva è che, incontestata essendo la sopraelevazione, si è in presenza
di una nuova costruzione, cui consegue l’effetto obbligatorio del rispetto
delle distanze di dieci metri tra pareti finestrate e edifici antistanti:
non è fondata, dunque, la censura di omessa pronuncia sul punto.
In materia di distanze tra fabbricati, l'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, che
prescrive una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle
due pareti fronteggiantesi sia finestrata e indipendentemente dalla
circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio
preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa
rispetto all'altro (Cass., Sez. II, 01.10.2019, n. 24471).
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444,
essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area
confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad
almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota
inferiore a quella dalle finestre antistanti (Cons. Stato, Sez. IV,
30.10.2017, n. 4992).
Le assorbenti considerazioni che precedono comportano la conferma
dell’impugnata sentenza.
2. Quanto all’impugnazione del capo della sentenza che ha regolamentato le
spese del giudizio di primo grado il Collegio ricorda che questo Consesso ha
già avuto modo di osservare che le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n.
1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o
revisione degli strumenti urbanistici.
Invero è stato affermato dalla costante giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV,
23.06.2017 n. 3093; id. 08.05.2017, n. 2086; id. 29.02.2016 n. 856; Cass.,
Sez. II, 14.11.2016, n. 23136) che la disposizione contenuta nell'art. 9
D.M. 1444/1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere
tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, trattandosi di norma
imperativa che predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento
dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei
proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è
invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze,
dal codice civile.
Ne discende che, in presenza di strumenti urbanistici contenenti
disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di cui all'art. 9
D.M. 02.04.1968 n. 1444, il giudice avrebbe comunque l'obbligo di applicare
la norma di rango superiore (così Cass., Sez. II, 27.03.2001, n. 4413; Cons.
Stato, Sez. IV, 12.06.2007, n. 3094).
Ne discende che la presenza di una previsione regolamentare in contrasto con
l'anzidetto limite minimo non è idonea ad elidere o limitare la
responsabilità dell’ente, neanche ai fini della valutazione della
soccombenza.
Conclusivamente l’appello va respinto, con integrale conferma della sentenza
impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 19.10.2021 n. 7029 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante, la locuzione “nuovi edifici”
per i quali trovano applicazione le distanze previste dall’art. 9, primo
comma, n. 2, del D.M. 1444 del 1968, deve intendersi riferita non solo agli
edifici costruiti per intero per la prima volta, ma anche alle parti o
sopraelevazioni degli stessi.
Tale può definirsi anche un parapetto fisso, poiché è idoneo a determinare
l’innalzamento del prospetto e della sagoma del fabbricato, e possiede i
caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione.
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Il ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 9, comma primo, n. 2), D.M. 1444/1968.
Il permesso di costruire autorizza la ricostruzione dell’edificio
alla distanza preesistente che era, tuttavia, di soli 6 metri. Poiché
l’intervento di ricostruzione in progetto stravolge completamente l’aspetto
originario dell’edificio demolito, determinandone un notevole ampliamento,
esso sarebbe da qualificare come intervento di nuova costruzione (e non di
ristrutturazione), soggetto, come tale, al rispetto delle distanze previste
dall’art. 9 D.M. 1444/1968.
L’orientamento richiamato dal ricorrente è stato superato e meglio
precisato dalla successiva giurisprudenza, la quale ha affermato
l’irrilevanza -ai fini della verifica del rispetto delle distanze minime
previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968- della formale qualificazione
dell’intervento come ristrutturazione o nuova costruzione e la necessità,
invece, di verificare se l’edificio ricostruito possa ritenersi, in tutto o
in parte, un “edificio nuovo”.
“Secondo questa giurisprudenza si ha ricostruzione, che segue le sorti
dell'immobile originario, quando ci si contenga nei limiti preesistenti di
altezza, volumetria, sagoma dell'edificio. Si ha un novum, una nuova
costruzione, soggetta alle distanze vigenti, per ciò che eccede.
La disposizione dell'art. 9, n. 2, del D.M. n. 1444/1968 riguarda infatti
"nuovi edifici", intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o
sopraelevazioni di essi) "costruiti per la prima volta" e non già edifici
preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso
prescrivere distanze diverse; invece, nel caso in cui il manufatto venga
ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell'area di
sedime, come pure consentito dall'art. 30, comma 1, lett. a), del D.L. n.
69/2013, convertito nella legge n. 98/2013, occorrerà comunque il rispetto
delle distanze prescritte, proprio perché esso, quanto alla sua collocazione
fisica, rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare,
indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o
nuova costruzione, le norme sulle distanze”.
Tanto premesso, occorre chiarire, ai fini che rilevano, che, riguardo
all’applicazione delle distanze legali nell’ipotesi di interventi di
demolizione e ricostruzione, la giurisprudenza sia del Consiglio di Stato che
della Corte di cassazione ritiene applicabile la disciplina sulle distanze
“per ciò che eccede” la mera ricostruzione.
Pertanto in caso di demolizione e ricostruzione di un precedente edificio,
in cui siano distinguibili le parti eccedenti quelle originarie, solo queste
sono soggette alla disciplina delle distanze, configurandosi come “nuove
costruzioni”.
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2
E’, altresì, fondato, in parte, il quarto motivo con cui sono dedotti
i vizi di violazione dell’art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 e di eccesso di
potere per difetto d’istruttoria.
Afferma il ricorrente che il permesso di costruire impugnato ha autorizzato
la sopraelevazione di 85 cm della parete perimetrale fronteggiante la sua
proprietà, mediante l’inserimento di un parapetto di 85 cm posto a distanza
inferiore di dieci metri. Ad avviso del ricorrente, sarebbe violato anche
l’art. 9 ultimo comma del citato D.M. nella parte in cui stabilisce che
“Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino
inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono
maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa”.
2.1 Il motivo è fondato limitatamente alla violazione dell’art. 9 primo
comma, n. 2), del D.M. 1444 del 1968.
Per giurisprudenza costante, la locuzione “nuovi edifici” per i quali
trovano applicazione le distanze previste dall’art. 9, primo comma, n. 2,
del D.M. 1444 del 1968, deve intendersi riferita non solo agli edifici
costruiti per intero per la prima volta, ma anche alle parti o
sopraelevazioni degli stessi (ex multis Consiglio di Stato sez. IV,
16/09/2020, n. 5466).
Tale può definirsi anche un parapetto fisso, poiché è idoneo a determinare
l’innalzamento del prospetto e della sagoma del fabbricato (cfr. Consiglio
di Stato, sez. VI, 20.08.2019, n. 5763), e possiede i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione (Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2013, n. 354, Consiglio di Stato sez. II, 18/05/2021, n. 3883).
Non rileva, infine, ai fini di cui in disamina, la definizione di altezza
dettata dall’art. 9, comma 1, punto 3, delle NTA del PI, atteso che la
medesima disposizione si applica solo per le finalità espressamente
stabilite dallo strumento urbanistico, come emerge dalla clausola di
salvezza delle altezze massime e delle distanze minime inderogabili tra
fabbricati previste dal D.M. 1444/1968 contenuta nell’ultimo periodo della
medesima disposizione (“Salvi i casi puntualmente disciplinati dal PI e dai PUA, resta fermo il rispetto delle altezze massime e delle distanze minime
inderogabili tra fabbricati previste dal D.M. 1444/1968.”).
...
7.
E’ infondato anche il quinto motivo del ricorso introduttivo con cui
il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 9, comma primo, n. 2), D.M.
1444/1968.
Il permesso di costruire autorizza la ricostruzione dell’edificio
alla distanza preesistente che era, tuttavia, di soli 6 metri. Poiché
l’intervento di ricostruzione in progetto stravolge completamente l’aspetto
originario dell’edificio demolito, determinandone un notevole ampliamento,
esso sarebbe da qualificare come intervento di nuova costruzione (e non di
ristrutturazione), soggetto, come tale, al rispetto delle distanze previste
dall’art. 9 D.M. 1444/1968.
7.1 L’orientamento richiamato dal ricorrente è stato superato e meglio
precisato dalla successiva giurisprudenza, la quale ha affermato
l’irrilevanza -ai fini della verifica del rispetto delle distanze minime
previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968- della formale qualificazione
dell’intervento come ristrutturazione o nuova costruzione e la necessità,
invece, di verificare se l’edificio ricostruito possa ritenersi, in tutto o
in parte, un “edificio nuovo”.
“Secondo questa giurisprudenza si ha ricostruzione, che segue le sorti
dell'immobile originario, quando ci si contenga nei limiti preesistenti di
altezza, volumetria, sagoma dell'edificio. Si ha un novum, una nuova
costruzione, soggetta alle distanze vigenti, per ciò che eccede (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, n. 4728/2017).
La disposizione dell'art. 9, n. 2, del D.M. n. 1444/1968 riguarda infatti
"nuovi edifici", intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o
sopraelevazioni di essi) "costruiti per la prima volta" e non già edifici
preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso
prescrivere distanze diverse; invece, nel caso in cui il manufatto venga
ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell'area di
sedime, come pure consentito dall'art. 30, comma 1, lett. a), del D.L. n.
69/2013, convertito nella legge n. 98/2013, occorrerà comunque il rispetto
delle distanze prescritte, proprio perché esso, quanto alla sua collocazione
fisica, rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare,
indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o
nuova costruzione, le norme sulle distanze (da ultimo Cons. Stato, sez. IV,
n. 5466 del 2020).” (Consiglio di Stato, sentenza n. 6282, del 16.10.2020).
Tanto premesso, occorre chiarire, ai fini che rilevano, che, riguardo
all’applicazione delle distanze legali nell’ipotesi di interventi di
demolizione e ricostruzione, la giurisprudenza sia del Consiglio di Stato che
della Corte di cassazione ritiene applicabile la disciplina sulle distanze
“per ciò che eccede” la mera ricostruzione (Cass. n. 9637 del 2006; Cass. n.
19287 del 2009).
Pertanto in caso di demolizione e ricostruzione di un precedente edificio,
in cui siano distinguibili le parti eccedenti quelle originarie, solo queste
sono soggette alla disciplina delle distanze, configurandosi come “nuove
costruzioni”.
Nel caso di specie, emerge dagli elaborati eseguiti dal verificatore, che
l’edificio ricostruito è posto su un’area di sedime coincidente in parte con
quella originaria, essendone distinguibile l’ampliamento in lunghezza sul
lato opposto a quello dove insiste l’edificio del ricorrente. La proiezione
“verticale” dell’edificio sul lato prospettante sulla proprietà del
ricorrente si pone alla distanza originaria (di sei metri) fino all’altezza
dell’edificio in demolizione, mentre la parte sopraelevata (piani quarto e
quinto) è posta alla distanza di m 10 dall’edificio del ricorrente. Emerge,
inoltre, dalla sovrapposizione grafica dei due edifici che l’incremento di
volumetria è stato in parte realizzato attraverso la sopraelevazione di due
piani (come si è detto posta a distanza di dieci metri rispetto all’edificio
del ricorrente) e, in parte, attraverso l’ampliamento dell’edificio sul lato
opposto a quello di proprietà del ricorrente.
Può, pertanto, ritenersi che la parte ricostruita sia avvenuta nel rispetto
dei preesistenti distacchi, mentre l’ampliamento è stato realizzato nel
rispetto delle distanze previste per le nuove costruzioni (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 18.10.2021 n. 1239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
settembre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: Calcolo
della distanza tra edifici con finestre e balconi. Distanze tra edifici:
i 10 metri partono dai balconi e non anche dalle sporgenze non significative
(22.09.2021 - link a
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
balconi devono sempre essere considerati ai fini del calcolo della distanza
tra edifici e tra questi ed il confine. Le sole parti delle quali può non
tenersi conto, in detto calcolo, sono quelle aggettanti, aventi una funzione
esclusivamente artistica ed ornamentale, quali fregi, sculture in aggetto e
simili.
In tema di distanze legali, il principio
della prevenzione ex art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il
regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le
costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o
soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in
quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il
corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica
disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di
costruire in aderenza.
----------------
La realizzazione di un balcone in aggetto a
distanza inferiore a quella legale da un edificio prospiciente non pone
soltanto una questione di veduta, ma anche di rispetto della distanza minima
tra gli edifici, posto che il balcone costituisce comunque parte
dell'edificio al quale accede.
In tal caso, ai fini del calcolo della predetta distanza legale fra gli
edifici, costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi
particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti,
anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché,
pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto
civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la
consistenza dei fabbricati. Solo le sporgenze esterne del fabbricato che
abbiano funzione meramente artistica ed ornamentale, come fregi, sculture in
aggetto e simili, non sono computabili ai fini del calcolo della distanza
legale tra gli edifici".
---------------
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione
dell'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, e la falsa applicazione
dell'art. 11 delle N.T.A. del P.G.R. del Comune di Campi
Bisenzio, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
perché la Corte di Appello avrebbe dovuto ravvisare un
contrasto tra la disciplina statale e quella prevista dal
regolamento locale e disapplicare la seconda.
La censura è fondata.
La Corte di Appello richiama la motivazione del Tribunale
(cfr. pag. 9 della sentenza impugnata), che aveva escluso la
rilevanza delle finestre esistenti nel muro della proprietà To.,
interessate dalla prospiciente nuova edificazione denunciata,
sul presupposto che dette aperture non concorressero al
raggiungimento del rapporto minimo di illuminazione tra
superficie pavimentata e superficie finestrata.
In sostanza, il
primo giudice aveva affermato che dal momento che la
proprietà To. aveva altre aperture, dalle quali prendeva
sufficiente luce, la violazione della normativa in tema di
distanze minime tra le pareti finestrate prospicienti non era
rilevante, poiché interessante solo aperture "secondarie".
Ad
avviso della Corte fiorentina, l'appellante To. non si sarebbe
adeguatamente confrontato con tale argomentazione della
sentenza di prima istanza, non contestando il fatto che le due
aperture interessate dall'edificazione di cui è causa fossero a
servizio di vani adibiti a servizi igienici, o comunque non
rilevanti ai fini dell'illuminazione della sala da pranzo della
proprietà To. Di conseguenza, il giudice di secondo grado ha
ritenuto di non poter entrare nel merito della decisione assunta
dal Tribunale.
Con tale motivazione, in realtà, la Corte toscana ha
totalmente omesso di considerare che il To. -come la stessa
sentenza impugnata dà atto: cfr. pag. 10- aveva contestato la
legittimità della costruzione realizzata a meno di dieci metri
dalla sua parete finestrata, "... citando copiosa giurisprudenza
del giudice ordinario e del giudice amministrativo ..." e quindi
aveva attinto il punto della decisione con il quale la sua
domanda era stata respinta.
La Corte distrettuale evidenzia che la censura formulata in
appello non attingeva la ratio decidendi della sentenza di prime
cure, fondata "... sulle specifiche considerazioni svolte dal
C.T.U. ing. Ri.Ma. alle pagine 51, 52 e 53 della relazione
di c.t.u. in base alla normativa regolamentare di riferimento".
Tale argomento, tuttavia, oltre ad essere di per sé erroneo,
poiché ispirato al modello processuale del cd. "appello
cassatorio", che non trova cittadinanza nel vigente sistema
processuale civile, sottovaluta il fatto che, oggettivamente, il
To. aveva attinto, con il primo motivo di appello, la statuizione
con la quale il Tribunale aveva respinto la sua domanda di
arretramento del fabbricato frontistante il suo fino al limite di
dieci metri previsto tra le pareti finestrate. Il giudice di appello,
di conseguenza, era tenuto ad esaminare il merito della
questione che l'appellante, con la censura di cui si discute,
aveva chiaramente devoluto alla sua cognizione.
Con il
secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione
dell'art. 11 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Campi
Bisenzio, nonché la falsa applicazione dell'art. 877 c.c., in
relazione all'art. 360, primo corna, n. 3, c.p.c., perché la Corte
fiorentina avrebbe dovuto ritenere non operante la norma del
codice civile, che autorizza la costruzione in aderenza, in
presenza di un regolamento locale che prevede il rispetto di una specifica
distanza tra edifici, e tra edificio e confine, senza
autorizzare espressamente la costruzione in aderenza.
La censura è fondata.
La Corte di Appello parte dal presupposto (cfr. pagg. 11 e
ss. della sentenza impugnata) che nel caso specifico la
normativa regolamentare locale, pur prevedendo distanze
maggiori di quelle indicate nel codice civile, richiamava
espressamente la normativa codicistica.
Pertanto, secondo la
Corte fiorentina, tra norma locale e norma del codice civile si
configurava un rapporto non già di sovrapposizione, ma di
integrazione, con la conseguenza che, anche in difetto di
esplicita norma regolamentare che autorizzasse l'edificazione in
aderenza, quest'ultima dovesse essere ritenuta comunque
consentita, proprio per effetto del rinvio operato alle norme del
codice civile.
Siddetta interpretazione non è coerente con il consolidato
insegnamento di questa Corte, secondo cui "In tema di
distanze legali, il principio della prevenzione ex art. 875 c.c.
non è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio si limiti a
fissare la distanza minima tra le costruzioni, mentre lo è
qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o soltanto) la
distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in
quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è
assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul
confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento
edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza"
(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8283 del 20/04/2005, Rv. 581792;
conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22896 del 30/10/2007, Rv.
600691; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8465 del 09/04/2010, Rv.
612355; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23693 del 06/11/2014, Rv.
633061; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11664 del 14/05/2018, Rv. 648398).
In
presenza di norme regolamentari locali che
prevedano il rispetto di una distanza minima, tra edifici o tra
questi ed il confine, dunque, la possibilità di realizzare una
costruzione in aderenza è subordinata alla presenza, nel
regolamento locale, di una norma che espressamente autorizzi
detta facoltà. Ove detta disposizione non sia contenuta nella
norma locale, non è consentito rinviare all'art. 873 c.c.
Dal che deriva il primo errore commesso dal giudice di
merito, il quale non ha tenuto conto del consolidato principio
per cui l'edificazione in aderenza non è consentita, in presenza
di norma regolamentare locale che, nel prescrivere specifiche
distanze tra edifici e tra questi ed i confini, non contempli
espressamente tale specifica facoltà.
Il criterio dell'integrazione opera, piuttosto, in assenza di
piano regolatore locale, tra l'art. 17 della Legge n. 765 del
1967 e la normativa codicistica, poiché in tale ipotesi vale il
principio secondo cui "In tema di distanze nelle costruzioni, il
principio codicistico della prevenzione si applica anche alle
situazioni nelle quali opera, in assenza di piano regolatore, la
disciplina dell'art. 17 della Legge 06.08.1967, n. 765, le cui
prescrizioni, regolando la distanza tra fabbricati, e non tra
fabbricato e confine, sono sostanzialmente integrative dell'art.
873 c.c., con la conseguenza che ad essa devono applicarsi le
regole ed i principi previsti dal codice civile per la disciplina
della distanza fra costruzioni su fondi finitimi, compreso quello
della prevenzione, non escluso dalla legge speciale" (Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 27522 del 19/12/2011, Rv. 620680).
Nel caso di specie è certo che il Comune di Campi Bisenzio,
nel cui territorio ricadono i luoghi di cui è causa, si sia dotato di
piano di regolatore, a corredo del quale sono state adottate
specifiche norme tecniche di attuazione, la cui violazione è -tra l'altro-
oggetto tanto delle domande proposte dal Tosi nel
giudizio di merito, che delle censure articolate dal medesimo
nella presente sede di legittimità.
La Corte territoriale, dunque,
ha ulteriormente errato nella parte in cui ha ritenuto non
conferenti i precedenti di questa Corte in materia di
prevenzione, poiché quest'ultima presuppone l'edificazione a
distanza inferiore da quella prevista dalla legge o dal
regolamento locale, e quindi e intimamente connessa al
problema della costruzione in aderenza.
Con il
terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione
dell'art. 873 c.c. e la falsa applicazione dell'art. 11 delle N.T.A.
del P.R.G. del Comune di Campi Bisenzio, in relazione all'art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché il giudice di seconde
cure avrebbe erroneamente deciso la domanda relativa
all'arretramento dei balconi realizzati nel nuovo edificio facendo
applicazione della disposizione di cui all'art. 905 c.c., in materia
di diritto di veduta, e non invece di quella di cui all'art. 873
c.c., in materia di distanze tra gli edifici.
La censura è fondata.
La Corte di Appello ha, da un lato, richiamato la
motivazione resa dal Tribunale, secondo la quale "... le
disposizioni regolamentari prevedono che ai fini del calcolo
della anzidetta distanza di mt. 5 non debbano essere
considerati gli aggetti della copertura e gli elementi decorativi
nonché le terrazze aggettanti" (cfr. pag. 14), e dall'altro lato
affermato che nel caso di specie non verrebbe in rilievo un
problema di distanze tra le costruzioni o dal confine, ma
piuttosto una questione di regolamentazione del diritto di
veduta, con conseguente applicazione non dell'art. 873 c.c.,
ma dell'art. 905 c.c.
Entrambe le affermazioni sono erronee.
In particolare, è errata la seconda -che logicamente
precede la prima- in quanto il balcone costituisce una parte
dell'edificio, ond'esso va considerato, ai fini del calcolo delle
distanze tra fabbricati, o tra essi ed il confine.
E lo è la
seconda, in base al consolidati principio -al quale il collegio
ritiene di dare continuità- secondo cui "In tema di distanze
legali fra edifici non sono computabili le sporgenze esterne del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale,
mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici
aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da
solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile
profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a
volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di
costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la
consistenza dei fabbricati.
Ne consegue che l'art. 14 delle
norme tecniche di attuazione del piano regolatore di Verona, là
dove si riferisce alla lunghezza dei "corpi prospicienti" per
rapportare le distanze all'altezza massima dei fabbricati,
essendo il "corpo di fabbrica" sinonimo di "costruzione" agli
effetti dell'art. 873 cod. civ., che non può essere derogato da
norme secondarie, se non per stabilire distanze maggiori dal
confine, deve essere interpretato nel senso che la lunghezza
delle facciate degli edifici dev'essere computata così da
escludere solo le sporgenze aventi funzione ornamentale e non
anche quelle che prolungando il fronte eccedono detta
funzione" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1.2964 del 31/05/2006,
Rv. 593831; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5963 del
25/03/2004, Rv. 571526; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1556 del
26/01/2005, Rv. 578604).
In termini ancor più chiari, si è affermato che "In tema di
distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo
calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume
edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9
del D.M. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata
dalla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, come
modificata dalla legge 06.08.1967 n. 765- stabilisce la
distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti
antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di
misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto
dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto,
sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone,
viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt.
10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (legge 06.08.1967 n. 765, che, con l'articolo 17, ha aggiunto alla
legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 l'articolo 41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al D.M.
02.04.1968,
che all'articolo 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di
mt. 10)" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17089 del 27/07/2006, Rv.
593396).
Da quanto precede deriva che i balconi devono sempre
essere considerati ai fini del calcolo della distanza tra edifici e
tra questi ed il confine. Le sole parti delle quali può non tenersi
conto, in detto calcolo, sono quelle aggettanti, aventi una
funzione esclusivamente artistica ed ornamentale, quali fregi,
sculture in aggetto e simili.
In definitiva, tutti e tre i motivi di ricorso vanno accolti,
con conseguente cassazione della decisione impugnata e rinvio
della causa alla Corte di Appello di Firenze, in differente
composizione, anche per le spese del presente giudizio di
legittimità.
Il giudice del rinvio avrà cura di uniformarsi ai seguenti principi di
diritto:
"1) Il motivo di appello con il quale venga attinta la
statuizione di rigetto della domanda di arretramento dell'edificio
prospiciente, per violazione della distanza minima tra le pareti finestrate
prevista dall'art. 9 del D. M. n. 1444 del 1968, va ritenuto
sufficientemente specifico, e dunque idoneo a devolvere la questione al
giudice di secondo grado, anche qualora la parte appellante, nel formulare
la censura e ribadire gli argomenti difensivi già proposti in prime cure,
non abbia specificamente confutato le argomentazioni contenute nella
decisione di prime cure a sostegno della decisione di rigetto, ogni qual
volta la doglianza consenta comunque al giudice di appello di identificare
la questione devoluta.
2) In tema di distanze legali, il principio
della prevenzione ex art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il
regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le
costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o
soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in
quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il
corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica
disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di
costruire in aderenza;
3) La realizzazione di un balcone in aggetto a
distanza inferiore a quella legale da un edificio prospiciente non pone
soltanto una questione di veduta, ma anche di rispetto della distanza minima
tra gli edifici, posto che il balcone costituisce comunque parte
dell'edificio al quale accede.
In tal caso, ai fini del calcolo della predetta distanza legale fra gli
edifici, costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi
particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti,
anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché,
pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto
civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la
consistenza dei fabbricati. Solo le sporgenze esterne del fabbricato che
abbiano funzione meramente artistica ed ornamentale, come fregi, sculture in
aggetto e simili, non sono computabili ai fini del calcolo della distanza
legale tra gli edifici" (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 17.09.2021 n.
25191). |
EDILIZIA PRIVATA:
Calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze
minime degli edifici – Nozione di “pareti finestrate”
– Art. 9, d.m. n. 1444/1968 – Fattispecie: aperture
finalizzate a consentire l’ingresso in un edificio.
In tema di calcolo dei balconi e degli
sporti ai fini delle distanze degli edifici, detti elementi
architettonici possono non essere compresi nel computo delle
distanze di cui all’art. 9, d.m. n. 1444/1968 qualora vi sia
una norma di piano che ciò autorizzi ed a condizione che si
tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile
dell’edificio.
La ratio stessa della previsione delle distanze minime fra
edifici, come noto, è quella di evitare la creazione di
intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità
pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa
escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da
fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione
urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus
abbiano le suddette caratteristiche.
Pertanto, ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per
“pareti finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti
munite di “vedute” ma, più in generale, tutte le pareti
munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno,
quali porte, balconi, finestre di ogni tipo.
Inoltre, l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 detta
disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in
tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i
fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra
costruzioni e non tra queste e le vedute.
Nella specie le aperture –erano addirittura finalizzate a
consentire l’ingresso nell’edificio– pertanto, non potevano
in alcun modo ritenersi quali mere “luci” le quali, secondo
un orientamento della giurisprudenza civile che dà invece
rilievo alla possibilità dell’affaccio, non sarebbero di per
sé idonee a far ritenere la parete come “finestrata” (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.09.2021 n. 33419 - link a www.ambientediritto.it). |
agosto 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: Distanze
tra edifici, ai centri storici non si applica il limite di 10 metri.
Consiglio di Stato: il limite di 10 metri previsto all’articolo 9 del DM
1444/1968 per le “nuove costruzioni” non è riferito ai centri storici ma
alle “altre zone”.
Il Consiglio di Stato, Sez. II, con
sentenza
09.08.2021 n. 5830, ribaltando la
decisione assunta in primo grado dal TAR, ha affermato che il limite di 10
metri previsto all’articolo 9 del DM 1444/1968 per le “nuove costruzioni”
non è riferito ai centri storici ma alle “altre zone”.
Tra le motivazioni poste alla base della decisione il Consiglio di Stato ha
ritenuto che:
- il DM 1444/1968 nel disciplinare le zone A (centri storici) ha prescritto in
questi casi che la distanza “non sia inferiore a quella intercorrente tra i
volumi edificati preesistenti”;
- il limite dei 10 metri si applica solo alle “nuove costruzioni” ed è
riferito alle “altre zone” ossia diverse da quelle delle zone A–centro
storico e non può essere data una interpretazione più ampia di quella che
può esserne tratta in via letterale.
Si ricorda, infatti, che l’art. 9 dm 1444/1968 prevede:
- zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali
ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a
quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza
tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale;
- nei nuovi edifici ricadenti in altre zone è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti;
- zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici
antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la
norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli
edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a mt 12.
Il caso sottoposto all’esame del collegio riguardava un intervento di
demolizione e ricostruzione con incremento volumetrico in applicazione del
cd. Piano casa regionale su un immobile ubicato in centro storico.
Per il TAR l’intervento doveva essere considerato come “nuova costruzione” e
per questo essere tenuto al rispetto della distanza minima di 10 metri
prevista dall’articolo 9 del DM 1444/1968.
Diversa la decisione del Consiglio di Stato che, oltre a non qualificare
l’intervento come nuova costruzione, ha sottolineato altresì come, l’assenza
di una disciplina specifica per le distanze da osservare nei centri storici
all’interno del DM 1444/1968, si giustifica per il fatto che, in tali
ambiti, non sono consentiti interventi se non sul preesistente.
Applicando il limite dei 10 metri anche nei centri storici, inoltre,
verrebbe preclusa in ampie zone dei territori comunali l’applicazione del
Piano Casa regionale, nella parte in cui prevede la possibilità di
realizzare ampliamenti fino al 35% (commento tratto da www.casaeclima.com).
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SENTENZA
11. L’appello è fondato.
11.1 Come sopra esposto, il Comune appellante articola le proprie deduzioni,
nell’ambito di un unico motivo di gravame, per avversare la statuizione
accoglitiva recata dall’impugnata sentenza e che si fonda sulla
valorizzazione della disciplina sulle distanze prevista dal d.m. n.
1444/1968. Ha ritenuto, infatti, il Tar che il permesso di costruire sarebbe
stato rilasciato in violazione dell’art. 9 di tale compendio normativo, in
quanto, trattandosi di un intervento edilizio qualificabile come “nuova
costruzione”, sarebbe suscettibile di applicazione analogica la
previsione sulle distanze nelle zone diverse dalla “A”, nella persistenza
della “ratio giustificatrice della disciplina che consiste nell’esigenza
di evitare intercapedini dannose per la salute”.
Deve rilevarsi, preliminarmente, che con il primo motivo del ricorso
originario, accolto dal giudice di prime cure, si ipotizzava la violazione
(anche) dell’art. 6 della legge sul Piano Casa (n. 49/2009), il quale
articolo impone “il rispetto della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici frontistanti” così implicitamente richiamando
la previsione di cui al citato d.m. tanto che nella stessa domanda di
permesso di costruire si attesta il rispetto di tale distanza di 10 metri
tra pareti finestrate.
Orbene, ritiene il Collegio che tale disciplina non sia suscettibile di
applicazione analogica.
Osserva, sul punto, l’appellante che la previsione del d.m. n. 1444/1968,
secondo cui la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve
essere inferiore a dieci metri, vale per i “Nuovi fabbricati” in “altre
zone”, cioè diverse dalla zona A (centro storico), nella quale si trova il
fabbricato oggetto della domanda edificatoria, posto che in quest’ultima,
dove vige il generale divieto di costruzioni “ex novo”, la norma si limita a
prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra
volumi edificati preesistenti.
La deduzione sollevata dall’appellante è meritevole di accoglimento, in
quanto effettivamente il d.m., dopo aver disciplinato le “Zone A”, introduce
la “distanza minima assoluta di m. 10” con esclusivo riferimento alle “altre
zone”, di guisa che non è suscettibile di estensione analogica una norma che
introduce una limitazione o un divieto quale quella in commento. Né può
dirsi che la disciplina ordinamentale contempla l’esclusione dell’edificabilità
di nuove costruzioni in quanto la legge regionale sul Piano Casa non esclude
la sua applicazione nelle zone A e, ad opinare in senso conforme
all’orientamento del Tar, tale modulo abilitativo non sarebbe
suscettibile di applicazione nel centro storico stante l’alta densità
edilizia che solitamente connota tali aree. La mancata previsione della
distanza minima in zona A in seno al citato d.m. non costituisce, quindi,
frutto di una dimenticanza del redattore della norma, così da costituire un
vuoto normativo colmabile in sede interpretativa, quanto espressione di una
sua precisa opzione connessa al fatto che in zona centro storico
tendenzialmente non sono consentiti se non interventi sul preesistente.
L’avvento del Piano Casa regionale, con la prevista possibilità di
realizzare ampliamenti entro il limite del 35 %, non giustifica il ricorso
ad una interpretazione analogica che avrebbe l’effetto di precludere, di
fatto, l’applicazione di tale disciplina di favore in ampie zone dei
territori comunali.
E’ peraltro meritevole di favorevole apprezzamento quanto argomentato
dall’appellante a sostegno delle proprie deduzioni facendo leva sulla
formulazione della stessa norma di cui all’art. 6 della l.r. n. 49/2009,
nella versione ratione temporis vigente fino alla riforma introdotta dalla
l.r. 01.03.2011, n. 4, alla cui stregua il titolo edilizio era stato
rilasciato, laddove prevedeva che “la ricostruzione deve avvenire in sito,
anche su diverso sedime, e può essere assentita in deroga alle previsioni
urbanistico-edilizie dello strumento urbanistico comunale, fatto salvo il
rispetto delle distanze dai fabbricati ivi previste” (cfr. comma 2).
Il
rinvio operato dalla norma alla disciplina urbanistica locale impone il
riferimento alle NTA, il cui art. AS8) si limita a prevedere, per la
Sottozona AS (“Disciplina degli interventi di costruzione di nuovi edifici e
relativi parcheggi pertinenziali”), “il corretto inserimento architettonico
dell’edificio nell’intorno” così alludendo alla necessità di rispettare le
(sole) distanze preesistenti invece che quelle previste per le edificazioni
ex novo.
Peraltro la classificazione dell’intervento quale costruzione ex novo non
può derivare dalla semplice circostanza che il progetto di demolizione e
ricostruzione del fabbricato preveda la realizzazione di ampliamenti della
volumetria preesistente. Se è vero che possono essere iscritti nell’ampia
nozione di nuova costruzione anche gli interventi di ristrutturazione è pur
vero che ciò è possibile, come ha rammentato la Sezione, soltanto “ove in
ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione,
possa parlarsi di una modifica radicale dell'immobile, rendendo l'opera
realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente”
(cfr. sentenza, 06.04.2020, n. 2304).
La ristrutturazione edilizia, più precisamente, sussiste “solo quando viene
modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche
fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente
trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento
volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato), ma
anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della
struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli
originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento
rientra nella nozione di nuova costruzione” (Cons. Stato, sez. II,
13.01.2021, n. 423).
Ad ogni modo, dalla documentazione progettuale dell’intervento (che prevede
la demolizione e ricostruzione di un edificio destinato a civile abitazione
e la costruzione di una nuova autorimessa) ed in particolare dalla relazione
tecnica allegata alla domanda di permesso di costruire, avanzata ai sensi
dell’art. 6 della l.r. n. 49/2009, è dato rilevare che la ricostruzione
dell’immobile da demolire, interessato da una situazione di dissesto statico
come descritto in dettaglio nella perizia tecnica in atti, con un
ampliamento volumetrico (di poco) inferiore al 35%,“avverrà
prevalentemente in altezza e su sedime lievemente modificato […] nel
rispetto delle distanze dai fabbricati” (cfr. pagina 3 della relazione
tecnica citata) precisandosi, nella parte rubricata “Confini e distanze”,
che “l’area di progetto, appartenente alla zona AS del PUC vigente, confina
a nord con la Salita Cavallo, ad est con edifici non finestrati e situati in
zona AS, a sud ed a ovest con zone BB con le quali si sono rispettate le
distanze minime di 10 metri dalle superfici finestrate degli edifici
prospicienti” (cfr. pagina 6 della medesima relazione). L’affermazione di
controparte, secondo cui il nuovo edificio “non conserva l’originario
allineamento”, non trova preciso riscontro e pertanto non è dato inferire
dalla documentazione di causa alcuna violazione della distanza minima di mt.
10 dalle pareti finestrate.
Ad ogni modo, in disparte la non immediatamente evidenziabile natura
dell’intervento di nuova costruzione, che invece viene apoditticamente
affermata dal Tar, è da rilevare, come sopra rilevato, la mancanza di una
previsione normativa che stabilisca, per le zone A, la distanza minima di 10
metri tra pareti finestrate, la cui violazione non può quindi essere
fondatamente contestata nel caso in esame.
Conclusivamente sul punto, in disparte la non condivisione da parte del
Collegio delle considerazioni rese dal Tar che finiscono per
ridimensionare la rilevanza provvedimentale del silenzio-assenso, va quindi
accolto l’appello proposto dal Comune di Genova ove si deduce
l’insussistente violazione del d.m. n. 1444/1968 non contemplando la
previsione sulla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate, peraltro
non evincibile dagli atti di causa, che pertanto il Tar ha ritenuto
erroneamente violata
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza
09.08.2021 n. 5830 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
In merito al rispetto della prescrizione sulle distanze si rileva che:
- l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di dieci
metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella
fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto,
trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è derogabile;
- tale disposizione opera anche in presenza di norme contrastanti incluse
negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente
inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima (l’art. 136 del d.P.R.
n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9,
della l. n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del
1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate di
edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare);
- la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va
calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti
che si fronteggiano: tale calcolo si applica a tutte le pareti finestrate e
non soltanto a quella principale, indipendentemente dalla circostanza che
una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente
- è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete
contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a
distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è
dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra,
indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla
medesima o a diversa altezza rispetto all’altra;
- ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti finestrate” devono
intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute” ma, più in generale,
tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno,
quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, di veduta o di luce;
- non può essere utilmente presa in considerazione la circostanza, dedotta
dall’appellato, che il fabbricato dei signori -OMISSIS- sia stato edificato
nella vigenza del precedente piano regolatore del 1962, che indicava il
distacco minimo fra le costruzioni in metri sei: non solo in ragione della
prevalenza del disposto di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 ma anche
in quanto l’asserita violazione della disposizione sulle distanze fra
costruzioni si è consumata con l’edificazione del fabbricato del signor
-OMISSIS-, quindi nella vigenza della successiva disciplina urbanistica
comunale.
---------------
36. In ragione di quanto sopra deciso, sono stati quindi respinti nel merito
tutti i motivi di appello ritualmente proposti, salve uno: rimane da
scrutinare la censura della violazione della distanza fra la costruzione di
proprietà del signor -OMISSIS- e la costruzione di proprietà dei signor
-OMISSIS- (dedotta in primo grado con motivi aggiunti e riproposta in
appello con il settimo motivo).
37. In relazione a detta violazione (che è onere di questo Giudice
accertare, potendosi basare e potendo valutare autonomamente le risultanze
di accertamenti dall’amministrazione o nell’ambito di procedimenti penali,
peraltro non conclusi con sentenza di condanna), il verificatore ha
affermato, dopo avere svolto le indagini peritali, che “il fabbricato di
proprietà -OMISSIS- rispetta la distanza minima di cinque metri dal confine
con la proprietà -OMISSIS- ma non rispetta la distanza minima di dieci metri
tra i fronti dei fabbricati, che, in questo caso, sono entrambi finestrati;
la distanza tra i fabbricati varia da circa 8,45 m a circa 10,00 m”.
In merito al rispetto della prescrizione sulle distanze si rileva che:
- l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di dieci
metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella
fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto,
trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è derogabile;
- tale disposizione opera anche in presenza di norme contrastanti incluse
negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente
inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima (l’art. 136 del d.P.R.
n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9,
della l. n. 1150 del 1942, per cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del
1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate di
edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare);
- la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va
calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti
che si fronteggiano: tale calcolo si applica a tutte le pareti finestrate e
non soltanto a quella principale, indipendentemente dalla circostanza che
una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente
- è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete
contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a
distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è
dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra,
indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla
medesima o a diversa altezza rispetto all’altra;
- ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti finestrate” devono
intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute” ma, più in generale,
tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno,
quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, di veduta o di luce (Cons. St.
sez. V, 11.09.2019 n. 6136 su tutti i punti sopra richiamati);
- non può essere utilmente presa in considerazione la circostanza, dedotta
dall’appellato, che il fabbricato dei signori -OMISSIS- sia stato edificato
nella vigenza del precedente piano regolatore del 1962, che indicava il
distacco minimo fra le costruzioni in metri sei: non solo in ragione della
prevalenza del disposto di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 ma anche
in quanto l’asserita violazione della disposizione sulle distanze fra
costruzioni si è consumata con l’edificazione del fabbricato del signor
-OMISSIS-, quindi nella vigenza della successiva disciplina urbanistica
comunale.
Ne deriva che si configurano le premesse per ritenere violata la distanza di
dieci metri prescritta dall’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 dell’edificio
del signor -OMISSIS- rispetto alla costruzione dei suoi danti causa, i
signori -OMISSIS-
(CGARS,
sentenza non definitiva 27.07.2021 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
legali, pareti finestrate e balconi.
Devono intendersi ‘pareti finestrate’ tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso l’esterno quali porte, balconi, finestre
di ogni tipo, che assicurano la possibilità di esercitare la veduta. Di
conseguenza anche i balconi contribuiscono a definire ‘finestrata’ una
parete, poiché assicurano la possibilità di esercitare la veduta ed è
necessario, pertanto, tenerne conto nel calcolo delle distanze tra edifici
confinanti (Corte d'Appello di Firenze,
Sez. III, sentenza 06.07.2021 n. 1381 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
giugno 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
La distanza di dieci metri, sussistente tra
edifici antistanti, si riferisce a tutte le pareti finestrate,
indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti
fronteggiantesi sia finestrata e sia quella del nuovo edificio o
dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione.
Inoltre, la
distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve
essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle
sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate, non soltanto
a quella principale.
---------------
Quanto al merito, con il presente gravame il ricorrente, proprietario di un
immobile sito in Santa Marinella, località Santa Severa via ... n. 32
confinante con quello di proprietà della controinteressata, situato in via
... n. 10, ha lamentato l’illegittimità del permesso di costruire
rilasciato dall’Amministrazione Comunale alla signora Al.Bi. in
data 23.02.2004, in base al quale la controinteressata avrebbe costruito “un
nuovo corpo di fabbrica attuato in sopraelevazione rispetto alla precedente
costruzione, distante m. 2,39 dall’interasse del muro di confine con il
(suo) fondo… e m. 8,50 dalla parete ovest (finestrata) della (sua)
abitazione”.
Parte ricorrente ha evidenziato che i fondi de quibus ricadevano secondo il
PRG del Comune di Santa Marinella all’interno della sottozona C2, rispetto
alla quale l’art. 3 delle NTA al PRG stabiliva per le nuove costruzioni e
per le trasformazioni degli edifici esistenti che “i distacchi dai confini
(dovessero)…. essere pari almeno a m. 6” e che la normativa nazionale
prevedeva, in ogni caso, l’obbligo di rispettare la distanza minima di m. 10
dalle pareti finestrate (DM n. 1444/1968).
Tali norme, stabilite per le nuove costruzioni, dovevano ritenersi
applicabili anche alle sopraelevazioni come quella posta in essere dalla
controinteressata, cosicché il Comune di Santa Marinella non avrebbe potuto
validamente rilasciare il permesso di costruire impugnato, adottato,
appunto, secondo il ricorrente, in violazione della normativa in tema di
distanze.
Tali censure sono fondate e meritevoli di accoglimento.
Deve essere, in primo luogo, ribadito, in continuità all'indirizzo
giurisprudenziale consolidato, che una controversia come quella in
questione, derivante dall'impugnazione di un permesso di costruire da parte
del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali, costituisce una
disputa non già tra privati, ma tra privato e p.a., nella quale la posizione
del primo -in correlazione all'atto autoritativo abilitativo lesivo- si
atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della
giurisdizione al giudice amministrativo (cfr. Cass. civ., sez. un., 10.06.2004, nr. 11023; Cons. Stato, sez. IV,
06.07.2009, nr. 4300; Id.,
sez. V, 28.06.2004, nr. 4759; Id., sez. V, 13.01.2004, nr. 46).
Deve, inoltre, osservarsi, anche in questo caso in piena conformità
all’indirizzo prevalente della giurisprudenza, che “una sopraelevazione deve
essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza
eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle
costruzioni esistenti sul fondo confinante. Una sopraelevazione, comportando
sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro, non può
qualificarsi come risanamento conservativo o ricostruzione dei volumi
edificabili preesistenti, i quali hanno solo lo scopo di conservarne i
precedenti valori” (Cassazione civile, sez. II, 12/02/2021, n. 3684).
Nell’ipotesi in esame, dai documenti in atti, emerge senza ombra di dubbio
che le opere in questione abbiano comportato un aumento di volumetrie
nell’edificio della controinteressata, essendosi provveduto alla costruzione
di nuovi ambienti (soffitta) al di sopra del piano originario, con
incremento dell’altezza del fabbricato nella parte antistante la proprietà
del ricorrente ed alla realizzazione di una nuova copertura a tetto ad
un’altezza superiore a quella originaria.
Sulla natura di nuova costruzione dei lavori posti in essere e sulla
necessità del rispetto delle distanze non possono, poi, incidere in alcun
modo le argomentazioni svolte dalla controinteressata circa il carattere di
“volume tecnico” dell’opera realizzata.
La nozione di volume tecnico corrisponde, infatti, a un'opera priva di
qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo
a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una
consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa; i
volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a
condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile
e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento
edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale
abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere
computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai
fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all'altezza (cfr.
Consiglio di Stato, sez. II, 25/10/2019, n. 7289).
Dalla qualificazione in termini di costruzione dei lavori eseguiti dalla
controinteressata discende, come anticipato l’assoggettabilità delle opere
alla normativa in materia di distanze prescritte dal PRG e dalle
disposizioni normative.
Il nuovo corpo di fabbrica realizzato risulta edificato in violazione delle
distanze sia sotto il profilo del mancato rispetto della distanza di metri 3
dal confine prevista dalle NTA al PRG sia sotto quello del contrasto con la
distanza minima di 10 metri lineari tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti imposta dall’art. 9 del DM 1444/1968, disciplina,
peraltro, espressamente richiamata tra le “norme generali” dalle norme
tecniche del PRG .
In relazione a tale parametro può precisarsi, come affermato dalla
giurisprudenza prevalente, che “la distanza di dieci metri, sussistente tra
edifici antistanti, si riferisce a tutte le pareti finestrate,
indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti
fronteggiantesi sia finestrata e sia quella del nuovo edificio o
dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione; inoltre, la
distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve
essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle
sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate, non soltanto
a quella principale” (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 10/05/2019, n.
2519).
Da qui l’illegittimità del permesso di costruire rilasciato dal Comune di
violazione, come anticipato, della disciplina urbanistica ed edilizia,
civilistica e amministrativa sulle distanze
(TAR Lazio-Roma, Sez. II stralcio,
sentenza 14.06.2021 n. 7136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nozione
di parete finestrata ai fini del rispetto
della distanza tra edifici.
Avendo la
controinteressata progettato una costruzione
in aderenza, va applicato il disposto di cui
all’art. 904 cod. civ., che ammette la
possibilità per il confinante di chiudere le
luci in un muro se si costruisce in aderenza
allo stesso o se ne acquista la comunione.
A conferma di tale conclusione, può essere
richiamata la consolidata giurisprudenza
della Cassazione, secondo la quale la tutela
(possessoria) delle aperture lucifere è
consentita salvo il caso in cui «il vicino
voglia costruire in aderenza, oppure
acquistare la comunione del muro e quindi
costruire in aderenza. In questo caso la
tutela della luce, intesa come
estrinsecazione di una facoltà compresa nel
diritto di proprietà, viene meno sia in sede
petitoria, sia, posto che dette luci non
possono fruire in sede possessoria di una
tutela maggiore di quella che loro compete
in sede petitoria, nella predetta sede
possessoria. Né può, quindi, essere concessa
la tutela possessoria nel caso in cui il
vicino le chiuda nei modi consentiti
dall'art. 904 c.c.».
In coerenza con il riferito indirizzo, anche
la giurisprudenza amministrativa ha
sottolineato come, «a norma dell’art. 904
del codice civile, “la presenza di luci in
un muro non impedisce al vicino di
acquistare la comunione del muro medesimo né
di costruire in aderenza”, ed introduce la
possibilità, una volta acquistata la detta
comunione, chiudere le luci solo nel caso di
costruzione in aderenza. Dal punto di vista
delle possibilità edificatorie, quindi, la
realizzazione in aderenza è ammessa, alle
condizioni sopra viste, sia se il muro sia
del tutto privo di aperture sia anche se
esso contenga delle luci, mentre non è
possibile nel caso dell’esistenza di vedute.
Da questo peculiare angolo di osservazioni,
la presenza di luci non è ostativa alla
costruzione e quindi il muro, sia esso del
tutto omogeneo sia anche se presenti delle
aperture non costituenti vedute, è trattato
in maniera normativamente identica».
Pertanto, la chiusura (di due) delle
finestre-luci poste al piano terra risulta
del tutto regolare e non contestabile.
---------------
La giurisprudenza ha rilevato che la
realizzazione di balconi al confine della
proprietà, in violazione dell’art. 905 cod.
civ. (“Distanza per l’apertura di vedute
dirette e balconi”), può essere
neutralizzata, senza il necessario ricorso
alla sanzione demolitoria, «anche attraverso
la predisposizione di idonei accorgimenti
che impediscano di esercitare la veduta sul
fondo altrui, come l’arretramento del
parapetto o l’apposizione di idonei pannelli
che rendano impossibile il “prospicere” e
l’“inspicere in alienum”».
Ne deriva che l’impossibilità di un affaccio
diretto sul fondo del vicino qualifica come
luce e non come veduta l’apertura ottenuta
tramite l’abbassamento del muro posto sul
terrazzo dell’immobile di proprietà delle
parti ricorrenti.
---------------
La presenza di una luce sull’immobile delle
parti ricorrenti non consente di applicare
alla fattispecie de qua le prescrizioni di
cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968,
che impongono una distanza minima
inderogabile di dieci metri tra pareti
finestrate.
Difatti, secondo l’orientamento della
Sezione «“l’art. 9 del D. M. n. 1444 del
1968, in materia di distanze tra edifici, fa
espresso ed esclusivo riferimento alle
pareti finestrate, per tali dovendosi
intendere unicamente le pareti munite di
finestre qualificabili come vedute, senza
ricomprendere quelle sulle quali si aprono
semplici luci”. L’operatività della
previsione è, quindi, condizionata dalla
natura delle aperture …».
L’assenza di una parete finestrata
nell’immobile di proprietà delle odierne
ricorrenti rende inapplicabile, in via
diretta, la prescrizione di cui al predetto
art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968.
---------------
A questo punto diviene irrilevante stabilire
se le pareti dell’erigendo edificio di
proprietà della controinteressata siano
finestrate e quindi siano assoggettate al
richiamato divieto; nessun interesse ad
agire sussiste in capo alle ricorrenti nel
far valere una prescrizione posta a garanzia
della controparte, quale unico soggetto
leso, in ipotesi, dal mancato rispetto della
distanza di dieci metri dalle pareti
finestrate (poste sul proprio edificio), in
correlazione alle finalità di tutela della
salubrità dei luoghi.
In tal senso, il Collegio condivide
l’orientamento secondo cui il concetto di
“stabile collegamento” non è sufficiente a
radicare la legittimazione a ricorrere,
quando –per il tipo di violazione edilizia
denunciata e per le condizioni di contesto
territoriale in cui si trovano gli immobili–
la vicinitas non rappresenti un indice
inequivocabile del pregiudizio subito dal
soggetto che propone l’azione di
annullamento del titolo edilizio, con la
conseguenza che, se si tratta della distanza
sussistente tra edifici, non è sufficiente
il mero rapporto di prossimità tra chi
agisce in giudizio e l’opera oggetto del
provvedimento amministrativo contestato,
occorrendo piuttosto dare plausibile
riscontro dei danni, o delle potenziali
lesioni, ricollegabili all’avversata
struttura, ovvero dell’incidenza negativa
sulla propria sfera giuridica, per non
elevare un astratto interesse alla legalità
a criterio di legittimazione, alla stregua
di un’azione popolare.
---------------
Con ricorso notificato in data 13.09.2020 e
depositato il 30 settembre successivo, i
sigg.ri Eg. ed El.Ma.Gr.To. hanno impugnato
il permesso di costruire n. 10/2020
rilasciato il 25.05.2020 dalla Città di
Cesano Maderno in favore della società
Sa.Ma. S.r.l., con sede in Lissone (MB), Via
... n. 5, e richiesto per la “demolizione
di esposizione e deposito commerciale e
realizzazione di edificio residenziale
plurifamiliare”.
I ricorrenti, in qualità di comproprietari
per una parte e di proprietari esclusivi dei
restanti vani di un compendio immobiliare
residenziale (in cui è collocato anche un
laboratorio dismesso), situato in Cesano
Maderno (MB), Via ... n. 4 (foglio 23,
mappale 110, subalterni nn. 1, 2 e 701),
hanno appreso che il proprietario del
terreno confinante a sud, successivamente
ceduto alla società controinteressata
(foglio 23, mappali nn. 111, 114, 334 e
662), ha inoltrato al Comune di Cesano
Maderno una richiesta di permesso di
costruire al fine di realizzare un
fabbricato residenziale in sostituzione del
preesistente capannone destinato a deposito
e ad attività commerciale.
Una prima richiesta di permesso di
costruire, avanzata dal proprietario
confinante nel mese di aprile 2019, è stata
respinta sulla base di alcuni aspetti
ostativi, e in particolare in ragione del
mancato rispetto delle distanze tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti;
tuttavia, in seguito alla parziale modifica
del progetto originario, il Comune ha,
infine, rilasciato a Sa.Ma. S.r.l. il
permesso di costruire in data 25.05.2020.
Nel predetto procedimento, culminato con il
rilascio del titolo edilizio in favore della
controinteressata, è intervenuta anche la
ricorrente, Avv. Ma.Gr.To., che, sul
presupposto di una inesatta e incompleta
descrizione dello stato dei luoghi, ha
segnalato
(i) la violazione della distanza minima di 10 metri tra gli edifici
dei ricorrenti, dotati di pareti finestrate,
e quello nuovo, anch’esso dotato di finestre
e
(ii) la violazione delle disposizioni (artt. 21 e 25) delle N.T.A.
del Piano delle Regole che impongono la
necessità di garantire una fascia di
salvaguardia ambientale di almeno 10 metri,
caratterizzata dalla piantumazione di alberi
ed arbusti, allorquando vi sia contiguità
tra un lotto a destinazione produttiva (come
quello del ricorrente, sig. To.) e un lotto
a destinazione residenziale; la
realizzazione dell’intervento costruttivo, a
giudizio dei ricorrenti, avrebbe determinato
un peggioramento delle condizioni generali
dei luoghi, nonché un sicuro e consistente
deprezzamento della loro proprietà
immobiliare.
...
2. Con la prima doglianza si assume
la violazione delle distanze tra costruzioni
stabilita dall’art. 907 cod. civ. e dal D.M.
n. 1444 del 1968, in quanto gli edifici
delle parti ricorrenti, dotati di pareti
finestrate e vedute, e quello in fase di
costruzione, provvisto anch’esso di vedute,
sarebbero posti ad una distanza inferiore ai
10 m: difatti il piano terra ed il primo
piano dell’erigendo edificio sarebbero posti
proprio sul confine ed in aderenza
all’immobile dei ricorrenti, con il primo
piano che dovrebbe presentare anche una
veduta diretta per tutta la larghezza, pari
ad oltre 13 m, prospiciente alle suddette
proprietà ed in aderenza, mentre il secondo
piano dovrebbe disporre di una veduta
diretta per l’intera lunghezza, pari ad
oltre 15 m, posta a soli 5 m dal confine.
2.1. La doglianza è in parte infondata e in
parte inammissibile.
In primo luogo, deve essere chiarita la
natura delle aperture poste sull’edificio
delle parti ricorrenti, ovvero se si tratta
di vedute o semplici luci.
Nello specifico, su tale edificio insistono,
al primo piano, una apertura ricavata con
l’abbassamento di un muro posto sul terrazzo
confinante, che in teoria consentirebbe una
veduta diretta ed obliqua larga circa 4 m
sull’immobile in fase di realizzazione da
parte della controinteressata (all. 20 al
ricorso), e, al piano terra, quattro
finestre-luci aperte sul muro comune che
conferiscono aria e luce, poste a 2,75 m da
terra e alte 1,20 m e larghe 1,70 m (all. 1
di Santa Margherita e Tavole all. 10 al
ricorso).
2.2. Quanto alle quattro finestre-luci che
si trovano al piano terra dell’edificio
delle parti ricorrenti –si ripete, poste a
2,75 m da terra e alte 1,20 m e larghe 1,70
m (cfr. all. 1 di Sa.Ma.; all. 38, 39 e 57
al ricorso)– le stesse sono da qualificare
come luci irregolari, in quanto sono poste
su un muro realizzato al confine con la
proprietà della controinteressata e
risultano idonee a garantire soltanto il
passaggio della luce (e forse dell’aria), ma
non di consentire la veduta nel fondo del
vicino, avuto riguardo alle loro
caratteristiche costruttive (altezza da
terra di 2,75 m: cfr. artt. 900 e 901 cod.
civ.).
Avendo la controinteressata progettato una
costruzione in aderenza, va applicato il
disposto di cui all’art. 904 cod. civ., che
ammette la possibilità per il confinante di
chiudere le luci in un muro se si costruisce
in aderenza allo stesso o se ne acquista la
comunione.
A conferma di tale conclusione, può essere
richiamata la consolidata giurisprudenza
della Cassazione, secondo la quale la tutela
(possessoria) delle aperture lucifere è
consentita salvo il caso in cui «il
vicino voglia costruire in aderenza, oppure
acquistare la comunione del muro e quindi
costruire in aderenza. In questo caso la
tutela della luce, intesa come
estrinsecazione di una facoltà compresa nel
diritto di proprietà, viene meno sia in sede
petitoria, sia, posto che dette luci non
possono fruire in sede possessoria di una
tutela maggiore di quella che loro compete
in sede petitoria, nella predetta sede
possessoria. Né può, quindi, essere concessa
la tutela possessoria nel caso in cui il
vicino le chiuda nei modi consentiti
dall'art. 904 c.c.» (Cass. civ., II,
30.05.2013, n. 13618; anche, ord.
09.11.2018, n. 28804; 30.12.2015, n. 26124;
04.12.2014, n. 25635).
In coerenza con il riferito indirizzo, anche
la giurisprudenza amministrativa ha
sottolineato come, «a norma dell’art. 904
del codice civile, “la presenza di luci in
un muro non impedisce al vicino di
acquistare la comunione del muro medesimo né
di costruire in aderenza”, ed introduce la
possibilità, una volta acquistata la detta
comunione, chiudere le luci solo nel caso di
costruzione in aderenza. Dal punto di vista
delle possibilità edificatorie, quindi, la
realizzazione in aderenza è ammessa, alle
condizioni sopra viste, sia se il muro sia
del tutto privo di aperture sia anche se
esso contenga delle luci, mentre non è
possibile nel caso dell’esistenza di vedute.
Da questo peculiare angolo di osservazioni,
la presenza di luci non è ostativa alla
costruzione e quindi il muro, sia esso del
tutto omogeneo sia anche se presenti delle
aperture non costituenti vedute, è trattato
in maniera normativamente identica»
(Consiglio di Stato, IV, 13.01.2010, n. 69).
Pertanto, la chiusura (di due) delle
finestre-luci poste al piano terra risulta
del tutto regolare e non contestabile.
2.3. Con riferimento all’apertura, posta al
primo piano dell’immobile delle parti
ricorrenti e ricavata con l’abbassamento di
un muro posto sul terrazzo confinante con la
proprietà della controinteressata, che in
teoria consentirebbe una veduta diretta ed
obliqua larga circa 4 m sull’immobile in
fase di realizzazione (all. 20 al ricorso e
all. 21 di Sa.Ma.), va segnalato che la
stessa è stata realizzata tramite s.c.i.a.
nel mese di marzo 2019, ossia quasi
contestualmente alla presentazione della
richiesta del titolo edilizio da parte del
dante causa della controinteressata (di cui
gli originari ricorrenti erano a conoscenza
già dal mese di febbraio 2019: all. 6 di
Sa.Ma.), avvenuto formalmente in data
17.04.2019 (cfr. all. 6 al ricorso); nella
Relazione di accompagnamento alla s.c.i.a.
del 27.03.2019 presentata dai ricorrenti
(all. 7 di Sa.Ma.), si specifica che «l’intervento
di manutenzione consiste nella parziale
demolizione del muro che delimita il
terrazzo a sud creando un’apertura (h muro
1100 mm da soletta) della larghezza di 4
metri per consentire il passaggio di aria e
luce. In corrispondenza di detta veduta
verrà realizzato un parapetto (posto a 1,5
metri dal confine) con una rete metallica
sostenuta da pali. La porzione del parapetto
che si innesta sul muro di confine avrà
un’altezza di 2 m e sarà dotata di opportuno
materiale schermante per una larghezza di
circa 0,5 m (in modo da mantenere una fascia
di rispetto della di 0,75 m complessivi dai
confine come previsto dal C.C.)».
Risulta evidente che l’apertura –a
prescindere dalla sua legittimità,
contestata dalla difesa di Sa.Ma. (all.
17-19 di Sa.Ma.)– non costituisce, per
espressa ammissione degli stessi autori, una
veduta, ma è finalizzata soltanto a
garantire il “passaggio di aria e luce”:
a riprova della insussistenza di una veduta
è stato previsto –e poi realizzato– un
parapetto posto a 1,50 m dal confine, al
fine di impedire la vista sul fondo e/o
immobile contiguo (cfr. all. 20 e 48 al
ricorso).
Sul punto la giurisprudenza ha rilevato che
la realizzazione di balconi al confine della
proprietà, in violazione dell’art. 905 cod.
civ. (“Distanza per l’apertura di vedute
dirette e balconi”), può essere
neutralizzata, senza il necessario ricorso
alla sanzione demolitoria, «anche
attraverso la predisposizione di idonei
accorgimenti che impediscano di esercitare
la veduta sul fondo altrui, come
l’arretramento del parapetto o l’apposizione
di idonei pannelli che rendano impossibile
il “prospicere” e l’“inspicere in alienum”»:
Cass. civ., II, ord. 19.02.2019, n. 4834).
Ne deriva che l’impossibilità di un affaccio
diretto sul fondo del vicino qualifica come
luce e non come veduta l’apertura ottenuta
tramite l’abbassamento del muro posto sul
terrazzo dell’immobile di proprietà delle
parti ricorrenti (cfr. Consiglio di Stato,
IV, 04.02.2020, n. 907).
2.4. La presenza di una luce sull’immobile
delle parti ricorrenti non consente di
applicare alla fattispecie de qua le
prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. n.
1444 del 1968, che impongono una distanza
minima inderogabile di dieci metri tra
pareti finestrate.
Difatti, secondo l’orientamento della
Sezione «“l’art. 9 del D. M. n. 1444 del
1968, in materia di distanze tra edifici, fa
espresso ed esclusivo riferimento alle
pareti finestrate, per tali dovendosi
intendere unicamente le pareti munite di
finestre qualificabili come vedute, senza
ricomprendere quelle sulle quali si aprono
semplici luci” (Consiglio di Stato, sez. IV,
05.10.2015, n. 4628; cfr., nella
giurisprudenza civile, Cassazione civile,
sez. II, 20.12.2016, n. 26383).
L’operatività della previsione è, quindi,
condizionata dalla natura delle aperture …»
(TAR Lombardia, Milano, II, 26.06.2019, n.
1484; 23.05.2019, n. 1168; 30.11.2018, n.
2706; anche Consiglio di Stato, IV,
04.02.2020, n. 907; II, 14.01.2020, n. 347;
TAR Liguria, I, 01.02.2021, n. 76; in senso
contrario, Consiglio di Stato, V,
11.09.2019, n. 6136).
L’assenza di una parete finestrata
nell’immobile di proprietà delle odierne
ricorrenti rende inapplicabile, in via
diretta, la prescrizione di cui al predetto
art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968.
Difatti, a questo punto diviene irrilevante
stabilire se le pareti dell’erigendo
edificio di proprietà della
controinteressata Sa.Ma. siano finestrate e
quindi siano assoggettate al richiamato
divieto; nessun interesse ad agire sussiste
in capo alle ricorrenti nel far valere una
prescrizione posta a garanzia della
controparte, quale unico soggetto leso, in
ipotesi, dal mancato rispetto della distanza
di dieci metri dalle pareti finestrate
(poste sul proprio edificio), in
correlazione alle finalità di tutela della
salubrità dei luoghi (cfr. Consiglio di
Stato, IV, 16.09.2020, n. 5466).
In tal senso, il Collegio condivide
l’orientamento secondo cui il concetto di “stabile
collegamento” non è sufficiente a
radicare la legittimazione a ricorrere,
quando –per il tipo di violazione edilizia
denunciata e per le condizioni di contesto
territoriale in cui si trovano gli immobili–
la vicinitas non rappresenti un
indice inequivocabile del pregiudizio subito
dal soggetto che propone l’azione di
annullamento del titolo edilizio, con la
conseguenza che, se si tratta della distanza
sussistente tra edifici, non è sufficiente
il mero rapporto di prossimità tra chi
agisce in giudizio e l’opera oggetto del
provvedimento amministrativo contestato,
occorrendo piuttosto dare plausibile
riscontro dei danni, o delle potenziali
lesioni, ricollegabili all’avversata
struttura, ovvero dell’incidenza negativa
sulla propria sfera giuridica, per non
elevare un astratto interesse alla legalità
a criterio di legittimazione, alla stregua
di un’azione popolare (cfr. TAR Lombardia,
Milano, II, 04.05.2015, n. 1081).
In ragione di ciò, sarebbe stato necessario
provare, o almeno allegare, la sussistenza
di effettivi pregiudizi in grado di ledere
le posizioni soggettive delle parti
ricorrenti, al fine della positiva verifica
della sussistenza dell’interesse ad agire;
nella specie ciò non è avvenuto.
Quindi, la censura, nella parte relativa al
mancato rispetto della distanza di dieci
metri delle pareti finestrate dell’edificio
erigendo, è inammissibile per difetto di
interesse ad agire (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 09.06.2021 n. 1406 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Distanze
tra costruzioni, strumenti urbanistici e integrazione della normativa
codicistica.
Le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le
distanze nelle costruzioni o come spazio tra le medesime o come distacco dal
confine o in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un
contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del
territorio, conservano il carattere integrativo delle norme del codice
civile, perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare
in modo equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati e, pertanto, la loro
violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino.
Le norme regolamentari, in quanto in concreto prescrivano limiti più severi
rispetto a quelli di cui all'art. 873 cod. civ., prevalgono, per espressa
previsione di esso, su tale ultima norma.
Quest'ultima, infatti, mantiene la propria efficacia (pur tenendo conto del
modo di disporre dell'art. 41-quinquies della L. n. 1150/1942 come
modificata dalla L. n. 765/1967: cfr. Cass. Civ. Sez. II, 7804/1991)
soltanto ove dette più severe prescrizioni non siano previste.
Va poi considerato che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, emanato in
esecuzione della predetta norma sussidiaria di cui all'art. 41-quinquies
della L. n. 1150/1942, ha imposto una distanza minima inderogabile di 10
metri tra parerti finestrate e quelle di edifici antistanti, direttamente
incidendo sui regolamenti comunali.
Ciò premesso, dalla natura integrativa delle disposizioni regolamentari, la
pronunzia in esame trae la conclusione, invero già proclamata, della natura
rispristinatoria della sanzione conseguente alla violazione delle stesse
(massima e commento tratto da www.e-glossa.it).
---------------
ORDINANZA
- passando all'esame di merito, con il primo motivo
le ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 872, 873 e 875 c.c.,
nonché delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. del Comune di Monopoli,
ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte
territoriale erroneamente applicato le disposizioni invocate dal momento che
l'ampliamento al rustico del vecchio fienile realizzato da St.Pa. sul
confine con il cortile o spiazzo di An.Sa. e ad oltre tre metri dai trulli
della medesima, preesistenti e posti di fronte ad esso, non rispetterebbe
neanche le distanze di cui all'art. 873 c.c., che stabilisce un metro e
mezzo.
Il motivo è manifestamente fondato.
Secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, infatti, le norme degli
strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come
spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con
l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a
tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il
carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a
disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo
l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto la loro violazione
consente al privato di ottenere la riduzione in pristino (v. già Cass. n.
7384 del 2001).
In particolare, le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla
determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che
regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve
essere osservato tra le costruzioni sono da ritenere integrative delle norme
del codice civile, mentre non lo sono le norme che, avendo come scopo
principale la tutela d'interessi generali urbanistici, disciplinano solo
l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze
intercorrenti tra gli stessi. Con la conseguenza che nel primo caso
sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino,
mentre nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria (Cass. n. 1073 del
2009).
Nell'ambito delle norme dei regolamenti locali edilizi, pertanto, hanno
carattere integrativo delle disposizioni dettate nelle materie disciplinate
dagli artt. 873 c.c. e segg. quelle dirette a completare, rafforzare,
armonizzare con il pubblico interesse di un ordinato assetto urbanistico la
disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato. Non rivestono invece
tale carattere le norme che hanno come scopo principale la tutela di
interessi generali urbanistici, quali la limitazione del volume,
dell'altezza e della densità degli edifici, le esigenze dell'igiene, della
viabilità, la conservazione dell'ambiente ed altro.
In base agli enunciati principi, nel caso di specie, il regolamento
urbanistico locale del Comune di Monopoli, artt. 17 e 18 d.r. 24.08.1977 n.
722, disciplinando in modo esplicito per le zone rurali A e B la distanza
minima fra fabbricati di mt. 10 e dal confine di mt 5, per i principi sopra
esposti, ha carattere integrativo delle norme del codice civile e come tale
è suscettibile di tutela anche ripristinatoria (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
ordinanza 19.05.2021 n. 13624). |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce orientamento
consolidato che nella verifica dell’osservanza delle
distanze tra fabbricati, ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444,
vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro
caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei
vani che vi accedono.
Dunque, nel caso di specie, trattandosi di terrazze incassate nella sagoma dell’edificio, la
distanza dalla parete frontistante (cioè quella dell’edificio della
ricorrente) deve essere calcolata non già a partire dalla porta-finestra che
consente di accedere dall’appartamento alla terrazza in commento, ma dalla
linea esterna di tale terrazza coincidente con la balaustra (non è in
contestazione tra le parti che, in tal modo correttamente calcolata, la
distanza tra le pareti sia inferiore a quella prescritta dall’art. 9 del DM
1444/1968, essendo pari a mt. 7,90).
---------------
1. Con il ricorso in disamina la società Fi.Re.Es. ha
chiesto l’annullamento del provvedimento con cui il Comune di Cerea ha
annullato in via di autotutela la SCIA alternativa al permesso di costruire
presentata in data 21.08.2017 dalla ricorrente (cfr. all. 12 al ricorso).
Con i due motivi di gravame si lamenta, in primo luogo, che l’esercizio del
potere sarebbe stato tardivo in quanto successivo al decorso del termine di
18 mesi indicato dall’art. 21-nonies della L. 241/1990, e, in secondo luogo,
che non sussisterebbe la violazione delle distanze contestata dal Comune, in
quanto sull’immobile frontistante quello della ricorrente sarebbero presenti
solo delle terrazze di copertura del piano inferiore dell’edificio non
qualificabili come “pareti finestrate” ai sensi dell’art. 9, primo comma,
n. 2), del D.M. n. 1444/1968.
Giova prendere le mosse, in via logica, dal secondo motivo di censura:
ritiene il Collegio che, nel caso di specie, sussistano senz’atro i
presupposti per l’applicazione del disposto della norma da ultimo citata in
punto di distanze minime tra pareti finestrate.
L’esame della documentazione in atti e, segnatamente, delle fotografie
prodotte dalle parti (cfr. doc. 7 del Comune di Cerea e doc. 14 di parte
ricorrente) evidenzia come le terrazze esistenti sulla proprietà dei
controinteressati, munite di balaustra, non hanno una funzione di mera
copertura del piano sottostante dell’edificio, ma costituiscono una
proiezione verso l’esterno dell’appartamento, e dunque una componente
strutturale dell’edificio ove si prolunga la vita abitativa: esse si
sviluppano in continuità con il perimetro esterno del fabbricato e
consentono l’affaccio e la veduta in ogni direzione (cfr. Cass. civ. n.
4834/2019; Cons. Stato, sez. VI. n. 5307/2018: “Costituisce orientamento
consolidato, qui condiviso, che nella verifica dell’osservanza delle
distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano
considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro
caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei
vani che vi accedono (cfr., Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1272; Id,
sez. IV, 21.10.2013, n. 5108)”).
Dunque, trattandosi di terrazze incassate nella sagoma dell’edificio, la
distanza dalla parete frontistante (cioè quella dell’edificio della
ricorrente) deve essere calcolata non già a partire dalla porta-finestra che
consente di accedere dall’appartamento alla terrazza in commento, ma dalla
linea esterna di tale terrazza coincidente con la balaustra: non è in
contestazione tra le parti che, in tal modo correttamente calcolata, la
distanza tra le pareti sia inferiore a quella prescritta dall’art. 9 del DM
1444/1968, essendo pari a mt. 7,90 (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 11.05.2021 n. 616 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Calcolo della distanza.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Inoltre, è stato osservato in giurisprudenza che, per “pareti finestrate”,
ai sensi dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, devono intendersi, non
soltanto le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti
munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì
che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 06.04.2021 n. 319
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
Con il provvedimento oggetto di censura il Comune ha accertato, in
autotutela, l’assenza dei presupposti per la formazione del titolo edilizio
in relazione alla DIA del 2015 e alle successive varianti e ordinato il
ripristino dello stato dei luoghi antecedente all’intervento per la sola
porzione di veranda in ampliamento, mediante rimozione della stessa. Ciò
sulla scorta del verbale con cui è stato rilevato che, sebbene la violazione
delle distanze dai confini sia minimale e non sia, dunque, configurabile una
variazione essenziale in relazione a tale profilo, altrettanto non può
sostenersi con riferimento alla porzione di veranda in ampliamento, posta a
una distanza inferiore ai dieci metri imposti dall’art. V.1 del Piano delle
Regole del Comune di Treviglio e dall’art. 9 del D.M. 1444/1968.
Deve essere preliminarmente rigettata l’eccezione in rito correlata alla
mancata notificazione del controinteressato da individuarsi nel proprietario
dell’immobile rispetto a cui risulta essere stato violato il limite della
distanza. La giurisprudenza, infatti, ravvisa il contraddittorio necessario
solo nel caso in cui oggetto del controvertere sia la legittimità del titolo
rilasciato al controinteressato, non anche nel caso contrario, come quello
in esame, in cui il vicino è parte avvantaggiata dal provvedimento
censurato, che trova la sua motivazione nella violazione di una norma
edilizia solo incidentalmente e indirettamente posta a tutela del
confinante, che, dunque, potrebbe intervenire nel giudizio, ma non può
essere considerato contraddittore necessario.
Come chiarito dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 5472/2020, che
richiama la pronuncia 06.06.2011 n. 3380 “nell’impugnazione di
un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei
confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel
caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il
terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo
avesse provveduto a segnalare all’amministrazione l’illecito edilizio da
altri commesso”. Tale orientamento si fonda sulla considerazione che la
qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va
riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere
in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze
soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva
un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della
propria sfera giuridica.
Ne deriva l’ammissibilità del ricorso in esame.
Passando all’esame del merito della controversia, ragioni di ordine logico
impongono di esaminare in via preordinata i motivi di ricorso numeri 2 e 3,
i quali revocano in dubbio la legittimità dell’esercizio del potere di
autotutela. L’accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per
poter procedere all’esercizio del potere in questione risulta, infatti,
essere logicamente preordinato rispetto all’accertamento della conformità
alla legge del risultato cui esso ha condotto.
Fatta tale premessa, il Comune risulta aver disposto la revoca degli effetti
delle DIA e della SCIA inoltrate da parte ricorrente sulla scorta di
un’asserita violazione di una norma, quella che disciplina la distanza
minima tra pareti finestrate, il cui rispetto si impone, prima ancora che
nell’interesse della proprietà confinante, per garantire la salubrità delle
costruzioni. Tenuto conto di ciò, non può essere ravvisata la lamentata
carenza del presupposto che legittima l’esercizio del potere ex art.
21-nonies della legge n. 241/1990 da parte del Comune e nemmeno la dedotta
carenza di motivazione, essendo a tal fine sufficiente l’indicazione della
norma violata, posta a tutela dell’interesse pubblico.
Anche la terza doglianza non può trovare accoglimento, in quanto il
provvedimento censurato è, nella sostanza, rivolto alla rimozione di un
abuso edilizio derivante dall’asserita violazione dei limiti di distanza tra
pareti finestrate, il che comporta, per inciso, anche la declaratoria
dell’illegittimità degli effetti della DIA presentata da parte ricorrente
per la realizzazione del manufatto senza garantire il rispetto degli stessi.
Pertanto, considerato che la giurisprudenza è costante nell’affermare che la
repressione degli abusi edilizi, previo eventuale annullamento del titolo
che ha previsto la realizzazione della costruzione in violazione della
legge, può intervenire in qualsiasi momento, non può ritenersi applicabile
alla fattispecie il termine di diciotto mesi riconosciuto dall’art.
21-nonies della legge n. 241/1990 all’amministrazione per poter procedere
all’annullamento in autotutela.
In ogni caso, considerato che la documentazione tecnica prodotta da parte
ricorrente non rappresentava la presenza di una parete finestrata prima che
fosse depositata la DIA del 09.12.2016, il termine dei diciotto mesi
decorrerebbe comunque solo da tale data, coincidente con il momento in cui
l’Amministrazione è stata resa edotta della reale situazione dei luoghi e
eliminata la non corretta descrizione degli stessi che ha impedito di
rilevare un possibile problema di violazione delle distanze. Il termine
risulterebbe, pertanto, rispettato.
Esclusa la fondatezza dei vizi correlati alla sussistenza dei presupposti
per l’esercizio del potere avversato, si può passare ad esaminare la censura
n. 1, avente a oggetto la pretesa violazione della norma regolante la
distanza tra pareti finestrate.
A tale proposito il Collegio ritiene di poter preliminarmente convenire con
il Comune che, nella fattispecie in questione, la parete posta a confine con
il mappale 3866 deve essere qualificata come “finestrata” in
relazione alla presenza di vedute nella parte più bassa della stessa. Le
aperture, infatti, sono dotate di inferiate e non di grate, per cui
l’affaccio risulta agevole e, in ogni caso, per la loro dimensione e
l’altezza a cui sono collocate consentono sia l’inspectio, che la
prospectio.
Ciò chiarito, secondo parte ricorrente le distanze in questione non
sarebbero applicabili al caso di fabbricati disposti ad angolo senza avere
pareti contrapposte.
Ciò sembrerebbe supportato dalla formulazione dell’art. V.1 del PdR, il
quale sembrerebbe assumere come presupposto il fatto che la distanza minima
prescritta riguardi pareti che si fronteggiano.
In realtà, il Consiglio di Stato, considerando la ratio dell’art. 9 del DM
1444/1968, volto ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e, pertanto non eludibile, ha chiarito che “la
distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela
(così, Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909)” (cfr. Cons. Stato
7731/2010).
Inoltre, come ricordato nella sentenza del TAR Napoli, n. 2519/2019: <<la
medesima giurisprudenza ha altresì osservato che, per "pareti finestrate",
ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444, “devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti
munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì
che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte
d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001,
n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano,
sez. IV, 07.06.2011, n. 1419)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22.10.2013
n. 5557 citato), e tale principio è stato di recente ribadito anche dalla
Suprema Corte di Cassazione che nella sentenza n. 166/2018>>.
Ne discende che legittimamente il Comune ha assoggettato a verifica la
distanza tra la nuova veranda e la parete dell’edificio collocato sulla
proprietà prospiciente (mappale 3866), da qualificarsi come finestrata.
Conseguentemente, misurate le distanze applicando il criterio della distanza
lineare e non radiale, è incontestato che esse siano inferiori al limite di
dieci metri imposto dalla legge e dal PdR comunale.
Rimane, dunque, da verificare se la distanza ridotta preesistesse, così come
sostenuto da parte ricorrente, rispetto alla ricostruzione dell’edificio.
Secondo il sig. Bo., infatti, lo spigolo del corpo di fabbrica preesistente,
demolito e ricostruito, era già posto a distanza di 5,28 metri (o comunque
inferiore a 10 metri) dalla parete in questione. Più precisamente, erano
presenti delle superfetazioni, poste a distanza inferiore a quella attuale,
che sono state demolite e sostituite da una veranda priva di vedute, più
bassa rispetto alle precedenti superfetazioni e costruita in modalità
diagonale, obliqua e trasversale -non parallelamente, né frontalmente-
rispetto all’edificio dei sigg.ri Mo. e Co..
La norma di riferimento, anche in questo caso, è sempre l’art. V.1 del PdR,
il quale prevede che, nel caso di sostituzione edilizia, la distanza minima
di metri 10 rispetto a pareti finestrate dei fabbricati antistanti
(intendendosi come tali le pareti con una o più vedute) debba essere
rispettata solo in relazione alle porzioni non comprese nella sagoma
dell’edificio preesistente.
La prescrizione, dunque, impone la distanza minima solo in relazione a “porzioni
non comprese nella sagoma”, facendo salve le ricostruzioni alle stesse
distanze che caratterizzavano la costruzione originaria. Dalla
documentazione in atti, però, non è possibile dedurre con certezza se lo
spigolo della veranda, da cui è stata misura la distanza dalla parete
finestrata dell’immobile collocato sulla proprietà confinante, ricada, ad
oggi, all’interno di quello che era il perimetro della sagoma dell’edificio
preesistente.
Pertanto, al di là del fatto che la nuova veranda abbia comportato una
contenuta variazione in aumento della volumetria e sia stata collocata in
una posizione diversa da quella originaria, risulta essenziale, al fine
della decisione definitiva, verificare tecnicamente la sussistenza di tale
condizione, di cui parte ricorrente non ha fornito adeguata prova.
Conseguentemente, il Comune resistente dovrà provvedere a verificare tale
condizioni, producendo, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o
notificazione della presente pronuncia, una relazione circa gli esiti di
tale accertamento, corredata di una planimetria che, sovrapponendo lo stato
preesistente e quello derivato dalla demolizione e ricostruzione, evidenzi
la sagoma dell’edificio prima e dopo l’intervento, con indicazione della
distanza minima tra la parete finestrata dell’edificio di proprietà dei
sig.ri Mo. e Co. e la parete dell’edificio di proprietà del ricorrente prima
e dopo l’intervento di ristrutturazione.
Spese al definitivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di
Brescia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto:
- lo dichiara ammissibile;
- lo respinge nella parte in cui tende ad escludere la sussistenza
dei presupposti per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela dei
titoli edilizi formatisi a seguito della DIA del 2015 e delle successive
varianti;
- quanto alla domanda di annullamento dell’atto impugnato ordina
gli incombenti istruttori indicati in motivazione;
- rinvia al definitivo ogni decisione sulle spese del giudizio;
- fissa, per l’ulteriore esame della controversia, l’udienza
pubblica del 06.10.2021. |
marzo 2021 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Un
orientamento giurisprudenziale, interpretando l’articolo 9 del D.M.
1444/1968, ha affermato la non computabilità delle terrazze e degli elementi aggettanti, ove la
strumentazione urbanistica comunale ne preveda l’esclusione dal calcolo
della volumetria, purché si tratti di elementi estranei al volume utile
dell’edificio.
Invero, s'è affermato che “Al riguardo, la
Sezione non ignora l’esistenza di precedenti che, muovendo da una rigorosa
qualificazione delle norme del d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni
di ordine pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge
primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2, della legge
17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse possano essere derogate dagli
strumenti urbanistici generali, le cui prescrizioni pertanto, ove
contrastanti con le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di
calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal
quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i
detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle
distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una
norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi
aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio.
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della
previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di
evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la
salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa
escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte
di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi
architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche”.
---------------
5. Non è, invece, fondato il terzo motivo, con cui sono
dedotti i vizi di violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, di eccesso di potere
per carenza di istruttoria, difetto di motivazione e si chiede di sollevare
la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 14/2015.
Afferma il ricorrente che le terrazze del primo e del secondo piano
sarebbero poste ad una distanza inferiore a quella di 10 metri prevista
dall’articolo 9 D.M. 1444/1968. Esse, infatti, superano il limite di 10
metri di m. 1,30.
Il ricorrente richiama l’orientamento giurisprudenziale
alla stregua del quale sono rilevanti ai fini del rispetto della suddetta
distanza le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati
(c.d. “aggettanti”) destinati ad estendere la consistenza del
fabbricato, restando irrilevanti soltanto le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura o
accessoria di limitata entità.
La deroga a tale principio non potrebbe essere contenuta nelle disposizioni
del regolamento edilizio, trattandosi di norme secondarie alle quali non è
consentito, in assenza di espressa previsione, derogare alle norme di aventi
rango legislativo.
Neppure la minore distanza potrebbe trovare fondamento nell’articolo 8,
comma 4-bis, L.R. 4/2015 (alla stregua del quale: “in attuazione
dell’articolo 2-bis del D.P.R. 380/2001, ai fini del calcolo della distanza
minima tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. 1444/1968, non sono
computati gli sporti e gli elementi a sbalzo, compresi terrazze e balconi
non chiusi aggettanti dalla facciata dell’edificio per non più di metri
1,50. Resta fermo il rispetto delle disposizioni del codice civile relative
alle distanze tra costruzioni nonché quelle relative all’apertura di vedute
dirette e balconi sul fondo del vicino”) che il ricorrente ritiene
incompatibile con il sistema costituzionale di riparto della potestà
legislativa tra Stato e Regioni e, in particolare, con l’articolo 117, comma
2, lett. l, Cost.
5.1 E’ incontestato tra le parti che le terrazze del primo e del secondo
piano sono poste ad una distanza dalla parete finestrata antistante
inferiore a quella prevista dall’articolo 9 D.M. 1444/1968, ma inferiore a
quella massima prevista dall’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 4/2015, che
esclude dal calcolo della suddetta distanza minima, gli sporti e gli
elementi a sbalzo, compresi terrazze e balconi non chiusi aggettanti dalla
facciata dell’edificio per non più di metri 1,50.
La deroga al D.M. 1444/1968, pertanto, è giustificata dalla ricorrenza delle
condizioni previste dalla suddetta legge regionale. Questa Sezione si è già
espressa per l’insussistenza del presupposto della non manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale così come
prospettata in questo giudizio, nella sentenza del 10.02.2021, n. 187, con
argomenti da cui non si ravvisano ragioni per discostarsi.
Infatti, l’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 14/2015 è stato approvato in
espressa attuazione dell’articolo 2-bis D.P.R. 380/2001, che consente a
Regioni e Province autonome di “prevedere, con proprie leggi e
regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444 possono dettare disposizioni sugli spazi da
destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito
della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a
un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.”.
La norma, pertanto, costituisce esercizio delle facoltà di deroga
riconosciuta alle Regioni dal legislatore statale. Inoltre essa trova
fondamento, come ha rilevato il Comune, nell’intesa raggiunta tra Stato e
Regione sul R.E.T., le cui definizioni, consentono di sottrarre al calcolo
delle distanze gli aggetti inferiori a m 1,50 (cfr. nn. 18 e 30, all. A dell’Intesa).
La previsione, peraltro, è conforme ad un orientamento giurisprudenziale
che, interpretando l’articolo 9 del D.M. 1444/1968, ha affermato la non
computabilità delle terrazze e degli elementi aggettanti, ove la
strumentazione urbanistica comunale ne preveda l’esclusione dal calcolo
della volumetria, purché si tratti di elementi estranei al volume utile
dell’edificio (TAR Lazio, sez. II, 11.09.2019, n. 10843 che richiama
Consiglio di Stato, sez. IV, 30.12.2016, n. 5552: “Al riguardo, la
Sezione non ignora l’esistenza di precedenti che, muovendo da una rigorosa
qualificazione delle norme del d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni
di ordine pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge
primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2, della legge
17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse possano essere derogate dagli
strumenti urbanistici generali, le cui prescrizioni pertanto, ove
contrastanti con le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di
calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal
quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i
detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle
distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una
norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi
aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 05.01.2015, nr. 11; id., sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id.,
07.07.2008, nr. 3381).
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della
previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di
evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la
salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa
escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte
di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi
architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche.”).
Anche alla stregua di tale orientamento, che ha interpretato la normativa
statale, non si ravvisa, pertanto, la violazione del parametro
costituzionale invocato dal ricorrente (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 31.03.2021 n. 414 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: - l'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come
nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo
assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della
riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto
il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente
dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro
pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di
una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel
limitato segmento.
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere
cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi.
La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile;
- l'art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore
l'art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in
forza dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile
di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che
tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare
tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente
inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima.
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria,
costituisce un principio assoluto e inderogabile, che prevale sia sulla potestà legislativa regionale,
in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria
dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata,
sia infine sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi
pubblici che non sono nella disponibilità delle parti;
- la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano.
Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a
quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela, indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima
o a diversa altezza rispetto all'altra;
- è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della
parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si
trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza
minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di
finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si
trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra;
- ai sensi dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per "pareti
finestrate" devono intendersi non soltanto le pareti munite di "vedute"
ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere
verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di
luce).
---------------
Proprio
perché la normativa sulle distanze è tesa a prevenire intercapedini, è da
ritenere che, nel caso in cui le pareti che si fronteggino abbiano diversa
altezza, la distanza è da calcolare “non in
relazione allo spazio vuoto esistente al di sopra del lastrico solare
dell’edificio”, “ma in relazione alla parete del detto edificio frontistante,
se pure più basso, la detta parete in sopraelevazione”.
---------------
La giurisprudenza ha già chiarito che “non sono computabili nel calcolo
della distanza fra edifici gli sporti, le parti che hanno funzione
ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali),
le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, gli aggetti, gli elementi di
ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità; non possono
invece essere esclusi dal computo le pensiline, i balconi e tutte quelle
sporgenze che, per le particolari dimensioni, sono destinate anche ad
estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso
abitativo dell'edificio”.
Tale principio ha trovato recente applicazione
proprio con riguardo a “pilastri” che “creano un ingombro coerente a tutto
il manufatto”.
---------------
3. È anzitutto fondato il primo motivo di ricorso.
Con quest’ultimo, la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 9, comma
2, del DM n. 1144 del 1968 e dell’art. 9, comma 4, del PRG vigente, nonché
eccesso di potere per travisamento, difetto di istruttoria e illogicità,
poiché il permesso di costruire avrebbe assentito l’opera, benché essa non
assicurasse il rispetto delle distanze minime prescritte sia dalla normativa
statale, sia da quella locale.
In particolare, l’art. 9, comma 2, del DM n. 11444/1968 prescrive, per gli
edifici collocati in zona B, come nel caso di specie, una distanza minima di
10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
Il Tribunale, in linea con la giurisprudenza amministrativa (Tar Veneto, n.
1137 del 2014, proprio in tema di cd piano caso e distanze), osserva che
tale distanza minima non può subire deroghe, neppure in forza della
disciplina relativa al cd piano casa: la stessa legge regionale n. 21 del
2009 lo afferma all’art. 4, comma 2.
3.1 Va altresì premesso che, nell’individuare i termini di raffronto per
calcolare la distanza effettiva, dovranno essere considerati anche i
balconi, che, nel caso di specie, hanno una significativa profondità dal
lato della nuova palazzina, pari a circa tre metri, come confermato dal CTU.
Essi, pertanto, costituiscono ad ogni effetto una componente strutturale
dell’edificio, ove si prolunga la vita abitativa, con ciò che ne consegue in
ordine alla necessità che sia questo il punto dal quale misurare la distanza
(Cass. civ. n. 4834/2019; Cons. Stato, sez. VI. n. 5307/2018).
Tale conclusione varrà anche per ogni elemento strutturale dell’edificio,
con particolare riguardo ai pilastri su cui si reggono parti di esso.
E va aggiunto, a tale proposito, che tale principio, in quanto codificato da
una norma espressiva della competenza esclusiva statale in tema di
ordinamento civile e di quella concorrente a dettare i principi fondamentali
del governo del territorio, non può trovare correzioni o integrazioni nella
normativa regionale o locale sulle distanze. Quest’ultima, infatti, può,
nella sussistenza di rigide condizioni attinenti alla pianificazione,
derogare alle distanze del DM n. 1144 del 1968 (ex plurimis, Corte
costituzionale, sentenza n. 50 del 2017), ma non certo prescrivere criteri
di interpretazione della normativa statale.
Ne consegue che eventuali previsioni del PRG e del regolamento edilizio che
dovessero prevedere criteri differenti per il calcolo delle distanze,
rispetto alla già affermata rilevanza dei balconi aggettanti e dei pilastri,
si applicherebbero solo con riguardo a quelle introdotte dagli strumenti
locali, e non a quelle di origine statale.
Nel caso di specie, in particolare, al fine di valutare l’osservanza
dell’art. 9 del DM n. 1144 del 1968, non potranno avere spazio gli artt. 9.4
delle NTA e l’art. 165 del regolamento edilizio, quanto al rilievo da
assegnare ai balconi, perché dovrà rilevare esclusivamente la norma statale,
come ovviamente interpretata dalla giurisdizione.
In particolare, l’art. 9.4 prevede, in conformità alla normativa statale,
che la distanza sia calcolata anche tenuto conto di “balconi, scale
esterne, pensiline e gronde”, ma aggiunge che “non si considerano ai
fini del distacco gli elementi sporgenti quali balconi, scale esterne e
pensiline con aggetti inferiori a mt 1,20”.
Per tale ultima parte, la previsione non può essere tenuta in considerazione
nel calcolo della distanza di 10 mt indicata dall’art. 9 del DM 1444 del
1968, quando la norma locale, come nel caso di specie, raggiunge balconi
che, per natura e profondità, debbano invece essere presi in considerazione,
sulla base delle massime di giurisprudenza sopra ricordate.
Gli allegati fotografici, a tale proposito, confermano che, nel caso
odierno, i balconi sono rilevanti: non rileva, in senso contrario, che una
porzione di essi sia interna alla facciata, sicché a sporgere è l’ultimo
tratto, di misura non superiore a mt 1,20: il balcone, apprezzato nella sua
integrità costruttiva e funzionale, è con ogni evidenza prolungamento della
vita abitativa.
4. Tali principi sono stati reiteratamente affermati dalla giurisprudenza
amministrativa, secondo la quale (ex plurimis, Cons. Stato, sez. V,
n. 6136 del 2019):
- l'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come
nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo
assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della
riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto
il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (Cass. civ., II,
26.01.2001, n. 1108; Cons. Stato, V, 19.10.1999, n. 1565; Cass. civ.,
II, ordinanza 03.10.2018, n. 24076).
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente
dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro
pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di
una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel
limitato segmento (Cass., n. 24076/2017, cit.).
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere
cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi
(Cass. civ., II, 16.08.1993, n. 8725). La prescrizione di distanza in
questione è assoluta e inderogabile (Cass. civ., II, 07.06.1993, n. 6360;
09.05.1987, n. 4285;
- l'art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore
l'art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in
forza dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile
di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che
tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare
tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente
inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima (Cass. civ., II,
29.05.2006, n. 12741).
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria,
costituisce un principio assoluto e inderogabile (Cass. civ., II,
26.07.2002, n. 11013), che prevale sia sulla potestà legislativa regionale,
in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Cost.,
sentenza n. 232 del 2005), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria
dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata
(Cass. civ., II, 31.10.2006, n. 23495), sia infine sull'autonomia negoziale
dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella
disponibilità delle parti (Cons. Stato, IV, 12.06.2007, n. 3094);
- la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano (Cons. Stato, V, 16.02.1979, n. 89).
Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a
quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela (Cass., II, 30.03.2001, n. 4715), indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima
o a diversa altezza rispetto all'altra (Cass., II, 03.08.1999, n. 8383;
Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; 02.11.2010, n. 7731);
- è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della
parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si
trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza
minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di
finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si
trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra (Cons. Stato, IV,
05.12.2005, n. 6909; Cass. Civ., II, 20.06.2011, n. 13547; 28.09.2007, n.
20574);
- ai sensi dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per "pareti
finestrate" devono intendersi non soltanto le pareti munite di "vedute"
ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere
verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di
luce).
5.
Il Tribunale, sulla base di queste premesse in diritto, ha perciò disposto
CTU, allo scopo di verificare, in particolare, distanza e altezza.
Con riguardo alle distanze, nel supplemento di istruttoria, il CTU ha
erroneamente escluso i balconi, in applicazione dell’art. 9.4 delle NTA e
dell’art. 165 del regolamento edilizio, stimando che essi non avessero
aggetto superiore a mt 1,20.
Si sono già specificate sopra le ragioni per le quali, invece, la distanza
andasse calcolata dal punto di massima sporgenza dei balconi.
Adottando tale criterio, torna utile il calcolo delle distanze formulato con
la prima CTU, e che, del resto, la seconda CTU ha confermato sul piano
fattuale, pur impiegando poi erronei criteri giuridici al fine di concludere
per la sussistenza di una distanza maggiore di quella effettiva.
Se ne può concludere per una determinazione della distanza di soli metri
7,85, anziché almeno 10, dai balconi (da intendersi quale parete finestrata
ai fini dell’applicazione dell’art. 9 del DM 1444 del 1968: Cass. civ. n.
4834/2019) alla parete dell’edificio antistante della ricorrente.
5.1 Tuttavia, ciò rende verosimile, ma non provato, che il regime delle
distanze sia stato violato per tale aspetto.
Infatti, il CTU, dato atto che gli edifici si fronteggiano solo per l’unico
piano di quello della ricorrente e per il piano adibito a garage di quello
della controinteressata (in questo punto, la distanza è conforme alla legge,
in quanto pari a mt. 10,35), ha correttamente reputato di dover valutare la
distanza, anche a partire dai piani sopraelevati del nuovo edificio, ma ha
errato nell’assumere a punto di raffronto la proiezione verticale (e,
dunque, un punto meramente astratto) dell’immobile della ricorrente.
Viceversa, proprio perché la normativa sulle distanze è tesa a prevenire
intercapedini, è da ritenere che, nel caso in cui le pareti che si
fronteggino abbiano diversa altezza, la distanza è da calcolare “non in
relazione allo spazio vuoto esistente al di sopra del lastrico solare
dell’edificio”, “ma in relazione alla parete del detto edificio frontistante,
se pure più basso, la detta parete in sopraelevazione” (Cass. civ. n.
8383 del 1999).
6. A questo punto, sarebbe possibile un terzo accertamento peritale, per
determinare la distanza dai balconi, sulla base di tale criterio.
Tuttavia, in considerazione del fatto che la causa pende dal 2014 e per
ragioni di economia processuale, il Tribunale ritiene di potersi pronunciare
fin d’ora, posto che l’illegittimità dell’atto impugnato, quanto alle
distanze, emerge anche nel raffronto tra le pareti finestrate della
ricorrente e quelle della controinteressata, se calcolata a partire dal vano
scala A.
Anche a tale proposito, è necessario tenere fermo il calcolo offerto con la
prima CTU, che ha determinato la distanza in mt. 8,54, se calcolata dai
pilastri strutturali in cemento armato del vano scala A (e, poi, in 8,80 mt
con riferimento al cd. tracantone di cui al supplemento di perizia), e in
mt. 9.93, se calcolata dalla parete finestrata di tale vano scala.
Va subito precisato che a rilevare, tra le due, è la distanza minima di mt
8,54 (o 8,80/8,90: cfr supplemento di CTU), posto che essa è computata a
partire da “pilastri di cemento armato realizzati a chiusura del vano scala
A posto a nord-ovest della nuova palazzina” con “altezza di oltre 10 metri
ed una larghezza di oltre 60 cm ciascuno”, rappresentando “in modo
incontrovertibile degli elementi rilevanti ai fini del computo della
distanza” (prima CTU, pag. 8-9).
La giurisprudenza ha già chiarito che “non sono computabili nel calcolo
della distanza fra edifici gli sporti, le parti che hanno funzione
ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali),
le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, gli aggetti, gli elementi di
ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità; non possono
invece essere esclusi dal computo le pensiline, i balconi e tutte quelle
sporgenze che, per le particolari dimensioni, sono destinate anche ad
estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso
abitativo dell'edificio” (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV,
21/10/2013, n. 5108). Tale principio ha trovato recente applicazione
proprio con riguardo a “pilastri” che “creano un ingombro coerente a tutto
il manufatto” (Cons. Stato, sez. VI, n. 521 del 2021).
Nel caso di specie, la prima CTU ha perciò correttamente tenuto conto dei
“pilastri verticali portanti del nuovo edificio, in cui, in parte,
alloggiano anche le scale di accesso ai vari piani”.
6.1 Erronea, viceversa, è stata la decisione del CTU, in occasione del
supplemento istruttorio, di mutare del tutto la propria posizione, offrendo,
senza peraltro alcuna adeguata motivazione a supporto della nuova
conclusione, una indicazione delle distanze compatibili con l’art. 9 del DM
1444 del 1968.
Già l’assertività di tale mutamento di rotta, a fronte della esaustiva
motivazione svolta con la prima CTU, rende manifestamente incongruo, e
quindi da disattendere in questa sede, il rinnovato giudizio del consulente.
Se, poi, il nuovo calcolo dovesse essere il frutto dell’applicazione
dell’art. 9.4 delle NTA e dell’art. 165 del regolamento edilizio, come pare
intuibile dal supplemento istruttorio (pag. 7), esso sarebbe comunque da
respingere.
Il CTU osserva che la normativa edilizia applicabile nel territorio di
Fiumicino esclude dal calcolo delle distanze anche le scale “esterne”
sporgenti, che aggettano per meno di mt 1,20.
Tuttavia, tale osservazione, come posto in rilievo dal consulente di parte
della ricorrente, appare priva di pertinenza con riguardo al vano scala A,
giacché la prima CTU ha già acclarato che si è in presenza di un vano chiuso
generatore di cubatura (pag. 18), sicché nessuna “scala esterna” acquisisce
rilievo.
Inoltre, vale per ogni elemento sporgente quanto precisato in diritto in
ordine alla applicabilità, in tema di distanze minime ex DM 1444 del 1968,
della sola normativa statale, come interpretata dalla giurisprudenza, con la
conseguenza che né il cd. tracantone (definito come un “ringrosso del muro
contenente le tubazioni dei servizi”), né tanto meno i pilastri del vano
scala A, come sopra descritti, possono essere esclusi dal calcolo della
distanza.
Ed è rimarchevole, ancora una volta, che a tale corretta conclusione il CTU
fosse già giunto con la prima consulenza, ove si era escluso di poter
attribuire rilievo all’art. 9.4 delle NTA (pag. 16), cosicché non si
comprende in base a quali fattori egli abbia poi radicalmente cambiato
parere, ciò che costituisce un ulteriore vizio logico del supplemento
istruttorio, tale da imporre che esso venga disatteso dal Tribunale per tale
parte.
7. Da ultimo, rispondendo ad un quesito del consulente di parte a proposito
del vano scala A, il CTU si è poi soffermato sulla presunta abusività
dell’immobile della ricorrente, che, a suo tempo, non avrebbe a sua volta
rispettato le distanze di legge.
Ove tale precisazione fosse da intendersi nel senso che tale fattore possa
incidere sull’osservanza delle distanze da parte del nuovo edificio, essa
sarebbe da rigettare, posto che “le disposizioni dettate dal DM n. 1444 del
1968 art. 9 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a
prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti (e) dalla loro
eventuale abusività” (Cass. civ. n. 2367 del 2021).
Non ha infatti pregio l’argomento di parte resistente, secondo cui
l’inosservanza delle distanze minime sarebbe da attribuire alla ricorrente,
che avrebbe edificato senza osservare lo stacco minimo dal confine
prescritto dalla normativa locale (metri 3,95, anziché 5.00, come rilevato
dal CTU).
La presente controversia verte esclusivamente sulla conformità a legge del
permesso di costruire rilasciato alla controinteressata (cfr Cons. Stato,
sez. IV, n. 2086 del 2017). In quest’ottica, il Comune (ferma l’attivazione,
che non vi è stata, di eventuali poteri di riduzione in pristino, ove
ammissibili) non poteva che prendere atto della situazione esistente in
loco, in base alla quale l’edificio della ricorrente sorgeva ad una certa
distanza dal confine; si trattava, cioè, di valutare sulla base di essa se
il nuovo immobile rispettasse o no la distanza minima, ed è tale valutazione
che si è dimostrata erronea nella presente causa.
Ed è appena il caso di osservare che l’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001,
invocato da parte resistente per negare il carattere essenziale della
variazione sulla distanza, è del tutto privo di pertinenza, perché regola la
fattispecie del tutto diversa degli interventi eseguiti in difformità dal
titolo abilitativo, e non certo la violazione della distanza minima di cui
all’art. 9 del DM 1444 del 1968.
7,1 In definitiva, il Tribunale reputa che la prima CTU apporti elementi
sufficienti per decidere la causa, quanto ai fatti che essa era tenuta ad
accertare, e che questi ultimi non siano inficiati dagli esiti del
supplemento dell’istruttoria, da rigettare sia perché manifestamente
incongrua, sia perché fondata su un’erronea applicazione della legge.
Non vi è dubbio, perciò, che il permesso di costruire impugnato sia
illegittimo, poiché in contrasto con il regime delle distanze minime
prescritto dall’art. 9, comma 2, del DM n. 1144 del 1968 (TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 05.03.2021 n. 2763 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
tra edifici: vanno rispettate anche nelle ristrutturazioni?
Se è evidente la violazione delle distanze tra edifici diventa irrilevante
la qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia.
Ergo l’art. 9 d.m. n. 1444/1968, che riguarda esclusivamente le nuove
costruzioni, è inapplicabile (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 05.03.2021 n. 1867 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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1.1. - La censura, nei suoi diversi profili, va respinta.
In merito all’applicabilità dell’evocato art. 9 D.M. 1444 del 1968 e
all’individuazione della nozione di ‘nuova costruzione’, occorre
sottolineare come il mero rinvio all’art. 3, lett. e), del d.P.R. 380 del
2001 non appaia dirimente.
La giurisprudenza, sia amministrativa (da ultimo, Cons. Stato, IV, 08.01.2018, n. 72; id., IV,
02.03.2018, n. 1309) che civile (Cass. civ., II, 15.12.2020, n. 28612; id., II, 28.10.2019, n. 27476; id., II, 10.02.2020, n. 3043) ha evidenziato una tendenziale autonomia del
concetto in ambito civilistico, rimarcando che, ai fini dell'osservanza
delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la
nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve
estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i
caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di
fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal
livello di posa e di elevazione dell'opera (Cons. Stato, IV, 22.01.2013, n. 354).
Nel caso in esame, anche a volersi unicamente fondare sulla relazione
tecnica di parte (che ritiene che nel progetto “vengano riprese, con
modifiche sia interne che esterne, le voci già oggetto della concessione
ormai scaduta. La maggior parte delle opere previste interessano la
copertura con una variazione minima di volume in diminuzione, determinata
dalla compensazione tra volumi in aumento e volumi in detrazione. Le opere
prevedono modifiche statiche solo nell’orditura del tetto, mentre tutte le
strutture portanti dell’edificio non vengono modificate dagli interventi in
progetto”), vengono comunque in evidenza interventi sulla volumetria
dell’immobile. In particolare, come notato dal TRGA, rileva il sollevamento
della falda sul lato nord, dove è prevista la realizzazione di una terrazza,
e quello della falda sul lato sud, dove ci sarà l’innalzamento della
copertura su una parte del prospetto in sostituzione del precedente abbaino,
che era decisamente più ridotto.
In relazione ai singoli elementi progettuali, la violazione delle distanze
appare quindi evidente, essendo così conseguentemente irrilevante la vantata
qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia.
Va inoltre qui vagliata la circostanza che, nel computo complessivo della
volumetria, l’intervento, compensando aumenti e diminuzioni, determina una
complessiva riduzione dell’impatto; il che, a giudizio della parte
appellante, renderebbe l’intervento non significativo anche dal punto di
vista civilistico.
Tuttavia, tale esito appare recessivo di fronte all’esigenza di tutelare le
distanze che, come recita il citato art. 9, sono quelle minime e che quindi
possono essere violate anche solo puntualmente, atteso che il carattere di
nuova costruzione va riscontrato in rapporto ai “caratteri del suo sviluppo
volumetrico esterno” (Cass. civile, II, 15.12.2020, n. 28612).
Conclusivamente sul punto, la censura, che si attaglia sulla dimostrazione
della natura di ristrutturazione edilizia dell’opera, appare superata
dall’esigenza dell’autonoma sussunzione nel concetto di nuova costruzione ai
fini dell’applicazione della disciplina delle distanze legali.
In merito alla censura sull’erronea applicazione della stessa disposizione,
non essendovi pareti finestrate contrapposte, va condiviso l’approccio del
Tribunale, che ha evidenziato come la disposizione regolamentare sia
integrata, a livello locale, dall’art. 1, lett. h), delle Norme di
attuazione al piano urbanistico comunale di Bolzano rielaborate, come
vigenti al momento del provvedimento, che recita:
“h) Distanza tra edifici: è la distanza minima radiale misurata
in proiezione orizzontale tra le pareti più sporgenti degli edifici siti
sullo stesso lotto o su lotti finitimi e/o dalla superficie coperta. Tale
distanza nei fabbricati ad eccezione di fabbricati accessori preesistenti
non può essere inferiore a 10 metri, salvo nel caso di fabbricati con pareti
prive di vedute, come da codice civile.”
È palese che la disposizione comunale introduca strumenti più restrittivi di
calcolo dell’osservanza delle distanze, utilizzando il criterio della
distanza radiale, ossia non solo per gli interventi fronteggianti, ma
valevole in ogni caso in cui la nuova costruzione vada ad intaccare lo
spazio circostante gli edifici preesistenti, come considerato dalla
disposizione comunale. Il che impone di considerare corretta la valutazione
svolta dal primo giudice.
Infine, per quanto riguarda l’applicazione del calcolo radiale, questo è
espressamente citato dalla normativa comunale applicabile; mentre in
relazione alla possibilità che quest’ultima introduca limiti più rigorosi,
va ricordato l’insegnamento di Corte cost., 16.06.2005, n. 232 per cui
“in materia di distanze tra fabbricati, primo principio, fissato in epoca
risalente ma ancora di recente ribadito, è che la distanza minima sia
determinata con legge statale, mentre in sede locale, sempre ovviamente nei
limiti della ragionevolezza, possono essere fissati limiti maggiori.”
Conclusivamente, il motivo di ricorso deve essere integralmente respinto in
tutte le sue sfaccettature. |
EDILIZIA PRIVATA: Quando va osservata la distanza di dieci metri? La distanza di dieci metri dalle pareti finestrate di preesistenti edifici,
prevista dall’art. 9 d.m. n. 1444/1968, va osservata anche quando la nuova
costruzione sia fronteggiata da un balcone che aggetta da una parete in sé
non frontistante.
L’abuso edilizio di per sé non può incidere negativamente sulla
posizione giuridica di chi intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di
edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne
abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla
norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto
che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non
certo le “illiceità edilizie” dei terzi.
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui
nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d.
interesse illegittimo o emulativo.
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata
nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il
proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria
dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non
appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella
relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento
del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al
momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un
sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e
realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui
l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto
condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di
edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a
paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena
il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio
discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con
riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un
immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul
diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non
può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio
rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
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L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per
i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri
tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e
che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere
vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può
fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua,
la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui
la veduta obliqua si esercita.
Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini
pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a
differenti esigenze di tutela.
La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica
sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865,
che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi
confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico
assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente
tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità
all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare
con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire
che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio
cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e
riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche
interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui
appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo
da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una
determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il
fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi
indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il
diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata
unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una
distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente
compressione dell'altrui diritto alla riservatezza.
La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento
edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e
della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma
mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per
l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti.
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono
coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma
è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino
intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un
adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima
fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti
finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico
sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione
luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti
esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e
tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva.
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In ragione della ratio prima
descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra.
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione,
rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete
posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà
Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi
dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti
di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo,
è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le
sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza.
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto
delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e
profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi
costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non
corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione,
per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica
dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per
i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, anche di recente, la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma
non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto
trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le
pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite
di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia
aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia
finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune nel
provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non
costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato
dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici
che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti
addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente
(perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
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Dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei
signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della
signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla
parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone
che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De
Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del
balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che,
ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà
confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si
trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed
indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15
dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una
sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è
servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante,
con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate
fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità
degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una
parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri
perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le
pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una
rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri
perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità,
determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto
della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto)
di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano
l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la
presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo
retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in
esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte
all’altro, anche per obliquo:
a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima
rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti
considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della
misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed
ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare le intercapedini dannose.
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle
facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la
misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate
avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De
Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino
scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del
D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
---------------
11. Le questioni oggetto del presente, articolato, giudizio sono
sostanzialmente tre:
a) la legittimazione dei signori De Fa. ad agire in giudizio per
contestare il titolo edilizio rilasciato alla signora Na.Pa.;
b) la realizzazione della costruzione della signora Pa.in assenza o
in difformità ai titoli abilitativi in precedenza rilasciati, il che, ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 19 del 2009,
escluderebbe la possibilità della realizzazione, con i benefici del c.d.
piano casa, dell’intervento edilizio oggetto del presente giudizio;
c) il rispetto delle distanze minime legali tra i fabbricati.
11.1. L’appellante principale ha dedotto l’insussistenza della
legittimazione all’impugnazione da parte dei signori De Fa., in ragione
dell’abusività dei loto titoli edilizi.
L’insussistenza delle condizioni soggettive dell’azione, peraltro, potrebbe
e dovrebbe anche essere rilevata d’ufficio dal giudice.
11.1.1. La questione assume evidente rilievo in quanto l’abuso edilizio di
per sé non può incidere negativamente sulla posizione giuridica di chi
intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di
edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne
abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla
norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto
che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non
certo le “illiceità edilizie” dei terzi (cfr. Cons. Stato, IV, n.
1874 del 2009, richiamata da Cons. Stato, IV, n. 3968 del 2015).
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui
nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d.
interesse illegittimo o emulativo (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 5 del
2015; n. 9 del 2014).
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata
nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il
proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria
dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non
appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella
relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento
del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al
momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un
sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e
realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui
l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto
condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di
edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a
paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena
il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio
discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con
riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un
immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul
diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non
può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio
rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
11.1.2. Trasponendo tali concetti dal generale al particolare, nella
fattispecie in esame, occorre accertare quale sia la situazione edilizia in
cui versano gli immobili di proprietà dei signori De Fa. fronteggianti
l’immobile della signora Pa. al momento del rilascio a quest’ultimo dal
titolo edilizio in contestazione.
L’immobile si divide in tre unità abitative: l’appartamento posto al secondo
piano (terzo piano fuori terra), di proprietà Salvatore De Fa.;
l’appartamento posto al primo piano (secondo fuori terra), di proprietà Ci.
De Fa.; l’appartamento posto al piano terra (primo piano fuori terra), di
proprietà Ca. De Fa..
Gli immobili posti al piano terra ed al primo piano di proprietà,
rispettivamente, dei signori Ca. De Fa. e Ci. De Fa. sono stati assentiti
con concessioni edilizie in sanatoria rilasciate in data 06.05.2004, ormai
inoppugnabili.
L’immobile posto al secondo piano, di proprietà del signor Sa. De Fa.,
invece, è stato assentito da permesso di costruire in sanatoria rilasciato
in data 18.07.2019, sicché, al momento del rilascio dei titoli contestati ed
al momento della proposizione del ricorso in primo grado, lo stesso
risultava abusivo.
Di contro, gli abusi afferenti la realizzazione sui balconi dei tre piani di
piccole verande, in quanto non “coprenti” l’intera metratura dei
balconi stessi, non assumono rilievo ai fini in discorso.
Infatti, nonostante tali abusi insistano sui balconi da cui occorrerebbe
calcolare le distanze, i piccoli manufatti abusivi, per come si evince dalla
documentazione fotografica versata in atti ed a prescindere dal fatto che
siano stati o meno abusivamente riproposti dopo la loro demolizione, coprono
in piccola parte la superficie dei balconi, i quali, quindi, non hanno perso
le loro caratteristiche essenziali e la loro destinazione d’uso.
Ne consegue che sussiste la legittimazione a contestare l’intervento
edilizio assentito alla signora Pa. atteso che, al momento del rilascio dei
titoli edilizi e della proposizione del ricorso in primo grado, risultavano
comunque assentiti i primi due piani della proprietà De Fa., sicché
potrebbe eventualmente escludersi la legittimazione all’impugnazione da
parte del solo signor Sa. De Fa., proprietario dell’unità immobiliare a quel
momento ancora abusiva, ma tale circostanza non è idonea ad escludere la
complessiva legittimazione alla proposizione del ricorso.
11.2. I signori De Fa., con l’appello proposto in via incidentale, hanno
sostenuto che la signora Palma non avrebbe potuto beneficiare del permesso a
costruire richiesto, in considerazione della causa di esclusione contenuta
nell’art. 3, comma 1, lett. a), della più volte menzionata L.R. Campania n.
19 del 2009.
11.2.1. Il motivo di doglianza non è persuasivo.
11.2.2. L’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 9 del 2009
prevede che gli interventi edilizi di cui agli articoli 4, 5, 6-bis e 7, non
possono essere realizzati su edifici che, al momento della presentazione
della denuncia di inizio di attività edilizia o della richiesta di permesso
di costruire, risultano realizzati in assenza o in difformità al titolo
abilitativo per i quali non sia stata rilasciata concessione in sanatoria.
In proposito, occorre preliminarmente rilevare che l’art. 32 del d.P.R. n.
380 del 2001, al primo comma, determina le variazioni essenziali, disponendo
che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle
seguenti condizioni:
a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli
standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio
da valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del
progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di
pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia
antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Il secondo comma dello stesso articolo, inoltre, indica che non possono
ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità
delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Il provvedimento di convalida, come prima indicato, è stato adottato in
quanto l’Amministrazione ha qualificato non essenziali, ai sensi dell’art.
32 del d.P.R. n. 380 del 2001, le difformità tra lo stato di progetto
dell’originario PdC n. 55 del 2008 e successiva variante e lo stato di fatto
di cui al PdC n. 76 del 2016 e, a tal fine, la convalida ha fatto
riferimento alle relazioni del 23.03.2018 e del 03.04.2018, riguardanti i
sopralluoghi effettuati dal responsabile del procedimento.
In particolare, dal sopralluogo del 30.03.2018, di cui alla relazione del
03.04.2018, è emerso che:
“Per quanto riguarda la verifica del piano seminterrato, riportato nei
grafici progettuali come ‘area non rilevata’, è stato verificato lo stato
dei luoghi rispetto a quanto assentito con il permesso di Costruire n. 55
del 23.10.2008.
In data 30.3.2018 lo stato di fatto presenta una diminuzione della
superficie calpestabile e delle difformità di distribuzione interna e
aperture esterne rispetto al permesso di costruire n. 55/2008, in
particolare è stata ampliata la zona garage ed è stata realizzata a 9,57 m
circa dall’ingresso del garage la parete divisoria con il locale deposito
con annesso wc.
Il primo piano ed il piano secondo sono realizzati in conformità ai grafici
stato di fatto allegati al permesso di costruire n. 76 del 27.12.2016.
Dalla verifica della documentazione agli atti d’ufficio si fa rilevare che
lo stato di fatto del piano primo e del piano secondo riportato nei grafici
allegato al permesso di costruire n. 76/2016 presentano delle difformità in
termini di distribuzione interna e apertura dei vani esterni rispetto a
quanto assentito con il permesso di costruire n. 55/2008”.
Pertanto, il Comune di Volla, ritenuto che il piano seminterrato non ha
cambiato destinazione d’uso e che sono state rilevate difformità in termini
di distribuzione interna e apertura dei vani esterni, ha qualificato come
non essenziali le variazioni.
Tale qualificazione, sulla base della indicata relazione, non appare
irragionevole.
Né, i signori De Fa. hanno specificamente contestato l’esito dei
sopralluoghi svolti dall’Amministrazione comunale, deducendone il
travisamento dei fatti, nemmeno attraverso l’eventuale proposizione di una
querela di falso o con gli altri strumenti di tutela previsti, per cui deve
ritenersi che non abbiano fornito un adeguato supporto probatorio alla loro prospettazione relativa all’avvenuto cambio di destinazione d’uso del piano
seminterrato in abitazione ed alla presenza di altre modifiche in ipotesi
essenziali, in misura tale da sovvertire l’istruttoria e la valutazione
operata dall’Amministrazione.
11.3. La signora Pa., così come il Comune di Volla nel suo appello
incidentale, hanno contestato la statuizione della sentenza impugnata, con
cui è stato ritenuto fondato il motivo di impugnativa relativo alla
violazione delle norme sulle distanze.
11.3.1. Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto:
“Orbene, nella fattispecie che occupa il Tribunale evidenzia come dai
grafici versati in atti e dalle stesse foto corredanti la relazione di
chiarimenti depositata dall’Amministrazione resistente, emerge che il
progetto assentito con gli impugnati titoli edilizi preveda la realizzazione
di un vano scale di nuova costruzione posto in aderenza al muro di confine
con la proprietà dei ricorrenti, nella parte non edificata, il quale risulta
posto ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti dalla parete
frontistante dell’edificio di proprietà di quest'ultimi, costituita da un
prolungamento ad “L” del fabbricato in cui sono inclusi i balconi.
Per quanto sin qui osservato appare evidente che il provvedimento prot. n.
23138 del 31.07.2018, con cui il Comune di Volla, all'esito del procedimento
di autotutela avviato con comunicazione prot. n. 10933 del 06.04.2018, ha
convalidato il permesso a costruire n. 76 del 27.12.2016 e la successiva
SCIA prot. n. 5014 del 13.12.2018 presentata dalla controinteressata, e gli
stessi provvedimenti sottostanti tutti ritualmente impugnati dai ricorrenti,
sono illegittimi quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della
precedente scala esterna scoperta, in quanto tutti fondati sull’erroneo
presupposto che il rispetto della distanza di 10 metri imposta dal D.M. 1444
del 1968 è applicabile unicamente alle pareti che si fronteggiano, che il
balcone non è riconducibile al concetto di parete finestrata e che la
misurazione delle distanze in tale caso deve avvenire in modo lineare e non
radiale.
Le suesposte considerazioni risultano decisive -quanto alla realizzazione
del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta- ai fini
dell’accoglimento del ricorso per come integrato dai primi motivi aggiunti …”.
11.3.2. L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per
i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri
tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e
che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere
vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può
fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua,
la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui
la veduta obliqua si esercita.
11.3.3. Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini
pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a
differenti esigenze di tutela.
11.3.3.1. La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica
sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865,
che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi
confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico
assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente
tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità
all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare
con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire
che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio
cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e
riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche
interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui
appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo
da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una
determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il
fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi
indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il
diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata
unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una
distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente
compressione dell'altrui diritto alla riservatezza (cfr. sentenza della
Corte costituzionale n. 394 del 1999).
11.3.3.2. La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento
edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e
della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma
mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per
l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti (cfr. Corte Cass.
II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834).
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono
coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma
è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino
intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un
adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima
fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti
finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico
sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione
luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti
esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e
tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva (Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1670).
11.3.4. La questione maggiormente problematica che si pone nella fattispecie
in esame, quindi, è quella di verificare se debba trovare applicazione
l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, come ritengono i signori De Fa., o se
non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale norma, come
sostenuto dal Comune di Volla e dalla signora Na.Pa..
Il Collegio ritiene che la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968
sussiste, in quanto la fattispecie concreta rientra nella fattispecie
astratta prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che, in ragione della ratio prima
descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. Civ., II,
ordinanza 19.02.2019, n. 4834 cit.).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione,
rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete
posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà
Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi
dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti
di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo,
è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le
sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (Cfr. Cass. Civ.,
19.09.2016, n. 12828).
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr. Cass. Civ., II, 19.09.2016, n.
12828, che richiama Cass. 17242/2010; 12964/2006; 1556/2005).
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto
delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e
profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi
costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non
corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione,
per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica
dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per
i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono (cfr. Cons. Stato, VI, 10.09.2018, n.
5307, che richiama Cons. Stato, V, 13.03.2014, n. 1272 e Cons. Stato, IV,
21.10.2013, n. 5108).
In proposito, anche di recente (cfr. Cass. Civ., ordinanza 19.02.2019, n.
4834), la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma
non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come
finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto
trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le
pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite
di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia
aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia
finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune di Volla nel
provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non
costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato
dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici
che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti
addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente
(perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
Infatti, dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla
parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della
parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla
parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone
che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De
Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del
balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che,
ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà
confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si
trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed
indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15
dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una
sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è
servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante,
con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate
fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità
degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una
parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri
perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le
pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una
rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri
perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità,
determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto
della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto)
di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano
l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la
presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo
retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in
esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte
all’altro, anche per obliquo (Cass. civ., sez. II, 01.10.2019, n. 24471):
a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima
rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti
considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della
misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed
ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. Civ., sez. II, 25.06.1993,
n. 7048).
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle
facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la
misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate
avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De
Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino
scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del
D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
Ciò è sufficiente ad escludere la fondatezza dei motivi di appello proposti
dalla signora Palma e dal Comune di Volla.
11.3.5. Per altro verso, è da escludere però la contestuale violazione
dell’art. 907 c.c., in quanto i signori De Fa. non hanno dato prova, neppure
presuntiva, di avere acquistato il diritto di avere vedute dirette o oblique
sul fondo vicino (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 04.03.2021 n. 1841 -
link a www-giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le distanze legali previste
dal regolamento edilizio, a fini
pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a
differenti esigenze di tutela.
● La ratio sottesa alla vigente
normativa codicistica sull'apertura
e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva
predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei
proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei
rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente
tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità
all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare
con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire
che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio
cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e
riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche
interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui
appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo
da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una
determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il
fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi
indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il
diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata
unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una
distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente
compressione dell'altrui diritto alla riservatezza.
● La ratio della norma sulle distanze contenute nel
regolamento
edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro
e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma
mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per
l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti.
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono
coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma
è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino
intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un
adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima
fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico
sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione
luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti
esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e
tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva.
---------------
E' irrilevante, ai fini dell’applicazione dell'art.
9 DM 1444/1968, che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra.
Inoltre, rilevato che i balconi della proprietà De Fa. insistono su una
parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della
proprietà Pa., se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze
ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli
sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o
decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi
nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e
funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza.
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto
delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e
profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi
costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non
corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione,
per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica
dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per
i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, anche di recente, la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della
norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto
trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti
munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che
incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola
parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune nel
provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non
costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato
dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici
che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti
addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente
(perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
---------------
Rispetto
a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo:
a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima
rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti
considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della
misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed
ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare le intercapedini dannose.
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle
facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la
misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate
avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
---------------
11.1.2. Trasponendo tali concetti dal generale al particolare, nella
fattispecie in esame, occorre accertare quale sia la situazione edilizia in
cui versano gli immobili di proprietà dei signori De Fa. fronteggianti
l’immobile della signora Pa. al momento del rilascio a quest’ultimo dal
titolo edilizio in contestazione.
L’immobile si divide in tre unità abitative: l’appartamento posto al secondo
piano (terzo piano fuori terra), di proprietà Sa. De Fa.;
l’appartamento posto al primo piano (secondo fuori terra), di proprietà Ci.
De Fa.; l’appartamento posto al piano terra (primo piano fuori terra), di
proprietà Ca. De Fa..
Gli immobili posti al piano terra ed al primo piano di proprietà,
rispettivamente, dei signori Ca. De Fa. e Ci. De Fa. sono stati
assentiti con concessioni edilizie in sanatoria rilasciate in data 06.05.2004, ormai inoppugnabili.
L’immobile posto al secondo piano, di proprietà del signor Sa. De
Fa., invece, è stato assentito da permesso di costruire in sanatoria
rilasciato in data 18.07.2019, sicché, al momento del rilascio dei
titoli contestati ed al momento della proposizione del ricorso in primo
grado, lo stesso risultava abusivo.
Di contro, gli abusi afferenti la realizzazione sui balconi dei tre piani di
piccole verande, in quanto non “coprenti” l’intera metratura dei balconi
stessi, non assumono rilievo ai fini in discorso.
Infatti, nonostante tali abusi insistano sui balconi da cui occorrerebbe
calcolare le distanze, i piccoli manufatti abusivi, per come si evince dalla
documentazione fotografica versata in atti ed a prescindere dal fatto che
siano stati o meno abusivamente riproposti dopo la loro demolizione, coprono
in piccola parte la superficie dei balconi, i quali, quindi, non hanno perso
le loro caratteristiche essenziali e la loro destinazione d’uso.
Ne consegue che sussiste la legittimazione a contestare l’intervento
edilizio assentito alla signora Pa., atteso che, al momento del rilascio
dei titoli edilizi e della proposizione del ricorso in primo grado,
risultavano comunque assentiti i primi due piani della proprietà De Fa.,
sicché potrebbe eventualmente escludersi la legittimazione all’impugnazione
da parte del solo signor Sa. De Fa., proprietario dell’unità
immobiliare a quel momento ancora abusiva, ma tale circostanza non è idonea
ad escludere la complessiva legittimazione alla proposizione del ricorso.
11.2. I signori De Fa., con l’appello proposto in via incidentale, hanno
sostenuto che la signora Pa. non avrebbe potuto beneficiare del permesso a
costruire richiesto, in considerazione della causa di esclusione contenuta
nell’art. 3, comma 1, lett. a), della più volte menzionata L.R. Campania n.
19 del 2009.
11.2.1. Il motivo di doglianza non è persuasivo.
...
11.3. La signora Pa., così come il Comune di Volla nel suo appello
incidentale, hanno contestato la statuizione della sentenza impugnata, con
cui è stato ritenuto fondato il motivo di impugnativa relativo alla
violazione delle norme sulle distanze.
11.3.1. Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto:
“Orbene, nella fattispecie che occupa il Tribunale evidenzia come dai
grafici versati in atti e dalle stesse foto corredanti la relazione di
chiarimenti depositata dall’Amministrazione resistente, emerge che il
progetto assentito con gli impugnati titoli edilizi preveda la realizzazione
di un vano scale di nuova costruzione posto in aderenza al muro di confine
con la proprietà dei ricorrenti, nella parte non edificata, il quale risulta
posto ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti dalla parete frontistante dell’edificio di proprietà di quest'ultimi, costituita da un
prolungamento ad “L” del fabbricato in cui sono inclusi i balconi.
Per quanto sin qui osservato appare evidente che il provvedimento prot. n.
23138 del 31.07.2018, con cui il Comune di Volla, all'esito del procedimento
di autotutela avviato con comunicazione prot. n. 10933 del 06.04.2018, ha
convalidato il permesso a costruire n. 76 del 27.12.2016 e la successiva
SCIA prot. n. 5014 del 13.12.2018 presentata dalla controinteressata, e gli
stessi provvedimenti sottostanti tutti ritualmente impugnati dai ricorrenti,
sono illegittimi quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della
precedente scala esterna scoperta, in quanto tutti fondati sull’erroneo
presupposto che il rispetto della distanza di 10 metri imposta dal D.M. 1444
del 1968 è applicabile unicamente alle pareti che si fronteggiano, che il
balcone non è riconducibile al concetto di parete finestrata e che la
misurazione delle distanze in tale caso deve avvenire in modo lineare e non
radiale.
Le suesposte considerazioni risultano decisive -quanto alla realizzazione
del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta- ai fini
dell’accoglimento del ricorso per come integrato dai primi motivi aggiunti
…”.
11.3.2. L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive,
per i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci
metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e
che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere
vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può
fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua,
la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui
la veduta obliqua si esercita.
11.3.3. Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini
pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a
differenti esigenze di tutela.
11.3.3.1. La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura
e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva
predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei
proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei
rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente
tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità
all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare
con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire
che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio
cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e
riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche
interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui
appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo
da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una
determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il
fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi
indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il
diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata
unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una
distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente
compressione dell'altrui diritto alla riservatezza (cfr. sentenza della
Corte costituzionale n. 394 del 1999).
11.3.3.2. La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento
edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e
della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma
mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per
l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti (cfr. Corte Cass.
II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834).
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono
coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma
è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino
intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un
adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima
fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico
sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione
luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti
esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e
tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva (Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1670).
11.3.4. La questione maggiormente problematica che si pone nella fattispecie
in esame, quindi, è quella di verificare se debba trovare applicazione
l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, come ritengono i signori De Fa., o se
non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale norma, come
sostenuto dal Comune di Volla e dalla signora Na.Pa..
Il Collegio ritiene che la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968
sussiste, in quanto la fattispecie concreta rientra nella fattispecie
astratta prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che, in ragione della ratio prima
descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. Civ., II,
ordinanza 19.02.2019, n. 4834 cit.).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione,
rilevato che i balconi della proprietà De Fa. insistono su una parete
posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà
Pa., se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi
dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti
di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo,
è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le
sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (Cfr. Cass. Civ.,
19.09.2016, n. 12828).
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr. Cass. Civ., II, 19.09.2016,
n. 12828, che richiama Cass. 17242/2010; 12964/2006; 1556/2005).
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto
delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e
profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi
costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non
corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione,
per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica
dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per
i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono (cfr. Cons. Stato, VI, 10.09.2018,
n. 5307, che richiama Cons. Stato, V, 13.03.2014, n. 1272 e Cons. Stato,
IV, 21.10.2013, n. 5108).
In proposito, anche di recente (cfr. Cass. Civ., ordinanza 19.02.2019,
n. 4834), la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della
norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto
trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti
munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che
incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola
parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune di Volla nel
provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non
costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato
dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici
che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti
addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente
(perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
Infatti, dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla
parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della
parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla parete
che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone che, in
quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De Fa.,
quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del
balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che,
ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà
confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si
trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –-secondo quanto dedotto dalla parte ed indicato
nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15 dal corpo
scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una sua
consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è
servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante,
con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate
fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità
degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una parete
non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri
perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le
pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una
rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri
perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità,
determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto
della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto)
di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano
l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la
presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo
retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in
esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte
all’altro, anche per obliquo (Cass. civ., sez. II, 01.10.2019 n.
24471):
a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima
rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti
considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della
misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed
ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. Civ., sez. II, 25.06.1993, n. 7048).
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle
facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la
misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate
avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De
Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino
scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del
D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
Ciò è sufficiente ad escludere la fondatezza dei motivi di appello proposti
dalla signora Pa. e dal Comune di Volla.
11.3.5. Per altro verso, è da escludere però la contestuale violazione
dell’art. 907 c.c., in quanto i signori De Fa. non hanno dato prova,
neppure presuntiva, di avere acquistato il diritto di avere vedute dirette o
oblique sul fondo vicino (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.03.2021 n. 1841 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2021 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Deve
notarsi come l’intervento edilizio (in difformità dal titolo edilizio)
determini un’indebita compromissione delle distanze
legali determinando la violazione di una
norma imperativa.
In simili situazione la giurisprudenza
ritiene sufficiente “il
richiamo
all'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444 che
prescrive la distanza di 10 metri per
l'apertura di finestre antistanti l'edificio
confinante, si fonda sull'interesse pubblico
di impedire la formazione di intercapedini
nocive sotto il profilo igienicosanitario:
trattasi, come ha rilevato la
giurisprudenza, di prescrizione avente
carattere di assolutezza ed inderogabilità,
risultante da fonte normativa statuale,
sovraordinata rispetto agli strumenti
urbanistici locali […], da sola sufficiente
a fondare la legittimità dell'annullamento
del titolo edilizio senza spazio per la
considerazione e la ponderazione di opposti
interessi”.
In ordine al tema della ragionevolezza
del tempo di intervento si osserva come il
richiamo alla ragionevolezza imponga di
verificare con peculiare attenzione se
l’annullamento risponda ancora a un
effettivo e prevalente interesse pubblico di
carattere concreto e attuale anche in
considerazione del complesso delle
circostanze e degli interessi rilevanti.
Inoltre, come autorevolmente insegna
l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
n. 8 del 2017, la locuzione “termine
ragionevole” richiama evidentemente un
concetto non parametrico ma relazionale,
riferito al complesso delle circostanze
rilevanti nel singolo caso.
Nel caso di specie, l’Amministrazione
provvede ad inviare la comunicazione di
avvio del procedimento dieci mesi dopo la
prima S.C.I.A. e cinque mesi dopo la
S.C.I.A. in variante nella quale si prevede, ex aliis, la costruzione della scala
esterna che, come spiegato, viola le
distanze legali. Inoltre, l’Amministrazione
provvede tempestivamente alla sospensione
dei lavori in attesa di effettuare i
necessari approfondimenti istruttori e di
espletare il contraddittorio con le parti
interessate.
Il riscontro della ragionevolezza del
termine per l’esercizio del potere, unito ad
un attivo contraddittorio procedimentale,
permette, inoltre, di escludere che il
privato possa vantare un legittimo
affidamento in merito alla conformità del
suo operato agli strumenti urbanistici che
sia di portata tale da prevalere sugli
interessi pubblici sottesi all’annullamento
di un intervento difforme da norme cogenti,
come quelle dettate in materia di distanze.
Al contrario, risulta prevalente nel caso di
specie: a) l’interesse pubblico alla
rimozione di un’opera che risulta idonea a
creare quelle intercapedini dannose che il
legislatore del 1968 ha voluto assolutamente
evitare; b) l’interesse dei proprietari dei
due immobili limitrofi a sentire annullato
un titolo che determina pregiudizi certi in
ordine al rispetto delle distanze.
---------------
12. Concluso l’esame dei motivi di ricorso
concernenti la violazione delle norme
relative alla conformità del progetto alle
regole edilizie occorre, in primo luogo,
esaminare gli ulteriori profili di censura
contenuti nel quarto motivo di ricorso e
relativi alle dedotte violazioni dell’art.
21-nonies l. n. 241/1990.
12.1. Tali profili di censura, esaminanti in
modo congiunto in quanto intimamente
connessi, sono infondati.
12.2. La previsione in esame condiziona
l’esercizio del potere di secondo grado alla
ricorrenza di tre condizioni: i) sussistenza
di ragioni di interesse pubblico; ii)
ragionevolezza del tempo di intervento; iii)
valutazione degli interessi dei destinatari
e dei controinteressati.
12.3. Le ragioni di pubblico interesse
ricorrono con ogni evidenza nel caso di
specie. Infatti, se l’omessa corresponsione
del contributo non è ex se idonea a
legittimare l’intervento comunale (essendo
relativa all’interesse patrimoniale
dell’Ente e non afferendo, quindi, al
diverso concetto di interesse pubblico),
deve notarsi come l’intervento determini
un’indebita compromissione delle distanze
legali determinando la violazione di una
norma imperativa.
In simili situazione la giurisprudenza
ritiene, del resto, sufficiente “il
richiamo, pure operato dal provvedimento,
all'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444 che
prescrive la distanza di 10 metri per
l'apertura di finestre antistanti l'edificio
confinante, si fonda sull'interesse pubblico
di impedire la formazione di intercapedini
nocive sotto il profilo igienicosanitario:
trattasi, come ha rilevato la
giurisprudenza, di prescrizione avente
carattere di assolutezza ed inderogabilità,
risultante da fonte normativa statuale,
sovraordinata rispetto agli strumenti
urbanistici locali […], da sola sufficiente
a fondare la legittimità dell'annullamento
del titolo edilizio senza spazio per la
considerazione e la ponderazione di opposti
interessi” (Consiglio di Stato, sez. VI,
05.03.2014, n. 1054).
12.4. In ordine al tema della ragionevolezza
del tempo di intervento si osserva come il
richiamo alla ragionevolezza imponga di
verificare con peculiare attenzione se
l’annullamento risponda ancora a un
effettivo e prevalente interesse pubblico di
carattere concreto e attuale anche in
considerazione del complesso delle
circostanze e degli interessi rilevanti.
Inoltre, come autorevolmente insegna
l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
n. 8 del 2017, la locuzione “termine
ragionevole” richiama evidentemente un
concetto non parametrico ma relazionale,
riferito al complesso delle circostanze
rilevanti nel singolo caso.
Nel caso di specie, l’Amministrazione
provvede ad inviare la comunicazione di
avvio del procedimento dieci mesi dopo la
prima S.C.I.A. e cinque mesi dopo la
S.C.I.A. in variante nella quale si prevede,
ex aliis, la costruzione della scala
esterna che, come spiegato, viola le
distanze legali. Inoltre, l’Amministrazione
provvede tempestivamente alla sospensione
dei lavori in attesa di effettuare i
necessari approfondimenti istruttori e di
espletare il contraddittorio con le parti
interessate.
12.5. Il riscontro della ragionevolezza del
termine per l’esercizio del potere, unito ad
un attivo contraddittorio procedimentale,
permette, inoltre, di escludere che il
privato possa vantare un legittimo
affidamento in merito alla conformità del
suo operato agli strumenti urbanistici che
sia di portata tale da prevalere sugli
interessi pubblici sottesi all’annullamento
di un intervento difforme da norme cogenti,
come quelle dettate in materia di distanze.
Al contrario, risulta prevalente nel caso di
specie: a) l’interesse pubblico alla rimozione di un’opera che risulta
idonea a creare quelle intercapedini dannose che il legislatore del 1968 ha
voluto assolutamente evitare; b) l’interesse dei proprietari dei due
immobili limitrofi a sentire annullato un titolo che determina pregiudizi
certi in ordine al rispetto delle distanze
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.02.2021 n. 472 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanza
tra le costruzioni. Deroga volontaria tramite costituzione di una servitù.
Inidoneità di una mera dichiarazione unilaterale.
Al fine di mantenere una costruzione a distanza minore
di quella prescritta dalla legge, non è sufficiente un'"autorizzazione"
scritta unilaterale del proprietario del fondo vicino, che acconsenta alla
corrispondente servitù, essendo, al contrario, necessario un contratto che,
pur senza ricorrere a formule sacramentali, dia luogo alla costituzione di
una servitù prediale, ex art. 1058 cod. civ., esplicitando, in una
dichiarazione scritta, i termini precisi del rapporto reale tra vicini, nel
senso che l'accordo, risolvendosi in una menomazione di carattere reale per
l'immobile che alla distanza legale avrebbe diritto, a vantaggio del fondo
contiguo che ne trae il corrispondente beneficio, faccia venir meno il
limite legale per il proprietario del fondo dominante, che così acquista la
facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente
(massima tratta www.e-glossa.it).
---------------
3.5. Il provvedimento impugnato ha peraltro deciso la questione di diritto
attinente alla violazione delle distanze legali in modo conforme alla
giurisprudenza della Corte di cassazione e l'esame dei motivi di ricorso non
offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa, con
conseguente inammissibilità ex art. 360-bis, n. 1, c.p.c. Una
sopraelevazione, quale quella accertata dai giudici di merito (sopralzo di
55-65 cm del colmo del tetto al confine fra le proprietà: pagine 18 e 19
della sentenza impugnata) deve essere considerata come nuova costruzione e
può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa
sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante.
Una sopraelevazione, comportando sempre un aumento della volumetria e della
superficie di ingombro, non può qualificarsi come risanamento conservativo o
ricostruzione dei volumi edificabili preesistenti, i quali hanno solo lo
scopo di conservarne i precedenti valori (tra le più recenti, Cass. Sez. 2,
05/03/2018, n. 5049).
E' del tutto carente di specificità, ai sensi dell'art. 366, comma 1, n. 4,
c.p.c., il riferimento che i ricorrenti principali fanno al dato della
unicità del corpo di fabbrica, per desumere che le norma di diritto
asseritamente violate, ed in particolare l'art. 21 delle norme tecniche di
attuazione del programma di fabbricazione del Comune di Capo di Ponte,
comunque consentirebbero le costruzioni in aderenza o in accomunamento,
mancando precise argomentazioni intese a dimostrare in qual modo determinate
affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi
in contrasto con l'invocata prescrizione del programma di fabbricazione che
disciplina le distanze nelle costruzioni.
3.6. E' inammissibile altresì la censura relativa al "consenso scritto"
derogatorio, tale da escludere "ogni illegittimità delle opere eseguite".
I ricorrenti principali intendono denunciare errori o vizi
nell'interpretazione del contenuto dell'accordo invocato, ma di tale atto
non viene specificato in ricorso il contenuto, come impone l'art. 366, comma
1, n. 6, c.p.c. Peraltro, per mantenere una costruzione a distanza minore di
quella prescritta dalla legge, non è sufficiente una "autorizzazione"
unilaterale del proprietario del fondo vicino che acconsenta alla
corrispondente servitù, ma è necessario un contratto -essendo inidoneo, per
i diritti reali, un atto ricognitivo- che dia luogo, appunto, alla
costituzione di una servitù prediale, ex art. 1058 c.c., risolvendosi in una
menomazione di carattere reale per l'immobile che alla distanza legale
avrebbe diritto, a vantaggio del fondo contiguo che ne trae il
corrispondente beneficio (arg. da Cass. Sez. 2, 29/04/1998, n. 4353).
Ed allora, per l'esistenza di una valida volontà costitutiva di servitù in
deroga alle distanze delle costruzioni o vedute, pur non occorrendo alcuna
formula sacramentale, è comunque indispensabile che detta volontà sia
deducibile da una dichiarazione scritta da cui risultino i termini precisi
del rapporto reale tra vicini, nel senso che l'accordo faccia venir meno il
limite legale per il proprietario del fondo dominante, che così acquista la
facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente (cfr. Cass. Sez.
3, 29/01/1982, n. 577; Cass. Sez. 2, 14/06/1976, n. 2207; Cass. Sez. 2,
19/06/1984, n. 3630).
Per altro verso, i ricorrenti principali non considerano che, secondo
consolidato orientamento giurisprudenziale, mentre le deroghe pattizie sono
consentite relativamente alle norme sulle distanze di cui all'art. 873 c.c.,
dettate a tutela dei reciproci diritti soggettivi dei singoli, non
altrettanto può dirsi in relazione alle disposizioni regolamentari in
materia di distanze, poiché in tal caso la concessa azione di riduzione in
pristino è volta a mantenere in vita un potere privato, concorrente con
quello amministrativo, idoneo ad assicurare, attraverso la rimozione
dell'opera illegittima, lo stesso risultato pratico perseguibile con i
propri mezzi dalla P.A. e la completa attuazione dell'interesse generale
alla realizzazione del modello urbanistico prefigurato: ciò a maggior
ragione quando la norma regolamentare imponga di calcolare la distanza dal
confine tra i fondi.
Ne consegue che, ove pure il "consenso all'esecuzione del sopralzo"
fosse inteso come esplicitante la volontà delle parti di derogare alle norme
in tema di distanze dal confine contenute nel programma di fabbricazione del
Comune di Capo di Ponte, si tratterebbe comunque di convenzione senz'altro
invalida, trattandosi di norme inderogabili perché non si limitano a
disciplinare i rapporti intersoggettivi di vicinato, ma mirano a tutelare
anche interessi generali (cfr. Cass. Sez. 2, 04/05/2018, n. 10734; Cass.
Sez. 2, 28/09/2004, n. 19449; Cass. Sez. 2, 04/02/2004, n. 2117; Cass. Sez.
2, 23/11/1999, n. 12984; Cass. Sez. 2, 29/04/1998, n. 4353; Cass. Sez. 2,
16/11/1985, n. 5626) (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 12.02.2021 n. 3684). |
EDILIZIA PRIVATA: Le disposizioni che disciplinano l'esercizio dell'attività
edificatoria (come quelle sul calcolo delle distanze e delle altezze,
sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, etc.)
sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel
momento in cui è adottato l'atto applicativo e, dunque, possono essere
oggetto di censura in occasione della relativa impugnazione.
---------------
Come noto, l’art. 8 DM 1444/1968 prevede che: “Le altezze massime degli edifici
per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A):
- per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le
altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di
soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture;
- per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino
ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza
degli edifici circostanti di carattere storico-artistico;
2) Zone B):
- l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli
edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità
fondiaria di cui all'art. 7 (…)”.
L’interpretazione che la giurisprudenza ha costantemente offerto sulla
nozione di “edifici preesistenti e circostanti” è quella che fa riferimento
a una serie ristretta di edifici, identificabili in quelli circostanti, vale
a dire immediatamente limitrofi.
In particolare, è stato affermato al riguardo che “la ratio della norma
richiamata, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e
circostanti”, sia quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o
dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui
al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato
(la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”)
caratteristiche di omogeneità. Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia
prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa
superare l'altezza di quelli “preesistenti circostanti”, il Collegio ritiene
che tale parametro (gli edifici “circostanti”) non può che riferirsi agli
edifici limitrofi a quello costruendo, coerentemente con la ratio della
norma, preordinata ad evitare che fabbricati contigui o strettamente vicini
presentino altezze marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei
gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione”.
---------------
2. Con l’atto introduttivo del giudizio si lamenta, in primo
luogo, che il progetto autorizzato dal Comune consentirebbe l’elevazione
dell’edificato in altezza oltre i limiti consentiti dalle disposizioni
vigenti, e in particolare dall’art. 9, comma 8-bis, L.R. 14/2009, letto in
combinato disposto con l’art. 8 del D.M. 1444 del 1968: si tratta del primo,
del secondo e del quarto motivo di ricorso che è possibile esaminare
congiuntamente.
Si anticipa che il terzo motivo di ricorso non è assistito da alcun
interesse alla relativa disamina, giacché il Comune non ha allegato di aver
fatto applicazione delle norme attuative del cd. secondo piano casa ai cui
si riferisce il motivo di gravame.
Difatti, tanto il Comune di Jesolo quanto la controinteressata, nelle
proprie difese, assumono di aver determinato l’altezza massima in progetto
sulla scorta delle previsioni della delibera del Consiglio comunale di
Jesolo n. 140 del 30.10.2015, che consentivano che l’edificazione
raggiungesse l’altezza prevista anche a prescindere dall’esercizio della
facoltà di deroga alle disposizioni vigenti in materia di altezze prevista
dalla legge sul cd. piano casa.
Difatti, in base alla citata delibera, per
le Z.T.O. del territorio comunale di tipo ‘B’ (ove ricade l’immobile in
oggetto) l’inciso ‘edifici circostanti’ di cui al D.M. 1444/1968 deve essere
interpretato nel senso di edifici ricadenti in un ‘raggio di intorno’ pari a
mt. 200: si assume, in particolare, che nel raggio di 200 mt. dall’immobile
autorizzato con il titolo impugnato esisterebbero edifici di altezza tale da
legittimare le previsioni progettuali.
Nella relazione tecnica allegata all’istanza di rilascio di permesso di
costruire si legge in proposito:
“Il P.R.G. (art. 11 delle N.T.A., Zone B3) prevede che l’altezza massima
degli edifici non potrà superare l’altezza degli edifici preesistenti e
circostanti (nel raggio di 200 ml.). Si considera come edificio
“preesistente e circostante”, avente altezza certa, il fabbricato denominato
Hotel Ancora, distante 137 ml. ad ovest del lotto in oggetto. Tale
fabbricato, allo stato precedente la sopraelevazione autorizzata con
permesso di costruire T-2018-5583 del 30.01.18, ha altezza urbanistica di
ml. 22.60 e altezza massima ml. 25.00.
Edificio in progetto: il fabbricato in progetto avrà altezza urbanistica di
ml. 18.45, inferiore all’altezza massima consentita dal P.R.G.
L’art. 9, comma 8-bis, della L.R. 32/2013 consente inoltre la ricostruzione
del fabbricato in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste
dal D.M. 1444/1968, sino a un massimo del 40% dell’edificio esistente. Tale
norma non viene comunque applicata, poiché l’altezza del fabbricato in
progetto è già nei limiti imposti dal P.R.G.” (cfr. doc. 3 della produzione
Tr. srl).
La citata delibera comunale è stata oggetto di impugnazione tramite ricorso
per motivi aggiunti: dunque, per chiarezza espositiva e per consequenzialità
sul piano logico nella trattazione delle varie questioni da esaminare, giova
prendere le mosse dalla disamina del ricorso per motivi aggiunti, al fine di
stabilire se l’altezza di progetto fosse assentibile sulla scorta della
delibera citata (riservando al prosieguo la disamina dei motivi di censura
proposti con il ricorso introduttivo).
La società controinteressata ha eccepito: l’irricevibilità dell’impugnazione
della delibera nr. 140/2015 per tardiva proposizione del gravame, giacché il
termine di impugnazione dovrebbe farsi decorrere dalla pubblicazione
dell’atto nell’Albo Pretorio; l’irricevibilità perché la censura avrebbe
dovuto proporsi con l’introduzione del giudizio, in quanto dagli atti
progettuali era evincibile il criterio seguito per la determinazione
dell’altezza massima di zona; l’inammissibilità dell’impugnazione,
trattandosi di un atto di indirizzo completamente privo di efficacia
prescrittiva e portata lesiva: analoga eccezione di irricevibilità/inammissibilità
è stata sollevata dal Comune.
Dunque, in primo luogo, si assume che il termine per impugnare la delibera
nr. 140/2015 dovrebbe farsi decorrere dalla relativa pubblicazione nell’albo
comunale: in particolare la controinteressata ha dedotto che l’atto,
riferendosi solo a determinate aree del territorio comunale, era dotato di
immediata portata lesiva e pertanto doveva essere immediatamente contestato
in giudizio.
Giova richiamarsi sul punto al consolidato orientamento giurisprudenziale a
mente del quale le disposizioni che disciplinano l'esercizio dell'attività
edificatoria (come quelle sul calcolo delle distanze e delle altezze,
sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri
procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, etc.)
sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel
momento in cui è adottato l'atto applicativo e, dunque, possono essere
oggetto di censura in occasione della relativa impugnazione (cfr. TAR
Veneto, Sez. II, n. 1368 del 2014).
Non convince l’argomentazione sviluppata dalla parte controinteressata a
mente della quale la delibera gravata, in quanto dettata con riguardo solo a
un’area determinata del territorio comunale avrebbe avuto immediata portata
lesiva, e avrebbe dovuto conseguentemente essere oggetto di immediata
impugnativa: osserva in proposito il Collegio che la regolamentazione sulle
altezze in commento risulta adottata con esclusivo riferimento alla zona B)
del territorio comunale, e più in particolare alle zone B1.2 – B2.1 – B.2.2 –
e B.3 mentre l’immobile della ricorrente ricade in zona C) (cfr. all. 2
della produzione allegata ai motivi aggiunti). In tal senso, non è possibile
individuare una immediata, concreta, portata pregiudizievole della delibera
determinativa dei parametri relativi alle altezze assentibili, rispetto agli
interessi di cui la ricorrente è titolare.
Quanto poi all’eccezione di irricevibilità della censura per essere stata
tale delibera, comunque, citata negli elaborati tecnici consegnati dal
Comune in seguito all’istanza di accesso presentata dalla società Ma.,
parte ricorrente ha dedotto, senza che vi sia stata specifica smentita sul
punto, di non aver esaminato alcun atto in tal senso utile prima della
costituzione in giudizio delle controparti processuali, in quanto non
rientrante tra quelli resi ostensibili dall’ente resistente: tali deduzioni
non sono contraddette dalla documentazione versata in atti.
Infine, è stata eccepita l’inammissibilità del gravame per mancanza di
portata precettiva della delibera in commento, in quanto semplice atto di
indirizzo: anche tale argomentazione non convince (se ne registra, peraltro,
una certa contraddittorietà rispetto a quanto dedotto in ordine alla
immediata portata lesiva della delibera per sostenere la tardività del
gravame).
Con la delibera impugnata, infatti, il Comune resistente, lungi dall’offrire
un semplice indirizzo interpretativo, ha stabilito puntualmente il perimetro
dell’area rilevante ai fini della determinazione dell’altezza massima di
zona, ex art. 8 DM 1444/1968, prevedendo di “stabilire un raggio di intorno
urbano pari a m. 200 ai fini dell’individuazione della fattispecie di
“edifici preesistenti e circostanti” cui fare riferimento al fine della
determinazione dell’altezza massima ammissibile per i fabbricati in
progetto, ai sensi degli articoli 8, 9, 10 e 11 delle norme tecniche di
attuazione del p.r.g.” (cfr. doc. 2 alla produzione allegata ai motivi
aggiunti).
Deve, dunque, procedersi al vaglio dei motivi di gravame articolati avverso
tale delibera.
Ritiene il Collegio che sia fondata la censura con cui parte ricorrente
lamenta la violazione dell’art. 8 DM 1444/1968.
Come noto, tale disposizione prevede che: “Le altezze massime degli edifici
per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A):
- per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le
altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di
soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture;
- per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino
ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza
degli edifici circostanti di carattere storico-artistico;
2) Zone B):
- l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli
edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità
fondiaria di cui all'art. 7 (…)”.
L’interpretazione che la giurisprudenza ha costantemente offerto sulla
nozione di “edifici preesistenti e circostanti” è quella che fa riferimento
a una serie ristretta di edifici, identificabili in quelli circostanti, vale
a dire immediatamente limitrofi (cfr. Tar Lombardia, Sez. II, 14.07.2020, nr.
1576; Tar Calabria, Reggio Calabria, 08.05.2019 nr. 387; Tar Veneto, Sez. II,
08.10.2020, n. 1255).
In particolare, è stato affermato al riguardo che “la ratio della norma
richiamata, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e
circostanti”, sia quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o
dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui
al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato
(la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”)
caratteristiche di omogeneità. Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova
costruzione non possa superare l'altezza di quelli “preesistenti
circostanti”, il Collegio ritiene che tale parametro (gli edifici
“circostanti”) non può che riferirsi agli edifici limitrofi a quello
costruendo, coerentemente con la ratio della norma, preordinata ad evitare
che fabbricati contigui o strettamente vicini presentino altezze
marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei gli assetti
costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (cfr. da ultimo per un
analogo iter argomentativo Cons. Stato n. 4553/2014, n. 3184/2013)” (TAR
Napoli, sez. VII, sentenza n. 4102 del 26.08.2016).
Operate tali premesse, il Collegio ritiene che l’atto gravato, ove ha
stabilito che la nozione di “edifici preesistenti e circostanti” debba
essere intesa come “edifici ricadenti in un raggio di mt. 200”, si ponga in
contrasto con la ratio della disposizione dettata dall’art. 8 in commento,
nell’interpretazione costante che ne è stata offerta, proponendo una lettura
della norma che rischia di contraddirne il fine: si prende, infatti, in
considerazione non solo una gamma ristretta di edifici, e cioè quelli
effettivamente limitrofi, ma anche costruzioni che insistono fino a 200 mt.
di distanza, in via generale e a prescindere dalle concrete caratteristiche
del contesto, in tal modo tradendo la voluntas legis che è quella di
garantire l’omogeneità tra le altezze degli edifici contigui.
Ciò posto, deve ancora osservarsi che il Comune resistente e la società
controinteressata hanno dedotto che le altezze autorizzate sarebbero,
comunque, legittime in virtù della possibilità di fruire della deroga di cui
all’art. 9, comma 8-bis, L.R.V. 14/2009, e dunque a prescindere
dall’applicazione della delibera comunale in commento.
Anche questa argomentazione non coglie nel segno, fondandosi su una
interpretazione non condivisibile delle norme richiamate, come contestato
dalla ricorrente con il primo motivo del ricorso introduttivo: si pretende,
cioè, di applicare l’aumento del 40% dell’altezza dell’edificio oggetto di
ampliamento alle altezze massime di zona ricavate in base all’art. 8 DM
1444/1968.
Ciò costituisce una applicazione errata dell’articolo 9, comma 8-bis, L.R.
14/2009, che recita: “Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione
del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l’obiettivo
prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la
creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell’articolo 2-bis del
D.P.R. n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti
situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi
della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in
materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e
successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell’altezza
dell’edificio esistente”.
Come questo TAR ha già avuto modo di osservare, la norma è chiara
nell’affermare che l’altezza massima consentita in ampliamento -“anche (n.d.r.
cioè, eventualmente) in deroga” alle disposizioni in materia previste dal
D.M. 1444/1968- è pari al 40% dell’altezza dell’edificio esistente, ossia di
quello oggetto di ampliamento.
E’, altresì, chiara nell’affermare che un ampliamento in tale misura può
essere consentito “anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze
previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968”.
La norma è formulata secondo la medesima tecnica normativa utilizzata da
altre disposizioni premiali della medesima Legge, in cui è stabilita la
misura massima dell’aumento dei parametri edilizi degli edifici esistenti,
all’evidente scopo di contemperare le finalità incentivanti con quelle di
contenimento dell’edificato entro limiti predeterminati.
Si tratta di una tecnica che è propria anche della legislazione condonistica,
o di altre normative con finalità incentivanti, in cui sono fissate le
misure degli incrementi massimi, consentendo deroghe ai limiti
ordinariamente previsti per il conseguimento di finalità di altra natura.
In tutte queste ipotesi il legislatore individua un limite massimo di
aumento dei dati stereometrici, eventualmente consentendo di derogare alle
norme urbanistico-edilizie ordinariamente applicabili.
Non vi sono ragioni, pertanto, per forzare il dato letterale della
disposizione fino al punto di interpretarla come se il legislatore avesse
inteso fissare non la misura massima dell’ampliamento in altezza
dell’edificio esistente, ma la misura massima della deroga ammissibile alle
disposizioni del D.M. 1444/1968.
In conclusione, l’altezza massima degli edifici in progetto avrebbe dovuto
essere calcolata aumentando nella misura massima del 40% l’altezza
dell’edificio esistente (cfr. Tar Veneto, II Sez, 08.10.2020 nr. 1254 2020;
Tar Veneto, Sez. II, 24.11.2017, n. 944).
Devono, dunque, ritenersi fondate le censure sviluppate nel ricorso
introduttivo del giudizio e nel primo ricorso per motivi aggiunti,
relativamente all’illegittimità del permesso di costruire quanto alle
altezze autorizzate e della delibera comunale nella parte di interesse (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.02.2021 n. 187 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La distanza di 10 metri nelle nuove costruzioni.
La distanza, nelle nuove costruzioni, di dieci metri dalle pareti finestrate
di edifici frontistanti, prevista dall’art. 9 d.m. n. 1444/1968, va
osservata quantunque l’edificio prospiciente sia abusivo
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.02.2021 n. 2637 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione
dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, degli artt. 872 e 873 c.c. e dei
principi in tema di distanze tra pareti finestrate, in relazione all'art.
360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la
corte d'appello ha ritenuto legittimo l'edificio dell'appellante principale
sul rilievo che, ai fini del calcolo delle distanze, non bisogna tener conto
dei manufatti abusivi.
1.2. Così facendo, infatti, ha osservato il ricorrente, la corte d'appello
ha violato sia il principio per cui la distanza di dieci metri tra pareti
frontestanti deve essere rispettata anche nel caso in cui nella prima
costruzione vi siano abusi edilizi, sia il principio per cui, ai fini
dell'applicazione delle distanze tra pareti finestrate, è sufficiente che le
finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta senza che sia
necessario che insistano nelle parti in cui le pareti effettivamente si
fronteggiano.
1.3. L'applicazione dei predetti principi comporta, ha concluso il
ricorrente, che la concessione edilizia che ha autorizzato l'appellante a
costruire l'edificio sul confine tra i fondi e a distanza di cinque metri
dalla parete finestrata del Lo., è illegittima e deve essere, quindi,
disapplicata, come aveva correttamente ritenuto il tribunale.
...
9.1. Il primo motivo, nei limiti che seguono, è fondato, con
assorbimento di tutti gli altri.
9.2. Questa Corte, infatti, ha avuto più volte modo di affermare che la
natura abusiva della costruzione (preventivamente realizzata) rileva
unicamente nei rapporti con l'amministrazione pubblica e non anche ai fini
del rispetto delle distanze legali (cfr., sul punto, Cass. n. 21354 del
2017, in motiv.).
In effetti, le norme di cui all'art. 872, comma 2°, c.c. in tema di distanze
tra costruzioni nonché quelle che in tale materia sono integrative del
codice civile sono le uniche che consentano, in caso di loro violazione
nell'ambito dei rapporti interprivatistici, la richiesta, oltre che del
risarcimento del danno, anche della riduzione in pristino, a nulla
rilevando, per converso, il preteso carattere abusivo della costruzione
finitima, il suo insediamento in zona non consentita, la disomogeneità della
sua destinazione rispetto a quella (legittimamente) conferita al fabbricato
del privato istante in conformità con le disposizioni amministrative in
materia e la sua insuscettibilità di sanatoria amministrativa, trattandosi
di circostanze che, pur legittimando provvedimenti demolitori o ablativi da
parte della pubblica amministrazione e pur essendo astrattamente idonee a
fondare una pretesa risarcitoria in capo al presunto danneggiato, non
integrano, in alcun modo, gli (indispensabili) estremi della violazione
delle norme di cui agli artt. 873 e SS. c.c. (Cass. SU n. 5143 del 1998).
Nello stesso modo, le disposizioni dettate dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del
1968 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a
prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro
eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute
negli strumenti urbanistici (C.d.S. n. 2086 del 2017, in motiv.).
In effetti, in tema di distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui
la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce
nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi
ai rapporti tra privati, deve essere inteso nel senso che il conflitto tra
proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere
risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive
dell'opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le
quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la
concessione edilizia, perché queste riguardano solo l'aspetto formale
dell'attività costruttiva, con la conseguenza che, così come è irrilevante
la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione
risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle
norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l'aver eseguito
la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non
esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto
del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento
dei danni (Cass. n. 7563 del 2006, la quale ha confermato la sentenza di
merito che aveva accertato la violazione delle distanze da parte del
fabbricato del ricorrente: questi aveva censurato la decisione sostenendo
che i resistenti avevano costruito in assenza di concessione ma la S.C. ha
affermato, conclusivamente, che una volta che il fabbricato sia stato
costruito, anche in assenza di concessione, il secondo frontista, in
osservanza del principio della prevenzione, è tenuto a rispettare la
distanza legale tra gli edifici, a meno che non abbia acquistato in base ad
un titolo valido il corrispondente diritto di servitù; conf., per
l'affermazione dello stesso principio, Cass. n. 10173 del 1998; Cass. n.
10875 del 1997; Cass. n. 4372 del 2002; in seguito, Cass. n. 17286 del 2011;
Cass. n. 4833 del 2019).
9.3. La sentenza impugnata, lì dove ha ritenuto che "gli edifici abusivi
non possono essere tenuti in considerazione nel calcolo delle distanze",
potendosi imporre alla erigenda costruzione il rispetto dei dieci metri solo
se i corpi in questione sono stati legittimamente realizzati, e che, di
conseguenza, nel caso esaminato, a fronte delrabusività delle aperture
praticate dal Lo. nella parete antistante il fabbricato della Pe. ",
quest'ultima non era tenuta all'osservanza della distanza legale di metri 10
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dall'art. 9
del Decreto Ministeriale 1448/1968", non si è, evidentemente, attenuta
ai principi esposti. |
novembre 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: Distanze
tra costruzioni. Quando il regolamento edilizio prevede
distanze superiori rispetto a quelle di cui al codice
civile: conseguenze.
L'esenzione dal rispetto delle distanze
tra costruzioni, prevista dall'art. 878 cod. civ., si
applica sia ai muri di cinta, qualificati dalla destinazione
alla recinzione di una determinata proprietà, dall'altezza
non superiore a tre metri, dall'emersione dal suolo nonché
dall'isolamento di entrambe le facce da altre costruzioni,
sia ai manufatti che, pur carenti di alcuni dei requisiti
indicati, siano comunque idonei a delimitare un fondo ed
abbiano ugualmente la funzione e l'utilità di demarcare la
linea di confine e di recingere il fondo.
---------------
I regolamenti edilizi in materia di
distanze tra costruzioni contengono norme di immediata
applicazione, salvo il limite, nel caso di norme più
restrittive, dei cosiddetti "diritti quesiti" (per cui la
disciplina più restrittiva non si applica alle costruzioni
che, alla data dell'entrata in vigore della normativa,
possano considerarsi "già sorte"), e, nel caso di norme più
favorevoli, dell'eventuale giudicato formatosi sulla
legittimità o meno della costruzione.
Ne consegue la inammissibilità dell'ordine di demolizione di
costruzioni che, illegittime secondo le norme vigenti al
momento della loro realizzazione, tali non siano più alla
stregua delle norme vigenti al momento della decisione,
salvo, ove ne ricorrano le condizioni, il diritto al
risarcimento dei danni prodottisi "medio tempore", ossia di
quelli conseguenti alla illegittimità della costruzione nel
periodo compreso tra la sua costruzione e l'avvento della
nuova disciplina.
---------------
Le Sezioni Unite, chiamate a comporre il contrasto
registratosi nella giurisprudenza di legittimità sulla
questione dell'applicabilità del principio di prevenzione
nell'ipotesi in cui le disposizioni di un regolamento
edilizio locale prevedano esclusivamente una distanza tra
fabbricati maggiore rispetto a quella prevista dal codice,
senza imporre altresì il rispetto di una distanza minima
delle costruzioni dal confine, hanno chiarito che il
principio di prevenzione si applica anche quando le
disposizioni di un regolamento locale prevedano una distanza
minima tra le costruzioni in misura maggiore a quella
codicistica, senza prescrivere altresì una distanza minima
dal confine o vietare espressamente la costruzione in
appoggio o aderenza.
---------------
Vanno annunciati i seguenti princìpi di diritto:
- «In tema di distanze legali
nelle costruzioni, qualora sopravvenga una disciplina meno
restrittiva la costruzione, realizzata in violazione della
normativa in vigore al momento della sua ultimazione, non
può ritenersi illegittima qualora risulti conforme alla
nuova disciplina, non potendosi ordinare la demolizione o
l'arretramento dell'edificio originariamente illecito che
abbia le caratteristiche e i requisiti che ne
consentirebbero la costruzione alla stregua della disciplina
sopravvenuta»;
- «Un regolamento locale che si
limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni superiore
a quella prevista dal codice civile, senza imporre un
distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide
sul principio della prevenzione, come disciplinato dal
codice civile, e non preclude, quindi, al preveniente la
possibilità di costruire sul confine o a distanza dal
confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le
costruzioni, né al prevenuto la corrispondente facoltà di
costruire in appoggio o in aderenza, in presenza dei
presupposti previsti dagli articoli 874, 875 e 877 c.c.»
---------------
8.1 I primi tre motivi del ricorso incidentale sono
infondati.
Come si è detto, la prima questione riguarda la presunta
erronea attribuzione della natura di muro di cinta, esentato
dal rispetto delle distanze, ai sensi dell'art. 878 c.c., al
manufatto posto a confine dei fondi, nonostante il medesimo
manufatto avesse un'altezza superiore ai tre metri.
Sul punto, la sentenza della Corte d'Appello di Napoli è
conforme al seguente consolidato indirizzo di questa Corte
cui il collegio intende dare continuità: «L'esenzione dal
rispetto delle distanze tra costruzioni, prevista dall'art.
878 cod. civ., si applica sia ai muri di cinta, qualificati
dalla destinazione alla recinzione di una determinata
proprietà, dall'altezza non superiore a tre metri,
dall'emersione dal suolo nonché dall'isolamento di entrambe
le facce da altre costruzioni, sia ai manufatti che, pur
carenti di alcuni dei requisiti indicati, siano comunque
idonei a delimitare un fondo ed abbiano ugualmente la
funzione e l'utilità di demarcare la linea di confine e di
recingere il fondo» (Sez. 2, Sent. n. 3037 del 2015,
Sez. 2, Sent. n. 8671 del 2001).
8.2 Le censure che attengono alla presunta erronea
interpretazione della scrittura privata intercorsa tra i
danti causa delle parti per la costruzione del muro, da un
lato, sono inammissibili per difetto di rilevanza, in
quanto, come si legge nella sentenza impugnata, la qualifica
di muro di cinta effettuata dalla Corte d'Appello si è
fondata sulle sue caratteristiche costruttive ed estetiche
come emergenti dalle fotografie agli atti (facce isolate e
doppio spiovente) e sulla conseguente sua funzione oggettiva
di demarcazione del confine (pag. 11 della sentenza
impugnata).
La Corte d'Appello ha accolto il mezzo di gravame anche con
riferimento al motivo relativo all'affermazione del giudice
di primo grado secondo cui, nella convenzione stipulata tra
i danti causa delle parti e con la quale si era pattuita la
costruzione del muro, si era fatto riferimento
inequivocabilmente ad un muro di costruzione. Sul punto la
Corte d'Appello ha ritenuto che dovesse prevalere il
criterio interpretativo che impone la ricerca della reale
intenzione delle parti rispetto al criterio letterale.
L'accoglimento del suddetto motivo di appello ha solo
aggiunto un ulteriore elemento confermativo alla decisione
che comunque si è fondata sulle caratteristiche oggettive
del muro, funzionali alla delimitazione del confine, di qui
l'irrilevanza delle censure che attengono all'erronea
interpretazione della convenzione negoziale.
Inoltre, il ricorrente non censura tale interpretazione per
violazione degli artt. 1362 e ss., sicché le relative
censure sono inammissibili anche sotto questo profilo.
Il ricorrente incidentale asserisce, anche, che il muro è
destinato al contenimento di un terrapieno artificiale e che
non è autonomo in quanto utilizzato per l'appoggio delle due
costruzioni. Ma questi elementi non risultano oggetto della
discussione nel giudizio di merito. La Corte d'Appello, al
contrario, ha rilevato che il muro in questione presenti uno
spessore di 63 cm ed un'altezza di mt. 3,40 dalla proprietà
Giordano e mt. 3,82 dalla proprietà Gi., così escludendo
altre costruzioni in aderenza. Il dislivello tra i due fondi
non implica necessariamente la funzione di contenimento di
un terrapieno e tale circostanza non risulta dedotta nel
giudizio di merito.
9. Deve, dunque, passarsi all'esame del ricorso principale,
in quanto i primi tre motivi sono fondati e
l'accoglimento del primo di essi determina
l'assorbimento del quarto motivo del ricorso
incidentale.
Una volta confermata la natura di muro di cinta del
manufatto posto a confine e ribadito che, ai sensi dell'art.
378 c.c. il muro di cinta (anche se alto più di tre metri)
non si calcola ai fini delle distanze, risulta fondata la
richiesta del ricorrente principale di farsi applicazione
del nuovo regolamento locale che non prevede più una
distanza minima dal confine.
Infatti, secondo l'indirizzo consolidato di questa Corte: "I
regolamenti edilizi in materia di distanze tra costruzioni
contengono norme di immediata applicazione, salvo il limite,
nel caso di norme più restrittive, dei cosiddetti "diritti
quesiti" (per cui la disciplina più restrittiva non si
applica alle costruzioni che, alla data dell'entrata in
vigore della normativa, possano considerarsi "già sorte"),
e, nel caso di norme più favorevoli, dell'eventuale
giudicato formatosi sulla legittimità o meno della
costruzione. Ne consegue la inammissibilità dell'ordine di
demolizione di costruzioni che, illegittime secondo le norme
vigenti al momento della loro realizzazione, tali non siano
più alla stregua delle norme vigenti al momento della
decisione, salvo, ove ne ricorrano le condizioni, il diritto
al risarcimento dei danni prodottisi "medio tempore", ossia
di quelli conseguenti alla illegittimità della costruzione
nel periodo compreso tra la sua costruzione e l'avvento
della nuova disciplina" (Sez. 2, Sent. n. 14446 del
2010).
Occorre quindi cassare la sentenza impugnata, dovendo il
giudice del rinvio verificare se la costruzione posta in
essere da Giordano Sossio rispetti la disciplina sulle
distanze attualmente vigente, tenuto conto del nuovo
regolamento locale e dovendo, a tal fine, altresì verificare
se risultino rispettate le distanze intercorrenti tra volumi
edificati preesistenti.
Le Sezioni Unite, infatti, chiamate a comporre il contrasto
registratosi nella giurisprudenza di legittimità sulla
questione dell'applicabilità del principio di prevenzione
nell'ipotesi in cui le disposizioni di un regolamento
edilizio locale prevedano esclusivamente una distanza tra
fabbricati maggiore rispetto a quella prevista dal codice,
senza imporre altresì il rispetto di una distanza minima
delle costruzioni dal confine, hanno chiarito che il
principio di prevenzione si applica anche quando le
disposizioni di un regolamento locale prevedano una distanza
minima tra le costruzioni in misura maggiore a quella
codicistica, senza prescrivere altresì una distanza minima
dal confine o vietare espressamente la costruzione in
appoggio o aderenza (S.U., Sent. del 19.05.2016 n. 10318).
Si impone pertanto l'accoglimento del primo motivo
del ricorso principale e il giudice del rinvio dovrà fare
applicazione dei seguenti principi di diritto:
- «In tema di distanze legali nelle costruzioni,
qualora sopravvenga una disciplina meno restrittiva la
costruzione, realizzata in violazione della normativa in
vigore al momento della sua ultimazione, non può ritenersi
illegittima qualora risulti conforme alla nuova disciplina,
non potendosi ordinare la demolizione o l'arretramento
dell'edificio originariamente illecito che abbia le
caratteristiche e i requisiti che ne consentirebbero la
costruzione alla stregua della disciplina sopravvenuta»;
- «Un regolamento locale che si limiti a stabilire una
distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal
codice civile, senza imporre un distacco minimo delle
costruzioni dal confine, non incide sul principio della
prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non
preclude, quindi, al preveniente la possibilità di costruire
sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di
quella prescritta tra le costruzioni, né al prevenuto la
corrispondente facoltà di costruire in appoggio o in
aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli
articoli 874, 875 e 877 c.c.» (Corte di Cassazione, Sez.
II civile,
ordinanza 24.11.2020 n. 26713). |
ottobre 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: Le norme di edilizia locale.
In tema di distanze tra edifici, laddove le norme di edilizia locale
prescrivono per le costruzioni distanze maggiori di quelle previste dal
codice civile, fissandole in relazione al confine, le stesse hanno carattere
integrativo della disciplina contenuta nel codice civile.
Ne deriva che la
violazione di tali distanze dà diritto ad ottenere non solo la tutela in
forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al
verificarsi dell’illecito, ma anche quella risarcitoria
(TRIBUNALE di Asti, Sez. I, sentenza 20.10.2020 n. 558 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
luglio 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA:
La costruzione di un porticato non è soggetta al rispetto dei limiti di
distanza tra pareti finestrate di cui all’art. 9, D.M. 1444/1968.
L’art. 9 d.m. 02.08.1968 n. 1444 stabilisce: “Le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee
sono stabilite come segue:…omissis…2) 2) Nuovi edifici ricadenti in altre
zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; …omissis…”.
La ratio della norma è stata ravvisata nell’esigenza di evitare la
formazione intercapedini dannose per la salute.
Orbene alla luce del tenore letterale della disposizione risulta evidente
che il porticato, essendo aperto e non presentando “pareti” esula dal campo
di applicazione della norma.
Il porticato, infatti, non impedisce la circolazione dell’aria e della luce
di talché non appare riconducibile, neppure analogicamente, alla previsione
dell’art. 9 d.m. 1444/1968.
In questo senso si è espressa la giurisprudenza:
- La norma dell'art. 9, comma 1, n. 2, del d.m. 02.04.1968 n. 1444,
secondo la quale per gli edifici di nuova costruzione deve osservarsi la
distanza minima di 10 m. dalle pareti finestrate degli edifici antistanti,
non si applica per analogia quando di fronte all'edificio in costruzione si
trova un portico aperto;
- L'art. 22, comma 3, del regolamento edilizio del comune di
Riposto, il quale ha recepito la disposizione dell'art. 9, comma 1, n. 2),
del d.m. 02.04.1968 n. 1444 (emanato in base alla previsione dell'art. 17 l.
06.08.1967 n. 765) stabilendo una distanza minima di 10 metri da osservarsi
per gli edifici di nuova costruzione dalle pareti finestrate degli edifici
antistanti, non è applicabile per analogia alla diversa situazione di un
portico aperto fronteggiante l'edificio in costruzione.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento dirigenziale dello Sportello Unico
per l’edilizia del Comune di Sanremo 18.01.2018 Prot. n AOO.c_i138.26/01/2018.0006949,
avente ad oggetto diniego di sanatoria ex art. 49 L. Reg. n. 16/2008 per
realizzazione di porticato in ... n. 10,
...
Il ricorso è rivolto avverso un provvedimento di diniego di accertamento di
conformità relativo ad un porticato. Il provvedimento è motivato con il
mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 9 d.m. 02.08.1968 n. 1444 in
relazione alla presenza di una porta e di una porta finestra posta sul
fabbricato antistante.
Il ricorso è fondato
L’art. 9 d.m. 02.08.1968 n. 1444 stabilisce: “Le distanze minime tra
fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come
segue:…omissis…2) 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in
tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti; …omissis…”.
La ratio della norma è stata ravvisata nell’esigenza di evitare la
formazione intercapedini dannose per la salute.
Orbene alla luce del tenore letterale della disposizione risulta evidente
che il porticato, essendo aperto e non presentando “pareti” esula dal
campo di applicazione della norma.
Il porticato, infatti, non impedisce la circolazione dell’aria e della luce
di talché non appare riconducibile, neppure analogicamente, alla previsione
dell’art. 9 d.m. 1444/1968.
In questo senso si è espressa la giurisprudenza.
La norma dell'art. 9, comma 1, n. 2, del d.m. 02.04.1968 n. 1444, secondo la
quale per gli edifici di nuova costruzione deve osservarsi la distanza
minima di 10 m. dalle pareti finestrate degli edifici antistanti, non si
applica per analogia quando di fronte all'edificio in costruzione si trova
un portico aperto (CGA 13.10.1999 n. 450).
L'art. 22, comma 3, del regolamento edilizio del comune di Riposto, il quale
ha recepito la disposizione dell'art. 9, comma 1, n. 2), del d.m. 02.04.1968
n. 1444 (emanato in base alla previsione dell'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765)
stabilendo una distanza minima di 10 metri da osservarsi per gli edifici di
nuova costruzione dalle pareti finestrate degli edifici antistanti, non è
applicabile per analogia alla diversa situazione di un portico aperto
fronteggiante l'edificio in costruzione (Cass. sez. II civile 17.12.1993 n.
12506).
In conclusione il ricorso deve essere accolto
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 24.07.2020 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Distanze
legali: competenze legislative e pianificatorie tra ordinamento civile,
governo del territorio e sussidiarietà verticale nella pronuncia della Corte.
La Corte costituzionale ha respinto le questioni di costituzionalità
sollevate in relazione ad una norma di interpretazione autentica della legge
sul c.d. “piano casa” emanata dalla Regione Veneto nel 2009, in tema
di derogabilità della disciplina delle distanze fissata in sede locale.
In presenza di una previsione che, sul piano strettamente letterale,
escludeva dalle previste deroghe (volte a limitare il consumo di suolo e ad
incentivare la rigenerazione del patrimonio edilizio) la sola “disciplina
statale”, la giurisprudenza si era orientata nel senso di estendere tale
preclusione alla normativa urbanistica locale, assetto che il legislatore
regionale ha in via interpretativa superato con l’impugnata disposizione.
Proporzionalità, adeguatezza rispetto allo scopo voluto dal legislatore,
corretta collocazione della disciplina nell’ambito delle competenze
regionali in tema di governo del territorio, rispetto dei confini con l’”ordinamento
civile” e del principio di sussidiarietà verticale, sono le linee
direttrici della pronuncia che investe un assetto normativo complesso e
articolato che, come è noto, costituisce la risultante di diverse fonti e
che, ancora, ha subito recentemente ulteriori modifiche con il d.l.
16.07.2020, n. 76 (recante “Misure urgenti per la semplificazione e
l’innovazione digitale”).
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Edilizia e urbanistica – Distanze tra fabbricati – Norme della Regione
Veneto – Deroghe ai limiti di distanza tra i fabbricati fissati in sede
locale – Questioni infondate di costituzionalità
Sono infondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 64 della legge della Regione Veneto 30.12.2016, n.
30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017), sollevate, in
riferimento agli artt. 3, 5, 114, secondo comma, 117, commi secondo, lettera
l), e sesto, e 118 della Costituzione (1).
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(1) I. – Con la sentenza in rassegna la Corte costituzionale ha
dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64
della legge della Regione Veneto 30.12.2016, n. 30 (Collegato alla legge di
stabilità regionale 2017), sollevate –in riferimento agli artt. 3, 5, 114,
secondo comma, 117, commi secondo, lettera l), e sesto, e 118 della
Costituzione– con ordinanza del Tar per il Veneto, sezione II,
12.12.2018, n. 1166 (oggetto della News US in data 18.01.2019).
Tale disposizione ha previsto che “Le norme di deroga alle previsioni dei
regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali,
provinciali e regionali di cui all'articolo 2, comma 1, e di prevalenza
sulle norme dei regolamenti degli enti locali e sulle norme tecniche dei
piani e regolamenti urbanistici di cui all'articolo 6, comma 1 della legge
regionale 08.07.2009, n. 14 […] devono intendersi nel senso che esse
consentono di derogare ai parametri edilizi di superficie, volume, altezza e
distanza, anche dai confini, previsti dai regolamenti e dalle norme tecniche
di attuazione di strumenti urbanistici e territoriali, fermo restando quanto
previsto all'articolo 9, comma 8 della medesima legge regionale 08.07.2009,
n. 14 con esclusivo riferimento a disposizioni di emanazione statale.[…]”.
Le ragioni della declaratoria di infondatezza sono –in via di estrema
sintesi– compendiate nelle seguenti argomentazioni:
a) quanto alla invocata piena riconducibilità
della materia delle distanze legali all’”ordinamento civile”, la
disposizione impugnata si è limitata a chiarire i margini di derogabilità
delle distanze disposte dagli enti locali senza tuttavia incidere sulle
distanze di fonte statale, di guisa che essa va correttamente ricondotta
alla potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del
territorio;
b) gli interventi in deroga che la norma (così
come) interpretata consente, da un lato soddisfano interessi pubblici di
dimensione sovracomunale e, dall’altro, non comprimono l’autonomia comunale
oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità;
c) la disciplina regionale non è né
irragionevole, né discriminatoria e, dunque, non dà luogo alla violazione
dell’art. 3 Cost;
II. – La fattispecie esaminata dal Tar Veneto e che ha condotto al giudizio
incidentale di costituzionalità può essere così sintetizzata:
d) l’interessato ha presentato in data 01.12.2016
una denuncia di inizio attività avente ad oggetto la ristrutturazione e
l’ampliamento dell’edificio di sua proprietà, in deroga alla distanza di
cinque metri dai confini prevista dallo strumento urbanistico, in tal modo
usufruendo dei benefici previsti dalla legge regionale sul c.d. “piano
casa” (l.r. 08.07.2009, n. 14), che attribuisce un bonus edificatorio
del 20 per cento anche in deroga agli strumenti urbanistici comunali;
e) il Comune di Altavilla Vicentina ha inibito i
lavori, non ritenendo derogabile, in base alla legge regionale sul piano
casa, la distanza di 5 metri dai confini prevista dall’art. 10, comma 3,
lett. b), delle norme tecniche operative allegate al vigente Piano degli
interventi, con provvedimento che non è stato impugnato dal privato;
f) è poi intervenuta la l.r. 30.12.2016, n. 30,
di interpretazione autentica (art. 64) delle norme sul piano casa,
disponendo che le stesse devono essere interpretate nel senso di derogare
anche alle distanze dai confini previste dai regolamenti e dalle norme
tecniche di attuazione di strumenti urbanistici e territoriali, fermo
restando il rispetto delle distanze previste da disposizioni statali;
g) l’interessato, con riferimento alla
sopravvenuta norma interpretativa, ha chiesto il riesame (ammesso dalla
stessa legge) del diniego opposto dal Comune alla d.i.a. dallo stesso
presentata, ma l’Amministrazione comunale ha respinto l’istanza facendo
riferimento sia alla natura integrativa delle norme locali rispetto agli
artt. 872 e 873 c.c., sia alla possibile illegittimità costituzionale della
legge regionale di interpretazione autentica.
III. – La vicenda oggetto della questione di legittimità costituzionale si
innesta in un assetto normativo molto articolato che la Corte costituzionale
ha ricostruito secondo i seguenti passaggi:
h) le deroghe alle distanze minime di fonte
locale, consentite dalla norma regionale oggetto di censura (art. 64 della
l.r. Veneto n. 30 del 2016) attengono ad interventi di ampliamento e
adeguamento di edifici già esistenti, situati in zona territoriale omogenea
propria (artt. 2 e 3 della l.r. Veneto n. 14 del 2009);
i) la norma di interpretazione autentica prevede
che le deroghe ai parametri di superficie, volume, altezza e distanza (anche
dai confini) vanno riferite anche alla disciplina urbanistica territoriale;
j) per effetto di tale interpretazione, la
clausola di inderogabilità dettata dall’art. 9, comma 8, della l.r. Veneto
n. 14 del 2009, la quale fa “salve le disposizioni in materia di distanze
previste dalla normativa statale vigente”, è stata limitata alla sua
dizione letterale, ossia alla “normativa statale” in senso stretto (e
solo a quella), con l’effetto di ammettere, in via interpretativa, le
deroghe anche alle previsioni di fonte comunale, prima ritenute escluse in
ragione del loro carattere integrativo rispetto alla disciplina del codice
civile;
k) l’impostazione originaria della disciplina del
2009, dichiaratamente (art. 1, comma 1) volta a realizzare finalità di
pubblico interesse quali quelle di preservare, mantenere, ricostituire e
rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente, prevedeva una c.d. riserva
di tutela attraverso la quale i Comuni potevano decidere, “sulla base di
specifiche valutazioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico ed
ambientale” se (o con quali ulteriori limiti e modalità) applicare le norme attuative del medesimo “piano casa”, con conseguente possibilità di rendere
inderogabili i propri strumenti regolamentari in materia;
l) in occasione delle proroghe delle norme
attuative del “piano casa”, tale regime opzionale è stato dapprima ristretto
ed infine abrogato, con conseguente perdita di effetti della c.d. “riserva
di tutela”;
m) sul versante della disciplina statale, il legislatore
perseguendo i su richiamati obiettivi di riduzione del consumo di suolo e di
rigenerazione del patrimonio edilizio esistente, ha:
m1) differenziato il grado di
obbligatorietà delle distanze minime in base alla densità edificatoria della
zona omogenea;
m2) stabilito, con l’art. 5,
comma 1, lettera b-bis), del d.l. n. 32 del 2019, convertito, con
modificazioni, nella l. n. 55 del 2019, che “[l]e disposizioni di cui
all’articolo 9, commi secondo e terzo, del decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, si interpretano nel senso che i limiti di
distanza tra i fabbricati ivi previsti si considerano riferiti
esclusivamente alle zone di cui al primo comma, numero 3), dello stesso
articolo 9”, e quindi alle sole zone omogenee destinate a nuova
edificazione (“zone C”), non anche alle zone totalmente o
parzialmente edificate (“zone B”).
IV. – La declaratoria di infondatezza delle sollevate questioni in tema di
distanze si sviluppa sulla base di quattro direttrici argomentative
articolate come segue:
n) sul piano del riparto di competenze
legislative tra Stato e Regioni:
n1) la giurisprudenza
costituzionale è nel senso che la disciplina delle distanze, che ha la sua
collocazione nel codice civile, attiene in via primaria e diretta ai
rapporti tra proprietari di fondi finitimi, sicché non si può dubitare che
essa, per quanto concerne i rapporti su indicati, rientri nella materia
dell’”ordinamento civile”, di competenza legislativa esclusiva dello Stato;
n2) nondimeno, poiché i
fabbricati insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri
–per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, la disciplina
che li riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio
stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti tra privati e tocca anche
interessi pubblici, la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni,
perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del
territorio;
n3) consegue la necessità di
determinare il punto di equilibrio tra la potestà legislativa esclusiva
dello Stato in materia di ordinamento civile (art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost.) e quella concorrente della Regione in materia di governo
del territorio (art. 117, terzo comma, Cost.);
n4) pertanto:
I) alle Regioni
non è precluso fissare distanze in deroga a quelle stabilite nelle normative
statali;
II) la deroga deve essere giustificata dal perseguimento di
interessi pubblici ancorati all’esigenza di omogenea conformazione
dell’assetto urbanistico di una determinata zona, non potendo la deroga
stessa riguardare singole costruzioni, individualmente ed isolatamente
considerate;
n5) tale delimitazione è stata
codificata dal legislatore statale, il quale, con l’introduzione dell’art.
2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 ad opera dell’art. 30, comma 1, lettera
0a), del d.l. n. 69 del 2013 (convertito, con modificazioni, nella l. n. 98
del 2013), ha sancito i seguenti principi fondamentali:
I) vincolatività,
anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite
dal d.m. n. 1444 del 1968;
II) ammissibilità delle deroghe, solo a
condizione che siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio;
n6) la previsione di una
competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile (art. 117,
comma secondo, lettera l, Cost.) si giustifica in ragione dell’esigenza di
assicurare che i rapporti tra privati siano disciplinati nell’intero
territorio della Repubblica secondo criteri di identità;
n7) una simile esigenza, se è
ravvisabile con riguardo alla disciplina delle distanze quale stabilita
nelle norme statali, certamente non può essere invocata con riferimento alle
discipline locali, che, per quanto integrative del codice civile, sono
destinate ad operare in ristretti ambiti territoriali (esse trovano il loro
fondamento proprio nell’autonomia degli enti locali in un contesto normativo
nel quale ancora non erano state introdotte, con la Costituzione
repubblicana, le autonomie regionali);
n8) una volta riconosciuta alle
Regioni la competenza concorrente in materia di governo del territorio, non
può predicarsi la sussistenza del limite dell’ordinamento civile tutte le
volte in cui, “ferma la disciplina statale delle distanze”, a subire gli
effetti delle leggi regionali siano i regolamenti comunali o le norme
tecniche che prevedano distanze superiori, la cui finalità non è quella di
stabilire criteri uniformi nei rapporti tra privati ma quella di adattare la
disciplina a specifiche esigenze territoriali;
n9) conclusivamente, sotto tali
profili, la disposizione regionale censurata non lede la materia di riserva
statale sul rilievo che essa:
I) nel fornire l’interpretazione autentica
della previgente disciplina, si è limitata, in ragione della forte
oscillazione giurisprudenziale, a chiarire i margini di derogabilità delle
distanze disposte dagli enti locali senza tuttavia incidere sulle distanze
di fonte statale;
II) si rivela ancor più conservativa di quella statale,
poiché: − mantiene cogenti le distanze minime di fonte statale (quindi i tre
metri tra costruzioni ex art. 873 cod. civ. e i dieci metri tra pareti
finestrate ex art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968); − consente la deroga
unicamente per le eventuali (e solo per quelle) “maggiori distanze” di fonte
comunale (nel caso di specie, di cinque metri);
o) sul rapporto tra disciplina delle distanze e
funzioni comunali di pianificazione:
o1) la funzione di pianificazione
urbanistica è tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni, fin dalla
legge 25.06.1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità
pubblica);
o2) lo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario e la
necessità di una pianificazione territoriale sovracomunale non hanno
travolto tale impianto fondamentale, pur tuttavia assoggettandolo a
ineludibili esigenze di coordinamento tra differenti livelli ed istanze;
o3)
nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è
stato fissato dal legislatore statale (art. 14, comma 27, d.l. n. 78 del
2010) tramite la disposizione per cui “sono funzioni fondamentali dei
Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della
Costituzione”, tra le altre, l’“urbanistica ed edilizia di ambito comunale
nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale”, salve le funzioni di programmazione e di coordinamento delle
regioni (id est: quelle “loro spettanti nelle materie di cui all’articolo
117, commi terzo e quarto” Cost. e quelle “esercitate” ai sensi dell’art.
118 Cost.);
o4) il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo
preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la
valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed
edilizia, non assurge a principio così assoluto e stringente da impedire
alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli
strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga
quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti;
o5) tale
affermazione non può non valere anche in tema di distanze degli edifici, nei
limiti in cui la disciplina regionale delle stesse possa ricondursi alla
materia di legislazione concorrente del governo del territorio ex art. 117,
terzo comma, Cost., in quanto una differente interpretazione equivarrebbe a
cristallizzare l’art. 873 cod. civ. ad una fase pre-costituzionale;
p) in relazione alla compatibilità della
disciplina regionale impugnata con il principio di sussidiarietà verticale
ex art. 118 Cost.:
p1) premesso il carattere fondamentale della funzione pianificatoria comunale, la legge regionale va valutata sulla base dei
seguenti elementi, anche ai fini della compatibilità con l’art. 5 Cost.:
I)
ampiezza dell’autonomia comunale in concreto risultante all’esito
dell’intervento legislativo;
II) sussistenza o meno di interessi
sovracomunali ai quali sia correlata la sottrazione di autonomia comunale
che sia stata eventualmente disposta;
III) previsione di compensazioni
procedurali;
IV) ampiezza temporale della riduzione di autonomia;
V)
rispetto del principio di proporzionalità (id est: scopo perseguito dal
legislatore regionale e quindi, in concreto, necessità, adeguatezza e
corretto bilanciamento degli interessi coinvolti);
p2) la legge regionale di
cui trattasi (letta congiuntamente alla precedente disciplina oggetto di
interpretazione autentica) sfugge alle sollevate censure in considerazione
del suo contenuto caratterizzato da:
I) previsione di interventi
quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti, con
precisi limiti oggettivi, ammessi soltanto sugli edifici esistenti;
II)
limitazione temporale coincidente con la durata del “piano casa”;
III)
previsione di una “riserva di tutela” che consentiva ai Comuni nella prima
applicazione del c.d. piano casa di sottrarre i propri strumenti urbanistici
e regolamenti alle deroghe previste dalla legge regionale;
IV) previsione di
interventi in deroga che soddisfano interessi pubblici di dimensione
sovracomunale, assoggettati a specifici limiti;
q) in relazione alla (ancillare) censurata
violazione dell’art. 3 Cost:
q1) la presenza di una valida
base normativa esclude il carattere irragionevole e discriminatorio degli
effetti della prevenzione, dovendosi, diversamente, rilevare come essi si
rivelino “fisiologica conseguenza della priorità temporale della
costruzione, criterio al quale si informa, con i necessari temperamenti, il
sistema del codice civile sui distacchi tra i fabbricati”;
q2) un richiamo all’istituto
della prevenzione si rivelerebbe non pertinente in considerazione che i suoi
effetti costituiscono fisiologica conseguenza della priorità temporale della
costruzione, criterio al quale si informa, con i necessari temperamenti, il
sistema del codice civile sui distacchi tra i fabbricati.
V. – Per completezza si veda:
r) sui limiti derivanti dalla legislazione
statale in materia di governo del territorio nonché sulla individuazione dei
principi fondamentali all’interno del testo unico sull’edilizia:
r1) Corte cost., 15.07.2016, n. 178, cit.;
09.03.2016, n. 49 (in Riv. giur.
edilizia, 2016, I, 8, con nota di STRAZZA e Giur. it., 2016, 2233 (m), con
nota di VIPIANA PERPETUA);
r2) Cons. Stato, Ad. plen., 07.04.2008, n. 2
(in Urbanistica e appalti, 2008, 745, con nota di BASSANI, e Giust. amm.,
2008, 2, 181 (m), con nota di ARDANESE);
s) sulla declinazione dei principi
fondamentali del d.P.R. n. 380 del 2001: Corte cost., 08.11.2017, n.
232 (in Giur. cost., 2017, 2340, con nota di F. SAITTA); 11.05.2017, n.
107 (in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 570); 29.05.2013, n. 101 (in Riv.
giur. edilizia, 2013, I, 525, con nota di GRAZIOSI);
t) sul rapporto tra competenza legislativa
statale e regionale nella disciplina delle distanze tra edifici si rinvia
all’ampia giurisprudenza della Corte costituzionale tra cui in particolare:
t1) Corte cost., 21.02.2020, n. 30 (oggetto della News US in data 13.03.2020) la quale ha
dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale
sollevata in relazione alla disposizione della Regione Veneto (art. 9, comma
8-bis, della legge regionale n. 14 del 2009, come introdotto dalla legge
regionale n. 32 del 2013).
Con tale disposizione è stato previsto, in deroga
ai parametri di cui al d.m. 1444 del 1968, che le altezze degli edifici
soggetti a demolizione e ricostruzione possano essere incrementate sino al
40% dell’edificio esistente;
t2) Corte cost., 07.02.2020, n. 13 (in Foro it., 2020, I,1489 e oggetto della News US in data 21.02.2020) con la quale sono state dichiarate inammissibili, per difetto
di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal
Consiglio di Stato in sede consultiva relative alla deroga delle distanze
legali sancita dalla legge urbanistica n. 12 del 2005 della Regione
Lombardia;
t3) Corte cost., 24.02.2017, n. 41 (in Foro it., 2017, I, 2566);
t4) Corte cost., 03.11.2016, n. 231 (in Foro it. ,2017, I, 2566), citata nella sentenza in
rassegna;
t5) Corte cost., 20.07.2016, n. 185 (in Foro it., 2017, I, 2567), citata nella sentenza in
rassegna;
t6) Corte cost., 15.07.2016, n. 178 (quest’ultima oggetto della News US in data 18.07.2016 e
tutte in Foro it., 2017, I, 2566);
t7) Corte cost., 21.05.2014, n. 134 (in Foro it., 2014, I, 2009);
t8) Corte cost., 23.01.2013, n. 6 (in Foro it., 2013, I, 737, Corriere giur., 2013, 1057, con nota
di BENEDETTI; Giur. cost., 2013, 149, con nota di CHIEPPA; Regioni, 2013,
629, con nota di DI COSIMO; Riv. giur. urbanistica, 2013, 406, con nota di
FARRI);
t9) Corte cost., 21.05.2014, n. 134 (in Foro it., 2014, I, 2009);
t10) Corte cost., 23.01.2013, n. 6 (in Foro it., 2013, I, 737), citata nella sentenza in rassegna;
t11) Corte cost., 16.06.2005, n. 232 (in Giust. civ., 2005, I, 2305);
u) gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza
costituzionale sopra richiamata possono essere così sintetizzati:
u1) non può essere del tutto
esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli
edifici;
u2) l’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio e a una razionale
pianificazione urbanistica circoscrive rigorosamente la competenza
legislativa regionale e ne vincola anche le modalità di esercizio (da
ultimo, Corte cost., 07.02.2020, n. 13, cit.);
u3) la competenza concorrente
in materia di governo del territorio consente di dequotare del tutto il
limite dell’ordinamento civile con previsioni di deroga delle maggiori
(rispetto a quelle “statali”) distanze fissate in sede locale, “tutte le
volte in cui, ferma la disciplina statale delle distanze (minime n.d.r.), ad
essere modificate per effetto di leggi regionali siano le disposizioni dei
regolamenti comunali o delle norme tecniche”;
u4) nel delimitare i
rispettivi ambiti di competenza —statale in materia di “ordinamento civile”
e concorrente in materia di “governo del territorio”— è stato individuato
il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968
(Corte cost., 23.01.2013, n. 6, cit.), ritenuto dotato di particolare
efficacia precettiva e inderogabile, in quanto, tra l’altro, richiamato
dall’art. 41-quinquies l. 1150 del 1942;
u5) in considerazione di ciò:
I) è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga
a quelle minime stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”;
II) le deroghe all’ordinamento civile delle distanze minime tra edifici sono
state consentite “se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio”, poiché “la loro legittimità è strettamente connessa agli
assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non,
invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati”;
v) la possibilità di deroghe da parte del
legislatore regionale di cui all'art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 è oggi
contemplata dall'art. 2-bis, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, introdotto
dall'art. 30, comma 1, d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito, con modificazioni,
dalla l. 09.08.2013 n. 98: le deroghe possono essere previste dal
legislatore regionale soltanto “nell'ambito della definizione o revisione
di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e
unitario o di specifiche aree territoriali”;
w) tale disciplina:
w1) è stata interpretata
restrittivamente dalla Corte costituzionale, che è intervenuta ripetutamente
dichiarando l'illegittimità di disposizioni
regionali che stabilivano distanze inferiori, senza dare rilievo alle
condizioni stabilite dalla legge statale;
w2) è stata modificata
dall’art. 5, comma 1, lett. a), d.l. 18.04.2019, n. 32 ma, successivamente,
tale modifica (al comma 1 dell’art. 2-bis del d. P.R. n. 380 del 2001) non è
stata confermata dalla legge di conversione 14.06.2019, n. 55;
x) il d.l. n. 32 del 2019, nel testo risultante
dalla legge di conversione, ha aggiunto (con l’art. 5, comma 1, lett. b),
all’art. 2-bis del d. P.R. n. 380 del 2001 i commi 1-bis e 1-ter secondo cui
rispettivamente:
x1) “Le disposizioni del
comma 1 sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di
densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani
consolidati del proprio territorio” (comma 1-bis);
x2) “In ogni caso di
intervento di demolizione e ricostruzione, quest'ultima è comunque
consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché
sia effettuata assicurando la coincidenza dell'area di sedime e del volume
dell'edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell'altezza
massima di quest'ultimo” (comma 1-ter);
x3) tale previsione è stata da
ultimo sostituita dall’art. 10, comma 1, lett. a) d.l. 16.07.2020, n. 76
(“Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”) il quale:
I) ha ammesso la “demolizione” e “ricostruzione” di edifici nel rispetto
delle distanze “legittimamente preesistenti” anche “qualora le dimensioni
del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai
fini del rispetto delle distanze minime tra gli edifici e dai confini”;
II) ha ammesso incrementi di volumetria (“incentivi volumetrici”) nel
rispetto delle distanze preesistenti, “anche con ampliamenti fuori sagoma e
con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito”;
III) ha subordinato gli interventi di demolizione e ricostruzione in centro
storico “esclusivamente” alla previa approvazione di piani urbanistici di
recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale,
“fatte salve le previsioni degli strumenti di pianificazione urbanistica
vigenti”;
y) la Corte costituzionale ha affermato (sentenza
24.04.2020, n. 70), con riferimento all’art. 2-bis d.P.R. n. 380 del
2001 (ed in relazione al contenuto anteriore al su richiamato d.l. n. 76 del
2020), che tale previsione assurge al rango di “principio fondamentale”
della materia (e, dunque, a parametro interposto per lo scrutinio di
costituzionalità della disciplina regionale), per le seguenti ragioni:
y1) per la particolare sede
normativa (il t.u. edilizia) “prescelta dal legislatore per l’inserimento
della nuova norma”;
y2) per la connotazione di
“principio fondamentale” dello stesso art. 2-bis del t.u. edilizia, “per ciò
che concerne la vincolatività delle distanze legali stabilite dal d.m. n.
1444 del 1968, «derogabili solo a condizione che le eccezioni siano
«inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio» […], salvo quanto
previsto dall’art. 5, comma 1, lettera b-bis), del d.l. n. 32 del 2019”;
y3) per la circostanza che “Il
comma 1-ter dell’art. 2-bis del t.u. edilizia […] detta evidentemente una
regola unitaria, valevole sull’intero territorio nazionale, diretta da un
lato a favorire la rigenerazione urbana e, dall’altro, a rispettare
l’assetto urbanistico impedendo ulteriore consumo di suolo (come peraltro si
trae dai lavori preparatori della legge di conversione dell’art. 5, comma 1,
lettera b-bis, del d.l. n. 32 del 2019)” (esigenza di unitarietà oggi
confermata dal d.l. n. 76 del 2020, art. 10 comma 1, il quale, con una
correlazione causa-effetto sullo specifico punto –allo stato della
decretazione d’urgenza– non del tutto chiara e definita, fissa l’ulteriore
obiettivo di “semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli
oneri a carico dei cittadini e delle imprese”);
y4) per il contenuto delle
disposizioni del d.P.R. n. 380 del 2001, le quali “integrano «norme dalla
diversa estensione, sorrette da rationes distinte e infungibili, ma
caratterizzate dalla comune finalità di offrire a beni non frazionabili una
protezione unitaria sull’intero territorio nazionale»” (Corte cost., 26.05.2017, n. 125, in Giur. cost., 2017, 1275, con nota di SERGES, TARLI
BARBIERI; Regioni, 2017, 1107, con nota di DI COSIMO);
z) sulla disciplina delle distanze in generale,
tra le tante:
z1) Cons. Stato, sez. IV, 05.02.2018, n. 707 (in Foro it. 2018, III, 2010, con nota di E. TRAVI),
ove si legge che:
I) l’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 sancisce distanze che sono
tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente
il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo
dell'edilizia ed alla protezione della salute dei cittadini (prevenendo la
formazione di intercapedini malsane);
II) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con il
perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto
dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione,
tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema
di distanze, dal codice civile; coerentemente, la disciplina imperativa
sancita dall'art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta le
distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza;
z2) Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017, n. 4337 (in Guida al dir., 2017, 43, 94) secondo cui “La
disposizione contenuta nell'art. 9 d.m. n. 1444 del 1968, che prescrive la
distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha
carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale
predetermina in via generale e astratta le distanze tra le costruzioni, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di
sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse
pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari
degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal
codice civile”;
z3) Cons. Stato, sez. IV, 08.05.2017, n. 2086,
secondo cui “il limite di 10 m. di distanza, di cui al già citato art. 9,
primo comma n. 2. D.M. n. 1444 del 1968, da computarsi con riferimento ad
ogni punto dei fabbricati e non anche alle sole parti che si fronteggiano
[…], presuppone la presenza di due «pareti» che si fronteggiano, delle quali
almeno una finestrata[…]. Più precisamente, la giurisprudenza ha affermato
che il limite predetto presuppone «pareti munite di finestre qualificabili
come vedute»” (nel caso di specie si trattava di impugnazione di un permesso
di costruire finalizzato alla realizzazione, in aderenza al confine tra le
due proprietà, di una sopraelevazione a primo e secondo piano sulla
preesistente casa di abitazione ad un piano terra);
aa) sul riconoscimento, a una previsione
contenuta nel piano regolatore, del carattere di norma integrativa rispetto
alla disciplina dettata dal codice, se dettata in materia di distanze e
quindi tendente a completare, rafforzare e armonizzare il pubblico interesse
ad un ordinato assetto urbanistico (mentre non può considerarsi integrativa
se ha come finalità principale la tutela di interessi generali urbanistici)
cfr.: Cass. civ., sez. II, 23.01.2018 (n. 1616 in Foro it, 2018, I,
2115), Cass. 12.05.2011, n. 10459 (in Giust. civ., 2011, I, 1427, con
nota di CIAFARDINI); Cass. 30.12.1999, n. 14714; Cass. 23.06.1995,
n. 7154; Cass. 30.07.1984, n. 4519; al contrario la Cassazione ha
affermato che la disciplina codicistica delle distanze da osservarsi per
l'apertura delle vedute non è integrabile con le norme dei regolamenti
locali (in tal senso Cass. civ., sez. II, 11.06.2018, n. 15070 in Foro it., 2018, I, 2760 con nota di BONA);
bb) sugli ambiti di autonomia comunale nella
materia pianificatoria:
bb1) Corte cost., 16.07.2019, n. 179 (oggetto
della News US in data 27.08.2019), citata nella sentenza in rassegna;
bb2) sulla titolarità in capo ai comuni dei poteri di pianificazione del
territorio, cfr. Corte cost., 17.07.2017, n. 209 in Riv. giur. edilizia,
2017, I, 819 ed oggetto della News US in data 31.07.2017;
bb3) sui rapporti fra regione
ed ente locale nella formazione dello strumento urbanistico e sulle
conseguenze di carattere processuale, Cons. Stato, sez. IV, 23.12.2010, n. 9375, in Foro it., 2011, III, 330 con nota di CARLOTTI, secondo cui
“è inammissibile il ricorso proposto contro un piano regolatore generale
notificato soltanto al comune adottante e non anche alla Regione che lo
abbia approvato, in considerazione della natura complessa dell'atto
impugnato e del concorso delle volontà di entrambi gli enti territoriali
alla sua formazione definitiva”;
bb4) sulla affermazione secondo
cui le funzioni comunali in materia di programmazione urbanistica non godono
di specifica tutela costituzionale, sebbene i poteri dei Comuni non possano
essere annullati e sia necessario garantire agli stessi forme di
partecipazione ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia cfr. Corte
cost., 26.11.2002, n. 478 in Foro it., 2003, I, 1976, Urbanistica e
appalti, 2003, 289, con nota di DE PAULI, Riv. giur. ambiente, 2003, 515
(m), con nota di MANFREDI; Corte cost., 27.07.2000, n. 378 in Cons.
Stato, 2000, II, 1316, Urbanistica e appalti, 2000, 1183, con nota di
MANFREDI;
cc) sulle leggi regionali di modifica di
precedenti leggi di ampliamento dei casi di possibile deroga alla disciplina
delle distanze tra edifici prevista dal codice civile e integrata dal d.m.
n. 1444 del 1968:
cc1) Corte cost. 24.02.2017 n. 41, cit., citata nella sentenza in rassegna, secondo cui “È
incostituzionale l’art. 8, 1° comma, lett. a), l.reg. Veneto 16.03.2015
n. 4, nella parte in cui consente di derogare alla disciplina statale in
materia di distanze tra gli edifici, limitatamente al riferimento alla lett.
b) dell’art. 17, 3° comma, l.reg. Veneto 23.04.2004 n. 11 ed alle
parole «e degli ambiti degli interventi disciplinati puntualmente»”;
cc2) Corte cost., 03.11.2016, n. 231, cit., secondo cui “È incostituzionale l’art. 6, 6° comma, l.reg. Liguria
07.04.2015 n. 12, nella parte in cui, in tema di distanze
legali tra costruzioni, non affida l’operatività dei suoi precetti a
«strumenti urbanistici», né è funzionale ad un «assetto complessivo ed
unitario di determinate zone del territorio», consentendo la possibilità di
deroga a qualsiasi ipotesi di intervento, quindi anche su singoli edifici”;
cc3) Corte cost., 20.07.2016, n. 185, cit., la quale, tra l’altro:
I) ”dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, 1° comma, lett. g), l.reg. Molise 14.04.2015 n. 7, recante «disposizioni modificative della
l.reg. 11.12.2009 n. 30 (intervento regionale straordinario volto a
rilanciare il settore edilizio, a promuovere le tecniche di bioedilizia e
l’utilizzo di fonti di energia alternative e rinnovabili, nonché a sostenere
l’edilizia sociale da destinare alle categorie svantaggiate e l’edilizia
scolastica)», limitatamente alle parole «, ivi comprese quelle previste
dall’art. 9 d.m. 1444/1968,»”;
II) “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, 1° comma, lett.
i), l.reg. Molise n. 7 del 2015, nella parte in cui non prevede, dopo le
parole «fermo restando quanto stabilito dal codice civile», le parole «e
dall’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968»”;
cc4) Corte cost., 15.07.2016, n. 178 (in Foro it., 2017, I, 2569), citata nella sentenza in
rassegna, secondo cui “È incostituzionale l’art. 10, 1° comma, l. reg.
Marche 13.04.2015 n. 16, nella parte in cui consente di derogare alla
disciplina statale in materia di distanze tra gli edifici, limitatamente
alla modifica dell’art. 35 l.reg. Marche 04.12.2014 n. 33, che ha
sostituito all’espressione originaria «ovvero di ogni altra trasformazione»,
la diversa espressione «e di ogni trasformazione»”;
dd) sulla giurisdizione in tema di distanze
legali:
dd1) Cass. civ., sez. un., 16.12.2016, n. 25978, secondo cui “La pretesa risarcitoria azionata, nei
confronti di un comune, dal privato che si ritenga leso a causa della
mancata demolizione di opere asseritamente abusive, rientra nella
giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di danno provocato non
dalla mancata o illegittima adozione di provvedimenti amministrativi
discrezionali ma dal comportamento materiale con cui l'amministrazione
comunale ha omesso di compiere un'attività vincolata”;
dd2) Cass. civ., sez. II, 21.05.2015, n. 10499, secondo cui “La sentenza pronunziata sulla domanda di actio negatoria servitutis, diretta a denunziare la violazione delle
distanze legali ad opera del proprietario del fondo vicino e ad ottenere
l'arretramento della sua costruzione, ha effetto anche nei confronti
dell'acquirente a titolo particolare della costruzione, che sia stato
parimenti convenuto nel giudizio instaurato contro il suo dante causa, così
assumendo la qualità di parte del processo”;
dd3) Cass. civ., sez. un., 16.06.2014, n. 13673, secondo cui “Le controversie tra proprietari di
fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze
tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del
giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere
valutata incidenter tantum dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del
potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la
domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della p.a. (nella
specie, il comune) per far valere l'illegittimità dell'attività
provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice
amministrativo”;
dd4) Cons. giust. amm. sic.,
sez. giur., 30.05.2013, n. 514 secondo cui “rientra nella giurisdizione
del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto l'impugnazione
di una concessione edilizia che si assume illegittima per violazione delle
norme sulle distanze legali: infatti, tale controversia non inerisce ad un
rapporto di natura privatistica fra proprietari confinanti concernente i
relativi diritti soggettivi, ma attiene al rapporto pubblicistico con l'ente
territoriale ed è intentata a garanzia di una posizione di interesse
legittimo” (in termini, Cons. Stato, sez. VI, 10.09.2018, n. 5307, in
Foro amm., 2018, 1467);
dd5) Cass. civ., sez. un., 15.03.2012, n. 4128, secondo cui “È devoluta alla cognizione del giudice
ordinario l'azione possessoria nei confronti della p.a. (nella specie
concernente l'inosservanza delle distanze legali nelle costruzioni), quando
l'oggetto della tutela invocata, sulla base del petitum sostanziale, sia
riconducibile ad un semplice comportamento di questa che abbia inciso sulla
situazione possessoria e non consista, viceversa, nel sollecitato controllo
di legittimità dell'esercizio del potere che, per effetto di atti o
provvedimenti amministrativi formali, abbia dato causa all'iniziativa di cui
si assume l'illegittimità”; Cass. civ., sez. un., 19.10.2011, n. 21578,
secondo cui “Le controversie tra proprietari, relative alla violazione delle
distanze legali tra le costruzioni o rispetto ai confini, appartengono alla
giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di cause tra privati, anche
quando la violazione denunciata riguardi una costruzione realizzata in
conformità ad una concessione edilizia (eventualmente) illegittima, potendo
il giudice ordinario, cui spetta la giurisdizione vertendosi in tema di
violazione di diritti soggettivi, accertare incidentalmente tale
illegittimità e disapplicare l'atto”;
dd6) Cass. civ., sez. un., 28.11.1976, n. 2846, secondo cui “Ammenoché non sia impugnata nei
confronti dell’amministrazione la licenza di costruzione, rientra nella
cognizione del giudice ordinario la controversia, tra privati, relativa alle
distanze legali tra fondi finitimi, disciplinate da regolamenti edilizi,
anche se l’autorità comunale abbia fatto uso del potere di deroga alle
disposizioni del regolamento edilizio stesso”;
ee) sul tema dell'applicabilità delle distanze
legali ai casi di demolizione con successiva ricostruzione: Cass. civ., sez.
II, 10.01.2019, n. 473 (in Foro it., 2019, I, 2859, con nota di BONA),
secondo cui “Nel caso di demolizione di un edificio con sua successiva
ricostruzione, i balconi aggiunti a quanto originariamente esistente sono
soggetti all'applicazione delle norme sulle distanze legali vigenti
all'epoca della ricostruzione”.
L’autore, con riferimento al rapporto tra la vecchia e la nuova disciplina
dettata dal d.l. n. 32 del 2019, convertito con l. n. 55 del 2019, ha
evidenziato che:
ee1) la giurisprudenza in
materia è riuscita negli anni ad assestarsi su una serie di massime
consolidate (invocate, pur con diversità d'argomenti, sia per le distanze
codicistiche che per quelle previste da norme integrative). I principi erano
fino a ieri questi:
I) occorre distinguere tra nuove costruzioni, alle quali sono applicabili le
distanze legali previste dalle norme vigenti, e ricostruzioni, soggette alla
disciplina applicabile all'edificio originario;
II) si ha ricostruzione
finché si rimane nei limiti preesistenti di altezza, volumetria, sagoma e
area di sedime dell'edificio;
III) per tutto ciò che eccede (e solo per ciò
che eccede) si ha nuova costruzione, soggetta alle distanze legali vigenti,
salva l'applicabilità di norme regolamentari in tema di distanze che si
dichiarino applicabili anche alle ricostruzioni;
ee2) con il d.l.n. 69 del
2013 il legislatore è intervenuto ritoccando l'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001
e facendo rientrare nel concetto di (ristrutturazione con) ricostruzione la
realizzazione di ogni edificio che rispetti la (sola) volumetria di quello
preesistente. La giurisprudenza ha però escluso che la novella incida sui
principî consolidati;
ee3) l'art. 5 d.l. 32 del 2019 ha aggiunto il comma
1-ter all’art. 2-bis d.P.R. n. 380 del 2001, il quale ha fatto riferimento
al rispetto delle “distanze legittimamente preesistenti” ossia quelle
vigenti al momento della costruzione dell'edificio originario e quelle
eventualmente sopravvenute che abbiano reso regolare l'edificio demolito
nonostante originariamente non lo fosse;
II) la ricostruzione non è stata sganciata dal rispetto della sagoma
dell'edificio originario;
ee4) recentemente la Corte
costituzionale (sentenza 24.04.2020, n. 70, cit.), con riferimento alla
norma di interpretazione autentica dell’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 dettata
dall’art. 5, comma 1, lett. b), d.l. n. 32 del 2019 convertito in l. n. 550
del 2019, ha affermato che:
I) sulla base dell’originaria previsione dell’art. 3, comma 1, lettera d),
d.P.R. n. 380 del 2001 “in caso di demolizione, la ricostruzione per essere
tale e non essere considerata una nuova “costruzione” –che avrebbe in tal
caso richiesto un apposito permesso di costruire, e non una mera
segnalazione certificata di inizio attività (artt. 10 e 22 del t.u.
edilizia)– doveva concludersi con la «fedele ricostruzione di un fabbricato
identico», comportando dunque identità di sagoma, volume, area di sedime e
caratteristiche dei materiali”;
II) il successivo d.lgs. n. 301 del 2002 “ha modificato la definizione di
«ricostruzione», eliminando sia lo specifico riferimento alla identità
dell’area di sedime e alle caratteristiche dei materiali, sia il concetto di
«fedele ricostruzione»”;
III) nel 2011, con il comma 9 dell’art. 5 del d.l. n. 70 del 2011
(cosiddetto «decreto sviluppo»), il legislatore ha espressamente autorizzato
le Regioni a introdurre norme di disciplina degli interventi di
ristrutturazione ricostruttiva con ampliamenti volumetrici, concessi quale
misura premiale per la razionalizzazione del patrimonio edilizio,
eventualmente anche con “delocalizzazione delle relative volumetrie in area
o aree diverse”: “in tal modo, il legislatore nazionale ha ammesso deroghe
all’identità di volumetria nell’ipotesi di ristrutturazioni realizzate con
finalità di riqualificazione edilizia. Simile possibilità è stata però
esclusa, dallo stesso legislatore, per una particolare categoria di
manufatti, e cioè per gli «edifici abusivi o siti nei centri storici o in
aree ad inedificabilità assoluta […]» (art. 5, comma 10, del medesimo
decreto)”;
IV) nel 2013, il legislatore è nuovamente intervenuto sull’art.
3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, con l’art. 30, comma 1,
lettera a), del d.l. n. 69 del 2013, c.d. “decreto del fare”, convertito,
con modificazioni, nella l. n. 98 del 2013, che ha qualificato come
«interventi di ristrutturazione edilizia» quelli di demolizione e
ricostruzione «con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve
le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica
nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile
accertarne la preesistente consistenza», fermo che, con riferimento agli
immobili sottoposti a vincoli ex d.lgs. n. 42 del 2004 (“Codice dei beni
culturali”) gli interventi di demolizione e ricostruzione “ristrutturazione
edilizia” soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio
preesistente;
V) “il legislatore statale ha dunque progressivamente
allargato l’ambito degli interventi di ristrutturazione, consentendo di
derogare all’identità di volumetria in caso di ricostruzioni volte alla
riqualificazione edilizia e imponendo il rispetto della sagoma solo per
immobili vincolati”;
VI) “questa tendenza si è arrestata, nel 2019, con
l’art. 5, comma 1, lettera b), del d.l. n. 32 del 2019 (cosiddetto decreto
«sblocca cantieri»), che ha inserito il comma 1-ter all’art. 2-bis del t.u.
edilizia, così imponendo, per la ristrutturazione ricostruttiva, il
generalizzato limite volumetrico (a prescindere, dunque, dalla finalità di
riqualificazione edilizia) e il vincolo dell’area di sedime […]”;
ee5) con il d.l. n. 76 del 2020
il legislatore ha previsto:
I) la possibilità di demolizione e ricostruzione “anche qualora le
dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime”;
II) il “riconoscimento” di incentivi volumetrici;
III) l’ammissibilità di “ampliamenti fuori sagoma” e del “superamento
dell’altezza massima dell’edificio demolito”;
ff) sul tema del rapporto tra nozione di
demolizione e costruzione e specifici ambiti della disciplina in tema di
distanze, si vedano anche:
ff1) Cons. Stato, sez. IV, 05.02.2018, n.
706, (in Foro it., 2018, III, 211), secondo cui “Il riscontro oggettivo
dell'inosservanza dei limiti di distanza tra edifici stabiliti dall'art. 9 d.m.
02.04.1968 n. 1444 comporta l'illegittimità del permesso di
costruire, indipendentemente dalla circostanza che tale inosservanza cagioni
anche pregiudizi di ordine igienico o sanitario” (nella specie,
l'inosservanza dipendeva dalla sporgenza dei balconi);
gg) sulla norma di
interpretazione autentica dell’art. 9, commi secondo e terzo, d.m. n. 1444
del 1968:
gg1) T.a.r. per la Liguria, sez., II,
05.06.2020, n. 354,
secondo cui la disposizione di cui all'art. 5 comma 1, lett. b-bis), del d.l.
n. 32 del 2019 non opera allorché “l'intervento […] ricade infatti in zona
equiparabile ad una zona «B», per la quale l'art. 9, comma 1, n. 2), del d.m.
n. 144 del 1968 -non fatto oggetto di interpretazione «autentica» da parte
del d.l. n. 32 del 2019- continua a prescrivere «in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti»”;
gg2) è stato affermato in dottrina (A. TOMASSETTI, “Dal
01.09.2019 nasce la Spa in house «Italia Infrastrutture»”, in Guida al
dir., 2019, 33, 92 ss.) che la citata nuova lettera b-bis) del comma 1 reca
una norma di interpretazione autentica in forza della quale le disposizioni
di cui all’articolo 9, commi 2 e 3, del d.m. n. 1444 del 1968, devono
leggersi nel senso che:
I) i limiti di distanza tra i fabbricati ivi previsti si considerano
riferiti esclusivamente alla zona di cui al primo comma, n. 3), dello stesso
articolo 9;
II) tale disposizione è dunque riferita “esclusivamente ai fabbricati
ubicati nelle zone territoriali omogenee rappresentate dalle parti del
territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultino inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non raggiunga i limiti
di superficie e densità delle parti del territorio interessate da
agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di
particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, con esclusione pertanto
dell’applicazione dei predetti limiti di distanza nelle altre zone
territoriali omogenee”;
III) la riduzione in via di interpretazione autentica dell’ambito di
applicazione dei limiti di distanza tra fabbricati “sembra, pertanto,
finalizzata a consentire operazioni di rigenerazione urbana -in particolare
nelle zone A) e B) come definite dall’articolo 2 del d.m. 1444/1968- non
sottoposte al rispetto delle distanze minime previste in via generale
dall’articolo 9 del d.m. 1444/1968”;
gg3) ancora, è stato
evidenziato (C. BONA, “Il d.l. 18.04.2019, n. 32: distanze legali,
ragioni dell’economia, ragioni dell’ambiente”, cit.) in relazione alla
medesima disposizione che:
I) “le vere questioni sono di diritto
intertemporale”;
II) la disposizione, fermo restando il giudicato già
formatosi sulla questione della distanza, è da ritenere applicarsi “anche
agli immobili già realizzati, quand'anche ne sia stata denunciata
l'irregolarità in un'azione petitoria o possessoria. Ciò non per il
tradizionale principio di retroattività delle leggi interpretative […],
quanto per il fatto che è lo stesso legislatore, «autodefinendo» la norma di
interpretazione autentica, a renderla operativa anche per il passato (il
legislatore manifesta la sua preferenza, nel conflitto, per l'interesse
tutelato dalla norma novellata)”;
hh) su specifici profili processuali in tema di
distanze legali:
hh1) Cons. Stato, sez. IV., 05.02.2018, n. 707 (in Foro it., 2018, III, 210) secondo cui “Nel
giudizio promosso contro un permesso di costruire, il ricorso è
inammissibile per carenza d'interesse, quando l'annullamento del permesso
non arrecherebbe alcun vantaggio all'interesse sostanziale del ricorrente”
(nella specie, il permesso di costruire impugnato aveva riguardato la
realizzazione di una scala esterna addossata a un muro, in violazione delle
distanze dal confine di proprietà prescritte dal piano regolatore, ma il
muro, che era preesistente, risultava già a sua volta a una distanza
inferiore a quella legale);
hh2) Cons. Stato, sez. IV, 03.08.2016, n. 3510, secondo cui:
I) “Le distanze previste dall'art. 9 cit.,
[…] sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con
la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi
alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
all'uopo predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile”;
II) “Ne consegue che il soggetto che invoca, innanzi al giudice ordinario,
il rispetto delle disposizioni del codice civile a tutela di un suo diritto
reale, fonda la propria legittimazione ad agire in giudizio sulla propria
posizione giuridica di diritto soggettivo (reale) e l'attività edilizia
assunta come illecita costituisce lesione di quel suo diritto, tale da
rendere attuale l'interesse ad agire in giudizio”;
III) “In tal caso, sia la
verifica delle condizioni dell'azione sia la verifica della violazione delle
norme del codice civile (in particolare in tema di distanze) ha come fulcro
il diritto reale di chi agisce in giudizio per la sua tutela, proprio perché
a quest'ultima esse sono funzionali”;
IV) “Diversamente, il soggetto che -non già innanzi al giudice ordinario,
bensì innanzi al giudice amministrativo- invoca l'illegittimità del titolo
edilizio rilasciato dall'amministrazione pubblica, poiché rilasciato in
violazione delle prescrizioni del d.m. n. 1444 del 1968 in tema di distanze,
richiede che il giudice verifichi la legittimità dell'atto in quanto
(potenzialmente) adottato in violazione di una norma di diritto pubblico,
posta a tutela dell'interesse pubblico, e della quale egli si giova ad
indiretta tutela della sua posizione giuridica soggettiva di interesse
legittimo”;
V) “Ne consegue che, in questo secondo caso, le condizioni dell'azione si
presentano in modo affatto differente rispetto a quanto si pone innanzi al
giudice ordinario”;
VI) “Ed infatti, in questo caso, […] l'interesse ad agire, volto ad ottenere
l'annullamento del provvedimento impugnato, si collega non già ad una
posizione di diritto soggettivo (reale) leso, bensì all'interesse pubblico
tutelato dalla norma, dal rispetto della quale discende (anche) la tutela di
proprie situazioni giuridiche soggettive, non necessariamente limitate al genus dei diritti reali”;
VII) “Pertanto, il giudice amministrativo, nell'esaminare i motivi di
ricorso con i quali si prospetta la violazione della norma sulle distanze di
cui all'art. 9 cit., deve: − quanto alle condizioni dell'azione, verificare
la sussistenza di un "collegamento" stabile e giuridicamente apprezzabile
tra il ricorrente e l'immobile sul quale si realizzerebbe la costruzione, in
virtù del provvedimento impugnato, collegamento che può risultare anche (ma
non solo) dalla titolarità di un diritto reale, ma che non è limitato dalla
presenza e dalla lesione di questo (e ciò rileva, in particolare, per la
verifica della sussistenza dell'interesse ad agire); − quanto al merito,
verificare se il provvedimento impugnato risulti adottato in violazione
della norma di diritto pubblico in tema di distanze, nel senso che il nuovo
manufatto si ponga in contrasto con le finalità di tutela dell'interesse
pubblico al quale la norma è teleologicamente orientata”;
hh3) Cass. civ., sez. II, 28.04.2016, n. 8468, secondo cui “Qualora uno dei coniugi, in regime di
comunione legale dei beni, abbia da solo acquistato o venduto un bene
immobile oggetto della comunione, il coniuge rimasto estraneo alla
formazione dell'atto è litisconsorte necessario in tutte le controversie in
cui si chieda al giudice una pronuncia che incida direttamente e
immediatamente sul diritto, sicché l'azione volta alla rimozione o comunque
all'arretramento a distanza legale di opere assunte come abusivamente
eseguite va proposta nei confronti di entrambi i coniugi, ancorché non
risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né il regime di
comunione, né l'esistenza del coniuge, non trattandosi di questione
concernente la circolazione dei beni e l'anteriorità dei titoli, bensì di
azione reale”;
hh4) Cass. civ., sez. II, 14.01.2016, n. 458, secondo cui “Il proprietario del fondo danneggiato da
opere eseguite sul fondo del vicino, in violazione delle distanze legali,
può esperire, oltre all'azione risarcitoria, di natura obbligatoria, quella
ripristinatoria, di natura reale, ex art. 872 c.c.; la prima, mirando al
ristoro del pregiudizio patrimoniale conseguente all'edificazione
illegittima, è esercitabile anche nei confronti dell'autore materiale di
questa mentre la seconda, volta all'eliminazione fisica delle modifiche
apportate sul fondo contiguo, va necessariamente proposta nei confronti del
proprietario della costruzione, anche se materialmente realizzata da altri,
potendo egli soltanto essere destinatario dell'ordine di demolizione che il
ripristino delle distanze legali tende ad attuare”;
hh5) Cass. civ., sez. II, 08.01.2016, n. 144, secondo cui “In tema di distanze fra le costruzioni,
incombe a colui che chiede l'arretramento del fabbricato altrui, sul
presupposto della preesistenza della propria costruzione, l'onere della
prova di avere costruito per primo”;
hh6) Cass. civ., sez. II, 04.09.2015, n. 17602, secondo cui “L'azione reale volta al rispetto della distanza
legale tra le costruzioni deve essere proposta nei confronti dell'attuale
proprietario della costruzione illegittima, atteso che solo costui può
essere destinatario dell'ordine di demolizione che tale azione tende a
conseguire, a nulla rilevando che la costruzione sia stata iniziata o
eseguita da un precedente proprietario, nei cui confronti non potrebbe
comunque essere ordinata la demolizione, né potendo, tale circostanza,
incidere sulla causa petendi dell'azione proposta, che è costituita
dall'appartenenza all'attuale proprietario del fabbricato posto a distanza
illegale a prescindere dalla concreta individuazione dell'autore materiale
delle opere realizzate”;
hh7) Cass. civ., sez. II, 21.05.2015, n. 10499,
secondo cui “La sentenza pronunziata sulla domanda di actio negatoria
servitutis, diretta a denunziare la violazione delle distanze legali ad
opera del proprietario del fondo vicino e ad ottenere l'arretramento della
sua costruzione, ha effetto anche nei confronti dell'acquirente a titolo
particolare della costruzione, che sia stato parimenti convenuto nel
giudizio instaurato contro il suo dante causa, così assumendo la qualità di
parte del processo, senza che la mancata trascrizione della domanda
giudiziale a norma dell'art. 2653, n. 1 o n. 5, c.c. conferisca al medesimo
acquirente il diritto di mantenere la distanza inferiore a quella legale”;
hh8) Cass. civ., sez. II, 15.05.2015, n. 10005, secondo cui “In forza dell'art. 2909 c.c., nel caso
di azioni a difesa della proprietà come quella relativa al rispetto delle
distanze legali, la sentenza pronunciata contro l'originaria parte
processuale spiega suoi effetti anche nei confronti del successore a titolo
particolare che abbia partecipato al processo a prescindere dalla
trascrizione della domanda, atteso che l'art. 111, 4º comma, c.p.c. riguarda
solo il terzo che abbia acquistato il diritto controverso durante la
pendenza della lite e che non abbia partecipato al processo”;
hh9) Cass. civ.,
sez. II, 22.10.2014, n. 22466, secondo cui “L'usufruttuario non è
legittimato a proporre opposizione di terzo ordinaria, ai sensi dell'art.
404, 1º comma, n. 1 c.p.c., contro la sentenza di condanna all'arretramento
del fabbricato realizzato a distanza irregolare che sia stata pronunciata
nei confronti del solo proprietario del bene, poiché non è titolare di un
diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione giuridica
risultante dalla decisione resa tra altre parti”;
hh10) Cass. civ., sez. II,
15.04.2014, n. 8731, secondo cui “L'azione di manutenzione possessoria
tutela il potere di fatto sulla cosa e non il corrispondente diritto reale,
sicché la violazione delle distanze legali tra costruzioni può essere
denunciata ex art. 1170 c.c. solo quando abbia determinato un'apprezzabile
modificazione o limitazione dell'esercizio del possesso”;
hh11) Cass. civ., sez. II, 18.07.2013, n. 17635, secondo cui “In tema di violazione delle distanze tra
costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello
stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante
compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della
situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria
relativa al danno subito per effetto dell'abusiva imposizione di una servitù
sul proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, danno
che, consistendo in una diminuzione temporanea del valore della proprietà, è
destinato a cessare una volta ripristinato lo stato dei luoghi nelle
condizioni antecedenti alle suddette violazioni”;
ii) sul rapporto tra istituto del condono
edilizio e rispetto della disciplina delle distanze: Cons. Stato, sez. II,
12.03.2020, n. 1766, secondo cui “Il fatto che l'immobile sia posto a
distanza dal confine inferiore a quella minima prevista dalla disciplina
regolamentare edilizia, non può, di per sé, impedire il condono, restando
naturalmente salvo l'interesse di entrambi i proprietari frontisti di far
valere il diritto al rispetto delle distanze davanti al giudice ordinario, a
tutela del diritto di proprietà, poiché, pur in presenza di un provvedimento
di condono (nella specie, usufruito da entrambi i proprietari frontisti), il
proprietario del fondo contiguo, leso dalla violazione delle norme
urbanistiche o delle distanze legali, in presenza dei relativi presupposti
ha comunque il diritto di chiedere ed ottenere l'abbattimento o la riduzione
a distanza legale della costruzione in ipotesi illegittima”;
jj) sulla valenza integrativa, in tema di
distanze, dei regolamenti locali:
jj1) Cass. civ., sez. II, 16.07.2015, n. 14915 (in Vita not., 2015, 1283), secondo cui “In tema di
distanze delle costruzioni dal confine, le norme di un regolamento edilizio
e dell'annesso programma di fabbricazione sono efficaci e possono applicarsi
nei rapporti tra privati solo dopo che siano state adottate dal consiglio
comunale, approvate della giunta regionale e portate a conoscenza dei
destinatari mediante pubblicazione da eseguirsi con affissione all'albo
pretorio, essendo tale pubblicazione condizione necessaria per l'efficacia e
l'obbligatorietà dello strumento urbanistico, senza possibilità di efficacia
retroattiva dalla data di approvazione da parte dell'organo regionale,
rimanendo, nel frattempo, applicabile la disciplina in materia di distanze
dettata dal codice civile”;
jj2) Cass. civ., sez. un., 24.09.2014, n. 20107 secondo cui “In tema di distanze legali, le norme
degli strumenti urbanistici integrano la disciplina dettata dal codice
civile nelle materie regolate dagli art. 873 e seg. c.c., ove tendano ad
armonizzare l'interesse pubblico ad un ordinato assetto urbanistico del
territorio con l'interesse privato relativo ai rapporti intersoggettivi di
vicinato sicché vanno incluse in tale novero le disposizioni del piano
regolatore generale dell'ente territoriale che stabiliscano la distanza
minima delle costruzioni dal confine del fondo e non tra contrapposti
edifici”;
kk) sulle modalità di calcolo delle distanze:
Cass. civ, sez. II, 27.05.2016, n. 11049 (in Foro it., 2016, I, 3541);
ll) sulla nozione di edifici “circostanti”,
“confinanti” e “limitrofi”, ai fini della valutazione delle altezze
ammissibili: Cons. Stato, sez. IV, 09.09.2014, n. 4553; mm) sul
principio di prevenzione:
mm1) Cass. civ., sez. II, 25.07.2016, n. 15298 secondo cui “In caso di successione nel tempo di norme
edilizie, la valutazione del carattere restrittivo dello ius superveniens va
effettuata non in astratto, ma in concreto, verificando le conseguenze che
all'edificante derivano dall'applicazione della nuova disciplina, sicché
quest'ultima, ove escluda il principio della prevenzione imponendo una
distanza dal confine, non si applica al convenuto che ne risulti costretto
ad arretrare il fabbricato”;
mm2) Cass.civ., sez. un., 19.05.2016, n. 10318 (in Nuova giur. civ., 2016, 1294, con nota di SIGNORI)
secondo cui “Un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza
tra le costruzioni superiore a quella prevista dal codice civile, senza
imporre un distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide sul
principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non
preclude, quindi, al preveniente la possibilità di costruire sul confine o a
distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le
costruzioni, né al prevenuto la corrispondente facoltà di costruire in
appoggio o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli art. 874,
875 e 877 c.c.”;
mm3) Cass. civ., sez. II, 21.10.2015, n. 21455 (in Mass., 2015, 704), secondo cui “In tema di
distanze legali, nell'ipotesi in cui il proprietario preveniente abbia
realizzato la sua costruzione ad una distanza dal confine inferiore a quella
prescritta dai regolamenti locali e lo strumento urbanistico consenta al
confinante che costruisce per primo di spingere il proprio fabbricato sino
al confine del fondo contiguo non edificato, la situazione di illegittimità
può essere rimossa, in via alternativa, mediante arretramento della
costruzione fino alla distanza regolamentare ovvero con il suo avanzamento
fino al confine”;
mm4) Cass. civ., sez. II, 06.11.2014, n. 23693 (in Vita not., 2015, 330), secondo cui “Il criterio
della prevenzione, previsto dagli art. 873 e 875 c.c., è derogato dal
regolamento comunale edilizio allorché questo fissi la distanza non solo tra
le costruzioni, ma anche delle stesse dal confine, salvo che lo stesso
consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio, nel qual caso
il primo costruttore ha la scelta tra l'edificare a distanza regolamentare e
l'erigere la propria fabbrica fino ad occupare l'estremo limite del confine
medesimo, ma non anche quella di costruire a distanza inferiore dal confine,
poiché detta prescrizione ha lo scopo di ripartire tra i proprietari
confinanti l'onere della creazione della zona di distacco”;
nn) sul risarcimento da violazione delle
distanze:
nn1) Cass. civ., sez. II, 11.09.2013, n. 20849, secondo cui “In tema di rapporti di vicinato,
l'originaria abusività di un immobile per difformità dalla concessione,
oggetto di successiva sanatoria, non osta al risarcimento del danno allo
stesso cagionato da una illecita costruzione su terreno confinante, atteso
che l'immobile sanato, non essendo più incommerciabile, è in grado di
risentire della correlata diminuzione di valore commerciale”;
nn2) Cass. civ., sez. II, 26.07.2013, n. 18119, secondo cui “In materia di distanze nelle
costruzioni, qualora subentri una disposizione derogatoria favorevole al
costruttore, si consolida -salvi gli effetti di un eventuale giudicato
sull'illegittimità della costruzione- il diritto di quest'ultimo a
mantenere l'opera alla distanza inferiore, se, a quel tempo, la stessa sia
già ultimata, restando irrilevanti le vicende normative successive, fermo,
peraltro, il diritto del vicino al risarcimento del danno subìto nel periodo
tra l'edificazione e l'entrata in vigore del disposto normativo
legittimante”;
nn3) Cass. civ., sez. II, 11.03.2013, n. 6045, secondo cui “In tema di danno per violazione delle
norme di edilizia, l'abusività ed illegittimità della costruzione fonda la
pretesa risarcitoria, essendo sufficiente all'attore fornire elementi utili
all'individuazione del pregiudizio, come effetto diretto ed immediato
dell'illecito”;
oo) sugli obblighi procedurali dell’ente locale
in tema di disciplina delle distanze: Cass. civ., sez. II, 13.09.2013, n. 20994 (in Mass., 2013, 662), secondo cui “In tema di distanze
legali, la disciplina meno restrittiva, la cui sopravvenienza può
legittimare la costruzione originariamente illecita, non può consistere in
una semplice delibera del consiglio comunale, atteso che questa non è
idonea, di per sé, a modificare la disciplina urbanistica, costituendo solo
il primo atto di un complesso iter amministrativo che si conclude soltanto
con l'approvazione regionale della variante del piano regolatore generale”;
pp) sulle distanze in relazione a pareti, luci e
vedute:
pp1) Tar per il Piemonte,
sez. II, 25.11.2019, n. 1174, secondo cui “Quando l'art. 9 del d.m. n.
1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo
riferimento alle pareti finestrate, per tali si devono intendere unicamente
le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere
quelle sulle quali si aprono semplici luci”;
pp2) Cass. civ., sez. II, 21.10.2019, n. 26807, secondo cui “Nel caso di comunione di un cortile
sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi, l'apertura di una
veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane
soggetta alle prescrizioni contenute nell'art. 905 c.c., finendo altrimenti
per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che
operi, al riguardo, il principio di cui all'art. 1102 c.c., in quanto i
rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi sono disciplinati
dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue o asservite; né
può invocarsi, al fine di escludere la configurabilità di una servitù di
veduta sul cortile di proprietà comune, il principio «nemini res sua servit»,
il quale trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del
fondo servente e di quello dominante e non anche quando il proprietario di
uno di essi sia anche comproprietario dell'altro”;
pp3) Cass. civ., sez. II, 19.02.2019, n. 4834 (in Foro it., 2019, 6, 1, 2101), secondo cui “Il
principio per il quale l'eliminazione delle vedute abusive può essere
realizzata non solo con la demolizione delle porzioni immobiliari con le
quali si verifica la violazione di legge, ma anche attraverso accorgimenti
che impediscano di esercitare la veduta sul fondo altrui, come
l'arretramento del parapetto o l'apposizione di idonei pannelli che rendano
impossibili il prospicere e l'inspicere in alienum, opera esclusivamente nei
casi di violazione delle distanze delle vedute e non pure di quelle tra
costruzioni previste dall'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968”;
pp4) Tar per la Calabria,
sez. II, 17.01.2018, n. 138, secondo cui “In materia di edilizia ed
urbanistica, al fine dell'ottenimento del permesso di costruire occorre che
il richiedente dimostri che l’edificanda opera edilizia sia eseguita nel
rispetto delle distanze minime dal ciglio stradale, di quelle relative tra
le pareti degli edifici (luci e vedute) ed altresì della cd. cessione di
cubatura, pena il rigetto dell’istanza”;
qq) sul rapporto tra pianificazione
locale e d.m. n. 1444 del 1968:
qq1) nell’ambito della giurisprudenza
amministrativa: Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2013, n. 5732, in Foro amm.
– CdS, 2013, 12, 3378 (s.m.) secondo cui “il d.m. 02.04.1968 n. 1444,
essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n.
1150, inserito dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore
di legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni in tema di
limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati”;
II)
Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3931, che parla, a proposito
dell’art. 9 del d.m. n. 1444 di “prescrizione avente carattere di
assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali”;
qq2) nell’ambito
della giurisprudenza civile:
I) Cass. civ., sez. un. 07.07.2011, n. 14953 in Vita not., 2012, 258,
secondo cui “le norme tecniche di attuazione di un piano regolatore (nella
specie, del comune di Viareggio) che impongano il rispetto della distanza
minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti di esse
dotati di finestre, con conseguente esonero per quelli ciechi, contrastano
con il disposto dell'art. 9, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, che prescrive
l'osservanza di tale distacco con riferimento all'intera estensione della
parete, sicché esse vanno disapplicate e sostituite, previa inserzione
automatica, con la diversa disposizione della norma statale, direttamente
applicabile nei rapporti con i privati”;
II) Cass. civ., sez. un., 01.07.1997, n. 5889, in Corriere giur., 1997,
1310, con nota di GIOA, secondo cui invece “il d.m. 02.04.1968 n. 1404
(emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dalla l.
06.08.1967 n. 765) che all'art.
9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, impone determinati limiti
edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici
ma non è immediatamente operante anche nei rapporti fra i privati”;
rr) sulle deroghe legislative agli strumenti di
pianificazione locale:
rr1) Corte cost., 27.12.2018, n. 245 (in Riv.
giur. edilizia, 2019, I, 291), citata nella sentenza in rassegna, secondo
cui “Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell'art. 4, 4° comma, l.reg. Abruzzo n. 40 del 2017, promosse dal governo
in riferimento all'art. 117, 2° comma, lett. s), e 3° comma, cost., che
prevede il recupero dei vani e locali accessori situati in edifici esistenti
o collegati direttamente ad essi ed utilizzati anche come pertinenze degli
stessi e dei vani e locali seminterrati; l'esame congiunto degli art. 1-4
l.reg. impugnata rende evidente che esse, dettate nell'esercizio della
potestà legislativa concorrente in materia di governo del territorio, non
incidono sulla pianificazione territoriale o sulla localizzazione degli
interventi affidati ai piani urbanistici comunali; la norma impugnata, in
particolare, consente esclusivamente deroghe minute alla disciplina edilizia
comunale, dettate nell'esercizio della suddetta competenza legislativa
concorrente, e non pone alcuna deroga alle previsioni del piano di bacino,
che si impongono a tutte le amministrazioni e ai privati, a prescindere dal
loro recepimento in altre fonti legislative o regolamentari; né gli
interventi di recupero consentiti implicano consumo di suolo mediante
l'esercizio di attività di nuova edificazione, in linea con quanto previsto
dal parametro interposto invocato”;
rr2) Corte cost., 13.03.2014,
n. 46 (in Riv. giur. edilizia, 2014, I, 215), citata nella sentenza in
rassegna, secondo cui “La questione di legittimità costituzionale,
sollevata in riferimento agli art. 3, 25, 117 cost., 3 st. Sardegna,
dell'art. 2 l.reg. autonoma Sardegna 23.10.2009 n. 4, nella parte in cui
consente l'ampliamento dei fabbricati ad uso residenziale, di quelli
destinati a servizi connessi alla residenza e di quelli relativi ad attività
produttive, entro il limite del venti per cento della volumetria esistente,
«anche mediante il superamento degli indici massimi di edificabilità
previsti dagli strumenti urbanistici», è infondata”;
ss) sul principio di sussidiarietà verticale:
ss1) nell’ambito del riparto di
competenze nella gestione dell’emergenza epidemiologica COVID-19: Cons.
Stato, sez. I, parere 07.04.2020, n. 260/20 (in Foro it.,2020, III, 267);
ss2) nella giurisprudenza
costituzionale: Corte cost., 08.07.2010, n. 247 (in Foro it., 2011, I,
2248), secondo cui “l’evocato principio di sussidiarietà verticale,
sotteso all’art. 118 Cost., attiene propriamente al riparto fra i diversi
livelli di governo dell’esercizio delle funzioni amministrative, così come
astrattamente previste e modellate dalla legislazione di riferimento. Esso
non viene perciò in rilievo allorché, come nella specie, il legislatore
regionale (nell’ambito di una propria competenza) non istituisca o
attribuisca funzioni amministrative (né sposti verso l’alto la titolarità
delle relative competenze), bensì imponga esso stesso un divieto, il quale
concorre a definire i limiti di legge entro i quali deve svolgersi poi la
normale attività amministrativa di attuazione”;
tt) sul giudizio di proporzionalità
dell’intervento legislativo nel rapporto tra l’autonomia regionale e quella
locale: Corte cost., 16.07.2019, n. 179, cit., secondo cui:
tt1) “il potere dei comuni
di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio
territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di
competenza in materia urbanistica siano libere di compiere”;
tt2) “la suddetta competenza
regionale non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata
l’autonomia dei comuni”;
tt3) “su questo piano, è
quindi richiesto uno scrutinio particolarmente rigoroso laddove la normativa
regionale non si limiti a conformare, mediante previsioni normative alle
quali i Comuni sono tenuti a uniformarsi, le previsioni urbanistiche
nell’esercizio della competenza concorrente in tema di governo del
territorio, quanto piuttosto comprima l’esercizio stesso della potestà
pianificatoria, come nel caso di specie, paralizzandola per un periodo
temporale”;
tt4) “in questi casi, dove
emerge come il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non sia
stato risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della
Costituzione, il giudizio di costituzionalità non ricade tanto, in via
astratta, sulla legittimità dell’intervento del legislatore regionale,
quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in ordine alla «verifica
dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare
le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli
enti locali”;
tt5) “viene quindi in causa
il variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha riconosciuto
specifica valenza costituzionale l’affermazione del principio di
sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa Corte
a valutare, nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai
sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge
regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome
di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali
compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la
dispone”;
tt6) “il giudizio di
proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla
legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in
concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto
bilanciamento degli interessi coinvolti”;
uu) sulle funzioni fondamentali degli enti
locali, tra le diverse:
uu1) Corte cost., 04.03.2019,
n. 33 (in Giornale dir. amm., 2019, 5, 590, con nota di SPANICCIATI),
secondo cui “La previsione generalizzata dell'obbligo di gestione
associata per tutte le funzioni fondamentali dei comuni sotto i 5.000
abitanti, eccetto limitate deroghe legislativamente fissate, è illegittima
nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni
obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l'esonero dall'obbligo,
che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri
demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili,
con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in
termini di efficacia ed efficienza, nell'erogazione dei beni pubblici alle
popolazioni di riferimento”;
uu2) Corte cost., 20.07.2018,
n. 168 (in Foro it., 2018, I, 2960), secondo cui “l’intervento di
riordino di Province e Città metropolitane, di cui alla citata L. n. 56 del
2014, rientra nella competenza esclusiva statale nella materia «legislazione
elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e
Città metropolitane», ex art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.”;
vv) in dottrina:
vv1) sulla disciplina delle
distanze legali quanto a principi generali, regime sanzionatorio e
presupposti applicativi, A.M. SANDULLI, Questioni di operatività dei piani
regolatori generali e della qualificabilità delle relative disposizioni
sulle distanze come norme integrative del cod. civ. in Riv. giur. edilizia,
1958, II, 36; T. MONTECCHIARI, Le distanze tra costruzioni nella disciplina
del codice civile e dei piani regolatori generali in Giur. it., 1997, I,
269; A. ANCESCHI, Le distanze legali tra costruzioni, Milano, 2008; A.
MANDARANO, Le distanze tra edifici tra norme statali, regionali e comunali
in Urbanistica e appalti 2008, 231; R. TRIOLA, Le distanze legali nelle
costruzioni, Milano, 2009; G. GRAZIOSI, Le distanze tra pareti finestrate.
Ricostruzione sistematica e questioni applicative di un istituto ambiguo in
Riv. giur. edilizia, 2013, II, 3 ss.; S. REZZONICO, M. REZZONICO, Le
distanze legali, Milano, 2016; A. DI LEO, Il piano regolatore generale, in
F. CARINGELLA, U. DE LUCA (a cura di), Manuale dell’edilizia e
dell’urbanistica, Roma, 2017, 68 ss.;
vv2) sul regime delle distanze
dopo il decreto c.d. Sblocca cantieri (decreto-legge n. 32 del 2019): C. BONA, Il d.l. 18.04.2019, n. 32: distanze legali, ragioni dell’economia,
ragioni dell’ambiente, in Foro it., 2019, I, 2864, cit., con particolare
approfondimento sui profili di diritto transitorio;
vv3) sui principi fondamentali
in tema di governo del territorio: M. GORLANI, Quando è la Corte ad indicare
i principi fondamentali di una materia di potestà concorrente, in Giur. cost.,
2011, 6, 4319-4328; C. BENETAZZO, Il “governo del territorio” tra interventi
di semplificazione ed effetti “complicanti” di alcune esperienze
regionali, in Riv. giur. urbanistica, 2015, I, 30-93;
vv4) sulla individuazione dei
principi fondamentali all’interno del testo unico dell’edilizia, cfr. A.
RUSSO-S.AMOROSINO, in Testo unico dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI,
Milano, 2015, 3 ss e 25 ss.; per un’ampia ricostruzione dei limiti derivanti
dai principi fondamentali dettati dalla legislazione statale in materia di
governo del territorio, v. R. CHIEPPA, Ancora sui principi fondamentali in
materia di governo del territorio, sulle distanze minime tra le costruzione
e sugli interventi in zone sismiche, in Giur. cost., 2017, 1, 463, 474;
vv5) sulla potestà legislativa
regionale in materia di edilizia: G. BERGONZINI, E. TOFFANO, La potestà
legislativa regionale in materia di edilizia, alla luce delle modifiche
apportate al titolo V della porte II Costituzione, in Dir. regione, 2003, 3,
380-396; S. MUSOLINO, Il legislatore regionale può limitare ma non ampliare
l’operatività del condono oltre il limiti stabiliti dal legislatore statale,
in Corriere giur., 2006, 12, 1673-1678; D. DE PRETIS, Condono edilizio e
Regioni: la Corte mantiene le sue promesse, in Regioni, 2006, 4, 832-839; P.
URBANI, Governo del territorio e disciplina concorrente: il caso
dell’edilizia, in Giur. it., 2012, 5, 1159-1163; A. DI MARIO, La definizione
degli interventi edilizi spetta soltanto allo Stato, in Corriere merito,
2012, 5, 525-531; E. MITZMAN, La Corte costituzionale conferma i limiti
della ristrutturazione edilizia mediante demolizione ricostruzione: le
definizioni degli interventi edilizi come principi fondamentali della
legislazione statale, tra governo del territorio e tutela del paesaggio
nazionale, in Regioni, 2012, 1-2, 363-377; P. CERBO, La disciplina dei
titoli edilizi fra (tanto) Stato e (sempre meno) Regioni, in Riv. giur.
urbanistica, 2016, 4, 2, 92-108;
vv6) sulla problematica del
rapporto tra legge regionale e materia penale, V. POLI, Legge regionale e
reati urbanistici, in I reati urbanistici nel testo unico dell’edilizia,
Roma, 2007, 167 ss.;
vv7) sulla disciplina
introdotta dal d.l. n. 69 del 2013: A. DI MARIO, Standard urbanistici e
distanze tra costruzioni tra stato e regioni dopo il «decreto del fare»
in Urbanistica e appalti, 2013, 1121 ss.; A. SCONOCCHIA BIFANI, Deroghe alle
distanze fra costruzioni alla luce del d.l. 21.06.2013, n. 69 in Riv. giur.
edilizia 2014, 16;
vv8) sulla disciplina del c.d.
“piano casa” si veda in dottrina F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura
di), Il piano casa – Commento organico all’Intesa Stato-Regioni del
31.03.2009 e a tutte le leggi regionali, Roma 2009 ed ivi, in particolare:
R. GIANI, Conferenza Stato-Regioni ed enti locali- Intesa del 31.03.2009
(pp. 5 ss.) e M. RAGAZZO, Il piano casa del Veneto (pp. 173 ss.);
vv9) sulle leggi di
interpretazione autentica cfr. S. FOA’, Un conflitto di interpretazione tra
corte costituzionale e corte europea dei diritti dell'uomo: leggi di
interpretazione autentica e ragioni imperative di interesse generale in
federalismi.it, 2011; G.U RESCIGNO, Leggi di interpretazione autentica,
leggi retroattive e possibili ragioni della loro incostituzionalità in Giur.
cost., 2012, 1072, G. AMOROSO, Leggi di interpretazione autentica e
controllo di costituzionalità, Roma, 2017, pag. 152
(Corte Costituzionale,
sentenza 23.06.2020 n. 119 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Veneto - Norme di
interpretazione autentica di disposizioni regionali a sostegno del settore
edilizio - Previsioni da intendersi nel senso che consentono di derogare ai
parametri edilizi di superficie, volume, altezza e distanza, anche dai
confini, previsti dai regolamenti e dalle norme tecniche di attuazione di
strumenti urbanistici e territoriali.
Norme impugnate:
Art. 64 della legge Regione Veneto 30/12/2016, n. 30.
Dispositivo: non fondatezza.
---------------
Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, la disciplina delle
distanze, che ha la sua collocazione anzitutto nella Sezione VI del Capo II
del Titolo II del Libro III del codice civile, attiene in via primaria e
diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi, sicché non si può
dubitare che tale disciplina, per quanto concerne i rapporti su indicati,
rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa
esclusiva dello Stato.
Nondimeno, si è altresì sottolineato che, poiché i fabbricati insistono su
di un territorio che può avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e
storiche–, specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda –e in
particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai
limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici, la
cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni, perché attratta
all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio.
Pertanto, nel determinare il punto di equilibrio tra la potestà
legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile ex art.
117, secondo comma, lettera l), Cost. e la potestà legislativa concorrente
della Regione in materia di governo del territorio ex art. 117, terzo comma, Cost.,
questa Corte ha messo in luce come alle Regioni non sia precluso fissare
distanze in deroga a quelle stabilite nelle normative statali, purché la
deroga sia giustificata dal perseguimento di interessi pubblici ancorati
all’esigenza di omogenea conformazione dell’assetto urbanistico di una
determinata zona, non potendo la deroga stessa riguardare singole
costruzioni, individualmente ed isolatamente considerate.
E tale delimitazione è stata recepita dal legislatore statale, il
quale, con l’introduzione dell’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia), da parte dell’art. 30, comma 1, lettera 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito, con modificazioni, nella legge 09.08.2013, n. 98, ha sancito
i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le
Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968
e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e
unitario di determinate zone del territorio.
...
La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti
urbanistici è stata, in conclusione, ritenuta legittima sempre che faccia
riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia
fondata su previsioni planovolumetriche, che evidenzino una capacità
progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario, ai
sensi dell’art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968, disposizione,
quest’ultima, che rappresenta la sintesi normativa del punto di equilibrio
tra la competenza statale in materia di ordinamento civile e quella
regionale in materia di governo del territorio.
...
Orbene, nel ribadirsi il richiamato orientamento, deve sottolinearsi
come la previsione di una competenza esclusiva statale in materia di
ordinamento civile (art. 117, comma secondo, lettera l, Cost.) in tanto si
giustifica in quanto con la stessa si intende assicurare che i rapporti
interprivati siano disciplinati nell’intero territorio della Repubblica
secondo criteri di identità. Una simile esigenza, se è ravvisabile con
riguardo alla disciplina delle distanze quale stabilita nelle norme statali
(codice civile, d.m. n. 1444 del 1968 e d.P.R. n. 380 del 2001), certamente
non può essere invocata con riferimento alle discipline locali, che, per
quanto integrative del codice civile, sono destinate ad operare in ristretti
ambiti territoriali. In effetti, esse trovano il loro fondamento proprio
nell’autonomia degli enti locali in un contesto normativo nel quale ancora
non erano state introdotte, con la Costituzione repubblicana, le autonomie
regionali.
Una volta riconosciuta alle Regioni la competenza concorrente in materia di
governo del territorio, deve infatti escludersi che esse incontrino il
limite dell’ordinamento civile tutte le volte in cui, ferma la disciplina
statale delle distanze, ad essere modificate per effetto di leggi regionali
siano le disposizioni dei regolamenti comunali o delle norme tecniche, la
cui finalità è proprio quella di adattare la disciplina a specifiche
esigenze territoriali, ma certamente non quella, propria delle norme di
ordinamento civile, di stabilire criteri uniformi sull’intero territorio
nazionale nei rapporti tra privati.
Ne consegue che non può opporsi alla
competenza regionale il limite dell’ordinamento civile quando oggetto di
deroga siano –come per effetto della norma regionale ora in scrutinio– non
le disposizioni statali sulle distanze, ma le norme integrative dei
regolamenti locali.
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4.– Nel merito, le questioni sono infondate, in riferimento a tutti i
parametri evocati.
4.1.– L’art. 64 della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, oggetto di censura,
stabilisce al comma 1: «[l]e norme di deroga alle previsioni dei regolamenti
comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali, provinciali
e regionali di cui all’articolo 2, comma 1, e di prevalenza sulle norme dei
regolamenti degli enti locali e sulle norme tecniche dei piani e regolamenti
urbanistici di cui all’articolo 6, comma 1, della legge regionale 08.07.2009, n. 14 “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per
favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge
regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche” e
successive modificazioni, devono intendersi nel senso che esse consentono di
derogare ai parametri edilizi di superficie, volume, altezza e distanza,
anche dai confini, previsti dai regolamenti e dalle norme tecniche di
attuazione di strumenti urbanistici e territoriali, fermo restando quanto
previsto all’articolo 9, comma 8, della medesima legge regionale 08.07.2009, n. 14 con esclusivo riferimento a disposizioni di emanazione statale».
Per effetto di questa interpretazione autentica, la clausola di
inderogabilità delle distanze, posta dall’art. 9, comma 8, della legge reg.
Veneto n. 14 del 2009, secondo la quale «[s]ono fatte salve le disposizioni
in materia di distanze previste dalla normativa statale vigente», è stata
ristretta alla sua dizione letterale, precludendo l’interpretazione, infine
affermatasi presso la giurisprudenza amministrativa, che ne aveva esteso la
portata alle distanze di fonte comunale, in ragione del loro carattere
integrativo rispetto alla disciplina del codice civile.
4.1.1.– La legge reg. Veneto n. 14 del 2009 costituisce attuazione
dell’intesa «sull’atto concernente misure per il rilancio dell’economia
attraverso l’attività edilizia» (cosiddetto “piano casa”), sancita tra
Stato, Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata il 01.04.2009.
In coerenza con gli obiettivi dell’intesa, la legge regionale veneta per il
“piano casa” persegue finalità generali di pubblico interesse, quali
preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il patrimonio edilizio
esistente, favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e delle fonti di
energia rinnovabili, incentivare l’adeguamento sismico e l’eliminazione
delle barriere architettoniche negli edifici esistenti, incentivare la
demolizione e ricostruzione in area idonea di edifici esistenti che ricadono
in aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica, favorire la rimozione e
lo smaltimento della copertura in cemento amianto di edifici esistenti (art.
1, comma 1, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009).
Gli interventi edilizi di ampliamento in deroga alle previsioni degli
strumenti urbanistici e dei regolamenti comunali sono consentiti solo in
zona territoriale omogenea propria ed entro precisi limiti di volume e
superficie rapportati all’esistente (art. 2); gli interventi di demolizione
e ricostruzione, sempre contenuti in zona territoriale omogenea propria,
sono funzionali all’adeguamento del patrimonio edilizio esistente agli
attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di
sicurezza (art. 3, comma 1); la prevalenza sulle norme dei regolamenti degli
enti locali e sulle norme tecniche dei piani e regolamenti urbanistici è
riferita al carattere straordinario delle disposizioni incentivanti della
legge regionale (art. 6, comma 1).
In ultimo, queste sono state abrogate dall’art. 19 della legge della Regione
Veneto 04.04.2019, n. 14 (Veneto 2050: politiche per la riqualificazione
urbana e la rinaturalizzazione del territorio e modifiche alla legge
regionale 23.04.2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in
materia di paesaggio”), ferma la loro perdurante applicazione, fatta salva
dall’art. 17, comma 1, in riferimento agli interventi per i quali la
segnalazione certificata di inizio lavori o la richiesta del permesso di
costruire siano state presentate entro il 31.03.2019.
4.1.2.– L’impostazione originaria della legge reg. Veneto n. 14 del 2009 non
aveva connotati rigidamente verticali, in quanto l’art. 9, comma 5,
rimetteva ai Comuni di deliberare, «sulla base di specifiche valutazioni di
carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico ed ambientale, se o con quali
ulteriori limiti e modalità» applicare le norme attuative del “piano casa”;
ad ogni Comune era data, quindi, un’opzionale “riserva di tutela”, che ad
esso consentiva di rendere inderogabili le proprie determinazioni
regolamentari.
In occasione delle proroghe delle norme attuative del “piano casa”, questo
regime opzionale è stato dapprima ristretto, con l’introduzione di una
procedura simile a quella, operante tra pubblica amministrazione e privati,
del silenzio-assenso (art. 8, commi 4 e 5, della legge della Regione Veneto
08.07.2011, n. 13, recante «Modifiche alla legge regionale 08.07.2009,
n. 14 “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire
l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche” e successive
modificazioni, alla legge regionale 23.04.2004, n. 11 “Norme per il
governo del territorio e in materia di paesaggio” e successive modificazioni
e disposizioni in materia di autorizzazioni di impianti solari e fotovoltaici»), ed infine abrogato (art. 10, comma 9, della legge della
Regione Veneto 29.11.2013, n. 32, recante «Nuove disposizioni per il
sostegno e la riqualificazione del settore edilizio e modifica di leggi
regionali in materia urbanistica ed edilizia»).
Le delibere comunali di attivazione della “riserva di tutela” assunte a
norma dell’art. 9, comma 5, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009 hanno
perduto effetto per previsione dell’art. 8, comma 2, della legge reg. Veneto
n. 13 del 2011; successivamente, per previsione dell’art. 14, comma 2, della
legge reg. Veneto n. 32 del 2013, hanno perduto effetto anche le delibere
comunali di attivazione della “riserva di tutela” assunte a norma dell’art.
8, comma 4, della legge reg. Veneto n. 13 del 2011.
4.2.– Le deroghe alle distanze minime di fonte locale, consentite dalla
norma regionale di interpretazione autentica oggetto di censura, attengono
ad interventi di ampliamento e adeguamento di edifici già esistenti, situati
in zona territoriale omogenea propria (artt. 2 e 3 della legge reg. Veneto
n. 14 del 2009).
In tempi recenti, anche l’ordinamento statale, perseguendo obiettivi di
riduzione del consumo di suolo e di rigenerazione del patrimonio edilizio
esistente, ha differenziato il grado di cogenza delle distanze minime in
base alla densità edificatoria della zona omogenea.
In particolare, l’art. 5, comma 1, lettera b-bis), del decreto-legge 18.04.2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei
contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali,
di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici),
convertito, con modificazioni, nella legge 14.06.2019, n. 55, ha
stabilito che «[l]e disposizioni di cui all’articolo 9, commi secondo e
terzo, del decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444,
si interpretano nel senso che i limiti di distanza tra i fabbricati ivi
previsti si considerano riferiti esclusivamente alle zone di cui al primo
comma, numero 3), dello stesso articolo 9», e quindi alle sole zone omogenee
destinate a nuova edificazione («zone C»), non anche alle zone totalmente o
parzialmente edificate («zone B»).
4.3.– Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, la disciplina delle
distanze, che ha la sua collocazione anzitutto nella Sezione VI del Capo II
del Titolo II del Libro III del codice civile, attiene in via primaria e
diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi, sicché non si può
dubitare che tale disciplina, per quanto concerne i rapporti su indicati,
rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa
esclusiva dello Stato (sentenze n. 41 del 2017, n. 6 del 2013 e n. 232 del
2005).
Nondimeno, si è altresì sottolineato che, poiché i fabbricati
insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri –per ragioni
naturali e storiche–, specifiche caratteristiche, la disciplina che li
riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso–
esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi
pubblici, la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni, perché
attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio
(sentenze n. 41 del 2017, n. 134 del 2014, n. 6 del 2013 e n. 232 del 2005).
4.4.– Pertanto, nel determinare il punto di equilibrio tra la potestà
legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile ex art.
117, secondo comma, lettera l), Cost. e la potestà legislativa concorrente
della Regione in materia di governo del territorio ex art. 117, terzo comma,
Cost., questa Corte ha messo in luce come alle Regioni non sia precluso
fissare distanze in deroga a quelle stabilite nelle normative statali,
purché la deroga sia giustificata dal perseguimento di interessi pubblici
ancorati all’esigenza di omogenea conformazione dell’assetto urbanistico di
una determinata zona, non potendo la deroga stessa riguardare singole
costruzioni, individualmente ed isolatamente considerate (ex plurimis,
sentenze n. 13 del 2020, n. 50 e n. 41 del 2017, n. 134 del 2014 e n. 6 del
2013).
E tale delimitazione è stata recepita dal legislatore statale, il
quale, con l’introduzione dell’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia), da parte dell’art. 30, comma 1, lettera 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito, con modificazioni, nella legge 09.08.2013, n. 98, ha sancito
i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le
Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968
e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e
unitario di determinate zone del territorio (ex multis, sentenze n. 50 e n.
41 del 2017, n. 231, n. 185 e n. 178 del 2016, e n. 134 del 2014).
4.5.– La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti
urbanistici è stata, in conclusione, ritenuta legittima sempre che faccia
riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia
fondata su previsioni planovolumetriche, che evidenzino una capacità
progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario, ai
sensi dell’art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968, disposizione,
quest’ultima, che rappresenta la sintesi normativa del punto di equilibrio
tra la competenza statale in materia di ordinamento civile e quella
regionale in materia di governo del territorio (tra le tante, sentenze n. 13
del 2020, n. 50 e n. 41 del 2017, n. 185 e n. 178 del 2016, n. 134 del 2014
e n. 6 del 2013).
5.– Orbene, nel ribadirsi il richiamato orientamento, deve sottolinearsi
come la previsione di una competenza esclusiva statale in materia di
ordinamento civile (art. 117, comma secondo, lettera l, Cost.) in tanto si
giustifica in quanto con la stessa si intende assicurare che i rapporti
interprivati siano disciplinati nell’intero territorio della Repubblica
secondo criteri di identità. Una simile esigenza, se è ravvisabile con
riguardo alla disciplina delle distanze quale stabilita nelle norme statali
(codice civile, d.m. n. 1444 del 1968 e d.P.R. n. 380 del 2001), certamente
non può essere invocata con riferimento alle discipline locali, che, per
quanto integrative del codice civile, sono destinate ad operare in ristretti
ambiti territoriali. In effetti, esse trovano il loro fondamento proprio
nell’autonomia degli enti locali in un contesto normativo nel quale ancora
non erano state introdotte, con la Costituzione repubblicana, le autonomie
regionali.
Una volta riconosciuta alle Regioni la competenza concorrente in materia di
governo del territorio, deve infatti escludersi che esse incontrino il
limite dell’ordinamento civile tutte le volte in cui, ferma la disciplina
statale delle distanze, ad essere modificate per effetto di leggi regionali
siano le disposizioni dei regolamenti comunali o delle norme tecniche, la
cui finalità è proprio quella di adattare la disciplina a specifiche
esigenze territoriali, ma certamente non quella, propria delle norme di
ordinamento civile, di stabilire criteri uniformi sull’intero territorio
nazionale nei rapporti tra privati.
Ne consegue che non può opporsi alla
competenza regionale il limite dell’ordinamento civile quando oggetto di
deroga siano –come per effetto della norma regionale ora in scrutinio– non
le disposizioni statali sulle distanze, ma le norme integrative dei
regolamenti locali.
Nel caso in esame, pertanto, la valutazione di legittimità dell’intervento
legislativo regionale non va compiuta in riferimento al limite
dell’ordinamento civile, in quanto si sposta, come si vedrà, sul piano del
rapporto tra potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo
del territorio e autonomia degli enti locali.
6.– Tanto premesso, deve ritenersi che le previsioni in tema di distanze
contenute nella disposizione censurata non ledano la materia di riserva
statale: tale disposizione, infatti, nel fornire l’interpretazione autentica
dell’art. 9, comma 8, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009, si è limitata,
in ragione della forte oscillazione giurisprudenziale, a chiarire i margini
di derogabilità delle distanze disposte dagli enti locali, in funzione degli
interventi straordinari di rigenerazione del territorio edificato, senza
tuttavia incidere sulle distanze di fonte statale.
La disposizione censurata, riferendosi alle misure previste dalla legge reg.
Veneto n. 14 del 2009, mira a consentire, secondo l’impianto originale della
legge stessa, gli interventi di rivitalizzazione del patrimonio edilizio
esistente, e cioè a realizzare un obiettivo generale di interesse pubblico,
perseguito con disposizioni incentivanti di carattere straordinario,
limitate nel tempo e operanti per zone territoriali omogenee.
D’altra parte, come già rilevato, anche nella legislazione statale si è
registrato un allentamento del regime delle distanze nelle zone omogenee
totalmente o parzialmente edificate, al medesimo fine di perseguire
obiettivi di rigenerazione del patrimonio edilizio esistente, fattore
primario in una strategia di riduzione del consumo di suolo.
In raffronto a siffatta evoluzione dell’ordinamento statale, la norma
regionale di interpretazione autentica qui censurata si rivela ancor più
conservativa, poiché tiene per assolutamente cogenti le distanze minime di
fonte statale –quindi i tre metri tra costruzioni ex art. 873 cod. civ. e i
dieci metri tra pareti finestrate ex art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968–,
mentre consente la deroga unicamente per le eventuali maggiori distanze di
fonte comunale (nella specie, i cinque metri dal confine prescritti dalle
norme tecniche del Comune di Altavilla Vicentina).
Nella normativa regionale autenticamente interpretata, che attiene alla
materia del governo del territorio, non è dato riscontrare alcuna violazione
della competenza statale in materia di ordinamento civile, e quindi alcuna
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
7.– La correlazione alla materia del governo del territorio, come legittima
la norma regionale di deroga alle distanze nel rapporto con la competenza
esclusiva statale nella materia dell’ordinamento civile, così la legittima
nel rapporto con le funzioni comunali di pianificazione territoriale.
Oltre a non violare l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. riguardo
all’esclusiva potestà legislativa dello Stato in materia civilistica, l’art.
64 della legge reg. Veneto n. 30 del 2016 pertanto neppure viola gli artt.
5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118 Cost. riguardo all’autonomia
regolamentare dei Comuni in materia pianificatoria.
7.1.– Nel nostro ordinamento, la funzione di pianificazione urbanistica è
tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni, fin dalla legge 25.06.1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), né lo sviluppo
dell’ordinamento regionale ordinario e la necessità di una pianificazione
territoriale sovracomunale hanno travolto questo impianto fondamentale, pur
tuttavia assoggettandolo a ineludibili esigenze di coordinamento tra
differenti livelli ed istanze.
Nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è
stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono
funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma,
lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed
edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione
territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di
programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle
materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e
le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art.
14, comma 27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure
urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n.
122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 06.07. 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della
spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», convertito,
con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135).
Il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo preminente ai Comuni,
quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli
interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge,
dunque, a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge
regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti
urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga quantitativamente,
qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n.
46 del 2014).
Ciò non può non valere anche in tema di distanze degli edifici, nei limiti
in cui la disciplina regionale delle stesse possa rientrare nella materia di
legislazione concorrente del governo del territorio ex art. 117, terzo
comma, Cost., in quanto una differente interpretazione equivarrebbe a
cristallizzare l’art. 873 cod. civ. ad una fase pre-costituzionale.
Nell’articolazione dei vari livelli, dunque, il giudizio di costituzionalità
della legge regionale «non riguarda […], in via astratta, la legittimità
dell’intervento del legislatore, ma, piuttosto, la verifica dell’esistenza
di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le
disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti
locali» (sentenza n. 286 del 1997).
La dialettica istituzionale sottesa al principio di sussidiarietà verticale,
come sancito nell’art. 118 Cost., induce pertanto questa Corte a valutare,
nell’ambito della funzione pianificatoria riconosciuta come funzione
fondamentale dei Comuni, «quanto la legge regionale toglie all’autonomia
comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa
prevede e per quale periodo temporale la dispone», inteso che «[i]l giudizio
di proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla
legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in
concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto
bilanciamento degli interessi coinvolti» (sentenza n. 179 del 2019).
Proprio
tale giudizio, così dinamicamente inteso, consente di verificare se, per
effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del
territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle
funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della
pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al
principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.
7.2.– In questo senso, assume rilievo la circostanza che le deroghe alle
distanze di fonte comunale siano rapportate dalla norma regionale, come
autenticamente interpretata, a interventi quantitativamente,
qualitativamente e temporalmente circoscritti, poiché, come già visto, gli
interventi agevolati dalla legge veneta per il “piano casa” possono
svolgersi unicamente con precisi limiti oggettivi, soltanto sugli edifici
esistenti e nell’arco della durata del “piano” (peraltro ormai esaurita alla
data del 31.03.2019 per effetto dell’abrogazione disposta dalla legge
reg. Veneto n. 14 del 2019).
In particolare, giova ribadire che la legge reg. Veneto n. 14 del 2009 aveva
le seguenti finalità, enunciate all’art. 1: «miglioramento della qualità
abitativa per preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il
patrimonio edilizio esistente» nonché «favorire l’utilizzo dell’edilizia
sostenibile e delle fonti di energia rinnovabili» (lettera a); «incentivare
l’adeguamento sismico e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli
edifici esistenti» (lettera b); «incentivare la demolizione e ricostruzione
in area idonea di edifici esistenti che ricadono in aree dichiarate ad alta
pericolosità idraulica» (lettera c); «favorire la rimozione e lo smaltimento
della copertura in cemento amianto di edifici esistenti» (lettera d).
Oggetto del “piano casa” erano, dunque, solo gli edifici esistenti, e gli
interventi ampliativi sono stati consentiti solo «nei limiti del 20 per
cento del volume o della superficie» (art. 2, comma 1, della legge reg.
Veneto n. 14 del 2009). Nessuna deroga è stata quindi consentita per le
nuove costruzioni, in relazione alle quali, dunque, le distanze stabilite
dai regolamenti locali hanno continuato a trovare applicazione.
Rilevano, inoltre, le ipotesi oggettive di esclusione degli interventi in
deroga. L’art. 9, comma 1, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009 non
consentiva, o consentiva solo a condizioni ed entro limiti ancora più
stringenti, gli interventi in deroga per gli edifici ricadenti nei centri
storici, soggetti a vincolo o a tutela urbanistica, ricadenti nelle aree di
inedificabilità assoluta, anche solo parzialmente abusivi; per gli edifici
commerciali, l’intervento sui quali fosse volto ad eludere o derogare le
disposizioni regionali in materia di commercio; nonché per gli immobili
inedificabili perché ricadenti in aree dichiarate ad alta pericolosità
idraulica.
Né è senza significato il fatto, sopra evidenziato, che la disposizione qui
censurata rechi l’interpretazione autentica di una norma regionale la quale,
nella versione originaria, riconosceva ad ogni Comune una “riserva di
tutela”, attivabile mediante una delibera di sottrazione, per an o per
quomodo, all’applicazione della normativa derogatoria sul “piano-casa”; da
ciò discende che, ove mai una spoliazione di autonomia vi fosse stata in
danno dei Comuni, essa non sarebbe stata prodotta dalla norma di
interpretazione autentica oggi denunciata, ma semmai dalle norme che hanno
abrogato il regime opzionale e privato di effetto le pregresse delibere
comunali di attivazione della “riserva di tutela” (rispettivamente, art. 10,
comma 9, ed art. 14, comma 2, della legge reg. Veneto n. 32 del 2013), norme
viceversa non censurate.
Peraltro, è appena il caso di osservare che
l’ordinanza di rimessione è del tutto silente circa le scelte compiute dal
Comune di Altavilla Vicentina a fronte della possibilità di attivare la
“riserva di tutela”, originariamente prevista dall’art. 9, comma 5, della
legge reg. Veneto n. 14 del 2009, poi modificata dall’art. 8, commi 4 e 5,
della legge reg. Veneto n. 13 del 2011, e infine abrogata dall’art. 10,
comma 9, della legge reg. Veneto n. 32 del 2013.
Del pari significativa è la circostanza che la stessa legge reg. Veneto n.
30 del 2016, con l’art. 63, comma 1, abbia aggiunto l’art. 11-ter della
legge reg. Veneto n. 11 del 2004, ove è previsto il ricorso a una conferenza
di servizi tra gli enti interessati per il coordinamento degli strumenti di
pianificazione incidenti sul governo del territorio.
Si può quindi affermare che, nel consentire interventi in deroga agli
strumenti urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale
veneto, in attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali
in sede di Conferenza unificata il 01.04.2009, ha compiuto una
ponderazione degli interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la
limitazione dell’entità degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune
componenti del patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge
regionale censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto
consentendo, altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre
i propri strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle
deroghe ammesse dalla medesima legge regionale. Resta, invece, priva di
rilievo nel presente giudizio la vicenda normativa che ha portato al venir
meno della “riserva di tutela” concessa ai Comuni veneti, sia perché tale
vicenda non è stata censurata dal rimettente, sia e soprattutto perché il
medesimo rimettente ha omesso di precisare quale sia stata la specifica
posizione tenuta al riguardo dal Comune di Altavilla Vicentina.
Nelle delicate verifiche di funzionamento del principio di sussidiarietà
verticale tra l’autonomia comunale e quella regionale, il giudizio di
proporzionalità deve traguardare i singoli assetti normativi, nel loro
peculiare e mutevole equilibrio, sicché non appare difforme dall’odierna
conclusione quanto da questa Corte deciso con la sentenza n. 179 del 2019,
dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di un divieto regionale di
ius variandi in relazione ai contenuti edificatori del documento di piano,
divieto la cui durata indefinita, carenza di profili interlocutivi e
assolutezza finanche contraddittoria con gli obiettivi posti in sede
regionale evidenziavano –a differenza della fattispecie ora in esame– un
sacrificio sproporzionato della potestà comunale.
7.3.– La norma regionale oggi in scrutinio –e si intende l’interpretazione
autentica da essa recata– supera, dunque, la verifica di proporzionalità,
in aderenza col principio di sussidiarietà verticale, poiché gli interventi
in deroga che la norma stessa consente, da un lato, soddisfano interessi
pubblici di dimensione sovracomunale e, dall’altro, per i già segnalati
limiti quantitativi, qualitativi e temporali, non comprimono l’autonomia
comunale oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità.
8.– La denuncia di violazione dell’art. 3 Cost., infine, non esprime reali
margini di autonomia e si dimostra piuttosto “ancillare” rispetto alle altre
censure, sì da condividerne la sorte di dichiarata infondatezza (sentenze n.
212 del 2019 e n. 46 del 2014).
8.1.– Premesso che non è oggetto di specifica censura la scelta del
legislatore regionale di intervenire con una norma di interpretazione
autentica –il che esime questa Corte dalla necessità di ripercorrere i
propri orientamenti sulle leggi regionali di interpretazione autentica–, e
ricordato che la disposta interpretazione trovava comunque giustificazione
nel succedersi di indirizzi giurisprudenziali contrastanti, la natura
“ancillare” della denuncia ex art. 3 Cost. è palesata dalla sua circolarità
col tema del fondamento normativo dell’intervento edilizio in deroga,
poiché, una volta che tale intervento sia risultato provvisto di valida base
normativa, gli effetti della prevenzione, raffigurati dal rimettente come
irragionevoli e discriminatori, si rivelano fisiologica conseguenza della
priorità temporale della costruzione, criterio al quale si informa, con i
necessari temperamenti, il sistema del codice civile sui distacchi tra i
fabbricati.
Peraltro, lo stesso richiamo all’istituto della prevenzione da parte del
giudice a quo non è del tutto pertinente, atteso che quello della priorità
temporale è un criterio dinamico regolativo dell’attività di nuova
edificazione, mentre gli interventi ai quali si riferisce la norma oggi
censurata riguardano soltanto –come più volte notato– edifici già esistenti.
9.– Previa declaratoria di inammissibilità degli interventi indicati al
punto 2, alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni devono
essere dichiarate non fondate in riferimento a tutti i parametri evocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili gli interventi spiegati dall’Anci
Veneto-Associazione regionale dei Comuni del Veneto, dall’Ance
Veneto-Associazione regionale dei costruttori edili del Veneto e da M. B.
P.;
2) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 64 della legge della Regione Veneto
30.12.2016, n. 30 (Collegato alla
legge di stabilità regionale 2017), sollevate, in
riferimento agli artt. 3, 5, 114, secondo comma, 117, commi secondo, lettera
l), e sesto, e 118 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo
regionale per il Veneto con l’ordinanza indicata in epigrafe
(Corte Costituzionale,
sentenza 23.06.2020 n. 119). |
EDILIZIA PRIVATA: La documentazione in atti conferma che la parete dell’abitazione di
proprietà della ricorrente, interessata dalla sopraelevazione, e quella
dell’abitazione frontistante sono fra loro in posizione ortogonale,
formando un angolo retto.
Tanto basta ad evidenziare la carenza del presupposto fattuale da cui muove
il provvedimento impugnato, vale a dire l’esistenza di due pareti
“antistanti”, tali essendo le pareti che si fronteggiano, non
necessariamente con andamento parallelo, ma a condizione che l'avanzamento
dell’una o dell’altra porti al loro incontro, sia pure per un segmento
limitato.
---------------
1. La signora Fr.Pa. espone di essere proprietaria di una
porzione dell’edificio residenziale ubicato in Signa, alla via ...
36, sottoposta a lavori di ampliamento volumetrico mediante sopraelevazione
assentiti con permesso di costruire del 04.08.2008 e portati a termine
nella prima metà del 2011.
Con l’ordinanza n. 114 del 27.07.2011, in epigrafe, il Comune di Signa
ha ingiunto la demolizione dell’ampliamento, sul presupposto che esso non
rispetterebbe la distanza minima di dieci metri dalla parete finestrata
dell’abitazione confinante, di proprietà di certo signor Al.Lo.. La
preesistenza di tale parete sarebbe stata nascosta dall’odierna ricorrente
negli elaborati a suo tempo presentati a corredo dell’istanza di rilascio
del permesso di costruire.
Il provvedimento è impugnato dalla signora Pa., la quale ne chiede
l’annullamento sulla scorta di quattro motivi in diritto.
...
Con il quarto motivo, infine, ipotizzando che il Comune abbia inteso fare
applicazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, ovvero dell’art. 34 del
regolamento urbanistico comunale, la ricorrente nega che l’intervento da lei
realizzato comporti la violazione della distanza di dieci metri dalla parete
dell’abitazione di proprietà Lo., trattandosi di corpi di fabbrica posti
ad angolo retto e non frontistanti.
3.1. Con la memoria di replica ex art. 73 c.p.a. e con le note depositate in
vista dell’udienza, la ricorrente ha peraltro chiesto un differimento della
decisione, funzionale alla proposizione di motivi aggiunti occasionati dalle
difese avversarie.
Il rinvio può non essere concesso, giacché il ricorso è manifestamente
fondato in ordine alle censure dedotte con il quarto motivo.
La documentazione in atti conferma che la parete dell’abitazione di
proprietà della ricorrente, interessata dalla sopraelevazione, e quella
dell’abitazione di proprietà Lo. sono fra loro in posizione ortogonale,
formando un angolo retto.
Tanto basta ad evidenziare la carenza del presupposto fattuale da cui muove
il provvedimento impugnato, vale a dire l’esistenza di due pareti
“antistanti”, tali essendo le pareti che si fronteggiano, non
necessariamente con andamento parallelo, ma a condizione che l'avanzamento
dell’una o dell’altra porti al loro incontro, sia pure per un segmento
limitato (da ultimo, cfr. Cass. civ., sez. II, 01.10.2019, n. 24471).
Detta condizione non si verifica nel caso in esame, neppure per un breve
tratto di parete, né può sostenersi che costituisca un segmento di parete la
modestissima sporgenza presente sul muro di proprietà della ricorrente,
palesemente inidonea a determinare la formazione di un’intercapedine e
perciò irrilevante ai fini di tutela cui presiede la disciplina sulla
distanze invocata dal Comune.
3.2. Il conclamato errore sul presupposto vizia radicalmente il
provvedimento impugnato e giustifica l’accoglimento del ricorso sulla base
della “ragione più liquida”, con assorbimento dei rimanenti motivi di
gravame
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 18.06.2020 n. 762 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
previsione del limite inderogabile di distanza di 10 mt. tra fabbricati
riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopraelevazione) “per
la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente),
ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della
demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.
Secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, la
disposizione contenuta nell’art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968
sulla distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha
carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale
predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di
sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse
pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari
degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal
codice civile.
Tuttavia, la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda «nuovi
edifici», intendendosi per tali gli edifici «costruiti per la prima volta» e
non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non
avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies, della
legge 17.08.1942 n. 1150, «i limiti inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi» (quelli
di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti «ai fini della
formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti».
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la «nuova»
pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto
meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non
sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica). Ed
infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le zone
“A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le
distanze «non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti».
Difatti, il discrimen in tema di distanze, nella ratio dell'art. 9, non è
dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del
tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di
un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non
potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa,
tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un
immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso
di specie), si otterrebbe che da un lato, l'immobile de quo non
potrebbe essere demolito e ricostruito, se non arretrando rispetto
all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e
realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del decreto
ministeriale n. 1444 del 1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in
ogni caso beneficiare della deroga di cui all'ultimo comma dello stesso art.
9, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo
fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico
attuativo con dettaglio plano volumetrico. Anzi, la stessa circostanza che
la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti
urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme
sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova
pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici
sull'esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non
coerente applicazione dell'art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un
disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus
estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed
intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene,
sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
In definitiva, la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda
immobili o parti di essi costruiti (anche in sopraelevazione) “per la prima
volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può
riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di
immobili preesistenti con successiva ricostruzione.
---------------
7.‒ L’appello è fondato.
Le risultanze dell’istruttoria disposta dal Collegio hanno infatti
consentito di appurare il difetto di istruttoria in cui è incorsa
l’Amministrazione e l’insussistenza delle presunte difformità contestate con
i provvedimenti impugnati in primo grado. Il CTU, al termine di una
approfondita fase di indagine, condotta in contraddittorio con i consulenti
tecnici delle parti, ha rassegnato conclusioni ampiamente motivate e
riscontrate dalla documentazione probatoria in atti e da quella ulteriore
acquisita presso il Comune di San Felice Circeo.
8.‒ In punto di fatto, è emerso che, contrariamente a quanto sostenuto
dall’Amministrazione, non vi è stata alcuna traslazione (verso il confine di
proprietà della contro-interessata) della zona di sedime del fabbricato
attuale rispetto a quella del fabbricato preesistente ai lavori di
demolizione e ricostruzione.
Gli elaborati aerofotogrammetrici esaminati confermano infatti che
l’ubicazione attuale del corpo di fabbrica dell’abitazione dell’appellante
insistente sulla particella 488, è la medesima di quella precedente ‒come
descritta nel progetto allegato alla prima e originaria pratica
edificatoria, di cui alla licenza edilizia n. 1038 del 1962‒, con una
tolleranza di appena 40 cm.
I rilievi aerofotogrammetrici presi in considerazione dal CTU sono «sia
quelli prodotti dalla Società SA.NI. su sollecitazione della Signora Fe.Li.,
ricavati da foto aeree del 04.06.2002, quindi antecedenti al rilascio del
permesso di costruire n. 1351 del 2011, ed ai successivi lavori delle opere
di demolizione e ricostruzione, sia quelli prodotti dallo stesso Comune di
San Felice Circeo, con la ripresa aerea del 24.01.2004». Va dunque respinta
l’eccezione della controinteressata secondo cui il CTU avrebbe fondato la
sua risposta solo sulla base della perizia di Sa.Ni..
8.1.‒ In punto di diritto, le disposizioni sulle distanze legali a cui il
Comune avrebbe dovuto far riferimento per accertare la legittimità delle
opere erano quelle vigenti al momento della costruzione dell’edificio
preesistente, nel 1962.
Va premesso che, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato (sentenze 14.09.2017, n. 4337; 23.06.2017, n. 3093; 08.05.2017, n.
2086; 29.02.2016, n. 856), la disposizione contenuta nell’art. 9 del decreto
ministeriale n. 1444 del 1968 sulla distanza di dieci metri che deve
sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si
tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed
astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono
coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tuttavia, la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda «nuovi
edifici», intendendosi per tali gli edifici «costruiti per la prima
volta» e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di
ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies, della
legge 17.08.1942 n. 1150, «i limiti inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi» (quelli
di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti «ai fini della
formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti». Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria
per la «nuova» pianificazione urbanistica e non già per intervenire
sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno
che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di
pianificazione urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora
affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel contemplare le distanze
tra edifici già esistenti prevede che le distanze «non possono essere
inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti».
Difatti, il discrimen in tema di distanze, nella ratio dell'art. 9,
non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione
del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione
di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non
potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa,
tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un
immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso
di specie), si otterrebbe che da un lato, l'immobile de quo
non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non arretrando rispetto
all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e
realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del
decreto ministeriale n. 1444 del 1968); dall’altro lato, esso non
potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all'ultimo comma dello
stesso art. 9, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un
solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico
attuativo con dettaglio plano volumetrico. Anzi, la stessa circostanza che
la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti
urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme
sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova
pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici
sull'esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non
coerente applicazione dell'art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un
disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus
estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed
intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene,
sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
In definitiva, la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda
immobili o parti di essi costruiti (anche in sopraelevazione) “per la
prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma
non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione
di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.
Su queste basi, la circostanza che il permesso di costruire n. 1351 del 2011
avesse previsto distanze maggiori da quelle preesistenti non rileva, in
quanto l’intervento concretamente realizzato è stata la demolizione e fedele
ricostruzione di edificio preesistente: le distanze riportate nell’elaborato
grafico al permesso di costruire n. 1351 del 2011 avrebbero avuto valore
precettivo soltanto nell’ipotesi di nuova costruzione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.06.2020 n. 3710 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanza di dieci metri tra edifici antistanti.
La disposizione contenuta nell’art. 9 del d.min. n. 1444 del 1968 sulla
distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti ha
carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale
predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di
sicurezza.
Tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse
pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari
degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal
codice civile
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.06.2020 n. 3710
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
8.1.‒ In punto di diritto, le disposizioni sulle distanze
legali a cui il Comune avrebbe dovuto far riferimento per accertare la
legittimità delle opere erano quelle vigenti al momento della costruzione
dell’edificio preesistente, nel 1962.
Va premesso che, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato (sentenze 14.09.2017, n. 4337; 23.06.2017, n. 3093; 08.05.2017, n. 2086; 29.02.2016, n. 856), la disposizione contenuta
nell’art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 sulla distanza di
dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere
inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in
via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali
distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non
già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla
disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tuttavia, la disposizione dell’art. 9, n. 2, D.M. n. 1444 riguarda «nuovi
edifici», intendendosi per tali gli edifici «costruiti per la prima volta» e
non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non
avrebbe senso prescrivere distanze diverse
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies, della
legge 17.08.1942 n. 1150, «i limiti inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi» (quelli
di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti «ai fini della
formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti». Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la
«nuova» pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente,
tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente”
non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica).
Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le
zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che
le distanze «non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i
volumi edificati preesistenti».
Difatti, il discrimen in tema di distanze, nella ratio dell'art. 9, non è
dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del
tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di
un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non
potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa,
tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un
immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso
di specie), si otterrebbe che da un lato, l'immobile de quo non potrebbe
essere demolito e ricostruito, se non arretrando rispetto all’allineamento
preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi,
quindi, un improprio “effetto espropriativo” del decreto ministeriale n.
1444 del 1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare
della deroga di cui all'ultimo comma dello stesso art. 9, allorquando la
demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse
prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio
plano volumetrico. Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art.
9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi
conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui
al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e
non già ad interventi specifici sull'esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non
coerente applicazione dell'art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un
disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus
estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed
intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene,
sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
In definitiva, la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda
immobili o parti di essi costruiti (anche in sopra elevazione) “per la prima
volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può
riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di
immobili preesistenti con successiva ricostruzione. |
EDILIZIA PRIVATA: Violazione delle distanze tra gli edifici.
Accertata la violazione delle distanze tra edifici, in luogo della
demolizione totale di un manufatto è da preferire, laddove possibile, la
soluzione della modificazione dello stesso tale da eliminarne i vizi,
nell’ottica del rispetto prioritario della legge ma anche del
contemperamento delle esigenze di entrambe le parti
(TRIBUNALE di Livorno, sentenza 10.06.2020 n. 413 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
maggio 2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In
giurisprudenza è pacifico il principio secondo il quale il regime delle
distanze valido per le nuove costruzioni debba essere rispettato anche per
le sopraelevazioni.
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto nel parere pro veritate, si
ricade nell’ipotesi regolata dal n. 2) del primo comma dell’art. 9 del D.M.
n. 1444/1968. Tale disposizione stabilisce che per i “nuovi edifici
ricadenti in altre zone [diverse dalle zone A e C]: è prescritta in tutti i
casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti”.
---------------
La giurisprudenza ha precisato che:
a) l’art. 9 del D.M. del 1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri
tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in tutti i casi,
trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive
sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con
carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa
che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità
nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli
opposti interessi;
b) l'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma
dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, riguarda soltanto le distanze tra
costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano
particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima
lottizzazione convenzionata.
Pertanto, ove
le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o
nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è
recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, bensì
dal comma 1 dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed
inderogabile efficacia precettiva.
Ne discende che la deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità,
di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici deve
ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di
fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino,
cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti
spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate
come fossero un edificio unitario.
---------------
La giurisprudenza ha
affermato che dal primo comma dell’art.
17 legge n. 1150/1942 debbono trarsi i seguenti principi:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle
regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi
dell’art. 869 del codice civile);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo
indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del
contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine ‒di dieci anni‒ diventano inefficaci unicamente
le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione,
nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del
piano regolatore generale e con quelle del piano attuativo (anche sugli
allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al
principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano
in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò
che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il
profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle
determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le
previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale
stabilità, perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del
territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo
esaurisce la fase della pianificazione, determina l’assetto definitivo della
parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un
contesto compiutamente definito.
---------------
Il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto.
Oggetto della presente controversia è il permesso di costruire rilasciato al
controinteressato per realizzare una mansarda sul fabbricato esistente.
Fondate e assorbenti le censure con le quali parte ricorrente deduce la
carenza dei presupposti per rilasciare il titolo edilizio al
controinteressato.
In punto di fatto non è contestato tra le parti che il fabbricato della
ricorrente e quello del controinteressato si fronteggiano; che le relative
pareti sono entrambe finestrate e che la distanza intercorrente tra di loro
è di circa 6,7 metri,
Inoltre è pacifico che la sopraelevazione dell’immobile comporta un
incremento della volumetria esistente.
In un primo momento il Comune aveva comunicato ai sensi dell’art. 10-bis
della legge n. 241 del 1990 al controinteressato la non accoglibilità della
sua domanda di permesso di costruire per violazione della distanza legale di
10 metri stabilita dall’art. 9, primo comma, punto 2) del D.M. n. 1444 del
1968 e per la non applicabilità delle disposizioni di cui al Piano casa (l.r.
n. 19/2009) sia in relazione alle distanze sia alla volumetria; inoltre, si
evidenziava nel preavviso di rigetto che il “piano particolareggiato delle
zone Br è scaduto e quindi non applicabile la normativa del piano stesso a
cui si fa riferimento nell’istanza per la maggiore volumetria”.
Ciò, nondimeno, a seguito dell’acquisizione da parte del Comune di Pannarano
di un parere pro veritate (richiamato nel permesso di costruire rilasciato)
si sostiene che nella fattispecie si tratterebbe di un intervento su edifici
preesistenti (quindi ricadenti nella fattispecie di cui al n. 1 del primo
comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968) e si afferma l’ultrattività del
piano particolareggiato (quest’ultimo stabilisce una distanza minima di 6
metri).
Al riguardo, nel parere si richiama, per un verso, l’art. 9, comma 2
del citato D.M. che consente deroghe al limite di 10 metri in presenza di
“gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati” e,
per
altro verso, l’art. 17 della legge n. 1140/1942 il quale prevede che il
piano particolareggiato anche scaduto conserva efficacia quanto all’obbligo
di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di
quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal
piano stesso; da tale punto di vista soccorrerebbero anche le disposizioni
del c.d. Piano casa (l.r. n. 19/2009) a mente delle quali per gli interventi
di demolizione e ricostruzione è consentito “mantenere le distanze già
esistenti”.
Dal combinato disposto di tutte le norme citate si ricaverebbe
la possibilità di effettuare la sopraelevazione proposta dal controinteressato.
Il Collegio non è del medesimo avviso.
E’ bene sin da subito precisare due punti.
Il primo, è che in giurisprudenza è pacifico il principio secondo il quale
il regime delle distanze valido per le nuove costruzioni debba essere
rispettato anche per le sopraelevazioni (cfr. tra le tante C.d.S. n.
5863/2017).
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto nel parere pro veritate, si
ricade nell’ipotesi regolata dal n. 2) del primo comma dell’art. 9 del D.M.
n. 1444/1968. Tale disposizione stabilisce che per i “nuovi edifici
ricadenti in altre zone [diverse dalle zone A e C]: è prescritta in tutti i
casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti”.
Il secondo punto da chiarire, è che la norma del Piano casa citata nel
parere (art. 5, comma 8, della l.r.c. n. 19/2009) è inconferente in quanto
consente interventi straordinari di demolizione e ricostruzione mantenendo
le distanze già esistenti solo “a parità di volume”. E’ evidente che il caso
qui in esame è diverso in quanto vi è un incremento dei volumi e per tali
tipi di interventi, come meglio si dirà in prosieguo, il Piano casa impone
il rispetto delle distanze minime stabilite dal D.M. 02.04.1968, n. 1444.
La legittimità dell’intervento di sopraelevazione proposto dal
controinteressato (e che si realizzerebbe ad una distanza inferiore ai 10
metri) viene giustificata sulla scorta del combinato disposto di due diverse
norme:
a) il secondo comma dell’art. 9 che ammette “distanze inferiori a
quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”;
b) l’art. 17 della legge n. 1140/1942 il
quale stabilisce che “decorso il termine stabilito per la esecuzione del
piano particolareggiato questo diventa inefficace per la parte in cui non
abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato
l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso”.
Poiché nella fattispecie il piano particolareggiato stabilisce (per la zona
che qui interessa) una distanza inferiore ai 10 metri l’intervento edilizio
sarebbe ammissibile.
A tali argomentazioni deve contrapporsi la giurisprudenza che
nell’interpretare le norme sopra richiamate ha precisato che:
a) l’art. 9 del D.M. del 1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri
tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in tutti i casi,
trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive
sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (cfr. Cass.
civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108; Cons. Stato, Sez. V, 19.10.1999
n. 1565; Cass. civ., Sez. II, 03.10.2018 n. 24076); conseguentemente le
distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse
ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato
alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in
materia per equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. Cass., Sez.
II, 16.08.1993 n. 8725 e 07.06.1993 n. 6360) (cfr. C.d.S. n.
3367/2019);
b) l'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, riguarda soltanto le distanze tra costruzioni
insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano
particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima
lottizzazione convenzionata (cfr. Cass. 07/11/2017, n. 26354).
Pertanto, ove
le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o
nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è
recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, bensì
dal comma 1 dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed
inderogabile efficacia precettiva.
Ne discende che la deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità,
di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici deve
ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di
fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino,
cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti
spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate
come fossero un edificio unitario (cfr. C.d. S. n. 1431/2019).
Non è l’ipotesi che ricorre nel caso di specie in quanto si tratta di
realizzare un isolato intervento edilizio su un immobile per il quale non
risulta in alcun modo dimostrato il suo inserimento all’interno di un gruppo
di edifici che concretizzano un disegno unitario (dagli atti di causa non si
rinviene alcun elemento che deponga in tal senso).
Peraltro e, ove non bastasse, vanno considerate le disposizioni delle NTA
del PRG citate dalla ricorrente. Segnatamente, per la zona Br3 del PRG del
Comune l’art. 13 delle NTA prevede che “sugli edifici esistenti, in assenza
di Piani Particolareggiati sono consentite le operazioni di manutenzione
ordinaria e straordinaria e di ristrutturazione nel rispetto delle
volumetrie preesistenti”. In sostanza nella zona di cui è causa è possibile
effettuare nuove edificazioni solo in presenza del piano particolareggiato.
E’ evidente che l’ultrattività del piano può valere solo quanto all’obbligo
“…di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di
quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal
piano stesso”, fermo restando che la possibilità di effettuare ulteriori
costruzioni deve essere vagliata alla luce e in coerenza con le previsioni
del PRG che nel caso in esame non consentono incrementi volumetrici in
assenza del piano particolareggiato. Come evidenziato dalla difesa della
ricorrente in conseguenza dell’inefficacia del piano particolareggiato si
applicano le norme del PRG (oltre, ovviamente, ai vincoli conformativi per
quanto riguarda gli allineamenti e le prescrizioni di zona del piano
particolareggiato che hanno efficacia ultrattiva se riguardano, come sopra
precisato, un gruppo di edifici).
Tale lettura appare coerente con la giurisprudenza che ha affermato (ex plurimis, Sez. IV,
04.12.2007, n. 6170) che dal primo comma dell’art.
17 cit., debbono trarsi i seguenti principi:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle
regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi
dell’art. 869 del codice civile);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo
indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del
contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine ‒di dieci anni‒ diventano inefficaci unicamente
le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione,
nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del
piano regolatore generale e con quelle del piano attuativo (anche sugli
allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al
principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano
in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò
che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il
profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle
determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le
previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale
stabilità, perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del
territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo
esaurisce la fase della pianificazione, determina l’assetto definitivo della
parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un
contesto compiutamente definito.
Ciò posto, se è vero che il PRG del Comune di Pannarano vieta incrementi
volumetrici nella zona in cui ricade il manufatto, è anche vero che il Piano
casa invocato dal controinteressato in astratto li ammette regolando ipotesi
di interventi edilizi in deroga agli strumenti urbanistici.
Tuttavia, la legge regionale n. 19/2009 consente “interventi straordinari di
ampliamento” (art. 4) e di demolizione e ricostruzione (con ampliamento)
(art. 5) solo a condizione che vengano rispettate le distanze minime tra
fabbricati di cui al D.M. n. 1444/1968 (cfr. art. 4, comma 2, lett. c) e
art. 5, comma 2, lett. c), caso che qui non ricorre in quanto la distanza
tra i due edifici è di soli 6,7 metri. La possibilità di edificare
mantenendo le distanze già esistenti è, infatti, prevista solo (art. 5,
comma 8) per gli interventi straordinari di demolizione e ricostruzione
purché eseguiti “a parità di volume” (evenienza che, ancora una volta, non
ricorre nel caso in esame).
In conclusione, come fondatamente dedotto dalla ricorrente il permesso di
costruire è stato illegittimamente rilasciato.
Da quanto precede, assorbita ogni altra questione, il ricorso deve essere
accolto e, per l’effetto il provvedimento impugnato deve essere annullato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 28.05.2020 n. 2039 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: Azione per violazione delle distanze tra edifici e onere probatorio.
In tema di violazione delle distanze tra edifici l’attore deve dimostrare
oltre alla violazione della distanza secondo i regolamenti locali anche che
il titolare dell’azione aveva acquistato anteriormente l’immobile e con esso
il diritto alla veduta
(nel caso di specie, il ricorrente aveva fatto un vago cenno alla presunta
violazione dei diritti di affaccio e di veduta ma nel corso dell’istruttoria
l’attenzione era stata focalizzata solo sulla presunta violazione delle
distanze legali tra costruzioni che non era stata provata)
(TRIBUNALE di Grosseto, sentenza 28.03.2020 n. 291 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Violazione distanze tra edifici: il risarcimento del danno.
Il risarcimento del danno conseguente alla violazione delle distanze tra
edifici è in re ipsa e non è necessario provarlo. (Nel caso di specie si
trattava di una veranda che ampliava ed estendeva la consistenza del
fabbricato)
(TRIBUNALE di Grosseto, sentenza 21.03.2020 n. 272 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: discipline applicabili e limiti di derogabilità.
In tema di distanze tra edifici le norme attinenti al piano regolatore
generale e dalle norme tecniche di attuazione possono essere invocate
seppure abbiano natura integrativa a quanto disposto dal codice civile
mentre le disposizioni previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968 possono essere
derogate solo dalla legge (nel caso di specie, si trattava di un intervento di recupero di un
sottotetto ove non erano stati rispettati i limiti previsti per le distanze
tra le costruzioni ex art. 9 D.M. 1444/1968)
(TRIBUNALE di Pavia, Sez. III, sentenza 12.03.2020 n. 365 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
gennaio 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici ed elementi accessori.
Nelle distanze tra edifici, non possono considerarsi i montanti di una
tettoia/pergolato in quanto rientrano nella categoria degli sporti e non
computabili ai fini delle distanze. Trattasi di elementi con funzione
accessoria
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.01.2020 n. 117 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
3. Anche il secondo motivo è infondato.
In merito, assorbite le questioni relative alla qualificazione della
tettoia/pergolato come costruzione, deve ritenersi che i ricorrenti non
abbiano dato sufficiente prova delle violazione delle distanze.
Come chiarito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza
22.11.2013 n. 5557) la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di
edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati rispetto ai quali si
denuncia la violazione delle distanze e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
E’ chiaro quindi che occorre considerare come punto di riferimento, secondo
quanto correttamente affermato dal Comune, la linea esterna della parete
ideale della tettoia/pergolato (interna al terrazzo) e non il limite esterno
del terrazzo stesso, trattandosi di verificare le distanze dalla
tettoia/pergolato e non dal terrazzo.
Né a tal fine possono valere i montanti della tettoia/pergolato in quanto
essi rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle
distanze, trattandosi di elementi con funzione meramente ornamentale, di
rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili) (in tal senso Corte di Cassazione, Sez.
II civile, 19.01.2018 n. 1365).
Va poi considerato che, se è pur vero che il processo amministrativo secondo
il tradizionale modello impugnatorio è retto, dal punto di vista
istruttorio, dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, ciò non può
essere inteso nel senso che la parte ricorrente, la quale si dolga di un
atto dell’Autorità, possa limitarsi alla mera contestazione dei presupposti
di fatto e di diritto sui quali si è radicata l’azione amministrativa e
attendere che sia il giudice ad acquisire il materiale probatorio necessario
al giudizio, dovendo essa, invece, offrire –a sostegno della pretesa
azionata in giudizio– adeguati riscontri probatori quantomeno rispetto agli
elementi dei quali ha una disponibilità pressoché piena (v., tra le altre,
TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 02/07/2018 n. 4375).
Spettava dunque ai ricorrenti fornire elementi di prova univoci circa
l’effettiva violazione della distanza di dieci metri, per essere in realtà
la doglianza non assistita da dati obiettivi idonei a superare la
contestazione delle controparti, proprio sotto il profilo della misurazione
puntuale del distacco tra i manufatti in esame.
E analoga carenza probatoria si riscontra anche con riferimento alla
questione della volumetria residua che il lotto può esprimere. Infatti si
adduce genericamente un difetto di istruttoria, quando invece sarebbe stato
necessario allegare quanto meno un principio di prova circa l’ipotizzata
violazione dei relativi parametri di zona. |
EDILIZIA PRIVATA:
Calcolo della distanza tra fabbricati.
Come chiarito dalla
giurisprudenza, la distanza di dieci metri
tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n.
1444, va calcolata con riferimento ad ogni
punto dei fabbricati rispetto ai quali si
denuncia la violazione delle distanze e non
alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal
fatto che esse siano o meno in posizione
parallela.
---------------
I montanti di una tettoia/pergolato
rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze
trattandosi di elementi con funzione
meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i
cornicioni, le canalizzazioni di gronda e
simili).
---------------
3. Anche il secondo motivo è
infondato.
In merito, assorbite le questioni relative
alla qualificazione della tettoia/pergolato
come costruzione, deve ritenersi che i
ricorrenti non abbiano dato sufficiente
prova delle violazione delle distanze.
Come chiarito dalla giurisprudenza
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza
22.11.2013 n. 5557) la distanza di dieci
metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti, prevista dall'art. 9, D.M.
02.04.1968, n. 1444, va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati
rispetto ai quali si denuncia la violazione
delle distanze e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate
e non solo a quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela.
E’ chiaro quindi che occorre considerare
come punto di riferimento, secondo quanto
correttamente affermato dal Comune, la linea
esterna della parete ideale della
tettoia/pergolato (interna al terrazzo) e
non il limite esterno del terrazzo stesso,
trattandosi di verificare le distanze dalla
tettoia/pergolato e non dal terrazzo.
Né a tal fine possono valere i montanti
della tettoia/pergolato in quanto essi
rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze,
trattandosi di elementi con funzione
meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i
cornicioni, le canalizzazioni di gronda e
simili) (in tal senso Corte di Cassazione,
Sez. II civile, 19.01.2018 n. 1365).
Va poi considerato che, se è pur vero che il
processo amministrativo secondo il
tradizionale modello impugnatorio è retto,
dal punto di vista istruttorio, dal
principio dispositivo con metodo
acquisitivo, ciò non può essere inteso nel
senso che la parte ricorrente, la quale si
dolga di un atto dell’Autorità, possa
limitarsi alla mera contestazione dei
presupposti di fatto e di diritto sui quali
si è radicata l’azione amministrativa e
attendere che sia il giudice ad acquisire il
materiale probatorio necessario al giudizio,
dovendo essa, invece, offrire –a sostegno
della pretesa azionata in giudizio– adeguati
riscontri probatori quantomeno rispetto agli
elementi dei quali ha una disponibilità
pressoché piena (v., tra le altre, TAR
Campania, Napoli, Sez. IV, 02/07/2018 n.
4375).
Spettava dunque ai ricorrenti fornire
elementi di prova univoci circa l’effettiva
violazione della distanza di dieci metri,
per essere in realtà la doglianza non
assistita da dati obiettivi idonei a
superare la contestazione delle controparti,
proprio sotto il profilo della misurazione
puntuale del distacco tra i manufatti in
esame.
E analoga carenza probatoria si riscontra
anche con riferimento alla questione della
volumetria residua che il lotto può
esprimere. Infatti si adduce genericamente
un difetto di istruttoria, quando invece
sarebbe stato necessario allegare quanto
meno un principio di prova circa
l’ipotizzata violazione dei relativi
parametri di zona (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 20.01.2020 n. 117 - link
a www.giustizia-amministrativa.it).). |
dicembre 2019 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Attività edilizia – Atto di assenso del confinante - Forma e
contenuto minimo dell’atto – parere (Legali Associati per Celva,
nota
04.12.2019 - tratto da www.celva.it).
---------------
L’Amministrazione comunale di La Salle ha sottoposto alla nostra
attenzione richiesta di parere avente ad oggetto una pluralità di quesiti,
tutti afferenti la corretta individuazione dei requisiti minimi di contenuto
e di forma che deve assumere l’atto di assenso richiesto al confinante, al
fine di derogare alle distanze minime dai fabbricati e dai confini e se tale
atto di assenso debba essere acquisito e ricondotto nella pratica edilizia
per cui è richiesto. (... continua). |
ottobre 2019 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante giurisprudenza, ai fini dell’applicazione della
normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici,
per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione ex
novo di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di
un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro,
direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici
esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una
maggiore volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi.
In particolare la sopraelevazione deve essere considerata come nuova
costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto
della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo
confinante.
---------------
Con il terzo motivo di appello, peraltro, si sostiene che non
sussisterebbe la violazione delle distanze ravvisata dal giudice di primo
grado, in quanto le NTA del PRG del Comune di Marcianise per la zona B
consentirebbero la costruzione sul confine di proprietà in caso di lotti
circostanti edificati sul confine o non edificati; ciò avrebbe consentito il
superamento della distanza minima di 5 metri, in quanto fino all’altezza
dell’edificio confinante sarebbe stata applicabile la prima parte
disposizione, per la parte del sottotetto sarebbe stata applicabile la parte
della norma di attuazione relativi ai fondi non edificati.
Tale interpretazione non può trovare accoglimento.
E’ infatti evidente che l’unica interpretazione consentita da tale norma
tecnica è quella seguita dal giudice di primo grado, per cui nel caso di
specie la distanza inferiore ai 5 metri è ammessa solo fino all’altezza
dell’edificio confinante; per il resto l’edificio è realizzato in violazione
delle distanze, potendo il riferimento a lotti inedificati contenuto nella
detta norma di attuazione essere riferita solo ad un lotto integralmente non
edificato, non alla inedificazione della parte sovrastante un edificio.
Per costante giurisprudenza, infatti, ai fini dell’applicazione della
normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici,
per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione
ex novo di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella
volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della
sagoma d'ingombro, direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra
gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o
meno di una maggiore volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini
abitativi; in particolare la sopraelevazione deve essere considerata come
nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il
rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti
sul fondo confinante (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 28.11.2018, n. 6738)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 25.10.2019 n. 7289 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fabbricati antistanti.
Ai fini dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, due fabbricati, per essere
antistanti, non devono necessariamente essere paralleli, ma possono anche
fronteggiarsi con andamento obliquo, purché tra le facciate dei due edifici
sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di
entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato
segmento.
Ne consegue che non danno luogo a pareti antistanti gli edifici posti ad
angolo retto, né quelli in cui sono gli spigoli opposti a potersi toccare se
prolungati idealmente uno verso l’altro
(Corte
di Cassazione, Sez. II,
sentenza 01.10.2019 n. 24471
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Calcolo della distanza tra pareti finestrate
e necessità che sussista almeno un segmento
di esse tale che l'avanzamento di una o di
entrambe le facciate porti al loro incontro.
Il principio affermato
dal Consiglio di Stato, secondo il quale la
distanza fra pareti di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n.
1444, va calcolata con riferimento ad ogni
punto dei fabbricati e non solo alle parti
che si fronteggiano e tutte le pareti
finestrate, prescindendo anche dal fatto che
esse siano o meno in posizione parallela,
vuole dire che la distanza deve computarsi
con riferimento ad ogni punto dei fabbricati
e non solo alle parti che si fronteggiano e
a tutte le pareti finestrate e non solo a
quelle principali e prescindendo dal fatto
che esse siano o meno in posizione
parallela.
Ma tale principio, così come gli analoghi
principi della giurisprudenza di
legittimità, implica pur sempre che sussista
almeno un segmento di esse tale che
l'avanzamento di una o di entrambe le
facciate porti al loro incontro, sia pure
per quel limitato segmento
(Corte di Cassazione, Sez. II,
sentenza 01.10.2019 n. 24471 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
4. Il secondo motivo del ricorso
principale è fondato.
La Corte d'appello di Milano, nell'esame
della fattispecie, ha riconosciuto che,
nella specie, l'intervento edilizio
realizzato dalla Fa. doveva avvenire secondo
la previsione dell'art. 9, n. 2, del d.m.
02.04.1968, recepito dalle NTA del Piano
regolatore generale del Comune di Milano,
approvato il 26.02.2000.
In relazione a tale norma -che impone una
distanza minima di dieci metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti-
la corte d'appello ha richiamato principi
consolidati nella giurisprudenza della
Suprema Corte, sui quali non è il caso di
soffermarsi: la norma è
integrativa della disciplina del codice
civile sulle distanze; non è derogabile in
sede locale
(Cass. n. 1556/2005; n. 19554/2009);
il giudice ha la potestà di
disapplicare la norma regolamentare difforme
ed applicare le distanze previste dal d.m.
1444 quale norma di relazione immediatamente
efficace nei rapporti fra privati
(Cass., S.U. n. 14953/2011).
La corte, quindi, è passata dal piano dei
principi a quello della fattispecie
concreta, rilevando innanzitutto che «il
rispetto della distanza di 10 metri non può
escludersi nel caso in esame in
considerazione del fatto che gli edifici non
potrebbero considerarsi "antistanti"».
Al fine di giustificare tale affermazione ha
ritenuto di poter trovare appiglio nel
principio secondo il quale la "distanza
fra pareti di edifici antistanti, prevista
dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non solo alle parti che si
fronteggiano e tutte le pareti finestrate,
prescindendo anche dal fatto che esse siano
o meno in posizione parallela (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731)".
Quindi ha richiamati i principi di
giurisprudenza sui punti di misurazione
delle distanze, per concludere
perentoriamente che, nel caso di specie,
alla luce delle misurazioni effettuate dal
consulente tecnico, «la distanza tra
l'edificio eretto dalla Fa. e quello di
proprietà degli appellati non rispetto la
distanza di dieci metri, il che rende
evidente l'esistenza della violazione in cui
Fa. s.r.l. è incorsa sotto il profilo in
esame».
5. Secondo la ricostruzione della sentenza
impugnata la proprietà Za. consiste «in
un complesso edilizio a destinazione
residenziale ed artigianale collocato in
fregio alla via ... civico 10, che occupa
quindi la parte nord ovest del lotto e da un
secondo edificio a destinazione artigianale,
che si innesta ad angolo retto ed occupa il
suo lato lungo il rimanente confine nord».
Si può dare per acquisito:
a) che Fa. ha costruito in aderenza rispetto al muro dell'edificio
a destinazione artigianale per poi
realizzare le pareti finestrate a distanza
inferiore a 10 metri dal muro su cui ha
costruito in aderenza;
b) che la parete finestrata è stata edificata dalla Fa. interamente
sul lato nord dell'edificio di fronte
all'edificio a destinazione artigianale,
posto sul confine fra i due lotti e sul cui
muro avanzato la Fa. ha costruito in
aderenza per tutta la sua altezza;
c) che le pareti finestrate sono state edificate in arretramento
rispetto a tale muro: si legge nella
sentenza che l'edificio eretto dalla Fa.
s.r.l. edificate in posizione arretrata «a
partire dal primo piano fuori terra (alla
quota di + mt. 5,20) e per i successivi, per
una lunghezza di mt. 13 sul totale di mt. 24
di lunghezza»;
d) che fra le facciate finestrate dell'edificio la facciata
finestrata del fabbricato degli originari
attori esiste uno sfasamento di 0,72 cm..
6. L'art. 9 del d.m.
1444/1968 prescrive la distanza minima tra
parete e parete finestrata. È pacifico che
l'art. 9 è applicabile anche nel caso in cui
una sola delle due pareti fronteggiantesi
sia finestrata
(Cass., S.U., n. 1486/1997; n. 1984/1999)
e indipendentemente dalla
circostanza che tale parete sia quella del
muovo edificio o dell'edificio preesistente
(Cass. n. 13547/2011), o
che si trovi alla medesima altezza o diversa
altezza rispetto all'altro
(Cass. n. 8383/1999).
Finalità della norma è la
salvaguardia dell'interesse
pubblico-sanitario a mantenere una
determinata intercapedine fra gli edifici
che si fronteggiano quando uno dei due abbia
una parete finestrata
(Cass. n. 20574/1997).
La «antistanza» va
intesa come circoscritta alle porzioni di
pareti che si fronteggiano in senso
orizzontale. Nel caso in cui i due edifici
siano contrapposti solo per un tratto
(perché dotati di una diversa estensione
orizzontale o verticale, o perché sfalsati
uno rispetto all'altro, il giudice che
accerti la violazione delle distanze deve
disporre la demolizione «fino al punto in
cui i fabbricati si fronteggiano»
(Cass. n. 4639/1997).
La Suprema Corte ha osservato che,
ai fini dell'art. 9 del d.min. n.
1444/1968, due fabbricati, per essere
antistanti, non devono essere
necessariamente paralleli, ma possono
fronteggiarsi con andamento obliquo, purché
«fra le facciate dei due edifici sussista
almeno un segmento di esse tale che
l'avanzamento di una o di entrambe le
facciate medesime porti al loro incontro,
sia pure per quel limitato segmento»
(Cass. n. 4175/2001).
Non danno luogo a pareti
antistanti gli edifici posti ad angolo
retto, né quello in cui sono opposti gli
spigoli a potersi toccare se prolungati
idealmente uno verso l'altro. Poiché lo
scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c.
è quello di impedire intercapedini nocive, «la
norma non trova applicazione quando i
fabbricati non si fronteggiano, ma sono
disposti ad angolo retto in modo da non
avere parti tra loro contrapposte»
(Cass. n. 4639/1997). Le
distanze fra edifici non si misurano perciò
in modo radiale, come avviene per le
distanze rispetto alle vedute, ma in modo
lineare
(Cass. n. 9649/2016).
Con riferimento all'analoga materia di "pareti
frontistanti" vigente in materia
antisismica «la
giurisprudenza di questa corte ha avuto modo
di affermare che la disposizione contenuta
nella L. n. 1684 del 1962, art. 6, n. 4 -a
norma della quale l'area posta tra edifici e
sottratta al pubblico transito deve avere la
larghezza minima di sei metri misurata tra i
muri frontali- attiene a tutte le ipotesi in
cui i muri perimetrali di costruzioni
finitime si trovino in posizione
antagonista, idonea a provocare, in caso di
crollo di uno degli edifici, danni a quello
finitimo: pertanto la presenza nei detti
muri perimetrali di spigoli o angoli non
esula dalla sfera di applicazione della
detta norma, in quanto ogni angolo o spigolo
è formato da due linee che, sul piano
costruttivo, costituiscono vere e proprie
"fronti", le quali, a loro volta, realizzano
rispetto all'opposta costruzione, quella
posizione antagonista la cui potenzialità
viene eliminata o attenuata dal rispetto
della distanza minima.
Ha, però, soggiunto che tale principio trova
applicazione nel caso in cui le due rette
che si dipartano dall'angolo secondo le
direttrici dei lati di questo vadano ad
intersecare il perimetro della costruzione
che si vuole opposta, mentre, qualora tali
linee non attraversino idealmente il corpo
dell'edificio vicino, non v'è antagonismo
tra le costruzioni, ne' sussiste quella
frontalità che la norma in oggetto prevede
come presupposto dell'osservanza della
distanza di sei metri a scopo di prevenzione
antisismica tra i segmenti perimetrali degli
edifici»
(Cass. n. 14606/2007).
È stato anche chiarito che «l'art.
9, n. 2, del d.m. n. 1444 del 1968 non
impone di rispettare in ogni caso una
distanza minima dal confine, ma va
interpretato, in applicazione del principio
di prevenzione, nel senso che tra una parete
finestrata e l'edificio antistante va
mantenuta la distanza di mt. 10, con obbligo
del prevenuto di arretrare la propria
costruzione fino ad una distanza di mt. 5
dal confine, se il preveniente, nel
realizzare tale parete finestrata, abbia a
sua volta osservato una distanza di almeno
mt. 5 dal confine.
Ove, invece, il preveniente abbia posto una
parete finestrata ad una distanza inferiore
a detto limite, il vicino non sarà tenuto ad
arretrare la propria costruzione fino alla
distanza di mt. 10 dalla parete stessa, ma
potrà imporre al preveniente di chiudere le
aperture e costruire (con parete non
finestrata) rispettando la metà della
distanza legale dal confine, ed
eventualmente procedere all'interpello di
cui all'art. 875, comma 2, c.c., qualora ne
ricorrano i presupposti»
(Cass. n. 4848/2019; n. 3340/2002).
7. La corte d'appello non si è attenuta a
tali principi.
Il principio affermato dal
Consiglio di Stato (sent. n. 7731/2010),
utilizzato dalla corte d'appello quale
criterio guida nella valutazione della
fattispecie, vuole dire che la distanza deve
computarsi con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non solo alle parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate
e non solo a quelle principali e
prescindendo dal fatto che esse siano o meno
in posizione parallela. Ma tale principio,
così come gli analoghi principi della
giurisprudenza di legittimità, implica pur
sempre che «sussista almeno un segmento
di esse tale che l'avanzamento di una o di
entrambe le facciate porti al loro incontro,
sia pure per quel limitato segmento»
(Cass. n. 4715/2001).
Al contrario la corte di merito, dopo avere
descritto la posizione dei fabbricati, ha
ravvisato la violazione della norma senza
verificare se, in dipendenza della
edificazione Fa. in aderenza fino al colpo
del muro cieco del preesistente edificio
destinato a laboratorio, vi fosse una
effettiva e attuale posizione di frontalità
fra due facciate, nel senso che facendo
avanzare idealmente in linea retta una
facciata verso il fabbricato vicino, le due
facciate si sarebbero incontrate almeno in
un punto (Cass. n. 2548/1972; n. 3480/1972;
n. 9649/2016).
Si ribadisce che la corte di merito non ha
ravvisato la violazione nel fatto in sé
dell'avere la Fa. costruito in aderenza sul
muro cieco preesistente, ma nel minore
arretramento dell'edificio una volta
raggiunto il colmo del tetto; tanto ha fatto
non in applicazione dei principi della
prevenzione integrati con le previsioni di
cui all'art. 9 del d.min. 02.04.1969 (Cass.
n. 3340/2002 cit.), ma avuto riguardo alla
situazione attuale dei fabbricati, così dome
delineatasi per effetto della edificazione
in aderenza.
In questo senso, però, è stata completamente
omessa dalla corte d'appello
la verifica di un'attuale situazione
di frontalità fra le due facciate,
costituente l'essenziale «presupposto per
l'operatività dell'art. 9 del d.min.
02.04.1968, n. 1444»
(Cass. n. 4715/2001, cit.). |
settembre 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda la più complessa questione della modalità di
calcolo dei balconi ai fini del rispetto delle distanze prescritte dall’art.
9 del DM n. 1444/1968, il Supremo Consesso s’è pronunciato espressamente, prendendo aperta
posizione sulle opposte tesi e aderendo a quella autorevolmente esposta
nella sentenza 30.12.2016, n. 5552, chiarendo che “esiste un diffuso,
recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti
ai fini delle distanze degli edifici che ammette che i detti elementi architettonici
possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto
art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò
autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè
al volume utile dell’edificio”.
La Sezione condivide le considerazioni e conclusioni dell’orientamento
giurisprudenziale sopra richiamato respingendo le censure
avverso le previsioni dello strumento urbanistico e l’applicazione delle
prescrizioni sul calcolo delle distanze dedotte con doglianze analoghe a
quelle sollevate dalla ricorrente.
Così nel precedente richiamato è stata disattesa la doglianza relativa “alla
violazione del limite minimo di 5 metri lineari previsto dall’art. 4 delle
NTA del PRG, reclamando a tal fine doversi includere nel computo i balconi
ed alcuni pilastri” osservando che: “l’art. 4 disciplina il computo
del volume fabbricabile e, nell’ambito di questo, contiene previsioni sugli
aggetti, e che i balconi sono computabili nel volume solo se costituiscono
corpo di fabbrica (cioè aggetti chiusi volti a separare l’ambiente interno
da quello esterno) e non quando invece siano aperti su tre lati, come
affermato da costante giurisprudenza, è solo a questi, contemplati dal primo comma
dell'art. 4 che la previsione delle NTA richiamata fa riferimento, al comma
successivo, per indicare la misura delle distanze (…) Al riguardo va
ricordato che, come affermato da costante giurisprudenza, ai fini del
computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della
solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti
di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa
e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene. Infatti, ciò che rende computabili
i balconi ai fini della misurazione delle distanze tra fondi finitimi è la
loro riconducibilità al concetto di costruzione edilizia, comportando essi
un ampliamento della consistenza dell'edificio tale da doversi senz'altro
considerare nel calcolo delle distanze legali (…)".
---------------
La giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico
dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza minima
di 10 mt lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti,
precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano
preveda ciò.
Invero, “i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla
facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento
dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di
necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a
livello incassate nel corpo dell’edificio con la conseguenza che mentre i
primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo
caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla
determinazione del volume”.
Con riferimento ad un caso, come quello in esame, in cui il regolamento
comunale prevedeva che “nella verifica delle distanze non si tiene conto
di (…) balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60”, è stato
ritenuto che tale prescrizione “costituisce norma eccezionale e di
favore, in quanto integra e deroga (con il favore della giurisprudenza, come
si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma
di ordine pubblico di cui all’art. 9 del DM più volte richiamato”,
precisando che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere interpretate in
senso restrittivo.
Anche negli anni successivi tale orientamento è stato confermato ribadendo
che “balconi e pensiline” non sono compresi nel computo delle distanze di
cui al ridetto art. 9, d.m. n. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano
che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti,
estranei cioè al volume utile dell’edificio”; per cui si tratta di mere strutture architettoniche non
computabili nella volumetria della costruzione ed irrilevante ai fini del
calcolo delle distanze legali, a differenza dei “corpi di fabbrica,
computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari
proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se
scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza”.
In conclusione, assume rilevanza decisiva il profilo della dimensione della
sporgenza, come ribadito da Consiglio di Stato sez. IV, n. 5895/2017 e n.
706/2018 (per cui nel caso di balconi aggettanti lo sporto nei limiti di
metri 1,50 è irrilevante rispetto alla distanza secondo Consiglio di Stato
sez. IV, n. 1801/2016; nello stesso senso, ugualmente per dimensioni
contenute, come nel caso in esame in metri 1,60, Consiglio di Stato sez. VI,
n. 5557/2013; mentre, nel caso contrario, in cui le dimensioni dello sporto
siano “importanti”, superando i due metri, va necessariamente calcolato,
come ribadito da ultimo, da TAR Puglia, n. 485/2019).
---------------
Con il primo motivo di ricorso si lamenta che il permesso a costruire
in variante impugnato si ponga in contrasto con i limiti di distanza
prescritti dall’art. 9 del d.m. 1444/1968 (che prevede che tra le pareti dei
fabbricati tra i nuovi edifici e le strade destinate al traffico veicolare
sia rispettata una distanza minima rispettivamente di ml 10 e ml 5),
riprodotti anche dall’art. 1 del Piano Particolareggiato (secondo la
ricorrente detto Piano, seppur decaduto perché sono trascorsi più di dieci
anni dalla sua approvazione, sarebbe tutt’ora applicabile relativamente alla
disciplina degli allineamenti ed il rispetto dei comparti), oltre che
dall’art. 17 delle NTA del PTP (per quanto concerne la distanza minima dal
ciglio stradale) nonché dall’art. 23 del regolamento edilizio (che prevede
che per calcolare il distacco dai confini la distanza va misurata nei punti
di massima sporgenza).
Ad avviso della ricorrente, il Comune non si sarebbe avveduto che il
progetto in variante riporta misure errate per quanto riguarda le distanze,
dato che non tiene conto dell’ingombro di 1,60 metri prodotto dai balconi e
dai bow windows, per cui, mentre la distanza del fabbricato dal filo
stradale di via Garigliano riportata sul progetto misura metri 5 (prendendo
come riferimento il muro del prospetto), essa risulta in realtà, ove venga
calcolata anche la sporgenza dei balconi, di soli metri 3,40.
Tale errore nel metodo del calcolo del distacco dell’edificio in
contestazione si riverbera anche sul calcolo della distanza dalla parete
dell'immobile prospiciente (cioè quello della ricorrente): anche in questo
caso, se si tiene conto dei balconi, il distacco non misura 10 metri, come
indicato nel progetto, bensì appena 8,40 metri. Inoltre, ad avviso della
ricorrente, le distanze sopraindicate risulterebbero ancora più ridotte (di
circa dieci centimetri), se si scomputasse dal relativo calcolo anche il
rivestimento perimetrale esterno (cd. cappotto termico).
In conclusione, secondo la ricorrente, l’errore di calcolo insito nel
progetto rende illegittimo il permesso a costruire, in quanto, fondandosi su
dati numerici non corrispondenti alla realtà, che non tengono conto
dell’ingombro dei balconi, contrasta con quanto prescritto dall’art. 23 del
Regolamento Edilizio Comunale che prevede che il distacco dai confini debba
essere misurato “nei punti di massima sporgenza, del piano terra e la
linea di confine”, mentre nel caso in esame, le distanze sono state
calcolate dalle pareti dell’edificio, anziché dal parapetto dei balconi.
Inoltre, secondo la ricorrente, non vale ad escludere l’illegittimità del
titolo abilitativo impugnato il fatto che l’art. 26 del Regolamento
Edilizio, nel disciplinare “Aggetti e Sporgenze”, “sembra
escludere dal computo della distanza legale tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, le pensiline ed i balconi o altri sporti abitabili o
comunque utilizzabili”: se così fosse, la previsione del REC andrebbe
annullata in quanto contrasta con i limiti di densità edilizia, di altezza e
di distanza tra i fabbricati inderogabilmente sanciti dal D.M. n. 1444 del
02.04.1968 o comunque disapplicata (con automatica sostituzione dei limiti
prescritti dal predetto DM, che costituisce la disciplina dettata, mediante
rinvio, dalla legge n. 765/1967).
Le doglianze vengono riprese nel terzo motivo di ricorso, ove si
denuncia la violazione dell’art. 6 della legge n. 241/1990, lamentando il
difetto di istruttoria in cui sarebbe incorso il responsabile del
procedimento per non aver rilevato l’errore di misurazione e di conseguenza
la violazione dei limiti inderogabili di distanza prescritti dall’art. 9 del
d.m. 1444/1968.
I mezzi di censura sopra richiamati vanno disattesi.
Innanzitutto, in punto di fatto, ove la ricorrente lamenta la violazione dei
limiti sopraindicati affermando che la distanza -“stimata visivamente”-
sarebbe di soli 4,65 metri, va osservato che, ai fini di verificare il
rispetto delle prescrizioni sul distacco dal confine, conta esclusivamente
la distanza fisica “effettiva” della costruzione -che risulta pari a
cinque metri- e non quella stimata sulla base dell’impressione visiva dei
soggetti interessati.
Inoltre, va precisato, ancora sulla qualificazione dei fatti, che i setti
murari impropriamente descritti dalla ricorrente come “bow-windows”
(come d’altronde ammesso nella stessa memoria conclusionale a pag. 11)
costituiscono in realtà delle strutture aggettanti che non rilevano ai fini
del calcolo delle distanze in quanto sono “aperti solo lateralmente e non
anche frontalmente, risultano destinati ad ospitare le centraline termiche
e, comunque, non sono destinati all’uso abitativo”: come chiarito dal
Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 4461/2018 pronunciata in sede di
appello cautelare -pienamente condivisa dal Collegio- devono essere esclusi
dal calcolo delle distanze e dei volumi i cd. locali tecnici.
Anche per quanto riguarda la più complessa questione della modalità di
calcolo dei balconi ai fini del rispetto delle distanze prescritte dall’art.
9 del DM n. 1444/1968, il Supremo Consesso, nel confermare il rigetto
dell’istanza cautelare, s’è pronunciato espressamente, prendendo aperta
posizione sulle opposte tesi e aderendo a quella autorevolmente esposta
nella sentenza 30.12.2016, n. 5552, chiarendo che “esiste un diffuso,
recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti
ai fini delle distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene di
non doversi discostare, che ammette che i detti elementi architettonici
possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto
art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò
autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè
al volume utile dell’edificio”.
La Sezione condivide le considerazioni e conclusioni dell’orientamento
giurisprudenziale sopra richiamato, al quale aveva già in passato aderito
con sentenza TAR Lazio II-quater 31.3.2010 n. 5319, respingendo le censure
avverso le previsioni dello strumento urbanistico e l’applicazione delle
prescrizioni sul calcolo delle distanze dedotte con doglianze analoghe a
quelle sollevate dalla ricorrente.
Così nel precedente richiamato è stata disattesa la doglianza relativa “alla
violazione del limite minimo di 5 metri lineari previsto dall’art. 4 delle
NTA del PRG, reclamando a tal fine doversi includere nel computo i balconi
ed alcuni pilastri” osservando che: “l’art. 4 disciplina il computo
del volume fabbricabile e, nell’ambito di questo, contiene previsioni sugli
aggetti, e che i balconi sono computabili nel volume solo se costituiscono
corpo di fabbrica (cioè aggetti chiusi volti a separare l’ambiente interno
da quello esterno) e non quando invece siano aperti su tre lati, come
affermato da costante giurisprudenza (cfr., di recente, Consiglio di Stato,
sez. IV, 07.07.2008, n. 3381), è solo a questi, contemplati dal primo comma
dell'art. 4 che la previsione delle NTA richiamata fa riferimento, al comma
successivo, per indicare la misura delle distanze (…) Al riguardo va
ricordato che, come affermato da costante giurisprudenza, ai fini del
computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della
solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti
di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa
e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene. Infatti, ciò che rende computabili
i balconi ai fini della misurazione delle distanze tra fondi finitimi è la
loro riconducibilità al concetto di costruzione edilizia, comportando essi
un ampliamento della consistenza dell'edificio tale da doversi senz'altro
considerare nel calcolo delle distanze legali (…)".
Infine, per quanto attiene al rispetto delle prescrizioni urbanistiche sulle
distanze minime dei fabbricati, i ricorrenti sostengono che il limite minimo
di 10 metri lineari sarebbe applicabile indipendentemente dalle presenza di
pareti finestrate, denunciando che il fabbricato da realizzare risulterebbe
superare tale limite (…) in quanto la planimetria allegata al progetto non
prende in considerazione i terrazzi, che come, corpi aggettanti vanno
computati ai fini delle distanze. Anche tale censura va disattesa in quanto
la giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico
dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza minima
di 10 mt lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti,
precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano
preveda ciò (TAR Liguria, sez. I, n. 1736/2009).
In tal modo la Sezione si era adeguata all’orientamento sancito dalla
sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381, la quale
aveva precisato che “i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla
facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento
dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di
necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a
livello incassate nel corpo dell’edificio con la conseguenza che mentre i
primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo
caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla
determinazione del volume” (Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n.
3381).
Con riferimento ad un caso, come quello in esame, in cui il regolamento
comunale prevedeva che “nella verifica delle distanze non si tiene conto
di (…) balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60”, è stato
ritenuto che tale prescrizione “costituisce norma eccezionale e di
favore, in quanto integra e deroga (con il favore della giurisprudenza, come
si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma
di ordine pubblico di cui all’art. 9 del DM più volte richiamato”,
precisando che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere
interpretate in senso restrittivo (Consiglio di Stato sez. VI, n. 5557/2013
con espresso richiamo a Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381).
Anche negli anni successivi tale orientamento è stato confermato ribadendo
che “balconi e pensiline” non sono compresi nel computo delle distanze di
cui al ridetto art. 9, d.m. n. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano
che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti,
estranei cioè al volume utile dell’edificio” (Consiglio di Stato, sez. IV,
n. 5552/2016); per cui si tratta di mere strutture architettoniche non
computabili nella volumetria della costruzione ed irrilevante ai fini del
calcolo delle distanze legali, a differenza dei “corpi di fabbrica,
computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari
proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se
scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza” (Consiglio di Stato sez.
VI, 10/09/2018, n. 5307 e Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n. 1272).
In conclusione, assume rilevanza decisiva il profilo della dimensione della
sporgenza, come ribadito da Consiglio di Stato sez. IV, n. 5895/2017 e n.
706/2018 (per cui nel caso di balconi aggettanti lo sporto nei limiti di
metri 1,50 è irrilevante rispetto alla distanza secondo Consiglio di Stato
sez. IV, n. 1801/2016; nello stesso senso, ugualmente per dimensioni
contenute, come nel caso in esame in metri 1,60, Consiglio di Stato sez. VI,
n. 5557/2013; mentre, nel caso contrario, in cui le dimensioni dello sporto
siano “importanti”, superando i due metri, va necessariamente calcolato,
come ribadito da ultimo, da TAR Puglia, n. 485/2019).
Nel caso in esame, pertanto, trovano applicazione i principi sopra
richiamati per cui i balconi in contestazione non sono computabili, al fine
della determinazione del rispetto delle distanze in questione, date le
caratteristiche costruttive (struttura aggettante: i balconi aperti in
questione) e le limitate dimensioni (metri 1,60, al netto del parapetto, per
un totale di circa 1,75 come indicato nel progetto e come effettivamente
costruito, stante l’esito della verifica effettuata in contraddittorio con
le parti nel corso del nuovo sopralluogo in data 03.07.2018, effettuato per
approfondire le prime sommarie rilevazioni dell’08.06.2008); le circostanze
rilevate dalla PA nel corso del sopralluogo in contradditorio sono
confermate dalla relazione del 09.11.2018 del CTU –all’esito del
sopralluogo in data 02.08.2018– incaricato nell’ambito del giudizio civile
davanti al Tribunale di Velletri, che ha confermato la misurazione della
larghezza dei balconi sopraindicati ed ha altresì attestato la conformità al
progetto di quanto costruito, nonché il rispetto della disciplina in tema di
distanze.
Pertanto non è in discussione il dato oggettivo della dimensione dei balconi
(sporgenti per metri 1,60 al netto dei parapetti oppure 1,75 inclusi i
parapetti, con conseguente riduzione della distanza dalla facciata rispetto
al limite minimo di 10 metri prescritto dal DM 1444/1968), bensì se tale
misura “intermedia” tra quella che per pacifica giurisprudenza consente di
ritenere il balcone un mero elemento architettonico (cioè 150-160
centimetri) oppure di configurare un vero e proprio autonomo corpo di
fabbrica (2 metri).
Nella mancanza di parametri di riferimento occorre tener conto della
disciplina edilizia locale e della costante prassi applicativa del Comune:
questa era nel senso di escludere i balconi di tali dimensioni dal calcolo
delle distanze degli edifici, come attestato dal Responsabile del Servizio
Urbanistica in data 09.08.2018 (detti balconi sono posti ad una distanza
superiore a ml. 3.00, nel rispetto dell'art. 26 del Regolamento Edilizio
Comunale; il fabbricato è conforme al progetto approvato; rispetta il punto
14.15 dell'art. 23 del predetto regolamento; anche con riferimento alla
distanza tra pareti finestrate l’opera eseguita risulta “non inferiore a
metri 10.00, nel rispetto dei limiti di distanza stabiliti dall’art. 9,
comma 2, del D.M. n. 1444/1968”; soprattutto lo stesso responsabile
dell’Ufficio predetto precisa che “per tutte le pratiche edilizie presentate
nel corso degli anni, per fabbricati simili e nella stessa zona F1 di P.R.G.
nella determinazione della distanza di ml. 10.00 tra pareti finestrate, non
sono mai stati considerati i balconi”); come confermato anche dal CTU che ha
escluso che il permesso di costruire in contestazione sia stato rilasciato
con violazione delle prescrizioni in materia di distanze legali.
In conclusione, l’orientamento giurisprudenziale, la prassi applicativa del
Comune, la legislazione sopra richiamate, inducono il Collegio ad escludere
l’illegittimità del permesso di costruire in esame, relativo ad un edificio
che, peraltro, è stato già da tempo realizzato secondo il progetto
contestato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.09.2019 n. 10843 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Prescrizione regolamentare di una distanza tra fabbricati maggiore.
Il principio della prevenzione si applica anche nell’ipotesi in cui il
regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di
quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga una distanza minima delle
costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della
disposizione regolamentare si estende all’intero impianto codicistico,
inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva
la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla
metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di
costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c.
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 09.09.2019 n. 22447 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
●
ritenuto che con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione o
falsa applicazione degli artt. 35 e 36 del regolamento edilizio del Comune
di Cassano Jonío e delle norme tecniche di attuazione del P.R.G., in
relazione agli artt. 872 e 873, cod. civ. e all'art. 360, n. 3, cod. proc.
civ., assumendo che:
- la sopraelevazione distava dal confine 3,35 m. e l'art. 46 del
regolamento locale fissava «la distanza delle costruzioni dal confini in
base alla distanza minima di metri 10 che deve intercorrere fra le pareti
finestrate di fabbricati antistanti», con la conseguenza che «la
distanza minima delle costruzioni dai confini di proprietà non può essere
inferiore a 5 metri», non potendo operare il principio della
prevenzione, pur ove «i regolamenti edilizi prevedano una distanza minima
assoluta tra costruzioni maggiore di quella prescritta dal codice civile
senza un riferimento esplicito al confine»;
●
ritenuto che con il secondo motivo la Ip. prospetta violazione dell'art.
112, cod. proc. civ., con conseguente nullità «della sentenza o del
procedimento», in relazione all'art. 360, n. 4, cod. proc. civ.,
assumendo che:
- la Ip. aveva chiesto la rimessione in pristino, anche tenendo
conto del fatto che la controparte aveva violato il divieto di costruire a
distanza inferiore ai 5 metri dal confine nascente da privata pattuizione
(atti pubblici del 12/11/1980 e del 28/10/1976) e la Corte locale aveva
omesso di pronunciarsi sul punto;
●
considerato che il primo motivo è manifestamente destituito di
giuridico fondamento per le ragioni di cui appresso:
- non è dubbio che il regolamento locale, come riporta la sentenza,
stabiliva distanza minima tra fabbricati, nulla prevedendo con riferimento
alla distanza dal confine;
- poiché i due fabbricati frontistanti risultavano posti alla
distanza di m. 15,60 la norma regolamentare risultava essere stata
rispettata;
- devesi, infatti, ribadire che il principio della prevenzione si
applica anche nell'ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una
distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non
imponga (come nel caso al vaglio) una distanza minima delle costruzioni dal
confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare
si estende all'intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della
prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul
confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta
tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in
aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c. (S.U., n. 10318,
19/05/2016, Rv. 639677); |
luglio 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: rispetto delle distanze tra fabbricati siti nel medesimo lotto
ed appartenenti ad unico proprietario – fabbricato parzialmente interrato a
destinazione accessoria- fabbricati privi di finestre e/o vedute - parere
(Legali Associati per Celva,
nota 04.07.2019 -
tratto da www.celva.it).
---------------
Il Comune di Valtournenche ha sottoposto, per il tramite del CELVA, la
seguente questione, inerente l’individuazione della distanza da rispettare
tra due fabbricati appartenenti allo stesso proprietario.
Nel dettaglio, viene specificato che si intende realizzare un fabbricato
seminterrato, costituito da tre lati interrati ed un lato libero destinato
ad autorimessa fronteggiante sul lato libero con un basso fabbricato
completamente fuori terra a destinazione accessoria (centralina
idroelettrica). (...continua). |
giugno 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
La distanza minima per il portico.
DOMANDA:
E' stata depositata istanza di sanatoria edilizia ai sensi
dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i. per un portico
costruito in aderenza al fabbricato principale, realizzato
con tre pilastri in legno, con copertura in tavolato e
aperto su tre lati; l'intervento ricade in zona classificata
dal P.I. vigente, "C1" residenziale.
Il portico risulta realizzato a ml 5,00 dal confine di
proprietà e a 7,00 ml dall'edificio residenziale dei
confinanti; la parete del fabbricato confinante, opponente e
fronteggiante il portico oggetto di sanatoria, risulta cieca
cioè con assenza di luci e vedute. Premesso che questo
Comune deve ancora adottare il R.E.T., il cui termine in
Veneto è stato prorogato fino al 31.12.2019, in base al
vigente Regolamento Edilizio comunale, artt. 3-5, la
realizzazione di un “portico” comporta, in
particolare, incremento della superficie coperta e
conseguentemente l'obbligo del rispetto della distanza sia
dai confini che dai fabbricati; inoltre lo stesso
regolamento edilizio prevede che la distanza tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, sia pari a minimo
ml 10,00 mentre quella tra pareti entrambe non finestrate
sia pari a minimo ml 6,00.
Il tecnico progettista dichiara che la parete di un portico
deve essere considerata cieca in quanto non presenta ne luci
ne vedute, e pertanto il portico realizzato risulta
sanabile.
Alla luce delle varie sentenze di TAR, C.d.S. e Cassazione,
sul tema della applicazione del D.M. 1444/1968 - distanza
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, si
chiede se ai fini dell'applicazione del suddetto D.M.
1444/1968, e quindi del sopra citato regolamento edilizio,
la parete di un “portico” possa essere considerata “parete
finestrata”, e pertanto con l'obbligo del rispetto dei
minimi 10.00 ml inderogabili, o possa essere considerata “parete
cieca”, e quindi, con l'obbligo del rispetto dei minimi
6,00 ml previsti dal regolamento edilizio comunale, in
presenza di pareti opponenti entrambe non finestrate.
RISPOSTA:
Con riferimento alla questione sollevata nel quesito posto,
si rileva che la Cassazione civile, a partire dalla sentenza
n. 27418 del 13.12.2005, ha superato il proprio precedente
orientamento, secondo cui la distanza minima di 10 metri fra
pareti finestrate di edifici antistanti non sarebbe
applicabile alla diversa situazione di un portico aperto
fronteggiante l’edificio in costruzione (Cass. 17.12.1993 n.
12506), affermando che la verifica della distanza legale fra
costruzioni deve essere effettuata tenendo conto del
porticato secondo la regola del vuoto per pieno.
In particolare, secondo la giurisprudenza della Corte di
Cassazione in tema di distanze tra edifici «al fine di
verificare il rispetto della distanza legale nelle
costruzioni, qualora una di esse sia provvista di porticato
aperto, con pilastri allineati al muro di facciata, deve
tenersi conto anche del porticato, secondo la regola del
“vuoto per pieno”, in quanto, anche nel caso in cui tra i
pilastri del porticato non siano realizzate pareti esterne
di collegamento, la fabbrica possiede i requisiti di
consistenza, solidità, stabilità ed immobilizzazione al
suolo che ne fanno una costruzione, soggetta alla disciplina
sulle distanze» (in questo senso, Cass. civ., sez. II,
06.05.2014 n. 9679; Cass. civ., 26.07.2013, n. 18119; Cass.
civ., 14.03.2011 n. 5934; Cass. civ. 13.12.2005, n. 27418).
Il suddetto orientamento è stato richiamato e condiviso
anche dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di
Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, Adunanza
delle Sezioni Riunite del 03.02.2017, numero 339/2017 e data
spedizione 02.05.2017; Tar Toscana, Firenze, sez. III,
23.12.2014, n. 2153; Tar Toscana, Firenze, sez. III,
09.01.2017, n. 2).
Infatti, nella sopra citata pronuncia del Consiglio di
Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana è stato
ribadito e precisato quanto segue: «Ritiene questo
Consiglio che la distanza tra edifici vada calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole
parti che si fronteggiano, e comunque in relazione a tutte
le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela; essa va computata in relazione a tutti
gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia
la funzione, aventi i caratteri della solidità, della
stabilità e della immobilizzazione, ivi compresi i porticati
aperti, secondo il criterio del “vuoto per pieno” (salvo che
non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni
con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da
potersi definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e
dell'igiene)».
Alla luce della giurisprudenza sopra citata ed in
considerazione anche del fatto che, in base al vigente
Regolamento Edilizio comunale, la realizzazione di un “portico”
comporta incremento della superficie coperta e
conseguentemente l'obbligo del rispetto della distanza sia
dai confini che dai fabbricati, l’applicazione del D.M.
1444/1968 nonché del sopra citato regolamento edilizio
comporta l’obbligo del rispetto dei minimi 10.00 ml
inderogabili tra il “portico” in questione e
l’edificio residenziale dei confinanti (tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanza minima di 10 metri dalle pareti finestrate.
In tema di distanze, la distanza minima fissata dall’art. 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444 di 10 mt. dalle pareti finestrate è volta alla
salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, al fine di
evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di
salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed altro.
E trattasi certamente di una norma che, in ragione delle prevalenti esigenze
di interesse pubblico, innanzi indicate, ha carattere cogente e tassativo,
prevalendo anche sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva
(Corte d'Appello di Catania, Sez. II, sentenza 08.06.2019 n. 1326 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
maggio 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Con
riferimento al rispetto delle distanze legali, precisato che la questione
non si pone con riferimento ai volumi tecnici (non costituendo, questi,
costruzioni ai sensi dell'art. 873 c.c., non devono essere considerati ai
fini del computo delle distanze dai confini), si deve rilevare ulteriormente
come i locali seminterrati, ossia quei locali che sporgono dal terreno per
un’altezza inferiore a tre metri, non siano assoggettabili alla norma sulla
distanza legale tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. n.
1444/1968.
---------------
In forza del principio di cui all’art. 878 del codice civile, il muro di
cinta di altezza non superiore a tre metri non rileva ai fini del rispetto
delle distanze delle costruzioni dal confine; e consente, quindi, la
realizzazione di costruzioni “in aderenza” al muro posto sul confine, purché
aventi altezza non superiore a tre metri.
---------------
10.2. - In secondo luogo, con
riferimento al rispetto delle distanze legali, precisato che la questione
non si pone con riferimento ai volumi tecnici (non costituendo, questi,
costruzioni ai sensi dell'art. 873 c.c., non devono essere considerati ai
fini del computo delle distanze dai confini), si deve rilevare ulteriormente
come i locali seminterrati, ossia quei locali che sporgono dal terreno per
un’altezza inferiore a tre metri, non siano assoggettabili alla norma sulla
distanza legale tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. n.
1444/1968.
E, nel caso di specie, come risulta dall’esame degli elaborati progettuali
allegati alla domanda di condono (cfr. deposito del 17.09.2011 del Comune di
Olbia), sia il locale tecnico trasformato in una unità edilizia residenziale
costituita da un vano e da un bagno (oggetto della concessione in sanatoria
n. 2160 del 26.05.2010), sia la cantina ubicata nel piano seminterrato e
trasformata in unità edilizia residenziale costituita da due camere con due
w.c., due ripostigli e un corridoio (concessione in sanatoria n. 2170 del
26.05.2010), hanno altezze inferiori a tre metri.
Il dato assume rilievo anche per quanto concerne l’applicazione delle norme
sulla distanza dal confine. Entrambi i manufatti per cui è controversia sono
stati realizzati –come si è visto– ad un’altezza inferiore a quella alla
quale sarebbe consentito realizzare il muro di cinta.
Da ciò consegue l’operatività del principio di cui all’art. 878 del codice
civile, per il quale il muro di cinta di altezza non superiore a tre metri
non rileva ai fini del rispetto delle distanze delle costruzioni dal
confine; e consente, quindi, la realizzazione di costruzioni “in aderenza”
al muro posto sul confine, purché aventi altezza non superiore a tre metri.
10.3. - Non sussistono, pertanto, le condizioni affinché possa concretamente
operare la distanza minima di 5 metri dal confine prevista dal Piano
regolatore generale, in quanto tale prescrizione non opera per le
costruzioni di altezza non superiore ai tre metri, posto che in questo caso
le esigenze di igiene e ornato pubblico sottese alla citata previsione
pianificatoria in concreto non sussistono (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 24.05.2019 n. 438 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul mancato rispetto della distanza minima tra pareti finestrate.
Circa il mancato rispetto delle distanze il Collegio si richiama
ai seguenti principi affermati dalla giurisprudenza
a) l’art. 9 del d.m. del 1968, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in
tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile.
Conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con
carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa
che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità
nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli
opposti interessi;
b) la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano. Tale calcolo si riferisce a tutte le
pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì
dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima
o a diversa altezza rispetto all’altra;
c) l’art. 136 d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art.
41-quinquies, commi 6, 8, 9, della legge n. 1150 del 1942, per cui in forza
dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10
metri tra le pareti finestrate e di edifici antistanti è quella che tutti i
Comuni sono tenuti ad osservare, ed il giudice è tenuto ad applicare tale
disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti
urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel PRG
al posto della norma illegittima.
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria,
costituisce quindi un principio assoluto ed inderogabile, che prevale sia
sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina
privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e
pianificatoria dei Comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale
sovraordinata, sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto
tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti;
d) ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e
regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si
deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma
anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente
che ne comporti l'aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente
incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò
anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore
volumetria e/o dall’utilizzabilità della stessa a fini abitativi;
e) la sopraelevazione deve essere considerata come nuova
costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della
normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo
confinante; risulta, in tal caso, inapplicabile il criterio di prevenzione,
che si esaurisce, viceversa, con il completamento, dal punto di vista
strutturale e funzionale, della prima costruzione.
---------------
10. Per quanto riguarda il mancato rispetto delle distanze, alla base del
provvedimento impugnato, il Collegio si richiama ai seguenti principi
affermati dalla giurisprudenza e recentemente sintetizzati nella sentenza
della IV Sezione n. 6378/2018:
a) l’art. 9 del d.m. del 1968, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettato in
tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile (cfr. Cass. civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108; Cons. Stato, Sez.
V, 19.10.1999 n. 1565; da ultimo, Cass. civ., Sez. II, 03.10.2018 n. 24076);
conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con
carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa
che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità
nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli
opposti interessi (cfr. Cass., Sez. II, 16.08.1993 n. 8725 e 07.06.1993 n.
6360);
b) la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano (Cons. St., Sez. V, 16.02.1979, n. 89).
Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a
quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela (Cass., Sez. II, 30.03.2001 n. 4715), indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima
o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass., Sez. II, 03.08.1999 n.
8383; Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909; id., 02.11.2010, n. 7731);
c) l’art. 136 d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l’art.
41-quinquies, commi 6, 8, 9, della legge n. 1150 del 1942, per cui in forza
dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10
metri tra le pareti finestrate e di edifici antistanti è quella che tutti i
Comuni sono tenuti ad osservare, ed il giudice è tenuto ad applicare tale
disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti
urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel PRG
al posto della norma illegittima (Cass. civ., Sez. II, 29.05.2006, n.
12741).
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria,
costituisce quindi un principio assoluto ed inderogabile (Cass. civ., Sez.
II, n. 11013/2002), che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in
quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Cost., n.
232 del 2005), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni,
in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata (Cass. civ.,
Sez. II, n. 23495/2006), sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in
quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle
parti (Cons. St., Sez. IV, 3094 del 2007);
d) ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e
regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si
deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma
anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente
che ne comporti l'aumento della sagoma d’ingombro, in tal guisa direttamente
incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò
anche indipendentemente dalla realizzazione o meno di una maggiore
volumetria e/o dall’utilizzabilità della stessa a fini abitativi (Cass., n.
8383 del 1999, cit.);
e) la sopraelevazione deve essere considerata come nuova
costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della
normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo
confinante; risulta, in tal caso, inapplicabile il criterio di prevenzione,
che si esaurisce, viceversa, con il completamento, dal punto di vista
strutturale e funzionale, della prima costruzione (Cass. n. 5049/2018).
Nel caso si specie non è in discussione che le distanze previste non siano
state rispettate e, in considerazione della loro inderogabilità, non è
rilevante la proprietà degli immobili.
Non sono pertanto accoglibili le censure proposte dall’appellante al terzo e
quarto motivo
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 23.05.2019 n. 3367 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Finestre
e luci.
Premesso che l'art. 9
del D.M. n. 1444 del 1968, in materia di
distanze tra edifici, fa espresso ed
esclusivo riferimento alle pareti finestrate,
per tali dovendosi intendere unicamente le
pareti munite di finestre qualificabili come
vedute, senza ricomprendere quelle sulle
quali si aprono semplici luci, non possono
essere considerate “vedute” alla stregua
dell'articolo 900 codice civile aperture
munite di grate di ferro e collocate ad
un’altezza tale dal pavimento del luogo al
quale si vuole dare luce ed aria che non
consentono le funzioni della veduta in
condizioni di sufficiente comodità e
sicurezza e non sono raggiungibili
normalmente senza l’ausilio di strumenti
appositi, non permettendo cioè né di
affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio)
né di guardare di fronte, obliquamente o
lateralmente (inspectio)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.05.2019 n. 1168 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
3. Venendo all’esame del merito il Collegio
ritiene che abbia carattere prioritario ed
assorbente l’esame del secondo motivo
di ricorso.
Se infatti, come ritenuto dal ricorrente, le
distanze previste dall’art. 9 del D.M.
1444/1968 non debbono essere rispettate con
riferimento alle luci, vengono meno anche le
assunte ragioni di illegittimità del
permesso di costruire e di interesse
pubblico al suo annullamento in autotutela,
e cade anche l’ordine di demolizione
contestato con i successivi motivi.
In merito occorre specificare che la Sezione
(TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30/11/2018
n. 2706) ha affermato che “l'art.
9 del D.M. n. 1444 del 1968, in materia di
distanze tra edifici, fa espresso ed
esclusivo riferimento alle pareti finestrate,
per tali dovendosi intendere unicamente le
pareti munite di finestre qualificabili come
vedute, senza ricomprendere quelle sulle
quali si aprono semplici luci
(Consiglio di Stato, sez. IV, 05.10.2015, n.
4628; cfr., nella giurisprudenza civile,
Cassazione civile, sez. II, 20.12.2016, n.
26383). L’operatività della
previsione è, quindi, condizionata dalla
natura delle aperture”.
Nel caso di specie né nel sopralluogo del
tecnico comunale del 14.09.2017 né nel
provvedimento impugnato il Comune ha preso
posizione in merito alla natura delle
aperture.
In sede giudiziale poi né il Comune né la
controinteressata hanno contestato la
qualificazione delle c.d. “finestrature
con interposte parti apribili ed entrambe
munite di grate in ferro”, come
qualificate nel verbale di sopralluogo, in
termini di luci o vedute.
Dall’esame degli atti e delle fotografie
prodotte risulta chiaro che
le aperture di cui si discute sono
qualificabili in termini di luce e non di
veduta.
Esse infatti sono munite di
grate di ferro e sono collocate ad
un’altezza tale dal pavimento del luogo al
quale si vuole dare luce ed aria, che non
sono esercitabili le funzioni della veduta
in condizioni di sufficiente comodità e
sicurezza
(Cass. n. 18910 del 2012; Cass. n. 7267 del
2003) e non sono le stesse
raggiungibili normalmente senza l’ausilio di
strumenti appositi.
Non possono quindi di certo
considerarsi “vedute” alla stregua
dell'articolo 900 codice civile -non
consentendo né di affacciarsi sul fondo del
vicino (prospectio) né di guardare di
fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-,
ma semplici “luci” in quanto
consentono il solo passaggio dell'aria e
della luce
(in questo senso Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.10.2015 n. 4628).
Ne consegue, anche senza
l’accertamento specifico dell'altezza
prescritta ex art. 901 c.c., che è possibile
affermare, senza ombra di dubbio, che le
aperture in questione non sono “vedute”
(sulla sufficienza di tale prova negativa
Cass. Civile Ord. Sez. 2 19/02/2019 n. 4830)
e quindi vanno qualificate come “luci”
ai sensi dell'art. 902 c.c..
Ne consegue, assorbite le restanti censure,
che il ricorso va accolto in quanto
l’annullamento in autotutela del permesso di
costruire è stato disposto per violazione
della distanza minima di 10 metri tra pareti
finestrate prevista dall’art. 9 del DM
1444/1968, in mancanza dei presupposti per
l’applicazione della suddetta normativa.
Il venir meno del provvedimento di
autotutela determina la caducazione
dell’ordine di demolizione, di cui il primo
costituisce atto presupposto. |
EDILIZIA PRIVATA: La distanza di dieci metri sussistente tra edifici antistanti: a cosa si
riferisce?
La distanza di dieci metri, sussistente tra edifici antistanti, si riferisce
a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e sia quella del nuovo
edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione;
inoltre, la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti, deve essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti
finestrate, non soltanto a quella principale
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 10.05.2019 n. 2519 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è infondato nel
merito e va pertanto respinto.
Ed invero, va evidenziato come l’impugnato diniego si fondi sulla
circostanza che la prevista sopraelevazione del locale garage "violerebbe la
prescrizione relativa alla distanza dai fabbricati imposta dall'art. 28
delle vigenti norme di attuazione del P.R.G. che peraltro richiama il
disposto dell'art. 9 del D.M 02.04.1968 n. 1444"; ciò in quanto con la
prevista sopraelevazione del solaio di copertura a quota + 1,5 mt., e cioè in
corrispondenza del piano rialzato dell'abitazione retrostante di proprietà
del ricorrente, quest’ultimo si troverebbe di fatto agganciato in
prosecuzione di un preesistente balcone del locale cucina del ricorrente,
trasformandolo in un ampio terrazzo, a confine con la proprietà aliena, come
del resto inequivocabilmente dimostrato dalla prevista costruzione anche di
un torrino scale per raggiungere la sommità del garage stesso, il tutto in
violazione delle distanze minime previste dall’art 28 delle N.T.A -che
prevede, per le nuove costruzioni, una distanza non inferiore a m. 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti-, risultando invece, nel
caso di specie, il nuovo ampio balcone così di fatto realizzato ad una
distanza di mt. 4,70 dal retrostante preesistente immobile finestrato in
ditta Ma..
Orbene, la condivisibile giurisprudenza amministrativa ha da tempo osservato
che “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti
si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla
circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che
tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o
della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o
a diversa altezza rispetto all'altra. Si rammenta in particolare, a tale
proposito che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata
con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché
non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene,
i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in
oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro
sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di
particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e
ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso
abitativo” ( cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909,
Consiglio di Stato, sez. IV 22.10.2013 n. 5557).
La medesima giurisprudenza ha altresì osservato che, per "pareti finestrate",
ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444, “devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti
munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì
che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte
d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565;
TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419)” (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV 22.10.2013 n. 5557 citato), e tale principio è stato
di recente ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione che nella
sentenza n. 166/2018 ha espressamente affermato che "in tema di distanze tra
costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con riferimento
alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in
superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poichè
il D.M. 02.04.1968, art. 9, -applicabile alla fattispecie, disciplinata
dalla Legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla L. n. 765
del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate
e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di
misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione
del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della
distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra
fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd.
legge ponte (in senso sostanzialmente conforme si veda anche Cass. n.
23553/2013; Cass. n. 17089/2006). |
EDILIZIA PRIVATA: Disciplina delle distanze tra edifici.
Qualora vi siano edifici che si fronteggiano, il rispetto degli
allineamenti è condizionato della disciplina delle distanze tra edifici,
prevista dal D.M. n. 1444/1968, e ciò a prescindere dallo stato di
urbanizzazione dell’area, dovendo peraltro essere osservate anche le norme
sugli allineamenti verticali
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.05.2019 n. 3003
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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10.1. La Sezione ritiene decisive, nel senso del rigetto dell’appello, le
seguenti considerazioni:
a) in data 28.11.2016, il Comune di Campobasso ha emanato la
comunicazione prot. n. 40133, concernente “provvedimento per l’annullamento
d’ufficio in autotutela del silenzio-assenso formatosi sull’istanza edilizia prot. n. 4915 del 17.02.2015, dichiarato con sentenza del Tar Molise
n. 340/2016, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990”;
b) l’amministrazione comunale ha motivato la decisione di ritiro in
autotutela, sulla base delle seguenti considerazioni: assenza
dell’asseverazione del progettista abilitato, di cui all’art. 20, comma 1,
del d.p.r. n. 380/2001 e s.m.i.; assenza dei pareri dei Beni ambientali
della Regione Molise e della Soprintendenza, richiesti dalla delibera di
consiglio comunale n. 2 del 12.02.2010, avente ad oggetto legge
regionale n. 30 dell’11.12.2009 – cd. legge sul Piano casa; violazione
e falsa applicazione della predetta legge regionale in relazione alla
disciplina sulle distanze legali; difformità del progetto alle vigenti norme urbanistico-edilizie, con particolare riguardo ai profili dell’inosservanza
degli allineamenti verticali; all’inosservanza delle disposizioni di cui
alla delibera c.c. n. 33/2010 e dell’art. 22 della l.r. n. 33/1999;
all’inosservanza dell’art. 9 del DM 1444/1968 quanto alle distanze tra i
fabbricati; all’assenza della titolarità sull’unità immobiliare censita in
catasto al foglio 119, part. 126, sub. 2; all’assenza degli elaborati di cui
all’art. 3, comma 1 della legge regionale n. 36/2002.
c) L’intervento edilizio programmato non si limita alla demolizione
e alla ricostruzione dell’esistente, bensì alla realizzazione di un corpo di
fabbrica diverso per forma e per sagoma, mediante sopraelevazione (dagli
originari due piani si passa a nove piani, per un’altezza di circa 26
metri), aumento di volume e di superficie (da circa mq 1.000 si passa a
circa mq 9.000) e mutamento della destinazione d’uso (da cinema teatro a
residenza e locali commerciali).
d) Tali caratteristiche determinano l’assoggettamento
dell’intervento al regime delle distanze minime tra i fabbricati, situati
all’interno delle zone territoriali omogenee, stabilite dall’art. 9, comma
2, del D.M. 1444/1968, per il quale “è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti”.
f) L’indirizzo ermeneutico del Consiglio di Stato, è costante
nell’affermare che:
f.1) la disposizione contenuta nell'articolo 9
cit. ha carattere inderogabile, poiché si tratta di una norma imperativa,
emanata in applicazione dell'art. 41-quinquies della l. 07.08.1942 n.
1150, la quale predetermina in via generale e astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento
dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei
proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è
invece disposta dalla disciplina, anche in tema di distanze, del codice
civile (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
f.2) il dovere di rispettare siffatte distanze
sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si
collochino le aperture tra le due pareti fronti stanti e, ai fini
dell'operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia
finestrata anche una sola delle due pareti interessate; inoltre, la
disposizione è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle
sopraelevazioni di edifici esistenti, in ragione della sua finalità di
tutela della salubrità, ed al tale riguardo è esclusa ogni discrezionalità
valutativa del giudice circa l'esistenza in concreto di intercapedini e di
condizioni di pregiudizio alla salubrità dei luoghi, stante la sua portata
generale, astratta e inderogabile (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 3522
del 04.08.2016);
f.3) l’art. 9, comma 2, cit. riguarda “nuovi
edifici”, intendendosi per tali, gli edifici (o parti o sopraelevazioni di
essi) “costruiti per la prima volta”, e non già gli edifici preesistenti
(Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
f.4) dall’ambito applicativo della norma, va
esclusa la fattispecie (non sussistente nel caso all’esame, attesa
l’imponente sopraelevazione) della mera ricostruzione dell’immobile
demolito, atteso che –altrimenti- si otterrebbe:
a) la perdita di volume
dell’immobile, non potendo –il medesimo immobile- che essere ricostruito, se
non arretrato, rispetto all'allineamento preesistente;
b) il disallineamento
del fabbricato ricostruito rispetto agli altri immobili preesistenti, con un
evidente vulnus estetico e realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed
intercapedini nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e
decoro, che invece l'articolo 9 intende perseguire (Consiglio di Stato,
Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
g) i principi di diritto enucleati dall’Adunanza Plenaria n. 8 del
2017 (bilanciamento tra l’interesse pubblico e privato e tutela del
legittimo affidamento) riguardano il caso specifico in cui le opere siano
state realizzate e occorra, pertanto, dare luogo ad un ragionevole e
proporzionato bilanciamento tra l’interesse pubblico sostanziale al
ristabilimento della legalità violata e l’interesse privato alla
conservazione del bene. Nel caso de quo, attesa la mancata realizzazione
delle opere, la natura imperativa ed inderogabile della disciplina edilizia
in materia di distanze (il DM 1444 del 1968 è stato emanato in attuazione
della legge n. 1150 del 1942) e la pronuncia di incostituzionalità della
Legge regionale che consentiva di derogare a tale disciplina, non può darsi
luogo ad automatica applicazione di siffatti principi esegetici;
h) in ogni caso, anche laddove vi si volesse fare richiamo, il
rispetto dei parametri edilizi normativi evidenzia, di per sé, la natura
degli interessi pubblici che in concreto si assumono pregiudicati
dall’intervento in contestazione, nonché la loro prevalenza rispetto agli
interessi privati antagonisti, in ragione della loro rilevanza
costituzionale e delle inderogabili finalità di interesse generale che sono
chiamate a presidiare;
i) non può dirsi radicato, inoltre, alcun ragionevole affidamento
del privato in ordine alla conservazione del titolo, atteso che:
1)
l’Amministrazione comunale si è sempre attivata, richiedendo alla parte
privata le dovute integrazioni documentali volte a chiarire la reale portata
dell’intervento programmato;
2) l’Amministrazione ha emanato un espresso
provvedimento di diniego, perché in contrasto con la disciplina edilizia
della zona;
3) è intercorso un brevissimo lasso di tempo –poco più di due
mesi– tra il deposito (in data 17.08.2016) della sentenza del Tar
Molise, dichiarativa dell’intervenuta formazione del silenzio assenso, e
l’avvio (in data 31.10.2016), del procedimento di autotutela per la
rimozione del titolo medesimo;
4) in ogni caso, è ragionevole, ai sensi
dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, anche il lasso di tempo
intercorso tra la prospettata formazione del silenzio assenso (04.07.2015) e la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela (31.10.2016);
l) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 185 del 20.07.2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7,
della L.R. 30/2009 che, nella originaria formulazione, prevedeva la
possibilità di derogare ai limiti di distanza tra fabbricati di cui all’art.
9 del D.M. n. 1444/1968. L’esercizio del potere di annullamento officioso,
da parte del Comune di Campobasso, non rinviene preclusioni di sorta, in
considerazione del fatto che non si è prodotto alcun effetto intangibile o
irreversibile (è mancato un giudicato sulla legittimità del titolo
edilizio);
m) il progetto edilizio in questione non può beneficiare della
deroga contenuta nell'ultimo comma dell'articolo 9 cit. (“Sono ammesse
distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”), perché,
per un verso, manca il piano attuativo di iniziativa pubblica o privata e,
per un altro verso, l’intervento riguardo un solo fabbricato e non “gruppi
di edifici”;
n) la deliberazione n. 2/2010, in attuazione del piano casa di cui
alla legge regionale n. 30/2009, non equivale all’adozione e
all’approvazione del piano particolareggiato di esecuzione, secondo quanto
previsto dall’art. 13, della legge n. 1150 del 1942;
o) il rispetto degli allineamenti, in presenza di edifici che si
fronteggiano, resta comunque condizionato al rispetto della disciplina delle
distanze tra edifici di cui al DM 1444/1968, a prescindere dallo stato di
urbanizzazione dell’area. Devono, inoltre, essere osservate le norme sugli
allineamenti verticali;
p) non è ravvisabile lo sviamento di potere rispetto alla funzione
tipica: il provvedimento di autotutela è stato emanato sul presupposto della
violazione di una norma inderogabile di natura imperativa (il DM 1444 del
1968, in attuazione della legge delega n. 1150 del 1942), non in ragione del
vincolo culturale (vincolo, peraltro, annullato in via giurisdizionale dalla
sentenza non definitiva della Sezione n. 6166 del 2017). |
EDILIZIA PRIVATA: F.
Ressa,
Come misurare la distanza tra edifici? Lo ha chiarito la Cassazione
(09.05.2019 - link a http://biblus.acca.it). |
aprile 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Cassazione: le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale ma in
modo lineare. Ai Comuni è sì consentito stabilire negli strumenti
urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare.
Le distanze tra edifici non si misurano in modo
radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo
lineare. Lo scopo del limite imposto dall'art. 873 c.c. è di impedire la
formazione di intercapedini nocive.
Lo ha ribadito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella
sentenza 16.04.2019 n. 10580.
In questa recente sentenza viene richiamato un consolidato orientamento
della Cassazione, secondo cui "le distanze tra edifici
non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle
vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite imposto dall'art.
873 c.c. è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive, sicché
la norma cennata non trova giustificazione se non nel caso che i due
fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si
fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farle
avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto"
(così Cass. 2548/1972, più di recente cfr. Cass. 9649/2016).
Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell'art. 873 c.p.c.,
stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il
metodo di calcolo lineare (commento tratto da www.casaeclima.com).
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I primi tre motivi, tra loro strettamente connessi, sono fondati.
Il giudice d'appello ha osservato che "oggetto di censura è unicamente la
modalità radiale di misurazione" cui sono quindi limitati "l'esame e
la decisione del gravame", che, in forza del richiamo operato dagli artt.
872 e 873 c.c., i regolamenti edilizi e i piani regolatori generali hanno
valore di legge e possono sempre stabilire una distanza maggiore, il che può
indifferentemente avvenire sia in virtù della espressa indicazione di una
maggiore misura dello spazio che come effetto di una particolare misurazione
da essi imposta, così che -conclude il giudice- è legittimo il metodo
radiale stabilito dall'art. 18 delle norme di attuazione del piano
regolatore del Comune di Lierna e bene ha fatto il giudice di primo grado ha
ritenere violata la distanza minima.
L'iter argomentativo del giudice si pone in contrasto con il consolidato
orientamento di questa Corte, secondo cui "le distanze
tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze
rispetto alle vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite
imposto dall'art. 873 c.c. è quello di impedire la formazione di
intercapedini nocive, sicché la norma cennata non trova giustificazione se
non nel caso che i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla
linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che,
supponendo di farle avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino
almeno in un punto" (così
Cass. 2548/1972, più di recente cfr. Cass. 9649/2016).
Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell'art.
873 c.p.c., stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non
alterare il metodo di calcolo lineare.
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Al riguardo, si legga anche:
● F. Ressa,
Come misurare la distanza tra edifici? Lo ha chiarito la Cassazione
(09.05.2019 - link a http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: il principio della prevenzione.
In tema di distanze tra edifici, il principio della prevenzione è escluso
solo in presenza di una norma del regolamento edilizio comunale che
prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine. Ne consegue
che, in assenza di una siffatta previsione, deve trovare applicazione il
principio della prevenzione in base al principio della prevenzione il
proprietario che costruisce per primo condiziona la scelta del vicino che
voglia a sua volta costruire
(Corte d'Appello di Catania, Sez. II, sentenza 11.04.2019 n. 842 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il calcolo delle distanze tra edifici.
Ai fini del calcolo delle distanze tra edifici assumono rilievo tutti gli
elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi
carattere della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che si tratti di sporgenze e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell’igiene
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 02.04.2019 n. 485
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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18.- Al riguardo, il Tribunale ritiene che nel calcolo delle
distanze non possano non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste
ultime, tenuto conto della loro apprezzabile consistenza (larghezza di 2 mt)
possono considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
19.- Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli
elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi
i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
20.- Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal
confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione
stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di
tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora
queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di
opera edilizia (Cfr., Cassazione civile sez. II, 29/01/2018, n. 2093).
21.- In realtà, l'art. 9 delle NTA del Piano particolareggiato del Comune di
Gravina non introduce un criterio di calcolo delle distanze diverso da
quello prescritto dalla legislazione statale, posto che quando impone i
limiti di distacco dal confine, si riferisce -non escludendoli
espressamente- anche ai balconi che fanno parte di tali costruzioni.
22.- Né ad una diversa conclusione può pervenirsi applicando –come
suggerisce la difesa della controinteressata- le modalità di computo delle
distanze minime tra i fabbricati, indicate dall’art. 9 delle NTA come “la
lunghezza del segmento intercorrente tra le fronti di edifici antistanti,
effettuata perpendicolarmente alle pareti e sul piano orizzontale,
escludendo gli aggetti ed i balconi totalmente aperti”.
23.- Il Collegio, infatti, ritiene che, anche in sede di computo minimo
delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi
aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con
funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di
riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed
ordinario.
24.- Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma
2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali,
evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata
operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del
regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011,
n. 14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458).
25.- Del resto, la stessa giurisprudenza citata dalla controinteressata,
limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo
dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si
tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume
utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2016, 5552),
situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
26.- Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli
sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con
funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le
mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili,
mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra
costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza” (TAR Genova, sez. I, 21/11/2013, n. 1406).
27.- E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di
carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”,
che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe
irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali (Consiglio di Stato
sez. VI, 10/09/2018, n. 5307 Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n.
1272).
28- Sotto altro aspetto, contrariamente a quanto ritenuto dalla società
controinteressata, non trova integrale applicazione il principio della c.d.
prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che
costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle
altre costruzioni sui fondi vicini.
29.- Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando
l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come
nel caso in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di
urbanistica, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari
confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le
costruzioni, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali
fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati
diritti soggettivi, di interessi generali. (Cassazione civile sez. II,
21/02/2019, n. 5146).
30.- Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione
renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della
distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto
come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità
del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare
tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i
fabbricati”.
31.- Pertanto, e, in assenza di una costruzione in aderenza, la
controinteressata era tenuta al rispetto della distanza minima di 5 mt dal
confine prevista dalle disposizioni delle NTA del Piano particolareggiato,
al riguardo imprescindibilmente vincolanti, in mancanza di diverso accordo
tra le parti.
32.- Alla luce delle considerazioni che precedono, ed assorbite le restanti
censure, il ricorso deve essere accolto. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Tribunale ritiene che nel calcolo delle distanze tra fabbricati non possano
non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste ultime nel caso di
specie, tenuto conto della loro apprezzabile consistenza (balconi della
larghezza di 2 mt), possono
considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli
elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi
i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal
confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione
stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di
tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora
queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di
opera edilizia.
---------------
Il Collegio ritiene che, anche in sede di computo minimo
delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi
aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con
funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di
riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed
ordinario.
Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma
2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali,
evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata
operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del
regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc.
Del resto, la stessa giurisprudenza
limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo
dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si
tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume
utile dell’edificio,
situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli
sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con
funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le
mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili,
mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra
costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza”.
E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di
carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”,
che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe
irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali.
---------------
Sotto altro aspetto, non trova integrale applicazione il principio della c.d.
prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che
costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle
altre costruzioni sui fondi vicini.
Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando l'obbligo
di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come nel caso
in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, con
lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di
salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, avuto riguardo al
carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi
preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di
interessi generali.
Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione
renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della
distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto
come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità
del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare
tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i
fabbricati”.
---------------
10.- Nel merito, il ricorso è fondato.
11.- L’art. 9 delle NTA del Piano Particolareggiato del Comune di Gravina di
Puglia, invero, prescrive che “l’edificazione, quando non avvenga in
aderenza, deve rispettare una distanza minima dal confine di 5 metri. E’
consentita la costruzione di un fabbricato a meno di 5 metri dal confine
solo nel caso in cui tra i confinanti si stabilisca un accordo che assicuri
il rispetto della distanza totale prescritta tra i fabbricati”.
12.- La norma in questione, quindi, nel caso in cui non si ritenga di
costruire in aderenza, consente la deroga convenzionale della distanza
minima di 5 metri dal confine.
13.- Ciò posto, e in mancanza dell’accordo tra confinanti previsto dall’art.
9 delle NTA di Piano, il Collegio ritiene sussistere la contestata
violazione delle distanze prescritte dalle citate NTA.
14.- La controinteressata, infatti, si è limitata a rappresentare al Comune
di aver “notiziato” i proprietari limitrofi della richiesta di permesso di
costruire con lettera raccomandata, dal cui contenuto, tuttavia, non emerge
affatto –come sarebbe stato necessario- una specifica richiesta ai
confinanti di consenso alla deroga circa il regime delle distanze.
E ciò nonostante l’accordo richiesto dall’art. 9 citato abbia un oggetto ben
preciso dovendo le parti stabilire consensualmente le modalità che
consentano di rispettare la distanza totale (di dieci metri) prescritta tra
i fabbricati.
15.- Che sia mancato il consenso “tacito” dei ricorrenti è assunto,
peraltro, che trova conferma nella circostanza di fatto che i ricorrenti,
solo a seguito dell’esame del progetto da parte del tecnico di fiducia, sono
stati posti nelle condizioni di prestare un consenso o un dissenso informato
in ordine alla nuova costruzione in deroga alle distanze fissate nel Piano.
Tale dissenso, pertanto, è stato correttamente esercitato prima con le note
del 06.11.2018, indirizzate al Comune di Gravina di Puglia e, poi, con la
proposizione dell’odierno ricorso.
16.- Tanto premesso, il Collegio rileva che il progetto assentito
effettivamente prevede la costruzione del fabbricato a distanza di m. 3,00
dal confine con la porzione di terreno di proprietà degli odierni
ricorrenti, inferiore, quindi, alla distanza di 5 metri prescritta,
dall’art. 9 delle NTA, per gli edifici dal confine qualora l’edificazione
non sia in aderenza.
La perizia depositata dagli istanti in giudizio, sul punto non smentita
dalla controinteressata, dà infatti atto che sul confine nord con la
proprietà degli odierni ricorrenti “dal corpo di fabbrica della Ir.Im. srl sono stati previsti degli aggetti sporgenti aventi una
larghezza di mt. 2,00, tal da ridurre la distanza dal confine a metri 3”.
17.- Tale circostanza, peraltro, è stata confermata dalla stessa
amministrazione civica che, all’atto del sopralluogo del 11.01.2018, ha
accertato la demolizione del balcone (peraltro oggetto di apposita Scia),
comunicato dalla controinteressata con nota del 13.12.2018.
18.- Al riguardo, il Tribunale ritiene che nel calcolo delle distanze non
possano non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste ultime, tenuto
conto della loro apprezzabile consistenza (larghezza di 2 mt) possono
considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
19.- Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli
elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi
i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
20.- Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal
confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione
stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di
tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora
queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di
opera edilizia (Cfr., Cassazione civile sez. II, 29/01/2018, n. 2093).
21.- In realtà, l'art. 9 delle NTA del Piano particolareggiato del Comune di
Gravina non introduce un criterio di calcolo delle distanze diverso da
quello prescritto dalla legislazione statale, posto che quando impone i
limiti di distacco dal confine, si riferisce -non escludendoli
espressamente- anche ai balconi che fanno parte di tali costruzioni.
22.- Né ad una diversa conclusione può pervenirsi applicando –come
suggerisce la difesa della controinteressata- le modalità di computo delle
distanze minime tra i fabbricati, indicate dall’art. 9 delle NTA come “la
lunghezza del segmento intercorrente tra le fronti di edifici antistanti,
effettuata perpendicolarmente alle pareti e sul piano orizzontale,
escludendo gli aggetti ed i balconi totalmente aperti”.
23.- Il Collegio, infatti, ritiene che, anche in sede di computo minimo
delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi
aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con
funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di
riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed
ordinario.
24.- Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma
2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali,
evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata
operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del
regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011,
n. 14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458).
25.- Del resto, la stessa giurisprudenza citata dalla controinteressata,
limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo
dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si
tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume
utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2016, 5552),
situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
26.- Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli
sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con
funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le
mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili,
mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra
costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza” (TAR Genova, sez. I, 21/11/2013, n. 1406).
27.- E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di
carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”,
che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe
irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali (Consiglio di Stato
sez. VI, 10/09/2018, n. 5307 Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n. 1272).
28- Sotto altro aspetto, contrariamente a quanto ritenuto dalla società
controinteressata, non trova integrale applicazione il principio della c.d.
prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che
costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle
altre costruzioni sui fondi vicini.
29.- Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando
l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come
nel caso in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di
urbanistica, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari
confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le
costruzioni, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali
fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati
diritti soggettivi, di interessi generali. (Cassazione civile sez. II,
21/02/2019, n. 5146).
30.- Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione
renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della
distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto
come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità
del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare
tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i
fabbricati”.
31.- Pertanto, e, in assenza di una costruzione in aderenza, la
controinteressata era tenuta al rispetto della distanza minima di 5 mt dal
confine prevista dalle disposizioni delle NTA del Piano particolareggiato,
al riguardo imprescindibilmente vincolanti, in mancanza di diverso accordo
tra le parti.
32.- Alla luce delle considerazioni che precedono, ed assorbite le restanti
censure, il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 02.04.2019 n. 485 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la legge regionale veneta che
consente, nell’ambito del “piano casa”, la deroga
alle altezze di cui al d.m. 1444 del 1968.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato solleva questione di
legittimità costituzionale della norma che, nell’ambito
della disciplina della Regione Veneto sul “piano casa”,
stabilisce che gli ampliamenti e le ricostruzioni degli
edifici esistenti possano avvenire anche in deroga alle
disposizioni in materia di altezze di cui al d.m. n. 1444
del 1968.
-----------------
Alla Corte costituzionale la legge regionale veneta che
consente, nell’ambito del “piano casa”, la deroga
alle altezze di cui al d.m. 1444 del 1968.
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Edilizia –
Disposizioni statali in materia di altezze – Legge Regione
Veneto – Deroga alle altezze – Questione non manifestamente
infondata di costituzionalità.
È rilevante e non manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9,
comma 8-bis, della legge regionale del Veneto 08.07.2009, n.
14 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e
per favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e
modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia
di barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117,
secondo comma lett. l) e terzo comma, della Costituzione,
nella parte in cui consente le deroghe alle disposizioni in
materia di altezze previste dal d.m. 1444 del 1968 (1).
-----------------
(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la Sesta Sezione del Consiglio
di Stato -chiamata a pronunciarsi sulla ammissibilità di un
intervento edilizio di demolizione e ricostruzione con
ampliamento, attuativo della normativa regionale sul c.d. “piano
casa” e comportante il rialzamento del quaranta per
cento dell’edificio esistente– ha sollevato questione di
legittimità costituzionale della disposizione della legge
regionale veneta che consente la deroga “alle
disposizioni in materia di altezze previste dal decreto
ministeriale n. 1444 del 1968”.
La fattispecie che ha condotto alla rimessione alla Corte
costituzionale può essere così sintetizzata:
− il contenzioso avviato dinanzi al Tar per il Veneto ha ad oggetto
un intervento di demolizione e ricostruzione con incremento
volumetrico, attuativo della disciplina del c.d. “piano
casa” di cui alla legge regionale del Veneto n. 14 del
2009, intervento contestato dal confinante, tra l’altro,
nella parte in cui prevede un’altezza del nuovo edificio
superiore al 40 per cento rispetto all’edificio
preesistente, ritenendo parte ricorrente che l’incremento di
altezza risulti illegittimo;
− la contestazione riguarda l’applicazione dell’art. 9, comma
8-bis, della legge regionale n. 14 del 2009, che consente un
incremento di altezza fino al 40 per cento dell’“edificio
esistente”; si contesta che il progettista abbia sì
calcolato il 40% dell’altezza dell’edificio esistente, ma,
anziché sommare detta percentuale allo stesso edificio che
ha generato l’incremento, l’abbia aggiunta all’altezza
dell’immobile più alto della zona;
− il Tar per il Veneto, sez. II, con sentenza n. 944 del 2017, ha
sul punto accolto il ricorso, evidenziando che non può
considerarsi come “edificio esistente” l'edificio
circostante più alto, come invece erroneamente ritenuto dal
Comune, poiché “l'edificio esistente è l'edificio che è
oggetto di ampliamento”;
− interposto appello avverso la citata sentenza, il Consiglio di
Stato, ha ritenuto di sollevare d’ufficio la questione di
legittimità costituzionale della norma regionale della cui
applicazione si controverte tra le parti.
II. – Nella fattispecie in esame viene in considerazione il “piano
casa” di cui alla legge regionale veneta 08.07.2009, n.
14 e, in particolare, la disposizione di cui all’art. 9,
comma 8-bis, frutto di inserimento nel corpo normativo
originario ad opera della legge regionale 29.11.2013, n. 32,
che consente la deroga alla disciplina delle altezze degli
edifici di cui al d.m. n. 1444 del 1968 e richiama altresì
la norma statale di cui all’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del
2001.
Appare utile richiamare le disposizioni legislative evocate,
per una esatta comprensione della questione di legittimità
costituzionale sollevata:
a) d.m. 02.04.1968, n, 1444, art. 8 “limiti di
altezza degli edifici”: “Le altezze massime degli
edifici per le diverse zone territoriali omogenee sono
stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo
non è consentito superare le altezze degli edifici
preesistenti, computate senza tener conto di soprastrutture
o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture; per le
eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino
ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può
superare l'altezza degli edifici circostanti di carattere
storico-artistico.
2) Zone B): l'altezza massima dei nuovi edifici non può
superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti,
con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti
di densità fondiaria di cui all'art. 7.
3). Zone C): contigue o in diretto rapporto visuale con zone
del tipo A): le altezze massime dei nuovi edifici non
possono superare altezze compatibili con quelle degli
edifici delle zone A) predette.
4) Edifici ricadenti in altre zone: le altezze massime sono
stabilite dagli strumenti urbanistici in relazione alle
norme sulle distanze tra i fabbricati di cui al successivo
art. 9”;
b) art. 2-bis d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (introdotto dal
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito dalla legge
09.08.2013, n. 98), rubricato “deroghe in materia di
limiti di distanza tra fabbricati”: “Ferma restando
la competenza statale in materia di ordinamento civile con
riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme
del codice civile e alle disposizioni integrative, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano
possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti,
disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni
sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività
collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della
definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque
funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali”;
c) art. 9, comma 8-bis, legge regionale Veneto 08.07.2009,
n. 14 (introdotto dalla legge regionale 29.11.2013, n. 32):
“Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del
tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con
l'obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di
suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in
attuazione dell'articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli
ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati
nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati
ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in
deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal
decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive
modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento
dell'altezza dell'edificio esistente”.
III. – Nell’ordinanza in rassegna la sesta sezione del
Consiglio di Stato giunge a sollevare questione di
costituzionalità dell’art. 9, comma 8-bis, della l.r. n. 14
del 2009 sulla base del seguente percorso argomentativo:
d) con l'introduzione, nel t.u. edilizia, dell'art. 2-bis da
parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98,
l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l'orientamento
della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo
unico sull'edilizia i principi fondamentali della
vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome,
delle distanze legali e più in generale delle previsioni
stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell'ammissibilità
delle deroghe, solo a condizione che siano inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio;
e) la deroga alla disciplina dei parametri in tema di
densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli
strumenti urbanistici, deve quindi ritenersi legittima
sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati
e sia fondata su previsioni planovolumetriche che
evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire
i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie
costruzioni considerate come fossero un edificio unitario;
f) appare non coerente, rispetto alle indicazioni
interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e
ribadite dal disposto di cui all'art. 2-bis TUE, il mancato
riferimento della norma impugnata a quella tipologia di atti
menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del 1968 richiamato,
cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime
delle altezze e delle distanze:
f1) la stessa giurisprudenza
costituzionale ha stabilito con riferimento alle distanze
-sebbene con una considerazione che pare potersi estendere
anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m.
e la generalità della previsione letterale dell’art. 2-bis
(ben più ampia della mera rubrica)- che la deroga alle
distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani
particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento
urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e
delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione
dettagliata e definita degli interventi;
f2) ne consegue che devono ritenersi ammissibili le deroghe
predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in
quanto strumenti funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio,
secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in
esame, dall'art. 2-bis del TUE, in linea con
l'interpretazione nel tempo tracciata dalla Corte
costituzionale;
g) tali stringenti presupposti della deroga, non si
rivengono nel testo della norma regionale in contestazione:
g1) il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di
edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee
di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore
regionale veneto, appare infatti in contrasto con il
puntuale contenuto che dovrebbe assumere una previsione
siffatta, risultando destinata a legittimare deroghe al di
fuori di una adeguata pianificazione urbanistica;
g2) l'assenza di precise indicazioni, in coerenza con quanto
già evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, non
consente di attribuire agli interventi in questione un
perimetro di azione necessariamente coerente con l'esigenza
di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del
territorio; infatti, la dizione della norma si presta, sul
piano semantico, a legittimare (come avvenuto nel caso di
specie) anche interventi diretti a singoli edifici, in
aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte
in precedenza;
g3) in tale ottica appare pertanto non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale della
norma censurata, in quanto legittima deroghe alla disciplina
delle altezze dei fabbricati al di fuori dell'ambito della
competenza regionale concorrente in materia di governo del
territorio, a fronte del principio contenuto nell’art. 2-bis
cit., ed in violazione del limite dell'ordinamento civile
assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato;
h) va altresì richiamata la valenza generale del d.m.
02.04.1968 n. 1444 che, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41-quinquies, della legge 17.08.1942 n. 1150,
inserito dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, ha
efficacia e valore di legge, sicché sono comunque
inderogabili le sue disposizioni in tema di limiti di
densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati:
h1) le relative disposizioni in tema di distanze tra
costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad
adeguarvisi nell'approvazione di nuovi strumenti urbanistici
o nella revisione di quelli esistenti, ma sono
immediatamente operanti nei confronti dei proprietari
frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le
altezze, poiché scopo delle norme regolamentari concernenti
l'altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell'igiene
pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell'indirizzo
urbanistico dell'abitato;
h2) la giurisprudenza è da tempo orientata in modo univoco
ad affermare che il decreto ministeriale in questione
(ascrivibile secondo una preminente teoria all'atipica
categoria dei regolamenti delegati o liberi) ha efficacia di
legge, cosicché le sue disposizioni, anche in tema di limiti
inderogabili di altezza dei fabbricati, prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con
conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra
privati;
h3) a fronte della riconosciuta valenza del d.m. 1444,
confermata dalla consolidata giurisprudenza costituzionale,
gli spazi di derogabilità appaiono ammissibili, in capo al
legislatore regionale, nei limiti dettati dal legislatore
statale, dotato di competenza in tema appunto di principi
fondamentali in materia di governo del territorio; orbene,
nel caso di specie il legislatore regionale appare aver
oltrepassato detti limiti, nella parte in cui consente le
indicate deroghe al di fuori dell’ammesso ambito di “definizione
o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a
un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali”.
IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
i) sulla disciplina del c.d. “piano casa” si veda:
i1) in dottrina F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura di), Il
piano casa – Commento organico all’Intesa Stato-Regioni del
31.03.2009 e a tutte le leggi regionali, Roma 2009 ed ivi,
in particolare: R. GIANI, Conferenza Stato-Regioni ed enti
locali- Intesa del 31.03.2009 (pp. 5 ss.) e M. RAGAZZO, Il
piano casa del Veneto (pp. 173 ss.);
i2) in giurisprudenza, Cons.
Stato, sez. IV 26.07.2017, n. 3680 sul piano caso della
regione Veneto e sui requisiti del silenzio assenso previsto
dal d.l. n. 70 del 2011; sez. IV, 19.04.2017, n. 1828 (in
Foro it., 2017, III, 652), sul piano casa della regione
Campania, sulla inderogabilità del d.m. n. 1444 del 1968 e
sui requisiti del silenzio assenso previsto dal d.l. n. 70
del 2011; sez. IV, 05.09.2016, n. 3805, sul piano casa della
regione Campania, sui requisiti del silenzio-assenso e sulla
autotutela nei confronti di un titolo edilizio formatosi per
silenzio assenso;
j) sulla legge regionale Veneto 08.07.2009, n. 14 si veda
l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del
Tar per il Veneto, sez. II, 12.12.2018, n. 1166
(oggetto della
News US n. 14 del 18.01.2019, cui si rinvia per
ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza), relativa
alle previsioni regionali che consentono la deroga alle
distanze dai confini stabilite dagli strumenti urbanistici e
dai regolamenti locali;
k) sulla disciplina introdotta dal decreto-legge n. 69 del
2013 (che ha inserito nel Testo unico dell’edilizia l’art.
2-bis) si vedano:
k1) in dottrina: A. DI MARIO, Standard urbanistici e
distanze tra costruzioni tra stato e regioni dopo il «decreto
del fare» in Urbanistica e appalti, 2013, 1121 ss.; F.
DI LASCIO, Il decreto “del fare”: il rilancio
dell’economia in Giornale dir. amm., 2013, 12, 1143; A.
SCONOCCHIA BIFANI, Deroghe alle distanze fra costruzioni
alle luce del d.l. 21.06.2013, n. 69 in Riv. giur. edilizia
2014, 16; D. CHINELLO, Le semplificazioni in materia
edilizia nel “decreto del fare” in Immobili e
proprietà, 2014, I, 12; S. MORELLI, Edilizia e urbanistica –
la proprietà edilizia nella dialettica tra formante statale
e formante regionale in Giur. it, 2018, 7, 1575;
k2) la disciplina in esame è stata interpretata
restrittivamente dalla Corte costituzionale, che è
intervenuta ripetutamente dichiarando l'illegittimità di
disposizioni regionali che stabilivano distanze inferiori,
senza dare rilievo alle condizioni stabilite dalla legge
statale: cfr. le sentenze 24.02.2017, n. 41, 03.11.2016, n.
231, 20.07.2016, n. 185, 15.07.2016, n. 178, tutte in Foro
it., 2017, I, 2566; Corte cost. 21.05.2014, n. 134 in Foro
it., 2014, I, 2009; Corte cost., 23.01.2013, n. 6 in Foro
it., 2013, I, 737;
l) sulla efficacia giuridica del d.m. n. 1444 del 1968 si
vedano:
l1) nell’ambito della giurisprudenza costituzionale:
l1.1) Corte cost., 24.02.2017, n. 41 cit. secondo cui “nel
delimitare i rispettivi ambiti di competenza —statale in
materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di
«governo del territorio»— questa corte ha individuato il
punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 d.m. n.
1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare
«efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del
2016, cit., ma anche sentenze n. 114 del 2012, id., 2012, I,
3265, e n. 232 del 2005, cit.), in quanto richiamato
dall’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150 (legge
urbanistica), introdotto dall’art. 17 l. 06.08.1967 n. 765
(modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942
n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione
regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»
(ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016, cit.).
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle
distanze tra edifici sono consentite «se inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
(sentenza n. 134 del 2014, id., 2014, I, 2009; analogamente,
sentenze n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016, citate),
poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli
assetti urbanistici generali e quindi al governo del
territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti
isolatamente considerati» (sentenza n. 114 del 2012, cit.;
nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2005, cit.)”;
l1.2) Corte cost., 20.07.2016, n. 185 cit. secondo cui il
decreto-legge n. 69 del 2013 “recepisce la ricordata
giurisprudenza di questa corte, inserendo nel testo unico
sull’edilizia i principî fondamentali della vincolatività,
anche per le regioni e le province autonome, delle distanze
legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e
dell’ammissibilità delle deroghe solo a condizione che siano
«inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio»”;
l1.3) Corte cost., 15.07.2016, n. 178 cit. che ribadisce che
il d.m. n. 1444 del 1968 è dotato “di efficacia
precettiva e inderogabile”;
l1.4) Corte cost., 10.05.2012, n. 114 in Foro it., 2012, I,
3265 secondo cui l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968
costituisce “principio inderogabile che integra la
disciplina privatistica delle distanze”;
l2) pronunce della giurisprudenza amministrativa:
l2.1) Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2013, n. 5732, in Foro
amm. – CdS, 2013, 12, 3378 (s.m.) secondo cui “il d.m.
02.04.1968 n. 1444, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, inserito
dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di
legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni
in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di
distanza tra i fabbricati”;
l2.2.) Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3931, che parla,
a proposito dell’art. 9 del d.m. n. 1444 di “prescrizione
avente carattere di assolutezza ed inderogabilità,
risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata
rispetto agli strumenti urbanistici locali”;
l3) nell’ambito della giurisprudenza civile:
l3.1) Cass.
civ., sez. un. 07.07.2011, n. 14953 in Vita not., 2012, 258,
Riv. giur. edilizia, 2011, I, 1197, secondo cui “le norme
tecniche di attuazione di un piano regolatore (nella specie,
del comune di Viareggio) che impongano il rispetto della
distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate
soltanto per i tratti di esse dotati di finestre, con
conseguente esonero per quelli ciechi, contrastano con il
disposto dell'art. 9, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, che
prescrive l'osservanza di tale distacco con riferimento
all'intera estensione della parete, sicché esse vanno
disapplicate e sostituite, previa inserzione automatica, con
la diversa disposizione della norma statale, direttamente
applicabile nei rapporti con i privati”;
l3.2) Cass. civ., sez. un., 01.07.1997, n. 5889 in Giust.
civ., 1997, I, 2075, Corriere giur., 1997, 1310, con nota di
GIOA, Arch. civ., 1997, 1090 secondo cui invece “il d.m.
02.04.1968 n. 1404 (emanato in esecuzione della norma
sussidiaria dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150,
introdotto dalla l. 06.08.1967 n. 765) che all'art. 9
prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di
metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, impone determinati limiti edilizi ai comuni
nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici ma
non è immediatamente operante anche nei rapporti fra i
privati”.
m) sul concetto di “edificio esistente”, la cui
altezza non può essere superata, nella previsione dell’art.
8 del d.m. n. 1444 del 1968:
m1) Cons. Stato, sez. IV, 09.09.2014, n. 4553 sul concetto
di edifici “circostanti”, “confinanti” e “limitrofi”,
ai fini della valutazione delle altezze ammissibili;
m2) Cons. Stato, sez. IV, 14.05.2014, n. 2469 secondo cui “l’art.
8 del d.m. n. 1444/1968 nello stabilire le altezze massime
degli edifici per le diverse zone territoriali, prevede
espressamente per le zone B, come quella qui in rilievo, che
l’altezza massima dei nuovi edifici non può superare
l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, <con
l’eccezione di edifici che formano oggetto di piani
particolareggiati o di lottizzazioni convenzionate con
previsioni plano volumetriche>” e tale norma deve essere
interpretata nel senso che “occorre fare riferimento
all’altezza degli edifici limitrofi e non al più vasto
ambito territoriale che identifica la zona (Cons. Stato Sez.
IV 02/11/2010 n. 731)”;
m3) l’art. 8 del d.m. n. 1444 del 1968 secondo cui in zona A
“per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che
risultino ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio
non può superare l'altezza degli edifici circostanti di
carattere storico-artistico”;
m4) Tar per il Veneto, sez. II, 21.04.2016, n. 429 affronta
il caso di edificio oggetto di sopraelevazione, in
applicazione della legge regionale n. 14 del 2009, che già
prima della sopraelevazione stessa risultava più alto
dell’edificio storico-artistico confinante; la tesi del
ricorrente era nel senso che, in detta ipotesi, il limite
sopra citato non potesse trovare applicazione; il Tar per il
Veneto ha invece concluso nel senso che “la tesi secondo
la quale il limite d’altezza degli edifici circostanti di
carattere storico-artistico non sarebbe applicabile alle
sopraelevazioni di edifici già più alti, non è
condivisibile. Infatti, come è stato osservato (cfr.
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana in sede giurisdizionale 22.03.2006 n. 107), le
disposizioni che disciplinano l’edificabilità nei centri
storici sono finalizzate a tutelare non solo il valore di
singoli manufatti architettonici, ma la conservazione in sé
del contesto e dell’integrità dei complessi urbanistici ed
architettonici in un’ottica di completezza dell’insieme, e
quindi dell’assetto viario preesistente, delle altezze e dei
caratteri figurativi degli edifici. Pertanto sembra corretto
ritenere che, ove si ammettesse l’inesistenza di qualsiasi
limite alla sopraelevazione degli edifici già più alti di
quelli circostanti di carattere storico artistico,
verrebbero compromesse sia le finalità di tutela degli
edifici vincolati in termini di prospettiva, di luce, di
condizioni di ambiente e di decoro, sia quelle di
conservazione dei caratteri originari del centro storico, e
in tale ottica, come condivisibilmente afferma il Comune
nelle proprie difese, anche una sopraelevazione contenuta
risulta in realtà idonea a comportare un aggravamento del
contesto. Ne discende che la prima censura, con la quale la
parte ricorrente lamenta l’erronea applicazione dell’art. 8,
primo comma, n. 1), del d.m. 02.04.1968, n. 1444, per non
aver considerato che l’edificio da sopraelevare è già più
alto di quello vincolato deve essere respinta” (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
ordinanza 01.03.2019 n. 1431 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la legge regionale Veneto che
consente la deroga sulla distanze tra edifici.
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Edilizia – Distanze – Veneto – Art. 9, comma 8-bis,
l.reg. n. 14 del 2009 – Deroghe alle disposizioni in materia
di altezze previste dal d.m. n. 1444 del 1968 – Violazione
117, commi 2, lett. l), e 3, Cost. – Rilevanza e non
manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 9, comma 8-bis, l.reg. Veneto 08.07.2009, n. 14
(Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per
favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e modifiche
alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di
barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117,
commi 2, lett. l), e 3, Cost., nella parte in cui consenta
le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste
dal d.m. n. 1444 del 1968 (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che l’art.
9, comma 8-bis, l.reg. Veneto 08.07.2009, n. 14,
nella parte in cui consente le deroghe alle disposizioni in
materia di altezze previste dal d.m. n. 1444 del 1968, è in
contrasto con i principi della legislazione statale, dettati
dallo stesso d.m. e dall’art. 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001,
con conseguente violazione dell’art. 117, commi 2, lett. l),
e 3 Cost., in specie laddove non si prevede che le
consentite deroghe debbano operare nell'ambito della
definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque
funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali.
Ha ricordato la Sezione che con l'introduzione dell'art.
2-bis del TUE, da parte dell'art. 30, comma 1, lett. a),
d.l. 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio
dell'economia), convertito, con modificazioni, dall'art. 1,
comma 1, della l. 09.08.2013, n. 98, l’ordinamento ha
sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza
costituzionale, inserendo nel testo unico sull'edilizia i
principi fondamentali della vincolatività, anche per le
Regioni e le Province autonome, delle distanze legali e più
in generale delle previsioni stabilite dal d.m. n. 1444 del
1968 e dell'ammissibilità delle deroghe, solo a condizione
che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali
a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio» (cfr. ad es. sentenze
nn. 185 del 2016 e 189 del 2016).
La norma statuisce quanto segue: “Ferma restando la
competenza statale in materia di ordinamento civile con
riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme
del codice civile e alle disposizioni integrative, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano
possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti,
disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni
sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività
collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della
definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque
funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali“.
La deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità,
di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti
urbanistici deve quindi ritenersi legittima sempre che
faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia
fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino,
cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti
spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni
considerate come fossero un edificio unitario.
Alla luce delle considerazioni svolte, appare non coerente,
rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla
giurisprudenza costituzionale e ribadite dal disposto di cui
all'art. 2-bis t.u. edilizia, il mancato riferimento della
norma impugnata a quella tipologia di atti menzionati nel
testo del d.m. n. 1444 del 1968, cui va riconosciuta la
possibilità di derogare al regime delle altezze e delle
distanze.
Inoltre, la stessa giurisprudenza costituzionale ha
stabilito, con riferimento alle distanze sebbene con una
considerazione che pare potersi estendere anche qui alle
altezze stante l’analogia del testo del d.m. e la generalità
della previsione letterale dell’art. 2 bis (ben più ampia
della mera rubrica), che la deroga alle distanze minime
potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati
o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico
equivalente sotto il profilo della sostanza e delle
finalità, purché caratterizzato da una progettazione
dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del
2013).
Ne consegue che devono ritenersi ammissibili le deroghe
predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in
quanto strumenti funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio,
secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in
esame, dall'art 2-bis del TUE, in linea con
l'interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte
(sentenze nn. 231, 189, 185 e 178 del 2016 e n. 134 del
2014).
Tali peculiari elementi presupposti della deroga non si
rivengono nell’art. 9, comma 8-bis, l.reg. Veneto n. 14 del
2009. Il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni
di edifici esistenti situati nelle zone territoriali
omogenee di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal
legislatore regionale veneto al comma 9 bis in oggetto,
appare infatti in contrasto con lo stringente contenuto che
dovrebbe assumere una previsione siffatta, risultando
destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata
pianificazione urbanistica
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
ordinanza 01.03.2019 n. 1431 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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ORDINANZA
2.1 Sempre in via preliminare, emergono i presupposti
per la rimessione alla Corte costituzionale della questione
di legittimità costituzionale della norma regionale oggetto
di applicazione e controversa nell’interpretazione fra le
parti in causa.
2.2 I fatti di causa, che appaiono sostanzialmente
incontroversi fra le parti, concernono un intervento di
edilizia abitativa realizzato in Castelfranco Veneto dalla
società An., con appalto dei lavori alla ditta Ce. s.r.l.,
relativo ad un edificio residenziale degli anni cinquanta di
cui è stata progettata la demolizione e ricostruzione
accedendo alle facoltà premiali introdotte con la normativa
regionale veneta relativa al cosiddetto “piano-casa”
(ll.rr. nn. 14 del 2009, 13 del 2011 e 32 del 2013),
compreso un ampliamento del fabbricato.
Con una serie di ricorsi proposti dalla odierna parte
appellata, contitolare di un confinante complesso
condominiale, venivano impugnati gli atti adottati dal
Comune interessato in relazione al predetto intervento.
All’esito del giudizio di prime cure il Tar Veneto, riuniti
i ricorsi, dichiarato inammissibile l’ultimo (in quanto
avente ad oggetto un atto meramente confermativo) e respinti
per il resto gli altri gravami, accoglieva in parte qua le
domande di parte ricorrente, in specie annullando gli atti
impugnati limitatamente alla parte in cui il comune di
Castelfranco si è determinato erroneamente riguardo la
verifica dell'altezza del costruendo edificio. Ciò in
accoglimento delle censure dedotte da parte ricorrente con
riferimento alla corretta applicazione del comma 8-bis
dell'art. 9 della legge regionale n. 14 del 2009; secondo il Tar tale norma, di riferimento per il caso di specie, non
consente di considerare come edificio esistente l'edificio
circostante più alto, come invece erroneamente imputato dai
Giudici di prime cure al comune di Castelfranco.
2.3 Anche le censure dedotte coi vizi di appello, richiamati
nella narrativa in fatto, si basano sulla contestata
applicazione della norma regionale predetta, di cui occorre
pertanto richiamare il tenore letterale: “Al fine di
consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto
edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con
l'obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di
suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in
attuazione dell'articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli
ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati
nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati
ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in
deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal
decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive
modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento
dell'altezza dell'edificio esistente”.
3.1 Ebbene, ritiene il Collegio che la previsione
legislativa all’esame non si sottragga alla questione di
legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117,
comma 2 lett. l) e comma 3, della Costituzione, quale di
seguito rilevata d’ufficio ai sensi dell’art. 23, comma 3,
della legge n. 87/1953.
3.2 Si precisa, al riguardo, che la questione è senz’altro
rilevante, non potendosi dubitare dell’ammissibilità di
questioni di legittimità costituzionale attinenti a leggi di
cui il giudice a quo debba fare diretta applicazione ai fini
della decisione della causa in relazione al thema
decidendum (e, nel giudizio d’appello, al devolutum).
Ipotesi, questa, che esattamente ricorre nella fattispecie,
risultando con i motivi d’appello devoluti al presente grado
questioni che non possono essere decise indipendentemente
dall’applicazione della citata disposizione di legge
regionale, posta da tutte la parti, pubblica e private, a
fondamento sia dei provvedimenti adottati, sia delle tesi
dedotte in giudizio in ordine all’ammissibilità o meno
dell’intervento progettato.
3.2 In punto di non manifesta infondatezza,
ritiene il Collegio che la citata disposizione,
nella parte in cui consenta le deroghe alle disposizioni in
materia di altezze previste dal noto d.m. 1444 cit. sia in
contrasto con i principi della legislazione statale, dettati
dallo stesso d.m. e dall’art. 2-bis dPR 380/2001, con
conseguente violazione dell’art. 117, comma 2, lett. l) e 3
Cost., in specie laddove non si prevede che le consentite
deroghe debbano operare nell'ambito della definizione o
revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un
assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali.
3.3 Come noto, con l'introduzione dell'art. 2-bis del TUE,
da parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98,
l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l'orientamento
della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo
unico sull'edilizia i principi fondamentali della
vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome,
delle distanze legali e più in generale delle previsioni
stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell'ammissibilità
delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
(cfr. ad es. sentenze nn. 185 del 2016 e 189 del 2016).
La norma statuisce quanto segue: “Ferma restando la
competenza statale in materia di ordinamento civile con
riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme
del codice civile e alle disposizioni integrative, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano
possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti,
disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni
sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività
collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della
definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque
funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali“.
La deroga alla disciplina dei parametri in
tema di densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli
strumenti urbanistici deve quindi ritenersi legittima sempre
che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia
fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino,
cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti
spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni
considerate come fossero un edificio unitario (artt. 8 lett.
B nel caso di specie e 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del
1968).
3.4 Alla luce delle considerazioni svolte,
appare non coerente, rispetto alle indicazioni
interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e
ribadite dal disposto di cui all'art. 2-bis t.u. edilizia,
il mancato riferimento della norma impugnata a quella
tipologia di atti menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del
1968 richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di
derogare al regime delle altezze e delle distanze.
Inoltre, la stessa giurisprudenza
costituzionale ha stabilito, con riferimento alle distanze
sebbene con una considerazione che pare potersi estendere
anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m.
e la generalità della previsione letterale dell’art. 2-bis
(ben più ampia della mera rubrica), che la deroga alle
distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani
particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento
urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e
delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione
dettagliata e definita degli interventi
(sentenza n. 6 del 2013).
Ne consegue che devono ritenersi
ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani
urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di
attivare le deroghe in esame, dall'art 2-bis del TUE, in
linea con l'interpretazione nel tempo tracciata da questa
Corte (ex
multis, sentenze nn. 231, 189, 185 e 178 del 2016 e n.
134 del 2014).
3.5 Peraltro, tali peculiari elementi presupposti della
deroga non si rivengono del testo della norma regionale in
contestazione.
Il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di
edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee
di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore
regionale veneto al comma 9-bis in oggetto, appare infatti
in contrasto con lo stringente contenuto che dovrebbe
assumere una previsione siffatta, risultando destinata a
legittimare deroghe al di fuori di una adeguata
pianificazione urbanistica.
L'assenza di precise indicazioni, in coerenza con quanto già
evidenziato dalla richiamata giurisprudenza costituzionale,
non consente di attribuire agli interventi in questione un
perimetro di azione necessariamente coerente con l'esigenza
di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del
territorio; infatti, la dizione della norma si presta, sul
piano semantico, a legittimare (come avvenuto nel caso di
specie) anche interventi diretti a singoli edifici, in
aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte
in precedenza.
In tale ottica appare pertanto non manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale della norma
censurata, in quanto legittima deroghe alla disciplina delle
altezze dei fabbricati al di fuori dell'ambito della
competenza regionale concorrente in materia di governo del
territorio, a fronte del principio contenuto nell’art. 2-bis
cit., ed in violazione del limite dell'ordinamento civile
assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
3.6 In materia va altresì richiamata, a
fini di completezza e di estensione dei principi predetti
allo specifico tema delle altezze, la valenza generale del
d.m. 02.04.1968 n. 1444 che, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, inserito
dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di
legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni
in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di
distanza tra i fabbricati
(cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 02.12.2013, n.
5732).
Le relative disposizioni in tema di
distanze tra costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti
ad adeguarvisi nell'approvazione di nuovi strumenti
urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma sono
immediatamente operanti nei confronti dei proprietari
frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le
altezze, poiché scopo delle norme regolamentari concernenti
l'altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell'igiene
pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell'indirizzo
urbanistico dell'abitato
(cfr. in termini ad es. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n.
3931).
Analogamente la giurisprudenza è da tempo orientata in modo
univoco ad affermare che il decreto
ministeriale in questione (ascrivibile secondo una
preminente teoria all'atipica categoria dei regolamenti
delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue
disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di
altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti
previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si
sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente
loro diretta operatività nei rapporti tra privati
(cfr. a partire da Cass ss.uu. 01.07.1997 n. 5889, nonché ad
es. Cass., sez. II, 14.03.2012, n. 4076 e Cass., sez. un.,
07.07.2011, n. 14953).
A fronte della riconosciuta valenza del
d.m. 1444, confermata dalla consolidata giurisprudenza
costituzionale (cfr.
sentenze 114/2012, 282/2016, 185/2016, 178/2016, 41/2017),
gli spazi di derogabilità appaiono ammissibili, in
capo al legislatore regionale, nei limiti dettati dal
legislatore statale, dotato di competenza in tema appunto di
principi fondamentali in materia di governo del territorio;
orbene, nel caso di specie il legislatore regionale appare
aver oltrepassato detti limiti, nella parte in cui consente
le indicate deroghe al di fuori dell’ammesso ambito di “definizione
o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a
un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali”.
4. Sussistendo tutti i presupposti per sollevare questione
incidentale di legittimità costituzionale ai sensi dell’art.
23 l. 11.03.1953, n. 87, la questione, quale sopra
sollevata, deve essere devoluta alla Corte Costituzionale,
cui gli atti del presente giudizio vanno pertanto
immediatamente trasmessi, previa sospensione del presente
giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta),
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 8-bis, della legge regionale del Veneto 08.07.2009,
n. 14
(Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per
favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e modifiche
alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di
barriere architettoniche), in riferimento
all’art. 117, secondo comma lett. l) e terzo comma, della
Costituzione, nei sensi e nei termini di cui al punto 3.2
della parte motiva della presente ordinanza.
Dispone la sospensione del presente giudizio sino alla
decisione della Corte Costituzionale sulla questione di
legittimità costituzionale quale sopra sollevata. |
febbraio 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: regolamento edilizio comunale.
In tema di distanze tra edifici, il principio della prevenzione è escluso
solo in presenza di una norma del regolamento edilizio comunale che
prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine, con lo scopo
di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di
salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni.
Ne consegue che, in assenza di una siffatta previsione, deve trovare
applicazione il principio della prevenzione, potendo il prevenuto costruire
in aderenza alla fabbrica realizzata per prima, se questa sia stata posta
sul confine o a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra
fabbricati (nella specie, in applicazione del richiamato principio, la S.C.
ha cassato con rinvio la sentenza della corte di appello che aveva ritenuto
che l’indicazione di un distacco minimo tra fabbricati da parte di un
regolamento edilizio comunale escludesse la facoltà, in capo ai proprietari
dei fondi confinanti, di costruire in prevenzione, essendo implicito in
quella disciplina il richiamo alla distanza da mantenere rispetto ai
confini)
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 21.02.2019 n. 5146
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
1. Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 873, 875 c.c. e
57 del regolamento edilizio comunale, nonché l'omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c.,
lamentando che la Corte abbia ritenuto che qualora lo strumento locale
preveda una distacco assoluto tra fabbricati, non possa operare la facoltà
di costruire in prevenzione, essendo implicito il richiamo ai confini, non
rilevando che detto regolamento disciplinava la distanza dal confine,
consentendo all'amministrazione di concedere deroghe ai sede di rilascio
delle concessioni, così come era accaduto nel caso di specie; che in ogni
caso, la pronuncia aveva erroneamente escluso l'operatività del principio
della prevenzione.
Il motivo è fondato nei termini che seguono.
I ricorrenti hanno realizzato parte del loro fabbricato sulla part. 230,
a confine con le partt. 220 e 396, inedificate, e della part. 229 su cui
insisteva un preesistente manufatto.
Per tale parte la nuova costruzione è stato ritenuta illegittima poiché
posto a distanza inferiore a mt. 5 dal confine (inedificato), avendo la
Corte distrettuale escluso il criterio della prevenzione in virtù della
previsione dello strumento urbanistico locale che imponeva un
distacco minimo tra fabbricati.
Tale assunto non può essere condiviso.
Questa Corte, con la sentenza a sezioni unite n. 11489/2002 ha
precisato che il principio della prevenzione è escluso "solo in presenza
di una norma regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati
con riguardo al confine", sussistendo in tal caso l'esigenza di "un'equa
ripartizione tra proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una
zona di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in
assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il
principio della prevenzione, potendo il prevenuto costruire in
aderenza alla fabbrica costruita per prima, se questa sia stata posta sul
confine od a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco
tra fabbricati".
Più di recente, componendo un contrasto tra le sezioni semplici, le
Sezioni unite di questa Corte hanno ribadito che il principio della
prevenzione si applica anche nell'ipotesi in cui il regolamento edilizio
locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella del
codice senza imporre una distanza minima delle costruzioni dal
confine, atteso che la portata integrativa della disposizione
regolamentare si estende all'intero impianto codicistico, inclusivo del
meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la
facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla
metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di
costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e
877 c.c. (Cass. s.u. 10318/2016; Cass. 24714/2017; Cass. 15298/2016).
La sentenza impugnata, avendo -per contro- ritenuto che la costruzione dei
ricorrenti dovesse arretrare fino al rispetto di mt. 5 dal confine con le
partt. 396 e 220 (all'epoca inedificate) nonché rispetto alla part. 229 (su
cui preesisteva una costruzione del resistente), è dunque incorsa nella
violazione denunciata, poiché, rispetto al confine inedificato, i ricorrenti
potevano edificare sul confine avvalendosi del criterio della prevenzione,
mentre, rispetto alla part. 229, la distanza andava calcolata tra i
fabbricati, conformemente alle previsioni delle norme locali, senza valutare
la legittimità della nuova opera rispetto al confine stesso. |
EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza.
In tema di distanze legali, sono da ritenere integrative del codice civile
le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione
della distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino, con
qualsiasi criterio o modalità, la misura dello spazio che deve essere
osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo
principale la tutela d’interessi generali urbanistici, disciplinano solo
l’altezza in sé degli edifici, senza nessuna relazione con le distanze
intercorrenti tra gli stessi, proteggono, nell’ambito degli interessi
privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini. Ne
consegue che, nel primo caso, sussiste, in favore del danneggiato, il
diritto alla riduzione in pristino, nel secondo, invece, è ammessa
unicamente la tutela risarcitoria
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 21.02.2019 n. 5142 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
Con il secondo motivo di ricorso si censura la violazione dell'art.
112 c.p.c. nonché la violazione e falsa applicazione dell'art. 872 c.c. per
non avere il Tribunale accolto la domanda risarcitoria, in luogo di quella
ripristinatoria, non potendo ad avviso della ricorrente darsi luogo alla
demolizione in ipotesi di violazione delle norme integrative di quelle del
codice civile.
Il motivo è infondato.
Secondo il consolidato indirizzo di Questa Corte, infatti, le norme degli
strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come
spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con
l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a
tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il
carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a
disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo
l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto la loro violazione
consente al privato di ottenere la riduzione in pristino (Cass. 7384/2001).
In particolare, le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla
determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che
regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve
essere osservato tra le costruzioni sono da ritenere integrative delle norme
del codice civile, mentre non lo sono le norme che, avendo come scopo
principale la tutela d'interessi generali urbanistici, disciplinano solo
l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze
intercorrenti tra gli stessi. Ne consegue che nel primo caso sussiste, in
favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, mentre nel
secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria (Cass. 1073/2009).
Nel caso di specie, il regolamento urbanistico locale, disciplinando in modo
esplicito la distanza dei fabbricati dal confine, ha carattere integrativo
delle norme del codice civile e come tale è suscettibile di tutela
ripristinatoria. |
EDILIZIA PRIVATA: Pareti finestrate di edifici fronteggiantesi.
Ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 9 d.m. n. 1444 del
1968, assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete
munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale
rispetto alla frontestante facciata per cui è del tutto irrilevante che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
medesima o a diversa altezza rispetto all’altra, atteso che il regolamento
edilizio che impone una distanza minima tra pareti finestrate di edifici
fronteggiantesi, deve essere osservato anche se dalle finestre dell’uno non
è possibile la veduta sull’altro perché la ratio di tale normativa non è la
tutela della privacy, bensì il decoro e la sicurezza, ed evitare
intercapedini dannose tra pareti
(Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
ordinanza 19.02.2019 n. 4834
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I balconi sono rilevanti per le distanze
tra vicini. Le superfici finestrate anche se munite di
sbarre non si considerano luci. Il limite fissato dal Dm
1444 non è derogabile dalla normativa locale.
Anche i balconi definiscono come "finestrata" una parete in
quanto assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
per cui bisognerà tenerne conto nel calcolo delle distanze
tra edifici confinanti.
Così afferma la Corte di Cassazione -Sez. II civile-
ordinanza 19.02.2019 n. 4834, dando ragione a un
condominio che aveva fatto causa a una società immobiliare
perché aveva realizzato un fabbricato a confine con
l'edificio condominiale a distanza inferiore a quelle di
legge (Dm 1444/1968).
Il Tribunale rigettava la domanda mala Corte d'Appello la
accoglieva e condannava la società convenuta a demolire e
arretrare la porzione del fabbricato, compresi i balconi
aggettanti sino a garantire il rispetto della distanza di 10
metri dal condominio di fronte e al risarcimento dei danni.
I giudici di appello sottolineavano che le risultanze della
Ctu avevano evidenziato che effettivamente il fabbricato
realizzato dalla società era posto a confine con l'edificio
condominiale dovendo, quindi, trovare applicazione
l'articolo 873 del Codice civile, con il rinvio alle fonti
integrative locali che, però, devono trovare il loro limite
nelle previsioni del Dm 1444/1968. Quindi l'eventuale
disciplina derogatoria contenuta negli strumenti urbanistici
locali che prescrivesse una distanza inferiore ai dieci
metri tra pareti finestrate doveva essere disapplicata.
A questo punto veniva fatto ricorso in Cassazione. Uno dei
motivi riguardava i balconi presenti sulla parete del
fabbricato "incriminato". Si discuteva, cioè, se
avessero il carattere di veduta (per cui si doveva applicare
il Dm 1444) o di semplici luci: peri costruttori la Ctu era
sbagliata perché aveva considerato i balconi, mentre alle
finestre sulle pareti erano state poste delle sbarre che
impedivano l'affaccio in tutte le direzioni, per cui non si
era più al cospetto di vedute ma di semplici luci.
Mala Cassazione, richiamando la giurisprudenza di
legittimità, ha precisato che devono intendersi "pareti
finestrate" in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso l'esterno quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo, che assicurano la
possibilità di esercitare la veduta.
La presenza di balconi lungo la parete dell'edificio della
ricorrente di cui si era tenuto conto ai fini del calcolo
delle distanze era quindi legittima.
E il ricorso veniva respinto, confermando la demolizione di
parte del fabbricato o il suo arretramento.
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IN SINTESI
1. La pronuncia La Cassazione ha dato ragione a un
condominio che aveva fatto causa a una società immobiliare
perché aveva realizzato un fabbricato a confine con
l'edificio condominiale a distanza inferiore a quelle di
legge, confermando l'obbligo di demolire e arretrare una
porzione del fabbricato
2. Nessuna deroga Valgono comunque i limiti del Dm
1444/1968. Quindi l'eventuale disciplina derogatoria
contenuta negli strumenti urbanistici locali che
prescrivesse una distanza inferiore ai dieci metri tra
pareti finestrate deve essere disapplicata (articolo Il
Sole 24 Ore del 13.03.2019).
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SENTENZA
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione
e falsa applicazione dell'art. 9 del DM n. 1444/1968 e
dell'art. 113 c.p.c., in quanto la tradizionale nozione di
parete finestrata include le sole pareti munite di finestre
qualificabili come vedute, senza quindi potere prendere in
esame le semplici aperture lucifere.
Nella fattispecie, invece, emergeva che le due aperture
presenti sulla parete del fabbricato della ricorrente non
consentono una possibilità di affaccio stante la
collocazione di una sbarra metallica, dovendosi altresì
escludere che abbia rilevanza ai fini della norma in esame
la presenza di balconi o di una porta.
Il secondo motivo denuncia l'omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio ex art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., in
quanto la sentenza ha omesso di considerare l'assenza di
finestre, intese quali vedute, sulla parete del fabbricato
di parte convenuta, come peraltro sempre eccepito in tutti
gli scritti difensivi.
Il terzo motivo denuncia ex art. 360, co. 1, n. 4
c.p.c. la nullità della sentenza per assenza di motivazione,
quanto alla qualificazione della parete come finestrata,
nonché per avere fatto riferimento esclusivo alla consulenza
di parte attrice e non anche agli accertamenti del CTU, e
ciò in violazione degli artt. 132, co. 2, n. 4 c.p.c. e
dell'art. 118 disp. att. c.p.c., 61 c.p.c. e 24 e 111 Cost.
I tre motivi che possono essere congiuntamente
esaminati per la loro connessione, sono infondati.
Ed, invero, non può non rilevarsi che, come ammesso da parte
della stessa ricorrente, sulla parete del fabbricato di cui
è stata ordinata la demolizione ovvero l'arretramento sono
collocate, oltre ad alcune aperture, di cui si discute se
abbiano carattere di veduta oppure di semplici luci, anche
dei balconi, dei quali si è tenuto conto ai fini del calcolo
delle distanze (sul presupposto che non fossero dei meri
sporti ornamentali), come confortato anche dalla lettura del
dispositivo.
La tesi della ricorrente è che, perché possa invocarsi la
previsione di cui al citato DM del 1968 n. 1444, lungo una
delle pareti frontistanti debbano aprirsi delle finestre
intese quali vedute, con la conseguenza che, essendo state
apposte delle sbarre in corrispondenza delle finestre ivi
allocate, che impediscono la possibilità di affaccio,
diretto, laterale e/o obliquo, non si sarebbe più al
cospetto di vedute, ma di semplici aperture lucifere, che
appunto non rilevano ai fini della norma in esame.
Ritiene il Collegio che tuttavia l'interpretazione della
norma de qua non possa che condurre alla conclusione
secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche
la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di
manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la
veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla
previsione in esame.
In tal senso la giurisprudenza di questa Corte ha
costantemente ribadito che (cfr. da ultimo Cass. n.
26383/2016), poiché nella disciplina legale
dei "rapporti di vicinato" l'obbligo di osservare
nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in
relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione "pareti
finestrate" contenuta in un regolamento edilizio che si
ispiri all'art. 9 del d.nn. n. 1444 del 1968 -il quale
prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci
metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti-
non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite
di finestre qualificabili come "vedute", senza
ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre
cosiddette "lucifere"
(conf. Cass. n. 6604/2012).
Deve quindi ritenersi che anche la presenza
di balconi assicuri la possibilità di veduta
(cfr. da ultimo Cass. n. 8010/2018, a mente della quale con
riferimento ai balconi, rispetto ad ogni lato di questo si
hanno una veduta diretta, ovvero frontale, e due laterali o
oblique, a seconda dell'ampiezza dell'angolo),
e che quindi la loro presenza sul fronte del
fabbricato impone l'applicazione della norma alla quale
hanno fatto riferimento i giudici di merito (si veda per la
giurisprudenza amministrativa
Cons. Stato 05/10/2015 n. 4628, che ha ribadito che per
pareti finestrate si devono intendere unicamente le pareti
munite di finestre qualificabili come vedute, senza
ricomprendere in esse anche quelle sulle quali si aprono
semplici luci, nonché TAR L'Aquila, (Abruzzo), 20/11/2012,
n. 788, che ha specificato che ai sensi dell'art. 9 d.m.
02.04.1968 n. 1444, e di tutti quei regolamenti edilizi
locali che ad esso si richiamano, devono intendersi per "pareti
finestrate", non solo le pareti munite di "vedute",
ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi,
finestre di ogni tipo, bastando altresì che sia finestrata
anche la sola parete che subisce l'illegittimo
avvicinamento).
Ne consegue che, attesa la presenza di
balconi lungo la parete dell'edificio della ricorrente, va
esclusa la dedotta violazione di legge, mentre risulta priva
del carattere della decisività la pretesa omessa disamina
della circostanza che alcune delle aperture non consentano
l'affaccio, trattandosi di affermazione che non tiene conto
della necessaria rilevanza che invece assumono i balconi ai
fini della presente vicenda.
Né sussiste il dedotto vizio motivazionale, avendo la
sentenza adeguatamente fatto richiamo alla presenza dei
balconi lungo il fronte del fabbricato della società.
5. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione
sotto altro profilo dell'art. 9 del DM n. 1444/1968 nonché
dell'art. 113 c.p.c. e dell'art. 2058 c.c., nella parte in
cui la sentenza gravata ha condannato la società a demolire
tutta la parete finestrata, sebbene la stessa fronteggi una
parete priva di finestre.
Si assume che il condominio possa vantare solo il diritto
alla chiusura delle finestre ma non anche alla demolizione
dell'intera parete.
Il motivo è privo di fondamento.
Questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire il
principio per il quale (Cass. n. 5017/2018)
è illegittima una previsione che imponga il rispetto
di una distanza minima di dieci metri tra pareti soltanto
per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli
ciechi, in quanto l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 detta
disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in
tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i
fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra
costruzioni e non tra queste e le vedute.
Ad avviso del Collegio la tesi della ricorrente non può
essere condivisa in quanto contrasta con l'interpretazione
che delle norme in esame è stata in passato offerta dal
giudice di legittimità.
Va in primo luogo richiamato che costituisce opinione
consolidata quella secondo cui (cfr. ex multis Cass.
n. 20574/2007) ai fini dell'osservanza
delle distanze legali, ove sia applicabile il DM n.
1444/1968 in quanto recepito negli strumenti urbanistici,
l'obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle
pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che la
norma in esame è finalizzata alla salvaguardia
dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una
determinata intercapedine tra gli edifici che si
fronteggiano, quando uno dei due abbia una parete finestrata.
Le Sezioni Unite sono intervenute sul punto ed hanno avuto
modo di precisare (cfr. Cass. S.U. n. 14953/2011) che,
attesa l'idoneità del citato art. 9 a dar vita a
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità,
altezza e distanza tra i fabbricati destinate a prevalere
sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali
successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione
automatica, non è legittima una previsione regolamentare che
imponga il rispetto della distanza minima di dieci metri tra
pareti finestrate soltanto per i tratti dotati di finestre,
con esonero di quelli ciechi.
Come peraltro chiarito anche in motivazione da Cass. n.
15529/2015, ai fini della corretta
applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite,
deve ribadirsi che la norma è destinata a disciplinare le
distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in
modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero, che
risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello
direttamente antistante alle finestre in direzione
ortogonale, con esclusione di quello laterale: ne
conseguirebbe la facoltà per i Comuni di permettere
edificazioni incongrue, con profili orizzontali dentati a
rientranze e sporgenze, in corrispondenza rispettivamente
dei tratti finestrati e di quelli ciechi delle facciate.
Ne consegue che assume carattere preminente, nel calcolo
delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo
sviluppo ideale verticale od orizzontale rispetto alla
frontistante facciata e non già la reciproca posizione delle
finestre in entrambe le superfici aperte.
Trattasi di conclusione che appare del tutto coerente con
quanto in precedenza affermato, e cioè che (cfr. Cass. n.
8383/1999) ai fini dell'applicazione della
norma in esame è del tutto irrilevante che una sola delle
pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o
che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto
all'altra, atteso che
(cfr. Cass. n. 11404/1998) il regolamento
edilizio che impone una distanza minima tra pareti
finestrate di edifici fronteggiantisi, deve esser osservato
anche se dalle finestre dell'uno non è possibile la veduta
sull'altro perché la "ratio" di tale normativa non è
la tutela della privacy, bensì il decoro e sicurezza, ed
evitare intercapedini dannose tra pareti.
Va pertanto data continuità al principio già sostenuto da
questa Corte, anche prima dell'intervento delle Sezioni
Unite del 2011 sopra ricordato, che peraltro si limita a
rafforzarne la correttezza, secondo cui (cfr. Cass. n.
13547/2011) ai fini dell'applicazione della
norma in esame è sufficiente che le finestre esistano in
qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio,
ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore
da quella prescritta, sicché il rispetto della distanza
minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in
parte privi di finestre
(conf. Cass. n. 5741/2008, a mente della quale, essendo "ratio"
della norma non la tutela della riservatezza, bensì quella
della salubrità e sicurezza, la medesima va applicata
indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e
dall'andamento parallelo delle pareti di questi, purché
sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento
di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro
incontro, sia pure per quel limitato segmento).
Sempre in senso conforme si veda, con specifico riferimento
alle fattispecie esaminate, Cass. n. 4715/2001, che ha
ritenuto applicabile l'art. 7 del P.R.G. di Viterbo, con
formulazione identica all'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968,
laddove gli edifici per cui è causa si fronteggiavano con
una parete finestrata ed uno spigolo di muro, nonché Cass.
n. 9207/1991, la cui massima recita a favore
dell'applicazione dell'art. 9 sempre che le finestre
esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad
altro edificio, ed ancorché solo una parte di essa si trovi
a distanza minore da quella prescritta (la vicenda
riguardava fabbricati frontistanti solo per un tratto di
metri 0,82 dell'uno ed entrambi con pareti prive di finestre
nelle rispettive parti contrapposte, avendo la Corte
confermato la correttezza della decisione dei giudici di
appello che avevano disposto l'arretramento del nuovo corpo
di fabbrica fino a ripristinare la distanza di dieci metri,
limitatamente al predetto tratto di metri 0,82) (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 19.02.2019 n. 4834).
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Al riguardo si leggano anche:
● M. Tarantino,
Anche i balconi sono rilevanti nella distanza tra gli
edifici condominiali (19.03.2019 - link a
www.condominioweb.com).
● G. D. Nuzzo,
Le distanze previste per i muri con vedute si applicano
anche in presenza di balconi aggettanti. Anche la presenza
di balconi legittima l'applicazione del DM n. 1444/1968
(26.02.2019 - link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra costruzioni e tra costruzione e confine.
In tema di distanze tra costruzioni e distanze tra costruzione e confine,
non v’è alcuna differenza tra fabbricati principali e costruzioni accessorie
ai primi; in questo contesto, a nulla valgono le eventuali distinzioni tra
gli stessi enucleate nelle norme edilizie locali, le quali possono essere
prese in considerazione al solo fine della maggiore distanza imponibile in
ragione di quanto disposto dall’art. 873 c.c..
E' quindi da considerarsi illegittima la costruzione di un edificio a
distanza inferiore di quella regolamentare, anche con riferimento ad
edificio accessorio a quello principale posto su fondo finitimo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2019 n. 836
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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1. L’appello è infondato e va respinto, il che consente di prescindere dalla
disamina dell’eccezione di inammissibilità per acquiescenza dell’originario
ricorso di primo grado, articolata dal comune appellato con la memoria
depositata il 24.12.2018.
2. E’ incontestato in punto di fatto che l’immobile edificando disterebbe
mt. 1,575 dal confine di proprietà.
2.1. Tenuto conto delle N.t.a. comunali, nel senso che verrà di seguito
esplicitato, ed anche a dare per incontestato che si trattasse di un ‘corpo
accessorio’, l’appello non può essere accolto.
3. Invero, stabilisce l’art. 873 del codice civile che “le costruzioni su
fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a
distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere
stabilita una distanza maggiore.”.
4. Per la consolidata giurisprudenza (tra le tante, Cassazione civile, sez.
II, 11.09.2018, n. 22054), “le norme dei regolamenti edilizi che
impongono distanze tra le costruzioni maggiori rispetto a quelle previste
dal codice civile o stabiliscono un determinato distacco tra le costruzioni
e il confine sono volte non solo a regolare i rapporti di vicinato evitando
la formazione di intercapedini dannose, ma anche a soddisfare esigenze di
carattere generale, come quella della tutela dell'assetto urbanistico, così
che, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a
prescindere dal fatto che gli edifici si fronteggino”.
Va sottolineato che la giurisprudenza, sul punto, non fa distinzioni tra
corpo principale ed accessorio (Cassazione civile, sez. II, 16.03.2017, n.
6855: “in tema di distanze tra costruzioni e distanze tra costruzione e
confine, non v'è alcuna differenza tra fabbricati principali e costruzioni
accessorie ai primi. In questo contesto, a nulla valgono le eventuali
distinzioni tra gli stessi enucleate nelle norme edilizie locali, le quali
possono essere prese in considerazione al solo fine della maggiore distanza
imponibile in ragione di quanto disposto dall'art. 873 c.c.. È da
considerarsi illegittima la costruzione di un edificio a distanza inferiore
di quella regolamentare, anche con riferimento ad edificio accessorio a
quello principale posto su fondo finitimo”).
4.1. Muovendo da tali punti di partenza, ed incontestato che -sia con
riguardo alle costruzioni, che con riferimento alla distanza dai confini- le
N.t.a. comunali possono prevedere una distanza maggiore, rispetto a quella
prevista nel codice civile, si osserva che:
a) l’art. 21, comma 2, delle NTA comunali stabilisce che la
distanza dai confini debba essere pari o superiore a metri 5 e la distanza
tra costruzioni debba essere pari o superiore a metri 10;
b) l’art. 7 delle norme di attuazione contiene effettivamente una
deroga con riferimento ai corpi accessori, ma detta deroga è riferita
soltanto alla distanza tra costruzioni, e non anche alla distanza dai
confini;
c) sebbene si possa riconoscere che il coordinamento tra le due
fattispecie sia poco perspicuo, il dato letterale è decisivo, sul punto;
d) neppure può dirsi –come sostiene la difesa dell’appellante- che
intesa nel senso su indicato la deroga di cui all’art. 7 sia inutile, e
svuotata di contenuto, in quanto la stessa vale a chiarire la non
computabilità dei corpi accessori nell’ipotesi di costruzioni che insistono
sul confine.
5. Alla stregua delle superiori, assorbenti, considerazioni, l’appello è
infondato e deve essere respinto e la sentenza di primo grado va confermata,
con le precisazioni sopra esposte. |
novembre 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Il vano scala, se volumetricamente consistente, è
equiparabile ad una costruzione sicché da dover rispettare
le distanze legali fra edifici.
Risulta consolidato il principio per il quale, in tema di
distanze legali fra edifici, non sono computabili le
sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione
meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di
fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari
proporzioni, ove siano di apprezzabile profondità e
ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi
coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione,
in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza
dei fabbricati.
Pertanto, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi
con funzione di rifinitura od accessoria (come le mensole,
le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e
simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica,
computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici
aventi particolari proporzioni.
---------------
Integra, dunque, la nozione di "volume tecnico", non
computabile nella volumetria della costruzione, solo l'opera
edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinata a contenere impianti
serventi -quali quelli connessi alla condotta idrica,
termica- di una costruzione principale per esigenze tecnico
funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati
nella stessa, e non anche quella che costituisce -come
appunto il vano scale- parte integrante del fabbricato,
ossia corpo di fabbrica.
---------------
2.1. - IL motivo non è fondato.
2.2. - La Corte di merito ha, correttamente, escluso che
(ferma restando la riserva alla legge dello Stato della
definizione delle "costruzioni" al fine della
applicazione dell'art. 873 c.c.), il vano scale
dell'immobile in questione non possa non essere considerato
a tutti gli effetti una "costruzione", come tale non
rientrante nel concetto di sporto.
Trattasi di un accertamento di fatto sorretto da adeguata e
logica motivazione -fondata sui richiamati esiti peritali,
secondo i quali "trattasi di due rampe in muratura, di
larghezza di mt. 2,51 e lunghezza di mt. 3,17 con
all'interno la stanza di alloggiamento dell'impianto di
riscaldamento; il tutto infisso, in modo stabile e
permanente, al suolo e realizzante una superficie
complessiva di mq. 9,98 ed un volume di metri cubi 15,02"
(sentenza impugnata, pag. 12)- come tale immune dalle
censure sollevate dai ricorrenti (Cass. n. 1916 del 2011),
che sostanzialmente si limitano a contestare la
qualificazione data dai giudici del merito al manufatto in
esame.
2.3. - Va rilevato che risulta consolidato il principio per
il quale, in tema di distanze legali fra edifici, non sono
computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano
funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo
di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari
proporzioni, ove siano di apprezzabile profondità e
ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi
coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione,
in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza
dei fabbricati (Cass. n. 12964 del 2006).
Pertanto, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi
con funzione di rifinitura od accessoria (come le mensole,
le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e
simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica,
computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici
aventi particolari proporzioni (Cass. n. 17242 del 2010;
Cass. n. 18282 del 2016).
Integra, dunque, la nozione di "volume tecnico", non
computabile nella volumetria della costruzione, solo l'opera
edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinata a contenere impianti
serventi -quali quelli connessi alla condotta idrica,
termica- di una costruzione principale per esigenze tecnico
funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati
nella stessa, e non anche quella che costituisce -come
appunto il vano scale- parte integrante del fabbricato,
ossia corpo di fabbrica (Cass. n. 2566 del 2011; v. altresì
Cass. n. 20886 del 2012) (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
ordinanza 27.11.2018 n. 30708). |
ottobre 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra edifici.
In tema di distanze tra costruzioni, la deroga alla disciplina stabilita
dalla normativa statale realizzata dagli strumenti urbanistici regionali
deve ritenersi legittima quando faccia riferimento ad una pluralità di
fabbricati (“gruppi di edifici”) che siano oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni
planivolumetriche che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i
rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni,
considerate come fossero un edificio unitario, e siano finalizzate a
conformare un assetto complessivo di determinate zone, poiché la legittimità
di tale deroga è strettamente connessa al governo del territorio e non,
invece, ai rapporti fra edifici confinanti isolatamente intesi
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 30.10.2018 n. 27638 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
1.1. - Il motivo non è fondato.
1.2. - In reiterate occasioni (cfr. da ultimo Corte Cost. n. 41/2017), la
giurisprudenza costituzionale ha ribadito che la disciplina delle distanze
fra costruzioni, che ha la sua collocazione nel codice civile, ed in
particolare negli artt. 873 e 875, attiene in via primaria e diretta ai
rapporti tra proprietari di fondi finitimi. Essa, pertanto, rientra nella
materia dell'ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello
Stato, con la conseguenza che è illegittima l'eventuale previsione contenuta
in una legge regionale che deroghi alla disciplina statale delle distanze
tra fabbricati al di fuori dell'ambito della competenza regionale
concorrente in materia di governo del territorio.
In tale ottica quindi,
l'intervento derogatorio del legislatore regionale è consentito solo
allorquando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere
specifiche caratteristiche rispetto ad altri, per ragioni naturali e
storiche; con la conseguenza che la disciplina che li riguarda, e in
particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso, esorbita
dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi
pubblici, la cui cura è affidata anche alle Regioni perché attratta
all'ambito di competenza concorrente del governo del territorio.
Tuttavia nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza —statale in
materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del
territorio»— il punto di equilibrio deve essere individuato nell'ultimo
comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, dotato di particolare efficacia
precettiva e inderogabile, in quanto richiamato dall'art. 41-quinquies I. 17.08.1942, n. 1150, così che, secondo le indicazioni interpretative della
giurisprudenza costituzionale, e come poi disposto dall'art. 2-bis del TUE,
è legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite
dalla normativa statale, ma solo se inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio.
L'assenza di precise indicazioni, infatti, non consente di
attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione
necessariamente coerente con l'esigenza di garantire omogeneità
di assetto a determinate zone del territorio ed implicherebbe
quindi l'invasione da parte della Regione della sfera di
competenza riservata alla legislazione esclusiva dello stato in
materia di ordinamento civile (conf. Corte Cost. n. 232 del 2005;
n. 6 del 2013, n. 231 del 2016, n. 189 del 2016, n. 185 del
2016, n. 178 del 2016).
In definitiva è da reputarsi legittima la previsione regionale di distanze
in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, solo «nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche», e quindi «se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (Corte Cost. n.
134 del 2014; n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro
legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e
quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici
confinanti isolatamente considerati» (Corte Cost. n. 114 del 2012; nello
stesso senso, n. 232 del 2005).
A tal fine si è ritenuto che tali
conclusioni debbano essere mantenute ferme anche dopo l'introduzione
dell'art. 2-bis del TUE, da parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del
decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dall'art. 1,
comma 1, della legge n. 98 del 2013, in quanto tale disposizione ha
sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza costituzionale,
inserendo nel testo unico sull'edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze
legali stabilite dal DM n. 1444/1968 e dell'ammissibilità delle deroghe,
solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio» (Corte Cost. n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis,
Corte Cost. n. 189 del 2016).
Richiamando quanto affermato, da ultimo, da Corte Cost.
n. 41 del 2017, va quindi ribadito che «la deroga alla disciplina
delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in
conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad
una pluralità di fabbricati ("gruppi di edifici") e sia fondata su
previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità
progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e
architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un
edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del
1968)»; situazione questa non riscontrabile nella concreta
fattispecie.
1.3. - Ciò premesso, nella specie, la Corte di merito -premesso che il
primo Giudice aveva erroneamente fondato la decisione su di una risalente
giurisprudenza (Cass. n. 13011/2000, n. 6812/2000), secondo la quale le
prescrizioni dettate dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 (distanza di 10 metri
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti), essendo dirette ai
Comuni, ai fini della formazione degli strumenti urbanistici, non sono
immediatamente applicabili nei rapporti tra privati- ha correttamente
richiamato la giurisprudenza più recente (Cass. n. 21899 del 2004; Cass. n.
7563 del 2006; Cass. n. 3199 del 2008), la quale ha precisato che il
suddetto principio di non immediata operatività del citato art. 9 del D.M.
n. 1444/1968 nei rapporti tra privati, va interpretato nel senso che
l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici
contrastanti con la norma comporta l'obbligo per il Giudice di merito, non
solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare la
disposizione dell'art. 9 divenuta, per inserzione automatica, parte
integrante dello strumento urbanistico.
La Corte di merito, inoltre, ha ricordato che, più di recente,
la Cassazione (sez. un. n. 14953 del 2011) ha stabilito che il
suddetto art. 9, essendo stato emanato su delega dell'art. 17-quinquies L.
n. 1150/1942, aggiunto dall'art. 17 della L. n.
765/1967, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza
tra fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti
locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (si
vedano anche, Cass. n. 15458 del 2016; Cass. n. 3199 del 2008). Da ciò, la
Corte d'appello ha affermato che la norma regolamentare del Comune di Avezzano,
che consente di costruire manufatti a distanza inferiore a 10
metri, vada disapplicata (v. Cass. n. 27558 del 2014; Cass. n.
7563 del 2006).
Conclusione questa che non può essere contestata sull'assunto (dei
ricorrenti) secondo cui la previsione della N.T.A. sarebbe comunque
assimilabile alle ipotesi, aventi valida portata derogatoria, contemplate
nel comma 3 dell'art. 9 del D.M. 1444/1968, diverse essendo le norme
tecniche di attuazione dei piani regolatori, le quali hanno natura
regolamentare e danno luogo ad uno strumento meramente secondario e
subalterno, rispetto ai piani particolareggiati ed alle lottizzazioni
convenzionate, i quali danno luogo ad uno strumento urbanistico esecutivo
(Cass. n. 23136 del 2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Disciplina in tema di distanze e di fabbricati.
Il rinvio, contenuto nell’art. 879, comma 2, c.c., alle leggi e ai
regolamenti che riguardano le costruzioni “che si fanno in confine con le
piazze e le vie pubbliche” non va interpretato come deroga
all’inapplicabilità, prevista dal medesimo art. 879, comma 2, c.c., delle
norme sulle distanze alle pubbliche strade e piazze, concernendo, invece, la
disciplina in tema non già di “distanze”, bensì di “fabbricati”
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 29.10.2018 n. 27364 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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2.2. - L'art. 879, secondo comma, c.c. prevede che «Alle costruzioni che
si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le
norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti
che le riguardano».
La sentenza impugnata ha affermato, con valutazione non censurabile (né
specificamente censurata) in questa sede, che l'area sulla quale si affranza
il fabbricato dei ricorrenti (Vicolo Potenza nel comune di sant'Agata di
Militello) vada classificata come "via pubblica", alla stregua della
presunzione di demanialità ex art. 22, all. F, legge n. 2248/1865, rimasta
insuperata in giudizio.
Tuttavia, nonostante tale qualificazione -che condurrebbe ad escludere
l'applicazione della disciplina relativa alle distanze, in base a quanto
disposto dalla prima parte del secondo comma dell'art. 879 c.c. (per il
quale, come detto, "alle costruzioni che si fanno in confine con le
piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze")-,
la Corte di merito giunge a ritenere applicabile la disciplina del D.M. n.
1444/1968 e, con essa, la previsione delle distanze, attraverso il tramite
del Regolamento edilizio locale del 1983, pervenendo a tale conclusione
attraverso il richiamo generale che il menzionato secondo comma dell'art.
879 c.c. fa alla regola dell'osservanza, comunque, "delle leggi e dei
regolamenti che le riguardano", tra cui appunto quelle del D.M. n.
1444/1968.
Con ciò -data siffatta interpretazione del secondo comma dell'art. 879 c.c.-
la regolazione delle distanze relativamente all'area pubblica non sarebbe a
sua volta impedita nella fattispecie dal testo dell'art. 9 del citato D.M.
n. 1444/1968 che stabilisce le distanze minime tra fabbricati, anche per
quelli "tra i quali siano interposte Strade destinate al traffico di
veicoli", ma "con esclusione della viabilità a fondo cieco al
servizio di singoli edifici o di insediamenti".
Sicché, secondo la pronuncia impugnata, l'eccezione relativa alla viabilità
a fondo cieco, nella specie al "vicolo", non significherebbe che le
distanze tra fabbricati indicate nel citato D.M. non trovino applicazione in
dette aree chiuse, bensì soltanto che non avrebbero applicazione le
maggiorazioni delle distanze, poste dall'art. 9 in rapporto proporzionale
con la larghezza della strada destinata al traffico veicolare, ma resterebbe
pur sempre applicabile la regolazione generale della distanza minima di
metri 10.
2.3. - Questo Collegio ritiene che le argomentazioni, poste dalla Corte di
merito a sostegno della sentenza impugnata, non siano condivisibili.
Ciò, in primo luogo, in ragione del recupero della regolazione delle
distanze tramite la enfatizzazione della formula generale dell'ultima parte
del secondo comma dell'art. 879 c.c. con la conseguenza che, alla stregua di
questa interpretazione (contrastante con gli ordinari canoni di logica
ermeneutica e, dunque, con l'art. 12 delle preleggi), si verifica un effetto
palesemente distorto, per cui la medesima disposizione finisce
contemporaneamente per negare (comma secondo, prima parte) e per affermare
(comma secondo parte seconda) l'applicabilità delle norme sulle distanze.
Laddove, si deve affermare che la parte prescrittiva che rinvia alle "leggi
e regolamenti" intenda piuttosto riferirsi alla disciplina (riguardante
non già le "distanze" bensì i "fabbricati") che non
interferisce con la tutela del codice civile, inoperante, quanto alle
distanze, rispetto alle pubbliche strade e piazze.
In merito, va richiamato il principio secondo cui l'esonero dal rispetto
delle distanze legali previsto dall'art. 879 c.c., comma 2, per le
costruzioni a confine con le piazze e vie pubbliche (che va riferito anche
alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da
servitù pubbliche di passaggio, come nella specie, giacché il carattere
pubblico della strada, rilevante ai fini dell'applicazione della norma
citata) attiene più che alla proprietà del bene, all'uso concreto di esso da
parte della collettività (Cass. n. 6006 del 2008; cfr. anche Cass. n. 5172
del 1997; Cass. n. 2463 del 1990; Cass. n. 307 del 1982).
Sicché -tale essendo la medesima esigenza di provvedere all'interesse
pubblico all'assetto viario ed alla circolazione urbana che se ne serve- non
si ravvisa la ratio sottesa alla diversa disciplina nella stessa
materia concernente le distanze, nell'un caso derogandone la imposizione,
nel secondo caso estendendone l'imposizione. Il quale effetto si verifica
altresì in quanto la esclusione della viabilità a fondo cieco, presente
nell'art. 9 D.M. 1444/1968, viene confinata alle sole maggiorazioni delle
distanze tra fabbricati che sono poste nello stesso articolo, giacché tale
interpretazione riduttiva (al di là della sua collocazione contestuale
riferita alle "maggiorazioni") finisce per determinare, nuovamente,
causa di frizione logica, nel predicare allo stesso tempo un esonero ed una
applicazione di una regola di distanza, che possono elidersi reciprocamente.
2.4. - In secondo luogo, la Corte di merito (pur avendo dichiarato la "natura
pubblica del sito e la sua estensione che interferisce per intero con
estensione con la antistanza delle pareti" delle costruzioni in oggetto:
sentenza, pag. 10), non ne ha tratto la inammissibilità della tutela
ripristinatoria. Le disposizioni di legge e regolamentari tra le quali, fra
l'altro, il codice della strada ed il relativo regolamento di esecuzione,
cui rinvia l'art. 879, comma secondo, cod. civ. per il caso delle
costruzioni "in confine con le piazze e le vie pubbliche", non sono
dirette alla regolamentazione dei rapporti di vicinato ed alla tutela della
proprietà, ma alla protezione di interessi pubblici, con particolare
riferimento alla sicurezza della circolazione stradale; [per cui] è da
ritenersi insussistente un diritto soggettivo suscettibile di dar luogo a
tutela ripristinatoria (Cass. n. 5204 del 2008).
Per l'accoglimento della domanda di riduzione in pristino proposta dal
proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze fra
costruzioni contenute in leggi speciali e regolamenti edilizi locali è
necessario che le norme violate abbiano carattere integrativo delle
disposizioni del codice civile sui rapporti di vicinato, siccome
disciplinanti la stessa materia e da esse (artt. 872 e 873 cod. civ.)
richiamate, e che si tratti di costruzioni soggette all'obbligo delle
distanze e quindi non confinanti con vie o piazze pubbliche (art. 879,
secondo comma, cod. civ.); resta pertanto esclusa la riduzione in pristino
se tra i fabbricati siano interposte strade pubbliche, ancorché la norma
edilizia locale applicabile (integrativa di quelle del codice civile)
prescriva che la distanza minima prevista debba essere osservata anche nel
caso che tra i fabbricati siano interposte aree pubbliche (Cass. n. 3567 del
1988; conf. Cass. n. 2436 del 1988; Cass. n. 5378 del 1996). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra fabbricati: la distanza minima di 10 metri.
In materia di distanze tra fabbricati, la distanza minima di 10 metri è
richiesta anche nel caso in cui una sola delle pareti fronteggianti tra loro
sia finestrata
(Corte d'Appello di Bari, Sez. III, sentenza 25.10.2018 n. 1814 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I Comuni possono prescrivere distanze inferiori per gli edifici?
L’ultimo comma dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 consente ai comuni di
prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa nazionale
soltanto laddove le costruzioni siano incluse nel piano particolareggiato o
nella lottizzazione convenzionata, riguardando dunque solo le distanze tra
edifici inclusi in quella determinata zona
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 16.10.2018 n. 25833 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
I motivi sono fondati. La Corte d'appello ha rigettato l'impugnazione sulla
base dei seguenti argomenti:
- il fabbricato degli appellati, che si trova nella zona B1 del
Comune di Conversano, è posto a una distanza da quello dell'appellante che
rispetta quanto imposto (almeno 6 metri) dai c.d. studi particolareggiati
del Comune;
- dato che l'ultimo capoverso del terzo comma dell'art. 9 del d.m.
1444/1968 prescrive che se un Comune si dota di un piano particolareggiato
può prevedere, per le zone territoriali omogenee di tale piano, distanze
inferiori a quelle previste dal medesimo d.m., se ne deduce che valgono per
la zona B1 le norme tecniche di attuazione degli studi particolareggiati,
ossia la distanza minima di 6 metri tra edifici;
- concludere diversamente significherebbe giungere alla conclusione
"catastrofistica" di disapplicare in parte qua non solo le
concessioni edilizie ottenute dalla controparte, ma "addirittura" lo
strumento urbanistico.
Il ragionamento seguito dal giudice di merito non può essere accolto.
Secondo "l'ormai consolidato orientamento di questa Corte, in tema di
distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma 2, del d.m. 02.04.1968, n. 1444 ha
efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti
inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si
sostituiscono per inserzione automatica", con la conseguenza che "l'adozione,
da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la
citata norma fa insorgere l'obbligo per il giudice di merito non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma proprio di applicare
immediatamente la disposizione del menzionato art. 9, divenuta, per
inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in
sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata" (così
Cass. 23136/2016).
Quanto all'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del
d.m. 02.04.1968, n. 1444, che consente ai comuni di prescrivere distanze
inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano
incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione,
essa riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che
siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni
entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (cfr. Cass.,
sez. un., n. 1486/1997).
Pertanto, il fatto che gli strumenti urbanistici del Comune di Conversano
-che possono essere disapplicati ove contrastino con la disciplina di cui al
citato art. 9, disciplina che diviene in tal caso direttamente applicabile-
consentissero distanze inferiori rispetto a quelle fissate dalla norma, non
è sufficiente per ritenere legittima la deroga, ma è necessario accertare,
come prescrive l'ultimo comma dell'art. 9, che le costruzioni fossero in
zone incluse in un piano particolareggiato, verifica che non emerge da
quanto affermato nella sentenza impugnata. |
settembre 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Alla stregua della consolidata
giurisprudenza, va ribadito che:
a) il D.M. 02.04.1968, n. 1444, recante "Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765",
all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati",
prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i
fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi
edifici"... "in tutti i casi . . . di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti";
b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono
tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma
imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse
pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla
protezione della salute dei cittadini (prevenendo la
formazione di intercapedini malsane);
c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque
coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non
già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari
degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è
invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in
tema di distanze, dal codice civile;
d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita
dall’art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta
le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di
sicurezza.
Nello specifico, costituisce orientamento consolidato che
nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi
dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano considerati i
balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro
caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono.
---------------
La disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit. è
applicabile anche nel caso in esame, laddove una sola delle
due pareti frontistanti sia finestrata e l’altra consista
nella scalettatura per una parte della facciata posta a
distanza inferiore di 10 metri.
Né la distanza è derogabile nel caso in cui –con riferimento
all’altra facciata fronteggiante– la sopraelevazione si
trovi ad un diversa altezza rispetto all’altra costruzione.
---------------
11. Con il quarto motivo d’appello, si deduce
l’errata o falsa applicazione dell’art. 9 del d.m. 1444/1968
in ragione della tipologia delle opere realizzate,
consistenti in sporti accessori, muri e balconi.
12. Il motivo d’appello è infondato.
12.1 Il fabbricato della sig.ra Am. è stato oggetto nel
corso degli anni degli ampliamenti abusivi di cui alle
istanze di sanatoria (domanda di sanatoria prot. n.
13175/1987 e prot. n. 4679/1995 nonché la pratica edilizia
in sanatoria n. 10833/1998).
L'Amministrazione ha rilasciato in data 11.02.2016 alla
sig.ra Am.Cr. due distinte concessioni in sanatoria, una ai
sensi della legge n. 47/1985 e l'altra ai sensi della legge
n. 724/1994, relative agli ampliamenti ed alle modifiche
apportati all'immobile di Via ... 25.
L’immobile era già stato oggetto d’autorizzazione in
sanatoria n. 68 del 17.06.1998, concernente “la sanatoria
e il completamento delle opere relative al fabbricato”.
Le opere realizzate e condonate con le concessioni n. 6/c e
7/c consistono in ampliamenti della sagoma dell’edificio
(chiusura di una scala, trasformazione di una tettoia
aperta), che hanno alterato le preesistenti distanze dal
confine e dal fabbricato del ricorrente.
Dalla relazione del verificatore, redatta a seguito del
sopralluogo disposto dal TAR e sulla base della
documentazione di causa, emerge l’ampliamento del nucleo
originario dell’immobile dell’appellante, in estensione fino
al muro di confine con la proprietà Massa, fino ad annullare
la distanza dell’edificio dal predetto confine.
La relazione del verificatore e la perizia di parte
dell’appellato- sostanzialmente corrispondente alle
conclusioni dal verificatore – comprovano che l’edificio
della sig.ra Am., dopo l’esecuzione dalle opere oggetto dei
provvedimenti di condono, non rispetta la distanza di 10
metri dal nucleo originario del fabbricato dell’appellato.
12.2 Alla stregua della consolidata giurisprudenza (cfr., da
ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017, n. 4337; id.,
23.06.2017, n. 3093; id., 08.05.2017, n. 2086; id.,
03.08.2016, n. 3510; id., 29.02.2016, n. 856; Cass. civ.,
sez. II, 14.11.2016, n. 23136), va ribadito che:
a) il D.M. 02.04.1968, n. 1444, recante "Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765",
all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati",
prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i
fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi
edifici"... "in tutti i casi . . . di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti";
b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono
tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma
imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse
pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla
protezione della salute dei cittadini (prevenendo la
formazione di intercapedini malsane);
c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque
coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non
già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari
degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è
invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in
tema di distanze, dal codice civile;
d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita
dall’art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta
le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di
sicurezza.
12.3 Nello specifico, costituisce orientamento consolidato,
qui condiviso, che nella verifica dell’osservanza delle
distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444,
vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze
destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr.,
Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1272; Id, sez. IV,
21.10.2013, n. 5108).
12.4 Pertanto, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9
cit. è applicabile anche nel caso in esame, laddove una sola
delle due pareti frontistanti sia finestrata e l’altra
consista nella scalettatura per una parte della facciata
posta a distanza inferiore di 10 metri.
12.5 Né la distanza è derogabile, come invece ha dedotto
l’appellante, nel caso in cui –con riferimento all’altra
facciata fronteggiante– la sopraelevazione si trovi ad un
diversa altezza rispetto all’altra costruzione (cfr., Cons.
St., sez. IV, 20.07.2011, n. 4374).
13. Conclusivamente l’appello deve essere respinto, con la
conseguente declaratoria d’assorbimento dei motivi di
ricorso proposti in prime cure e riproposti in appello dalla
parte appellata sig. Ma. (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.09.2018 n. 5307 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
a) il D.M. 02.04.1968 n. 1444, recante "Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765",
all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati",
prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i
fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi
edifici"... "in tutti i casi ... di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti";
b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente
inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente
il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un
ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della
salute dei cittadini (prevenendo la formazione di
intercapedini malsane);
c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con
il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile;
d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit.,
predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, e trova
conseguente applicazione anche per gli edifici pubblici.
e) nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art.
9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 vanno considerati i balconi,
nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri
strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa
dei vani che vi accedono.
---------------
Con i motivi d’appello il Comune denuncia l’errore di
giudizio in cui sarebbero incorsi i giudici di prime cure
nell’omettere di considerare la natura pubblica dell’opera
sottratta al regime della distanza minima assoluta di m. 10
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti,
prescritta dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
L’appello è infondato.
Alla stregua della consolidata giurisprudenza (cfr., da
ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017, n. 4337; id.,
23.06.2017, n. 3093; id., 08.05.2017, n. 2086; id.,
03.08.2016, n. 3510; id., 29.02.2016, n. 856; Cass. civ.
sez. II, 14.11.2016, n. 23136), mette conto ribadire che:
a) il D.M. 02.04.1968 n. 1444, recante "Limiti inderogabili di
densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e
rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da
osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9,
recante "limiti di distanza tra i fabbricati",
prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i
fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi
edifici"... "in tutti i casi ... di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti";
b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente
inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente
il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un
ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della
salute dei cittadini (prevenendo la formazione di
intercapedini malsane);
c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con
il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile;
d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit.,
predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, e trova
conseguente applicazione anche per gli edifici pubblici.
e) nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art.
9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 vanno considerati i balconi,
nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri
strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa
dei vani che vi accedono (cfr., Cons. Stato, sez. V,
13.03.2014 n. 1272; Id, sez. IV, 21.10.2013 n. 5108).
Conclusivamente l’appello deve essere respinto (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 29.08.2018 n. 5071 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'applicazione della normativa
codicistica e regolamentare in materia di distanze tra
edifici, per nuova costruzione deve intendere non solo la
realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche
qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato
precedente che ne comporti l'aumento della sagoma
d'ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla
situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò
anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una
maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a
fini abitativi.
Per il che si è ripetutamente ritenuto che la
sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti,
nuova costruzione.
---------------
Anche il secondo motivo di ricorso (con il quale è
lamentata la violazione e la falsa applicazione degli artt.
9, comma 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444 e 21 delle NTA del PRG
del Comune di Aquilonia, oltre ad omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della
controversia costituito dalla transazione conclusa fra le
parti il 30.11.1994, per avere la Corte di appello
erroneamente qualificato come nuova la costruzione in
questione, trattandosi in realtà -come emergerebbe da tutti
gli elaborati tecnici, di parte e di ufficio in atti- di
ricostruzione con adeguamento sismico funzionale ex legge n.
219 del 1981, per essere stata realizzata attraverso un iter
particolarmente elaborato sulla scorta delle concessioni n.
13/1987, n. 16/1993, n. 4/1994 e n. 10/1995, quest'ultima in
particolare avrebbe recepito in toto la transazione
intervenuta fra le parti. Prosegue il ricorrente criticando
la sentenza per avere svilito il valore e la portata della
transazione) è in parte infondato e in parte inammissibile.
Questa Corte ha in più occasioni evidenziato come, ai fini
dell'applicazione della normativa codicistica e
regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova
costruzione debbasi intendere non solo la realizzazione a
fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi
modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente
che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, in tal
guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi
tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente
dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o
dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi; per il
che si è ripetutamente ritenuto che la sopraelevazione,
appunto, costituisca, a tutti gli effetti, nuova costruzione
(Cass. 18.05.2011 n. 10909; Cass. 11.06.1997 n. 5246; Cass.
15.06.1996 n. 5517), così come anche il solo rifacimento di
un tetto quando comporti l'aumento delle superfici esterne e
dei volumi interni, pur se dei piani sottostanti (Cass.
06.12.1995 n. 12582) (Corte di cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 13.08.2018 n. 20718). |
giugno 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA: Violazione di distanza minima tra fabbricati.
Ai sensi dell’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 1444/1968, in tema di distanze
legali tra fabbricati è prevista la distanza minima inderogabile di dieci
metri per cui un manufatto realizzato a distanza di 6,65 metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti è senz’altro ubicato a distanza
inferiore rispetto a quella legale ne consegue che, pur se nel corso del
giudizio viene rimossa l’opera realizzata, il giudice dopo aver dichiarato
la cessazione della materia del contendere deve pronunciarsi in merito alle
spese di lite
(TRIBUNALE di Napoli, Sez. X, sentenza 18.06.2018 n. 6036 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: immobile edificato a distanza inferiore dai limiti di legge -
rilascio del permesso di costruire in sanatoria - doppia conformità –
necessità assenso del confinante – parere (Legali Associati per Celva,
nota 12.06.2018 - tratto da www.celva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze inferiori tra fabbricati: quando sono ammesse?
Ai sensi dell’art. 879, co. 2 c.c., in tema di distanze tra edifici occorre
far riferimento al disposto del D.M. 1444/1968, secondo il quale le distanze
tra fabbricati, in quanto recepite dalle N.T.A. del piano regolatore
comunale, diventano cogenti e integrano le disposizioni in materia del
codice civile; in tale ambito la presenza di una strada pubblica può
sovvertire gli interessi generali tutelati dalla legislazione urbanistica ed
edilizia, mentre distanze inferiori sono ammesse, in deroga, solo in caso di
edifici oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.06.2018 n. 3329
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
3. Con un terzo motivo di censura il sig. Ma. lamenta l'erroneità
della sentenza nella parte in cui i giudici di prima istanza hanno ritenuto
inderogabili i limiti di distanza tra i fabbricati previsti dal D.M. n.
1444/1968.
3.2 La censura non è fondata
Al riguardo si osserva che nell'atto di appello non è contestata la
distanza, confermata anche dal verificatore, esistente tra le pareti
finestrate dell’edificio della sig.ra Ma.In. e quello prospiciente del sig.
Mi.Ma., di mt. 3,80 rispetto al fabbricato preesistente e di metri 3,50
rispetto alla porzione in estensione, distanza ben inferiore, in entrambi i
casi, ai metri 10,00 minimi prescritti per la zona B dal primo comma, punto
2, dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444; parimenti non contestato è il
non legittimo aumento volumetrico consentito con il permesso di costruire n.
27/2013.
L'appellante, invece, sostiene che, trattandosi di costruzioni a confine con
strada pubblica a fondo cieco a servizio dei fabbricati, non vi sarebbe
l'obbligo del rispetto della distanza minima di 10 metri tra fabbricati
prospicienti di cui all’art. 9, comma 1, n. 2 e comma 2 del D.M. 1444/1968.
Diversamente da quanto asserito, però, l’art. 879, comma 2 c.c. in tema di
distanze tra edifici obbliga al rispetto delle leggi e dei regolamenti
vigenti, per cui, nel caso di specie occorre far riferimento al disposto del
D.M. 02.04.1968, richiamato anche dall’art. 3 delle N.T.A. del programma di
fabbricazione del Comune di Agnone, nonché alle prescrizioni delle N.T.A.
medesime che, come evidenziato dal TAR, nella zona B3 prevedono in via
generale un distacco dai confini di metri 5,00 (art. 9). Quando, poi, si
interpone una via pubblica, anche a fondo cieco, non uti singuli e si
sia in presenza di pareti finestrate (art. 9, comma 2) sussiste senza
eccezioni l'obbligo di rispettare la distanza minima di 10 metri (Cons.
Stato, sez. IV, 22.05.2014, n. 2650) incrementabili fino a mt. 13 nella
sussistenza di una sede stradale larga mt. 3,00.
3.3 Le distanze tra fabbricati ex D.M. n. 1444/1968, in quanto recepite
dalle N.T.A. del piano regolatore comunale, diventano cogenti e integrano le
disposizioni in materia del codice civile e la presenza di una strada
pubblica può sovvertire gli interessi generali che la legislazione
urbanistica ed edilizia tutela, mentre, come il TAR ha evidenziato, distanze
inferiori sono ammesse, in deroga solo, nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche (art. 9, u.c., D.M. 1444/1968). |
maggio 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Anche la presenza di una striscia di proprietà
aliena tra due costruzioni poste a distanza inferiore a
quella minima non preclude la possibilità di invocare il
rispetto delle distanze in questione, sebbene con l'adozione
di opportuni accorgimenti al fine di ripartire equamente
l'onere del rispetto delle distanze, alla luce
dell'esistenza del fondo alieno interposto.
Invero, l'obbligo
di arretrare la costruzione, posto dalla disciplina
urbanistica, va rispettato anche nell'ipotesi in cui i
fondi, anziché essere contigui, siano separati da una
striscia di terreno di proprietà di terzi.
Ed ancora,
nell'ipotesi di fondi non confinanti, perché
separati da una striscia di terreno di proprietà di un terzo
e di larghezza inferiore alla distanza minima legale,
sebbene non operi il principio della prevenzione, non
essendo oggettivamente configurabile l'ipotesi di una
costruzione "sul confine", giacché quella eretta
sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio
si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal
confine medesimo, trova piuttosto applicazione la disciplina
delle costruzioni "con distacco".
---------------
Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e
falsa applicazione dell'art. 873 c.c. e del DM n. 1444/1968
nonché delle previsioni di cui all'art. 6, co. 2, delle NTA
del PRG del Comune di Bosco Chiesanuova.
Deducono i ricorrenti che, sebbene fosse emerso che la
sopraelevazione degli attori fosse risultata collocata ad
una distanza di appena un metro dalla loro costruzione, da
reputarsi preveniente, distanza largamente inferiore a
quella minima imposta dalla legge e dal regolamento locale,
tuttavia la domanda riconvenzionale è stata disattesa sol
perché tra i due fondi era collocata una striscia di terreno
di proprietà di terzi, sebbene di larghezza inferiore alla
distanza minima tra costruzioni.
Il motivo è fondato, risultando la decisione gravata non
conforme alla precedente giurisprudenza di questa Corte a
mente della quale anche la presenza di una
striscia di proprietà aliena tra due costruzioni poste a
distanza inferiore a quella minima, non preclude la
possibilità di invocare il rispetto delle distanze in
questione, sebbene con l'adozione di opportuni accorgimenti
al fine di ripartire equamente l'onere del rispetto delle
distanze, alla luce dell'esistenza del fondo alieno
interposto.
In tal senso si veda tra i precedenti di questa Corte, Cass.
n. 627/2003 a mente della quale l'obbligo
di arretrare la costruzione, posto dalla disciplina
urbanistica, va rispettato anche nell'ipotesi in cui i
fondi, anziché essere contigui, siano separati da una
striscia di terreno di proprietà di terzi.
In termini analoghi Cass. n. 5874/2017, secondo cui nell'ipotesi di fondi non confinanti, perché
separati da una striscia di terreno di proprietà di un terzo
e di larghezza inferiore alla distanza minima legale,
sebbene non operi il principio della prevenzione, non
essendo oggettivamente configurabile l'ipotesi di una
costruzione "sul confine", giacché quella eretta
sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio
si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal
confine medesimo, trova piuttosto applicazione la disciplina
delle costruzioni "con distacco"
(per altri precedenti in presenza di una striscia di terreno
interposta, Cass. n. 3968/2013; Cass. n. 7525/2002).
Ne deriva che il rigetto della riconvenzionale in ragione
della sola presenza di un fondo intermedio contravviene a
quanto affermato dalla giurisprudenza ed impone la
cassazione della sentenza gravata in parte qua, con
rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Venezia per
un nuovo esame, anche al fine di riscontrare, in assenza di
una specifica indicazione da parte del giudice di appello,
che ha esaminato la questione nel merito, la inammissibilità
della relativa domanda come lamentata nelle memorie di parte
controricorrente (Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 08.05.2018 n. 11011). |
EDILIZIA PRIVATA: Sono
da ritenersi illegittime le disposizioni di natura regolamentare adottate da
un comune volte a esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità,
dal calcolo della distanza tra edifici.
Secondo la prevalente giurisprudenza “rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza”.
È superfluo rilevare che il D.M. n. 1444/1968, emanato su delega della L.
17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto
dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, e,
attenendo alla materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza
del legislatore nazionale, le sue disposizioni sui limiti inderogabili di
distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali, poiché afferiscono a interessi pubblici di natura
igienico-sanitaria, sottratti a qualsiasi valutazione o apprezzamento
discrezionale e alla disponibilità dei privati interessati.
Le disposizioni dei regolamenti locali in contrasto con la suddetta
disciplina statale non possono essere applicate e, per giurisprudenza
costante, sono da essa sostituite per inserzione automatica.
Sulla scorta di quanto appena osservato sono dunque da ritenersi illegittime
le disposizioni di natura regolamentare adottate da un comune volte a
esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità, dal calcolo della
distanza tra edifici.
È perciò da concludersi per l’illegittimità, e dunque per la disapplicazione,
della regola data dal combinato disposto delle lettere b) e g) dell’art. 1
delle norme d’attuazione al p.u.c. di Bolzano, laddove, escludendoli dalla
superficie coperta, esonera i balconi fino alla considerevole larghezza di
1,80 m dal computo della distanza tra edifici.
Detta regola è da intendersi sostituita dalla disposizione distanziale
dettata dal D.M. n. 1444/1968, nell’applicazione che ne ha fatto la
richiamata giurisprudenza, in particolare per quanto di rilievo, con
riguardo alla nozione di costruzione, la quale, secondo l’orientamento
prevalente, ricomprende anche i balconi, che dunque devono essere
considerati ai fini del computo della distanza.
---------------
Le disposizioni dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 sono
inderogabili e cogenti unicamente in ordine al limite minimo di distanza tra
edifici e sostituiscono le previsioni degli strumenti urbanistici locali
solo se queste siano meno restrittive.
Ove, però, il piano urbanistico comunale prescriva una distanza fra edifici
maggiore di quella minima di metri 10 prevista dal D.M. citato, trova
senz’altro applicazione la disposizione comunale. Se, infatti, la finalità
dell'art. 9 del D.M. è da ravvisarsi nell'intento di evitare la formazione
tra edifici frontistanti di intercapedini nocive, con la prescrizione di una
distanza "minima" inderogabile, non è impedito ai Comuni di adottare, nella
formazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi locali, in forza
dell'autonomia loro riconosciuta dall'art. 128 Cost., regole che, con la
medesima efficacia delle fonti primarie del diritto, siano più rigorose,
sulla base di valutazioni discrezionali degli interessi pubblici da
tutelare.
Non v’è dubbio, infatti, che le disposizioni sulle distanze, oltre che
rispondere all’esigenza di tutelare aspetti igienico-sanitari connessi
all’edilizia, perseguono contemporaneamente chiare finalità urbanistiche, la
cui individuazione compete all’ente locale nell’ambito dei poteri
attribuitigli in materia di governo del territorio.
Sono pertanto da ritenersi legittime le disposizioni attuative del piano
urbanistico comunale che, nello stabilire i distacchi tra fabbricati,
prevedano distanze maggiori di quanto indicato dall’art. 9 del D.M. n.
1444/1968, o prescindano dal carattere finestrato delle pareti, oppure
ancora optino per un metodo di calcolo radiale, che disegni gli intervalli
tra pieni e vuoti in modo più rigoroso rispetto a quanto stabilito dal D.M.
1444/1968, perseguendo, oltre alle finalità igienico–sanitarie proprie di quest’ultimo, anche un disegno urbanistico ritenuto maggiormente rispondente
all’armonico sviluppo edilizio del territorio governato.
---------------
In giurisprudenza si è chiarito che la nozione
di costruzione, non può che essere unitaria in rapporto al parametro
distanziale; essa non è quindi suscettibile di essere differentemente
modulata a seconda del metodo di computo impiegato, con la conseguenza che
se i balconi, in quanto elementi costruttivi che estendono in superficie il
corpo di fabbrica, debbono necessariamente essere computati nel sistema
lineare sotteso alla disposizione statale, lo devono essere anche in quello
radiale prescritto dalla regola locale.
Sul punto valga richiamare un
significativo precedente della Cassazione civile che ha affermato il seguente principio di diritto: “La
nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può
subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali,
da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda
parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola
facoltà di stabilire una distanza maggiore.”.
---------------
12. Il provvedimento di diniego della concessione edilizia oggetto
di gravame è sostenuto, come s’è visto in precedenza, su due cardini
motivazionali, seppure sinteticamente indicati, ossia sull’affermata
violazione del D.M. n. 1444/1968, per quanto attiene alla distanza tra
l’ampliamento dei balconi e il fabbricato prospiciente, e sull’affermata
realizzazione del prolungamento dei predetti aggetti in violazione della
distanza rispetto al confine.
13. Afferma la ricorrente, riguardo al primo dei profili di criticità
rilevati dal Comune, che sussisterebbero tutti i presupposti per
l’approvazione del progetto presentato per la sanatoria del prolungamento
degli aggetti, poiché rispetto all’edificio sul lotto finitimo sarebbe
osservata sia la distanza prescritta dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, sia
quella prevista dalle norme d’attuazione al p.u.c..
La prima, infatti, sarebbe da misurare con il metodo lineare, la seconda, da
misurare, invece, secondo il più rigoroso metodo radiale, escluderebbe
tuttavia dal calcolo, per espressa previsione regolamentare, gli aggetti
fino a 1,80 m di larghezza.
Applicando le predette disposizioni sulle distanze secondo il rispondente
metodo di calcolo appena descritto, il distacco tra l’ampliamento dei
balconi e l’edificio prospiciente sarebbe rispettato.
Avrebbe perciò errato il Comune nell’applicare il metodo radiale previsto
dalla norma d’attuazione al p.u.c., senza tenere conto dell’esclusione dei
balconi fino a 1,80 m di larghezza pure espressamente contemplata dalla
norma regolamentare.
14. La tesi non convince il Collegio.
In tema di distanze tra costruzioni viene in rilievo innanzi tutto l’art. 9
del D.M. n. 1444/1968.
La disposizione, nello stabilire in 10 m il distacco tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti, allude, come puntualmente rileva la
ricorrente, al metodo di calcolo lineare.
Va ricordato, per quanto di rilievo ai fini della decisione, che secondo la
prevalente giurisprudenza “rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione
meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le
lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono,
invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli
edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da
solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza
(Cass. 31/05/2006, n. 12964; Cass. 22/07/2010, n. 17242; Cass. 19/09/2016,
n. 18282)” (così ancora di recente Cassazione civile, sez. I, 10.08.2017, n.
19932.
È superfluo rilevare che il D.M. n. 1444/1968, emanato su delega della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto
dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato,
e, attenendo alla materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza
del legislatore nazionale, le sue disposizioni sui limiti inderogabili di
distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali, poiché afferiscono a interessi pubblici di natura
igienico-sanitaria, sottratti a qualsiasi valutazione o apprezzamento
discrezionale e alla disponibilità dei privati interessati (cfr., tra le
tante, C.d.S. n. 2650/2014; C.d.S., n. 4451/2013 e n. 844/2013).
Le disposizioni dei regolamenti locali in contrasto con la suddetta
disciplina statale non possono essere applicate e, per giurisprudenza
costante, sono da essa sostituite per inserzione automatica (Cass. S.U., n.
14953/2011; Cass. S.U. n. 5889/1997).
Sulla scorta di quanto appena osservato sono dunque da ritenersi illegittime
le disposizioni di natura regolamentare adottate da un comune volte a
esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità, dal calcolo della
distanza tra edifici.
È perciò da concludersi per l’illegittimità, e dunque per la disapplicazione,
della regola data dal combinato disposto delle lettere b) e g) dell’art. 1
delle norme d’attuazione al p.u.c. di Bolzano, laddove, escludendoli dalla
superficie coperta, esonera i balconi fino alla considerevole larghezza di
1,80 m dal computo della distanza tra edifici (cfr. TRGA Bolzano n.
280/2016).
Detta regola è da intendersi sostituita dalla disposizione distanziale
dettata dal D.M. n. 1444/1968, nell’applicazione che ne ha fatto la
richiamata giurisprudenza, in particolare per quanto di rilievo, con
riguardo alla nozione di costruzione, la quale, secondo l’orientamento
prevalente, ricomprende anche i balconi, che dunque devono essere
considerati ai fini del computo della distanza (cfr. Cass. Civ., n.
5594/2016 e n. 2094/2014).
14. Le disposizioni del citato art. 9 del D.M. n. 1444/1968, tuttavia, sono
inderogabili e cogenti unicamente in ordine al limite minimo di distanza tra
edifici e sostituiscono le previsioni degli strumenti urbanistici locali
solo se queste siano meno restrittive.
Ove, però, il piano urbanistico comunale prescriva una distanza fra edifici
maggiore di quella minima di metri 10 prevista dal D.M. citato, trova
senz’altro applicazione la disposizione comunale. Se, infatti, la finalità
dell'art. 9 del D.M. è da ravvisarsi nell'intento di evitare la formazione
tra edifici frontistanti di intercapedini nocive, con la prescrizione di una
distanza "minima" inderogabile, non è impedito ai Comuni di adottare, nella
formazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi locali, in forza
dell'autonomia loro riconosciuta dall'art. 128 Cost., regole che, con la
medesima efficacia delle fonti primarie del diritto, siano più rigorose,
sulla base di valutazioni discrezionali degli interessi pubblici da tutelare
(cfr. in tal senso Cass. Civ., n. 4076/2012).
Non v’è dubbio, infatti, che le disposizioni sulle distanze, oltre che
rispondere all’esigenza di tutelare aspetti igienico-sanitari connessi
all’edilizia, perseguono contemporaneamente chiare finalità urbanistiche, la
cui individuazione compete all’ente locale nell’ambito dei poteri
attribuitigli in materia di governo del territorio.
Sono pertanto da ritenersi legittime le disposizioni attuative del piano
urbanistico comunale che, nello stabilire i distacchi tra fabbricati,
prevedano distanze maggiori di quanto indicato dall’art. 9 del D.M. n.
1444/1968, o prescindano dal carattere finestrato delle pareti, oppure
ancora optino per un metodo di calcolo radiale, che disegni gli intervalli
tra pieni e vuoti in modo più rigoroso rispetto a quanto stabilito dal D.M.
1444/1968, perseguendo, oltre alle finalità igienico–sanitarie proprie di quest’ultimo, anche un disegno urbanistico ritenuto maggiormente rispondente
all’armonico sviluppo edilizio del territorio governato.
Non può perciò trarsi in dubbio la legittimità dell’art. 1, lett. g), delle
norme d‘attuazione al p.u.c. di Bolzano che ha introdotto il più rigoroso
metodo radiale per la misurazione della distanza tra fabbricati, in
sostituzione, come correttamente rileva la difesa comunale, al metodo
lineare sotteso all’art. 9 del richiamato decreto ministeriale.
15. Il Comune di Bolzano, in definitiva, nel negare alla ricorrente la
concessione edilizia in sanatoria per l’ampliamento abusivo degli aggetti
sul lato sud dell’edificio, ha fatto corretta applicazione delle
disposizioni statali e locali in materia di distacchi tra fabbricati,
applicandole secondo i principi affermati dalla prevalente giurisprudenza,
innanzi ricordati. Ha, in particolare, legittimamente adottato il metodo
radiale di misura della distanza, contemplato dalla disposizione
regolamentare locale più rigorosa di quella statale, e ha correttamente
fissato il punto di misurazione del distacco tenuto conto anche delle
sporgenze di non trascurabili dimensioni, quali i balconi in discussione,
dovendoli considerare, alla luce della prevalente giurisprudenza parte della
costruzione (per un precedente di questo Tribunale si veda la sentenza n.
73/2018).
Né può condividersi la tesi della ricorrente che differenzia la nozione di
costruzione a seconda che venga in rilievo la distanza lineare oppure quella
radiale, considerando nel primo caso il balcone come parte della costruzione
di cui tenere conto nel computo del distacco, nel secondo caso, invece, come
elemento escluso.
In giurisprudenza si è, infatti, chiarito che la nozione
di costruzione, non può che essere unitaria in rapporto al parametro
distanziale; essa non è quindi suscettibile di essere differentemente
modulata a seconda del metodo di computo impiegato, con la conseguenza che
se i balconi, in quanto elementi costruttivi che estendono in superficie il
corpo di fabbrica, debbono necessariamente essere computati nel sistema
lineare sotteso alla disposizione statale, lo devono essere anche in quello
radiale prescritto dalla regola locale. Sul punto valga richiamare un
significativo precedente della Cassazione civile, Sez. II, che nella
pronuncia n. 5163/2015 ha affermato il seguente principio di diritto: “La
nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può
subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali,
da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda
parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola
facoltà di stabilire una distanza maggiore.” Si veda anche TRGA Bolzano,
n. 280/2016
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 02.05.2018 n. 145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
permesso di costruire – ristrutturazione e aumento
volumetrico – zona Ba17 del PRGC – l.r. n. 24/2009 (cd.
Piano casa) – distanze legali tra costruzioni – parere
(Legali Associati per Celva,
nota
28.03.2018 - tratto da www.celva.it).
---------------
Problema riscontrato: Al protocollo del comune è
pervenuta una pratica edilizia, tendente al rilascio del
permesso di costruire per ristrutturazione di fabbricato con
cambio d’uso ed aumento volumetrico, ai sensi della L.R.
24/2009 – piano casa.
Il fabbricato di cui trattasi è ubicato in zona Ba17, si
trova immediatamente adiacente alla perimetrazione della
zona A, con un muro perimetrale costituente confine tra la
zona Ba17 e la zona A ed è fronteggiante un fabbricato ivi
ubicato, il tutto come illustrato nelle planimetrie di PRG e
catastale allegate.
Ai fini dell’aumento volumetrico del fabbricato, essendo
questo dovuto a sopraelevazione, si fa riferimento alla DGR
n. 514/2012, attuativa della L.R. 24/2009, in particolare
all’ All. A– paragrafo 3.1 che stabilisce la distanza minima
tra le costruzioni
La situazione del fabbricato trattato non è chiaramente
inquadrabile nelle condizioni previste dalla predetta
normativa, in quanto:
1. non è in zona A (punto 1 del DM 1444/1968), ma, come
detto sopra, un muro perimetrale costituisce confine di zona
tra le zone Ba17 e A;
2. è preesistente allo strumento urbanistico comunale ma –
pur essendo inserito in zona Ba, non è un “nuovo edificio
ricadente in altre zone (punto 2 del DM 1444/1968).
Riferimenti normativi: DGR n. 514/2012, attuativa
della L.R. 24/2009, in particolare all’ All. A– paragrafo
3.1 che stabilisce:
"DISTANZA MINIMA TRA LE COSTRUZIONI
Le distanze tra le costruzioni definite inderogabili dalla
l.r. 24/2009 sono quelle stabilite nei singoli PRG o RE, in
coerenza con le norme nazionali vigenti.
Tali distanze minime sono inderogabili anche nel caso in cui
ci sia l’assenso del proprietario dell’edificio
fronteggiante.
Nel riquadro seguente sono richiamate le norme relative alla
definizione della distanza minima tra le costruzioni, di cui
al Codice Civile e al DM 1444/1968.
• Codice Civile
Art. 873 - Distanze nelle costruzioni.
Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o
aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre
metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una
distanza maggiore.
• D.M. 1444/1968 - art. 9. Limiti di distanza tra i fabbricati
Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e
per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli
edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti
tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener
conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di
valore storico, artistico o ambientale.
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in
tutti i casi la distanza minima assoluta di m 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti.
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di
edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del
fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una
sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si
fronteggino per uno sviluppo superiore a ml 12.
Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano
interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con
esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di
singoli edifici o di insediamenti) – debbono corrispondere
alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- ml. 5,00 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml.
7.
- ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra
ml. 7 e ml. 15;
- ml. 10,000 per lato, per strade di larghezza superiore a
ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate,
risultino inferiori all’altezza del fabbricato più alto, le
distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura
corrispondente all’altezza stessa. Sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso
di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche."
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Si chiede
se sia corretto, nel caso di specie, applicare, per
analogia, la predetta DGR 514/2012 con riferimento alle
distanze tra costruzioni, in zone A, anche in considerazione
del fatto che il prospiciente edificio in zona A –qualora
divenisse oggetto di analogo intervento– potrebbe
beneficiare delle condizioni di cui alla citata DGR 514/2012
in ordine alle distanze per i fabbricati in zone A e
creando, di fatto, una disparità di trattamento tra due
fabbricati fronteggianti.
Quesiti: Si chiede la Vs. consulenza, finalizzata ad
un’interpretazione univoca della norma applicabile al caso
di specie, nonché ad analoghe situazioni che possano
manifestarsi, vista la particolarità degli agglomerati
residenziali di antica e/o vetusta formazione del territorio
comunale. |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
La Corte di Cassazione –sulla questione
relativa al rispetto delle distanze all'interno di un
condominio– ha richiamato il condiviso principio di diritto
secondo il quale <<Le norme sulle distanze sono applicabili
anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché
siano compatibili con la disciplina particolare relativa
alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima
non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di
contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di
condominio determina l'inapplicabilità della disciplina
generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e
nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in
rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto,
ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui
all'art. 1102 c.c. , deve ritenersi legittima l'opera
realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per
regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga
rispettata la struttura dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione ha poi statuito che “In tema di
condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun
condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per
fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità,
purché non alteri la destinazione della cosa comune e
consenta un uso paritetico agli altri condomini. …”.
In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali
recedono quando sono in contrasto con i principi
fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui
sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune
anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un
altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella
di dare luce ad aria.
---------------
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel
rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art.
1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano
dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle
norme in materia di distanze tra costruzioni.
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra
costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un
edificio preesistente, determinando un incremento della
volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova
costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle
distanze vigente al momento della sua realizzazione, non
potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione
caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce
con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima.
---------------
La Società ricorrente censura il provvedimento comunale
18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in
sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto
e di un balcone.
...
3.4 Non sussiste neppure la dedotta violazione dell’altezza
massima, prevista in metri 10,5 dalle NTA.
Il limite –che lo strumento urbanistico riferisce
all’altezza “media” quando il solaio di copertura non
sia orizzontale e quando il terreno o la strada siano in
pendenza– risulta infatti rispettato dall’intervento dei
controinteressati, come si evince dai disegni e dalle tavole
esibite. Emerge chiaramente che l’altezza media
dell’edificio – pari a 10,31 metri – rispetta la previsione
di cui all’art. 5 del Piano delle Regole di -OMISSIS- (cfr.
allegati n. 4 e n. 5 controinteressati).
Non è sufficiente, al riguardo, lamentare una mancata “verifica
in loco” da parte dei tecnici del Comune, visto che il
meccanismo di calcolo non è stato contestato dalla parte
ricorrente attraverso la produzione di una perizia ovvero
l’elaborazione di cifre differenti.
Infine, i vani ricavati nel sottotetto aventi altezza media
ponderale non superiore a 1,80 metri sono esclusi dal
computo dell’altezza, e non vi sono ragioni per ritenere
inapplicabile la disposizione (ancorché siano stati
effettuati interventi pregressi, non affiorando il
complessivo superamento del limite).
3.5 Viceversa, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno
indebitamente violato, con la creazione del sopralzo, la
distanza minima di 5 metri dal confine con la striscia di
area di proprietà della Società ricorrente, che corre in
adiacenza lungo il muro perimetrale sud ovest.
3.6 La Corte di Cassazione (sez. II civile – 27/02/2014 n.
47471) –sulla questione relativa al rispetto delle distanze
all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso
principio di diritto, affermato anche con la propria
sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo il quale <<Le
norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini
di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la
disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè
quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto
con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della
norma speciale in materia di condominio determina
l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze
che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo
condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione
rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il
rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. , deve
ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il
rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra
proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione, sez. II civile – 11/6/2013 n. 14652,
ha poi statuito che “In tema di condominio, ai sensi
dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di
servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente
proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri
la destinazione della cosa comune e consenta un uso
paritetico agli altri condomini. …”.
3.7 In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali
recedono quando sono in contrasto con i principi
fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui
sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune
anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un
altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella
di dare luce ad aria.
Tuttavia, nella fattispecie all’esame del Collegio, la
distanza rileva rispetto a un’area pacificamente di
proprietà esclusiva del confinante.
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel
rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art.
1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano
dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle
norme in materia di distanze tra costruzioni (Corte di
cassazione, sez. II civile – 25/07/2016 n. 15295).
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra
costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un
edificio preesistente, determinando un incremento della
volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova
costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle
distanze vigente al momento della sua realizzazione, non
potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione
caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce
con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima
(TAR Campania Napoli, sez. VIII – 14/03/2017 n. 1465 e la
giurisprudenza civile ivi menzionata).
3.8 Non è in altri termini appropriato il richiamo al
principio dell'inoperatività, nel condominio, della
normativa sulle distanze legali, dal momento che tale
principio è valido con riferimento alle opere eseguite sulle
parti comuni e non si estende invece ai rapporti fra i
singoli condomini e le rispettive proprietà esclusive.
Si concorda dunque con quanto affermato dalla parte
ricorrente nella memoria di replica per cui, nel caso
specifico, le unità immobiliari delle parti in causa sono
perfettamente autonome e ciò che risulta violata è la
distanza del sopralzo –qualificabile come “nuova
costruzione”– rispetto alla porzione esclusiva di area
scoperta di proprietà della ricorrente (e non rispetto ad
una porzione di area condominiale).
3.9 Da ultimo, la ricorrente lamenta che il balcone sarebbe
stato realizzato sul muro perimetrale in lato sud-ovest in
violazione dell’art. 905 del c.c., che pone il divieto di
aprire vedute dirette verso il fondo del vicino a meno di 1
metro e mezzo di distanza dal medesimo fondo.
La prospettazione non convince.
Nella memoria finale, i controinteressati hanno
efficacemente affermato (senza contestazione sul punto della
parte avversaria) che il balcone costruito sul lato
sud-ovest non crea alcun affaccio sulla striscia di
proprietà di -OMISSIS- S.r.l., dal momento che i poggioli
del piano secondo ne impediscono la vista. Con gli altri
proprietari limitrofi, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno
sottoscritto la scrittura privata del 16/02/2015 (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze legali tra edifici.
La realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico
come intervento di nuova costruzione non di natura pertinenziale e, anche ai
fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la
nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e
immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente
realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell’opera
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.03.2018 n. 1309 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
4.3. Per ricorrente giurisprudenza, invero, la realizzazione di una tettoia
va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova
costruzione e non di natura pertinenziale, essendo assente il requisito
della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza. Il
manufatto costituisce, infatti, parte integrante dell'edificio e la nozione
di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente
interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed
immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente
realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni
dell'opera.
Per la tettoia come realizzata, necessita, quindi, la sua conformità alle
disposizioni del testo unico dell'edilizia (D.P.R. n. 380/2001) e alle norme
dallo stesso richiamate in tema di disciplina urbanistica ed edilizia (cfr.
art. 12), tra cui quella sulle distanze previste dal codice civile.
4.4. Non può trovare condivisione la tesi degli appellanti che l'art. 3,
comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001 prevederebbe che gli interventi
come quello di interesse possono essere considerati nuova costruzione solo
se le N.T.A. del P.R.G. del Comune lo evidenzino espressamente o nel caso in
cui si realizzino opere che abbiano un volume superiore al 20% del volume
dell'edificio principale, atteso che nulla si evince al riguardo dalla
disciplina di settore del Comune e, comunque, a rilevare è, come si è
accennato, la disciplina statale sulle distanze tra edifici, che essendo
volta alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, è
tassativa ed inderogabile nell'imporre al proprietario dell'area confinante
di costruire il proprio edificio ad almeno 10 metri, senza alcuna deroga. |
febbraio 2018 |
|
EDILIZIA PRIVATA: I
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati previsti
dall'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, (emanato su delega
dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 - c.d. legge
urbanistica, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765) che
prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, trovano applicazione
anche con riferimento alle nuove costruzioni, quali devono considerarsi le
sopraelevazioni effettuate in zona A (centro storico) dove, vigendo il
generale divieto di realizzazione di costruzioni ex novo, è previsto solo
che le distanze tra gli edifici interessati da interventi di
ristrutturazione e di risanamento conservativo (i soli consentiti), non
possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i preesistenti volumi
edificati.
---------------
2.3 La seconda censura proposta con il secondo motivo è così
rubricata: violazione e falsa applicazione degli articoli 8 e 9 del D.M. n.
1444 del 1968 in relazione all'articolo 360, primo comma, n. 3, c.p.c. per
non aver ritenuto violate dalla sopraelevazione e dalle vedute del
fabbricato dell'Or. le distanze dei fabbricati sui mapp. 217, 221, foglio
42.
Rileva la ricorrente che le norme citate, di cui la sentenza non ha tenuto
conto, hanno natura di norme primarie prevalenti ed inderogabili per tutti i
regolamenti edilizi approvati dopo l'emanazione del suddetto decreto
ministeriale.
La censura si fonda sul fatto che il fabbricato della Fr. è in zona A nella
quale le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti e la sopraelevazione,
considerata alla stregua di nuova costruzione, deve essere inderogabilmente
posta a distanza di 10 mt. dagli altri fabbricati. Nella specie considerate
le misurazioni del consulente tecnico d'ufficio le distanze erano inferiori.
Anche in relazione alle altezze massime degli edifici sarebbe violato il
disposto dell'articolo 8 del medesimo decreto.
2.4 La censura è fondata.
Impregiudicata la questione relativa alla prova circa la comproprietà della
ricorrente in ordine al mapp. 217, sub. 1, che spetterà al giudice del
rinvio valutare, deve osservarsi che la motivazione della Corte d'Appello in
ordine alla sopraelevazione non è conforme alla giurisprudenza di questa
Corte in materia.
Devono richiamarsi i seguenti principi del tutto consolidati:
- In tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo
comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge
urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha
efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti
inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si
sostituiscono per inserzione automatica Sez. U, Sentenza n. 14953 del
07/07/2011 (Rv. 617949).
- Inoltre l'art. 9, primo comma, n. 2), del d.m. 02.04.1968,
n. 1444 -emanato in forza dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n.
1150, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765- in base al quale
la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere
inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove edificazioni
consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo
ultimo, dove vige il generale divieto di costruzioni ex novo, la norma si
limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella
intercorrente tra i volumi edificati preesistenti (Sez. 2, Sentenza n.
12767 del 20/05/2008).
La sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un
aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto,
considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle
distanze, come nuova costruzione (Sez. 3, Sentenza n. 21509 del 01/10/2009.
Orbene la Corte d'Appello di Milano non ha fatto corretta applicazione dei
suddetti principi e, al contrario, ha ritenuto che il D.M. 02.04.1968, n.
1444 non fosse immediatamente operante nei rapporti fra i privati,
nonostante l'adozione nel Comune di Civo del piano regolatore sin dal 1984
e, in secondo luogo, ha ritenuto, sulla base del rilievo del C.T.U., che la
normativa applicabile fosse quella codicistica perché il manufatto di cui ai
mappali 231 e 232 era ricompreso nella zona Al-R del piano regolatore
comunale e nelle zone A del d.m. n. 1444 del 02.04.1968, nonostante si
trattasse di una sopraelevazione, da intendersi sempre come nuova
costruzione.
Deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto:
"I limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati
previsti dall'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, (emanato
su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 - c.d.
legge urbanistica, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765) che
prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, trovano applicazione
anche con riferimento alle nuove costruzioni, quali devono considerarsi le
sopraelevazioni effettuate in zona A (centro storico) dove, vigendo il
generale divieto di realizzazione di costruzioni ex novo, è previsto
solo che le distanze tra gli edifici interessati da interventi di
ristrutturazione e di risanamento conservativo (i soli consentiti), non
possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i preesistenti volumi
edificati"
(Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 15.02.2018 n. 3739). |
gennaio 2018 |
|
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili
le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente
ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la
mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel
concetto civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio, quali scale,
terrazze e corpi avanzati (cosiddetti "aggettanti"), che, seppure non
corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed
ampliare la consistenza del fabbricato.
Sicché, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di
"costruzione", che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non
può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze,
dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte
dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti
locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine)
rispetto a quella codicistica.
Invero, questa Corte ha qualificato come costruzione la realizzazione, in
aggiunta al preesistente edificio, di un corpo di fabbrica sporgente
costituito da una soletta in cemento armato della larghezza di mt. 1,60,
contornata da parapetto alto mt. 1,50 edificato con colonnine prefabbricate
in cemento armato.
Ed ancora, l'art. 9, 3° co., del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato
emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150
(cosiddetta "legge urbanistica"), aggiunto dall'art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza
tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti
locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (...
in tema di distanze tra fabbricati, nel regolamento locale che non preveda
distanza alcuna o che preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte
per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, questa
inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata
operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del
regolamento rispetto all'art. 873 cod. civ.).
D'altronde, a tal ultimi riguardi la giurisprudenza amministrativa ha
puntualizzato che in linea generale non è legittima l'adozione, negli
strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del d.m. n.
1444/1968 (in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e
di distanza tra i fabbricati), nel senso che lo stesso, essendo stato
emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942, ha
efficacia di legge.
---------------
I medesimi motivi sono fondati e meritevoli di accoglimento.
Evidentemente questa Corte non può che reiterare i propri insegnamenti.
Ovvero in primo luogo l'insegnamento per cui, in tema di distanze legali fra
edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le
grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione"
le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti "aggettanti"),
che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad
estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
E per cui, ulteriormente, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la
nozione di "costruzione", che è stabilita dalla legge statale, deve
essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del
computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio
contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola
facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra
edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica (cfr. Cass. 26.01.2005,
n. 1556; nella specie, questa Corte, nel confermare la sentenza impugnata,
ha qualificato come costruzione la realizzazione, in aggiunta al
preesistente edificio, di un corpo di fabbrica sporgente costituito da una
soletta in cemento armato della larghezza di mt. 1,60, contornata da
parapetto alto mt. 1,50 edificato con colonnine prefabbricate in cemento
armato; Cass. 19.09.2016, n. 18282; Cass. 22.07.2010, n. 17242).
Ovvero in secondo luogo l'insegnamento secondo cui l'art. 9, 3° co., del
d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (cosiddetta "legge
urbanistica"), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha
efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti
inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si
sostituiscono per inserzione automatica (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011, n.
14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458, secondo cui, in tema di distanze tra
fabbricati, nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che
preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali
omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, questa inderogabile disciplina
si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra
privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art.
873 cod. civ.).
D'altronde, a tal ultimi riguardi la giurisprudenza amministrativa ha
puntualizzato che in linea generale non è legittima l'adozione, negli
strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del d.m. n.
1444/1968 (in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e
di distanza tra i fabbricati), nel senso che lo stesso, essendo stato
emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942, ha
efficacia di legge (cfr. Consiglio di Stato 21.10.2013, n. 5108).
Negli esposti termini, giacché è da escludere che i balconi dell'edificio "Romano"
abbiano funzione meramente ornamentale in dipendenza delle dimensioni che li
caratterizzano -"è risultato dall'istruttoria svolta che detti elementi
costruttivi nel caso di specie non hanno solo una funzione ornamentale ma
sono funzionali all'edificio" (così sentenza non definitiva n. 204/2010,
pag. 16; in proposito cfr. altresì ricorso incidentale Perrella nel
procedimento iscritto al n. 18329 - 2014 R.G., pag. 68)- non possono essere
condivise e vanno conseguentemente censurate, siccome contrastanti con la
nozione "unitaria" e "statuale" di "costruzione" e con
il principio dell'inderogabilità in peius della disciplina di cui
all'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, l'affermazione della corte di merito, di
cui alla sentenza non definitiva n. 204/2010 e sulla cui scorta è stata
reputata infondata l'eccezione del Perrella, a tenor della quale il
regolamento locale può dettare tout court una diversa disciplina ("l'interpretazione
data dal Perrella alla norma suddetta (...) è corretta (...), ma solo se il
piano regolatore locale non detti una diversa disciplina"; così sentenza
non definitiva n. 204/2010, pag. 19) nonché le affermazioni, del pari della
corte di merito, di cui alla sentenza definitiva n. 134/2013, a tenor delle
quali "va applicata invece la nuova normativa che (...) esclude i balconi"
(così sentenza d'appello definitiva, pag. 35) ed "i balconi saranno
intangibili solo fino a mt. lineari 1,40, da misurarsi, ovviamente, partendo
dalla linea di attacco balcone-facciata" (così sentenza d'appello
definitiva, pag. 35) (cfr. specificamente Cass. 27.06.2007, n. 17089,
secondo cui, in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, con
riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone,
estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di
fabbrica, e poiché l'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, stabilisce
distanze inderogabili, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di
misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione
del balcone, è "con tra legem", in quanto, sottraendo dal calcolo
della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza
tra fabbricati inferiore al distacco voluto dalla cosiddetta "legge ponte")
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
29.01.2018 n. 2093).
---------------
Al riguardo si legga anche:
● M. Grisanti,
Sono assolutamente vietate le intercapedini tra fabbricati minori
dell’altezza dell’edificio più alto - Nota a Cassazione, Sez. II civile, n.
2093 depositata il 29.01.2018 (link a https://lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma primo,
del d.m. 02/04/1968, n. 1444 -traendo la sua forza cogente
dai commi 8 e 9 dell'art. 41-quinquies l.urb. e
prescrivendo, per la zona A, per le operazioni di
risanamento conservativo e per le eventuali
ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non
possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti- è disciplina integrativa dell'art.
873 cod. civ. immediatamente idonea a incidere sui rapporti
interprivatistici, per cui, sia in caso di adozione di
strumenti urbanistici contrastanti con la norma citata, sia
con ancor maggior fondamento in caso di mancanza di
contrasto e quindi in presenza di disposizioni di divieto
assoluto di costruire, sussiste l'obbligo per il giudice di
merito -nel primo caso mediante disapplicazione della
disposizione illegittima, nel secondo caso mediante
diretta applicazione della norma di divieto- di dare
attuazione alla disposizione integrativa dell'art. 873 cod.
civ., ove il costruttore sia stato proprietario di un
preesistente volume edilizio, mediante condanna
all'arretramento di quanto successivamente edificato oltre i
limiti di tale volume o, qualora invece non sussistesse
alcun preesistente volume, mediante condanna all'integrale
eliminazione della nuova edificazione.
---------------
3.1. Il secondo e -nella parte con cui si deduce
violazione di legge- il quarto motivo del ricorso
principale, strettamente collegati, sono a loro volta
strettamente connessi ai temi sollevati nel ricorso
incidentale nel suo unico motivo; la trattazione dei primi è
assorbita da quella dell'ultimo.
Invero, in ordine al secondo motivo del ricorso
principale, se effettivamente da un lato la corte d'appello,
nell'affermare ai fini dell'individuazione del regime delle
distanze per le costruzioni nell'area in discussione
l'applicabilità dell'art. 873 cod. civ., ritenendo la norma
codicistica, che prescrive la distanza di tre metri tra
costruzioni frontistanti, non integrata dalle disposizioni
del piano regolatore, prevedenti divieto assoluto di nuove
edificazioni, ha tuttavia -senza adeguatamente esaminare le
deduzioni in appello dell'odierna parte ricorrente-
contraddittoriamente dato poi applicazione, mediante
conferma della sentenza di prime cure, a quelle norme
integratrici dell'art. 873 cod. civ. prevedenti distanze dal
confine di metri cinque e dalle costruzioni di metri dieci
al fine di determinare l'arretramento da effettuarsi
rispetto alle fabbriche del Pi., d'altro lato la pronuncia
in ordine alla dedotta nullità della sentenza per contrasto
irriducibile tra motivazione e dispositivo, pur sussistente,
non può logicamente separarsi dall'individuazione del regime
delle distanze effettivamente da attuare, di cui al quarto
motivo.
Quanto poi al quarto motivo medesimo, affrontandosi
con esso la questione giuridica relativa al se nelle zone in
cui lo strumento urbanistico vieti del tutto l'edificazione
si applichi la disciplina residuale dell'art. 873 cod. civ.
(come ritenuto dalla corte d'appello) o il medesimo regime
di inedificabilità previsto dallo strumento, deve rilevarsi
l'identità della questione stessa rispetto a quella centrale
attinta dai profili sub a) e sub b) del motivo di ricorso
incidentale, ciò che quindi dà ragione dell'assorbimento.
3.2. Stante l'assorbimento, l'esame del ricorso incidentale
condurrà a formulazione di principio di diritto idoneo a
governare anche i temi di cui al secondo e -nella parte con
cui si deduce violazione di legge- al quarto motivo del
ricorso principale, in particolare valendo a guidare il
giudice del rinvio sui temi investiti dal secondo motivo del
ricorso principale circa il denunciato contrasto tra
motivazione e dispositivo (§ 3.1. innanzi), nonché dal
quarto motivo del ricorso principale, nella parte relativa a
violazione di legge (correlata al profilo sub b) del ricorso
incidentale), ferma restando l'esigenza di accertamenti
-anche d'ufficio- circa la disposizione sulle distanze
concretamente applicabile (tema correlato a quanto subito in
appresso § 4.1) e di revisione, a seconda delle risultanze
dell'indagine, delle conclusioni (in tema di derogabilità
delle distanze da parte dell'autonomia privata) fatte
discendere dalla premessa dell'applicabilità dell'art. 873
cod. civ., alla luce del venir meno della premessa, in esito
alla cassazione della sentenza qui a pronunciarsi (cfr.
infra § 5).
4. Su tali basi deve dunque procedersi all'esame del ricorso
incidentale nel suo unico motivo, nei profili sub a) e b).
4.1. In primo luogo (v. ricorso incidentale, profilo sub a))
la corte territoriale, in relazione al principio iura
novit curia applicabile in materia di distanze e alla
controversia sulla vigenza delle disposizioni di cui alla
tabella delle distanze per la sottozona Al, effettivamente
non risulta aver dato trattazione ai profili, anche
documentali, sollevati dalla parte appellante incidentale.
Essendo la censura fondata, a seguito della cassazione con
rinvio i relativi accertamenti documentali andranno svolti.
4.2. Ciò posto, va affrontato, tra i diversi profili già
sopra menzionati, specificamente quello concernente il
frequente caso -quale quello in esame- in cui lo strumento
urbanistico, emanato in base al decreto interministeriale
02/04/1968, n. 1444 (recante «Limiti inderogabili di
densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e
rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da
osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967») vieti del
tutto l'edificazione in una determinata zona (si tratta, di
regola, della zona "A" di cui all'art. 2 dello stesso d.m.),
e quindi non preveda la distanza da osservarsi per
l'edificazione di costruzioni rispetto a fabbricati
preesistenti (fermo restando che il divieto assoluto di
costruire può derivare anche da altre fonti parimenti
incidenti sul regime delle distanze; ad es., oltre che dalla
legge, per l'ipotesi che derivi da piano particolareggiato,
cfr. Cass. 16/02/2007, n. 3638). Sui presupposti impliciti
che:
(a) il divieto di costruire dettato dallo strumento avesse valenza
solo amministrativa (rivolgendosi all'autorità comunale al
fine del rilascio della concessione o permesso di costruire)
e penale, non potendo il privato lamentarne la violazione
innanzi al giudice ordinario in sede civile ai fini della
rimessione in pristino, ma solo per il risarcimento dei
danni, e
(b) dovesse sussistere comunque un regime delle distanze legali per
le costruzioni, stante la valenza generale dell'art. 873
cod. civ., la giurisprudenza di merito si è impegnata a
individuare la relativa disciplina talora applicando in via
analogica le norme dettate per le altre zone ove più severi
sono gli standard edilizi, talora applicando la distanza di
tre metri di cui all'art. 873 cod. civ.
Tale secondo orientamento è stato in più occasioni fatto
proprio dalla giurisprudenza di legittimità (tra le pronunce
non recenti v. ad es. Cass. n. 7804 del 13/07/1991 e n.
12376 del 19/11/1992), introducendosi peraltro una variante
di esso (cfr. ad es. Cass. n. 4812 del 22/04/1992 e n. 1577
del 01/03/1990, avallate da sez. U n. 9871 del 22/11/1994,
chiamate peraltro a comporre contrasto su altro tema)
secondo cui, stante l'asserita natura suppletiva della
distanza introdotta nell'art. 41-quinquies I. urb. dall'art.
17 della I. n. 765 del 1967 (al comma primo oggi abrogato
dall'articolo 136 del d.p.r. n. 380 del 2001, eventualmente
ex nunc secondo Cass. n. 12741 del 29/05/2006 e alcune
altre pronunce), sarebbe stata quest'ultima, almeno
all'epoca, la disciplina da applicare nel caso descritto (v.
più recentemente Cass. n. 26123 del 30/12/2015).
4.3. Su tali basi, la giurisprudenza si è confrontata poi in
particolare con il portato della disposizione dell'art. 9
del d.m. cit. del 1968, che al primo comma per le zone A
prescrive che «per le operazioni di risanamento
conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le
distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a
quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti,
computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di
epoca recente e prive di valore storico, artistico o
ambientale».
L'evoluzione giurisprudenziale ha conosciuto da un lato
pronunce (v. ad es. Cass. 29/04/1995, n. 4754, e 20/05/2008,
n. 12767) con cui questa corte ha continuato ad affermare
che, vietandosi con detta norma qualsiasi attività
costruttiva, essa non potesse ritenersi assumere carattere
integrativo delle disposizioni del codice civile sulle
distanze. D'altro lato, questa corte -con la sentenza n.
1282 del 24/01/2006 che qui si condivide- nell'esaminare il
caso in cui la «corte territoriale ... [aveva] rilevato
che ... il divieto assoluto di nuove edificazioni comporta[sse]
... la sola applicabilità dell'art. 873 cod. civ.» ha
affermato l'erroneità di tale argomentazione, in quanto essa
«trascura il rilievo fondamentale che ... lo strumento
urbanistico ... ha recepito il d.m. ... che all'art. 9
prescrive, per la zona A, per le operazioni di risanamento
conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le
distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a
quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
Tale disciplina, quindi, [è] parte integrante della
normativa codicistica in materia di distanze nelle
costruzioni», pienamente vigente anche a prescindere
dalla mancata approvazione di strumenti particolareggiati
esecutivi.
Secondo detta pronuncia, da cui non sussistono ragioni per
discostarsi, ciò comporta che, in caso di «adozione da
parte degli enti locali di strumenti urbanistici
contrastanti con la norma citata di cui all'art. 9»,
sussiste «l'obbligo per il giudice di merito non solo di
disapplicare la disposizione illegittima, ma anche di
applicare direttamente la disposizione dell'art. 9
richiamato, divenuta, per inserzione automatica, parte
integrante dello strumento urbanistico». Nello stesso
solco si è nuovamente inserita questa corte con la sentenza
n. 12424 del 20/05/2010, ove si è affermato, da angolo
visuale complementare, che l'art. 9, comma primo, del d.m.
citato «consente in quelle zone [A] il mantenimento in
loco delle costruzioni preesistenti, oggetto di risanamento
o ristrutturazione, sicché le esonera dall'osservanza di
distanze diverse da quelle già in essere».
4.4. Successivamente la questione è stata esaminata dalle
sezioni unite di questa corte, seppur adite per questione di
giurisdizione, le quali hanno confermato pronuncia della
corte territoriale che aveva statuito, in relazione alla
violazione delle distanze intercorrenti tra edifici
preesistenti in zona in cui tale limite si applicava, il
principio per cui l'art. 9 d.m., «in quanto emanato su
delega dell'art. 41-quinquies» cit., con «efficacia
di legge», in presenza di strumenti urbanistici
successivi contrastanti, comporta «l'obbligo, per il
giudice di merito, non solo di disapplicare la disposizione
illegittima, ma anche di applicare tale disposizione,
divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico»; nel caso esaminato, in cui lo
strumento prevedeva il divieto, «tale principio»,
secondo le sezioni unite, «trova ancor maggiore
fondamento», stante la mancanza di contrasto rilevato
dai giudici di merito (così Cass. sez. U n. 20354 del
05/09/2013).
4.5. Ai predetti precedenti cui il collegio intende
uniformarsi si sono attenute, più recentemente, a quanto
consta, Cass. n. 14552 del 15/07/2016, ove si è chiarito
specificamente che, «essendo imposto» dall'art. 9
-qualificata «norma regolamentare [con] efficacia
precettiva nei rapporti privatistici ... integrativa delle
disposizioni dettate dall'art. 873 cod. civ.»- «un
vincolo conformativo inerente alle caratteristiche
intrinseche del territorio ..., il mancato rispetto del
divieto di nuove costruzioni nella zona A non è privo di
conseguenze sul piano della violazione delle disposizioni
concernenti le distanze legali tra costruzioni, che devono
rimanere quelle preesistenti»; nonché Cass. n. 15458 del
26/07/2016, che ha ribadito che nel regolamento locale che
non preveda distanza alcuna o che preveda distanze inferiori
a quelle minime prescritte per zone territoriali omogenee
dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 questa inderogabile
disciplina si inserisce automaticamente, con immediata
operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura
integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 c.c..
4.6. Nel dare dunque continuità al predetto indirizzo
interpretativo del combinato disposto dell'art. 873 cod.
civ. e dell'art. 9, primo comma, del d.m. 1444 del 1968, può
qui rilevarsi, a parte ogni considerazione circa i paradossi
insiti nel precedente indirizzo (in particolare:
(a) di fronte a un divieto di edificare ritenuto operante sul solo
piano pubblicistico, il giudice sarebbe stato sempre
chiamato ad individuare aliunde una norma volta a
dettare distanze per costruzioni per altro verso
illegittime, o in alternativa lo strumento urbanistico, nel
dettare il divieto assoluto, avrebbe comunque dovuto
prescrivere una distanza, volta al solo fine di integrare
l'art. 873 cod. civ.;
(b) proprio nelle zone A ove lo strumento urbanistico avesse
dettato un divieto a maggior tutela del territorio il
giudice civile avrebbe dovuto applicare una distanza di
norma irrisoria, mentre nelle zone B meno tutelate la
distanza minima tra pareti finestrate sarebbe stata di metri
10), che il diverso indirizzo appare in armonia con la
ratio della disciplina urbanistica di assicurare
l'ordinato sviluppo edilizio senza rinunciare a utilizzare
all'uopo, talora, la nozione codicistica di "distanza"
per le costruzioni (tanto che lo stesso legislatore
dell'art. 873 cod. civ. se ne mostra consapevole).
In tal senso, deve ritenersi che anche le norme di divieto
assoluto di edificare dettate da strumenti urbanistici
-direttamente o per il tramite di disapplicazione giudiziale
in relazione a discipline cogenti che il divieto impongano-
contengano comunque un implicito riferimento all'art. 873
cod. civ. Di ciò la disposizione dell'art. 9, comma 1, del
d.m. è una esplicitazione, nella parte in cui per le zone A
prescrive che le distanze tra edifici (per operazioni di
risanamento conservativo e per eventuali ristrutturazioni)
non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i
volumi edificati preesistenti: trattasi di una disposizione
in tema di divieto di nuove edificazioni, significativamente
però formulata in termini di obbligo di rispetto, solo per
determinate tipologie di fabbricazione, di "distanze",
individuate in quelle preesistenti. Tale dato rivela
chiaramente la volontà del legislatore di considerare il
divieto sub specie di cristallizzazione, sia in negativo sia
in positivo (cfr. Cass. n. 12424 del 20/05/2010 cit.), del
regime civilistico delle distanze preesistenti.
Ciò conduce dunque a confermare che i divieti assoluti di
edificazione posti da una normativa urbanistica cogente
riferita anche implicitamente alla nozione di distanza per
le costruzioni (di cui le norme di cui all'art. 1 del d.m.
sono esempio, ma potendo discipline della specie essere
dettate anche in altro modo, ad es., per legge)
costituiscono disposizioni integrative dell'art. 873 cod.
civ., con conseguente invocabilità ex art. 872, secondo
comma, cod. civ. della riduzione in pristino, per
relationem alle distanze de facto preesistenti tra
edifici eventualmente anche non eccessivamente prossimi, le
quali ovviamente potranno consistere in una distanza in
senso stretto ove il costruttore sia stato proprietario di
un preesistente volume edilizio, mentre si tradurranno in un
divieto assoluto di edificazione, qualora invece non
sussistesse alcun preesistente volume.
4.7. La predetta interpretazione dell'art. 873 cod. civ. e
dell'art. 9, primo comma, del d.m. 1444 del 1968
-valorizzando quest'ultima disciplina che trae la sua forza
normativa dai commi ottavo e nono non abrogati dell'art.
41-quinquies l.urb.- supera anche le problematiche poste
dall'abrogazione richiamata del comma primo, in relazione
all'orientamento che precedentemente riteneva necessario,
per la disciplina delle distanze nelle zone A, il
riferimento all'art. 41-quinquies stesso, nel primo comma,
lett. c).
4.8. Infine l'indirizzo qui condiviso, in quanto recepisce
una comprensione delle finalità delle «limitazioni alla
proprietà privata, derivanti dall'obbligo di osservare le
distanze nelle costruzioni» non ristrette a quella
tradizionale di evitare intercapedini dannose o pericolose
tra le costruzioni stesse, ma «stabilite, al pari di
tutte le altre limitazioni, anche per fini di interesse
generale, che si ricollegano alla funzione sociale della
proprietà, alla quale il codice si riferisce in varie
disposizioni» (così Corte cost., 09.07.1959, n. 38), è
coerente anche con l'evoluzione giurisprudenziale
registratasi parallelamente in altro ambito parimenti
connotato da interrelazione tra interessi pubblici e
privati: anche in tema di norme per l'edilizia nelle zone
sismiche prescrittive di particolari modalità costruttive
degli edifici (giunti e altri opportuni accorgimenti idonei
a consentire la libera e indipendente oscillazione delle
costruzioni vicine), superando l'orientamento precedente che
alla violazione delle disposizioni in parola faceva seguire
il solo risarcimento del danno non riconoscendo le stesse
integrative dell'art. 873 cod. civ. in quanto non
specificamente delimitative della sfera delle proprietà
contigue, questa corte ha poi affermato, e ormai da epoca
risalente, che la realizzazione degli accorgimenti
costruttivi in parola «assolve a funzione analoga a
quella assolta dagli intervalli di isolamento», dovendo
quindi ammettersi l'esperimento anche di un'azione per la
riduzione in pristino (cfr. per l'innovazione, inizialmente,
Cass. n. 5024 del 07/05/1991 e n. 1654 del 21/02/1994,
nonché sez. U, n. 7396 del 28/07/1998, seppur adite per
questione di giurisdizione; più recentemente, tra le molte,
Cass. n. 9319 del 17/04/2009 e n. 23231 del 15/11/2016).
4.9. Ne deriva che la sentenza impugnata va cassata per
quanto di ragione come innanzi, onde il giudice di rinvio,
svolti gli opportuni accertamenti documentali relativi al
regime delle distanze applicabile, ove risulti un divieto di
nuove edificazioni, dovrà procedere a rinnovato esame della
fattispecie ritenendo le distanze pari a quelle individuate
dai volumi preesistenti all'entrata in vigore del divieto,
non derogabili dall'autonomia privata, applicando il
seguente principio di diritto: "in tema
di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma primo, del d.m.
02/04/1968, n. 1444 -traendo la sua forza cogente dai commi
8 e 9 dell'art. 41-quinquies l.urb. e prescrivendo, per la
zona A, per le operazioni di risanamento conservativo e per
le eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli
edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti
tra i volumi edificati preesistenti- è disciplina
integrativa dell'art. 873 cod. civ. immediatamente idonea a
incidere sui rapporti interprivatistici, per cui, sia in
caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con
la norma citata, sia con ancor maggior fondamento in caso di
mancanza di contrasto e quindi in presenza di disposizioni
di divieto assoluto di costruire, sussiste l'obbligo per il
giudice di merito -nel primo caso mediante
disapplicazione della disposizione illegittima, nel
secondo caso mediante diretta applicazione della norma
di divieto- di dare attuazione alla disposizione integrativa
dell'art. 873 cod. civ., ove il costruttore sia stato
proprietario di un preesistente volume edilizio, mediante
condanna all'arretramento di quanto successivamente
edificato oltre i limiti di tale volume o, qualora invece
non sussistesse alcun preesistente volume, mediante condanna
all'integrale eliminazione della nuova edificazione"
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 23.01.2018 n. 1616). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
E' rilevante e non manifestamente infondata la
questione, che si rimette alla Corte costituzionale, di
legittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis,
della l.r. della Lombardia n. 12/2005 che recita:
"1-bis.
Ai fini dell’adeguamento, ai
sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti
urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell’art.
17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo,
limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il
rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci
metri, derogabile all’interno di piani attuativi.".
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dal signor Ni.Ca., nato a Treviso il ... e
residente a Sondrio, per l’annullamento della deliberazione
del Consiglio comunale di Sondrio 28.11.2014 n. 81,
d’approvazione di variante del piano di governo del
territorio.
...
Premesso:
Il Comune di Sondrio, già dotato del piano di governo del
territorio approvato con deliberazione del Consiglio
comunale 06.06.2011 n. 40, con deliberazione della giunta
comunale del 29.09.2013 ha attivato un procedimento di
variante del medesimo piano, comunicandolo alla
cittadinanza. In merito sono state avanzate proposte da
parte di alcuni cittadini.
L’ente territoriale ha introdotto, inoltre, modifiche alle
norme tecniche d’attuazione, alcune delle quali su
suggerimento dell’ufficio tecnico comunale.
Fra le modifiche della normativa, in particolare, una
riguarda la disciplina delle distanze tra fabbricati “Distanza
minima tra edifici”, come dettata dall’art. 3 – “Definizioni
urbanistiche ed edilizie”, dell’elaborato “Definizioni
e disposizioni generali del Piano di Governo del Territorio".
Nella formulazione originaria, essa stabiliva che “Nelle
aree comprese in ambiti di trasformazione e nelle aree
comprese in ambiti del territorio consolidate {Piano delle
Regole) la distanza minima tra edifici deve essere pari
all’altezza dell'edificio più alto e comunque non inferiore
a m 10, fatta eccezione per gli edifici nelle aree comprese
in ambiti del territorio urbanizzato di antica formazione
per i quali la distanza minima tra edifici non può essere
inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati
preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni
aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico,
artistico o ambientale”.
A seguito della variante approvata, il testo della
disposizione è stato così riformulato: “Nelle
aree comprese in ambiti di trasformazione e in ambiti del
territorio consolidate {Piano delle Regole) la distanza
minima tra edifici deve essere non inferiore a m 10, fatta
eccezione per gli edifici compresi nei tessuti edificati di
antica formazione (Taf) per i quali la distanza minima tra
edifici non può essere inferiore a quella intercorrente tra
i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto
di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale. Limitatamente alle aree
comprese in ambiti di trasformazione, la distanza minima
deve inoltre essere pari o superiore all’altezza
dell’edificio più alto”.
Per effetto della variazione è stata
sottratta all’applicazione della disciplina più restrittiva
(quella che impone una distanza minima pari all’altezza
dell’edificio più alto), le aree di nuova edificazione
comprese all’interno di un ambito territoriale che, secondo
la disciplina dettata dalla legge regionale della Lombardia
11.05.2005 n. 12 viene definito “il tessuto urbano
consolidato”.
In particolare, la riformulata disposizione è riferita agli
ambiti territoriali previsti e disciplinati dagli articoli
18 e 19 delle norme di attuazione del piano delle regole.
Con l’art. 18 vengono definiti alcuni ambiti di espansione
edificatoria che, pur compresi nel perimetro territoriale
disegnato al fine d’individuare il cosiddetto “tessuto
urbano consolidato”, e definiti “tessuti di
completamento”, costituiscono vere e proprie aree di
espansione edificatoria, dato che ai sensi del comma 1 del
predetto art. 18 “Gli ambiti cosi classificati sono
rappresentati da parti prevalentemente non edificate,
intercluse all’interno del tessuto consolidate di fondovalle
o di versante o ai suoi margini.. La loro individuazione sul
territorio consente di affermare che si tratta di ambiti
privi di edificazione, da assoggettare per la prima volta a
processo urbanizzativo ed edificatorio.
Tale risulta la condizione dell’ambito n. 15, adiacente alla
proprietà del ricorrente, individuato dall'art. l9, quale
ambito assoggettato a piano attuativo obbligatorio. Tale
ambito conferma una previsione già presente nel previgente
piano regolatore generale approvato negli anni ‘90, laddove
era individuata come zona “RT n. 17”, assoggettata a
piano attuativo obbligatorio, coinvolgente il medesimo
ambito territoriale, assolutamente privo di edificazione e
destinato a nuovi insediamenti residenziali, ubicato ai
margini estremi dell'aggregato urbano edificato, lungo la
strada che introduce alla Valmalenco, caratterizzata da una
elevata acclività.
Il citato ambito, individuato nel piano generale del
territorio come ambito n. 15 nell’art. 19, conferma la
delimitazione dello stesso ambito territoriale individuato
nel precedente piano regolatore generale come “RT n. 17”,
mai coinvolto in precedenza in processi di urbanizzazione di
edificazione, atteso che è stata assoggettata in entrambi
gli strumenti urbanistici a piano attuativo, com’è
prescritto per tutte le zone che, secondo il decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444, devono essere qualificate
come zone di espansione.
L’Amministrazione, nella scelta di denominazioni e sigle
delle zone territoriali omogenee differenti da quelle
dettate nel D.M. n. 1444/1968 (prima RT ora ambito TAC), ad
avviso del ricorrente sarebbero state sottratte alla
disciplina che detto decreto ha fissato, specialmente per
quanto riguarda il regime delle distanze tra fabbricati, che
assumono valenza integrativa del codice civile,
asseritamente non derogabili dalle norme locali con
conseguente richiesta di disapplicazione delle disposizioni
di strumenti urbanistici che fissino una distanza tra
fabbricati inferiore a quella prevista nel citato DM.
Tutti gli ambiti “Tc” individuati dall’art. 19 del piano
generale del territorio sono assoggettati o a piano
urbanistico attuativo o a permesso di costruire
convenzionato obbligatorio, in considerazione proprio della
circostanza che si tratta di ambiti non edificati, da
assoggettare per la prima volta ad un processo di
urbanizzazione che richiede la preventiva pianificazione di
dettaglio, o almeno, ove si tratti di un ambito di più
limitata estensione, ad un permesso di costruire corredato
da una convenzione obbligatoria, mediante la quale garantire
gli stessi effetti del piano attuativo.
A conferma, il ricorrente richiama la circostanza che su 20
ambiti “Tc” individuati e disciplinati dall'art. 19 del
piano generale del territorio ben 11 sono soggetti al piano
attuativo obbligatorio. Fra essi vi è il n. 15, confinante
con la sua proprietà, sulla quale insiste un edificio a
destinazione residenziale (individuato in catasto al foglio
31, mappale 319, del Comune di Sondrio), a fronte del quale
è in corso di realizzazione un complesso residenziale avente
altezza largamente superiore a m 10, che non rispetterebbe
la distanza pari all’altezza dell’edificio più alto, come
prescritto per le zone omogenee C (parti del territorio
destinate a nuovi complessi insediativi che risultino
inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non
raggiunga i limiti di superficie e densità delle zone,
totalmente edificate) dall’art. 9, 1° comma, del DM n.
1444/1968.
Il ricorrente evidenzia, poi, che nelle stesse “Norme di
Attuazione del Piano delle Regole a1 Capo 2 (articoli 14,
15, 16, 17)” vengono disciplinate le altre porzioni del
tessuto urbano consolidato che presentano già una condizione
di parziale o compiuta edificazione, per i quali vengono
ammessi interventi diretti o perfino piani attuativi
all’interno dei quali viene consentita una distanza tra gli
edifici minore di quella minima di legge, evidentemente in
applicazione di quanto disposto dall’ultimo comma dell'art.
9 del DM 1444/1968.
Tale circostanza fa emergere la presenza, all’interno del
tessuto urbano consolidato, di ambiti territoriali molto
diversificati fra loro, alcuni dei quali aventi le
caratteristiche delle zone di completamento, altri quelle
delle zone di espansione.
2. Il ricorrente lamenta che la profonda diversità di
condizione oggettiva renda ingiustificata e illegittima la
sottrazione al più incisivo regime delle distanze tra
fabbricati fissato dall’art. 9 del DM n. 1444/1968 proprio
per le zone di nuova edificazione ed urbanizzazione.
Di conseguenza egli impugna la variante del piano generale
del territorio di Sondrio, segnatamente la parte mediante la
quale ha modificato la disposizione dell’art. 3 relativa
alla distanza tra fabbricati riducendo la misura della
distanza tra immobili fronteggianti alla sola misura di ml.
10,00 ed escludendo dall’applicazione della maggiore
distanza pari all’altezza dell’edificio più alto i nuovi
insediamenti previsti nelle cosiddette “zone TAC”, e
confermando tale disposizione solo per i nuovi insediamenti
in ambiti di trasformazione, senza tener conto del fatto
che, invece, per situazioni del genere doveva essere
mantenuta la formulazione originaria conforme a1 dispositivo
dell'art. 9 del DM n. 1444/1968, data l’identità di
condizioni oggettive di ambiti non edificati da
assoggettare, per la prima volta, ad un processo di nuova
urbanizzazione soggetto a preventiva approvazione di piano
attuativo.
A fondamento del ricorso il ricorrente deduce i seguenti
motivi di violazione di legge ed eccesso di potere.
1. Violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, in quanto è
stato espunto dall’ordinamento urbanistico locale l’obbligo
del rispetto della distanza minima pari all’edificio più
alto, in relazione ad interventi di nuova edificazione, in
asserite “Zone di espansione edificatoria aventi le
condizioni oggettive delle Zone C”.
2. Difetto di motivazione e contraddittorietà, perché
l’originaria formulazione del PGT in materia di distanze
dettava una disposizione univoca, in conformità alla
disciplina prevista dal richiamato art. 9 del D.M. n.
1444/1968, avente valenza vincolante in sede di
pianificazione. La decisione di modificare la norma generale
sarebbe quindi arbitraria, oltre che carente di adeguata
motivazione.
3. Difetto di motivazione, contraddittorietà, deviazione
dalla funzione. Il ricorrente sostiene che il 29.09.2013,
pur in presenza di un PGT approvato (deliberazione del
Consiglio comunale n. 40/2011), la giunta comunale ha
assunto la determinazione di avviare il procedimento di
revisione del PGT con l’esplicita affermazione di aggiornare
il piano senza alterarne l’impostazione complessiva
originaria e al solo fine di correggere errori materiali
riscontrati in fase applicativa. Quindi, la rilevante
modifica sul regime delle distanze contestata avrebbe il
carattere di norma elusiva di tassativi limiti di legge e
foriera di ulteriori situazioni di contrasto con il vigente
quadro giuridico di riferimento.
Considerato:
3. L’art. 2-bis del decreto del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001 n. 380 stabilisce che “…le regioni
e le province autonome di Trento e di Bolzano possono
prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni
derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici
02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli
spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli
produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al
verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o
revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un
assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali”.
La Regione Lombardia, con le modifiche introdotte alla legge
urbanistica regionale 11.05.2005 n. 12 con la legge
regionale 14.03.2008 n. 4, ha recepito tali indicazioni
stabilendo, ai fini dell’adeguamento degli strumenti
urbanistici, l’inapplicabilità del citato D.M. n. 1444/1968
fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova
costruzione, il rispetto della distanza minima di dieci
metri, derogabile all’interno dei piani attuativi.
L’art. 9 del D.M. 02.04.n. 1444/1968 dispone che “Le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue:
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di
edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del
fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una
sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si
fronteggino per uno sviluppo superiore a m 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano
interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con
esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di
singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere
alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- m 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
- m 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra m 7 e m 15;
- ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15”.
L’art. 1-bis della legge regione Lombardia 11.03.2005, n.
12, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), L.R.
14.03.2008, n. 4, prevede che “Ai fini dell'adeguamento,
ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti
urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del
decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444 (Limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i
fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, fatto
salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione,
il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a
dieci metri, derogabile all'interno di piani attuativi”.
Il successivo comma 1-ter dispone che “Ferme restando le
distanze minime di cui agli articoli 873 e 907 del codice
civile, fuori dai centri storici e dai nuclei di antica
formazione la distanza minima tra pareti finestrate, di cui
al comma 1-bis, è derogabile per lo stretto necessario alla
realizzazione di sistemi elevatori a pertinenza di
fabbricati esistenti che non assolvano al requisito di
accessibilità ai vari livelli di piano”.
4. In materia di distanza tra fabbricati,
per costante giurisprudenza
(da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3093;
08.05.2017 n. 2086; 29.02.2016 n. 856; Corte Cass. civ.,
sez. II, 14.11.2016 n. 23136), la
disposizione contenuta nell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve
sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile
poiché si tratta di norma imperativa la quale predetermina,
in via generale ed astratta, le distanze tra le costruzioni,
in considerazione delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e di sicurezza.
Tali distanze sono coerenti con il
perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile.
Occorre osservare, poi, che
la disposizione dell’art. 9, n.
2 del D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”,
intendendosi per tali gli edifici (o parti o sopraelevazioni
di essi: Consiglio di Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522)
“costruiti per la prima volta” e non già edifici
preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non
avrebbe senso prescrivere distanze diverse. Tale
affermazione trova riscontro in una pluralità di
considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che,
ai sensi dell’art.
41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, avente per oggetto “Disciplina
dell’attività urbanistica e suoi scopi” nella
formulazione in vigore dal 30.06.2003, i limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i
fabbricati nonché i rapporti massimi tra spazi destinati
agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici
o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi”, sono imposti ai fini della formazione di nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria
per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già
per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato
da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non
sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione
urbanistica).
Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso
art. 9 del D.M. n. 1444/1968 per le zone “A”, nel
contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede
che le distanze “non possono essere inferiori a quelle
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimine in tema di distanze (con
l’introduzione del limite inderogabile di 10 m), nella ‘ratio’
dell’indicato art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A
ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova
(ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione
di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della
disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza,
sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B
totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte,
a voler applicare il limite inderogabile di
distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un
altro preesistente si otterrebbe che, da un lato, l’immobile
considerato non potrebbe essere demolito e ricostruito, se
non “arretrando” rispetto all’allineamento
preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e
realizzandosi, quindi, un improprio “effetto
espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato,
esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di
cui all’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968,
allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un
solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno
strumento urbanistico attuativo con dettaglio piano
volumetrico.
Anzi,
la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9,
u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici
attuativi conferma quanto innanzi affermato e cioè che le
norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444/1968 si
riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non
già ad interventi specifici sull’esistente.
In conclusione, in tema di distanze fra
costruzioni, l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, “poiché
emanato su specifica delega contenuta nell'art. 41-quinquies
della legge urbanistica fondamentale 17.08.1942, n. 1150, ha
efficacia di legge dello Stato sicché le sue disposizioni in
tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza
tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni
dei regolamenti edilizi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica”
(Cass. civ. sez. II, 12.02.2016, n. 2848).
5. Le disposizioni legislative riguardanti
i titoli abilitativi per gli interventi edilizi sono state,
da tempo, ricondotte dalla Corte costituzionale nell’ambito
della normativa di principio in materia di governo del
territorio (Corte
costituzionale, sent. 23.11.2011, n. 309; 01.10.2003, n.
303).
In merito è stato chiarito che “sono
principi fondamentali della materia le disposizioni che
definiscono le categorie di interventi, perché è in
conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei
titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli
oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali.
L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è
costruito sulla definizione degli interventi, con
particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di
ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di
ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e
le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e
degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo,
manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria),
dall'altro.
La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi
spetta, dunque, allo Stato”.
Con specifico riferimento al riparto di competenze in tema
di distanze legali, la medesima Corte ha affermato che “la
disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra
nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene
alla competenza legislativa statale; alle Regioni è
consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime
stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la
deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra
gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento
civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il
governo del territorio− che ne detta anche le modalità di
esercizio"
(Corte costituzionale, sentenze 03.11.2016 n. 231;
23.01.2013 n. 6; 21.05.2014 n. 134; ordinanza 19.05.2011 n.
173).
Si è affermato di conseguenza che “nella
delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale
in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia
di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio è stato
rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, ritenuto più volte dotato di “efficacia precettiva e
inderogabile”
(Corte costituzionale, sent. 10.05.2012, n. 114; ordinanza
19.05.2011, n. 173).
Con rifermento ad eventuali deroghe, la
Corte ha ritenuto che tale disposto ammette distanze
inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale “nel
caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
In definitiva, le deroghe all’ordinamento
civile delle distanze tra edifici sono consentite se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio.
Le richiamate conclusioni sono state ribadite anche a
seguito dell’emanazione dell’art. 30, comma 1, 0a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98 − e
dell’art. 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380 del 2001.
Ad avviso del giudice costituzionale,
invero, la disposizione ha recepito l’orientamento della
Corte “inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi
fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le
province autonome, delle distanze legali stabilite dal D.M.
n. 1444/1968 e dell'ammissibilità di deroghe solo a
condizione che esse siano inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio”
(sentenze 20.07.2016 n. 175 e 21.09.2016 n. 178).
6. L’art. 103, comma 1-bis, della legge
della Regione Lombardia n. 12/2005, non affidando
l’operatività dei suoi precetti a “strumenti urbanistici”
e non essendo funzionale ad un “assetto complessivo ed
unitario di determinate zone del territorio”, riferisce
la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento,
quindi anche su singoli edifici, con la conseguenza che essa
risulta assunta al di fuori dell’ambito della competenza
regionale concorrente in materia di “governo del
territorio”, in violazione del limite “dell’ordinamento
civile” assegnato alla competenza legislativa esclusiva
dello Stato.
Sotto i delineati profili la Sezione è
dell’avviso che la questione di legittimità costituzionale
di cui al comma 1-bis dell’articolo 103 della legge
regionale della Lombardia 2005 n. 12, (comma aggiunto
dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), della legge regionale
Lombardia 14.03.2008, n. 4), non sia manifestamente
infondata.
Non può dubitarsi, poi, della sua rilevanza atteso che, come
emerge dall’esposizione fin qui svolta, la sua applicazione
è decisiva ai fini della decisione della controversia in
esame.
Dev’essere disposta, conseguentemente, la rimessione degli
atti alla Corte costituzionale per la decisione della
predetta questione di legittimità costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede consultiva (Sezione prima),
visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 della legge
costituzionale 09.02.1948 n. 1, 23 della legge 11.03.1953,
n. 87 e l’art. 1, delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale 07.10.2008:
a) dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione, che rimette alla Corte
costituzionale, di legittimità costituzionale dell’articolo
103, comma 1-bis, della legge regionale della Lombardia n.
12/2005, nei sensi indicati in motivazione;
b) dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale e sospende il presente procedimento (Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 22.01.2018 n. 199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'applicazione delle norme sulle
distanze dettate dall'art. 873 del codice civile e seguenti
o dalle diposizioni regolamentari integrative del codice
civile, per "costruzione" deve intendersi qualsiasi opera
non completamente interrata avente i caratteri della
solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo,
indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata e,
segnatamente, dall'impiego di malta cementizia.
---------------
Sempre in tema di distanze legali, mentre il muro di
contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non
può considerarsi "costruzione" agli effetti della disciplina
di cui all'art. 873 c.c., per la parte che adempie alla sua
specifica funzione”, devono invece ritenersi soggetti a tale
norma, “perchè costruzioni nel senso sopra specificato, il
terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad
opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per
accentuare il naturale dislivello esistente.
A tale indirizzo, cui va assicurata continuità, deve solo
aggiungersi, per evitare fraintendimenti, una precisazione
di carattere terminologico sulle espressioni di "terrapieno
naturale" e di "terrapieno artificiale" o antropico.
La prima, infatti, consiste in un ossimoro, poiché ogni
terrapieno, consistendo in un riporto di terra (contro un
muro o) sostenuto da un muro è per definizione opera
dell'uomo, e dunque artificiale, mentre naturale può essere
soltanto il dislivello del terreno, originario ovvero
prodotto o accentuato da movimenti franosi o da altre cause
non immediatamente riferibili all'attività dell'uomo.
Dunque, a termini dell'art. 873 c.c., i muri di sostegno di
terrapieni sono costruzioni.
---------------
Quanto all’abuso in questione, nell’istanza di permesso di
costruire in sanatoria si è prefigurata la realizzazione di
una “cantina in luogo di terrapieno esistente (…) annessa
tramite disimpegno all'appartamento”, consistente –come
rilevato nel sopralluogo dei tecnici comunali del
07.11.2006– in un “locale in muratura intonacata con
tetto piano, realizzato in adiacenza ad edificio esistente”.
Orbene, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è del
tutto costante “nel ritenere che ai fini
dell'applicazione delle norme sulle distanze dettate
dall'art. 873 del codice civile e seguenti o dalle
diposizioni regolamentari integrative del codice civile, per
"costruzione" deve intendersi qualsiasi opera non
completamente interrata avente i caratteri della solidità ed
immobilizzazione rispetto al suolo (cfr. ex pluribus, Cass.
nn. 5753/2014, 23189/2012, 15972/2011, 22127/2009,
25837/2008, S.U. 7067/1992 e 3199/2002), indipendentemente
dalla tecnica costruttiva adoperata e, segnatamente,
dall'impiego di malta cementizia (Cass. n. 4196/1987).
Ed è altrettanto costantemente affermato, in tema di
distanze legali, che mentre il muro di contenimento di una
scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi
"costruzione" agli effetti della disciplina di cui all'art.
873 c.c., per la parte che adempie alla sua specifica
funzione”, devono invece ritenersi soggetti a tale norma,
“perchè costruzioni nel senso sopra specificato, il
terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad
opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per
accentuare il naturale dislivello esistente (cfr. Cass. nn.
1217/2010, 145/2006, 8144/2001, 4511/1997, 7594/1995 e
1467/1994).
A tale indirizzo, cui va assicurata continuità, deve solo
aggiungersi, per evitare fraintendimenti, una precisazione
di carattere terminologico sulle espressioni di "terrapieno
naturale" e di "terrapieno artificiale" o antropico. La
prima, infatti, consiste in un ossimoro, poiché ogni
terrapieno, consistendo in un riporto di terra (contro un
muro o) sostenuto da un muro è per definizione opera
dell'uomo, e dunque artificiale, mentre naturale può essere
soltanto il dislivello del terreno, originario ovvero
prodotto o accentuato da movimenti franosi o da altre cause
non immediatamente riferibili all'attività dell'uomo.
Dunque, a termini dell'art. 873 c.c., i muri di sostegno di
terrapieni sono costruzioni” (cfr. Corte di Cassazione,
16.03.2015, n. 5163) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2018 n. 180 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale
in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in
materia di «governo del territorio», come identificato dalla
Corte costituzionale, trova una sintesi normativa
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che
la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di
«efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio
giurisprudenziale consolidato».
Quest’ultima disposizione consente che siano fissate
distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa
statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche».
Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici
sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio.
---------------
È, però, noto che ad avviso del Giudice delle Leggi “il
punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in
materia di «ordinamento civile» e quella regionale in
materia di «governo del territorio», come identificato dalla
Corte costituzionale, trova una sintesi normativa
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che
la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di
«efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio
giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012;
ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005).
Quest’ultima disposizione consente che siano fissate
distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa
statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe
all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono,
dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio”
(cfr. Corte Costituzionale, 23.01.2013, n. 6) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2018 n. 180 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo un principio generale di diritto, le
norme dei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze
tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non
solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive tra
edifici frontistanti, ma anche a tutelare l'assetto
urbanistico di una data zona e la densità edificatoria in
relazione all'ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali
norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che
le costruzioni si fronteggino e dall'esistenza di un
dislivello tra i fondi su cui esse insistono.
---------------
In tema di distanze legali fra edifici, rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle
distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente
ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole,
le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e
simili), mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili
ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi
particolari proporzioni, come i balconi, costituite da
solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza.
---------------
Agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di
costruzione, stabilita dalla legge statale, deve essere
unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine
del computo delle distanze, dalla normativa secondaria,
giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art.
873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per regolamenti
locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal
confine) rispetto a quella codicistica.
---------------
In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai
sensi dell'articolo 873 c.c. con riferimento alla
determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone,
estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce
corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968
-applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge
urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n.
765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra
pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento
edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della
distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del
balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo
della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare
una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando
il distacco voluto dalla cd. legge ponte.
---------------
5. Questi tre motivi, ben suscettibili di esame unitario per il comune
riferimento ad errori di diritto nel calcolo delle distanze
legali, sono
fondati.
Secondo un principio generale di diritto -che il Collegio
intende
oggi ribadire- le norme dei regolamenti edilizi che
stabiliscono le distanze
tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non
solo ad evitare la
formazione di intercapedini nocive tra edifici frontistanti,
ma anche a
tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità
edificatoria in
relazione all'ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali
norme, rileva la
distanza in sé, a prescindere dal fatto che le costruzioni
si fronteggino e
dall'esistenza di un dislivello tra i fondi su cui esse
insistono (v. tra le
varie, Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 3854 del 18/02/2014 Rv.
629629; Sez. 2,
Sentenza n. 24013 del 24/09/2008 Rv. 605174; Sez. 2,
Sentenza n.
19350 del 04/10/2005 Rv. 584412).
Sempre per giurisprudenza costante, in tema di distanze
legali fra
edifici, rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle
distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente
ornamentale,
di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i
cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili), mentre costituiscono
corpi di fabbrica,
computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici
aventi particolari
proporzioni, come i balconi, costituite da solette
aggettanti anche se
scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (Sez. 2,
Sentenza n.
18282 del 19/09/2016 Rv. 641075; Sez. 2, Sentenza n. 17242
del
22/07/2010 Rv. 614192; Sez. 2, Sentenza n. 12964 del
31/05/2006 (Rv.
593831).
Si è poi precisato che, agli effetti di cui all'art. 873
cod. civ., la
nozione di costruzione, stabilita dalla legge statale, deve
essere unica e
non può essere derogata, sia pure al limitato fine del
computo delle
distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio
contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è
limitato alla sola facoltà per
regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra
edifici o dal
confine) rispetto a quella codicistica (v. Sez. 2, Sentenza
n. 1556 del
26/01/2005 Rv. 578604; Sez. 2, Sentenza n. 12964 del
31/05/2006 Rv. 593831 in motivazione.
E' stato altresì affermato da questa Corte che in tema di
distanze
tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo
873 c.c. con
riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché
il balcone,
estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce
corpo di
fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla
fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150
del 1942, come
modificata dalla legge n. 765 del 1967- stabilisce la
distanza minima di
mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un
regolamento edilizio
che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra
edifici che non
tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in
quanto,
sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del
balcone, viene a
determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt.
dieci, violando il
distacco voluto dalla cd. legge ponte (v. Sez. 2, Sentenza
n. 5594 del
22/03/2016 Rv. 639403; Sez. 2, Sentenza n. 17089 del
27/07/2006 Rv.
593396; v. anche Sez. 2, Sentenza n. 17242 del 22/07/2010 Rv.
614192
in motivazione) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 19.01.2018 n. 1365). |
EDILIZIA PRIVATA:
La questione giuridica concernente la corretta
individuazione della disciplina in tema di distanze per
edifici collocati nella zona A) solo di recente ha trovato
una soluzione che sembra consolidata ed alla quale si
ritiene dover assicurare continuità.
Reputa il Collegio che debba darsi continuità a quanto di
recente affermato da Cass. n. 14552/2016 e da Cass. n.
15458/2016, che hanno appunto ribadito che per gli edifici
in
zona omogenea A, debba in ogni caso rispettarsi il limite
delle
distanze intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
Ed, infatti, una volta ricordato che il DM n. 1444/1968 nel
definire le "zone territoriali omogenee" e gli standards
urbanistici ai quali i Comuni devono attenersi in sede di
approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, pone
dei
parametri "minimi", che gli strumenti urbanistici comunali
emanati successivamente all'entrata in vigore del detto
decreto
ministeriale (17.04.1968) sono tenuti ad osservare, ma
che
gli enti locali possono derogare con la previsione di
parametri più rigorosi, è palese l'illegittimità dello strumento
urbanistico
che non osservi i parametri minimi in questione.
In tale prospettiva, poiché il D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato
emanato su delega del L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quínquies (c.d. legge urbanistica), ha efficacia di legge
dello
Stato, le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di
densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali
si sostituiscono per inserzione automatica.
Ciò comporta altresì che poiché la disciplina sulle distanze
dettata da uno strumento urbanistico comunale deve osservare
le prescrizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9,
comma 1,
che detta le distanze "minime" tra fabbricati per ciascuna
zona
territoriale omogenea, le medesime -una volta recepite
dallo
strumento urbanistico o inserite automaticamente nello
stesso- hanno efficacia precettiva, in quanto norma integrativa
dell'art. 873 cod. civ., anche nei rapporti tra privati.
E' pur vero che le Sezioni Unite hanno affermato il
principio
secondo cui il D.M. 02.04.1968, nell'imporre all'art. 9
determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o
revisione
di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei
rapporti tra i privati,
ma è altrettanto vero che poiché il DM in esame è rivolto agli enti comunali, che
devono
farne applicazione nella redazione dei loro strumenti
urbanistici, una volta che l'ente locale abbia adottato lo
strumento urbanistico e qualora quest'ultimo contenga
disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che violino i
parametri minimi stabiliti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444,
art.
9, il giudice di merito è tenuto a disapplicare le
disposizioni del
regolamento comunale illegittime e ad applicare
direttamente,
anche nei rapporti tra privati, la disposizione del detto
art. 9, la
quale diviene, per inserzione automatica, parte integrante
dello
strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima.
In tal senso deve poi altresì precisarsi che
l'inserzione
automatica della disciplina delle distanze dettata dall'art.
9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 nello strumento urbanistico
comunale opera non solo quando lo strumento urbanistico
stesso, individuando le zone territoriali omogenee, violi le
distanze minime prescritte dallo stesso art. 9 per ciascuna
zona
territoriale, prevedendo una distanza inferiore a quella
minima
prescritta, ma anche quando lo strumento urbanistico, dopo
aver individuato le zone territoriali omogenee, nulla
preveda
sulle distanze legali relativamente ad esse (o ad una di
esse).
Per l'effetto se lo strumento urbanistico locale recepisca
le
prescrizioni in materia di distanze tra costruzioni dettate
dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 ovvero stabilisca
distanze più rigorose, si applicheranno le norme del
regolamento comunale, ma se non osservi le prescrizioni del
detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero in
quanto non prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati,
si
determinerà l'inserzione automatica delle prescrizioni
dell'art. 9 nello strumento urbanistico, divenendo così tali
prescrizioni -a
mezzo dello strumento urbanistico del quale entrano a far
parte- immediatamente applicabili anche ai rapporti tra
privati.
In termini analoghi si è poi pronunziata anche Cass. n.
14552/2016, che ribadendo che nelle zone A, nelle quali sono
consentiti esclusivamente interventi di risanamento
conservativo senza incremento delle densità edilizia di
zona e
territoriale preesistenti, è stato in sostanza imposto un
vincolo
conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del
territorio - non temporaneo e, come tale, non caducabile.
Ciò comporta che il vincolo d'inedificabilità assoluta,
impedisce
in radice che possano trovare applicazione i criteri
stabiliti
dall'art. 873 c.c., nonché quelli di cui alla L. n. 765 del
1967,
art. 17, comma 1.
---------------
3. Il secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione
del DM n. 1444 del 1968 in correlazione con l'art. 873 c.c.
e
con le previsioni dello strumento urbanistico del Comune di
Bagnara Calabra.
A tal riguardo la sentenza gravata ha infatti rilevato che
mancava una previsione regolamentare che fissasse una
distanza minima dal confine pari a metri 7, e che comunque
non potevano invocarsi le previsioni di cui al DM n. 1444
del
1968, in quanto nella fattispecie si controverteva in
materia di
fabbricati ubicati in zona A, per la quale la norma de qua
prevede solo la possibilità di interventi di
ristrutturazione e
manutenzione conservativa, aggiungendo che le distanze
legali
non possono essere inferiore a quelle intercorrenti tra i
volumi
preesistenti.
Ha quindi concluso affermando che non ricavandosi da tale
disposizione alcuna distanza specifica, ed in assenza di una
diversa previsione regolamentare, non poteva che farsi
applicazione dell'art. 873 c.c. (nemmeno potendosi fare
richiamo alla distanza di 10 metri tra pareti finestrate di
cui
all'art. 9, co. 1, n. 2, del citato DM, che si applica invece
alle
costruzioni nuove in zone diverse da quella A), norma
rispetto
alla quale andava esclusa la ricorrenza di una costruzione a
distanza inferiore a quella di legge.
Assume il ricorrente che tale interpretazione delle norme
sia
errata, in quanto, attesa l'inclusione della costruzione
oggetto
di causa nella zona A del Comune di Bagnara Calabra, la
citata
previsione in tema di limiti all'edificazione di nuove
costruzioni
ed alla necessità di dover rispettare le distanze tra volumi
edificati preesistenti, non consentiva di fare applicazione
della
previsione codicistica di cui all'art. 873 c.c.
Peraltro, la maggiore altezza del fabbricato della convenuta
esclude che possa parlarsi di mera ristrutturazione del
fabbricato preesistente, ma impone di ritenere realizzata
una
nuova costruzione.
Il motivo è fondato.
Rileva il Collegio che la questione giuridica concernente la
corretta individuazione della disciplina in tema di distanze
per
edifici collocati nella zona A) è stata oggetto di soluzioni
diversificate nel tempo, e senza che fosse possibile
individuare
un quadro diacronico degli interventi, e ciò anche in
relazione
agli orientamenti del giudice amministrativo, e che solo di
recente ha trovato una soluzione che sembra consolidata ed
alla quale si ritiene dover assicurare continuità.
Secondo una prima tesi la fattispecie andrebbe disciplinata
facendo applicazione della norma di carattere generale di
cui
all'art. 873 c.c., in quanto (cfr. Cass. n. 7804/1991) il
regolamento edilizio, ancorché non contenga una specifica
disciplina delle distanze tra fabbricati, comporta
l'inapplicabilità
delle limitazioni poste in materia di distanze ed altezze
negli edifici dall'art. 41-quinquies, primo comma, lett.
c), della
legge 17.08.1942 n. 1150, come introdotto dall'art. 17
della legge 06.08.1967 n. 765, dovendosi intendere in tal
caso adottata dal regolamento la distanza stabilita
dall'art. 873
cod. civ. ( si veda anche Cass. n. 12376/1992).
Solo in apparenza sembra aderire a tale soluzione anche
Cass.
n. 12767/2008, laddove afferma che l'art. 9, primo comma, n.
2), del d.m. 02.04.1968, n. 1444 -emanato in forza
dell'art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto
dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765- in base al
quale
la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non
deve
essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove
edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico
(zona
A), posto che in questo ultimo, dove vige il generale
divieto di
costruzioni "ex novo", la norma si limita a prescrivere che
la
distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i
volumi
edificati preesistenti, atteso che la stessa si limita a ben
vedere
solo ad escludere l'applicazione del DM 1444 (così anche
Cass.
n. 879/1999).
Condurrebbe invece all'applicazione dell'art. 873 c.c.
quanto
affermato da Cass. n. 4754/1995, secondo cui la mancanza in
uno strumento urbanistico, di prescrizioni sulle distanze
per
una determinata zona del territorio, a causa della scelta
del
legislatore locale di vietare in tale zona qualsiasi
attività
costruttiva, lungi dal creare lacune nella regolamentazione
dei
rapporti di vicinato, fa si che resti applicabile ad esso la
disciplina dettata dagli art. 873 e ss. cod. civ., con la
conseguenza che, in caso di violazione del divieto di
costruire,
il privato proprietario che ne abbia subito danno ha
diritto, ai
sensi dell'art. 872 cod. civ., di esserne risarcito ma non
può
pretendere la riduzione in pristino, ove non risulti
contemporaneamente trasgredito l'obbligo di rispettare le
distanze previste dalle norme codicistiche (si veda sempre
in
relazione ad un caso di costruzione realizzata in zona
successivamente assoggettata a vincolo assoluto di
inedificabilità, Cass. n. 3638/2007).
A tale orientamento si è poi contrapposta la tesi, fatta
propria
in prevalenza dalla giurisprudenza amministrativa, secondo
cui
dovrebbe trovare applicazione la previsione in tema di
distacco
tra pareti finestrate di cui all'art. 9 del DM n. 1444 del
1968.
In tal senso Consiglio di Stato, sez. V, 23/05/2000, n. 2983
ha
affermato che in materia di distanze tra nuove costruzioni,
quando il regolamento edilizio comunale presenta una lacuna
normativa, la disciplina applicabile è quella contenuta
nell'art.
41-quinquies della l. n. 1150 del 1942 che richiama l'art. 9
d.m. 02.04.1968 n. 1444, ed ha natura di norma
integrativa
dell'art. 873 c.c. (in termini e proprio con specifico
riferimento
ad edifici collocati in cd. Zona A, Consiglio di Stato sez.
V 19.03.1999 n. 280).
A tale soluzione si contrappone poi l'ulteriore tesi che
reputa
applicabili le misure di salvaguardia di cui alla legge n.
765 del
1967.
In tal senso si veda Cass. n. 20713/2013, a mente della
quale,
la norma contenuta nell'art. 41-quinquies, lett. c), della
legge
17.08.1942, n. 1150, introdotto dall'art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765, secondo la quale, nelle nuove
edificazioni
a scopo residenziale, "la distanza dagli edifici vicini non
può
essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio
da
costruire", va osservata non solo nei casi in cui i Comuni
siano
sprovvisti di strumento urbanistico, ma anche quando negli
stessi o nei regolamenti edilizi manchino norme specifiche
che
provvedano direttamente in materia di distanze Solo in
apparenza sembra porsi in tale ottica Cass. n. 26123/2015,
la cui massima recita:
"Qualora lo strumento
urbanistico vieti ogni attività costruttiva in una
determinata
zona e per essa non dia quindi alcuna prescrizione sulle
distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono
disciplinati dall'art. 873 c.c., ma dall'art. 41-quinquies
della l.
n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della l. n. 765
del
1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo
residenziale, "la distanza dagli edifici vicini non può
essere
inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da
costruire",
occorrendo però specificare come peraltro chiarito da questa
stessa Corte, che si tratta di fattispecie nella quale il
vincolo di inedificabilità assoluta dipendeva dall'osservanza della
fascia di
rispetto delle aree cimiteriali prevista dall'art. 338 T.U.
leggi
sanitarie 27.07.1934 n. 1265 (e non dall'esercizio di
discrezionalità amministrativa da parte dell'ente comunale),
non vale tuttavia quando -come nella specie- il vincolo di
inedificabilità assoluta è previsto dallo strumento
urbanistico
comunale in relazione al particolare carattere storico e di
pregio ambientale della zona territoriale individuata".
Infine è stata sostenuta la tesi secondo cui i limiti
all'attività
edilizia prescritti per gli immobili collocati nella zona A
impongono che debbano in ogni caso essere rispettate le
distanze preesistenti tra fabbricati.
In tal senso si veda Cass. n. 1282/2006, che ha appunto
affermato che la disciplina del regolamento edilizio del
Comune
di Somma Vesuviana la quale aveva recepito il d.m. 02/04/1968
che all'art. 9 prescrive per la zona A, in relazione alle
operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali
ristrutturazioni, che le distanze fra gli edifici non
possono
essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
preesistenti, poiché nella zona A sono consentite soltanto
operazioni di
risanamento conservativo e di manutenzione ordinaria, mentre
sostituzioni edilizie e nuove costruzioni potranno essere
ammesse soltanto dopo l'approvazione di un piano
particolareggiato esecutivo (nella specie insussistente) -
introduce un divieto assoluto "medio tempore" sotto il
profilo
urbanistico di realizzazione di interventi edilizi nella
zona senza
prevedere alcuna deroga alla disciplina in materia di
distanze
tra fabbricati di cui all'art. 9 del citato d.m., tenuto
conto che
l'eventuale deroga sarebbe, comunque, illegittima e
suscettibile di disapplicazione da parte del giudice,
giacché in
caso di adozione dello strumento urbanistico tali norme, per
inserzione automatica nello stesso, sono immediatamente
operanti nei rapporti fra privati.
Pertanto, la disposizione
di cui
al citato art. 2 non può essere interpretata nel senso che,
in
assenza dell'approvazione del piano particolareggiato
esecutivo, trovi applicazione la disciplina dettata
dall'art. 873
cod. civ. anziché quella prevista dal citato art. 9.
Tale principio è stato poi ribadito anche da Cass. S.U. n.
20354/2013 (non massimata), nella cui motivazione si legge
che nelle zone A, per le operazioni di risanamento
conservativo
e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli
edifici non
possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti.
Reputa il Collegio che tale ultima soluzione sia in assoluto
da
preferire, e che pertanto debba darsi continuità a quanto di
recente affermato da Cass. n. 14552/2016 e da Cass. n.
15458/2016, che hanno appunto ribadito che per gli edifici
in
zona omogenea A, debba in ogni caso rispettarsi il limite
delle
distanze intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
Ed, infatti, una volta ricordato che il DM n. 1444/1968 nel
definire le "zone territoriali omogenee" e gli standards
urbanistici ai quali i Comuni devono attenersi in sede di
approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, pone
dei
parametri "minimi", che gli strumenti urbanistici comunali
emanati successivamente all'entrata in vigore del detto
decreto
ministeriale (17.04.1968) sono tenuti ad osservare, ma
che
gli enti locali possono derogare con la previsione di
parametri più rigorosi, è palese l'illegittimità dello strumento
urbanistico
che non osservi i parametri minimi in questione.
In tale prospettiva, come ribadito dalle Sezioni unite di
questa
Corte, poiché il D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato
emanato su delega del L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quínquies (c.d. legge urbanistica), ha efficacia di legge
dello
Stato, le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di
densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali
si sostituiscono per inserzione automatica (Cass. Sez. U, n.
14953 del 07/07/2011, Rv. 617949).
Ciò comporta altresì che poiché la disciplina sulle distanze
dettata da uno strumento urbanistico comunale deve osservare
le prescrizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9,
comma 1,
che detta le distanze "minime" tra fabbricati per ciascuna
zona
territoriale omogenea, le medesime -una volta recepite
dallo
strumento urbanistico o inserite automaticamente nello
stesso- hanno efficacia precettiva, in quanto norma integrativa
dell'art. 873 cod. civ., anche nei rapporti tra privati.
E' pur vero che le Sezioni Unite hanno affermato il
principio
secondo cui il D.M. 02.04.1968, nell'imporre all'art. 9
determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o
revisione
di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei
rapporti tra i privati (cfr.,
ex plurirnis, Sez. U, Sentenza
n.
5889 del 01/07/1997, Rv. 505623), ma è altrettanto vero che poiché il DM in esame
è rivolto agli enti comunali, che
devono
farne applicazione nella redazione dei loro strumenti
urbanistici, una volta che l'ente locale abbia adottato lo
strumento urbanistico e qualora quest'ultimo contenga
disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che violino i
parametri minimi stabiliti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444,
art.
9, il giudice di merito è tenuto a disapplicare le
disposizioni del
regolamento comunale illegittime e ad applicare
direttamente,
anche nei rapporti tra privati, la disposizione del detto
art. 9, la
quale diviene, per inserzione automatica, parte integrante
dello
strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima.
In tal senso deve poi altresì precisarsi che
l'inserzione
automatica della disciplina delle distanze dettata dall'art.
9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 nello strumento urbanistico
comunale opera non solo quando lo strumento urbanistico
stesso, individuando le zone territoriali omogenee, violi le
distanze minime prescritte dallo stesso art. 9 per ciascuna
zona
territoriale, prevedendo una distanza inferiore a quella
minima
prescritta, ma anche quando lo strumento urbanistico, dopo
aver individuato le zone territoriali omogenee, nulla
preveda
sulle distanze legali relativamente ad esse (o ad una di
esse).
Per l'effetto se lo strumento urbanistico locale recepisca
le
prescrizioni in materia di distanze tra costruzioni dettate
dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 ovvero stabilisca
distanze più rigorose, si applicheranno le norme del
regolamento comunale, ma se non osservi le prescrizioni del
detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero in
quanto non prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati,
si
determinerà l'inserzione automatica delle prescrizioni
dell'art. 9 nello strumento urbanistico, divenendo così tali
prescrizioni -a
mezzo dello strumento urbanistico del quale entrano a far
parte- immediatamente applicabili anche ai rapporti tra
privati.
In termini analoghi si è poi pronunziata anche Cass. n.
14552/2016, che ribadendo che nelle zone A, nelle quali sono
consentiti esclusivamente interventi di risanamento
conservativo senza incremento delle densità edilizia di
zona e
territoriale preesistenti, è stato in sostanza imposto un
vincolo
conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del
territorio - non temporaneo e, come tale, non caducabile.
Ciò comporta che il vincolo d'inedificabilità assoluta,
impedisce
in radice che possano trovare applicazione i criteri
stabiliti
dall'art. 873 c.c., nonché quelli di cui alla L. n. 765 del
1967,
art. 17, comma 1 (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 19.01.2018 n. 1360). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lo strumento della cessione di cubatura (o
asservimento), quale espressione dell’autonomia negoziale
delle parti, è limitabile dalla Pubblica amministrazione
solo espressamente ed a chiare e specifiche condizioni (che,
nella fattispecie, si rinvengono nel disposto dell’art. 13
del regolamento edilizio, secondo cui nei singoli lotti non
è in ogni caso possibile superare l’indice territoriale di
0,70 mc/mq).
---------------
Le distanze tra pareti di edifici ex art. 9, comma 1, D.M.
1444/1968 valgono non solo per le finestre, ma anche per le
luci e trovano applicazione anche quando solo una delle
pareti antistanti risulta finestrata e non entrambe.
Inoltre, essendo finalizzate a stabilire un’idonea
intercapedine tra edifici nell’interesse pubblico, e non a
salvaguardare l’interesse privato del frontista alla
riservatezza, la circostanza che si tratti di corpi di uno
stesso edificio, ovvero di edifici distinti, non può
dispiegare alcun effetto distintivo.
---------------
La distanza degli edifici dal limite della strada, che va
misurata dal profilo estremo degli sporti al ciglio della
via, deve tenere conto del marciapiede, il quale fa parte
della strada, quale tratto di essa situato fuori dalla
carreggiata e normalmente destinato alla circolazione dei
pedoni, ai sensi dell’art. 2, comma 1, del codice stradale.
---------------
La ditta ricorrente impugna, per violazione di legge ed
eccesso di potere, il diniego di permesso di costruire,
opposto dal Comune di Tortora, in relazione alla
realizzazione di un immobile in contrada Riviera.
I motivi di diniego riguardano:
- l’impossibilità di accedere alla cessione della cubatura
mancante, in applicazione dell’art. 13 del regolamento
edilizio, secondo cui nei singoli lotti non è in ogni caso
possibile superare l’indice territoriale di 0,70 mc/mq;
- il mancato rispetto della distanza minima di m. 10 tra pareti
finestrate di edifici;
- il mancato rispetto della distanza minima di m. 5 dal ciglio
stradale.
In proposito, sostiene la società ricorrente: che non sono
consentiti, da parte dell’autorità comunale, limiti ad un
istituto civilistico, qual è la cessione di cubatura; che la
distanza minima di m. 10 tra pareti finestrate di edifici
non opera per le luci e quando solo una delle pareti
antistanti risulta finestrata; che, nel computo della
distanza minima di m. 5 dal ciglio stradale, non si deve
tenere conto del marciapiede.
Resiste il Comune di Tortora.
Il ricorso è infondato e va respinto.
I rilievi della P.A. sono infatti da ritenere tutti
legittimi, posto che:
a) lo strumento della cessione di cubatura (o asservimento), quale
espressione dell’autonomia negoziale delle parti, è
limitabile dalla Pubblica amministrazione solo espressamente
ed a chiare e specifiche condizioni (cfr. TAR Campania,
Salerno, Sez. I, 27.10.2015 n. 2260) che, nella fattispecie,
si rinvengono nel disposto dell’art. 13 del regolamento
edilizio, secondo cui nei singoli lotti non è in ogni caso
possibile superare l’indice territoriale di 0,70 mc/mq;
b) le distanze tra pareti di edifici ex art. 9, comma 1, D.M.
1444/1968 valgono non solo per le finestre, ma anche per le
luci (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 18.06.2009 n. 4015; TAR
Piemonte, Sez. I, 02.12.2010 n. 4374) e trovano applicazione
anche quando solo una delle pareti antistanti risulta
finestrata e non entrambe (cfr. TAR Veneto, Sez. II,
16.03.2010 n. 823). Inoltre, essendo finalizzate a stabilire
un’idonea intercapedine tra edifici nell’interesse pubblico,
e non a salvaguardare l’interesse privato del frontista alla
riservatezza (cfr. Cass. civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108),
la circostanza che si tratti di corpi di uno stesso
edificio, ovvero di edifici distinti, non può dispiegare
alcun effetto distintivo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
05.12.2005 n. 6909 e TAR Lombardia, Brescia, Sez. I,
08.07.2010 n. 2461);
c) la distanza degli edifici dal limite della strada, che va
misurata dal profilo estremo degli sporti al ciglio della
via (cfr. Cass. civ., Sez. II, 03.08.1984 n. 4624), deve
tenere conto del marciapiede, il quale fa parte della
strada, quale tratto di essa situato fuori dalla carreggiata
e normalmente destinato alla circolazione dei pedoni, ai
sensi dell’art. 2, comma 1, del codice stradale (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 17.01.2018 n. 138 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
pacifica giurisprudenza di legittimità, in tema di distanze tra
costruzioni, l'art. 873 cod. civ. (e quindi anche le eventuali e
più rigorose previsioni degli strumenti urbanistici locali) trova
applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la
costruzione edificata nell'area meno elevata non raggiunga il
livello di quella superiore, in quanto la necessità del rispetto
delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del
formarsi d'intercapedini dannose.
Invero, la distanza minima assoluta di
dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti va
rispettata anche nel caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato
rispetto di essa sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a
quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste
conforme alle previsioni dell'art. 907, comma terzo, cod. civ. e così pure
dal confine.
---------------
4. Il terzo motivo di ricorso denunzia la violazione e
falsa
applicazione dell'art. 9, punto 1, co. 4, della NTA del PRG del
Comune di Roma, laddove la sentenza ha reputato applicabile
la distanza di metri 10 tra pareti finestrate.
Si sostiene che tale norma che richiama quanto previsto
dall'art. 9 del DM n. 1444/1968, come peraltro riferito anche
dal CTU, non può essere applicata nel caso di specie in quanto
si tratterebbe di costruzioni non realizzate su fondi confinanti.
Inoltre l'appartamento degli attori ha una quota di calpestio del
terrazzo molto più elevata di quella della copertura del corpo di
fabbrica adibito a negozi della ricorrente, sicché non si ravvisa
una possibilità di interferire con la visuale che si esercita dalla
terrazza degli attori.
Il motivo va disatteso.
Ed, invero, oltre a riprendere in larga misura la tesi oggetto del
secondo motivo di ricorso, già disatteso, circa la sussistenza di
un unico complesso edilizio, in parte si risolve in una non
consentita contestazione dell'accertamento in fatto operato dai
giudici di merito, i quali hanno ritenuto applicabile la suddetta
previsione regolamentare locale, sulla scorta della verifica
dell'esistenza di aperture nella costruzione degli attori (nella
specie, terrazza in aggetto) tali da far acquisire ad almeno una
delle pareti fronteggiantisi, la qualifica di finestrata.
Inoltre, nella parte in cui la censura insiste sulla differenza di
quota tra la proprietà degli attori e la copertura dell'immobile
fronteggiante, non si confronta con l'altrettanto pacifica
giurisprudenza di legittimità per la quale (cfr. Cass. n.
19486/2008; Cass. n. 20850/2013) in tema di distanze tra
costruzioni, l'art. 873 cod. civ. (e quindi anche le eventuali e
più rigorose previsioni degli strumenti urbanistici locali) trova
applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la
costruzione edificata nell'area meno elevata non raggiunga il
livello di quella superiore, in quanto la necessità del rispetto
delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del
formarsi d'intercapedini dannose (cfr. altresì Cass. n.
145/2006, a mente della quale la distanza minima assoluta di
dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti va
rispettata anche nel caso in cui la nuova costruzione realizzata
nel mancato rispetto di essa sia destinata ad essere mantenuta
ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a
distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907,
comma terzo, cod. civ. e così pure dal confine; conf. Cass. n. 5741/2008) (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 05.01.2018 n. 166). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si è già affermato che i balconi non appaiono riconducibili per
dimensioni e caratteristiche costruttive a meri elementi ornamentali privi
di rilevanza ai fini del calcolo delle distanze, sicché la mera differenza
di tecnica costruttiva ravvisabile tra la parete in muratura ed un balcone
aperto, non consente di aderire ad una diversa ricostruzione della portata
applicativa della norma, dovendo quindi reputarsi che anche la presenza di
un balcone imponga di ravvisare una situazione di parete finestrata.
Inoltre se la finalità delle norme in tema di distanze tra
costruzioni è quella di evitare la creazione di intercapedini
dannose, e di riflesso di assicurare un ordinato e razionale
sviluppo dell'attività edilizia al fine della salvaguardia della
salubrità e dell'armonico sviluppo dell'attività edificatoria,
l'escludere la rilevanza di un balcone ai fini del computo delle
distanze vanificherebbe in maniera evidente lo scopo cui mira
il legislatore.
Infine, conforta tale conclusione anche la costante giurisprudenza di questa
Corte, che anche di recente ha avuto modo di affermare che in tema di
distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo
873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo
calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume
edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9
del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata
dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla
legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt.
dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento
edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza
tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è
"contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza
l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra
fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd.
legge ponte.
In conclusione, sulla possibilità di
degradare il balcone al rango di mero sporto, in tema di distanze legali fra
edifici
- rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle
distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di
rifinitura od accessoria -come le mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili- mentre
- costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le
sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza.
---------------
5. Il quarto motivo denunzia la violazione e falsa applicazione
dell'art. 873 c.c. nella parte in cui i giudici di appello hanno
ritenuto che nel calcolare le distanze tra i fabbricati
fronteggiantisi si dovesse tenere conto anche della terrazza in
aggetto.
La ricorrente, pur mostrando di avere ben presente
l'orientamento al quale ha fatto cenno anche la sentenza
impugnata, circa la necessità di dover tenere conto ai fini del
calcolo delle distanze anche degli elementi sporgenti, quale nel
caso di specie la terrazza degli attori, ritiene però che si tratti
di un orientamento non condivisibile.
Il motivo è infondato.
Ed, invero, in disparte il richiamo alla legittimità urbanistica
dell'opera, già oggetto del primo motivo di ricorso, la censura
si scontra in maniera evidente con la pacifica giurisprudenza di
questa Corte, alla quale il Collegio ritiene di dover dare
continuità, attesa anche l'assenza di seri elementi di critica
idonei ad indurre a far rimeditare le conclusioni già raggiunte.
Ed, invero si è già affermato che i balconi non appaiono
riconducibili per dimensioni e caratteristiche costruttive a meri
elementi ornamentali privi di rilevanza ai fini del calcolo delle
distanze, sicché la mera differenza di tecnica costruttiva
ravvisabile tra la parete in muratura ed un balcone aperto, non
consente di aderire ad una diversa ricostruzione della portata
applicativa della norma, dovendo quindi reputarsi che anche la presenza di
un balcone imponga di ravvisare una situazione di
parete finestrata.
Inoltre se la finalità delle norme in tema di distanze tra
costruzioni è quella di evitare la creazione di intercapedini
dannose, e di riflesso di assicurare un ordinato e razionale
sviluppo dell'attività edilizia al fine della salvaguardia della
salubrità e dell'armonico sviluppo dell'attività edificatoria,
l'escludere la rilevanza di un balcone ai fini del computo delle
distanze vanificherebbe in maniera evidente lo scopo cui mira
il legislatore.
Infine, conforta tale conclusione anche la costante
giurisprudenza di questa Corte, che anche di recente ha avuto
modo di affermare che (cfr. Cass. n. 5594/2016) in tema di
distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo
873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo
calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume
edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9
del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata
dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla
legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt.
dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento
edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza
tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è
"contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza
l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra
fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla
cd. legge ponte (in senso sostanzialmente conforme si veda
anche Cass. n. 23553/2013; Cass. n. 17089/2006).
In conclusione, una volta esclusa, per espresso accertamento
da parte degli stessi giudici di appello, la possibilità di
degradare il balcone in oggetto al rango di mero sporto (cfr. a
tal fine da ultimo Cass. n. 18282/2016, secondo cui, in tema di
distanze legali fra edifici, rientrano nella categoria degli sporti,
non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi
con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria -come le mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili- mentre costituiscono corpi di
fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici
aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da
solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza; Cass. n. 17242/2010), deve ribadirsi
la correttezza della soluzione raggiunta dalla sentenza
impugnata (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 05.01.2018 n. 166). |
dicembre 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
In linea generale, non è legittima
l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme
contrastanti con quelle del DM 02.04.1968 n. 1444, atteso
che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito
dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia
di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza
tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti
urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr.
1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative
e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o
revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve essere
annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque
disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
---------------
La giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette
la disapplicazione da parte del giudice amministrativo
dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato,
non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche
in via più generale estesa alla giurisdizione generale di
legittimità.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR per la Calabria,
Sezione staccata di Reggio Calabria n. 2 del 03.01.2006,
resa tra le parti, con cui è stato in parte dichiarato
inammissibile e in parte rigettato il ricorso in primo grado
n.r. 257/2005 proposto per l’annullamento:
- del permesso di costruire n. 18 del 18.02.2005 rilasciato alla
signora Li.Mo. per la sopraelevazione di due piani
fuori terra del fabbricato esistente tra le vie Marconi e
Riviera in località Immacolata di Villa San Giovanni;
- del P.R.G. del Comune di Villa San Giovanni, approvato con
d.P.G.R. n. 1657 del 26.07.1983, limitatamente all’art. 16
delle N.T.A. quanto alle distanze tra edifici ivi previste
in zona B sottozona B2.
...
1.) Li.Tu. è comproprietaria di un immobile a tre elevazioni
(individuato in catasto alla partita 2480, foglio 3,
particella 306, sub. 3), in località Immacolata di Villa San
Giovanni, confinante a est con un preesistente immobile
composto da solo piano terra appartenente a Li.Mo..
Con il permesso di costruire n. 18 del 18.02.2005 il Comune
di Villa San Giovanni ha assentito la sopraelevazione di due
piani del predetto fabbricato terraneo.
Con il ricorso in primo grado n.r. 257/2005, inizialmente
notificato in data 08.04.2005 alla sola controinteressata ed
al Comune, è stato impugnato il permesso di costruire,
nonché il P.R.G., limitatamente all’art. 16 delle N.T.A.
L’interessata ha dedotto in sintesi le seguenti censure:
1) Violazione dell’art. 9 comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968 n.
1444, in relazione all'art. 41-quinquies della legge
urbanistica. Illegittimità derivata, perché l’art. 16 delle
N.T.A. consente nella zona B sottozona B1 una distanza
minima tra edifici pari a ml. 6 o 8, a seconda che si tratti
di tre o quattro piani, in violazione della rubricata
disciplina statale, con consequenziale illegittimità
derivata del permesso di costruire.
2) Violazione del D.M. 16.01.1996 Punto C. 3. Eccesso di potere per
travisamento dei fatti e sviamento, perché l’altezza
dell’edificio a seguito della sopraelevazione è superiore di
cm. 20 (ml. 10,05) rispetto a quella massima consentita (ml.
9,85).
3) Violazione dell'art. 41-sexies della legge urbanistica. Eccesso
di Potere per travisamento dei fatti e sviamento, perché
configurandosi l’intervento edilizio come nuova costruzione
gli standard a parcheggio dovevano essere garantiti in
misura pari a 127,34 mq. in luogo di quelli previsti, pari a
79,1 mq.
...
4.) L’appello in epigrafe è fondato, nei limiti di seguito
precisati, onde in riforma della sentenza gravata deve
essere accolto il ricorso proposto in primo grado.
4.1) Con riguardo, infatti, alla rilevata inammissibilità
dell’impugnazione dell’art. 16 delle N.T.A. del P.R.G., e
quindi del primo motivo del ricorso in primo grado,
deve ricordarsi che, secondo la più recente giurisprudenza
di questa Sezione (cfr. n. 3522 del 04.08.2016): “…in
linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti
urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del
citato decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato
emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge
17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge
06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non
possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali
(cfr. Cass. civ., sez. II, 14.03.2012, nr. 4076); di
conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968,
essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili,
e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite
minimo è illegittima e deve essere annullata se è oggetto di
impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua
automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla
fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013,
nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr.
5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno
strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il
precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale
peraltro si basava su una presunta natura non direttamente
precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr.
1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta
natura para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro
disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti
appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si
condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice
amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché
non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione
esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla
giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 03.02.2015, nr. 515)”.
Ne consegue che la tempestività della notificazione del
ricorso alla Regione Calabria è priva di rilevanza essendo
stata comunque sollecitata da parte ricorrente la
disapplicazione dell’art. 16 delle N.T.A. nella parte in cui
ammette una distanza minima inferiore a quella prescritta
dal d.m. 1444/1968, non risultando peraltro contestato, in
punto di fatto, che la sopraelevazione non rispetti il
predetto limite minimo di distanza.
Dai rilievi che precedono discende la fondatezza del primo
motivo del ricorso in primo grado.
...
5.) In conclusione l’appello deve essere accolto, onde in
riforma della sentenza gravata e in accoglimento del primo
motivo del ricorso in primo grado, deve essere annullato il
permesso di costruire che risulta illegittimo per contrasto
con le disposizioni del d.m. 1444/1968, doverosamente
applicabili in relazione alla disapplicazione
dell’illegittimo art. 16 delle N.T.A. del P.R.G. di Villa
San Giovanni (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.12.2017 n. 5753 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
novembre 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA:
L’ipotesi derogatoria contemplata del Decreto Ministeriale
02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c.
L’ipotesi derogatoria contemplata del
Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c.,
che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a
quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni
siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella
stessa lottizzazione (“Sono ammesse distanze inferiori a
quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di
edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”),
riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su
fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano
particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte
della medesima lottizzazione convenzionata.
Ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano
particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la
disciplina sulle relative distanze non e’, quindi, recata
del Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9,
u.c., bensì dal comma 1 dello stesso articolo 9 (“Le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue: (…)”),
quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia
precettiva.
Come più generalmente affermato da Corte Cost. 23.01.2013,
n. 6, del DM n. 1444 del 1968, articolo 9, u.c., costituisce
espressione di una “sintesi normativa”, consentendo che
siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla
normativa statale, pur provvista di “efficacia precettiva e
inderogabile”, solo nei limiti ivi indicati, ovvero a
condizione che le deroghe all’ordinamento civile delle
distanze tra edifici siano “inserite in strumenti
urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo
e unitario di determinate zone del territorio”
(massima tratta da https://renatodisa.com).
---------------
3. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia
nullità della sentenza e violazione di legge, e in
particolare della l. n. 1150 del 1942, della l. n. 457 del
1978, delle norme tecniche di attuazione dello strumento
urbanistico del comune di Castano Primo (art. 14), dell'art.
2697 cod. civ., degli artt. 101, 112 e 115 cod. proc. civ.,
degli artt. 1362 ss. cod. civ., nonché vizio di motivazione
sul fatto decisivo per il giudizio indicato nella
perimetrazione del piano di recupero, cui la proprietà Pa.
era estranea.
Riferendosi all'argomentazione della corte d'appello per cui
sarebbe valida la clausola dell'art. 4 della convenzione,
dispositiva di una distanza di m. 3,10 tra i fabbricati, la
ricorrente censura la ritenuta applicabilità alla
fattispecie dell'art. 14 delle norme tecniche di attuazione,
in quanto:
- al piano di recupero, rimontante al 1984, nella
convenzione non vi era alcun riferimento, confondendo la
corte d'appello le varianti in corso d'opera per
l'esecuzione dei lavori edili su richiesta della EST Ticino,
successive alla scrittura del 1992, come varianti al piano
di recupero, da adottarsi secondo le procedure di
urbanistica;
- in effetti con ampie contraddittoria da un lato si
affermava l'adesione formale della Pa. al piano di recupero,
dall'altro -senza indicare l'atto da cui essa si desumesse-
si ricercavano con la sentenza impugnata fatti concludenti,
come detto inidonei a far emergere l'interessamento
dell'edificio al piano di recupero;
- in ogni caso l'ipotesi della possibilità di una
adesione implicita o per fatti concludenti a un piano di
recupero, di cui alla l. n. 457 del 1978, trovava smentita
nella stessa legge, che ancora i piani di recupero ai fondi
ricompresi nella relativa perimetrazione, da adottarsi con
delibera comunale ai sensi della l. n. 1150 del 1942 seguita
da convenzione trascritta nei registri immobiliari, a fronte
dell'essere la particella interessata della Pa. ricompresa,
invece, nel centro storico, non inclusa nella perimetrazione
(a differenza dell'area della EST Ticino) e di pertinenza di
soggetto non partecipante alla convenzione; per giunta
l'edificazione che aveva invaso totalmente la «corte
lombarda», annullando il bene culturale che lo stesso
piano intendeva preservare;
- ove non applicabile il piano di recupero, l'art. 6
punto 6 delle norme tecniche prevedeva il mantenimento delle
distanze esistenti, per cui anche tale norma risultava
violata dalla sentenza.
3.1. Il motivo, che peraltro sottopone a questa corte di
legittimità la questione del regime delle distanze
applicabile, sottoposto alla regola iura novit curia
opportunamente temperata in relazione alle caratteristiche
del giudizio di legittimità, è parzialmente fondato e va
accolto per quanto di ragione.
3.2. Al riguardo, va tenuto conto che, come sopra
riepilogato, la sentenza impugnata (paragrafi 14-16 e 18)
procede all'individuazione del regime delle distanze
applicabile, ai fini della valutazione della derogabilità o
meno di esso, predicando l'inapplicabilità dell'art. 6 delle
norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico
comunale (che contempla la distanza di m. 10), e
l'applicabilità invece dell'art. 14 che, per gli edifici
ricadenti nel piano di recupero della zona B1, prevede il
mantenimento delle distanze esistenti o -per il caso di
gruppi di case oggetto di piani esecutivi (che la corte
territoriale ritiene sussistere nell'ipotesi di specie)- le
distanze previste dallo stesso piano.
All'interno di tale ricostruzione giuridica, la corte locale
(paragrafo 18) afferma la valenza del corpus
normativo individuato anche per i fabbricati «esterni al
piano», facendo parte del procedimento amministrativo di
formazione di esso il solo fondo della EST Ticino, ma avendo
la Pa. «formalmente aderito» al piano (p. 41).
Ne discenderebbe (benché -è opportuno rilevare- nella
sentenza non si legga il regime delle distanze previsto
dallo stesso piano, che riceverebbe legittimazione da tale
ricostruzione) il ricadere della fattispecie, in virtù della
parificazione (paragrafi 17-18) operata dalla corte milanese
del piano di recupero agli strumenti (piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche) menzionati nel secondo comma
dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 (parificazione,
questa, su cui non è il caso di soffermarsi in questa sede,
in quanto non direttamente posta in discussione dalla
ricorrente, ma riesaminabile anche d'ufficio, in prosieguo,
in quanto riguardante la corretta individuazione della fonte
di diritto in tema di distanze), nella deroga che detto
secondo comma apporta alle distanze di cui al primo comma in
ipotesi, appunto, di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche.
3.3. La statuizione appena riportata appare in contrasto con
le norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico
del comune di Castano Primo, il cui art. 14 è stato evocato
direttamente a base del motivo di ricorso (p. 35), e, per
suo tramite, con l'art. 9 del d.m. citato pure richiamato
(p. 46 del ricorso); parimenti, l'iter motivazionale della
sentenza circa l'essere ricompresi i fondi nello spettro
applicativo del piano si presenta contraddittorio e comunque
insufficiente.
3.4. Invero, sull'argomento va data continuità
all'orientamento della giurisprudenza di questa corte
secondo il quale l'ipotesi derogatoria
contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444, che consente ai comuni di prescrivere
distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale
ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano
particolareggiato o nella stessa lottizzazione («Sono
ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti
commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di
piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche»), riguarda soltanto le
distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano
inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per
costruzioni entrambe facenti parte della medesima
lottizzazione convenzionata
(così Cass. Sez. U, n. 1486 del 18/02/1997, ribadita ad es.
recentemente da questa Sez. con le nn. 23681 del 21/11/2016
e 9915 del 19/04/2017).
Ove le costruzioni non siano comprese nel
medesimo piano particolareggiato o nella stessa
lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è,
quindi, recata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444, bensì dal primo comma dello stesso art.
9 («Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue: [...]»),
quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia
precettiva (Cass.
n. 12424 del 20/05/2010).
Come più generalmente affermato da Corte cost. 23.01.2013,
n. 6, l'ultimo comma dell'art. 9 del d.m.
n. 1444 del 1968 costituisce espressione di una «sintesi
normativa», consentendo che siano fissate distanze
inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur
provvista di «efficacia precettiva e inderogabile»,
solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le
deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici
siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio».
3.5. La corte di Milano, oltre a fornire un quadro assai
incerto in ordine alla possibilità di parificare un piano di
recupero come equivalente a un piano particolareggiato o a
una lottizzazione convenzionata (tema che, come detto, non
mette conto esaminare, restando rimesso comunque al riesame
del giudice del rinvio, che dovrà pervenire ex novo
all'individuazione del regime giuridico applicabile), ha
dunque affermato una regula iuris -quella del
ricadere della fattispecie nello spettro della deroga posta
dall'art. 14 delle norme tecniche e, a un tempo, dal secondo
comma dell'art. 9 del d.m.- erroneamente applicando la
regola stessa al caso in esame, nel quale uno solo dei fondi
ricade nell'ambito del piano; a tanto è pervenuta, inoltre,
attraverso un iter motivazionale insufficiente,
effettivamente facente impiego -come stigmatizzato dalla
ricorrente- di dati relativi al procedimento edificatorio
utilizzandoli per desumerne l'appartenenza di un fondo al
piano di recupero, e contraddittorio, ove da un lato si
afferma, senza dimostrarla, l'adesione formale della signora
Pa. al piano di recupero, dall'altro si indicano fatti
concludenti, in luogo di dati formali, per far emergere
un'adesione implicita dell'edificio al piano di recupero
(considerato quasi come un progetto edificatorio, in
disarmonia con la l. n. 457 del 1978; a fronte, invece, del
predetto principio di necessaria inclusione di entrambi i
fondi nel perimetro dello strumento).
3.6. Ne deriva che, in accoglimento della censura anzidetta,
la sentenza impugnata vada cassata, dovendo il giudice del
rinvio procedere ex novo all'individuazione del
regime delle distanze legali, previa adeguata ricognizione
degli istituti menzionati nel secondo comma dell'art. 9 del
d.m. del 1968 a fronte della nozione di piano di recupero di
cui all'art. 14 delle norme tecniche di attuazione, nonché
fare applicazione corretta -ove effettivamente entrambi i
fondi rientrino in uno strumento qualificabile quale piano
particolareggiato o in una lottizzazione convenzionata- del
principio di diritto di cui al precedente punto 2.4., con
congrua motivazione a sostegno circa i fatti idonei a far
emergere il ricadere di essi nel perimetro.
Su tali basi, il giudice del rinvio rinnoverà integralmente
le valutazioni in ordine alla validità delle clausole, alla
validità complessiva e alla qualificazione della convenzione
del 26/05/1992, secondo la precedente sentenza di questa
corte n. 6170 del 2005, con le conseguenti determinazioni
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 07.11.2017 n. 26354). |
ottobre 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza consolidata le previsioni di
cui all’art. 9 DM 1444/1968, riguardanti la distanza minima da
osservarsi tra edifici, essendo funzionali a garantire non
tanto la riservatezza, quanto piuttosto l’igiene e la
salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini
dannose, debbono considerarsi assolutamente inderogabili da
parte dei comuni, che si debbono attenere ad esse in sede di
formazione e revisione degli strumenti urbanistici.
Inoltre, traendo le
norme del DM 1444/1968 la propria efficacia dall’art. 41-quinquies, comma 8, L. 1150/1942 –in tale parte non abrogato
dal DPR 380/2001– le relative previsioni debbono considerarsi
avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da
potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore
ad esse non conformi. Invero, è stato statuito: “Tanto
chiarito e venendo all’esame della normativa urbanistica
comunale, si premette che per consolidata giurisprudenza le
norme di cui al D.M. in questione, emanate in forza
dell’art. 17 L. 765/1967, traggono da questa la forza di
integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze
nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri
dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti
vincola anche i comuni in sede di formazione e revisione
degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite
è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o,
secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata,
stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata”.
Trattasi di presidi normativi che, all’evidenza, non sono
dettati a tutela e salvaguardia di singole posizioni
soggettive, ma nell’interesse generale della corretta
pianificazione.
---------------
Osserva in contrario senso il Collegio, che:
a) innanzitutto la deroga di cui all'’articolo
9, comma 3, del d.m. 02.04.1968 n. 1444
potrebbe essere ammessa soltanto nel caso di
realizzazione contestuale di “gruppi di edifici” e cioè di
una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani
particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi
dalla quale sembra esulare il caso in esame, in cui si ha
realizzazione di un unico edificio che si va ad inserire nel
contesto di un isolato già edificato;
b) la dizione contenuta nel citato ultimo comma dell’art. 9 d.m.
1444/1968 implica che alla deroga ivi menzionata possa
accedersi soltanto laddove ricorra la compresenza di tutte e
tre le condizioni contenute nel detto comma (e non può
invece affermarsi che le stesse integrino prescrizioni
alternative) ed esse non ricorrevano, a tacere d’altro
perché non ci si trova al cospetto di un gruppo di edifici,
e perché non si rinviene alcuna tavola plano-volumetrica
relativa ad un gruppo di edifici tra i quali sarebbe
ricompreso quello erigendo;
c) la giurisprudenza già in passato ha costantemente interpretato
in senso rigido detta disposizione affermando che:
- “l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze
minime con normative locali, purché siffatte deroghe siano
previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto
complessivo ed unitario di determinate zone del territorio.
Tali principi si ricavano dall'art. 873 c.c. e dall'ultimo
comma dell'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 emesso ai sensi
dell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1941, avente
efficacia precettiva ed inderogabile, secondo un consolidato
indirizzo giurisprudenziale";
- "la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m.
02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile,
impone al proprietario dell'area confinante con il muro
finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno
dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il
caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere
mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre
antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle
previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano
con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 mt. tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola
anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici”.
---------------
Il Collegio non
ritiene di dovere decampare dai principi a più riprese
espressi dalla Sezione che hanno puntualizzato la necessità di una rigida
interpretazione della prescrizione secondo la quale il
citato art. 9 del d.m. nr. 1444/1968 non potrebbe trovare
applicazione nelle ipotesi di intervento di demolizione e
ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova
edificazione: ciò in quanto opera in materia l’indirizzo
giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9
secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un
immobile già esistente può essere assimilato quello di
demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in
toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio
preesistente.
In particolare, a parere della giurisprudenza civile
ed amministrativa, proprio in ragione della sensibilità dei
valori tutelati dalla disposizione, la distanza minima di
dieci metri fra pareti finestrate deve essere comunque
rispettata, e ciò anche in caso di interventi riconducibili
alla categoria della ristrutturazione edilizia; ciò, salve ovviamente le
ipotesi in cui tali interventi si sostanzino in un mero
recupero di beni -realizzati prima dell’entrata in vigore
della norma- che già non rispettavano tale prescrizione,
non essendo possibile dare alla norma stessa applicazione
retroattiva (ma tale circostanza non è stata dedotta);
La
richiamata sentenza della Cassazione civile, sez. II, 03.03.2008, n. 5741 è perentoria nello stabilire che
“rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui
all'art. 41-sexies l. 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini
dell'applicabilità dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444
per il computo delle distanze legali dagli altri edifici,
non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera,
ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione
dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla
collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel
suo complesso oggettivamente diversa da quella
preesistente”.
---------------
3. Venendo al merito delle censure proposte, ritiene il Collegio che
entrambi i motivi dell’appello siano infondati e debbano
essere respinti, per le considerazioni –che rivestono
portata assorbente- che seguono.
3.1. Per giurisprudenza consolidata le previsioni di cui
all’art. 9 DM 1444/1968, riguardanti la distanza minima da
osservarsi tra edifici, essendo funzionali a garantire non
tanto la riservatezza, quanto piuttosto l’igiene e la
salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini
dannose (tra le più recenti, Cass. Civ., sez. II, 03/03/2008
n. 5741, Cons. Stato, sez. V, 26/10/2006, n. 6399), debbono
considerarsi assolutamente inderogabili da parte dei comuni,
che si debbono attenere ad esse in sede di formazione e
revisione degli strumenti urbanistici; inoltre, traendo le
norme del DM 1444/1968 la propria efficacia dall’art. 41-quinquies, comma 8, L. 1150/1942 –in tale parte non abrogato
dal DPR 380/2001– le relative previsioni debbono considerarsi
avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da
potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore
ad esse non conformi (tra le tante, Cass. Civ. 22495/2007 e
20574/2007; Cons. Stato, sez. IV, 2094/2007; 1206/2007; in
particolare, la sentenza n. 3094/2007 della IV sezione del
Consiglio di Stato così testualmente statuisce: “Tanto
chiarito e venendo all’esame della normativa urbanistica
comunale, si premette che per consolidata giurisprudenza le
norme di cui al D.M. in questione, emanate in forza
dell’art. 17 L. 765/1967, traggono da questa la forza di
integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze
nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri
dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti
vincola anche i comuni in sede di formazione e revisione
degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite
è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o,
secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata,
stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata”).
Trattasi di presidi normativi che, all’evidenza, non sono
dettati a tutela e salvaguardia di singole posizioni
soggettive, ma nell’interesse generale della corretta
pianificazione.
3.2. La censura accolta dal Tar, si strutturava nella
dedotta violazione dell’articolo 9, comma 1, n. 2 e comma 3
del d.m. 02.04.1968 n. 1444, in quanto il progetto autorizzato
avrebbe violato le distanze minime inderogabili.
3.3. La disposizione di cui all’articolo 9, comma 1, n. 2 e
comma 3 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, così prevede: “le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e
per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli
edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti
tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener
conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di
valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in
tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di
edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del
fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una
sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si
fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano
interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con
esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di
singoli edifici o di insediamenti) - debbono corrispondere
alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
-
ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
-
ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml.
7 e ml. 15;
-
ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate,
risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le
distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura
corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso
di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche.”.
3.3. La tesi dell’appellante sulla quale si fonda la
asserita legittimità del titolo edilizio annullato dal
Tar è quella per cui, dal combinato-disposto delle
disposizioni del Prg comunale (che non prevede limiti di
distanze per le ristrutturazioni) e dalle disposizioni di
legge regionale attuative del c.d. Piano casa, discendesse
che i limiti di cui al citato art. 9 (nel caso di specie,
distanza pari all’altezza del fabbricato degli originari
ricorrenti, e quindi mt. 14,88) non trovassero applicazione.
3.4. Osserva in contrario senso il Collegio, che:
a) innanzitutto (si veda Cons. Stato, sezione IV n. 856 del
29.02.2016, in particolare dal considerando 3.2.1.) la
deroga di cui al comma 3 potrebbe essere ammessa soltanto
nel caso di realizzazione contestuale di “gruppi di edifici”
e cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani
particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi
dalla quale sembra esulare il caso in esame, in cui si ha
realizzazione di un unico edificio che si va ad inserire nel
contesto di un isolato già edificato;
b) la dizione contenuta nel citato ultimo comma dell’art. 9
d.m. 1444/1968 implica che alla deroga ivi menzionata possa accedersi soltanto laddove ricorra la compresenza di tutte e
tre le condizioni contenute nel detto comma (e non può
invece affermarsi che le stesse integrino prescrizioni
alternative) ed esse non ricorrevano, a tacere d’altro
perché non ci si trova al cospetto di un gruppo di edifici,
e perché non si rinviene alcuna tavola plano-volumetrica
relativa ad un gruppo di edifici tra i quali sarebbe
ricompreso quello erigendo;
c) la giurisprudenza già in passato ha costantemente
interpretato in senso rigido detta disposizione affermando
che (ex aliis Consiglio di Stato, sez. IV, 12.03.2007 n.
1206 “l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze
minime con normative locali, purché siffatte deroghe siano
previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto
complessivo ed unitario di determinate zone del territorio.
Tali principi si ricavano dall'art. 873 c.c. e dall'ultimo
comma dell'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 emesso ai sensi
dell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1941, avente
efficacia precettiva ed inderogabile, secondo un consolidato
indirizzo giurisprudenziale -cfr. Corte cost., 16.06.2005, n. 232; Cass., sez. un., 22.11.1994, n. 9871; Tar Bari, sez. III, 22/06/2012, n. 1235 “la disposizione
di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444,
essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario
dell'area confinante con il muro finestrato altrui di
costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da
quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la
nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una
quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a
distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c.. Le prescrizioni di cui al d.m.
02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il
regime delle distanze nelle costruzioni, sicché
l'inderogabile distanza di 10 mt. tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede
di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.”).
...
e) invero, in disparte tutti gli altri profili (riproposti
dalla parte originaria ricorrente con il proprio appello
incidentale) asseritamente ostativi alla realizzazione della
contestata ristrutturazione, deve osservarsi che:
I) la disposizione “fondante” l’avversato atto abilitativo
(art. 4 della Legge regionale della Campania 28.12.2009, n. 19, così statuisce: “1. In deroga agli strumenti
urbanistici vigenti è consentito, per uso abitativo,
l’ampliamento fino al venti per cento della volumetria
esistente per i seguenti edifici:
a) edifici residenziali uni-bifamiliari;
b) edifici di volumetria non superiore ai millecinquecento
metri cubi;
c) edifici residenziali composti da non più di tre piani
fuori terra, oltre all’eventuale piano sottotetto.
2. L’ampliamento di cui al comma 1 è consentito:
a) su edifici residenziali come definiti all’articolo 2,
comma 1, la cui restante parte abbia utilizzo compatibile
con quello abitativo;
b) per interventi che non modificano la destinazione d’uso
degli edifici interessati, fatta eccezione per quelli di cui
all’articolo 2, comma 1, lettera b) di cui al decreto
ministeriale n. 1444/1968;
c) su edifici residenziali ubicati in aree urbanizzate, nel
rispetto delle distanze minime e delle altezze massime dei
fabbricati;
d) su edifici residenziali ubicati in aree esterne agli
ambiti dichiarati in atti formali a pericolosità idraulica e
da frana elevata o molto elevata;
e) su edifici ubicati in aree esterne a quelle definite ad
alto rischio vulcanico;
f) su edifici esistenti ubicati nelle aree sottoposte alla
disposizioni di cui all’ articolo 338, comma 7, del Regio
Decreto 27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del testo
unico delle leggi sanitarie) e successive modifiche, nei
limiti di tale disciplina;
g) su edifici regolarmente autorizzati ma non ancora
ultimati alla data di entrata in vigore della [presente]
legge regionale 18.01.2016, n. 1 (Disposizioni per la
formazione del bilancio di previsione finanziario per il
triennio 2016-2018 della Regione Campania – Legge di
stabilità regionale 2016).
3. Per gli edifici a prevalente destinazione residenziale,
nel rispetto delle prescrizioni obbligatorie di cui al comma
4, è consentita, in alternativa all’ampliamento della
volumetria esistente, la modifica di destinazione d’uso da
volumetria esistente non residenziale a volumetria
residenziale per una quantità massima del venti per cento.
4. Per la realizzazione dell’ampliamento sono obbligatori:
a) l’utilizzo di tecniche costruttive, con criteri di
sostenibilità e utilizzo di materiale eco-compatibile, che
garantiscano prestazioni energetico-ambientali nel rispetto
dei parametri stabiliti dagli atti di indirizzo regionali e
dalla vigente normativa. L’utilizzo delle tecniche
costruttive ed il rispetto degli indici di prestazione
energetica fissati dalla Giunta regionale sono certificati
dal direttore dei lavori con la comunicazione di ultimazione
dei lavori. Gli interventi devono essere realizzati da una
ditta con iscrizione anche alla Cassa edile comprovata da un
regolare Documento unico di regolarità contributiva (DURC).
In mancanza di detti requisiti non è certificata
l’agibilità, ai sensi dell’articolo 25(R) del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia - Testo A), dell’intervento realizzato;
b) la conformità alle norme sulle costruzioni in zona
sismica;
[c) il rispetto delle prescrizioni tecniche di cui agli
articoli 8 e 9 del decreto ministeriale 14.06.1989,
n. 236 (Prescrizioni tecniche necessarie a garantire
l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli
edifici privati e edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e
dell’eliminazione delle barriere architettoniche), al fine
del superamento e dell’eliminazione delle barriere
architettoniche.]
5. Per gli edifici [residenziali] e loro frazionamento, sui
quali sia stato realizzato l’ampliamento ai sensi della
presente legge, non può essere modificata la destinazione
d’uso se non siano decorsi almeno cinque anni dalla
comunicazione di ultimazione dei lavori.
6. L’ampliamento non può essere realizzato su edifici
residenziali privi del relativo accatastamento ovvero per i
quali al momento della richiesta dell’ampliamento non sia in
corso la procedura di accatastamento. L’ampliamento non può
essere realizzato, altresì, in aree individuate, dai comuni
provvisti di strumenti urbanistici generali vigenti, con
provvedimento di consiglio comunale motivato da esigenze di
carattere urbanistico ed edilizio, nel termine perentorio di
sessanta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore
della presente legge.
7. E’ consentito su edifici non residenziali regolarmente
assentiti, destinati ad attività produttive, commerciali,
turistico-ricettive e di servizi, fermi restando i casi di
esclusione dell’articolo 3 della presente legge, la
realizzazione di opere interne finalizzate all’utilizzo di
volumi esistenti nell’ambito dell’attività autorizzata, per
la riqualificazione e l’adeguamento delle strutture
esistenti, anche attraverso il cambio di destinazione d’uso,
in deroga agli strumenti urbanistici vigenti.
I medesimi interventi possono attuarsi all’interno di unità
immobiliari aventi una superficie non superiore a
millecinquecento metri quadrati, non devono in alcun modo
incidere sulla sagoma e sui prospetti dell’edificio, né
costituire unità immobiliari successivamente frazionabili.”;
II) è agevole riscontrare che la disposizione in parola, non
soltanto non deroga al regime dell’art. 9 del d.m. n.
1444/1968, ma, anzi, ne presuppone il rispetto;
III) nel caso di specie, è fondamentale rammentare che
l’intervento prevede anche la trasformazione e ricostruzione
in cemento armato di un volume pari a circa 35 mq, e quindi
superiore al 10% della volumetria complessiva (come peraltro
ammesso dalla parte appellante alla pag. 11 del proprio atto
di appello, pur svalutandosene la portata) destinato ad
essere unito al preesistente fabbricato: trattasi di
modifica sostanziale, tale da indurre a ritenere che non ci
si trovi al cospetto di una ristrutturazione (l’immobile
diviene oggettivamente diverso dal preesistente) e si sia
trasmodando in una nuova costruzione, che come tale prevede
in ogni caso il rispetto dei cogenti limiti di cui al d.m.
citato;
IV) il Collegio, sul punto, non ritiene di dovere decampare
dai principi a più riprese espressi dalla Sezione (tra le
tante, si veda la sentenza n. 5552 del 30.12.2016 resa
proprio con riferimento al c.d. “piano casa” della regione
Campania) che hanno puntualizzato la necessità di una rigida
interpretazione della prescrizione secondo la quale il
citato art. 9 del d.m. nr. 1444/1968 non potrebbe trovare
applicazione nelle ipotesi di intervento di demolizione e
ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova
edificazione: ciò in quanto opera in materia l’indirizzo
giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9
secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un
immobile già esistente può essere assimilato quello di
demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in
toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio
preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, nr.
3929);
-
in particolare, a parere della giurisprudenza civile
ed amministrativa, proprio in ragione della sensibilità dei
valori tutelati dalla disposizione, la distanza minima di
dieci metri fra pareti finestrate deve essere comunque
rispettata, e ciò anche in caso di interventi riconducibili
alla categoria della ristrutturazione edilizia (cfr.
Cassazione civile, sez. II, 03.03.2008, n. 5741; Consiglio
di Stato, sez. IV, 12.06.2014, n. 2995; TAR Sardegna,
sez. II, 05.07.2016, n. 566); ciò, salve ovviamente le
ipotesi in cui tali interventi si sostanzino in un mero
recupero di beni -realizzati prima dell’entrata in vigore
della norma- che già non rispettavano tale prescrizione,
non essendo possibile dare alla norma stessa applicazione
retroattiva (ma tale circostanza non è stata dedotta);
-
la
richiamata sentenza della Cassazione civile, sez. II, 03.03.2008, n. 5741 è perentoria nello stabilire che
“rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui
all'art. 41-sexies l. 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini
dell'applicabilità dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444
per il computo delle distanze legali dagli altri edifici,
non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera,
ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione
dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla
collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel
suo complesso oggettivamente diversa da quella
preesistente”.
Il Collegio condivide e fa proprio tale
orientamento (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.10.2017 n. 4992 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il computo delle distanze tra pareti finestrate di edifici antistanti.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall’art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, deve computarsi con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 06.10.2017 n. 4690 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
Con censura di carattere assorbente il sig. Ma. si duole che sia stato
rilasciato provvedimento di condono nonostante che il manufatto in oggetto
sia stato costruito in violazione delle norme sulle distanze legali.
Il motivo è fondato.
Le opere realizzate e condonate con le concessioni n. 6/c e 7/c, in epigrafe
indicate, consistono in ampliamenti della sagoma dell’edificio (chiusura di
una scala, trasformazione di una tettoia aperta) che hanno alterato le
preesistenti distanze dal confine e dal fabbricato del ricorrente.
In particolare da quanto risulta dagli atti causa e dalla relazione del
verificatore -redatta a seguito di sopralluogo e sulla base della
documentazione di causa- l’ampliamento del nucleo originario dell’immobile
della sig.ra Am., tramite estensione fino al muro di confine con la
proprietà Ma., ha annullato la distanza dell’edificio dal predetto
confine;
Come emerge quindi dalle risultanze del sopralluogo (e dalla perizia di
parte ricorrente in quanto il verificatore conferma la correttezza dei
grafici depositati dalla stessa parte) l’edificio dell’Am., come
trasformato dalle opere oggetto dei provvedimenti di condono, non rispetta
la distanza di 10 metri dal nucleo originario del fabbricato della
ricorrente (ex art. 9 DM 1444/1968 che per i nuovi edifici prescrive “la
distanza minima assoluta di m 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti”).
La violazione della norma sulle distanze rende dunque illegittima la
sanatoria comunale.
Non ha pregio l’assunto della controinteressata secondo cui le distanze
legali non sarebbero direttamente vincolanti ai fini del rilascio del
provvedimento di condono, trattandosi di disposizioni non direttamente
cogenti e opponibili solo dopo l’approvazione del piano regolatore comunale
(avvenuta per il Comune di Massa Lubrense nel 2002).
Al riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica giurisprudenza che
dichiara direttamente precettive le norme in materia di distanze contenute
nel d.m. n. 1444/1968 sia nei rapporti fra privati che ai fini della
regolarità degli atti di assenso edilizio non potendo le stesse essere
intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore (cfr. Cons.
Stato 3522/2016, n. 1951/2015; n. 844/2013 e da ultimo Tar Napoli n.
3036/2017 dove si evidenzia che tale precetto costituisce, sia in ragione
della relativa fonte di legittimazione -art. 41-quinquies della L. n.
1150/1942- sia per la funzione igienico-sanitaria assolta tesa ad evitare
la formazione di intercapedini malsane, un principio inderogabile della
materia).
La condonabilità delle opere lesive delle distanze dai confini e dagli
edifici limitrofi, va, dunque esclusa, anche, e soprattutto, perché la
disciplina urbanistica in materia di distanze non è derogabile, essendo
diretta non già alla sola tutela di interessi privati, bensì alla tutela di
interessi generali e pubblici in materia urbanistica.
Non ha poi pregio il rilievo difensivo della controinteressata in base al
quale la violazione delle distanze sarebbe imputabile in prima battuta a
lavori di ampliamento eseguiti dal sig. Ma. e relativi all’edificazione di
un porticato.
I lavori eseguiti dal ricorrente -che peraltro a quanto consta dagli atti
risultano assistiti da permesso di costruire (n. 11/2013)- come chiarito
dal verificatore non hanno comportato variazioni della sagoma originaria
dell’immobile stesso e comunque non risultano, dall’esame degli atti di
causa e delle planimetrie depositate, influenti al fine del mancato rispetto
della distanza legale dall’immobile confinante del sig. Ma. come
identificato nella sua configurazione risalente.
Non ha neanche pregio l’assunto secondo cui (in relazione alla concessione
n. 7c/2016) le pareti del fabbricato della controinteressata non abbiano
pareti fronteggianti in via lineare.
Il Collegio ritiene infatti, in linea con l’orientamento espresso dalla
giurisprudenza amministrativa d’appello che la distanza di dieci metri tra
pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, d.m. 02.04.1968, n. 1444, debba computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati
e non alle sole parti che si fronteggiano, prescindendo anche dal fatto che
esse siano o meno in posizione parallela (cfr. in termini, di recente Cons.
Stato n. 2861/2015).
Per le stesse ragioni, per la parte in cui legittima le irregolarità
riscontrate, risulta viziata l’autorizzazione in sanatoria n. 68 del
17.06.1998, concernente “la sanatoria e il completamento delle opere relative
al fabbricato” della controinteressata.
4. In conclusione, per le ragioni esposte il ricorso viene accolto e per
l’effetto sono annullati gli atti impugnati. Assorbite le ulteriori censure. |
settembre 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA: La
previsione del limite inderogabile di distanza riguarda
immobili o parti di essi costruiti (anche in
sopraelevazione) “per la prima volta” (con
riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non
può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della
demolizione di immobili preesistenti con successiva
ricostruzione.
Come è noto, l’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444
prevede, tra l’altro che tra “nuovi edifici ricadenti in
altre zone” (diverse dalla zona A), “è prescritta in tutti i
casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti” (co. 1, n. 2).
Inoltre, l’ultimo comma, secondo periodo, di detto articolo
prevede che:
“sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei
precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire i principi generali
espressi dalla giurisprudenza amministrativa, in tema di
inderogabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444 cit.
E’ stato, infatti, affermato dalla costante giurisprudenza
che la disposizione
contenuta nell’ art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che
prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra
edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si
tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via
generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il
perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile.
Tanto riaffermato nella presente sede, occorre osservare che
la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda
“nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti
e/o sopraelevazioni di essi:) “costruiti per la prima volta” e non già
edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione,
non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di
considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi
dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, “i limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi” (quelli di cui al successivo D.M. n.
1444/1968), sono imposti “ai fini della formazione di nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti”.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma
primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già
per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato
da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia
esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione
urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora
affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel
contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede
che le distanze “non possono essere inferiori a quelle
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimen in tema di distanze (con
l’introduzione del limite inderogabile di 10 m.), nella
ratio dell’art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed
altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova
(ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione
di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della
disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza,
sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B
totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di
distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un
altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe
che da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere
demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto
all’allineamento preesistente (con conseguente possibile
perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio
“effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro
lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della
deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 D.M. n.
1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione
(ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista
nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con
dettaglio plano volumetrico.
Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9,
u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici
attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le
norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono
alla nuova pianificazione del territorio e non già ad
interventi specifici sull’esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per
effetto di una non coerente applicazione dell’art. 9),
produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con
altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus
estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi,
rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi per le
condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che
invece l’art. 9 intende perseguire.
Appare, dunque, evidente come la previsione del limite
inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi
costruiti (anche in sopraelevazione) “per la prima volta”
(con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma
non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto
della demolizione di immobili preesistenti con successiva
ricostruzione.
---------------
Alla luce delle considerazioni esposte, occorre osservare
che l’art. 32-bis delle NTA del Comune, laddove consente la
realizzazione di nuovi edifici a filo strada nel caso di
prevalente allineamento, appare legittimo, poiché la norma
–nel tenere ferma la disposizione sul distacco tra
fabbricati di cui al DM n. 1444/1968– rende possibile il
mantenimento di preesistenti distanze inferiori solo per
immobili preesistenti e sempre che, nella specifica zona
considerata, l’allineamento sia “prevalente”.
---------------
Il concetto di “nuova costruzione”, utilizzato ai sensi del
DPR n. 380/2001 per verificare la compatibilità
dell’intervento con le disposizioni urbanistiche
sopravvenute (e che non sarebbero invece applicabili in caso
di edifici preesistenti oggetto di interventi diversamente
qualificabili), ovvero per renderlo assoggettabile a
permesso di costruire, non esplica effetti ai fini
dell’applicabilità dell’art. 9 DM n. 1444/1968.
E ciò in quanto per l’applicazione del limite inderogabile
della distanza ivi previsto ciò che rileva, come si è detto,
non è la formale definizione dell’intervento, ma il dato
concreto della preesistenza di un immobile a distanza
inferiore da quella prevista da detta norma.
---------------
2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, per
le ragioni di seguito esposte, con conseguente riforma della
sentenza impugnata.
Ciò esime il Collegio dal doversi pronunciare in ordine alla
inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I
grado e, in correlazione, in ordine alla tempestività del
motivo di impugnazione con il quale l’appellante ha
prospettato la predetta inammissibilità, il quale risulta
presente solo nelle memorie del 14.05.2013 e del 27.03.2017.
2.1. Come si è già avuto modo di esporre, la sentenza
impugnata ha proceduto all’annullamento del permesso di
costruire rilasciato all’attuale appellante, previa
disapplicazione dell’art. 32-bis delle NTA del Comune di
Sannicandro, in quanto la possibilità da tale norma prevista
di realizzare nuovi edifici a filo strada, ove esista un
prevalente allineamento in tal senso, costituisce una
violazione dell’art. 9 D.M. n. 1444/1968 (norma
inderogabile) e delle distanze tra fabbricati ivi
prescritte.
Giova ricordare, in punto di fatto ed al fine di meglio
definire il thema decidendum, che dagli atti di causa
risulta:
- la preesistenza di un fabbricato;
- che la distanza tra il fabbricato oggetto del permesso di
costruire (situato in zona B) e quello di proprietà dei
ricorrenti in I grado e di m. 3;
- che tale spazio è costituito da una strada adibita a
viabilità pubblica, seppure pedonale e non veicolare.
Occorre, inoltre, precisare che, ai fini del presente
giudizio di appello, non assumono rilievo –per le ragioni
di seguito esposte- le argomentazioni relative alle cd.
“schede della zona B”, di cui alla memoria del 14.05.2013, e/o quelle relative all’esistenza del Piano attuativo
delle zone B (di cui alla memoria di replica depositata il 06.04.2017); il che esime il Collegio dal dover verificare
la ricorrenza del divieto dei “nova” in appello (Cons.
Stato, sez. IV, 03.08.2016 n. 3509).
3.1. Come è noto, l’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444
prevede, tra l’altro che tra “nuovi edifici ricadenti in
altre zone” (diverse dalla zona A), “è prescritta in tutti i
casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti” (co. 1, n. 2).
Inoltre, l’ultimo comma, secondo periodo, di detto articolo
prevede che:
“sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei
precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire i principi generali
espressi dalla giurisprudenza amministrativa, in tema di
inderogabilità dell’art. 9 D.M. n. 1444 cit.
E’ stato, infatti, affermato dalla costante giurisprudenza
(da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3093 e 08.05.2017 n. 2086; 29.02.2016 n. 856; Cass. civ.,
sez. II, 14.11.2016 n. 23136) che la disposizione
contenuta nell’ art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che
prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra
edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si
tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via
generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il
perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile.
Tanto riaffermato nella presente sede, occorre osservare che
la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda
“nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti
e/o sopraelevazioni di essi: Cons. Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) “costruiti per la prima volta” e non già
edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione,
non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di
considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi
dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, “i limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi” (quelli di cui al successivo D.M. n.
1444/1968), sono imposti “ai fini della formazione di nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti”.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma
primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già
per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato
da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia
esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione
urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora
affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel
contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede
che le distanze “non possono essere inferiori a quelle
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimen in tema di distanze (con
l’introduzione del limite inderogabile di 10 m.), nella
ratio dell’art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed
altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova
(ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione
di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della
disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza,
sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B
totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di
distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un
altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe
che da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere
demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto
all’allineamento preesistente (con conseguente possibile
perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio
“effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro
lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della
deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 D.M. n.
1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione
(ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista
nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con
dettaglio plano volumetrico.
Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9,
u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici
attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le
norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono
alla nuova pianificazione del territorio e non già ad
interventi specifici sull’esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per
effetto di una non coerente applicazione dell’art. 9),
produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con
altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus
estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi,
rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi –così come condivisibilmente sostenuto dall’appellante- per le
condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che
invece l’art. 9 intende perseguire.
Appare, dunque, evidente come la previsione del limite
inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi
costruiti (anche in sopra elevazione) “per la prima volta”
(con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma
non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto
della demolizione di immobili preesistenti con successiva
ricostruzione (in tal senso, Cons. giust. amm. Sicilia, 03.03.2017 n. 74).
3.2.. Alla luce delle considerazioni esposte, occorre
osservare che l’art. 32-bis delle NTA del Comune di
Sannicandro di Bari, laddove consente la realizzazione di
nuovi edifici a filo strada nel caso di prevalente
allineamento, appare legittimo, poiché la norma –nel tenere
ferma la disposizione sul distacco tra fabbricati di cui al
DM n. 1444/1968– rende possibile il mantenimento di
preesistenti distanze inferiori solo per immobili
preesistenti e sempre che, nella specifica zona considerata,
l’allineamento sia “prevalente”.
4. Le precisazioni in tema di interpretazione dell’art. 9
D.M. n. 1444/1968 innanzi riportate non risultano
contraddette dal fatto che la sentenza impugnata ha definito
“nuova costruzione”, l’immobile oggetto del permesso di
costruire impugnato.
In disparte ogni considerazione in ordine alla migliore
riconducibilità dell’intervento alla ristrutturazione
edilizia (secondo le norme per la stessa ratione temporis
vigenti: v. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2017 n. 443),
tenuto conto che nel ricorso in appello non vi sono
doglianze sul punto, appare evidente come il concetto di
“nuova costruzione” utilizzato dalla sentenza impugnata non
esplica effetti ai fini dell’applicabilità dell’art. 9 D.M.
n. 1444/1968.
Ed infatti, la sentenza ricava la definizione di “nuova
costruzione”, pur affermando espressamente la preesistenza
di un immobile completamente demolito, dal fatto che si
tratta di una costruzione “completamente diversa per
tipologia e destinazione d’uso”.
Tuttavia, il concetto di “nuova costruzione”, utilizzato ai
sensi del DPR n. 380/2001 per verificare la compatibilità
dell’intervento con le disposizioni urbanistiche
sopravvenute (e che non sarebbero invece applicabili in caso
di edifici preesistenti oggetto di interventi diversamente
qualificabili), ovvero per renderlo assoggettabile a
permesso di costruire, non esplica effetti ai fini
dell’applicabilità dell’art. 9 DM n. 1444/1968.
E ciò in quanto per l’applicazione del limite inderogabile
della distanza ivi previsto ciò che rileva, come si è detto,
non è la formale definizione dell’intervento, ma il dato
concreto della preesistenza di un immobile a distanza
inferiore da quella prevista da detta norma.
4.1. Fermo quanto innanzi già esposto, il caso di specie
appare coerente anche con gli articoli 873 ed 879 cod. civ.
Ed infatti:
- quanto alla distanza tra fabbricati, l’art. 873 dispone
che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o
aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre
metri”, salvo diverse disposizioni dei regolamenti locali
(e, nel caso di specie, la distanza è appunto di m. 3);
- inoltre, la accertata utilizzazione pubblica della strada
rende applicabile quanto previsto dall’art. 879, comma
secondo, cod. civ., in base al quale “alle costruzioni che
si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si
applicano le norme relative alle distanze, ma devono
osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano” e,
dunque, quanto previsto dal più volte menzionato art. 32-bis
(Cass. civ., sez. II, 27.12.2011 n. 28938; Id, 24.06.2009 n. 14784, che estende l’applicazione del
principio innanzi esposto alla distanza prescritta per le
vedute dall’art. 907 c.c.; Id, 05.03.2008 n. 6006; secondo
la quale, ai fini dell’applicazione della deroga occorre
tener conto più che della proprietà pubblica del bene,
dell’uso concreto di esso da parte della collettività); Id,
16.04.2007 n. 9077).
5. Le ragioni che sorreggono l’accoglimento dell’appello
fondano anche il rigetto dei motivi non esaminati dalla
sentenza impugnata e riproposti con memoria di costituzione,
rendendo in tal modo superfluo esaminare l’ammissibilità dei
medesimi, sia in relazione al rispetto del termine per la
loro riproposizione, sia in quanto riproposti mediante mero
rinvio al ricorso di I grado.
Ed infatti:
- quanto al primo motivo, con il quale si lamenta la
violazione dell’art. 79 del Regolamento edilizio di
Sannicandro di Bari, occorre osservare che lo stesso si
fonda sulla definizione dello spazio che separa i due
fabbricati come “spazio interno”, laddove la verificazione
disposta ha accertato, in modo convincente e non
ulteriormente contestato, l’esistenza di una strada adibita
a viabilità pubblica, seppure pedonale e non veicolare;
- quanto al secondo motivo, con il quale si argomenta in
ordine alla illegittimità dell’art. 32-bis delle NTA, in
particolare rilevando che la norma, se pur applicabile,
prevederebbe la costruzione a distanza di m. 5, occorre
osservare che la norma dell’art. 32-bis rilevante per il
caso di specie è quella che disciplina la costruzione in
allineamento a filo di strada, in disparte gli effetti anche
su questa norma invocata della diversa ipotesi di
ricostruzione e non di prima costruzione;
- quanto al terzo motivo, con il quale si assume la
sussistenza del vizio di eccesso di potere per difetto di
istruttoria e travisamento dei fatti, è sufficiente
riportarsi, onde rilevarne l’infondatezza, a quanto in
precedenza affermato ai fini dell’accoglimento dell’appello.
6. Per tutte le ragioni innanzi esposte, l’appello deve
essere accolto, mentre devono essere rigettati i motivi del
ricorso instaurativo di I grado non esaminati dalla sentenza
impugnata e riproposti nella presente sede.
Di conseguenza, in riforma della sentenza impugnata, deve
essere rigettato il ricorso instaurativo del giudizio di I
grado (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.09.2017 n. 4337 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Anche gli interventi di ristrutturazione
costituiscono “nuova costruzione”.
Rientrano nella nozione di
nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies
della legge 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini
dell'applicabilità dell'articolo 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze
legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione
di un manufatto su un'area libera, ma anche gli
interventi di ristrutturazione che, in ragione
dell'entità delle modifiche apportate al volume ed
alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera
realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa
da quella preesistente.
---------------
2. - Con il secondo motivo di ricorso si
deduce la violazione degli artt. 112 e segg. c.p.c..
in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 4 e 5.
Secondo parte ricorrente, la Corte d'appello ha
erroneamente indicato che le parti, in primo grado,
non avrebbero allegato che l'opera dei convenuti
integrasse gli estremi di una "nuova costruzione"
ma si sarebbero limitate a qualificare il fatto di
causa come "ampliamento e ristrutturazione",
allegando la circostanza della nuova costruzione per
la prima volta soltanto nel giudizio d'appello,
risultando così preclusa in quanto elemento nuovo.
Al contrario, si deduce che la fattispecie della
radicale trasformazione era stata già indicata
nell'atto di citazione, avendo il fabbricato della
controparte subito una modificazione nella
volumetria, con l'aumento della sagoma di ingombro,
in modo da incidere sulle distanze tra gli edifici
esistenti.
3. - Con il terzo motivo di ricorso si
prospetta la violazione e/o falsa applicazione
dell'art. 873 c.c., dell'art. 9 D.M. n. 1444/1968 e
dell'art. 22 delle N.T.A. del Piano Regolatore del
Comune di Ghedi, in materia di distanze tra edifici
e tra pareti finestrate (art. 360, comma 1, nn. 3 e
5 c.p.c.).
In particolare, si deduce che le lamentate
modificazioni strutturali non potevano in alcun modo
essere considerate come una semplice
ristrutturazione, bensì avrebbero dovuto essere
ritenute come nuova costruzione, con il conseguente
dovere di rispettare le distanze previste dal D.M.
n. 1444/1968 per l'apertura delle vedute.
4. - Il secondo ed il terzo motivo, da
esaminare insieme e con priorità, sono fondati.
Infatti, rientrano nella nozione di
nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies
della legge 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini
dell'applicabilità dell'articolo 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze
legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione
di un manufatto su un'area libera, ma anche gli
interventi di ristrutturazione che, in ragione
dell'entità delle modifiche apportate al volume ed
alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera
realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa
da quella preesistente
(così, Cass. n. 5741/2008, che nella fattispecie al
suo esame ha ritenuto legittima l'applicazione delle
distanze dettata dalla suddetta disposizione
ministeriale per i nuovi edifici, perché il
confinante fabbricato era stato oggetto oltre che di
concessione di ristrutturazione, anche di
ampliamento, e ricostruito in posizione diversa da
quella preesistente; in senso conforme v. Cass. nn.
9637/2006 e 14128/2000).
La Corte distrettuale non si è attenuta né a tale
principio di diritto, né alla corretta
interpretazione del divieto del novum in
appello, lì dove non ha considerato che rispetto
alla radicale ristrutturazione dell'immobile di
proprietà Ar.-Pe., sin dall'inizio lamentata
dall'attore (v. pag. 3 della sentenza d'appello),
l'affermazione che il relativo manufatto edilizio
costituisse una nuova costruzione non introduce in
causa un fatto storico nuovo e diverso, ma qualifica
giuridicamente quello originario ed immutato ai tini
dell'applicazione ad esso della disciplina in
materia di distanze.
E poiché la qualificazione giuridica dei fatti
tempestivamente allegati non soggiace a preclusioni
di sorta, perché esprime una difesa tecnica e non
una deduzione assertiva, la ritenuta tardività di
tale difesa costituisce falsa applicazione del
divieto dei uova in appello.
5. - L'accoglimento del secondo e del terzo motivo
assorbe l'esame del primo motivo, inerente al
regolamento delle spese (Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
sentenza 30.06.2017 n. 16268). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disposizione di cui all'art. 9, secondo comma, del DM del
02.04.1968, n. 1444 (nella parte in cui prevede che gli
edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad una
distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci metri
dalle pareti finestrate) deve applicarsi anche nell’ipotesi
in cui si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò,
considerando sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso
contenute nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in
considerazione del fatto che anche detto manufatto è
suscettibile di integrare la nozione di “fabbricato” e
“costruzione” di cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del
codice civile.
Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del computo
della distanza di dieci metri “non sono computabili ai fini
delle distanze tra edifici solamente:
- gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti alle
caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare);
- le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le
mensole, le lesene, i risalti verticali);
- le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni;
- gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri
manufatti di minima entità. Non possono invece essere
esclusi dal computo delle distanze le pensiline, i balconi e
tutte quelle sporgenze (anche dei generi ora indicati), che
le particolari dimensioni sono destinate anche ad estendere
ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso
abitativo dell'edificio”.
E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata dall'art. 9
D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle pareti
finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili
esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane
intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di
salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed
altro.
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Deve ritenersi non condivisibile la tesi
dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di
specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte
in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla
distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di
servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice
civile.
Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca
orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM
1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione
automatica.
---------------
1. Il ricorso va accolto, risultando fondati sia il primo
che il secondo motivo.
1.1 In primo luogo è necessario premettere che costituisce
circostanza incontestata che il manufatto è posizionato ad
una distanza inferiore ai tre metri rispetto al muro
perimetrale della villetta, così come risulta ad una
distanza inferiore ai dieci metri rispetto alla parete
finestrata del fabbricato sul fondo confinante di proprietà
del Sig. Lo.Ju..
1.2 Ciò premesso è evidente che l’autorizzazione edilizia
diretta a permettere la realizzazione del ripostiglio è
stata adottata in violazione dell’art. 9, secondo comma, del
DM del 02.04.1968, n. 1444, nella parte in cui prevede che
gli edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad
una distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci
metri dalle pareti finestrate.
1.3 Detta distanza deve applicarsi anche nell’ipotesi in cui
si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò, considerando
sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso contenute
nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in considerazione del
fatto che anche detto manufatto è suscettibile di integrare
la nozione di “fabbricato” e “costruzione” di
cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del codice civile.
1.4 Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del
computo della distanza di dieci metri “non sono
computabili ai fini delle distanze tra edifici solamente: -
gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti
alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare); - le parti che hanno
funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le
lesene, i risalti verticali); - le canalizzazioni di gronde
e i loro sostegni; - gli aggetti, gli elementi di ridotte
dimensioni e gli altri manufatti di minima entità. Non
possono invece essere esclusi dal computo delle distanze le
pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze (anche dei
generi ora indicati), che le particolari dimensioni sono
destinate anche ad estendere ed ampliare la parte
concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio
(Cons. Stato Sez. IV, 21.10.2013, n. 5108, Cons. Stato Sez.
V, 13.03.2014, n. 1272 Cass. civ. Sez. II, 24.11.1995, n.
12163)”.
1.5 E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata
dall'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle
pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle
imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di
evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad
areazione, luminosità ed altro.
1.6 Deve ritenersi non condivisibile la tesi
dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di
specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte
in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla
distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di
servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice
civile.
1.7 Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca
orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM
1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione
automatica (per tutti si veda TAR Emilia Romagna-Bologna
Sez. I, 08.07.2016, n. 693, Cons. Stato Sez. IV, 29.02.2016,
n. 856 Cons. Stato Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731 e Cass. civ.
Sez. Unite, 07.07.2011, n. 14953).
1.8 L’autorizzazione di cui si tratta è stata adottata anche
in violazione dell’art. 873 del codice civile nella parte in
cui prevede che le costruzioni tra fondi finitimi devono
essere tenute ad una distanza non inferiore a tre metri,
disposizione quest’ultima suscettibile di essere derogata
solo prevedendo una distanza superiore.
2. In conclusione il ricorso è fondato e va accolto, con
conseguente annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 98
del 04.04.2002
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.06.2017 n. 785
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette
distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi
per gruppi di edifici che siano oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di
“previsioni planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel
disciplinare la realizzazione ex novo o la sistemazione
integrale di un insieme di edifici un piano di natura
esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e
accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi
igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10
metri.
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che
il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale
“da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio
unitario”.
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche la
lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella parte
in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza possa
derivare solo da uno strumenti pianificatorio che contenga
“previsioni planovolumetriche”, ossia previsioni progettuali
che evidenzino congiuntamente la planimetria ed il volume
dei fabbricati presi in considerazione attraverso la
proiezione in mappa delle relative ombre; posto che solo in
tal modo risulta possibile operare una verifica concreta sul
fatto se un distacco inferiore a quello standard di 10 m.
possa nuocere alle esigenze di salubrità ed areazione degli
edifici frontistanti.
---------------
E’ fondata la
prospettazione difensiva delle parti intimate che fa leva
sulla non applicabilità degli obblighi di distanza prevista
dall’art. 879 c.c. per le costruzioni al confine con vie e
con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si
riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non
semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la
stessa non trova applicazione all’obbligo di distanza fra
pareti finestrate previsto dall’art. 9 del D.M. 1444 del
1968 in quanto tale obbligo non attiene solo ad una
dimensione intersoggettiva di regolamentazione dei rapporti
fra proprietà finitime ma è posto a presidio del preminente
interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico
intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che
trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e
regolamenti urbanistico-edilizi fra cui il citato D.M..
---------------
Nel merito sia il comune di Grosseto che la
controinteressata osservano:
1) che l’impugnata variante avrebbe la consistenza di piano
particolareggiato dotato di previsioni planivolumetriche per
ciascun isolato e, come tale, ben avrebbe potuto contenere
previsioni derogatorie rispetto all’obbligo di distanza di
10 metri fra pareti finestrate in forza della previsione di
cui alla seconda parte del comma 1 dell’art. 9 del D.M. 1444
del 1968.
2) che essendo l’edificio oggetto dell’impugnato permesso
confinante con un passaggio pubblico previsto dalla variante
esso non era tenuto al rispetto delle distanze legali in
forza della previsione di cui all’art. 879 c.c.
Entrambe le deduzioni difensive sono prive di fondamento.
Il comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette
distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi
per gruppi di edifici che siano oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di “previsioni
planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel
disciplinare la realizzazione ex novo o la
sistemazione integrale di un insieme di edifici un piano di
natura esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e
accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi
igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10
metri (TAR Brescia 730/2011).
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che
il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale “da
definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio
unitario” (Corte Cost. 24/02/2017 n. 41).
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche
la lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella
parte in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza
possa derivare solo da uno strumenti pianificatorio che
contenga “previsioni planovolumetriche”, ossia
previsioni progettuali che evidenzino congiuntamente la
planimetria ed il volume dei fabbricati presi in
considerazione attraverso la proiezione in mappa delle
relative ombre; posto che solo in tal modo risulta possibile
operare una verifica concreta sul fatto se un distacco
inferiore a quello standard di 10 m. possa nuocere alle
esigenze di salubrità ed areazione degli edifici
frontistanti.
Nel caso di specie la tavole della variante riferite alla
zona omogenea B2 (isolato 29, lotto 3 nel quale sono
compresi gli edifici di cui al ricorso – doc. 6 del
fascicolo dell’amministrazione) contengono una
rappresentazione “solo in pianta” dei fabbricati
esistenti al momento della loro redazione e l’indicazione
astratta dei volumi realizzabili in ampliamento, la cui
collocazione, tuttavia, non è graficamente sviluppata
attraverso una rappresentazione planovolumetrica.
Non risulta, quindi, raggiunto il livello di dettaglio
progettuale previsto dal comma 2 dell’art. 9 del D.M. 1444
del 1968 ai fini della derogabilità degli obblighi di
distanza previsti dai commi precedenti.
E’ altresì fondata la prospettazione difensiva delle parti
intimate che fa leva sulla non applicabilità degli obblighi
di distanza prevista dall’art. 879 c.c. per le costruzioni
al confine con vie e con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si
riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non
semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la
stessa, secondo un costante orientamenti giurisprudenziale
che il Collegio condivide, non trova applicazione
all’obbligo di distanza fra pareti finestrate previsto
dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 in quanto tale obbligo
non attiene solo ad una dimensione intersoggettiva di
regolamentazione dei rapporti fra proprietà finitime ma è
posto a presidio del preminente interesse pubblico ad un
ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle
piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina
esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi
fra cui il citato D.M. (TAR Palermo, sez. III, 17/10/2012,
n. 2049; TAR Genova (Liguria) sez. I 20.07.2011 n. 1148; TAR
Brescia, sez. I 03.07.2008 n. 788).
Alla luce di quanto sopra specificato occorre quindi
concludere nel senso che la impugnata variante del comparto
C.1 di Marina di Grosseto è illegittima in parte qua
(con specifico riferimento ai lotti in cui insistono le
proprietà dei ricorrenti e della controinteressata) nel
punto in cui consente la realizzazione di interventi di
ricostruzione con maggiore volumetria ad una distanza
inferiore a quella prevista dall’art. 9 del D.M. 1444 del
1968, posto che tale tipologia di interventi, essendo
inquadrabile nella categoria della nuova costruzione, deve
rispettare gli obblighi di distanza legale (Cass. 20/08/2015
n. 17043).
Parimenti illegittimo (per derivazione) deve ritenersi
l’impugnato permesso di costruire rilasciato in sua
attuazione.
Il ricorso deve, quindi, essere accolto in relazione alla
domanda di annullamento dei predetti atti, mentre è
inammissibile con riferimento alla domanda di condanna della
controinteressata alla demolizione del manufatti
illegittimamente autorizzato posto che la stessa esula dalla
giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di atti e
comportamenti della p.a. afferenti il governo del territorio
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.06.2017 n. 776 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Le distanze tra edifici e le superfici coperte.
DOMANDA:
Definizione di superficie coperta, definizione di distanze,
definizione di bow window. Le NTA del PRG vigente di
questo comune definiscono la superficie coperta quale la
massima sezione orizzontale del fabbricato con esclusione di
scale a giorno, di aggetti a giorno, di bow window e
di porticati purché in tutti i casi menzionati ci si trovi
senza sovrastante costruzione e interessanti non più di ml.
1,50.
Inoltre, sempre le NTA, stabiliscono che le distanze dalle
strade e dai confini devono essere misurate dall'ingombro
della superficie coperta, così come sopra definita, quindi
ad esclusione delle scale a giorno, di aggetti a giorno, di
bow window, ecc. …..
Si chiede se possa essere positivamente valutata una istanza
nella quale viene proposto un “bow window”, ovvero un
allargamento aggettante verso l’esterno di un solo piano del
fabbricato rispetto la muratura perimetrale portante per
1,50 mt., lasciando libera tale sporgenza da sovrastanti e
sottostanti costruzioni in rispetto delle NTA sopra
riportate.
Tale allargamento aggettante sarebbe comunque parte
integrante degli ambienti interni dell’edificio, senza
distinzione o separazione tra la parte “aggettante – bow
window” e la rimanente parte interna delle stanze.
In conseguenza di ciò il fabbricato proposto avrebbe una
parte, ovvero quella definita “bow window”, che oltre
a non essere calcolata ai fini della superficie coperta,
sarebbe anche posta ad una distanza dai confini e dalle
strade inferiore ai 5 metri.
RISPOSTA:
Si ritiene opportuno premettere che per “bow window”
si intende quel tipo di balcone chiuso sporgente per uno o
più piani dalla facciata di un edificio, e interamente
unito, mediante una grande apertura, all’ambiente interno
corrispondente, del quale costituisce parte integrante.
Ciò premesso si rileva che le distanze previste dall’art. 9
del DM n. 1444 sono in genere ritenute inderogabili
trattandosi di norme di interesse pubblico sotto il profilo
igienico-sanitario e tali sono state considerate anche in
giurisprudenza per quanto riguarda in particolare i bow
windows (v. TAR Lombardia, Milano, n. 2187/2011).
E’ stato inoltre affermato che per il calcolo della distanza
legale tra gli edifici è necessario valutare la tipologia
dei manufatti: al riguardo con l’ordinanza del n. 424 del
27.01.2010, il Consiglio di Stato ha stabilito, in
sostanziale conferma di quella cit. del TAR, che ai fini del
calcolo delle distanze legali dai confini: “devono
computarsi le parti dell’edificio quali scale, terrazze e
corpi avanzati che, seppur non corrispondano a volumi
abitativi coperti, siano destinati ad estendere e ampliare
la consistenza del fabbricato; mentre non sono computabili
le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione
meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di
limitata entità, come le mensole, i cornicioni, le grondaie
e simili”.
Il Consiglio di Stato ha anche ribadito, richiamandosi alla
sentenza della Cassazione Civile n. 19544/2009, che il
limite di tre metri previsto dall’art. 873 c.c. come
distanza minima dalle costruzioni, non può essere derogato
da fonti normative secondarie quali i regolamenti comunali.
Resta invece ammissibile per queste fonti secondarie “stabilire
distanze maggiori” ai sensi del comma 7 e 9 dell’art.
873 c.c. seconda parte e/o anche determinare “punti di
riferimento, per la misurazione delle distanze, diversi da
quelli indicati dal codice civile, escludendo taluni
elementi della costruzione dal calcolo delle più ampie
distanze previste in sede regolamentare”.
Viene infatti precisato che gli oggetti presenti
sull'edificio non possono considerarsi meri elementi
decorativi, al contrario, estendendo il volume edificatorio,
e che quindi costituiscono corpo di fabbrica e, come tali,
da dover essere conteggiati nel calcolo della distanza (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
marzo 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA: La
pronuncia del giudice amministrativo, investito della
domanda di annullamento della licenza, concessione o
permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti
dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità
dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero
concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al
rapporto fra il privato e la P.A., sicché non ha efficacia
di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di
fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto
di proprietà determinata dalla violazione della normativa in
tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di
interessi generali ma anche della posizione soggettiva del
privato.
Invero, trattasi di una piana
applicazione del generale principio affermato da tempo per
il quale le controversie tra proprietari di fabbricati
vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono
distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini
appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza
che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo
all'attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere
valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario
attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del
provvedimento amministrativo, salvo che la domanda
risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A.
(nella specie, il Comune) per far valere
l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo
in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo.
L'eventuale accertamento della legittimità
del titolo abilitativo della costruzione da parte del
giudice amministrativo non preclude una diversa valutazione
dell'illegittimità della condotta del privato nella
controversia intentata da altro privato a tutela del diritto
di proprietà, sicché la decisione gravata, avendo fatto
puntuale applicazione dei suesposti principi non appare
meritevole di censura.
---------------
Quanto invece alla
dedotta erronea applicazione delle previsioni di legge e
regolamentari in materia di distanza, il tenore delle norme
di cui allo strumento urbanistico locale non consente sulla
base della loro formulazione letterale di ritenere che il
loro ambito applicativo sia limitato alle sole costruzioni
aventi carattere principale.
Il richiamo alla nozione di edifici di
nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una
puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici
aventi carattere cd. accessorio,
come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti,
non consente di optare per un'interpretazione che ne
limiti l'applicazione ai soli edifici aventi carattere
principale, posto che anche i manufatti di più contenute
dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere
la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono
evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di
cui all'art. 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente
infissi al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza
dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che
la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni,
intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di
costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa
Corte.
D'altronde, proprio la carenza di una
specifica disciplina impone di ritenere
come già affermato in passato che
la nozione di costruzione, agli effetti
dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da
parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del
computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi
contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola
facoltà di stabilire una "distanza maggiore".
Ne discende che, una volta ricondotti gli
edifici accessori al novero delle costruzioni in senso
civilistico e nell'accezione propria della disciplina in
materia di distanze, le previsioni regolamentari che
prevedono un distacco tra costruzioni risultano
evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che,
anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato
una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi
illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali
quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in
materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra
richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a
quelle di legge.
---------------
La previsione di un'area di distacco mira essenzialmente ad
assicurare il rispetto delle distanze tra fabbricati
edificati su fondi finitimi ed appartenenti a diversi
proprietari, non potendosi ravvisare l'illegittimità dal
punto di vista privatistico, per costruzioni realizzate
eventualmente a distanza inferiore a quella legale o
regolamentare sul fondo di un unico proprietario
(per un riferimento a tale regola si veda Cass. n.
1918/1973, a mente della quale il principio
della prevenzione -in base al quale, fra due proprietari di
fondi finitimi, colui che costruisce per primo può o
edificare sul confine o a distanza dal confine non inferiore
a quella legale oppure a distanza inferiore, costringendo il
vicino, che costruisce per secondo, a ristabilire la
distanza legale edificando dal confine a distanza maggiore
della meta di quella prescritta, a meno che non voglia
avanzare la propria fabbrica fino all'altrui costruzione,
giovandosi dei rimedi offertigli dall'art. 875 cod. civ.-
presuppone un rapporto intersoggettivo, opera tra
proprietari di fondi finitimi e non è ipotizzabile come
attributo della costruzione con caratteri di realità).
D'altronde essendo la proprietà di entrambi i fabbricati,
principale ed accessorio, in capo all'attore, i ricorrenti
non sono legittimati a dolersi della violazione delle
distanze tra le due opere.
Quanto invece alla pretesa
violazione della previsione regolamentare che nega la
possibilità di costruire nelle zone di distacco, la stessa
si riverbera nei soli rapporti con la PA, e determina quindi
l'illegittimità dell'opus dal punto di vista amministrativo,
ma non incide sulla diversa disciplina in tema di distanze,
e sulla possibilità anche per il titolare della costruzione
illegittima dal punto di vista amministrativo di pretendere
il rispetto delle distanze legali,
essendo tale conclusione una piana applicazione del
su riferito principio dell'autonomia tra profili
pubblicistici dell'attività edificatoria e rapporti
interprivatistici.
Ne consegue che anche laddove una parte del
manufatto a carattere accessorio sia collocato nell'area di
distacco prevista per il fabbricato principale, la
violazione della norma regolamentare legittima se del caso
la reazione della PA, ma non esclude che si tratti sempre di
costruzione preveniente, rispetto alla quale l'edificio dei
ricorrenti doveva porsi a distanza legale.
---------------
2. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la
violazione di legge e precisamente la violazione e falsa
applicazione degli artt. 15 e ss. delle NTA del PRG del
Comune di Cassino, nonché la violazione e falsa applicazione
della voce 17 dell'art. 23 del regolamento edilizio, e la
violazione e falsa applicazione dell'art. 41-quinquies della
legge n. 1150 del 1942 e dell'art. 9 del DM n. 1444 del 1968
e dell'art. 873 c.c., nonché l'insufficiente e
contraddittoria motivazione della sentenza.
Si dolgono i ricorrenti che la Corte territoriale abbia
ritenuto sussistente la violazione delle distanze tra
fabbricati anche in relazione al fabbricato cd. accessorio
di parte attrice, sebbene gli artt. 15 e ss. citati
stabiliscano il rispetto delle distanze solo per gli edifici
a carattere principale.
In assenza di una specifica disciplina contenuta negli
strumenti urbanistici locali avrebbe dovuto quindi trovare
applicazione la previsione di cui all'art. 9 del menzionato
DM che, prevedendo una distanza di metri 10 tra pareti
finestrate, avrebbe comportato la legittimità della
costruzione dei ricorrenti, in quanto posta a distanza
maggiore.
Lo stesso Tar del Lazio nella sentenza pronunziata in merito
all'impugnativa della concessione avanzata da parte del Co.,
aveva manifestato il convincimento circa l'inapplicabilità
del regime delle distanze previste dallo strumento
urbanistico locale in relazione all'edificio avente
carattere accessorio, sicché la Corte d'Appello non avrebbe
potuto decidere trascurando la rilevanza di giudicato
esterno di tale provvedimento giurisdizionale.
Il motivo è infondato.
Ed, invero, partendo dall'ultima affermazione di parte
ricorrente relativa all'efficacia vincolante della pronuncia
del giudice amministrativo, e ricordato che si tratta di
statuizione emessa in relazione all'impugnativa della
concessione edilizia rilasciata in favore dei ricorrenti e
concernente il fabbricato oggetto di causa, giova richiamare
la giurisprudenza di questa Corte a mente della quale (cfr.
Cass. n. 9869/2015) la pronuncia del
giudice amministrativo, investito della domanda di
annullamento della licenza, concessione o permesso di
costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi),
ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del
potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il
profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e
la P.A., sicché non ha efficacia di giudicato nelle
controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini,
aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà
determinata dalla violazione della normativa in tema di
distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi
generali ma anche della posizione soggettiva del privato.
Ed, invero, trattasi di una piana
applicazione del generale principio affermato da tempo per
il quale (cfr.
Cass. S.U. n. 13673/2014) le controversie
tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza
di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o
rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del
giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del
titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui
legittimità potrà essere valutata "incidenter tantum"
dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di
disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che
la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti
della P.A. (nella
specie, il Comune) per far valere
l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo
in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo
(in termini ex multis Cass. n. 13170/2001; Cass. S.U.
n. 333/1999).
L'eventuale accertamento della legittimità
del titolo abilitativo della costruzione da parte del
giudice amministrativo non preclude una diversa valutazione
dell'illegittimità della condotta del privato nella
controversia intentata da altro privato a tutela del diritto
di proprietà, sicché la decisione gravata, avendo fatto
puntuale applicazione dei suesposti principi non appare
meritevole di censura.
Quanto invece alla dedotta erronea applicazione delle
previsioni di legge e regolamentari in materia di distanza,
il tenore delle norme di cui allo strumento urbanistico
locale non consente sulla base della loro formulazione
letterale di ritenere che il loro ambito applicativo sia
limitato alle sole costruzioni aventi carattere principale.
Il richiamo alla nozione di edifici di
nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una
puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici
aventi carattere cd. accessorio,
come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti,
non consente di optare per un'interpretazione che ne
limiti l'applicazione ai soli edifici aventi carattere
principale, posto che anche i manufatti di più contenute
dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere
la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono
evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di
cui all'art. 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente
infissi al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza
dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che
la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni,
intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di
costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa
Corte (cfr. Cass.
n. 5753/2014).
D'altronde, proprio la carenza di una
specifica disciplina impone di ritenere
come già affermato in passato che
(cfr. da ultimo Cass. n. 144/2016) la
nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è
unica e non può subire deroghe da parte delle norme
secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle
distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai
regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di
stabilire una "distanza maggiore".
Ne discende che, una volta ricondotti gli
edifici accessori al novero delle costruzioni in senso
civilistico e nell'accezione propria della disciplina in
materia di distanze, le previsioni regolamentari che
prevedono un distacco tra costruzioni risultano
evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che,
anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato
una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi
illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali
quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in
materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra
richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a
quelle di legge.
Il motivo deve quindi essere disatteso.
3. Con il secondo motivo si denunzia l'insufficiente
e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata,
nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e
29 del regolamento edilizio del Comune di Cassino.
Assume parte ricorrente che la Corte d'Appello ha omesso di
rilevare l'illegittimità del manufatto cd. accessorio
dell'attore, in quanto situato nell'area di distacco che
occorreva rispettare in relazione al fabbricato principale,
area nella quale gli strumenti urbanistici vietano
qualsivoglia costruzione (art. 29 regolamento edilizio che
prevede solo la realizzazione di giardini, parcheggi e rampe
di accesso).
La motivazione della sentenza sarebbe altresì insufficiente,
in quanto per giustificare la legittimità del manufatto
rispetto al quale sono state valutate le distanze del
fabbricato dei ricorrenti, si è affermato che lo stesso si
trovava "per larga parte" al di fuori dell'area che
costituisce il distacco ideale, riconoscendosi quindi che
parte di esso si colloca all'interno della detta area di
distacco, risultando pertanto illegittimo.
Anche tale motivo è ad avviso del Collegio privo di
fondamento.
La Corte d'appello ha in primo luogo ribadito che fabbricato
preveniente era quello di parte attrice, il quale all'epoca
della sua realizzazione doveva solo attenersi alla distanza
dal confine (distanza che non risulta del tutto rispettata,
ma la questione esula dal presente giudizio, non avendo i
convenuti lamentato la violazione delle distanze ad opera
della costruzione di parte attrice).
Quanto al fabbricato cd. accessorio del Co., di cui non si
denunzia la violazione delle norme dal confine, la sentenza
ha ritenuto che lo stesso fosse posto in una zona del fondo
per la quale le distanze dal confine dell'edificio
principale erano ampiamente rispettate e che risultava
pertanto in massima parte al di fuori dell'area di distacco
quale imposta dallo strumento urbanistico.
Ritiene però la Corte che anche l'eventuale realizzazione in
parte del manufatto in oggetto all'interno dell'area di
distacco non possa determinare un esito diverso della
controversia.
Ed, infatti, la previsione di un'area di
distacco mira essenzialmente ad assicurare il rispetto delle
distanze tra fabbricati edificati su fondi finitimi ed
appartenenti a diversi proprietari, non potendosi ravvisare
l'illegittimità dal punto di vista privatistico, per
costruzioni realizzate eventualmente a distanza inferiore a
quella legale o regolamentare sul fondo di un unico
proprietario (per
un riferimento a tale regola si veda Cass. n. 1918/1973, a
mente della quale il principio della
prevenzione -in base al quale, fra due proprietari di fondi
finitimi, colui che costruisce per primo può o edificare sul
confine o a distanza dal confine non inferiore a quella
legale oppure a distanza inferiore, costringendo il vicino,
che costruisce per secondo, a ristabilire la distanza legale
edificando dal confine a distanza maggiore della meta di
quella prescritta, a meno che non voglia avanzare la propria
fabbrica fino all'altrui costruzione, giovandosi dei rimedi
offertigli dall'art. 875 cod. civ.- presuppone un rapporto
intersoggettivo, opera tra proprietari di fondi finitimi e
non è ipotizzabile come attributo della costruzione con
caratteri di realità).
D'altronde essendo la proprietà di entrambi i fabbricati,
principale ed accessorio, in capo all'attore, i ricorrenti
non sono legittimati a dolersi della violazione delle
distanze tra le due opere.
Quanto invece alla pretesa violazione della
previsione regolamentare che nega la possibilità di
costruire nelle zone di distacco, la stessa si riverbera nei
soli rapporti con la PA, e determina quindi l'illegittimità
dell'opus dal punto di vista amministrativo, ma non
incide sulla diversa disciplina in tema di distanze, e sulla
possibilità anche per il titolare della costruzione
illegittima dal punto di vista amministrativo di pretendere
il rispetto delle distanze legali
(cfr. Cass. n. 17339/2003; Cass. n. 10850/1998),
essendo tale conclusione una piana applicazione del
su riferito principio dell'autonomia tra profili
pubblicistici dell'attività edificatoria e rapporti
interprivatistici.
Ne consegue che anche laddove una parte del
manufatto a carattere accessorio sia collocato nell'area di
distacco prevista per il fabbricato principale, la
violazione della norma regolamentare legittima se del caso
la reazione della PA, ma non esclude che si tratti sempre di
costruzione preveniente, rispetto alla quale l'edificio dei
ricorrenti doveva porsi a distanza legale
come appunto disposto dalla Corte distrettuale
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 16.03.2017 n. 6855). |
EDILIZIA PRIVATA: Possibilità di ridurre le distanze tra edifici.
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, comma
6, l.reg. Liguria 02.04.2015, n. 11, censurato per violazione dell’art.
117, comma 3, Cost., in quanto la possibilità di ridurre le distanze tra
edifici anche nei confronti di edifici ubicati all’esterno del perimetro del
PUO contrasterebbe con l’art. 2-bis TUE e invaderebbe la sfera di competenza
legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento civile».
La norma impugnata rientra nell’ambito applicativo dell’art. 2-bis TUE,
giacché, nel disciplinare i «limiti di conformità» del piano operativo
rispetto a quello strategico, consente al PUO di derogare alle distanze
previste nel PUC, il quale a sua voltain forza dell’art. 29-quinquies, comma
1, lett. b), l.reg. Liguria 04.09.1997, n. 36, anch’esso inserito
dall’art. 34, comma 1, l.reg. n. 11 del 2015, ma non impugnato«potrebbe
averle fissate in misura anche inferiore a quanto previsto nel d.m. n. 1444
del 1968.
Inoltre, la possibilità di derogare alle distanze minime è accordata con la
necessaria garanzia dell’intermediazione dello strumento urbanistico e al
fine di conformare in modo omogeneo l’assetto di una specifica zona del
territorio (circoscritta, per l’appunto, agli edifici ricompresi nel PUO), e
non con riferimento a tipi di interventi edilizi singolarmente considerati
(ristrutturazioni, sopraelevazioni, recupero di sottotetti, ed altro).
La previsione regionale non risulta priva di riferimento a specifiche
esigenze del territorio neppure nella parte in cui dispone che la riduzione
delle distanze è «applicabile anche nei confronti di edifici ubicati
all’esterno del perimetro del PUO», trovando tale inciso giustificazione nel
fatto che il territorio comunale viene ripartito in plurimi ambiti (di
conservazione, di riqualificazione, di completamento) e distretti (di
trasformazione), con la conseguente necessità che sia disciplinata anche la
distanza tra un edificio ricompreso nel perimetro di uno strumento operativo
e un edificio “frontista” rispetto al primo, ma esterno a quel perimetro e
ricadente in altro ambito o distretto.
Anche in questa parte, pertanto, la disposizione regionale è conforme alla
disciplina statale, in quanto, da un lato, condiziona l’operatività del suo
precetto alla presenza di uno strumento urbanistico, dall’altro lato
autorizza la riduzione delle distanze solo se essa è idonea ad assicurare un
«equilibrato assetto urbanistico e paesaggistico in relazione alle tipologie
degli interventi consentiti e tenuto conto degli specifici caratteri dei
luoghi e dell’allineamento degli immobili già esistenti» (sentt. nn. 232 del
2005, 114 del 2012, 6 del 2013, 134 del 2014, 178, 185, 231 del 2016; ord.
n. 173 del 2011)
(Corte Costituzionale,
sentenza 10.03.2017 n. 50
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il prevalente orientamento di questa
Corte l'espressione di cui all'art. 873 c.c., che disciplina
le distanze tra costruzioni su "fondi finitimi", non va
intesa in senso letterale di fondi confinanti, ma in quello
di fondi "vicini".
Infatti quando il codice ha inteso riferirsi a fondi
-confinanti" ha sempre usato l'attributo "finitimo" e non
anche quello "contiguo" e che l'art. 873 c.c. riguardi anche
fondi non confinanti si desume dal contenuto dell'art. 879
c.c., nel quale sono escluse dall'osservanza della distanza
legale le costruzioni a confine con piazze o vie
pubbliche;i1 che, implicitamente, porta ad ammettere
l'applicabilità della norma dell'art. 873 alle costruzioni
su fondi confinanti con vie private o, comunque, con terreo
comune o altrui.
Costituisce del resto consolidato principio della
giurisprudenza di questa Corte quello per cui l'obbligo del
rispetto delle distanze da osservarsi nelle costruzioni
esistenti, previsto dall'art. 873 c.c. o dallo strumento
urbanistico locale, ad integrazione della predetta norma del
codice civile, è preordinato al fine di prevenire che tra
gli edifici privati esistenti o da edificarsi "su fondi
finitimi" (ovverossia "vicini" e non "confinanti") si
formino strette ed insalubri intercapedini tali da
ostacolare il godimento dell'aria e della luce, oltre che il
favorire del propagarsi di incendi.
Le ragioni igieniche ispiratrici della norma, aventi
finalità pubblicistiche, non vengono dunque meno né quando
tra gli edifici posti a distanza minore di quella legale vi
sia una zona di terreno comune alle stesse parti, né quando
detta zona sia di proprietà di un terzo estraneo alla lite.
---------------
Secondo il consolidato indirizzo di questa Corte
nell'ipotesi di fondi non confinanti, in quanto tra i fondi
suddetti intercorra una striscia di terreno di proprietà di
un terzo, di larghezza inferiore a quella legale, non opera
il principio della prevenzione, atteso che non è
oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione
"sul confine", secondo la disciplina degli artt. 874-877
c.c., in quanto quella eretta sulla demarcazione tra ciascun
fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro
fondo, come distaccata dal confine.
In tale situazione deve escludersi l'attuazione del diritto
di prevenzione, nella forma della costruzione sul confine e
deve affermarsi l'applicazione della disciplina delle
costruzioni "con distacco".
---------------
Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano la
violazione e falsa applicazione degli artt. 873 c.c. e 16
Reg. edilizio del Comune di San Giovanni in Persiceto,
dell'art. 4 delle NTA del PRG e del principio di
prevenzione, deducendo che le disposizioni sulle distanze
dovevano ritenersi applicabili alle sole superfici coperte
confinanti, situazione non ravvisabile nel caso di specie.
Deducono inoltre che la legittimità della sopraelevazione
derivava dal fatto che essa era stata eseguita su quanto in
precedenza edificato in aderenza all'edificio di Sc.Od.,
sulla base di un progetto unitario presentato da tutti i
proprietari interessati, vale a dire essi ricorrenti e
Sc.Od., con esclusione di Sc.Gi. che non era confinante.
Pure tale motivo è infondato.
Secondo il prevalente orientamento di questa Corte
l'espressione di cui all'art. 873 c.c. che disciplina le
distanze tra costruzioni su "fondi finitimi" non va
intesa in senso letterale di fondi confinanti, ma in quello
di fondi "vicini".
Infatti quando il codice ha inteso riferirsi a fondi
"confinanti" ha sempre usato l'attributo "finitimo" e
non anche quello "contiguo" e che l'art. 873 c.c.
riguardi anche fondi non confinanti si desume dal contenuto
dell'art. 879 c.c., nel quale sono escluse dall'osservanza
della distanza legale le costruzioni a confine con piazze o
vie pubbliche;i1 che, implicitamente, porta ad ammettere
l'applicabilità della norma dell'art. 873 alle costruzioni
su fondi confinanti con vie private o, comunque, con terreo
comune o altrui (Cass. 627/2003).
Costituisce del resto consolidato principio della
giurisprudenza di questa Corte quello per cui l'obbligo del
rispetto delle distanze da osservarsi nelle costruzioni
esistenti, previsto dall'art. 873 c.c. o dallo strumento
urbanistico locale, ad integrazione della predetta norma del
codice civile, è preordinato al fine di prevenire che tra
gli edifici privati esistenti o da edificarsi "su fondi
finitimi" (ovverossia "vicini" e non "confinanti")
si formino strette ed insalubri intercapedini tali da
ostacolare il godimento dell'aria e della luce, oltre che il
favorire del propagarsi di incendi.
Le ragioni igieniche ispiratrici della norma, aventi
finalità pubblicistiche, non vengono dunque meno né quando
tra gli edifici posti a distanza minore di quella legale vi
sia una zona di terreno comune alle stesse parti, né quando
detta zona sia di proprietà di un terzo estraneo alla lite
(Cass. 3849/1978; 1015/1983; 627/2003 e da ultimo
5154/2012).
Del pari infondata la dedotta violazione del c.d. principio
di prevenzione.
Ed invero secondo il consolidato indirizzo di questa Corte
nell'ipotesi di fondi non confinanti, in quanto tra i fondi
suddetti intercorra una striscia di terreno di proprietà di
un terzo, di larghezza inferiore a quella legale, non opera
il principio della prevenzione, atteso che non è
oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione "sul
confine", secondo la disciplina degli artt. 874-877
c.c., in quanto quella eretta sulla demarcazione tra ciascun
fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro
fondo, come distaccata dal confine.
In tale situazione deve escludersi l'attuazione del diritto
di prevenzione, nella forma della costruzione sul confine e
deve affermarsi l'applicazione della disciplina delle
costruzioni "con distacco" (Csss. Ss.Uu. 5349/1982 e
Cass. 627/2003).
Si osserva peraltro che nel caso di specie non si pone un
problema di prevenzione tra costruzioni, posto che la
dedotta violazione deriva non già dall'ampliamento
originario, ma dalla soprelevazione successivamente
eseguita.
I ricorrenti non possono inoltre giovarsi, contrariamente a
quanto da essi dedotto, della disposizione di cui all'art. 4
norma attuazione del PRG del Comune di San Giovanni in
Persiceto, che al punto 3 stabilisce che:
- nel caso di edifici preesistenti costruiti a muro cieco sul
confine, le nuove costruzioni possono essere edificate in
aderenza;
- nel caso di due o più lotti contigui, la costruzione in aderenza
è concessa a condizione che sia presentato dai proprietari
un progetto unitario equivalente a vincolo reciproco di
costruire in aderenza.
La citata disposizione non consentiva infatti ai ricorrenti
di sopraelevare, mediante la presentazione di un progetto
unitario a vincolo reciproco di costruire in aderenza, senza
il consenso di Sc.Gi., quale proprietario del secondo piano,
frontistante la soprelevazione dei ricorrenti, non essendo
al riguardo sufficiente il consenso prestato dall'altro
fratello Sc.Od. (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 08.03.2017 n. 5874). |
febbraio 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Deroga
alla disciplina statale della distanza tra fabbricati: la
Consulta censura la legge del Veneto.
La deroga regionale alla disciplina della distanza minima
tra fabbricati, realizzata dagli strumenti urbanistici, è
legittima se fa riferimento ad una pluralità di fabbricati
ed è fondata su previsioni planovolumetriche.
---------------
La disciplina delle distanze fra costruzioni ha la
sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del
Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata
appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e
scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”.
«Tale disciplina, ed in particolare
quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più
specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai
rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può
pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per
quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia
dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva
dello Stato».
Nondimeno, si è altresì sottolineato, che
quando i fabbricati insistono su di un territorio che può
avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche–
specifiche caratteristiche, «la disciplina che li
riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel
territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti
interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui
cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni perché
attratta all’ambito di competenza concorrente del governo
del territorio.
---------------
In questa cornice si è dunque affermato che «alle
Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze
minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione
che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque,
se da un lato non può essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra
gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento
civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il
governo del territorio− che ne detta anche le modalità di
esercizio».
Nel delimitare i rispettivi ambiti di
competenza −statale in materia di «ordinamento civile»
e concorrente in materia di «governo del territorio»−
questa Corte ha individuato il punto di equilibrio
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più
volte ritenuto dotato di particolare «efficacia
precettiva e inderogabile», in quanto richiamato
dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall’art.
17 della legge 06.08.1967, n. 765.
Pertanto, è stata giudicata legittima la
previsione regionale di distanze in deroga a quelle
stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche».
In definitiva, le deroghe all’ordinamento
civile delle distanze tra edifici sono consentite «se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio»,
poiché «la
loro legittimità è strettamente connessa agli assetti
urbanistici generali e quindi al governo del territorio,
non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente
considerati».
---------------
I medesimi principi sono stati
ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE,
da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69
(Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione,
infatti, ha sostanzialmente recepito
l’orientamento della giurisprudenza costituzionale,
inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi
fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le
Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m.
n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a
condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio».
La deroga alla disciplina delle
distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in
conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia
riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di
edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche
che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da
definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio
unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
---------------
Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi
coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte
dalla Corte e ribadite dal disposto di cui all’art 2-bis del
TUE, il riferimento che la norma impugnata reca ai
piani urbanistici attuativi (PUA), assimilabili ai
piani particolareggiati o di lottizzazione e dunque
riconducibili a quella tipologia di atti menzionati
nell’art. 9, ultimo comma del d.m. n. 1444 del 1968, più
volte richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di
derogare al regime delle distanze.
D’altro canto la stessa giurisprudenza di questa Corte ha
stabilito che la deroga alle distanze
minime potrà essere contenuta, oltre che in piani
particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento
urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e
delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione
dettagliata e definita degli interventi.
Ne consegue che devono ritenersi
ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani
urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di
attivare le deroghe in esame, dall’art. 2-bis del TUE, in
linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa
Corte.
---------------
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso
questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma
1, lettera a), della legge della Regione Veneto 16.03.2015,
n. 4 (Modifiche di leggi regionali e disposizioni in materia
di governo del territorio e di aree naturali protette
regionali), per violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera l), della Costituzione, in riferimento all’art.
2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante «Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia (Testo A)» (d’ora in avanti TUE), che ammette
deroghe al decreto del ministro dei lavori pubblici
02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e
rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da
osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765).
Secondo il ricorrente, il citato art. 8, comma 1, della
legge regionale del Veneto n. 4 del 2015, avrebbe demandato
allo strumento urbanistico generale la fissazione dei limiti
di densità, altezza e distanza tra fabbricati, in deroga a
quelli stabiliti dall’ordinamento statale, in una serie di
ipotesi elencate.
È censurato, in particolare, l’art. 8, comma 1, lettera a),
della legge regionale, nella parte in cui stabilisce che lo
strumento urbanistico generale possa derogare: «nei casi
di cui all’articolo 17, comma 3, lettere a) e b), della
legge regionale 23.04.2004, n. 11 “Norme per il governo del
territorio e in materia di paesaggio”, con riferimento ai
limiti di distanza da rispettarsi all’interno degli ambiti
dei piani urbanistici attuativi (PUA) e degli ambiti degli
interventi disciplinati puntualmente». La disposizione
contrasterebbe con l’art. 2-bis del TUE, in quanto gli
strumenti per disporre le deroghe risulterebbero
eccessivamente generici e indeterminati.
2.– Preliminarmente, va precisato che la questione di
legittimità costituzionale ha ad oggetto esclusivamente
l’art. 8, comma 1, lettera a), che consente deroghe alla
disciplina statale limitatamente al regime delle distanze.
Il contenuto del ricorso impone, infatti, di ritenere che
detta norma è stata impugnata solamente nella parte in cui
deroga alla disciplina delle distanze; ciò, peraltro, in
armonia con la deliberazione governativa di impugnazione
della legge che fa espresso riferimento alla sola «norma
contenuta nell’art. 8, comma 1, lettera a)».
3.– Non è fondata l’eccezione di inammissibilità per difetto
di interesse sollevata dalla Regione Veneto, motivata
dall’identità di contenuto che la norma censurata avrebbe
rispetto all’art. 17, comma 3, della legge regionale n. 11
del 2004, disposizione quest’ultima mai impugnata da parte
dello Stato. Nell’assunto della Regione, qualora la
questione qui in esame fosse ritenuta fondata, l’art. 17,
comma 3, della legge regionale n. 11 del 2004 continuerebbe
comunque ad essere vigente e a produrre effetti
nell’ordinamento.
In senso opposto al rilievo addotto dalla Regione, va
tuttavia ribadita l’inapplicabilità dell’istituto
dell’acquiescenza ai giudizi in via principale atteso che la
norma impugnata ha comunque l’effetto di reiterare la
lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato
(da ultimo, sentenza n. 231 del 2016).
4.– Ciò premesso, la questione deve ritenersi parzialmente
fondata nei termini precisati di seguito.
4.1.– Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
la disciplina delle distanze fra costruzioni ha la
sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del
Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata
appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e
scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”.
«Tale disciplina, ed in particolare
quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più
specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai
rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può
pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per
quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia
dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva
dello Stato»
(sentenza n. 232 del 2005).
Nondimeno, si è altresì sottolineato, che
quando i fabbricati insistono su di un territorio che può
avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche–
specifiche caratteristiche, «la disciplina che li
riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel
territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti
interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui
cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni perché
attratta all’ambito di competenza concorrente del governo
del territorio (si
veda sempre la sentenza n. 232 del 2005).
In questa cornice si è dunque affermato che «alle
Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze
minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione
che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque,
se da un lato non può essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra
gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento
civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il
governo del territorio− che ne detta anche le modalità di
esercizio»
(sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, da ultimo,
anche le sentenze n. 231, n. 189, n. 185 e n. 178 del 2016).
4.2.– Nel delimitare i rispettivi ambiti di
competenza −statale in materia di «ordinamento civile»
e concorrente in materia di «governo del territorio»−
questa Corte ha individuato il punto di equilibrio
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più
volte ritenuto dotato di particolare «efficacia
precettiva e inderogabile»
(sentenza n. 185 del 2016, ma anche sentenze n. 114 del 2012
e n. 232 del 2005), in quanto richiamato
dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150
(Legge urbanistica), introdotto dall’art.
17 della legge 06.08.1967, n. 765
(Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica
17.08.1942, n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la
previsione regionale di distanze in deroga a quelle
stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche»
(ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016).
In definitiva, le deroghe all’ordinamento
civile delle distanze tra edifici sono consentite «se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio»
(sentenza n. 134 del 2014; analogamente sentenze n. 178, n.
185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la
loro legittimità è strettamente connessa agli assetti
urbanistici generali e quindi al governo del territorio,
non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente
considerati»
(sentenza n. 114 del 2012; nello stesso senso, sentenza n.
232 del 2005).
4.3.– I medesimi principi sono stati
ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE,
da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69
(Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione,
infatti, ha sostanzialmente recepito
l’orientamento della giurisprudenza costituzionale,
inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi
fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le
Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m.
n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a
condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio»
(sentenza n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex
plurimis, sentenza n. 189 del 2016).
4.4.– La deroga alla disciplina delle
distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in
conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia
riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di
edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche
che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da
definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio
unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
5.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi
coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte
dalla Corte e ribadite dal disposto di cui all’art 2-bis del
TUE, il riferimento che la norma impugnata reca ai
piani urbanistici attuativi (PUA), assimilabili ai
piani particolareggiati o di lottizzazione e dunque
riconducibili a quella tipologia di atti menzionati
nell’art. 9, ultimo comma del d.m. n. 1444 del 1968, più
volte richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di
derogare al regime delle distanze.
D’altro canto la stessa giurisprudenza di questa Corte ha
stabilito che la deroga alle distanze
minime potrà essere contenuta, oltre che in piani
particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento
urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e
delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione
dettagliata e definita degli interventi
(sentenza n. 6 del 2013).
Ne consegue che devono ritenersi
ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani
urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di
attivare le deroghe in esame, dall’art. 2-bis del TUE, in
linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa
Corte (ex
multis, sentenze n. 231, n. 189, n. 185, n. 178 del 2016
e n. 134 del 2014).
6.– Una tale conclusione non può essere estesa al
riferimento che la norma censurata fa agli «interventi
disciplinati puntualmente», corrispondente alla lettera
b) del comma 3, dell’art. 17, della legge regionale n. 11
del 2004.
L’espressione utilizzata, infatti, appare in contrasto con
lo stringente contenuto che dovrebbe assumere una previsione
siffatta, destinata a legittimare deroghe al di fuori di una
adeguata pianificazione urbanistica.
L’assenza di precise indicazioni, in particolare, non
consente di attribuire agli interventi in questione un
perimetro di azione necessariamente coerente con l’esigenza
di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del
territorio; del resto, lo stesso riferimento alla puntualità
che dovrebbe caratterizzarli si presta, sul piano semantico,
a legittimare anche interventi diretti a singoli edifici, in
aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte
in precedenza.
Limitatamente ai suddetti interventi, dunque, va dichiarata
l’illegittimità costituzionale della norma censurata, perché
legittima deroghe alla disciplina delle distanze tra
fabbricati al di fuori dell’ambito della competenza
regionale concorrente in materia di governo del territorio,
in violazione del limite dell’ordinamento civile assegnato
alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (da
ultimo, sentenza n. 231 del 2016).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 8, comma 1, lettera a), della legge della Regione
Veneto 16.03.2015, n. 4
(Modifiche di leggi regionali e disposizioni in materia di
governo del territorio e di aree naturali protette
regionali), limitatamente al riferimento
alla lettera «b)» dell’art. 17, comma 3, della legge
regionale n. 11 del 2004 e alle parole «e degli ambiti
degli interventi disciplinati puntualmente»
(Corte Costituzionale,
sentenza
24.02.2017 n. 41). |
EDILIZIA PRIVATA: Deroga alle distanze minime tra pareti finestrate.
La deroga alle distanze minime tra pareti finestrate, ai sensi del decreto
assessorile regionale sardo del 20.12.1983 n. 2266/U (c.d. decreto
“Floris”) è ammissibile a determinate condizioni: non può, in ogni caso,
incidere sulle distanze legali minime stabilite dalle norme del codice
civile, può essere concessa (nelle zone B) anche per le aree «risultanti
libere in seguito a demolizione», si giustifica esclusivamente ove si
dimostri che il rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti
l’inutilizzazione dell’area o una soluzione tecnica inaccettabile
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 23.02.2017 n. 125 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
9. - I motivi esposti si prestano a una trattazione congiunta,
considerato che tutti si incentrano sulla questione della legittimità della
deroga alle distanze minime tra edifici fissate dalle norme tecniche di
attuazione.
9.1. - In tale prospettiva, occorre in primo luogo ricostruire la
motivazione che sorregge la concessione edilizia impugnata.
Come emerge
dalla lettura dell’atto, l’istruttoria procedimentale si è fondamentalmente
concentrata sulla verifica delle «soluzioni progettuali possibili [in vista
del rispetto] delle normali distanze previste dallo strumento urbanistico»,
giungendo alla conclusione «che, effettivamente, l’applicazione delle
distanze normalmente previste dallo strumento urbanistico avrebbe comportato
delle soluzioni progettuali tecnicamente inaccettabili, irrazionali e [la]
inutilizzazione dell’area», rendendo conseguentemente ammissibile la deroga
alle distanze prevista dall’art. 48 (quattordicesimo alinea) del regolamento
edilizio comunale (applicabile alla fattispecie ratione temporis), che a
tali fini rinvia al decreto dell’Assessore degli Enti Locali, Finanze e
Urbanistica, 20.12.1983, n. 2266/U, disponendo che tale «deroga …può essere
consentita purché si rispetti la distanza minima di mt. 3 dai confini».
Il
rinvio implica il richiamo al testo del decreto assessorile, che contempla
la deroga (per le zone B) in questi termini: «Nelle zone inedificate
esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto o risultanti
libere in seguito a demolizione, contenute in un tessuto urbano già definito
o consolidato, che si estendono sul fronte stradale o in profondità per una
lunghezza inferiore a mt. 24 per i Comuni della I e II Classe, e a mt. 20
per quelli della III e IV classe, nel caso di impossibilità di costruire in
aderenza, qualora il rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti
l'inutilizzazione dell'area o una soluzione tecnica inaccettabile, il Comune
può consentire la riduzione delle distanze, nel rispetto delle disposizioni
del codice civile».
9.2. - Dal quadro normativo delineato emergono una serie di elementi
rilevanti per la soluzione della controversia in esame:
- la deroga ai distacchi minimi previsti dal decreto assessorile
non può, in ogni caso, incidere sulle distanze legali minime stabilite dalle
norme del codice civile;
- la deroga può essere concessa (nelle zone B) anche per le aree
«risultanti libere in seguito a demolizione»;
- la deroga si giustifica esclusivamente ove si dimostri che il
rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti l'inutilizzazione
dell'area o una soluzione tecnica inaccettabile.
Nel caso di specie, rammentato che la concessione impugnata giustifica la
deroga al rispetto delle distanze minime in ragione della inaccettabilità
tecnica delle soluzioni alternative prospettate, i ricorrenti contestano la
sussistenza di quanto asserito dall’amministrazione con argomentazioni che,
tuttavia, non appaiono convincenti.
Occorre precisare, tuttavia, sul piano dell’interpretazione della citata
disposizione del decreto assessorile, che il riferimento alla «soluzione
tecnica inaccettabile» non può tradursi in una condizione equiparabile alla
inutilizzabilità dell’area. Le due formule (inutilizzabilità e «soluzione
tecnica inaccettabile») indicano due circostanze distinte, per cui
all’interno della seconda rientrano soluzioni progettuali che (pur non
comportando la inutilizzabilità dell’area) sono comunque irrazionali o
pregiudicano gli interessi dei proprietari in misura eccessiva (e, quindi,
non rispettosa del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa).
La soluzione deve, quindi, essere inaccettabile (non solo e non tanto sotto
il profilo tecnico-costruttivo ma) alla stregua di una valutazione degli
interessi pubblici e privati coinvolti. |
dicembre 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Devesi
richiamare l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe
alle distanze ex art. 9 DM 1444/1968 (il quale stabilisce le
distanze minime da rispettare fra pareti finestrate di
edifici frontistanti) secondo cui a tali fini all’intervento
di recupero di un immobile già esistente può essere
assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo
laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni
esterne dell’edificio preesistente.
---------------
4.1. Come già accennato, il primo giudice ha ritenuto che
nella specie fosse stato violato l’art. 9 del d.m. nr. 1444
del 1968, il quale stabilisce le distanze minime da
rispettare fra pareti finestrate di edifici frontistanti.
L’Amministrazione comunale e l’odierna istante si erano
difesi assumendo che nella specie avrebbe dovuto trovare
applicazione l’art. 99 del Regolamento edilizio comunale, il
quale stabilisce che, ai fini del calcolo delle distanze tra
fabbricati, non debba tenersi conto di balconi, sporti ed
aggetti di lunghezza fino a mt 1,20 (ciò che avrebbe
assicurato il rispetto delle distanze di cui al precitato
art. 9); il TAR ha però ritenuto di dover disapplicare tale
prescrizione siccome illegittima, escludendo che il Comune
abbia in sede di pianificazione urbanistica il potere di
derogare a qualsiasi titolo alle distanze fissate dal d.m.
nr. 1444/1968.
4.2. A fronte delle suesposte conclusioni, le parti
appellanti articolano un duplice ordine di critiche:
a) si assume, innanzi tutto, che il citato art. 9 del
d.m. nr. 1444/1968 non avrebbe dovuto trovare applicazione
nel caso di specie, trattandosi di intervento di demolizione
e ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova
edificazione;
b) in secondo luogo, si sostiene che deve ritenersi del
tutto consentito ai Comuni introdurre nei propri strumenti
urbanistici previsioni del tipo di quella di che trattasi.
4.2.1. La prima censura è manifestamente infondata, dovendo
richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe
alle distanze ex art. 9 secondo cui a tali fini
all’intervento di recupero di un immobile già esistente può
essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo
laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni
esterne dell’edificio preesistente (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 12.07.2002, nr. 3929).
Nel caso che qui occupa, come si legge in sentenza e non
risulta specificamente contestato dalle parti appellanti che
col permesso di costruire in variante nr. 26 del 22.02.2013
è stato assentito un incremento delle altezze rispetto al
preesistente, ciò che è sufficiente a far escludere che si
ricada nell’ipotesi derogatoria suindicata (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 30.12.2016 n. 5552 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esiste un diffuso, recente e specifico
indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai
fini delle distanze degli edifici che ammette che i detti
elementi architettonici possano non essere compresi nel
computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr.
1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò
autorizzi e a condizione che si tratti di balconi
aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio.
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio
stessa della previsione delle distanze minime fra edifici,
che come noto è quella di evitare la creazione di
intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità
pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa
escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da
fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione
urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus
abbiano le suddette caratteristiche.
---------------
4.2.2. È invece fondata la seconda subcensura sopra
richiamata.
Al riguardo, la Sezione non ignora l’esistenza di precedenti
che, muovendo da una rigorosa qualificazione delle norme del
d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni di ordine
pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge
primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2,
della legge 17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse
possano essere derogate dagli strumenti urbanistici
generali, le cui prescrizioni pertanto, ove contrastanti con
le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo
in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle
distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene
di non doversi discostare, che ammette che i detti elementi
architettonici possano non essere compresi nel computo delle
distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968,
qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a
condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei
cioè al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez.
VI, 05.01.2015, nr. 11; id., sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557;
id., 07.07.2008, nr. 3381).
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la
ratio stessa della previsione delle distanze minime fra
edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di
intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità
pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa
escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da
fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione
urbanistica, laddove gli elementi architettonici de
quibus abbiano le suddette caratteristiche (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 30.12.2016 n. 5552 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Limiti di distanza tra i fabbricati.
L’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci
metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti
i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è
eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere
cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
Ai fini del computo delle distanze assumono rilievo:
- tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i
caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell’igiene;
- il
terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o
aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 13.12.2016 n. 1231 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
In relazione al secondo ordine di motivi, in tema di violazione delle
norme di principio sulle distanze, vanno richiamati i principi più volte
richiamati dalla giurisprudenza anche della sezione (cfr. sent. n. 1406 cit.,
confermata in appello e quindi rilevante anche a fronte delle ultime
produzioni della difesa comunale, aventi ad oggetto la riforma di un ben
diverso precedente di questo Tar, in diversa composizione). Pertanto, in
linea di diritto, quale che sia la qualificazione regionale come
ristrutturazione, è pacifico nella giurisprudenza anche del Collegio come la
sopraelevazione ed il conseguente nuovo volume assumano rilevanza a fini
delle distanze. In sostanza, qualora si realizzino nuovi volumi
sopraelevando l'edificio originario sì da vita ad un nuovo edificio, che
deve conseguentemente osservare la norma sulla distanza minima di cui
all'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 (cfr. ad es. sentenza 1621/2009).
In generale, va ribadito che per principio consolidato, le distanze legali
previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai
rapporti privati, ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci
metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti
i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è
eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con
carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo
che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità
nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (cfr. ad es. Tar Liguria n. 476/2013 e giurisprudenza ivi
richiamata).
Questa sezione ha più volte ribadito che la disciplina sulle distanze minime
legali non può considerarsi derogata dalla legislazione regionale
derogatoria sul recupero dei sottotetti a fini abitativi; al riguardo s'è
affermato che l'art. 9 d.m. 1444/1968, al di là della fonte che la
disposizione prevede, è norma di principio tale da costituire limite alla
potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del
territorio. Analoghe considerazioni di principio vanno ribadite ai connessi
fini in esame.
Ancora (sentenza n. 6 del 2013) la Consulta ha avuto modo di
intervenire sul punto nei seguenti termini: premesso che, in linea di
principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella
materia dell'ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza
legislativa statale, mentre alle regioni è consentito fissare limiti in
deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a
condizione che la deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio, la legge regionale,
laddove consente espressamente ai comuni di derogare alle distanze minime
fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite
dall'art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che esige che
le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia
dell'interesse pubblico relativo al governo del territorio, autorizzando, al
contrario, i comuni ad "individuare gli edifici" dispensati dal rispetto
delle distanze minime, viola la competenza legislativa statale in materia
"ordinamento civile" (sent. n. 232 del 2005, 173 del 2011, 114 del 2012).
Peraltro, parte resistente contesta l'applicazione delle invocate distanze
sia in termini di difetto di legittimazione dei ricorrenti, sia di difetto
di giurisdizione.
Sotto il primo versante è sufficiente richiamare quanto sopra evidenziato in
termini di ammissibilità del ricorso (oltre alla pacifica giurisprudenza
secondo cui il criterio della vicinitas e il danno risentito per la
realizzazione dell'opera in ritenuta violazione delle distanze e del carico
urbanistico della zona, integrano, rispettivamente, la legittimazione al
ricorso e l'interesse concreto ed attuale, ai sensi dell'art. 100 c.p.c.,
all'impugnativa, da parte della ricorrente, proprietaria di immobile
confinante o limitrofo, configurando ex se una posizione qualificata e
differenziata al corretto assetto del territorio, a prescindere da qualsiasi
esame sul tipo di lesione che, in concreto, possa essere riconducibile alle
opere compiute - cfr. ad es. Tar Calabria n. 433/2012 e Cons. Stato, Sez.
VI, 20.10.2010, n. 7591, Tar Campania n. 23762/2010 e Tar Liguria
476/2013, Consiglio di Stato n. 3929/2002 e 5759/2011).
Inoltre, in tema di
proprietà, l'obbligo di rispettare le distanze legali previste dagli
strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei
proprietari frontisti ovvero della relativa riservatezza, ma anche per
finalità di pubblico interesse, dovendo così essere osservato sia in sede di
valutazione di abusi soggetti ad istanza di sanatoria sia rispetto a nuove
edificazioni, in ordine alle quali i soggetti caratterizzati dalla vicinitas
hanno il diretto concreto ed attuale interesse affinché la relativa
realizzazione avvenga nel rispetto delle norme dettate a tutela (anche) di
interessi fondamentali e collettivi.
Sotto il secondo versante, costituisce jus receptum il principio per cui la
controversia, derivante dall'impugnazione di un permesso di costruire da
parte del vicino, che lamenti la violazione delle distanze legali,
costituisce una disputa non già tra privati, ma tra privato e Pubblica
amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse
legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice
amministrativo (cfr. ex multis CdS 3511/2016).
Se in linea di fatto nel caso di specie dalla documentazione prodotta emerge
il mancato rispetto della distanza invocata, in linea di diritto,
contrariamente a quanto prospettato dai resistenti, ai fini del computo
delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche
accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità,
della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti
e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di
rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene (cfr. ad es. Consiglio di Stato,
Sez. V, 19.03.1996, n. 268, Tar Liguria 1406 cit.).
In dettaglio, va quindi ribadito che nel calcolo delle distanze tra
costruzioni, devono prendersi in considerazione le sporgenze costituenti per
il loro carattere strutturale e funzionale veri e propri aggetti implicanti
perciò un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come appunto i
balconi formati da solette aggettanti anche se scoperti di apprezzabile
profondità, ampiezza e consistenza (Tar Puglia n. 1235/2012).
Analogamente,
gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché
non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene,
i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in
oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro
sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di
particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed
ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso
abitativo (Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Pertanto, sulla scorta di tali indicazioni non può certo escludersi dai
manufatti rilevanti a fini di distanze, in quanto palesemente in grado di
dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, i muri di
contenimento (cfr. ex multis Cass. civ. 15391/2012 e 15972/2011 e Consiglio di
Stato 7731/2010, oltre a Tar Liguria 1406 cit.). Va quindi ribadito che ai
fini dell'osservanza delle norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e
il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentano quello già
esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee
ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di distanza dal confine. |
novembre 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto attiene alle distanze fra costruzioni
o di queste con i confini, vige il regime della c.d.
doppia tutela per cui il soggetto, che assume di essere
stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia di
distanze, è titolare, da un lato, del diritto
soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in
pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia
illecita (con competenza del giudice ordinario) e,
dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del
provvedimento invalido dell'Amministrazione.
---------------
8.1 Eccepisce innanzitutto quest’ultimo il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi a suo
dire di controversia che riguardando questioni di
distanze e, dunque, involgenti diritti soggettivi– avrebbe
dovuto essere dedotta dinanzi al giudice ordinario.
Ritiene il Collegio che l’eccezione sia infondata per le
ragioni di seguito esposte.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, nel
nostro ordinamento, “…per quanto attiene alle distanze
fra costruzioni o di queste con i confini, vige il regime
della c.d. doppia tutela per cui il soggetto, che
assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle
norme in materia di distanze, è titolare, da un lato,
del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla
riduzione in pristino nei confronti dell'autore
dell'attività edilizia illecita (con competenza del giudice
ordinario) e, dall'altra, dell'interesse legittimo
alla rimozione del provvedimento invalido
dell'Amministrazione…” (Cons. Stato, Sez. IV,
31.03.2015, n. 1692) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.11.2016 n. 2274 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella
materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza
legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle
distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la
deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del
tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze
tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è
rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne
detta anche le modalità di esercizio..
Conseguentemente, «Nella delimitazione dei rispettivi
ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e
concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio
è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968,
che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e
inderogabile. Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento
civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti
urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio».
---------------
3.‒
Il Governo ritiene ancora che le modifiche apportate dal sesto comma
dell’art. 6 della legge impugnata all’art. 18, comma l, della legge
regionale n. 16 del 2008, recante la disciplina delle distanze da osservare
negli interventi sul patrimonio edilizio esistente e di nuova costruzione,
contrastino con l’art. 2-bis del TUE, in quanto la disciplina introdotta
dalla Regione Liguria sarebbe destinata, non a soddisfare esigenze di
carattere urbanistico, bensì a consentire interventi edilizi puntuali, in
deroga alla normativa statale in materia di distanze, e invaderebbe così la
sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento
civile» (di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.).
La questione è fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte sul riparto di competenze in tema
di distanze legali, «la disciplina delle distanze minime tra costruzioni
rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla
competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in
deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a
condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato
non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale
relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con
l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo
del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6
del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 134 del 2014 e n. 114 del 2012;
ordinanza n. 173 del 2011).
Si è affermato di conseguenza che: «Nella delimitazione dei rispettivi
ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e
concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio
è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968,
che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e
inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173
del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici
sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio (sentenza n. 6 del 2013)» (sentenza n. 134 del 2014).
Queste conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce
dell’introduzione −ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge
21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013,
n. 98− dell’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
La disposizione recepisce la giurisprudenza di questa Corte, inserendo nel
testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche
per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal
d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità di deroghe solo a condizione che
esse siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un
assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
(sentenza n. 134 del 2014; da ultimo sentenze 185 e 178 del 2016)
(Corte Costituzionale,
sentenza 03.11.2016 n. 231). |
agosto 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA:
La distanza minima tra edifici.
DOMANDA:
Il quesito riguarda l’intervento per la realizzazione di una
muratura di tamponamento del piano primo (attualmente
totalmente privo di muro verso il cortile) del fronte di un
rustico-fienile costituto attualmente da box al piano terra
e locale aperto al piano primo, accessibile solo
dall'esterno, con affaccio su cortile comune.
Il progetto prevede la realizzazione di una scala interna
che dal box dia accesso al piano primo, e la formazione del
muro di chiusura del fienile (verso il cortile) con
l’inserimento di una porta-finestra affacciante come detto
su cortile comune. La destinazione d’uso del piano primo
sarà sgombero-magazzino, senza permanenza di persone. La
previsione di inserire una apertura è funzionale unicamente
per l’eventuale movimentazione di oggetti voluminosi
dall’esterno anziché attraverso le strette scale interne
previste dal progetto.
L’immobile prospiciente al fabbricato oggetto d’intervento è
posto a metri 5.60 e presenta una finestra a piano terra
posta frontalmente alla basculante del box esistente a piano
terra e la casa prospiciente presenta anche una finestra al
piano primo, posta a circa 8 metri di distanza dal
fabbricato oggetto di intervento.
Il dubbio dello scrivente è in relazione all'assenza della
distanza pari a ml 10 fra il nuovo muro di chiusura del
rustico/fienile a piano primo con creazione di porta
finestra rispetto al fabbricato posto di fronte allo stesso
a circa ml 8, seppur, quest’ultimo, risulta già dotato di
finestra.
RISPOSTA:
La distanza minima di 10 ml fra edifici dotati di pareti
finestrate risulta prevista al n. 2 dell’art. 9 del DM n.
1444/1968 se si tratta di fabbricati ricadenti in “altre
zone” territoriali omogenee diverse dalla “A” (vedi le
altre disposizioni contenute nella stesso articolo per tale
zona “A” e per la zona “C”). Tale distanza va considerata
inderogabile perché di ordine pubblico come ribadito più
volte dalla giurisprudenza la quale ha anche precisato che
non è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano
finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di
esse.
In particolare è stato affermato (Cass. civ. Sez. II,
20.06.2011, n. 13547): “la norma dell´art. 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati
-che, siccome emanata in attuazione dell´art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765, non può essere derogata dalle
disposizioni regolamentari locali- va interpretata nel senso
che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel
caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia
finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella
del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente,
essendo sufficiente, per l´applicazione di tale distanza,
che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete
contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di
essa si trovi a distanza minore da quella prescritta; ne
consegue, pertanto, che il rispetto della distanza minima è
dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi
di finestre” (vedasi anche Cass. civ. Sez. II,
28.09.2007, n. 20574).
Analogamente il Consiglio di Stato (Sez. IV, 05.12.2005, n.
6909) ha rilevato che: “la distanza di dieci metri, che
deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte
le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza
che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o
dell´edificio preesistente, o della progettata
sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o
a diversa altezza rispetto all'altra”.
In ogni caso è stato chiarito che, per "pareti finestrate",
ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti
quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano,
devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute",
ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l´esterno, quali porte, balconi,
finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle
due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR
Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR
Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano,
sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Sulla base di tali consolidati indirizzi e principi generali
non pare dubbio che anche nel caso di specie si debbano
rispettare le citate distanze anche considerando che la
tamponatura in muratura che determina, come tale un nuovo
volume, riveste la natura di un nuovo intervento
costruttivo.
Si ricorda al riguardo che “ai fini dell'osservanza delle
norme sulle distanze legali di origine codicistica o
prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione
integrativa della disciplina privatistica, la nozione di
costruzione non si identifica con quella di edificio ma si
estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato
che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed
immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio,
incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica
preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente
dal livello di posa e di elevazione dell'opera” (cfr.
Cons. Stato sez. IV, 17/05/2012, n. 2847 (conferma TAR
Basilicata-Potenza, sez. I, n. 849/2009) (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici.
La maggiorazione della distanza fino a raggiungere la misura corrispondente
all’altezza del fabbricato più alto prevista dal terzo comma dell’art. 9,
d.m. n. 1444/1968, si applica negli stessi casi in cui sono prescritti i
limiti di distanza indicati dal primo comma del medesimo articolo.
Da ciò si
deduce che i limiti posti alle distanze degli edifici dal comma in questione
si applicano anche alla zona A e nelle stesse ipotesi previste dal n. 1 del
primo comma dell’art. 9.
Ciò comporta che le distanze in questione si applicano indipendentemente
dalla presenza o meno di pareti finestrate, in quanto il punto n. 1 del
primo comma dell’art. 9 si riferisce alle distanze tra edifici senza altre
specificazioni (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza 23.08.2016 n. 4092 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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6) Nel quinto e ultimo motivo di ricorso parte ricorrente ha indicato che
gli interventi della legge sul piano casa sono consentiti su edifici
residenziali ubicati in aree urbanizzate, nel rispetto delle distanze minime
e delle altezze massime dei fabbricati di cui al Decreto Ministeriale
n. 1444/1968.
Nel caso di specie sarebbe stato violato l'art. 9, ultimo comma,
dell’indicato decreto, che prevede come, qualora le distanze tra fabbricati
risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le stesse siano
maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa.
Il fabbricato delle ricorrenti risulterebbe alto 14,88 metri e presenterebbe
pareti finestrate, munite anche di balconi, sul fronte contrapposto
all'edificio in corso di realizzazione che risulta posizionato a “soli”
12,07 metri di distanza.
Inoltre, l'edificio assentito con il Permesso di Costruire impugnato
risulterebbe posizionato a 3,15 metri dal confine della proprietà delle
ricorrenti, in violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, che prevede la
distanza minima di 10 metri fra gli edifici, comportando, per dato logico,
l'obbligo di rispettare anche la distanza minima di 5 metri dal confine.
Risulterebbe, infine, violato anche l'art. 7 del richiamato D.M. n. 1444/1968,
che prevede in zona A una densità fondiaria per le eventuali nuove
costruzioni ammesse che, in base alla tipologia dell’intervento assentito,
non può superare in ogni caso i 5 metri cubi a metro quadrato, che di fatto
sarebbe stato superato.
L'indice fondario risultante dal permesso di costruire assentito sarebbe,
infatti, pari a 7,30 metri cubi a metro quadrato, ben superiore ai 5
consentiti.
Inoltre, il Piano Regolatore Generale del Comune di Maddaloni, prevede, per
la zona A1, che il rapporto tra altezza del fabbricato e larghezza dello
spazio pubblico o privato antistante debba essere pari a 1.
Il Permesso di Costruire rilasciato prevede la sopraelevazione del corpo del
fabbricato prospiciente Via Marconi, che raggiunge un'altezza di oltre 11
metri.
La Via Marconi è larga circa 7 metri e, pertanto, l'altezza assentita supera
la larghezza della strada, violando così il rapporto specificamente dettato
dal Piano Regolatore Generale.
Il motivo di ricorso si rileva fondato.
E’ pacifico che l’edificio in questione ricada in zona A, in riferimento
alla quale l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, prevede che per le operazioni di
risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze
tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i
volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni
aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o
ambientale.
Il comma 3 del medesimo art. 9 prevede che “qualora le distanze tra
fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del
fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere
la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori
a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
Al riguardo la maggiorazione della distanza fino a raggiungere la misura
corrispondente all'altezza del fabbricato più alto prevista dal terzo comma
dell'indicato art. 9 si applica negli stessi casi in cui sono prescritti i
limiti di distanza indicati dal primo comma del medesimo articolo (Consiglio
di Stato, sez. IV, 05.10.2015, n. 4628).
Da ciò si deduce che i limiti posti alle distanze degli edifici dal comma in
questione si applicano anche alla zona A e nelle stesse ipotesi previste dal
n. 1 del primo comma dell’art. 9.
Ciò comporta che le distanze in questione si applicano indipendentemente
dalla presenza o meno di pareti finestrate, in quanto il punto n. 1 del primo
comma dell’art. 9 si riferisce alle distanze tra edifici senza altre
specificazioni.
Nel caso di specie la distanza intercorrente con l’edificio vicino è minore
dei 14,88 metri corrispondenti all’altezza del fabbricato delle ricorrenti
che risulta posizionato a 12,07 metri di distanza e non ha rilevanza, a tal
fine, la circostanza che la parete da cui è stata misurata la distanza sia
stata solo di recente dotata di aperture e che, quindi, non potesse essere
considerata come parete finestrata.
La su indicata censura si rivela, pertanto, fondata. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
In linea generale, non è legittima
l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme
contrastanti con
quelle del DM 02.04.1968 n. 1444,
atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega
dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150
(inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha
efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di
distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli
strumenti urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr.
1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative
e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o
revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se
è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la
sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata
dalla fonte sovraordinata.
---------------
La giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette
la disapplicazione da parte del giudice amministrativo
dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato,
non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche
in via più generale estesa alla giurisdizione generale di
legittimità.
---------------
E' pacifica la giurisprudenza secondo cui direttamente
precettive sono le norme in materia di distanze contenute
nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non
potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al
solo organo pianificatore.
---------------
Proprio con riferimento alle disposizioni contenute
nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato:
a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma
sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di
quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti
frontistanti;
b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura
sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due
pareti interessate;
c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela
della salubrità, è applicabile non solo alle nuove
costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici
esistenti;
d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile,
donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del
giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di
pregiudizio alla salubrità degli immobili.
---------------
5. Col secondo motivo di entrambi gli appelli, sono
censurate sotto plurimi profili le conclusioni del primo
giudice, e in particolare quelle che hanno condotto alla
disapplicazione delle disposizioni delle N.T.A. che
consentivano l’edificazione fra pareti finestrate a distanza
inferiore a quella stabilita dal più volte citato art. 9,
d.m. nr. 1444/1968.
Anche queste censure sono prive di pregio.
5.1. Al riguardo, va innanzi tutto richiamato il consolidato
indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in linea generale,
non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici
comunali, di norme contrastanti con quelle del citato
decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su
delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr.
1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr.
765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in
tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza
e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate
dagli strumenti urbanistici comunali (cfr. Cass. civ., sez.
II, 14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le disposizioni
di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede
di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con
la conseguenza che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve
annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque
disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013,
nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno
strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il
precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale
peraltro si basava su una presunta natura non direttamente
precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr.
1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta
natura para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro
disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti
appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si
condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice
amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché
non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione
esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla
giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 03.02.2015, nr. 515).
5.2. Inoltre, va disattesa l’ulteriore censura, pure
contenuta nell’appello del controinteressato in primo grado,
secondo cui il potere di disapplicazione de quo non
avrebbe potuto nella specie essere esercitato dal primo
giudice, trattandosi di controversia avviata con ricorso
straordinario e solo successivamente riassunta dinanzi al
TAR.
La doglianza è manifestamente infondata, essendo altresì
superfluo approfondire il tema dell’esistenza o meno di
differenze fra i poteri esercitabili dall’organo decidente
nella sede giudiziale e in quella straordinaria sotto il
profilo che qui interessa, atteso che, una volta intervenuta
la trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso
straordinario, il giudice adìto era certamente titolare di
tutti e gli stessi poteri che possono essere esercitati
allorché il giudizio scaturisce da ordinario ricorso
giurisdizionale, ivi compreso il potere di disapplicazione
degli atti regolamentari o generali.
6. Infondata è poi la doglianza articolata col terzo
motivo di impugnazione dell’originario controinteressato,
non rispondendo al vero che il potere di disapplicazione
suindicato non sarebbe stato esercitabile con riferimento ai
rapporti interprivati quale è quello per cui è causa: al
riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica
giurisprudenza che direttamente precettive le norme in
materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche
nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere
intese come prescrizioni rivolte al solo organo
pianificatore (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015, nr.
1951; id., 12.02.2013, nr. 844).
7. Con l’ultimo motivo di entrambi gli appelli, le
parti istanti censurano nel merito l’interpretazione data
dal primo giudice del disposto dell’art. 9, d.m. nr.
1444/1968, facendone rilevare l’inapplicabilità alla
situazione che qui occupa, laddove i due edifici non avevano
pareti finestrate direttamente frontistanti, vi era
diversità di quote fra le aperture, e comunque era da
escludersi la creazione di qualsivoglia intercapedine nociva
o pericolosa per la salubrità pubblica.
Anche questi motivi vanno respinti, ponendosi essi in
frontale contrasto con tutti i principali approdi della
giurisprudenza in subiecta materia.
In particolare, proprio con riferimento alle disposizioni
contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato
osservato:
a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma
sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di
quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti
frontistanti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, nr.
856; id., 11.06.2015, nr. 2861; id., 22.01.2013, nr. 354;
id., 20.07.2011, nr. 4374);
b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura
sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due
pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013,
nr. 5557; id., 09.10.2012, nr. 5253);
c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di
tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove
costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici
esistenti (cfr. Cons. Stato, 27.10.2011, nr. 5759);
d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile,
donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del
giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di
pregiudizio alla salubrità degli immobili (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 18.12.2012, nr. 6489; id., sez. IV, 09.05.2011, nr.
2749; id., 05.12.2005, nr. 6909).
8. In conclusione, alla stregua dei superiori rilievi
s’impone una decisione di reiezione degli appelli, con la
conferma integrale della sentenza impugnata (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.08.2016 n. 3522 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Va richiamato il
consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo cui, in linea generale, non è
legittima l’adozione, negli strumenti
urbanistici comunali, di norme contrastanti
con quelle del DM 1444/1968, atteso che
quest’ultimo, essendo stato emanato su
delega dell’art. 41-quinquies della legge
17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17
della legge 06.08.1967, nr. 765), ha
efficacia di legge, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza e di
distanza tra i fabbricati non possono essere
derogate dagli strumenti urbanistici
comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al
d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, sono tassative e
inderogabili, e vincolano i Comuni in sede
di formazione o revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima e
deve annullata se è oggetto di impugnazione,
o comunque disapplicata stante la sua
automatica sostituzione con la clausola
legale dettata dalla fonte sovraordinata.
Pertanto, in punto di disapplicazione delle
N.T.A. di uno strumento urbanistico, risulta
condivisibilmente superato il precedente
indirizzo contrario, il quale peraltro si
basava su una presunta natura non
direttamente precettiva delle prescrizioni
contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando
ferma e impregiudicata la ritenuta natura
para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi
la loro disapplicabilità da parte del
giudice amministrativo.
Inoltre, la giurisprudenza più recente –che
qui si condivide- ammette la disapplicazione
da parte del giudice amministrativo
dell’atto regolamentare presupposto,
ancorché non impugnato, non soltanto in
ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche
in via più generale estesa alla
giurisdizione generale di legittimità.
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Pacifica giurisprudenza ritiene direttamente
precettive le norme in materia di distanze
contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei
rapporti fra privati, non potendo le stesse
essere intese come prescrizioni rivolte al
solo organo pianificatore.
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Con riferimento alle disposizioni contenute
nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è
stato osservato:
a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma
sussiste indipendentemente dalla eventuale
differenza di quote su cui si collochino le
aperture fra le due pareti frontistanti;
b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura
sufficiente che sia finestrata anche una
sola delle due pareti interessate;
c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela
della salubrità, è applicabile non solo alle
nuove costruzioni, ma anche alle
sopraelevazioni di edifici esistenti;
d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile,
donde l’esclusione di ogni discrezionalità
valutativa del giudice circa l’esistenza in
concreto di intercapedini e di pregiudizio
alla salubrità degli immobili.
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5.1. Al riguardo, va innanzi tutto
richiamato il consolidato indirizzo
giurisprudenziale secondo cui, in linea
generale, non è legittima l’adozione, negli
strumenti urbanistici comunali, di norme
contrastanti con quelle del citato decreto,
atteso che quest’ultimo, essendo stato
emanato su delega dell’art. 41-quinquies
della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito
dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr.
765), ha efficacia di legge, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza e di
distanza tra i fabbricati non possono essere
derogate dagli strumenti urbanistici
comunali (cfr. Cass. civ., sez. II,
14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le
disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968,
essendo rivolte alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
sono tassative e inderogabili, e vincolano i
Comuni in sede di formazione o revisione
degli strumenti urbanistici, con la
conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto
limite minimo è illegittima e deve annullata
se è oggetto di impugnazione, o comunque
disapplicata stante la sua automatica
sostituzione con la clausola legale dettata
dalla fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id.,
22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr.
5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle
N.T.A. di uno strumento urbanistico, risulta
condivisibilmente superato il precedente
indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002,
nr. 3929), il quale peraltro si basava su
una presunta natura non direttamente
precettiva delle prescrizioni contenute nel
d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e
impregiudicata la ritenuta natura
para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi
la loro disapplicabilità da parte del
giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si
sostiene dalle parti appellanti, la
giurisprudenza più recente –che qui si
condivide- ammette la disapplicazione da
parte del giudice amministrativo dell’atto
regolamentare presupposto, ancorché non
impugnato, non soltanto in ipotesi di
giurisdizione esclusiva, ma anche in via più
generale estesa alla giurisdizione generale
di legittimità (cfr. Cons. Stato, sez. V,
03.02.2015, nr. 515).
...
6. Infondata è poi la doglianza articolata
col terzo motivo di impugnazione
dell’originario controinteressato, non
rispondendo al vero che il potere di
disapplicazione suindicato non sarebbe stato
esercitabile con riferimento ai rapporti
interprivati quale è quello per cui è causa:
al riguardo, è sufficiente richiamare la
pacifica giurisprudenza che ritiene
direttamente precettive le norme in materia
di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968
anche nei rapporti fra privati, non potendo
le stesse essere intese come prescrizioni
rivolte al solo organo pianificatore (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015, nr. 1951;
id., 12.02.2013, nr. 844).
7. Con l’ultimo motivo di entrambi gli
appelli, le parti istanti censurano nel
merito l’interpretazione data dal primo
giudice del disposto dell’art. 9, d.m. nr.
1444/1968, facendone rilevare
l’inapplicabilità alla situazione che qui
occupa, laddove i due edifici non avevano
pareti finestrate direttamente frontistanti,
vi era diversità di quote fra le aperture, e
comunque era da escludersi la creazione di
qualsivoglia intercapedine nociva o
pericolosa per la salubrità pubblica.
Anche questi motivi vanno respinti,
ponendosi essi in frontale contrasto con
tutti i principali approdi della
giurisprudenza in subiecta materia.
In particolare, proprio con riferimento alle
disposizioni contenute nell’art. 9 in tema
di pareti finestrate, è stato osservato:
a) che il dovere di rispettare le distanze
stabilite dalla norma sussiste
indipendentemente dalla eventuale differenza
di quote su cui si collochino le aperture
fra le due pareti frontistanti (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 29.02.2016, nr. 856; id.,
11.06.2015, nr. 2861; id., 22.01.2013, nr.
354; id., 20.07.2011, nr. 4374);
b) che, ai fini dell’operatività della
previsione, è addirittura sufficiente che
sia finestrata anche una sola delle due
pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 22.11.2013, nr. 5557; id., 09.10.2012,
nr. 5253);
c) che la norma in questione, in ragione
della sua ratio di tutela della
salubrità, è applicabile non solo alle nuove
costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni
di edifici esistenti (cfr. Cons. Stato,
27.10.2011, nr. 5759);
d) che il divieto ha portata generale,
astratta e inderogabile, donde l’esclusione
di ogni discrezionalità valutativa del
giudice circa l’esistenza in concreto di
intercapedini e di pregiudizio alla
salubrità degli immobili (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 18.12.2012, nr. 6489; id., sez. IV,
09.05.2011, nr. 2749; id., 05.12.2005, nr.
6909) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.08.2016 n. 3522 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
●
«Lo strumento urbanistico comunale, nel
disciplinare il territorio individuando le zone territoriali
omogenee di cui all'art. 2 del d.m. 02.04.1968 n. 1968, deve
osservare le prescrizioni in materia di distanze minime tra
fabbricati previste per ciascuna delle dette zone dal primo
comma dell'art. 9 del medesimo decreto ministeriale, quale
disposizione di immediata ed inderogabile efficacia
precettiva»;
●
«Sussiste violazione delle prescrizioni
dettate in materia di distanze minime tra fabbricati
dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 sia qualora il
regolamento locale preveda distanze inferiori a quelle
minime prescritte sia qualora il detto regolamento non
preveda alcuna distanza tra fabbricati relativamente ad una
o più zone territoriali omogenee dal medesimo individuate.
In tali casi, si determinerà l'inserzione automatica, nello
strumento urbanistico, della disciplina dettata dal detto
art. 9 e tale disciplina si sostituirà ipso iure alle
disposizioni regolamentari illegittime, divenendo così parte
integrante del regolamento comunale e immediatamente
operante —in virtù della natura integrativa del regolamento
rispetto all'art. 873 cod. civ.— anche nei rapporti fra
privati. In tal caso, non potranno trovare applicazione né i
criteri stabiliti dall'art. 873, né quelli di cui all'art.
17 primo comma legge n. 765 del 1967»;
●
«Quando lo strumento urbanistico
comunale prevede un vincolo di inedificabilità assoluta con
divieto di alterazione dei volumi preesistenti, a tutela del
carattere storico, artistico o di particolare pregio
ambientale di una parte del territorio, tale vincolo, per la
sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a
regolare, ha —per sua natura— carattere inderogabile e non è
soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in
forza delle diverse previsioni di uno strumento urbanistico
successivo».
---------------
3. — Col terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e
la falsa
applicazione di norme di diritto, nonché il vizio di
motivazione della
sentenza impugnata, per avere la Corte di Appello escluso
che il convenuto
avesse edificato le proprie fabbriche in violazione delle
distanze legali (se
non per un tratto di metri 1,5, con riferimento alla
distanza di metri tre
prevista dall'art. 873 cod. civ., ritenuto applicabile nella
specie). In
particolare, si deduce che la Corte territoriale avrebbe
errato nel ritenere
applicabile solo la distanza prescritta dall'art. 873 cod.
civ. e non quella di
cui all'art. 17 primo comma della c.d. legge-ponte.
Secondo
il ricorrente,
infatti, una volta scaduto il vincolo di inedificabilità
gravante sull'area e
non avendo lo strumento urbanistico disciplinato in quella
zona la distanza
tra le costruzioni, avrebbe dovuto farsi applicazione della
disciplina sulle
distanze di cui al detto art. 17 della legge-ponte (per il
quale "la distanza
dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di
ciascun fronte
dell'edificio da costruire").
Questa censura è fondata nei termini che seguono.
La Corte territoriale, nel confermare la sentenza di primo
grado sul
punto, ha osservato che l'immobile del convenuto è
sottoposto a vincolo di
inedificabilità assoluta imposto dal P.R.G. del Comune di
Capri. Secondo i giudici di appello, tale vincolo previsto
dallo strumento urbanistico,
vietando ogni nuova costruzione, non costituirebbe una norma
integrativa
della disciplina delle distanze dettata dal codice civile;
per di più, nella
specie, il suddetto vincolo sarebbe venuto meno per scadenza
quinquennale, cosicché la zona si troverebbe priva di
disciplina urbanistica.
In tale situazione, non potendosi fare applicazione
dell'art. 17 della legge n.
765 del 1967 in ragione della mancata adozione di un
provvedimento
integrativo del P.R.G. che consenta l'edificazione nella
zona
precedentemente assoggettata a vincolo di inedificabilità,
non resterebbe
che fare applicazione della disciplina residuale sulle
distanze dettata
dall'art. 873 cod. civ..
La sentenza impugnata muove da una errata interpretazione
delle
norme richiamate e della disciplina applicabile alla
fattispecie.
Premesso che gli immobili delle parti risultano sottoposti —da parte
dello strumento urbanistico del comune di Capri— ad un
vincolo di
inedificabilità assoluta con divieto di alterazione dei
volumi preesistenti, si
tratta di esaminare la natura di tale vincolo e le sue
implicazioni giuridiche.
Va rammentato che questa Corte suprema ha recentemente
affermato
che, qualora lo strumento urbanistico vieti ogni attività
costruttiva in una
determinata zona e per essa non detti quindi alcuna
prescrizione sulle
distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono
disciplinati dall'art.
873 cod. civ., ma dall'art. 41-quinquies della legge n. 1150
del 1942,
introdotto dall'art. 17 della legge n. 765 del 1967, per il
quale, nelle nuove
edificazioni a scopo residenziale, "la distanza dagli
edifici vicini non può
essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio
da costruire" (Sez.
2, Sentenza n. 26123 del 30/12/2015, Rv. 637977).
Il principio appena richiamato, dettato con riferimento ad
un caso in
cui il vincolo di inedificabilità assoluta dipendeva
dall'osservanza della fascia di rispetto delle aree
cimiteriali prevista dall'art. 338 T.U. leggi
sanitarie 27.07.1934 n. 1265 (e non dall'esercizio di
discrezionalità
amministrativa da parte dell'ente comunale),
non vale
tuttavia quando —come nella specie— il vincolo di inedificabilità assoluta è
previsto dallo
strumento urbanistico comunale in relazione al particolare
carattere storico
e di pregio ambientale della zona territoriale individuata.
Com'è noto, il decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444
(dal titolo
"Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di
distanza fra i
fabbricati (...) da osservare ai fini della formazione dei
nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell'art. 17 della
legge 06.08.1967, n. 765") ha definito le "zone
territoriali omogenee" e
gli standards urbanistici ai quali i Comuni devono attenersi
in sede di
approvazione o revisione degli strumenti urbanistici ai
sensi dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge
urbanistica),
aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765 (c.d.
legge-ponte). In
particolare, il d.m. 02.04.1968 n. 1444 limita la
discrezionalità
amministrativa degli enti locali, stabilendo il rapporto
massimo tra gli spazi
destinati agli insediamenti residenziali ovvero a quelli
produttivi o
commerciali e gli spazi pubblici o riservati alle attività
collettive o a verde
pubblico o a parcheggio (artt. 3, 4 e 5), i limiti di
densità edilizia per
ciascuna zona territoriale omogenea (art. 7), i limiti di
altezza degli edifici
(art. 8) e, infine, i limiti di distanza tra i fabbricati
per ciascuna zona
territoriale (art. 9). Trattasi di parametri "minimi" che
gli strumenti
urbanistici comunali emanati successivamente all'entrata in
vigore del detto
decreto ministeriale (17.04.1968) sono tenuti ad
osservare, ma che gli
enti locali possono derogare con la previsione di parametri
più rigorosi.
Onde l'illegittimità dello strumento urbanistico che non
osservi i parametri
minimi dettati dal d.m. n. 1444 del 1968 e, invece, la
legittimità dello strumento urbanistico che detti regole più
severe.
Come hanno affermato le Sezioni unite di questa Corte
suprema, il d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150 (c.d. legge
urbanistica), ha
efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni
in tema di limiti
inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati
prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si
sostituiscono per inserzione automatica (Sez. U, Sentenza n.
14953 del
07/07/2011, Rv. 617949).
Con particolare riferimento alle norme che regolano le
distanze tra
costruzioni, deve perciò ritenersi che la disciplina sulle
distanze dettata da
uno strumento urbanistico comunale deve osservare le
prescrizioni di cui al
primo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che detta
le distanze
"minime" tra fabbricati per ciascuna zona territoriale
omogenea; si tratta di
una disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (Sez. 2,
Sentenza n. 12424 del 20/05/2010, Rv. 613227), che —una
volta recepita
dallo strumento urbanistico o inserita automaticamente nello
stesso— ha
efficacia precettiva, in quanto norma integrativa dell'art.
873 cod. civ.,
anche nei rapporti tra privati.
Su quest'ultimo punto, non può sottacersi che questa Corte
ha
affermato il principio secondo cui il d.m.
02.04.1968,
nell'imporre all'art.
9 determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o
revisione di
strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei
rapporti tra i
privati (cfr., ex plurimis, Sez. U, Sentenza n. 5889 del
01/07/1997, Rv.
505623). Tale principio, tuttavia, va inteso nel senso che
il d.m. n. 1444 del
1968 è rivolto agli enti comunali, che devono farne
applicazione nella
redazione dei loro strumenti urbanistici, e non è
direttamente applicabile
nei rapporti tra privati senza la previa adozione —successiva all'entrata in vigore del detto decreto— di uno
strumento urbanistico; va inteso, cioè, nel
senso che le prescrizioni del decreto ministeriale divengono
operanti solo a
seguito dell'adozione dello strumento urbanistico comunale
e, con esso,
della individuazione delle relative zone territoriali
omogenee.
Ciò tuttavia non esclude che, una volta che l'ente locale
abbia
adottato lo strumento urbanistico, qualora quest'ultimo
contenga
disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che violino i
parametri minimi
stabiliti dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, il
giudice di merito è
tenuto a disapplicare le disposizioni del regolamento
comunale illegittime e
ad applicare direttamente, anche nei rapporti tra privati,
la disposizione del
detto art. 9, la quale diviene, per inserzione automatica,
parte integrante
dello strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima (Sez. U,
Sentenza n. 14953 del 07/07/2011, Rv. 617949; Sez. U,
Sentenza n. 20354
del 05/09/2013, non massimata; Sez. 2, Sentenza n. 27558 del
31/12/2014,
Rv. 634110; Sez. 2, Sentenza n. 1282 del 24/01/2006, Rv.
586246).
In altre parole, una volta adottato lo strumento urbanistico
che
individui le zone territoriali omogenee, ove tale strumento
contenga
disposizioni sulle distanze tra le costruzioni meno rigorose
della disciplina
dettata dall'art. 9 del citato d.m., quest'ultima disciplina
si sostituisce ipso
iure, per inserzione automatica, alle disposizioni
regolamentari illegittime,
divenendo così immediatamente operante anche nei rapporti
fra privati
(Sez. 2, Sentenza n. 1282 del 24/01/2006, Rv. 586246);
ciò
in quanto la
previsione regolamentare integrata ex lege costituisce
comunque norma
integrativa della disciplina in materia di distanza nelle
costruzioni dettata
dal codice civile (art. 873 cod. civ.).
Sul punto, va precisato che l'inserzione automatica della
disciplina
delle distanze dettata dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n.
1444 nello
strumento urbanistico comunale opera non solo quando lo
strumento urbanistico stesso, individuando le zone
territoriali omogenee, violi le
distanze minime prescritte dallo stesso art. 9 per ciascuna
zona territoriale,
prevedendo una distanza inferiore a quella minima
prescritta; ma opera
anche quando lo strumento urbanistico, dopo aver individuato
le zone
territoriali omogenee, nulla preveda sulle distanze legali
relativamente ad
esse (o ad una di esse).
Invero, poiché l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 impone
agli enti
locali di prevedere distanze minime per ciascuna zona
omogenea, anche la
mancata previsione delle distanze tra fabbricati costituisce
senza dubbio
violazione della previsione dell'art. 9. È agevole rilevare,
d'altra parte,
come sarebbe illogico ritenere sussistente la violazione
dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 ove lo strumento urbanistico preveda una
distanza
inferiore a quella minima prescritta dalla legge e non
ritenere, invece, la
medesima violazione quando lo strumento urbanistico non
preveda alcuna
distanza affatto, incorrendo così in una più grave
violazione della legge.
In definitiva, ogni volta che lo strumento urbanistico
pianifichi il
territorio, qualificandolo secondo le zone territoriali
omogenee come
definite dal d.m. n. 1444 del 1968, diviene obbligatorio
osservare le
distanze minime prescritte dall'art. 9 del detto decreto
ministeriale per
ciascuna zona territoriale.
Qualora lo strumento urbanistico recepisca le prescrizioni
in materia
di distanze tra costruzioni dettate dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444
ovvero stabilisca distanze più rigorose, si applicheranno le
norme del
regolamento comunale.
Qualora, invece, lo strumento urbanistico non osservi le
prescrizioni
del detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero
in quanto non
prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati, si
determinerà l'inserzione
automatica delle prescrizioni dell'art. 9 nello strumento
urbanistico divenendo così tali prescrizioni —a mezzo dello
strumento urbanistico del
quale entrano a far parte— immediatamente applicabili anche
ai rapporti tra
privati.
Alla stregua di quanto sopra,
va ritenuto che l'art.
41-quinquies della
legge 17.08.1942, n. 1150 introdotto dall'art. 17 della
c.d. legge-ponte
—ora abrogato (ad esclusione dei commi 6, 8 e 9) dall'art.
136 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 ("Testo unico in materia di edilizia")
con efficacia
"dalla data di entrata in vigore del presente testo unico"
e, quindi, soltanto
per l'avvenire, rimanendo salva la sua applicazione e
vigenza per il periodo
anteriore (Sez. 2, Sentenza n. 24984 del 25/11/2011, Rv.
620145)— è
applicabile solo nei comuni sprovvisti di piano regolatore
generale o di
programma di fabbricazione (come espressamente prevede lo
stesso art. 17)
ovvero, comunque, quando lo strumento urbanistico emanato
prima della data di entrata in vigore del d.m. 02.04.1968 n. 1444
non detti una
disciplina sulle distanze ovvero quando lo strumento
urbanistico comunale,
pur emanato successivamente a tale data, non consenta però
l'inserzione
automatica delle disposizioni sulle distanze legali di cui
all'art. 9 del
medesimo decreto per non avere individuato le zone
territoriali omogenee
in relazione alle quali le distanze minime sono dettate.
Quando invece esiste uno strumento urbanistico emanato
successivamente all'entrata in vigore del d.m. n. 1444 del
1968 che, pur
individuando le zone territoriali omogenee previste da tale
decreto, non
contenga però disposizioni espresse sulle distanze, opera
l'inserzione
automatica delle prescrizioni sulle distanze previste
dall'art. 9 del detto
d.m., cosicché va esclusa l'applicabilità dell'art. 17 della
c.d. "legge ponte"
del 06.08.1967, ti. 765.
In questi termini, va inteso il principio secondo cui
l'art.
17 della c.d.
"legge ponte" del 06.08.1967 n. 765 è inapplicabile ogni
volta che il regolamento edilizio non provveda sulle
distanze (Sez. U, Sentenza n. 9871
del 22/11/1994, Rv. 488757); tale principio, infatti, trova
il proprio limite
logico nel fatto che le previsioni sulle distanze legali di
cui all'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, ove non osservate dallo
strumento urbanistico,
si inseriscono automaticamente nel medesimo e, divenendo
parte di esso,
sono applicabili —quali norme integrative dell'art. 873
cod. civ.— anche nei
rapporti tra privati.
Ciò premesso, tornando all'esame della fattispecie per cui è
causa, va
osservato che, quando —come nella specie— lo strumento
urbanistico
comunale impone —a tutela del carattere storico, artistico
o di particolare
pregio ambientale di una parte del territorio— un vincolo
di inedificabilità
assoluta con divieto di alterazione dei volumi preesistenti,
tale vincolo, per
la sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira
a regolare, ha —per sua natura— carattere inderogabile e non è soggetto a
limiti temporali,
potendo venir meno solo in forza delle diverse previsioni di
uno strumento
urbanistico successivo.
Sono soggetti, infatti, a scadenza quinquennale quei vincoli
che sono
preordinati all'esproprio e alla programmata realizzazione
di opere
pubbliche; mentre i vincoli che sono espressione del potere
conformativo
del territorio —che si manifesta con la regolamentazione
urbanistica
contenuta nel piano regolatore generale e con la concreta
disciplina
dell'attività edilizia— hanno validità a tempo
indeterminato (cfr. C.d.S.,
Sez. 4, Sentenza n. 4812 del 25/08/2003; C.d.S., Sez. 5,
Sentenza n.
451 del 22/03/1995).
La natura conformativa del vincolo di inedificabilità
assoluta
esclude, pertanto, che esso possa venir meno per il decorso
del tempo.
Ha errato, perciò, la Corte territoriale a ritenere che,
nella specie, il
vincolo di inedificabilità era scaduto. La Corte di Napoli
avrebbe dovuto invece, ritenere la permanente vigenza del
vincolo di inedificabilità previsto
dallo strumento urbanistico; e, ritenuta la vigenza di tale
vincolo, avrebbe
dovuto verificare se gli immobili delle parti ricadevano
nella zona
territoriale A) dello strumento urbanistico comunale (come
il vincolo di
inedificabilità assoluta lascia supporre), zona nella quale
il d.m. 02.04.1968 n. 1444 —che vi inquadra quelle "parti del territorio
interessate da
agglomerati urbani che rivestono carattere storico,
artistico o di particolare
pregio ambientale" (art. 2 dello stesso decreto)— consente
esclusivamente
interventi di risanamento conservativo, senza incremento
delle densità
edilizia di zona e territoriale preesistenti (art. 7),
stabilendo che «le distanze
tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle
intercorrenti tra i
volumi edificati preesistenti» (art. 9).
La sentenza impugnata va, perciò, cassata con rinvio sul
punto,
affinché altra sezione della Corte di Appello di Napoli
provveda ad
accertare se gli immobili delle parti ricadono nella zona
territoriale
omogenea A) dello strumento urbanistico comunale e, nel caso
positivo, se
tale strumento abbia recepito, o meno, il disposto dell'art.
9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444; tenendo in ogni caso conto che, nel
caso di mancata
ricezione delle prescrizioni del detto decreto, vi è
inserzione automatica
delle distanze minime prescritte dal detto art. 9 in
relazione alla zona
territoriale omogenea individuata; non potendo in tal modo
trovare
comunque applicazione, in materia di distanze legali, né il
criterio stabilito
dall'art. 873, né quello di cui all'art. 17, primo comma,
legge n. 765 del 1967.
Nel riesaminare la fattispecie, la Corte di rinvio si
conformerà ai seguenti principi di diritto:
●
«Lo strumento urbanistico comunale, nel
disciplinare il territorio individuando le zone territoriali
omogenee di cui all'art. 2 del d.m. 02.04.1968 n. 1968, deve
osservare le prescrizioni in materia di distanze minime tra
fabbricati previste per ciascuna delle dette zone dal primo
comma dell'art. 9 del medesimo decreto ministeriale, quale
disposizione di immediata ed inderogabile efficacia
precettiva»;
●
«Sussiste violazione delle prescrizioni
dettate in materia di distanze minime tra fabbricati
dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 sia qualora il
regolamento locale preveda distanze inferiori a quelle
minime prescritte sia qualora il detto regolamento non
preveda alcuna distanza tra fabbricati relativamente ad una
o più zone territoriali omogenee dal medesimo individuate.
In tali casi, si determinerà l'inserzione automatica, nello
strumento urbanistico, della disciplina dettata dal detto
art. 9 e tale disciplina si sostituirà ipso iure alle
disposizioni regolamentari illegittime, divenendo così parte
integrante del regolamento comunale e immediatamente
operante —in virtù della natura integrativa del regolamento
rispetto all'art. 873 cod. civ.— anche nei rapporti fra
privati. In tal caso, non potranno trovare applicazione né i
criteri stabiliti dall'art. 873, né quelli di cui all'art.
17 primo comma legge n. 765 del 1967»;
●
«Quando lo strumento urbanistico
comunale prevede un vincolo di inedificabilità assoluta con
divieto di alterazione dei volumi preesistenti, a tutela del
carattere storico, artistico o di particolare pregio
ambientale di una parte del territorio, tale vincolo, per la
sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a
regolare, ha —per sua natura— carattere inderogabile e non è
soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in
forza delle diverse previsioni di uno strumento urbanistico
successivo»
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 26.07.2016 n. 15458). |
EDILIZIA PRIVATA:
Qualora lo strumento urbanistico vieti ogni
attività costruttiva in una determinata zona e per essa non
dia quindi alcuna prescrizione sulle distanze tra
costruzioni, i rapporti di vicinato non sono disciplinati
dall'art. 873 cod. civ., ma dall'art. 41-quinquies della l.
n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della legge n. 765
del 1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo
residenziale, la distanza dagli edifici vicini non può
essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio
da costruire.
Va ancora considerato che il decreto n. 1444 del 1968,
dettato in tema di standards urbanistici e di definizione
delle zone territoriali omogenee, ai quali i Comuni devono
attenersi in sede di approvazione o revisione degli
strumenti urbanistici, ai sensi dell'art. 17 della legge n.
765 del 1967, consente nelle zone A) -di carattere storico,
artistico o di particolare pregio ambientale, come definite
dall'art. 2 del citato decreto- esclusivamente interventi di
risanamento conservativo senza incremento delle densità
edilizia di zona e territoriale preesistenti (art. 7),
prevedendo che le distanze fra gli edifici non possono
essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti (art. 9).
In sostanza, essendo imposto un vincolo conformativo
inerente alla caratteristiche intrinseche del territorio
-non temporaneo e, come tale, non caducabile- il mancato
rispetto del divieto di nuove costruzioni nella zona A non è
privo di conseguenze sul piano della violazione delle
disposizioni concernenti le distanze legali tra costruzioni,
che devono rimanere quelle preesistenti: la norma regolamentare ha efficacia precettiva nei rapporti privatistici, essendo integrativa
delle disposizioni dettate dall'art. 873 cod. civ..
Pertanto, qualora il regolamento locale prescriva che nelle
zone territoriali A) di interesse storico, artistico,
culturale sono consentite esclusivamente opere di
consolidamento o restauro con divieto di alterazione dei
volumi preesistenti, la norma, nel recepire le disposizioni
di cui al decreto n. 1444 del 1968, stabilisce un vincolo di inedificabilità assoluta, dettando in sostanza la disciplina
in materia di distanze legali da osservare, che sono
determinate con riferimento a quelle intercorrenti fra gli
edifici preesistenti nella relativa zona; quindi, non
possono trovare applicazione i criteri stabiliti dall'art.
873 cod. civ. né quelli di cui all'art. 17, primo comma, legge
n. 765 del 1967.
---------------
1. Il primo motivo deduce che con il primo motivo di
appello esso ricorrente aveva invocato l'applicabilità
dell'art. 17 legge n. 765 del 1967, dando per presupposto
che il Comune di Maiori fosse sprovvisto all'epoca di
strumento urbanistico contenente norme regolatrici dei
distacchi fra costruzioni. Evidenzia che era compito del
giudice del merito individuare lo strumento urbanistico in
vigore, censurando la sentenza impugnata laddove si era
limitata a riportare alcuni brani della relazione del ctu,
affermando che dalla stessa si desumeva che i luoghi in
questione si trovavano in zona di interesse
storico-ambientale da sottoporre a particolare tutela, nella
quale sarebbero stati consentiti interventi di restauro e di
rifacimento di vecchie strutture che non avessero comportato
alterazione delle sagome volumetriche preesistenti; i
Giudici, quindi, avevano affermato che la zona era gravata
da un vincolo di inedificabilità assoluta, facendo
riferimento a quanto apoditticamente affermato dal
consulente di ufficio senza peraltro verificare e neppure
indicare la fonte normativa regolamentare che aveva ritenuto
di applicare.
2. Il secondo motivo deduce che la riduzione in
pristino e prevista per quelle violazioni di prescrizioni
urbanistiche dettate in materia di distanze legali, come
tali integrative della norma dettata dall'art. 873 cod.
civ., ma non di quelle disposizioni del presunto P.R.G
dettate a tutela di interessi generali, urbanistici, quali
la limitazione del volume, dell'altezza, della densità degli
edifici ecc. ovvero che consentano, per ragioni di interesse
storico ambientale, solo restauri e rifacimenti delle
vecchie strutture senza alterazione di volumi preesistenti,
trattandosi di disciplina che non riguarda i rapporti
privatistici.
3. Il terzo motivo censura la sentenza laddove aveva
erroneamente ritenuto che il citato art. 17 legge n. 765 del
1967 trova applicazione nel caso in cui lo strumento
urbanistico consente la costruzione ma non disciplina la
materia delle distanze delle costruzioni.
4. I motivi -che, per la stretta connessione, possono essere
esaminati congiuntamente- sono infondati, anche se deve
essere corretta la motivazione della sentenza impugnata.
Occorre chiarire che,
secondo la giurisprudenza di
legittimità, qualora lo strumento urbanistico vieti ogni
attività costruttiva in una determinata zona e per essa non
dia quindi alcuna prescrizione sulle distanze tra
costruzioni, i rapporti di vicinato non sono disciplinati
dall'art. 873 cod. civ., ma dall'art. 41-quinquies della l.
n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 17 della legge n. 765
del 1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo
residenziale, la distanza dagli edifici vicini non può
essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio
da costruire (Cass. 26123/2015).
Va ancora considerato che il decreto n. 1444 del 1968,
dettato in tema di standards urbanistici e di definizione
delle zone territoriali omogenee, ai quali i Comuni devono
attenersi in sede di approvazione o revisione degli
strumenti urbanistici, ai sensi dell'art. 17 della legge n.
765 del 1967, consente nelle zone A) -di carattere storico,
artistico o di particolare pregio ambientale, come definite
dall'art. 2 del citato decreto- esclusivamente interventi di
risanamento conservativo senza incremento delle densità
edilizia di zona e territoriale preesistenti (art. 7),
prevedendo che le distanze fra gli edifici non possono
essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti (art. 9).
In sostanza, essendo imposto un vincolo conformativo
inerente alla caratteristiche intrinseche del territorio
-non temporaneo e, come tale, non caducabile- il mancato
rispetto del divieto di nuove costruzioni nella zona A non è
privo di conseguenze sul piano della violazione delle
disposizioni concernenti le distanze legali tra costruzioni,
che devono rimanere quelle preesistenti (Cass. 1282/2006;
S.U. 20354/2013): la norma regolamentare ha efficacia precettiva nei rapporti privatistici, essendo integrativa
delle disposizioni dettate dall'art. 873 cod. civ..
Pertanto, qualora il regolamento locale prescriva che nelle
zone territoriali A) di interesse storico, artistico,
culturale sono consentite esclusivamente opere di
consolidamento o restauro con divieto di alterazione dei
volumi preesistenti, la norma, nel recepire le disposizioni
di cui al decreto n. 1444 del 1968, stabilisce un vincolo di inedificabilità assoluta, dettando in sostanza la disciplina
in materia di distanze legali da osservare, che sono
determinate con riferimento a quelle intercorrenti fra gli
edifici preesistenti nella relativa zona; quindi, non
possono trovare applicazione i criteri stabiliti dall'art.
873 cod. civ. né quelli di cui all'art. 17, primo comma, legge
n. 765 del 1967.
Orbene, va considerato che:
a) dalla sentenza impugnata non risulta che abbiano formato oggetto
di specifica censura con l'appello gli accertamenti compiuti
dal tribunale circa la ubicazione degli immobili nella zona
A) del regolamento edilizio del Comune di Maiori e il
vincolo di inedificabilità ad essa relativo, posto che
evidentemente sarebbe stato onere del ricorrente riportare i
motivi del gravame comprovanti la formulazione di specifiche
censure formulate con l'atto di appello per contrastare le
argomentazioni della decisione di primo grado (S.U.
23299/2011; Cass. 1651/2014; Ord. 18704/2015);
b) si è, comunque, rivelata generica la denunciata violazione di
legge con riferimento alla inesistenza dello strumento
urbanistico, invece accertata dai Giudici, senza che
peraltro siano riportati i passi salienti della consulenza
tecnica alla quale ha fatto riferimento la Corte di appello
(ne vengono estrapolati dei brani); pertanto, per le
considerazioni sopra formulate, deve ritenersi che è stata
correttamente esclusa la invocata applicabilità dell'art. 17
legge n. 765 del 1967, mentre si sono rivelati erronei i
riferimenti compiuti dalla sentenza impugnata alle distanze
previste dall'art. 873 cod. civ. (ciò dicasi, peraltro, nei
limiti del sindacato consentito alla Cassazione dalla
impugnazione proposta con il ricorso, che evidentemente non
potrebbe portare a una decisione più sfavorevole al
ricorrente) (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
15.07.2016 n. 14552). |
maggio 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici, la «prevenzione» vince il regolamento
edilizio.
Sezioni unite. Bocciata l’incompatibilità.
Non vi è alcun
motivo di negare a chi costruisce per primo, anche in
presenza di norme dei regolamenti edilizi che fissino
distanze tra le costruzioni diverse da quelle stabilite dal
Codice civile, la possibilità di avvalersi delle facoltà
connesse al principio della “prevenzione”. Cioè di decidere
se costruire sul confine o a distanza dal confine stesso.
Questo, anche se i regolamenti locali prevedano solo una
distanza tra costruzioni maggiore da quella stabilità dal
Codice civile senza però stabilire espressamente anche una
distanza minima dal confine.
Questo il principio fissato dalle Sezioni Unite civili della
Corte di Cassazione con la
sentenza
19.05.2016 n. 10318 per porre fine al contrasto
esistente tra varie sentenze in merito alla incompatibilità,
o meno, del principio della prevenzione con la disciplina
delle distanze.
La rilevanza del caso consiste nel fatto che chi costruisce
per primo, ovviamente, potendo decidere dove costruire (sul
confine o no) finisce per condizionare le possibilità di
costruire del vicino, il quale a seconda della scelta
operata dal “primo arrivato” si troverà costretto a decidere
tra: costruire in aderenza (articolo 877 del Codice civile),
chiedere la comunione forzosa del muro sul confine (articolo
874) oppure costruire arretrando il suo edificio in misura
pari all’intero «distacco legale».
Il caso esaminato della Sezioni Unite nasceva dalla domanda
di arretramento proposta da un proprietario nei confronti
del fabbricato del confinante in quanto non rispettoso dei
limiti di distanza tra edifici fissati dalla legge 765/1967.
La sentenza del Tribunale di Nola stabiliva che si debba
applicare non il termine sulla distanza indicato dalla legge
765/1967 ma quello di otto metri previsto viceversa dal
regolamento edilizio del Comune (in questo caso quello di
Ottaviano).
La Corte d’appello di Napoli riteneva invece che a dover
essere arretrato fosse l’edificio del proprietario che aveva
avviato la causa in quanto, come era risultato dalla
istruttoria del procedimento, era stato costruito “per
secondo”. Ma la vicenda andava avanti (ormai sono passati 26
anni!) sino in Cassazione, per poi ritornarvi in quanto il
ricorrente sosteneva, appunto, l’inapplicabilità del
principio della prevenzione in presenza di norme
regolamentari che imponevano distanze differenti da quelle
previste dal Codice civile. Così la vicenda veniva
affrontata per la seconda volta dalla Cassazione, dove la
Sezione II investiva della faccenda le Sezioni unite,
ravvisando un contrasto interno alla stessa Sezione
Le Sezioni Unite hanno così chiarito come non vi sia alcuna
incompatibilità del principio di prevenzione con la
disciplina delle distanze di cui alla legge 765/1967
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.05.2016).
---------------
MASSIMA
1) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la
violazione e
falsa applicazione degli arti. 873 e 875 cod. civ., nonché
dell'art.
26 del regolamento edilizio del comune di Ottaviano.
Deducono
che la Corte di Appello, dopo aver correttamente ritenuto
l'applicabilità della norma di cui all'art. 26 del
regolamento
edilizio del Comune di Ottaviano, che impone un distacco di
metri
otto tra le costruzioni, ha erroneamente ritenuto
applicabile alla
fattispecie il criterio della prevenzione previsto dagli
artt. 873 e
875 cod. civ., e supposto la priorità nel tempo della
costruzione
Del Giudice rispetto a quella del Guerriero.
Sostengono che,
in
materia di distanze fra fabbricati o di questi dal confine,
stabilite
dai regolamenti locali in misura maggiore di quella prevista
dal
codice civile, il principio della prevenzione trova
applicazione
solo ove lo strumento urbanistico consenta anche le
costruzioni in
appoggio o in aderenza, e colui che fabbrica per primo
costruisca
sul confine o a distanza regolamentare da questo.
Deducono
che,
al contrario, tale criterio non può mai trovare
applicazione,
consenta o meno lo strumento urbanistico le costruzioni in
appoggio o in aderenza, allorché colui che fabbrica per
primo
costruisca a distanza dal confine inferiore a quella
stabilita dal
regolamento, avendo la norma locale che consente costruzioni
sul
confine la funzione di ripartire in maniera paritetica tra i
costruttori confinanti la distanza dal confine, ovvero di
eliminarla, ma sempre in modo paritetico, cioè con
costruzioni in
aderenza od in appoggio erette sulla linea di confine.
Rilevano,
pertanto, che, poiché la Del Giudice ha eretto la sua
costruzione a
meno di quattro metri dal confine (distanza pari alla metà
di
quella minima prescritta fra edifici), nella specie,
indipendentemente dal fatto che il regolamento locale
preveda o
meno la costruzione sul confine, è da escludere
l'applicabilità del
criterio della prevenzione.
Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano l'omessa
o
insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi,
per avere
la Corte di Appello ritenuto applicabile il criterio della
prevenzione senza indagare se lo strumento urbanistico
locale
preveda o meno la facoltà per i proprietari confinanti di
costruire
in aderenza o in appoggio, e senza rilevare che la Del
Gi.,
come accertato dal C.T.U., ha eretto il suo fabbricato a
distanza
dal confine inferiore a quella di metri quattro prescritta a
suo
carico dall'art. 26 del regolamento edilizio comunale.
...
2) Queste Sezioni Unite sono state chiamate a comporre
il
contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità
sulla
questione -oggetto dei primi due motivi di ricorso-
dell'applicabilità
o meno del principio di prevenzione nell'ipotesi
in cui le disposizioni di un regolamento edilizio locale
prevedano
esclusivamente una distanza tra fabbricati maggiore di
quella
codicistica, senza imporre altresì il rispetto di una
distanza
minima delle costruzioni dal confine.
L'ordinanza interlocutoria del 23.01.2009 della Seconda
Sezione Civile della Corte di Cassazione ha preso le mosse
dal
principio di diritto enunciato da Cass. n. 13338/2006 nella
precedente fase di legittimità, secondo cui le limitazioni
previste
dall'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, introdotto
dalla l. n. 765 del 1967, art. 17, riguardanti la distanza
tra edifici vicini
nei Comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di
fabbricazione, si estendono anche ai Comuni dotati di
regolamento edilizio, se questo è privo di norme
disciplinanti i
distacchi tra costruzioni; laddove, qualora il regolamento
edilizio
contenga tali norme e sia stato approvato anteriormente
all'entrata
in vigore della legge n. 765 del 1967, prevalgono le norme
locali.
Tale è il caso del Comune di Ottaviano, munito di un
regolamento
edilizio approvato in epoca anteriore all'entrata in vigore
della
c.d. "legge ponte", il quale all'art. 26 contiene una
regolamentazione specifica nella suddetta materia, ponendo
un
divieto di spazi vuoti inferiori a otto metri "tra casa e
casa".
La Seconda Sezione ha rilevato che il giudice del rinvio,
nel
riesaminare —alla luce del principio di diritto affermato
nella
sentenza di cassazione- la controversia alla stregua delle
previsioni del regolamento edilizio locale, ha disposto
l'arretramento del fabbricato del Guerriero a otto metri
(invece
che a quella di dodici metri stabilita nella sentenza
cassata sulla
base del disposto del citato art. 17 della c.d. legge ponte)
da
quello dell'attrice, affermando che, contrariamente a quanto
sostenuto dagli appellanti, la documentazione in atti
comprovava
che era stata la Del Giudice a costruire per prima e a dover
essere
considerata, pertanto, "preveniente" rispetto al convenuto.
Ha, quindi, osservato che, avendo i ricorrenti censurato
l'accertamento della prevenzione, occorreva soffermarsi sul
relativo presupposto.
2.1) Nell'ordinanza di rimessione è stato dato atto del
concorde orientamento della giurisprudenza di legittimità
circa
l'inoperatività del criterio della prevenzione allorquando
la
disciplina regolamentare imponga il rispetto di una distanza
inderogabile delle costruzioni dai confini (cfr. Cass. n.
23693/2014,
18728/2005, 627/2003, 12561/2002, 4895/2002, 4366/2001, 10600/1999,
4438/1997, 3737/1994, 7747/1990 e 4737/1987, tutte precedute
dall'incipit
di S.U. n. 2846/1967).
La Seconda Sezione, al contrario, ha rilevato un contrasto interno alla stessa Sezione per l'ipotesi in cui le
disposizioni
locali prevedano solo una distanza minima tra costruzioni
maggiore di quella codicistica, senza nulla disporre
espressamente
riguardo alla distanza delle costruzioni dal confine.
L'ordinanza interlocutoria ha richiamato, al riguardo, un
primo
indirizzo, secondo cui, nel caso in cui il regolamento
edilizio
determini solo la distanza minima fra le costruzioni, in
assenza di
qualunque indicazione circa il distacco delle stesse dal
confine, il
principio della prevenzione deve ritenersi operativo, non
ostandovi
alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine (Cass.
05.12.2007 n. 25401; Cass. 20.04.2005 n. 8283; Cass. 01.06.1993 n.
6101;
Cass. 16.05.1991 n. 5474; Cass. 07.06.1988 n. 3859; Cass.
20.11.1987 n. 8543 e Cass. 24.06.1983 n. 4352).
Ha rilevato che, invece, in base ad un diverso orientamento,
allorquando i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una
distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella
prevista dal codice civile, detta prescrizione deve
intendersi
comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal
quale chi
costruisce per primo deve osservare una distanza non
inferiore alla
metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della
possibilità di costruire sul confine e, quindi,
dell'operatività del
cosiddetto criterio della prevenzione (Cass. 22.02.2007 n.
4199;
Cass. 19.07.2006 n. 16574; Cass. 01.07.1996 n. 5953; Cass.
28.040.1992 n. 5062; Cass. 10.10.1984 n. 5055; Cass. 29.06.1981 n.
4246).
Ha accennato, inoltre, alla posizione intermedia assunta da
altra pronuncia (Cass. 16.02.1999 n. 1282), la quale, pur
affermando che la prevenzione non opera ove i regolamenti
edilizi
comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra
costruzioni
maggiore di quella prevista dal codice civile -detta
prescrizione
dovendosi intendere comprensiva di un implicito riferimento
al
confine-, precisa che il metodo di misurazione dei distacchi
-metà
della distanza dal confine per ciascun proprietario- non è
incompatibile con la previsione della facoltà di edificare
sul
confine ove lo spazio antistante sia libero fino alla
distanza
prescritta, oppure in aderenza o in appoggio a costruzioni
preesistenti, con conseguente applicabilità del criterio
della prevenzione.
Nell'ordinanza interlocutoria è stata poi richiamata una
risalente pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte,
nella
quale è stato affermato che, nel caso di norma regolamentare
che
determini la distanza fra costruzioni non dal confine, ma in
via
assoluta, commisurandola alla maggiore altezza di uno dei
corpi
di fabbrica, rimane esclusa la possibilità di costruire sul
confine e
l'applicabilità del criterio di prevenzione, onde colui che
costruisce per primo deve osservare, rispetto al confine,
una
distanza pari alla metà dell'altezza dell'erigendo
fabbricato (Cass.
Sez. Un. 27.11.1974 n. 3873).
La stessa ordinanza ha segnalato, peraltro, una più recente
pronuncia delle Sezioni Unite, che ha affrontato,
risolvendolo in
senso affermativo, il problema della compatibilità del
principio
codicistico della prevenzione con la disciplina sulle
distanze tra
fabbricati vicini dettata dall'art. 41-quinquies, primo
comma,
lettera c), della legge 17.08.1942 n. 1150 (aggiunto
dall'art. 17
della legge 06.08.1967 n. 765), traendone la conseguenza che,
quando il fabbricato del preveniente si trovi ad una
distanza dal
confine inferiore alla metà del distacco tra fabbricati
prescritto
dalla citata norma speciale, il prevenuto ha, ai sensi
dell'art. 875
cod. civ., la facoltà di chiedere la comunione forzosa del
muro
allo scopo di costruirvi contro (Cass. Sez. Un. 01.08.2002 n.
11489).
2.2) Prima di affrontare la questione rimessa a queste
Sezioni
Unite, occorre rammentare che, nel sistema delineato dagli
artt.
873 ss. cod. civ., il principio della prevenzione comporta
che il
confinante che costruisce per primo viene a condizionare la
scelta
del vicino che voglia a sua volta costruire. Al preveniente,
invero,
è offerta una triplice facoltà, potendo egli edificare sia
rispettando, una distanza dal confine pari alla metà di
quella
imposta dal codice, sia sul confine, sia ad una distanza dal
confine inferiore alla metà di quella prescritta.
A fronte
alla
scelta operata dal preveniente, il vicino che costruisce
successivamente, nel primo caso, deve costruire anch'esso ad
una
distanza dal confine pari alla metà di quella prevista, in
modo da
rispettare il prescritto distacco legale dalla preesistente
costruzione. Nel secondo caso, il prevenuto può chiedere la
comunione forzosa del muro sul confine (art. 874 cod. civ.)
o
realizzare la propria fabbrica in aderenza allo stesso (art.
877,
primo comma, cod. civ.); ove non intenda costruire sul
confine, è
tenuto ad arretrare il suo edificio in misura pari
all'intero
distacco legale. Nella terza ipotesi considerata, il
prevenuto può
chiedere la comunione forzosa del muro e avanzare la propria
fabbrica fino ad esso, occupando lo spazio intermedio, dopo
avere
interpellato il proprietario se preferisca estendere il muro
a
confine o procedere alla sua demolizione (art. 875 cod.
civ.); in
alternativa, può costruire in aderenza (art. 877, secondo
comma, cod. civ.) o rispettando il distacco legale dalla
costruzione del
preveniente.
Così sinteticamente riassunto il meccanismo della
prevenzione,
va precisato che esula dal quesito posto nell'ordinanza
interlocutoria l'ipotesi dei regolamenti locali che, pur
imponendo
una distanza assoluta tra fabbricati, prevedano
espressamente la
possibilità di costruire sul confine, ovvero di costruire in
appoggio
o in aderenza. In una simile evenienza, infatti, è la stessa
fonte
regolamentare a sancire direttamente, senza necessità di
alcuno
sforzo interpretativo, l'operatività della regola della
prevenzione
prevista dal codice civile, con le relative implicazioni
riguardo alle
facoltà rispettivamente spettanti al preveniente e al
prevenuto.
La questione rimessa alle Sezioni Unite, inoltre,
si
riferisce
specificamente alla ipotesi dei regolamenti locali che, come
quello in esame, stabiliscano una distanza minima dal
confine in
una misura fissa, non anche a quella dei regolamenti che
prescrivano una distanza minima dal confine non
predeterminata,
ma commisurata all'altezza di una delle costruzioni.
Ipotesi,
quest'ultima, per la quale può farsi riferimento alle
indicazioni
fornite dalle Sezioni Unite nella menzionata pronuncia n.
11489/2002 in relazione all'analoga previsione di cui alla
c.d.
legge ponte, per la quale è stata ritenuta -in mancanza di
dati di
segno contrario emergenti da specifiche disposizioni
regolamentari- l'operatività del principio di prevenzione.
2.3) Così delimitato il campo di indagine, si osserva che i
precedenti favorevoli all'applicabilità del criterio della
prevenzione, citati nell'ordinanza di rimessione, si fondano
essenzialmente sul rilievo della natura integrativa dei
regolamenti
edilizi con riferimento alle previsioni codicistiche in
materia di
distanze, che comprendono il criterio della prevenzione.
In questo senso, in particolare, le sentenze 07.06.1988 n.
3859 e
16.05.1991 n. 5474 affermano che "le norme dei regolamenti
comunali edilizi che fissano le distanze nelle costruzioni
in
misura diversa da quelle stabilite dal codice civile sono,
per
l'espresso disposto dell'art. 873 cod. civ., integrative del
codice
medesimo, il quale, rinviando ai regolamenti locali per
tutto ciò
che concerne le distanze nelle costruzioni, comprende tutta
la
disciplina predisposta da quelle fonti. Ne deriva che le
norme dei
regolamenti edilizi che si limitino a stabilire una distanza
nelle
costruzioni superiore a quella del codice civile, senza
prescrivere
tale distanza in rapporto al confine, non implicano il
divieto di
costruire in appoggio o in aderenza, ricorrendone i
presupposti ai
sensi degli artt. 874, 875, 877 cod. civ., e, di
conseguenza, non
incidono sull'esercizio del diritto di prevenzione, la cui
operatività non esige un'espressa previsione ad opera delle
norme
regolamentari".
Dello stesso tenore la sentenza 01.07.1993 n. 6101, nella quale
si
afferma che "le norme dei regolamenti comunali che fissano
le distanze nelle costruzioni in misura diversa da quelle
stabilite dal
codice civile.., hanno natura di norme integrative dell'art.
873
cod. civ. e con esse trova, perciò, applicazione anche il
regime del
codice civile in tema di distanze nelle costruzioni in fondi
finitimi, fra cui quello della prevenzione, che vieta al
costruttore
prevenuto il quale non possa o non voglia costruire in
appoggio o
in aderenza, di creare un distacco minore di quello
corrispondente
all'altezza che ha il suo edificio sul lato fronteggiante il
fondo del
vicino".
Le successive pronunce citate nell'ordinanza interlocutoria
si
rifanno sostanzialmente ai medesimi argomenti.
Così, la sentenza del 05.12.2007 n. 25401 si limita ad
osservare
che "costituisce principio di diritto ormai consolidato in
giurisprudenza di legittimità che il diritto del
proprietario
confinante di costruire in aderenza al confine non sussiste
quando i
regolamenti locali fissano solo la distanza minima delle
costruzioni
dal confine, ritenendosi in questo caso che l'obbligo di
arretrare la
costruzione è assoluto, come lo è il corrispondente divieto
di
costruire sul confine. Nel caso, invece, che il regolamento
edilizio
fissi solo la distanza fra le costruzioni, in assenza di
qualunque
indicazione circa il distacco delle costruzioni dal confine,
il
principio della prevenzione deve ritenersi in vigore perché
la sua
operatività non è ostacolata da alcun divieto di costruire
in
aderenza o sul confine".
Analoghe considerazioni vengono svolte nella sentenza 20.04.2005 n. 8283.
Non appaiono, invece, particolarmente significative ai fini
della soluzione della questione che qui rileva le due
ulteriori —e
più risalenti- pronunce citate nell'ordinanza interlocutoria
(Cass.
20.11.1987 n. 8543 e Cass. 24.06.983 n. 4352), le quali si
riferiscono a regolamenti comunali che prevedevano
espressamente
la possibilità di edificare in aderenza, rendendo per ciò
solo salvo
il criterio della prevenzione.
L'opzione interpretativa in esame trova un autorevole
conforto
nella citata decisione a Sezioni Unite n. 11489 del 2002,
nella cui
motivazione è stata richiamata e ritenuta condivisibile la
"consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte in sede
di
applicazione dei regolamenti locali che non prescrivono
distanze
dei fabbricati dai confini, limitandosi a stabilire
distacchi tra i
fabbricati"; giurisprudenza che, secondo le Sezioni Unite,
ha
"correttamente" ritenuto che "solo in presenza di una norma
regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati con
riguardo al confine si ponga l'esigenza di un'equa
ripartizione tra
proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una zona
di
distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in
assenza di
una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il
principio
della prevenzione, con la conseguente possibilità, per il
prevenuto,
di costruire in aderenza alla fabbrica costruita per prima,
se questa sia stata posta sul confine od a distanza
inferiore alla metà del
prescritto distacco tra fabbricati".
2.4) Le pronunce menzionate nell'ordinanza di rimessione a
sostegno della tesi contraria all'operatività del criterio
della
prevenzione fanno perno essenzialmente sul rilievo secondo
cui
l'assolutezza del distacco previsto dai regolamenti locali
non può
ripercuotersi in danno di uno solo dei confinanti, ma va
equamente ripartita tra le parti interessate.
In tal senso, si legge nella sentenza 22.02.2007 n. 4199 che,
"quando i regolamenti edilizi prevedano una distanza minima
assoluta tra costruzioni maggiore di quella prescritta dal
codice
civile senza un riferimento esplicito al confine . la
prevista
assolutezza della distanza, rapportata ad un'equa
ripartizione del
relativo onere, è da ritenersi comprensiva di un implicito
riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo
deve
osservare una distanza non inferiore alla metà di quella
prescritta,
con conseguente esclusione della possibilità di costruire
sul
confine e, quindi, della operatività del principio della
prevenzione".
Dello stesso tenore appaiono le sentenze 29..06.1981 n. 4246 e
10.10.1984 n. 5055.
Non offrono, invece, particolari spunti le ulteriori
pronunce
menzionate.
La sentenza 28.04.1992 n. 5062 muove, infatti, dall'analisi
della
disciplina regolamentare applicabile in concreto, ove era
prescritta una distanza minima assoluta fra edifici, con la
possibilità, peraltro, di costruire in aderenza per una
certa
categoria di costruzioni; dal che la Corte, con un'opzione
ermeneutica circoscritta allo specifico regolamento
edilizio, ha
desunto che nella generalità dei casi fosse stabilita
un'implicita
distanza dal confine in misura pari alla metà di quella fra
edifici.
La sentenza 19.07.2006 n. 16574 si riferisce, poi, ad un
regolamento locale che, seppure stabilendola in rapporto
all'altezza degli edifici, prescriveva una distanza minima
delle
costruzioni dal confine.
L'ultima decisione menzionata (01.07.1996 n. 5953), a ben
vedere, si presta ad una interpretazione contraria
all'orientamento
qui preso in considerazione: in motivazione, infatti, si
afferma
l'operatività del criterio della prevenzione nel caso in cui
i
regolamenti locali impongano unicamente una distanza minima
fra
gli edifici, a meno che l'interpretazione della norma
regolamentare non porti ad escludere la facoltà di costruire
in
aderenza.
2.5) Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto debba
essere
composto privilegiando l'interpretazione favorevole
all'operatività, nella ipotesi considerata, del criterio
della
prevenzione, non apparendo convincenti le ragioni che nella
elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sono state
addotte a
sostegno dell'opposta tesi.
2.6) Un argomento sovente utilizzato ai fini dell'esclusione
del
criterio della prevenzione poggia sul dato letterale delle
disposizioni regolamentari che prescrivono un determinato
distacco
minimo "assoluto" tra costruzioni, per desumerne, anche in
considerazione dell'esigenza di assicurare un'equa
ripartizione del
relativo onere tra le parti, il carattere "inderogabile" di
tale
distacco.
Più in generale, a sostegno dell'orientamento contrario alla
operatività del criterio di prevenzione, sono state svolte
considerazione attinenti alla natura stessa del relativo
meccanismo, che si porrebbe in contrasto con la funzione
propria
della disciplina dei distacchi tra edifici, volta ad
assicurare un
equo contemperamento degli interessi e dei sacrifici dei
proprietari dei fondi confinanti.
E' in tale prospettiva che
si è
formato l'orientamento giurisprudenziale che ha ravvisato
nei
regolamenti locali che impongono un distacco assoluto tra
costruzioni un implicito riferimento al confine e, quindi,
l'obbligo
per ciascuna parte di rispettare una distanza minima dal
confine
pari alla metà di quella complessiva prescritta per i
distacchi tra
edifici. Solo in tal modo, infatti, secondo i fautori della
tesi
esposta, potrebbe essere soddisfatta l'esigenza di evitare
eccessivi
sacrifici a carico di colui che costruisca per secondo;
obiettivo che verrebbe frustrato in caso di applicazione del
principio di
prevenzione, di per sé incompatibile con un'equa
ripartizione tra
le parti dell'onere imposto dalla previsione del distacco.
In dottrina, poi, alcuni autori hanno rimarcato il carattere
di
"specialità" della disciplina dettata dai regolamenti
edilizi
rispetto a quella codicistica, per ravvisare in tale
normativa una
deroga non solo al dato numerico della distanza, ma
all'intero
sistema dei rapporti tra proprietari limitrofi delineato dal
codice
civile.
Un ulteriore argomento invocato a sostegno della
inoperatività
del criterio della prevenzione è quello che si fonda sul
rilievo
della natura pubblicistica dei regolamenti locali, connessa
al fatto
che essi concorrerebbero a comporre la complessiva
disciplina
urbanistica; a detta natura conseguirebbe la non
praticabilità della
disciplina codicistica della prevenzione, tipicamente
destinata a
regolare i rapporti tra privati.
In tale ottica si pone la
già citata
pronunzia delle Sezioni Unite n. 3873/1974, che ha osservato
come l'intento insito nella norma regolamentare sia quello
"di
garantire in ogni caso un ampio spazio tra gli edifici onde
soddisfare interessi di ordine generale, come quelli
igienici, di
quiete pubblica e di estetica edilizia.., intento, questo,
che
rimarrebbe ovviamente frustrato se, nel contempo, venissero
consentite costruzioni sul confine e fosse quindi permessa,
da
parte del vicino, la costruzione in aderenza".
2.7) Gli argomenti sopra richiamati, ad avviso delle Sezioni
Unite, non costituiscono un ostacolo all'affermazione
dell'operatività in materia dell'istituto codicistico della
prevenzione, apparendo agevolmente confutabili.
E invero, al criterio di interpretazione letterale, che si
fonda
sulla pretesa assimilazione degli attributi "assoluto" e
"inderogabile", può opporsi, in conformità di un'autorevole
opinione dottrinale, come la normativa edilizia contempli
effettivamente la previsione di distanze "inderogabili",
come tali
destinate a non tollerare in alcun caso la possibilità di
costruire
sul confine o in aderenza. Al di fuori di tali ipotesi,
tuttavia, in
presenza di una norma regolamentare che si limiti a
prevedere un
distacco "assoluto" tra costruzioni, non sembra possibile
escludere in radice la possibilità di edificare sul confine
o a
distanza dal confine inferiore alla metà di quella legale,
ferma
restando la necessità, nel caso in cui non vengano
realizzate
costruzioni in appoggio o in aderenza, di rispettare la
distanza
minima prescritta dal regolamento locale.
Quanto all'ostacolo derivante dalla necessità di assicurare
un'equa ripartizione dell'onere tra i proprietari
confinanti, è
facile obiettare che un equo contemperamento degli interessi
delle
parti è garantito dalla possibilità, offerta al prevenuto,
di chiedere
la comunione forzosa del muro o di costruire in aderenza
alla
fabbrica eretta dal preveniente sul confine o a distanza
dallo stesso inferiore alla metà del distacco fissato dalla
norma
regolamentare. Il meccanismo della prevenzione, come
congegnato dal codice civile, pertanto, consente di regolare
armonicamente il rapporto di successione temporale tra le
costruzioni che sorgono su fondi contigui, senza assicurare
posizioni di vantaggio a colui che costruisce per primo in
danno
di colui che costruisce per secondo: alle facoltà
riconosciute al
preveniente, infatti, fanno da contrappeso quelle attribuite
al
prevenuto, alle quali il primo non può opporsi.
All'argomento basato sul carattere di "specialità" dei
regolamenti edilizi, poi, può replicarsi che detti
regolamenti,
proprio in ragione di tale specialità, sono di stretta
interpretazione; con la conseguenza che, allorché essi si
limitino
ad imporre un distacco minimo tra costruzioni, senza
prescrivere
espressamente altresì una distanza minima dal confine, non
pare
lecito cogliere negli stessi una deroga al criterio della
prevenzione sancito in via generale dal codice civile. I
regolamenti locali, infatti, in virtù del rinvio previsto
nell'art.
873 c.c., hanno portata integrativa delle prescrizioni del
codice
civile in tema di distanze tra costruzioni su fondi
finitimi; sicché
ad essi, salva espressa previsione contraria, deve ritenersi
applicabile l'intera disciplina codicistica dettata in
materia,
compreso il meccanismo della prevenzione.
La tesi che ravvisa la ragione della incompatibilità del
principio della prevenzione con la disciplina
extracodicistica delle
distanze nella natura "pubblicistica" di tale normativa,
infine, è
stata già considerata insostenibile da queste Sezioni Unite
nella
sentenza n. 11489/2002, nella quale è stato rilevato che è
"evidente la componente pubblicistica, accanto a quella
privatistica, di tutta la disciplina, anche codicistica,
sulle
distanze, volta, com'è noto, ad armonizzare la disciplina
dei
rapporti intersoggettivi di vicinato con l'interesse
pubblico ad un
ordinato assetto urbanistico" .
Una simile componente pubblicistica, pertanto, così come non
ha impedito la previsione nel codice civile della regola
della
prevenzione, allo stesso modo non può costituire un serio
ostacolo
all'estensione della relativa disciplina alla materia
regolata dai
regolamenti locali.
Né potrebbe sostenersi la natura esclusivamente
pubblicistica
della normativa extracodicistica in materia di distanze, ove
solo si
tenga conto della natura tipicamente privatistica della
sanzione
prevista in caso di violazione delle relative disposizioni,
costituita dal rimedio della riduzione in pristino, rimesso
all'iniziativa del vicino, il quale potrebbe anche non farvi
ricorso.
Ove, poi, si consideri che la ratio delle norme sulle
distanze
minime tra costruzioni è, secondo l'opinione dominante,
quella di
evitare il pregiudizio che potrebbe derivare agli edifici
dalla
creazioni di intercapedini troppo ristrette, appare evidente
che una simile finalità non viene frustrata dalla previsione
della facoltà di
costruire in aderenza o in appoggio, escludendosi in tal
modo la
possibilità stessa della formazione di intercapedini
pericolose tra i
due fabbricati.
2.8) In definitiva, nessuna delle ragioni preclusive
evidenziate
in giurisprudenza e in dottrina osta all'applicabilità del
principio
codicistico della prevenzione nell'ipotesi in cui un
regolamento
locale si limiti a stabilire un distacco minimo tra le
costruzioni
maggiore rispetto a quello contemplato dall'art. 873 del
codice
civile, senza prescrivere altresì una distanza minima delle
costruzioni dal confine o vietare espressamente la
costruzione in
appoggio o in aderenza.
Orbene, se le norme regolamentari, così come in concreto
strutturate, postulano solo l'esigenza del rispetto di una
distanza
minima tra fabbricati, non vi è alcun valido motivo per
negare a
colui che costruisca per primo la possibilità di avvalersi
delle
facoltà connesse al principio di prevenzione in base alla
disciplina
codicistica.
Le norme dei regolamenti edilizi che fissano le distanze tra
le
costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal codice
civile,
infatti, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 873 cod.
civ., hanno
portata integrativa delle disposizioni dettate in materia
dal codice
civile; e tale portata non si esaurisce nella sola deroga
alle
distanze minime previste dal codice, ma si estende
all'intero impianto di regole e principi dallo stesso
dettato per disciplinare
la materia, compreso il meccanismo della prevenzione, che i
regolamenti locali possono eventualmente escludere,
prescrivendo
una distanza minima delle costruzioni dal confine o negando
espressamente la facoltà di costruire in appoggio o in
aderenza.
Ne discende che un regolamento locale che si limiti a
stabilire una
distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal
codice
civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni
dal
confine, non incide sul principio della prevenzione, come
disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al
preveniente la possibilità di costruire sul confine o a
distanza dal
confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le
costruzioni,
ne al prevenuto la corrispondente facoltà di costruire in
appoggio
o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli
artt. 874,
875 e 877 cod. civ.
2.9) Alla luce degli esposti principi, nella specie,
contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, deve
ritenersi
l'operatività della regola della prevenzione, non risultando
che il
regolamento edilizio del Comune di Ottaviano, che impone un
distacco tra costruzioni di metri otto, preveda altresì una
distanza
minima delle costruzioni dal confine.
I primi due motivi di ricorso, di conseguenza, devono essere
disattesi. |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di limitazioni
legali della proprietà, l'art. 873 cod. civ., avendo la finalità di impedire
intercapedini dannose, prevede che le norme sulle distanze legali si
applicano soltanto agli edifici che si fronteggiano, sicché la loro
misurazione deve essere effettuata in modo lineare, e non in modo radiale
(ossia "a raggio") come invece previsto in materia di vedute.
La norma dell'art. 873 cod. civ., pertanto, non trova applicazione se non
nel caso in cui i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla
linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che,
supponendo di farli avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino
almeno in un punto.
---------------
2. — Entrambe le censure non possono trovare accoglimento.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di
discostarsi, in tema di limitazioni legali della proprietà, l'art. 873 cod.
civ., avendo la finalità di impedire intercapedini dannose, prevede che le
norme sulle distanze legali si applicano soltanto agli edifici che si
fronteggiano, sicché la loro misurazione deve essere effettuata in modo
lineare, e non in modo radiale (ossia "a raggio") come invece
previsto in materia di vedute (Sez. 2, Sentenza n. 7285 del 07/04/2005, Rv.
580948; Sez. 2, Sentenza n. 4639 del 24/05/1997, Rv. 504678; Sez. 2,
Sentenza n. 7048 del 25/06/1993, Rv. 482917); la norma dell'art. 873 cod.
civ., pertanto, non trova applicazione se non nel caso in cui i due
fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si
fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farli
avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto (Sez.
2, Sentenza n. 2548 del 25/07/1972, Rv. 360058).
Nella specie, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tale
principio. Essa, infatti, tenendo conto del fatto che il confine tra il
fondo degli attori e quello dei convenuti è obliquo, ha verificato —sulla
base degli elaborati del C.T.U.— che la proiezione lineare del fabbricato
dei convenuti non si interseca affatto col fabbricato degli attori, in tal
modo pervenendo a conclusioni coincidenti con quelle del consulente tecnico
d'ufficio (p. 4 della sentenza impugnata). Dal che esattamente la Corte
territoriale ha concluso che le norme sulle distanze legali non fossero
state violate
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 11.05.2016 n. 9649). |
EDILIZIA PRIVATA: Criterio della prevenzione.
Inesistenza di alcun margine di discrezionalità in sede giurisdizionale
nell’applicazione della disciplina. L’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444,
laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di
edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma
volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, dovendosi dunque interpretare le distanze tra le
costruzioni come predeterminate con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di
igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine
di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi
(TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I,
sentenza 09.05.2016 n. 152 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
I motivi di gravame seguono due diverse linee direttrici. Da un lato,
viene invocata la disciplina edilizia locale e pianificatoria, che
consentirebbe il rispetto di distanze inferiori a quelle disposte dalla
normativa statale applicata col provvedimento impugnato. Dall’altro lato, si
contesta l’assenza dei presupposti per l’esercizio del potere di autotutela.
Sul primo versante, la posizione prospettata appare contrastante con la
costante opinione giurisprudenziale, compiutamente posta a fondamento
dell’atto impugnato. In materia, va pertanto ribadito che l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le
pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi,
trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive
sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è eludibile. Pertanto, le
distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse
ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato
alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in
materia di equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. ad es. Tar
Liguria n 476/2013 e CdS 2861/2015).
Sul secondo versante, in linea di diritto per giurisprudenza consolidata e
tradizionale l'annullamento in autotutela di una concessione edilizia
rilasciata in violazione delle distanze minime tra fabbricati non necessita
di specifica motivazione né dell'espressa comparazione tra l'interesse
pubblico all'annullamento e quello del privato alla conservazione dell'atto
illegittimo, essendo le norme sulla distanza tra fabbricati inderogabili ed
esse stesse tese al rispetto di principi fondamentali in termini di
salubrità, con la conseguenza che l'attività posta in essere dal comune è
vincolata (cfr. ad es. CdS n. 3201/2006).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato ha preso in esame tutti gli
elementi della fattispecie, evidenziando il vizio di legittimità che minava
i titoli annullati; vizi di tale rilevanza da escludere la necessità,
secondo il principio appena richiamato, dell’indicazione di ulteriori
considerazioni e profili di interesse pubblico. Inoltre, nell’ambito dello
stesso provvedimento risulta essere stata svolta una adeguata valutazione
degli ulteriori elementi invocati, integranti l’esercizio di autotutela; in
specie, relativamente all’affidamento del privato, assume rilievo dirimente
l’immediata attivazione da parte della p.a. del rimedio della sospensione
dei lavori, nelle more della necessaria valutazione degli elementi poi posti
a fondamento dell’annullamento, avente altresì l’effetto di limitare il
consolidarsi dell’invocato affidamento.
Né appare invocabile il termine finale o perentorio di diciotto mesi,
introdotto ex novo dal d.l. 133/2014 e dalla legge 124/2015; in proposito,
se per principio generale (tempus regit actum) tale nuova disposizione non è
certo invocabile rispetto ad una fattispecie consumatasi oltre quattro anni
prima la relativa entrata in vigore, nel caso di specie tale violazione
neppure risulta tempestivamente dedotta né deducibile (risalendo lo stesso
ricorso al 2010). In proposito, è erroneo il richiamo al precedente
giurisprudenziale (C.S. n. 5625/2015), in quanto la sentenza invocata ha
accolto il ricorso censurando l’irragionevolezza del termine di tredici anni
trascorso fra il rilascio del titolo e l’annullamento nonché la mancata
valutazione motivata della conseguente posizione assunta dai destinatari
dell’atto; inoltre, proprio con riferimento alla nuova normativa la stessa
decisione, all’opposto rispetto a quanto invocato dalla odierna difesa
ricorrente, ne ha escluso l’applicazione alla fattispecie in esame ratione
temporis, sottolineandone unicamente (in termini invero del tutto
condivisibili) rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema
degli interessi rilevanti.
Nel caso de quo, all’opposto, del tutto lineare appare il comportamento
della p.a. procedente, la quale ha accertato e valutato tutti gli elementi
della fattispecie, sia conformemente alla normativa preminente sia in
termini di adeguatezza e completezza tali da escludere, negli ambiti di
sindacabilità propri del presente giudizio di legittimità, il travisamento
di quale elemento di fatto ovvero la manifesta irragionevolezza delle
valutazioni svolte. |
aprile 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Nel
calcolo del rispetto delle distanze, stabilite dagli
strumenti urbanistici, deve tenersi conto di qualsiasi
elemento sporgente e/o superficie aggettante dei fabbricati,
non assumendo alcuna rilevanza che gli sporti siano inadatti
all’incremento volumetrico o superficiario della costruzione
o che si trovino solo su una parte della facciata, eccetto
quelli esclusivamente ornamentali come i fregi e le
decorazioni.
---------------
Infatti, va disatteso il primo motivo di ricorso, atteso che
secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale
(cfr. per es. C.d.S. Sez. V n. 1267 del 13.03.2014; C.d.S.
Sez. IV n. 5557 del 22.11.2013; C.d.S. Sez. IV n. 4968 del
02.09.2011; TAR Lecce Sez. III n. 1624 del 28.09.2012), nel
calcolo del rispetto delle distanze, stabilite dagli
strumenti urbanistici, deve tenersi conto di qualsiasi
elemento sporgente e/o superficie aggettante dei fabbricati,
non assumendo alcuna rilevanza che gli sporti siano inadatti
all’incremento volumetrico o superficiario della costruzione
o che si trovino solo su una parte della facciata, eccetto
quelli esclusivamente ornamentali come i fregi e le
decorazioni
(TAR Basilicata,
sentenza 23.04.2016 n. 421 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Misurazione
della distanza tra edifici ed estensione del balcone.
In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi
dell’articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo
calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio,
costituisce corpo di fabbrica, e poiché l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968
–applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150
del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967– stabilisce la
distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un
regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della
distanza tra edifici che non tenga conto dell’estensione del balcone, è
“contra legem” in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l’estensione
del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt.
dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
22.03.2016 n. 5594 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
5. - I primi due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro
connessione, sono infondati perché presuppongono che la parete sud del
fabbricato dei ricorrenti non sia finestrata, a norma delle N.T.A., in
quanto il balcone ivi esistente non sarebbe da considerarsi quale finestra a
tal fine.
In senso opposto va osservato, invece, che in tema di distanze tra
costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c., con
riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone,
estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di
fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla
fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, come
modificata dalla legge 06.08.1967 n. 765- stabilisce la distanza minima di
mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio
che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non
tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto,
sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a
determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il
distacco voluto dalla c.d. legge ponte (legge 06.08.1967 n. 765, che, con
l'articolo 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150
l'articolo 41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al d.m. 02.04.1968, che
all'articolo 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10) (Cass.
n. 17089/2006).
[Del resto, se anche le pareti finestrate fossero solo quelle munite di
finestre e non anche quelle dotate di balconi, questi ultimi sarebbero pur
sempre da considerare come parte della costruzione ai fini della distanza. E
poiché, nella specie, gli stessi ricorrenti sostengono (v. pag. 24 del
ricorso) che la parete del loro fabbricato è posta a mt. 3,10 dal confine,
la presenza del balcone, che per definizione non può essere profondo soli 10
cm., già porterebbe la parete ad essere ad una distanza inferiore a quella
legale, anche a voler applicare l'art. 6, lett. c). N.T.A. del Piano
particolareggiato]. |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Distanze in edilizia - REPERTORIO DI GIURISPRUDENZA (digesto
giurisprudenziale in materia di regime delle distanze in
edilizia, con particolare attenzione alla applicazione del
d.m. 1444/1968, art. 9) (20.03.2016 -
tratto da www.studiospallino.it
cliccando qui). |
febbraio 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA: In
generale, rientra nel concetto di costruzione ogni
manufatto, di qualunque materiale esso sia costituito, che
emerga in modo sensibile al di sopra del livello del suolo o
non sia completamente interrato e che, pur difettando di una
propria individualità, per struttura, solidità, compattezza,
consistenza e sporgenza dal terreno, sia idoneo a creare
quelle intercapedini dannose, in quanto impediscono il
passaggio di aria e luce, che la legge, stabilendo la
distanza minima fra le costruzioni, intende evitare.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, appare
coerente con le finalità di pubblico interesse l’esclusione
dalla disciplina delle distanza dei manufatti non più alti
di un metro in quanto, appunto, configurano entità
trascurabili rispetto all'interesse tutelato dalla norma
considerato nel suo triplice aspetto della tutela della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
---------------
L’argomento della ricorrente, che attiene invero più
all’interpretazione giurisprudenziale della normativa
vigente che a concreti profili di illegittimità delle norme
genericamente richiamate, non trova peraltro riscontro nel
testo del R.E.
L’art. 11, comma 2, in materia di “distanze minime dei
fabbricati dai confini di proprietà”, stabilisce infatti che
“La distanza dei fabbricati dai confini di proprietà viene
determinata quale distanza minima tra il fabbricato in
qualsiasi punto, anche se aggettante, ed il confine”.
L’art. 12, comma 1°, dello stesso R.E., in materia di
“Distanze minime tra edifici” precisa che con tale
definizione si intende “…la distanza minima fra le
proiezioni verticali dei fabbricati, misurata nei punti di
massima sporgenza ad esclusione degli aggetti praticabili e
non praticabili compresi entro m. 1,20. I distacchi variano
da zona a zona ma è fissato un minimo assoluto”.
Il 2° comma dello stesso articolo precisa che “E’ prescritta
in tutti i casi la distanza minima assoluta di 10 metri tra
pareti finestrate e tra pareti di edifici antistanti”.
Alla luce dei ricordati testi normativi non è dato
comprendere sotto quale aspetto la previsione comunale si
ponga in concreto ed effettivo contrasto con i parametri
normativi richiamati.
Del pari privo di pregio è il rilievo che sarebbe
illegittima la disposizione impugnata nella parte in cui
prevede che “Fanno eccezione alla distanza minima così
definita i manufatti di qualsiasi genere, compresi gli
interrati e i seminterrati, non più alti in ogni punto di
1,00 metro dalla quota del piano stradale o del piano di
campagna allo stato naturale se più sfavorevole”.
Ed invero la pacifica giurisprudenza è concorde nel ritenere
che ratio della disposizione in oggetto sia quella di
impedire che tra costruzioni vicine si creino intercapedini
che, per la loro esiguità, abbiano a risultare pericolose
(sotto il profilo dell’insalubrità nonché dell’ordine
pubblico).
In generale, rientra nel concetto di costruzione ogni
manufatto, di qualunque materiale esso sia costituito, che
emerga in modo sensibile al di sopra del livello del suolo o
non sia completamente interrato e che, pur difettando di una
propria individualità, per struttura, solidità, compattezza,
consistenza e sporgenza dal terreno, sia idoneo a creare
quelle intercapedini dannose, in quanto impediscono il
passaggio di aria e luce, che la legge, stabilendo la
distanza minima fra le costruzioni, intende evitare.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, appare
coerente con le finalità di pubblico interesse l’esclusione
dalla disciplina delle distanza dei manufatti non più alti
di un metro in quanto, appunto, configurano entità
trascurabili rispetto all'interesse tutelato dalla norma
considerato nel suo triplice aspetto della tutela della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 03.02.2016 n. 98 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
dicembre 2015 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Alla
luce del disposto della d.G.R., che nel
disciplinare la realizzazione di serre bioclimatiche fa
salve le prescrizioni minime dettate dalla legislazione
statale in tema di distanze, unitamente all’applicazione
estensiva alle zone A della norma dettata dall’art. 9 del
D.M. n. 1444/1968, risulta evidente l’illecita
realizzazione, della serra bioclimatica in questione a
distanza inferiore, a quella stabilita dal D.M. 1444/1968,
dalla parete finestrata dell’abitazione della ricorrente.
L'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444
stabilisce al comma 1, che "Le distanze minime tra
fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono
stabilite come segue: 1) Zone A): per le operazioni di
risanamento conservativo e per le eventuali
ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono
essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti, computati senza tener conto di
costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti
in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza
minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti".
Dunque, a differenza delle altre zone, ove è prescritto il
rispetto della distanza minima assoluta di 10 m tra gli
edifici, per le zone A la norma nulla prevede in ordine alle
distanze.
Come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza, la mancata
previsione è dovuta al fatto che nelle zone A non sono
ammesse nuove costruzioni, ma solo risanamenti o
ristrutturazioni nei limiti dei volumi edificati
preesistenti.
Ne deriva che agli interventi edilizi che assumano le
caratteristiche della nuova edificazione non può che
applicarsi la disciplina generale dettata per le nuove
costruzioni (di cui al comma 1, n. 2, dell’art. 9), atteso
che la necessità di evitare intercapedini dannose per la
salute non cambia a seconda delle zone e anzi nelle zone A
(caratterizzate da insediamenti più addensati) essa appare
maggiormente pressante.
Questo Collegio, aderendo all’orientamento di tale
giurisprudenza maggioritaria, è dunque del parere che anche
nelle zone A debba essere rispettata la distanza minima di
10 m, qualora l’attività edilizia superi il semplice
restauro conservativo o la ristrutturazione dei volumi già
esistenti, prevedendo nuova cubatura e modifiche della
sagoma attraverso sopraelevazioni o innalzamenti.
Va da ultimo segnalato che la norma dettata dall’art. 9 del
D.M. n. 1444/1968 è stata pacificamente ritenuta, da un lato
integratrice dell’art. 873 c.c., dall’altro, dotata di
“efficacia precettiva ed inderogabile”. Formula,
quest’ultima, ribadita dalla recente pronuncia della Corte
Costituzionale n. 134 del 2014, la quale configura altresì
l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 come “costituente un
corpo unico con la regolazione codicistica” e fonte
principale della disciplina nazionale in materia di distanze
tra edifici.
---------------
2.3.1. Con riferimento, invece, alla censura dedotta con il
secondo ricorso per motivi aggiunti, si ricorda che l’art 5.
della L.R. 13/2011 (sul piano casa) ha previsto una
specifica deroga volumetrica per la realizzazione dei
sistemi di captazione delle radiazioni solari addossati o
integrati negli edifici, quali le serre bioclimatiche, etc.,
atti allo sfruttamento passivo dell'energia solare.
2.3.2. Con D.G.R.V. 1781/2011 si è quindi stabilito,
all’art. 3, comma 2, che l’incremento volumetrico derivante
dalla realizzazione di una serra bioclimatica “non
concorre alla determinazione delle distanze tra edifici,
fermo restando le prescrizioni minime dettate dalla
legislazione statale”. Quest’ultimo inciso rende
evidente che la Giunta Regionale abbia inteso considerare
rilevante in tema di distanze (dettate dalla legislazione
statale) la realizzazione di una serra bioclimatica, e
quindi non l’abbia parificata in tutto ad un volume tecnico
irrilevante ai fini del computo delle distanze.
2.3.4. La ricorrente, dunque, oppone la violazione delle
distanze stabilite dall’art. 9 D.M. n. 1444/1968, che impone
una distanza minima tra pareti finestrate di metri 10;
viceversa, il controinteressato eccepisce l’inapplicabilità
di tale norma alle zone A, come quella di specie.
2.3.5. Al riguardo giova ricordare che l'art. 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444 stabilisce al comma 1, che "Le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue: 1) Zone A):
per le operazioni di risanamento conservativo e per le
eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non
possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti, computati senza tener conto di
costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti
in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza
minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti".
Dunque, a differenza delle altre zone, ove è prescritto il
rispetto della distanza minima assoluta di 10 m tra gli
edifici, per le zone A la norma nulla prevede in ordine alle
distanze.
2.3.6. Come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza (ex
multis: Cass. Civ. II, 12767/2008), la mancata
previsione è dovuta al fatto che nelle zone A non sono
ammesse nuove costruzioni, ma solo risanamenti o
ristrutturazioni nei limiti dei volumi edificati
preesistenti.
Ne deriva che agli interventi edilizi che assumano le
caratteristiche della nuova edificazione non può che
applicarsi la disciplina generale dettata per le nuove
costruzioni (di cui al comma 1, n. 2, dell’art. 9), atteso
che la necessità di evitare intercapedini dannose per la
salute non cambia a seconda delle zone e anzi nelle zone A
(caratterizzate da insediamenti più addensati) essa appare
maggiormente pressante (in tal senso Consiglio di Stato, n.
5281/2012; Tar Liguria, I, n. 704/2013; Tar Campania-Salerno,
n. 473/2014; TAR Toscana n. 1217/2014; TAR Bolzano n.
295/2014).
Questo Collegio, aderendo all’orientamento di tale
giurisprudenza maggioritaria, è dunque del parere che anche
nelle zone A debba essere rispettata la distanza minima di
10 m, qualora l’attività edilizia superi il semplice
restauro conservativo o la ristrutturazione dei volumi già
esistenti, prevedendo nuova cubatura e modifiche della
sagoma attraverso sopraelevazioni o innalzamenti.
2.3.7. Va da ultimo segnalato che la norma dettata dall’art.
9 del D.M. n. 1444/1968 è stata pacificamente ritenuta, da
un lato integratrice dell’art. 873 c.c. (Cass. Civ. n.
7756/2013), dall’altro, dotata di “efficacia precettiva
ed inderogabile”. Formula, quest’ultima, ribadita dalla
recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 134 del
2014, la quale configura altresì l’art. 9 del D.M. n. 1444
del 1968 come “costituente un corpo unico con la
regolazione codicistica” e fonte principale della
disciplina nazionale in materia di distanze tra edifici.
2.3.8. In conclusione, alla luce del disposto della D.G.R.V.
1781/2011, che nel disciplinare la realizzazione di serre
bioclimatiche fa salve le prescrizioni minime dettate dalla
legislazione statale in tema di distanze, unitamente
all’applicazione estensiva alle zone A della norma dettata
dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, risulta evidente
l’illecita realizzazione, della serra bioclimatica in
questione a distanza inferiore, a quella stabilita dal D.M.
1444/1968, dalla parete finestrata dell’abitazione della
ricorrente.
3. Pertanto, anche il secondo ricorso per motivi aggiunti
deve essere accolto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 21.12.2015 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
novembre 2015 |
|
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9 del D.M. n. 1444/1968, prescrive, per i nuovi edifici,
ricadenti, come quello di che trattasi, in zone diverse
dalla zona A, “la distanza minima assoluta di m. 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
condizione indispensabile per potersi applicare il regime
garantistico della distanza minima dei dieci metri, è
l’esistenza di due pareti che si contrappongono di cui
almeno una finestrata.
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha, inoltre,
precisato, che la regola del rispetto della distanza dei
dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si
riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre
qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su
cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
Poiché la porta finestra dell’appellante non costituisce una
veduta, come ha accertato l’impugnata sentenza, sul punto
non fatta oggetto di censura, l’invocato art. 9 del D.M. n.
1444/1968 non risulta applicabile al caso di specie.
---------------
Col primo motivo si deduce che erroneamente il
giudice di prime cure avrebbe escluso la sussistenza della
denunciata violazione dell’art. 9 del D.M. 02/04/1968 n.
1444.
Si afferma, infatti, che il progetto dei sig.ri D’Al. e Ca.
prevede la realizzazione, al primo piano dell’immobile, di
un corpo di fabbrica, caratterizzato da uno sporto di metri
1,30 (destinato secondo le tavole progettuali a “letto”
e “bagno”), la cui parete laterale dista solo 3 metri
dalla porta-finestra dell’appellante.
La doglianza è infondata.
L’art. 9 del citato D.M. n. 1444/1968, prescrive, per i
nuovi edifici, ricadenti, come quello di che trattasi, in
zone diverse dalla zona A, “la distanza minima assoluta
di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti”.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
condizione indispensabile per potersi applicare il regime
garantistico della distanza minima dei dieci metri, è
l’esistenza di due pareti che si contrappongono di cui
almeno una finestrata (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 31/03/2015
n. 1670, sulle modalità di calcolo delle distanze, si veda
Cons. Stato, IV Sez., 11/06/2015 n. 2861).
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha, inoltre,
precisato, che la regola del rispetto della distanza dei
dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si
riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre
qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su
cui si aprono finestre cosiddette lucifere (Cons. Stato,
Sez. IV, 04/09/2013 n. 4451 e 22/01/2013 n. 844; Cass. Civ.,
Sez. II, 30/04/2012 n. 6604).
Poiché la porta finestra dell’appellante non costituisce una
veduta, come ha accertato l’impugnata sentenza, sul punto
non fatta oggetto di censura, l’invocato art. 9 del D.M. n.
1444/1968 non risulta applicabile al caso di specie
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.11.2015 n. 5365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 –laddove all'art. 9
prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di
metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai
Comuni nella formazione o revisione degli strumenti
urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei
rapporti tra privati; conseguentemente l'adozione, da parte
degli Enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con
la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non
solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche
di applicare direttamente la disposizione del ricordato art.
9 divenuta, per inserzione automatica, parte integrante
dello strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata.
Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci
metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, ragion per cui non è eludibile
in funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della relativa disciplina.
---------------
1. Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce l’eccesso
di potere, la carenza di istruttoria e la violazione del DM
n. 1444/1968.
2. Nella fattispecie in esame il Collegio ritiene di aderire
alla consolidata giurisprudenza secondo la quale il D.M.
02.04.1968 n. 1444 –laddove all'art. 9 prescrive in tutti i
casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che
impone determinati limiti edilizi ai Comuni nella formazione
o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante anche nei rapporti tra privati;
conseguentemente (cfr. ex multis Cass. Civ., II,
01.11.2004, n. 21899) l'adozione, da parte degli Enti
locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma
comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9
divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata (cfr. Cons. Stato, V, n. 7731/2010;
TAR Lombardia, Brescia, I, 16.10.2009, n. 1742).
2.1 Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, ragion per cui non è eludibile
in funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr.
TAR Toscana, III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Liguria, I,
12.02.2004 n. 145).
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della relativa disciplina (cfr. Cons. Stato, IV, 05.12.2005,
n. 6909)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.11.2015 n. 5164).
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ottobre 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La previsioni contenute in un piano di
lottizzazione e nei progetti esecutivi ad esso allegati con
le quali si deroga alle distanze legali tra le costruzioni,
danno luogo alla costituzione di diritti rispettivamente a
favore e contro ciascuno dei lotti del comprensorio e ne
vincolano gli acquirenti.
La deroga approvata dall'ente locale
si regge in quanto siano rispettati quegli equilibri
volumetrici che sono oggetto di esame e di esplicita
considerazione, nei limiti assentiti con il piano di
lottizzazione, che trova giustificazione nell'equilibrio
delle varie posizioni tra loro e nella complessiva armonia
del complesso edilizio.
Una modifica individuale soggettiva non può pertanto
giovarsi di quello ius singulare che è stato concepito e
varato solo in relazione alla imprescindibile condizione di
reciprocità e alla accettabilità della deroga in ragione
della complessiva valutazione dell'edificazione assentita.
Non è consentito pertanto ampliare singoli
fabbricati, in epoca successiva alla costruzione del
complesso approvato con il piano di lottizzazione, valendosi
di regole derogatorie che trovavano fonte e legittimazione
solo a condizione del rispetto delle volumetrie
preesistenti.
La variazione rispetto alle
originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare,
aumenti della volumetria danno luogo, infatti, all'ipotesi
di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina
in tema di distanze vigente al momento della medesima.
---------------
3) Con il primo
motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa
applicazione dell'art. 873 e vizi di motivazione.
Muovendo dalla premessa che il Comune aveva autorizzato la
realizzazione del complesso edilizio secondo un piano di
lottizzazione con disposizione planovolumetrica derogatoria
delle norme del regolamento edilizio, il ricorso sostiene
che le costruzioni accessorie o le modifiche delle
costruzioni iniziali dovrebbero essere assoggettate alle
disposizioni in tema di distanze previste dal codice civile,
in ossequio alla disposizione planovolumerica, che non era
stata integrata da norme specifiche comunali.
Contesta pertanto che possa essere applicato il regolamento
edilizio della zona semintensiva e sostiene che
l'ampliamento della precedente veranda non mutava la natura
accessoria dell'iniziale manufatto, da sottoporre al regime
agevolato previsto per le costruzioni accessorie.
La censura non è fondata.
La previsioni contenute in un piano di
lottizzazione e nei progetti esecutivi ad esso allegati con
le quali si deroga alle distanze legali tra le costruzioni,
danno luogo alla costituzione di diritti rispettivamente a
favore e contro ciascuno dei lotti del comprensorio e ne
vincolano gli acquirenti.
La deroga approvata dall'ente locale si
regge in quanto siano rispettati quegli equilibri
volumetrici che sono oggetto di esame e di esplicita
considerazione, nei limiti assentiti con il piano di
lottizzazione, che trova giustificazione nell'equilibrio
delle varie posizioni tra loro e nella complessiva armonia
del complesso edilizio.
Una modifica individuale soggettiva non può pertanto
giovarsi di quello ius singulare che è stato
concepito e varato solo in relazione alla imprescindibile
condizione di reciprocità e alla accettabilità della deroga
in ragione della complessiva valutazione dell'edificazione
assentita (cfr
Cass. 5104/2009).
Non è consentito pertanto ampliare singoli
fabbricati, in epoca successiva alla costruzione del
complesso approvato con il piano di lottizzazione, valendosi
di regole derogatorie che trovavano fonte e legittimazione
solo a condizione del rispetto delle volumetrie
preesistenti.
La variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio, e, in particolare, aumenti della
volumetria danno luogo, infatti, all'ipotesi di "nuova
costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in
tema di distanze vigente al momento della medesima
(si veda su quest'ultimo punto Cass. 21578/2011; 74/2011).
4) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa
applicazione dell'art. 873 sotto altro profilo.
Parte ricorrente espone che essa aveva ottenuto concessione
edilizia per la realizzazione dell'ampliamento della
preesistente veranda e che il terzo aveva l'onere di
impugnare davanti al giudice amministrativo la concessione
edilizia, senza potere altrimenti invocare tutela volta a
disapplicare l'atto concessorio.
La doglianza è manifestamente infondata.
È ius receptum che le controversie
tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza
di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o
rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del
giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del
titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui
legittimità può essere valutata "incidenter tantum"
dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di
disapplicazione del provvedimento amministrativo
(SU 13673/2014).
Inoltre ogni concessione edilizia è
rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi
(Cass. 19650/2013; 11404/1998).
Il ruolo del giudice amministrativo,
investito della domanda di annullamento della licenza,
concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza
dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di
legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A.
ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico
relativo al rapporto fra il privato e la P.A.
(Cass. 9869/2015), ma non può impedire
l'esercizio della azione civilistica intrapresa dal vicino
per far rispettare la normativa in tema di distanze, che
siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti
urbanistici.
Per il differente ordine in cui le azioni
si muovono, essa non è subordinata all'annullamento
dell'atto concessorio
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 19.10.2015 n. 21119). |
EDILIZIA PRIVATA:
È ius receptum che le controversie tra
proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di
norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto
ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice
ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo
abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità può
essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario
attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del
provvedimento amministrativo.
Inoltre ogni concessione edilizia è
rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi.
Il ruolo del giudice amministrativo,
investito della domanda di annullamento della licenza,
concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza
dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di
legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A.
ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico
relativo al rapporto fra il privato e la P.A.,
ma non può impedire l'esercizio della azione
civilistica intrapresa dal vicino per far rispettare la
normativa in tema di distanze, che siano queste previste dal
codice civile o dagli strumenti urbanistici.
Per il differente ordine in cui le
azioni si muovono, essa non è subordinata all'annullamento
dell'atto concessorio.
---------------
4) Il secondo
motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art.
873 sotto altro profilo.
Parte ricorrente espone che essa aveva ottenuto concessione
edilizia per la realizzazione dell'ampliamento della
preesistente veranda e che il terzo aveva l'onere di
impugnare davanti al giudice amministrativo la concessione
edilizia, senza potere altrimenti invocare tutela volta a
disapplicare l'atto concessorio.
La doglianza è manifestamente infondata.
È ius receptum che le controversie
tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza
di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o
rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del
giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del
titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui
legittimità può essere valutata "incidenter tantum"
dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di
disapplicazione del provvedimento amministrativo
(SU 13673/2014).
Inoltre ogni concessione edilizia è
rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi
(Cass. 19650/2013; 11404/1998).
Il ruolo del giudice amministrativo,
investito della domanda di annullamento della licenza,
concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza
dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di
legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A.
ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico
relativo al rapporto fra il privato e la P.A.
(Cass. 9869/2015), ma non può impedire
l'esercizio della azione civilistica intrapresa dal vicino
per far rispettare la normativa in tema di distanze, che
siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti
urbanistici.
Per il differente ordine in cui le azioni
si muovono, essa non è subordinata all'annullamento
dell'atto concessorio
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 19.10.2015 n. 21119). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
minime edifici: le norme
sulle distanze tra edifici ex art. 9 d.m. 1444/1968 non si
applicano ai lucernari.
A prescindere dall'ambito di operatività
dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, non v'è
dubbio come lo stesso non possa comunque trovare
applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima che deve
intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti” .
Sul piano formale, quindi, la stessa fa espresso ed
esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali
dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante
insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione,
unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come
vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono
semplici luci”.
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a
dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza
fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio
di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante
lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo
piano.
Sennonché i velux in questione non possono di certo
considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice
civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del
vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o
lateralmente (inspectio)-, ma semplici luci in quanto
consentono il solo passaggio dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al
riguardo, come già sopra segnalato, che l'invocato art. 9
del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque “trovare
applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza
le distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete
finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo
perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux”.
---------------
1. Con il primo mezzo di gravame gli appellanti deducono
l'erroneità della sentenza impugnata, laddove ha ritenuto
che “l’invocato articolo nove del D.M. n. 1444/1968 vincola
le amministrazioni locali solo in sede di predisposizione
della normativa urbanistica e comunque lo stesso non
potrebbe trovare applicazione in quanto nella specie non
vengono in evidenza distanze tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi
parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente
solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux”
.
Per un verso, infatti, assumono che le norme sulle distanze
tra edifici sono inderogabili e tale inderogabilità
atterrerebbe “ai rapporti tra privati, ai quali è precluso
di disporre convenzionalmente una distanza inferiore
rispetto quella prevista dall'art. 9 del D. M. 02/04/1968 o
dai regolamenti urbanistici locali”.
Per altro verso, sostengono poi gli appellanti che avuto
riguardo alla ratio della norma in questione, la stessa
dovrebbe ritenersi applicabile anche nel caso in cui la
parete antistante sia in realtà un tetto dotato di aperture
lucifere.
2. La doglianza non può essere condivisa.
3. Ed invero, a prescindere dall'ambito di operatività
dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, non v'è
dubbio come lo stesso non possa comunque trovare
applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima che deve
intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti” .
Sul piano formale, quindi, la stessa fa espresso ed
esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali
dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante
insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione,
unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come
vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono
semplici luci” (cfr. Cass. Civ. Sez. II 06.11.2012 n. 19092;
30.04.2012 n. 6604; Cons. Stato Sez. IV 04.09.2013;
12.02.2013 n. 844).
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a
dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza
fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio
di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante
lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo
piano.
Sennonché i velux in questione non possono di certo
considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice
civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del
vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o
lateralmente (inspectio)-, ma semplici luci in quanto
consentono il solo passaggio dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al
riguardo, come già sopra segnalato, che l'invocato art. 9
del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque “trovare
applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza
le distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete
finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo
perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux”.
Ne, al riguardo, possono assumere rilievo le invocate
disposizioni di cui all'art. 1 della legge regionale n. 12
del 1999, che mirano a promuovere il recupero dei sottotetti
a fini abitativi, imponendo fra l'altro un particolare
rapporto aeroilluminante.
Si tratta, infatti, di disposizioni preordinate a garantire
luce ed aria ai sottotetti resi abitabili e non ad
introdurre normativamente nuove tipologie di vedute in
aggiunta a quella codicistica e, come tali, del tutto
irrilevanti ai fini odiernamente considerati.
Inammissibile si appalesa poi l'ulteriore profilo di
censura, sviluppato nell'ambito del motivo in esame, con cui
gli appellanti assumono che la sentenza avrebbe omesso di
considerare che l'edificio che verrà ad essere costruito
dalla Casa di Riposo avrà un'altezza, per il fronte
prospiciente la loro proprietà, di metri 15,29 e che
conseguentemente ai sensi dell'articolo nove del D. M. n.
1444/1968, nel caso in cui il tetto in questione non fosse
qualificato come parete finestrata, si dovrebbe applicare la
distanza pari all'altezza del fronte dell'edificio più alto.
Infatti, non avendo costituito motivo di impugnazione nel
ricorso di primo grado, la doglianza non può essere proposta
per la prima volta nell'odierna sede di appello.
A ciò aggiungasi che si tratta comunque di censura priva di
fondamento, in quanto la maggiorazione della distanza fino a
raggiungere la misura corrispondente all'altezza del
fabbricato più alto prevista dal terzo comma dell’art. 9 ,
si applica evidentemente negli stessi casi in cui sono
prescritti i limiti di distanza indicati dal primo comma del
medesimo articolo e, nel caso delle zone C, solo a pareti
finestrate di edifici antistanti.
Il richiamato terzo comma, infatti, non prevede una
ulteriore ipotesi distinta da quelle indicate dai commi
precedenti, ma semplicemente una maggiorazione delle
distanze “come sopra computate”, vale a dire nelle stesse
ipotesi in cui i commi precedenti prevedono il rispetto di
una determinata distanza tra fabbricati
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.10.2015 n. 4628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'infisso
non è una veduta.
Sentenza cds.
Via libera alla sopraelevazione al di sotto della distanza
minima se il vicino ha lucernari sul tetto: gli infissi tipo
velux, infatti, non possono essere considerati vere e
proprie vedute, perché non consentono di affacciarsi, ma
servono solo a far entrare in casa l'aria e i raggi del
sole.
Insomma: costituiscono una mera luce e non fanno scattare il
divieto di costruzione di cui all'articolo 9 del dm
1444/1968 che vale solo per le vere e proprie «pareti
finestrate».
È quanto emerge dalla
sentenza 05.10.2015 n. 4628,
pubblicata dalla IV Sez. del Consiglio di stato.
Prospectio e Inspectio
Niente da fare per i vicini di una casa di riposo. Le suore
possono ristrutturare l'immobile grazie alla concessione
edilizia ottenuta dal comune. E ciò benché il tetto dei
confinanti sia praticamente trasparente perché
caratterizzato da ben sette finestre modello velux, che
servono a illuminare i locali dal primo piano.
Il punto è che il divieto di costruire sotto la distanza
minima vale solo in presenza di vere e proprie vedute, che
in base all'articolo 900 cc sono soltanto quella che
consentono di affacciarsi sul fondo del vicino e guardare di
fronte, obliquamente o lateralmente (prospectio e
inspectio).
Inutile per i titolari dell'immobile invocare le norme
tecniche di attuazione del piano regolatore del Comune: nel
nostro caso la sopraelevazione riguarda un fabbricato
costruito in aderenza all'edificio degli appellanti ed è
situata sul confine con il fondo. Spese di giudizio
compensate per la peculiarità della controversia
(articolo ItaliaOggi del
29.10.2015).
---------------
MASSIMA
1. Con il primo mezzo di gravame gli appellanti
deducono l'erroneità della sentenza impugnata, laddove ha
ritenuto che “l’invocato articolo 9 del D.M. n. 1444/1968
vincola le amministrazioni locali solo in sede di
predisposizione della normativa urbanistica e comunque lo
stesso non potrebbe trovare applicazione in quanto nella
specie non vengono in evidenza distanze tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non
può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione
del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre
di tipo velux” .
Per un verso, infatti, assumono che le norme sulle distanze
tra edifici sono inderogabili e tale inderogabilità
atterrerebbe “ai rapporti tra privati, ai quali è
precluso di disporre convenzionalmente una distanza
inferiore rispetto quella prevista dall'art. 9 del D. M.
02/04/1968 o dai regolamenti urbanistici locali”.
Per altro verso, sostengono poi gli appellanti che avuto
riguardo alla ratio della norma in questione, la
stessa dovrebbe ritenersi applicabile anche nel caso in cui
la parete antistante sia in realtà un tetto dotato di
aperture lucifere.
2. La doglianza non può essere condivisa.
3. Ed invero, a prescindere dall'ambito di operatività
dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968,
non v'è dubbio come lo stesso non possa comunque
trovare applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima
che deve intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti” .
Sul piano formale, quindi, la stessa fa
espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate,
per tali dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante
insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione,
unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili
come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si
aprono semplici luci”
(cfr. Cass. Civ. Sez. II 06.11.2012 n. 19092; 30.04.2012 n.
6604; Cons. Stato Sez. IV 04.09.2013; 12.02.2013 n. 844).
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a
dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza
fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio
di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante
lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo
piano.
Sennonché i velux in questione non possono
di certo considerarsi “vedute” alla stregua
dell'articolo 900 codice civile -non consentendo né di
affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di
guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-,
ma semplici luci in quanto consentono il solo passaggio
dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al
riguardo, come già sopra segnalato, che
l'invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque
“trovare applicazione in quanto nella specie non vengono
in evidenza le distanze tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete
finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo
perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux” .
Ne, al riguardo, possono assumere rilievo le invocate
disposizioni di cui all'art. 1 della legge regionale n. 12
del 1999, che mirano a promuovere il recupero dei sottotetti
a fini abitativi, imponendo fra l'altro un particolare
rapporto aeroilluminante.
Si tratta, infatti, di disposizioni preordinate a garantire
luce ed aria ai sottotetti resi abitabili e non ad
introdurre normativamente nuove tipologie di vedute in
aggiunta a quella codicistica e, come tali, del tutto
irrilevanti ai fini odiernamente considerati. |
luglio 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Le
norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori
sono, per effetto del richiamo contenuto negli artt. 872,
873 cod. civ., integrative delle norme del codice civile in
materia di distanze tra costruzioni, sicché il giudice deve
applicare le richiamate norme locali indipendentemente da
ogni attività assertiva o probatoria delle parti,
acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale,
la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni
ai comuni.
---------------
In materia urbanistica -poiché il piano regolatore generale
edilizio si perfeziona, in quanto atto amministrativo
complesso, solo dopo la sua approvazione da parte dei
competenti organi di controllo e la relativa pubblicazione,
non essendo sufficiente la mera adozione dello stesso- prima
del perfezionamento di questo "iter" tale strumento
urbanistico non può spiegare effetti integrativi del codice
civile.
Infatti, «Il piano regolatore generale ha natura di atto
complesso, risultando dal concorso delle volontà del Comune
e della Regione (succeduta allo Stato ai sensi dell'art. 1,
lett. a), d.P.R. 15.01.1972 n. 8) sì che l'efficacia
normativa propria dello stesso e delle prescrizioni in esso
contenute ha inizio non già dalla data della sua
approvazione da parte del consiglio comunale, ma da quella
della pubblicazione del decreto di approvazione del
Presidente della giunta regionale».
In sostanza, «le prescrizioni del piano regolatore, atto
complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e
della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche
integrative del codice civile solo con l'approvazione del
piano medesimo da parte dell'autorità regionale. Qualora uno
dei due atti che costituiscono l'atto complesso sia
annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano
regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna
idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze
legali, fino a quando non intervenga una sua nuova
approvazione e salva l'applicazione delle misure di
salvaguardia».
Dunque, «i piani regolatori generali ed i regolamenti
edilizi con annessi programmi di fabbricazione, le cui
norme, essendo integrative di quelle contenute nel codice in
materia di costruzioni, rientrano nella scienza ufficiale
del giudice, il quale ha pertanto il dovere di accertarne
l'effettiva vigenza per diventare esecutivi ed acquistare
efficacia normativa, devono, dopo l'approvazione
dell'autorità regionale, essere portati a conoscenza dei
destinatari nei modi di legge, ossia mediante pubblicazione
da eseguirsi con affissione all'albo pretorio, essendo tale
pubblicazione condizione necessaria per l'efficacia e
l'obbligatorietà dello strumento urbanistico, senza
possibilità di efficacia retroattiva dalla data di
approvazione da parte dell'organo regionale; ne consegue
che, nel frattempo, la disciplina in materia di distanze fra
costruzioni è quella del codice civile».
---------------
L'eccezione è infondata.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato che «le
norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori
sono, per effetto del richiamo contenuto negli artt. 872,
873 cod. civ., integrative delle norme del codice civile in
materia di distanze tra costruzioni, sicché il giudice deve
applicare le richiamate norme locali indipendentemente da
ogni attività assertiva o probatoria delle parti,
acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale,
la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni
ai comuni» (Cass. n. 17692 del 2009; Cass. n. 2563 del
2009).
In particolare, si è precisato che «la vigenza o meno di
una certa norma alla data rilevante in relazione al caso
concreto non costituisce nuova questione di fatto, non
deducibile in sede di legittimità, poiché rientra nella
scienza ufficiale del giudice, il quale in sede di
legittimità ha il dovere, prescindendo dalle deduzioni delle
parti, di verificare se la disposizione applicata dai
giudici di merito fosse effettivamente in vigore e, quindi,
applicabile al caso esaminato (fattispecie relativa a
distanze legali e all'accertamento della data di entrata in
vigore del regolamento edilizio comunale applicato in
concreto dalla corte di merito)» (Cass. n. 17692 del
2009, cit.).
Né potrebbe sostenersi che l'accertamento della normativa
regolamentare applicabile nel caso di specie possa essere
demandato, in via esclusiva, al consulente tecnico
d'ufficio, come preteso dalla resistente, la quale ha
appunto rilevato che ogni questione sarebbe preclusa perché
non dedotta nei gradi di merito e perché il detto
accertamento era contenuto nella c.t.u., non specificamente
contestata sul punto. Il giudice deve, infatti, applicare le
norme regolamentari locali indipendentemente da ogni
attività assertiva o probatoria delle parti, trattandosi di
esplicazione del principio iura novit curia, senza
che la individuazione della normativa applicabile possa
essere demandata in via esclusiva al consulente tecnico
d'ufficio.
Nessuna preclusione è quindi ravvisabile in ordine alla
deducibilità, in questa sede e per la prima volta, di una
censura inerente alla erronea applicazione di uno strumento
urbanistico sulla base della mera approvazione da parte del
consiglio comunale e prima del completamento del
procedimento di formazione con l'approvazione da parte della
regione.
7. Nel merito, i tre motivi sono fondati.
Questa Corte ha reiteratamente avuto modo di precisare che «in
materia urbanistica -poiché il piano regolatore generale
edilizio si perfeziona, in quanto atto amministrativo
complesso, solo dopo la sua approvazione da parte dei
competenti organi di controllo e la relativa pubblicazione,
non essendo sufficiente la mera adozione dello stesso- prima
del perfezionamento di questo "iter" tale strumento
urbanistico non può spiegare effetti integrativi del codice
civile» (Cass. n. 11431 del 2009).
Infatti,
«Il
piano regolatore generale ha natura di atto complesso,
risultando dal concorso delle volontà del Comune e della
Regione (succeduta allo Stato ai sensi dell'art. 1, lett.
a), d.P.R. 15.01.1972 n. 8) sì che l'efficacia normativa
propria dello stesso e delle prescrizioni in esso contenute
ha inizio non già dalla data della sua approvazione da parte
del consiglio comunale, ma da quella della pubblicazione del
decreto di approvazione del Presidente della giunta
regionale» (Cass. n. 1256 del 1997).
In sostanza, «le prescrizioni del piano regolatore, atto
complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e
della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche
integrative del codice civile solo con l'approvazione del
piano medesimo da parte dell'autorità regionale. Qualora uno
dei due atti che costituiscono l'atto complesso sia
annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano
regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna
idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze
legali, fino a quando non intervenga una sua nuova
approvazione e salva l'applicazione delle misure di
salvaguardia»
(Cass. n. 2149 del 2009).
Dunque, «i piani regolatori generali ed i regolamenti
edilizi con annessi programmi di fabbricazione, le cui
norme, essendo integrative di quelle contenute nel codice in
materia di costruzioni, rientrano nella scienza ufficiale
del giudice, il quale ha pertanto il dovere di accertarne
l'effettiva vigenza per diventare esecutivi ed acquistare
efficacia normativa, devono, dopo l'approvazione
dell'autorità regionale, essere portati a conoscenza dei
destinatari nei modi di legge, ossia mediante pubblicazione
da eseguirsi con affissione all'albo pretorio, essendo tale
pubblicazione condizione necessaria per l'efficacia e
l'obbligatorietà dello strumento urbanistico, senza
possibilità di efficacia retroattiva dalla data di
approvazione da parte dell'organo regionale; ne consegue
che, nel frattempo, la disciplina in materia di distanze fra
costruzioni è quella del codice civile» (Cass. n. 10561
del 2011).
7.1. Nel caso di specie, poiché è documentalmente provato
che la ricorrente ha realizzato l'intervento edilizio
oggetto di causa sulla base di una licenza rilasciata il
06.10.1973 ed è altresì accertato, e comunque non contestato
dalla resistente, che i lavori terminarono nel 1974, ai fini
della individuazione della normativa regolamentare
applicabile occorre fare riferimento alla data di
ultimazione dei lavori.
Orbene, a tale data il regolamento edilizio con annesso
programma di fabbricazione, del quale il giudice di primo
grado e poi la Corte d'appello hanno fatto applicazione, era
solo stato adottato (delibera del consiglio comunale del
16.11.1973), mentre l'approvazione dello stesso si è avuta
solo con la delibera della giunta regionale del Veneto
06.10.1981, n. 5331 (documenti, questi, che la ricorrente ha
puntualmente indicato con il riferimento agli allegati alla
consulenza tecnica d'ufficio, riproducendoli altresì nel
proprio fascicolo di parte).
Dall'esame delle menzionate delibere emerge dunque, con
certezza, che alla data di inizio e di conclusione dei
lavori da parte della ricorrente, il Comune di Vestenanuova
era sprovvisto di un efficace strumento urbanistico; e ciò
anche perché il precedente programma regolamento edilizio,
approvato con delibera del consiglio comunale del
24.08.1968, non era poi stato approvato dalla giunta
regionale del Veneto (delibera 17.07.1973, n. 1966).
Ne consegue che la sentenza impugnata è errata nella parte
in cui ha risolto la controversia facendo applicazione di
norme regolamentari non efficaci, anziché considerare, ai
fini delle distanza del fabbricato dal confine, le
disposizioni del codice civile, ivi compresa quella di cui
all'art. 875
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 16.07.2015 n. 14915). |
EDILIZIA PRIVATA: Entrambe
le opere (piscina e annessi vani tecnici) non risultano
rilevanti ai fini della violazione delle distanze legali
trattandosi di opere interrate o che comunque non si
innalzano oltre il livello del terreno, con conseguente
inconfigurabilità di un corpo edilizio idoneo a creare
dannose intercapedini e a pregiudicare la salubrità
dell’ambiente collocato tra gli edifici.
Infatti, essendo la normativa dettata in materia di distanze
legali diretta ad evitare la formazione di strette e dannose
intercapedini per evidenti ragioni di igiene, areazione e
luminosità, ne deriva che la suddetta normativa è
inapplicabile relativamente ad un manufatto completamente
interrato quale una piscina, in quanto i piani interrati
devono ritenersi esonerati dal rispetto delle distanze
legali.
In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione
affermando che “Ai fini dell'osservanza delle norme in
materia di distanze legali, stabilite dall'art. 873 c.c. e
dalle norme dei regolamenti locali integrativi della
disciplina codicistica, deve ritenersi costruzione qualsiasi
opera non completamente interrata avente i caratteri della
solidità, stabilità e immobilizzazione rispetto al suolo,
anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento
fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o
preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed
elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo
aereo, dall'uniformità e continuità della massa, dal
materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua
destinazione”.
... per l'annullamento del permesso di costruire n. 7/2009
per la realizzazione di una piscina e relative pertinenze.
...
Con ricorso notificato il 05.06.2009 e depositato il
03.07.2009 Ma.Pi., Pa. e Gi.Pi. del Ve. hanno impugnato il
permesso di costruire in sanatoria n. 7/2009 rilasciato dal
Comune di Pignataro Maggiore a Lu.Ar..
I ricorrenti hanno esposto di essere comproprietari del
terreno composto dalle particelle 84 e 122 del Foglio 5 del
Comune di Pignataro Maggiore, confinante con il suolo di
proprietà di Lu.Ar.; quest’ultimo aveva avviato in assenza
di permesso di costruire i lavori per la realizzazione di
una piscina, un pergolato ed altri locali e, a seguito
dell’esposto presentato dai ricorrenti e del sopralluogo dei
tecnici comunali, aveva richiesto ed ottenuto il permesso di
costruire in sanatoria impugnato.
...
Quanto alle distanze minime dal confine e dalla strada
comunale, oggetto del terzo e quarto motivo di
ricorso, l’istruttoria svolta nel corso del giudizio ha
evidenziato l’insussistenza delle violazioni lamentate.
Il Servizio Tecnico comunale ha precisato, in particolare,
che le zone E2, quale quella in cui insistono le opere in
contestazione, sono disciplinate dall’art. 22 delle norme
tecniche di attuazione del P.R.G., e destinate “prevalentemente
ad attività agricola”; in tale quadro risulta consentita
la realizzazione di opere costituenti pertinenze o impianti
tecnologici al servizio di edifici già esistenti, quale può
essere considerata la piscina di modeste dimensioni al
servizio del fabbricato del controinteressato.
Con riferimento ai locali al servizio della piscina,
inoltre, nella relazione dei tecnici comunali si rileva che
gli stessi sono completamente interrati e che i locali
interrati, ai sensi dell’art. 25 del Regolamento Edilizio
comunale, non sono considerati a fini volumetrici se hanno
un’altezza inferiore a m. 2,50.
È stato chiarito altresì che l’art. 22 citato non prevede
per le zone E2 distanze minime né dai confini, né dalle
strade vicinali, né può essere applicata la distanza minima
di m. 10 dalle strade vicinali di tipo “F” prevista
dall’art. 26 del D.P.R. 495/1992 trattandosi di area
ricompresa nel perimetro del centro abitato; l’intervento
risulta invece rispettoso delle distanze previste dal codice
civile (la cui violazione non è stata peraltro nemmeno
contestata).
In ogni caso, poi, entrambe le opere (piscina e annessi vani
tecnici) non risultano rilevanti ai fini della violazione
delle distanze legali trattandosi di opere interrate o che
comunque non si innalzano oltre il livello del terreno, con
conseguente inconfigurabilità di un corpo edilizio idoneo a
creare dannose intercapedini e a pregiudicare la salubrità
dell’ambiente collocato tra gli edifici.
Infatti, essendo la normativa dettata in materia di distanze
legali diretta ad evitare la formazione di strette e dannose
intercapedini per evidenti ragioni di igiene, areazione e
luminosità, ne deriva che la suddetta normativa è
inapplicabile relativamente ad un manufatto completamente
interrato quale una piscina (TAR Lombardia, Milano,
20.12.1988 n. 428), in quanto i piani interrati devono
ritenersi esonerati dal rispetto delle distanze legali (TAR
Puglia, Lecce, sez. III 30.12.2014 n. 3200).
In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione
affermando che “Ai fini dell'osservanza delle norme in
materia di distanze legali, stabilite dall'art. 873 c.c. e
dalle norme dei regolamenti locali integrativi della
disciplina codicistica, deve ritenersi costruzione qualsiasi
opera non completamente interrata avente i caratteri della
solidità, stabilità e immobilizzazione rispetto al suolo,
anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento
fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o
preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed
elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo
aereo, dall'uniformità e continuità della massa, dal
materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua
destinazione” (Cassazione civile sez. II 06.05.2014 n.
9679).
Infine deve rilevarsi che il pergolato non è ricompreso tra
le opere sanate in quanto il permesso impugnato contiene
l’espressa prescrizione dell’esclusione di tale opera ed il
controinteressato ha rinunciato alla sua realizzazione.
In conclusione il ricorso va respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.07.2015 n. 3520 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA:
La regola delle distanze legali tra costruzioni
di cui al comma 2 dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 deve
ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni.
Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2,
del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone
al proprietario dell'area confinante col muro finestrato
altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci
metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta
ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e
a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano,
con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola
anche i comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968
n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra
costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce
eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme
tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla
tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.
In riferimento alla violazione delle distanze, il Collegio
deve rilevare che il D.M. 02.04.1968 n. 1444 all’art. 9
-Limiti di distanza tra i fabbricati- comma 1, n. 2,
dispone: “Le distanze minime tra fabbricati per le
diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come
segue:.. 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è
prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m.
10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;”.
Al riguardo occorre innanzitutto precisare che, secondo la
consolidata giurisprudenza (cfr. ex multis, in tal
senso, Cassazione civile, sezione II, 27.03.2001, n. 4413,
Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759), dal quale
il Collegio non ha motivo di discostarsi, la regola delle
distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art.
9 deve ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni.
Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2,
del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone
al proprietario dell'area confinante col muro finestrato
altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci
metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta
ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e
a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano,
con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola
anche i comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968
n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra
costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce
eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme
tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla
tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
ed è, dunque, tassativa ed inderogabile (per tali principi
consolidati, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV,
12.06.2007 , n. 3094, Consiglio di Stato, Sez. IV,
27.10.2011, n. 5759)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tar Campania. Dieci metri di distanza tra gli edifici.
Dieci metri, balconi compresi. È la distanza minima che il
nuovo fabbricato deve osservare dall'edificio preesistente
che ha pareti con finestre, altrimenti non se ne fa niente.
Lo stop al permesso di costruire scatta anche se il
regolamento comunale consente di calcolare il minimo al
lordo e non al netto dei balconi: la disposizione dell'ente
deve infatti essere disapplicata e sostituita dalla norma
generale ex articolo 9 del dm 1444/1968, dettata per evitare
che nei complessi residenziali si formino intercapedini a
rischio per l'igiene e la salute dei residenti.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.05.2015 n. 2688 della II Sez.
del TAR Campania-Napoli.
Accolto il ricorso del condominio e di
alcuni proprietari che fanno dichiarare illegittimo il
titolo edilizio che il dirimpettaio ha ottenuto
dall'amministrazione in un paesone dell'entroterra
napoletano. I lavori puntano a riconvertire un capannone
industriale trasformandolo in edificio residenziale, ma di
fronte c'è un fabbricato con tanto di vedute che si aprono
in quella direzione.
Per i condomini è come trovarsi
qualcuno in casa da un giorno all'altro. La distanza minima
di dieci metri può essere calcolata al lordo dei balconi
soltanto quando si tratta di aggetti meramente decorativi e
di piccole dimensioni: risulta sempre necessario calcolarla
al netto quando le strutture sono invece «vivibili» perché
consentono al proprietario di estendere l'uso
dell'appartamento. Proprietario, impresa e comune pagano le
spese
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, il D.M.
02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9 prescrive in tutti i
casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che
impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione
o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante anche nei rapporti tra privati.
E da ciò deriva che l'adozione, da parte degli enti locali,
di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta
l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9,
divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata.
Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di dieci
metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in
funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della relativa disciplina.
La stessa giurisprudenza ha anche chiarito che solo gli
aggetti costituenti elementi architettonici o meramente
decorativi sono esclusi dal computo ai fini del calcolo
della distanza in argomento, a condizione, peraltro, che
presentino modeste dimensioni, sicché non può che
concludersi nel senso della rilevanza di tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, aventi carattere di stabilità,
solidità e della immobilizzazione ovvero idonei ad estendere
ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l’uso
abitativo.
Si osserva, inoltre, che condizione indispensabile per
l’applicazione del regime garantistico della distanza minima
dei dieci metri è data dal fatto che esistano due pareti che
si contrappongono di cui almeno una è finestrata: la
sussistenza di tale condizione non è in contestazione nel
caso che ne occupa, sussistendo, dunque, i presupposti di
fatto e di diritto richiesti per l'applicabilità della
disciplina qui in discussione.
2.1. L’eccezione non merita accoglimento.
2.2. Milita in tal senso in primo luogo l’analisi della
documentazione in atti e, in particolare, lo stato di
sviluppo del progetto all’epoca indicata dai
controinteressati, dovendosi attribuire precipuo rilievo –al fine di escludere un livello di ragionevole certezza in
ordine alla possibilità di percezione del profilo di
illegittimità, imprescindibile al fine di fondare una
valutazione di tardività del gravame– alla consistenza
complessiva dell’intervento, sicché lo stato di avanzamento
deve essere necessariamente rapportato all’intervento
progettato nella sua integrità, stanti anche le difficoltà,
in tali casi, di individuare nelle fasi prodromiche o
intermedie dell’edificazione l’incidenza di singoli elementi
costruttivi pure rilevanti nella rilevazione del contestato
vizio.
2.3. Si osserva, inoltre, che la difficoltà di percezione
del vizio dedotto in una fase antecedente all’acquisizione
di dati connotati da una maggiore certezza ed attendibilità
risulta, nella fattispecie, acuita dalla sussistenza di una
disciplina regolamentare (art. 99, commi 18 e 19) che
espressamente prevede che “i balconi aperti, le pensiline, i
cornicioni non formano distanze fino ad un aggetto pari a
1/8,50 della distanza dai confini e per un massimo di metri
1,20”.
2.4. Ciò senza considerare che la violazione dell’art. 9 del
d.m. n. 1444 del 1968 è stata, comunque, dedotta con il
ricorso introduttivo, notificato in data 07.08.2013,
sicché le successive argomentazioni articolate con il
ricorso per motivi aggiunti non costituiscono delle censure
nuove, ponendosi quale sviluppo e puntualizzazione di una
contestazione già lamentata, conseguente all’acquisizione
dei dati necessari ad una più specifica e circostanziata
qualificazione dell’asserito vizio.
3. Il Collegio rileva che proprio l’analisi di tale censura
riveste, nell’articolato impianto delle doglianze sviluppate
dalla difesa di parte ricorrente, carattere assorbente ai
fini della fondatezza del ricorso nella parte riferita alla
legittimità dei permessi di costruire n. 55 del 29.05.2012 e n. 26 del 22.02.2013.
3.1. Nella fattispecie, il C.T.U. (pagg. 36, 41 e 42
dell’elaborato peritale) ha espressamente rilevato che la
conformità alla disciplina dettata dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 può essere affermata esclusivamente
escludendo dal computo delle distanze i balconi, sicché la
previsione del regolamento comunale sopra richiamata
costituisce condizione imprescindibile al fine del rispetto
dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444.
3.2. Il problema che si pone, dunque, è quello di verificare
la legittimità della previsione regolamentare in rapporto
alla ratio sottesa alla disposizione contenuta nel decreto
ministeriale.
3.3. Il Collegio non ritiene suscettibili di un favorevole
apprezzamento le controdeduzioni sviluppate dalle difese dei
controinteressati, dirette a sostenere la ragionevolezza
della previsione regolamentare e la possibilità per le
amministrazioni di operare una valutazione “a monte”,
attraverso, appunto, le norme regolamentari in ordine al
computo o meno dei balconi.
3.4. Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, il
D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9 prescrive in
tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma
che impone determinati limiti edilizi ai comuni nella
formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante anche nei rapporti tra privati. E da
ciò deriva (cfr. ex multis Cass. Civ. Sez. II 01.11.2004 n.
21899) che l'adozione, da parte degli enti locali, di
strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta
l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9,
divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata (cfr. Cons. St., sez. V, 02.11.2010 n. 7731; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 16.10.2009, n. 1742).
3.5. Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in
funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr.
TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001 n. 1734, TAR Liguria
Sez. I, 12.02.2004 n. 145). Pertanto, le distanze tra
costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di
modo che al giudice non è lasciato alcun margine di
discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina
(cfr. Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909).
3.6. La stessa giurisprudenza ha anche chiarito che solo gli
aggetti costituenti elementi architettonici o meramente
decorativi sono esclusi dal computo ai fini del calcolo
della distanza in argomento, a condizione, peraltro, che
presentino modeste dimensioni, sicché non può che
concludersi nel senso della rilevanza di tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, aventi carattere di stabilità,
solidità e della immobilizzazione ovvero idonei ad estendere
ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l’uso
abitativo (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 21.10.2013, n. 5108).
3.7. Si osserva, inoltre, che condizione indispensabile per
l’applicazione del regime garantistico della distanza minima
dei dieci metri è data dal fatto che esistano due pareti che
si contrappongono di cui almeno una è finestrata (Cons. St.,
sez. IV, 31.03.2015, n. 1670): la sussistenza di tale
condizione non è in contestazione nel caso che ne occupa,
sussistendo, dunque, i presupposti di fatto e di diritto
richiesti per l'applicabilità della disciplina qui in
discussione.
3.8. Come sopra esposto, infatti, a prescindere da ogni
considerazione in merito all’impugnazione della disposizione
regolamentare, la sussistenza dei suddetti presupposti
consente la disapplicazione, pure richiesta dalla difesa di
parte ricorrente, della norma regolamentare, dovendosi
ritenere l’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444
automaticamente inserito al posto della norma illegittima
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza
15.05.2015 n. 2688 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio richiama il consolidato orientamento
giurisprudenziale ai sensi del quale le norme degli
strumenti urbanistici locali che impongono di mantenere le
distanze fra fabbricati o di questi dai confini non sono
derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi
privati, a quella di interessi generali e pubblici in
materia urbanistica.
Le norme sulle distanze di cui all’art. 873 e ss c.c. sono,
invece, dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei
singoli e mirano unicamente ad evitare la creazione di
intercapedini antigieniche e pericolose. Esse, in quanto
tali, sono suscettibili di deroga mediante convenzione tra
privati.
---------------
L’art. 879 c.c., nel disporre che “alle costruzioni che si
fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si
applicano le norme relative alle distanze, ma devono
osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano” va
inteso nel senso che, in presenza di una strada pubblica,
non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo
privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle
distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il
preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo
urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato
sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle
leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali vanno
annoverate le NTA del PRG del Comune, oltre al D.M.
1444/1968.
La giurisprudenza, nel ribadire la natura di norma primaria
imperativa dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati
agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici
o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967), ne ha
sancito la prevalenza anche rispetto ad eventuali
disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di
attuazione che, per questo, “vengono caducate ed
automaticamente sostituite dalla anzidetta disposizione”.
Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente chiarire, da un lato, che le
ricorrenti contestano l’applicazione dell’art. 46 NTA del
PRG e delle previsioni di al D.M. 1444/1968, dall’altro, che
la disposizione del D.M. 1444/1968 che trova indubbia
applicazione è quella di cui al secondo comma dell’art. 9,
che reca una disciplina specifica delle distanze tra edifici
per il caso in cui tra i fabbricati siano interposte strade
destinate al traffico dei veicoli.
Poste tali premesse, è possibile procedere con l’esame delle
singole censure.
Con riferimento alla pretesa applicazione della deroga di
cui all’art. 879 cc., il Collegio richiama, condividendolo,
il consolidato orientamento giurisprudenziale, ai sensi del
quale, le norme degli strumenti urbanistici locali, che
impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di
questi dai confini non sono derogabili, perché dirette, più
che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi
generali e pubblici in materia urbanistica (v. in tal senso,
ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza
30.06.2010 n. 4181, Cass. Civ., Sez. II, 31.05.2006, n.
12966).
Le norme sulle distanze di cui all’art. 873 e ss c.c. sono,
invece, dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei
singoli e mirano unicamente ad evitare la creazione di
intercapedini antigieniche e pericolose. Esse, in quanto
tali, sono suscettibili di deroga mediante convenzione tra
privati.
Il fatto che gli edifici progettati confinano con vie
pubbliche è pacifico e non contestato dalle ricorrenti, che
anzi richiamano tale circostanza proprio al fine di
rivendicare l’applicazione della previsione di cui all’art.
879 c.c..
Il diniego opposto all’istanza rileva distanze irregolari
dalla viabilità di Via Marconi e Via Cortese.
In realtà, se ciò può valere ad escludere il rispetto delle
distanze codicistiche (artt. 873, 878 e 879, comma secondo,
codice civile), non può arrivare a far superare l’obbligo di
rispetto delle distanze imposte da leggi e da regolamenti
urbanistici (cfr. Cass. Civile II, 16.04.2007 n. 9077).
L’art. 879 c.c., nel disporre che “alle costruzioni che
si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si
applicano le norme relative alle distanze, ma devono
osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano”
va inteso nel senso che, in presenza di una strada pubblica,
non si fa tanto questione di tutelare un diritto soggettivo
privato (tutelato dalla normativa codicistica sulle
distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di perseguire il
preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo
urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato
sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle
leggi e regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali vanno
annoverate le NTA del PRG del Comune di Bari, oltre al D.M.
1444/1968 (in tal senso TAR Piemonte, sez. I, sent. 1034 del
13.06.2014, TAR Palermo,sez. III n. 2049, del 17/10/2012).
La giurisprudenza, nel ribadire la natura di norma primaria
imperativa dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati
agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici
o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967), ne ha
sancito la prevalenza anche rispetto ad eventuali
disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di
attuazione che, per questo, “vengono caducate ed
automaticamente sostituite dalla anzidetta disposizione”
(Così Cons. Stato, Sez. IV, sent. 7731 del 02.11.2010).
Nel caso in esame, tuttavia, non si rinvengono contrasti fra
le NTA del PRG del Comune di Bari, in particolare la
disposizione di cui all’art. 46, e l’art. 9 D.M. 1444/1968,
risultando, piuttosto, il ricorso teso ad escludere
l’applicabilità di entrambe le previsioni al progetto
edilizio oggetto di istanza di permesso di costruire.
Né, per le medesime ragioni, assume rilievo la previsione
inserita con il Decreto c.d. “del Fare” (D.L.
21.06.2013 n. 69 convertito, con modificazioni, dalla L.
09.08.2013, n. 98) che ha introdotto all’interno del Testo
Unico dell’Edilizia l’art. 2-bis il quale prevede che “ferma
restando la competenza statale in materia di ordinamento
civile con riferimento al diritto di proprietà e alle
connesse norme del codice civile e alle disposizioni
integrative, le regioni e le province autonome di Trento e
di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e
regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono
dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli
insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi,
nell'ambito della definizione o revisione di strumenti
urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e
unitario o di specifiche aree territoriali”.
Le ricorrenti, infatti, come già evidenziato, rivendicano
l’applicazione della deroga di cui all’art. 879 c.c. e, più
specificamente, delle deroghe alla disciplina delle
distanze, non rinvenibili nel caso in esame, avendo il
Comune resistente inteso, piuttosto, applicare l’art. 46 NTA
del PRG, in senso conforme alle previsioni di cui all’art. 9
del D.M. 1444/1968
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 14.05.2015 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Minori distanze per risparmio energetico: non esiste un
"diritto" alla deroga.
Il TAR Abruzzo-Pescara, interviene in
materia di deroga alla normativa sulle distanze tra
costruzioni affermando che l'applicazione della normativa
speciale in materia di risparmio energetico non è
^automatica^ e che invece spetta al Comune valutare se
esista la possibilità di ottenere i medesimi risultati
energetici senza gravare sulle posizioni giuridiche di chi
subisce la maggiore altezza e/o i minori distacchi.
Nella fattispecie l'A.C. aveva contestato delle irregolarità
nella realizzazione di una palazzina residenziale.
Il privato proprietario aveva proposto istanza di
accertamento di conformità invocando, quanto alle distanze,
la normativa in materia di risparmio energetico (D.lgs.
102/2014 già D.lgs. 115/2008), sostenendo di avere con la
richiesta di sanatoria proposto soluzioni tecniche idonee
(pacchetti termici) ad eliminare le difformità in
particolare relativamente all’altezza dell’edificio e
all’aggetto dei balconi.
Il Comune aveva ritenuto che le soluzioni prospettate
rappresentassero "un espediente o accorgimento
fuorviante, o modo fittizio di far apparire l'altezza e la
distanza rientranti nelle norme" nel tentativo di
superare quanto contestato nell'ordinanza di demolizione.
Pronunciandosi su ordine di demolizione e diniego di
sanatoria, il TAR Abruzzo ha statuito che poiché la norma
(art. 11 D.Lgs. 102/2014) introduce una valutazione di tipo
tecnico in ordine alla verifica di tale presupposto, essa
esclude che sussista un “diritto” alla deroga.
Il che a dire:
• che la deroga ai parametri di altezza e distanze non
costituisce l’automatica conseguenza di una scelta del
costruttore di cui il Comune debba limitarsi a prendere
atto;
• che l'applicazione della norma è invece la conseguenza di
una valutazione effettuata dall’amministrazione in ordine al
carattere necessario della soluzione prescelta, e quindi
rispetto alla possibilità di ottenere i medesimi risultati
energetici senza gravare sulle posizioni giuridiche di chi
subisce la maggiore altezza e/o i minori distacchi;
• che il Comune non può assentire una deroga alle distanze
laddove il maggiore spessore dei muri perimetrali possa
essere “recuperato” verso l’interno, e perciò non
necessariamente verso le proprietà altrui;
• che analoga considerazione può farsi per l’altezza
complessiva dell’edificio, anch’essa in linea di principio
comunque contenibile nell’ambito dei parametri vigenti.
Il che evidenzia l’incompatibilità della richiesta di
deroga, che implica una valutazione tecnico-discrezionale,
con il procedimento finalizzato ad attribuire un titolo
postumo sulla base di un mero “accertamento di conformità”.
In conclusione: l’applicazione dei pacchetti termici ad una
struttura ormai realizzata, con caratteristiche essenziali
già acquisite, giustifica il rigetto della domanda di
sanatoria sulla scorta della disciplina speciale, vera
l’estraneità della suddetta disciplina al procedimento ex
art. 36 t.u. ed. (commento tratto da http://studiospallino.blogspot.it
- TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 14.05.2015 n. 206 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2 – Quanto al merito, vanno preliminarmente esaminati i
motivi aggiunti.
L’art. 11, co. 1. d.lgs. 115/2008, su cui essenzialmente si
basa la domanda di sanatoria, è stato abrogato dall’art. 19,
co. 1, lett. a), D.lgs. 04.07.2014, n. 102 (entrato in
vigore il 19.07.2014). Tale circostanza, rilevata dal
Comune, è tuttavia ininfluente alla luce dell’art. 36 t.u.
ed., secondo cui gli interessati “possono ottenere il
permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”.
Stabilito che la norma era all’epoca ancora in vigore, va
evidenziato che,
ai fini delle previste deroghe, la stessa
richiede che le maggiori dimensioni di muri e solai siano
necessari “ad ottenere una riduzione minima…”, e
perciò, introducendo una valutazione di tipo tecnico in
ordine alla verifica di tale presupposto, esclude che
sussista un “diritto” alla deroga, come invece
sembrano in vario modo supporre i ricorrenti.
Deve infatti ritenersi che la deroga ai parametri di altezza
e distanze non costituisca l’automatica conseguenza di una
scelta del costruttore di cui il Comune debba limitarsi a
prendere atto, risultando della norma in parola che essa è
invece la conseguenza di una valutazione effettuata
dall’amministrazione in ordine al carattere necessario della
soluzione prescelta, e quindi rispetto alla possibilità di
ottenere i medesimi risultati energetici senza gravare sulle
posizioni giuridiche di chi subisce la maggiore altezza e/o
i minori distacchi.
Non sembra, cioè, che il Comune possa assentire una deroga
alle distanze laddove il maggiore spessore dei muri
perimetrali possa essere “recuperato” verso
l’interno, e perciò non necessariamente verso le proprietà
altrui. Analoga considerazione può farsi per l’altezza
complessiva dell’edificio, anch’essa in linea di principio
comunque contenibile nell’ambito dei parametri vigenti.
Il che evidenzia l’incompatibilità della richiesta di
deroga, che implica una valutazione tecnico-discrezionale,
con il procedimento finalizzato ad attribuire un titolo
postumo sulla base di un mero “accertamento di conformità”,
come del resto confermato dal dato normativo secondo cui la
deroga è consentita “nell'ambito delle pertinenti
procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo
II del D.P.R. 06.06.2001, n. 380”, e quindi non nel
procedimento di cui all’art. 36 (inserito nel titolo IV).
L’applicazione dei pacchetti termici ad una struttura ormai
realizzata, con caratteristiche essenziali già acquisite,
giustifica perciò le conclusioni del provvedimento, che ha
in buona sostanza ritenuto l’estraneità della suddetta
disciplina al procedimento ex art. 36 t.u. ed., e quindi
irrilevante l’applicazione dei pacchetti termici sul calcolo
dell’altezza del fabbricato e dell’aggetto dei balconi.
Poiché la domanda di sanatoria era (tranne un punto, su cui
infra) pressoché interamente incentrata sulle pretese
conseguenze derivanti dall’applicazione dei pacchetti
termici (cfr. la relazione tecnico-illustrativa, doc. 3
produzioni comunali 12.01.2015), la rilevata carenza dei
presupposti di per sé consolida il diniego riguardo ai punti
2) e 3) della pag. 3 della appena citata relazione. Ne
consegue il rigetto del secondo motivo aggiunto.
In ordine al motivo con cui si deduce la mancata
considerazione delle memorie presentate nel corso del
procedimento di sanatoria, va osservato che la ragione
sostanziale del diniego consiste nella ritenuta
inapplicabilità alla fattispecie della invocata deroga,
sicché è irrilevante il percorso interpretativo attraverso
cui il Comune è pervenuto ad una conclusione che il Collegio
considera corretta. Deve perciò escludersi che le
osservazioni presentate in ordine al punto determinassero
particolari oneri motivazionali.
Parte ricorrente effettua ulteriori considerazioni
richiamando le conclusioni emergenti dalla relazione tecnica
allegata ai motivi aggiunti, in cui si evidenzia tra l’altro
l’alterazione del profilo naturale del lotto in conseguenza
dei lavori eseguiti sui lotti circostanti (la circostanza è
confermata dalle relazioni della Polizia Municipale, quale
quella in data 08.11.2013, doc. 3 produzioni comunali
30.06.2014: “… le quote di riferimento relative alla
pendenza del terreno sono state modificate a seguito delle
opere di sbancamento eseguite per la realizzazione della
strada di accesso e degli edifici circostanti”). Le
circostanze suddette –che avrebbero influito sulle quote
della costruzione ed interferito sulla misurazione
dell’altezza- sono tuttavia estranee all’oggetto della
sanatoria, che sul punto dell’altezza riguardava, come già
osservato, esclusivamente l’accesso alle deroghe di cui
all’art. 11 d.lgs. 115/2008.
L’ultima parte dei motivi aggiunti (pagg. 13 e seg.)
presuppone che “la parte sub 3) dell’ordinanza
demolitoria, nel silenzio del diniego, è stata risolta”,
il che tuttavia non è, visto che il provvedimento impugnato
ribadisce esplicitamente “le motivazioni espresse
nell'avviso ed in particolare: 1. La misura dell’aggetto dei
balconi superiore a mt. 1,60 (limite prescritto dalle NTA)
rimane irregolare…; 2. La distanza dai confini della
scalinata realizzata in aderenza al muro non di proprietà
lato ovest rimane irregolare benché disegnata in parte come
aiuola (perché in sostanza l'aiuola verrà a svolgere la
medesima funzione di rampa d'accesso)”, rispetto alle
quali non è stata comunque dedotta alcuna censura atta ad
evidenziarne l’illegittimità.
Ne deriva il consolidamento del diniego anche riguardo a
tali capi.
I motivi aggiunti vanno in conclusione rigettati. |
aprile 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA: Secondo
l’inequivocabile tenore della disposizione recata dall’art.
4 del D.M. n. 1444 del 1968 “è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti”; la giurisprudenza anche di
questa Sezione ha avuto modo di affermare come le norme
sulle distanze di cui al D. M. 1444/1968 hanno carattere
pubblicistico ed inderogabile e vincolano i comuni in sede
di formazione e revisione degli strumenti urbanistici.
In particolare, la giurisprudenza in materia ha statuito che
trattandosi di norma volta ad “impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è
pertanto non eludibile”.
A tal proposito il Collegio sottolinea che “le distanze tra
le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in
via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di
modo che al giudice non è lasciato alcun margine di
discrezionalità nell’applicazione della disciplina in
materia di equo contemperamento degli opposti interessi”.
Ne deriva che il giudice è tenuto ad applicare le
disposizioni concernenti la distanza minima tra gli edifici
“anche in presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali” dovendosi le prime ritenere
automaticamente inserite nel p.r.g. al posto della norma
illegittima.
---------------
L’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, rubricato “Limiti di
distanza tra i fabbricati”, prescrive i limiti minimi di
distanza tra edifici a seconda delle diverse zone
territoriali omogenee, e segnatamente, in ipotesi di
costruzione di “nuovi edifici ricadenti in altre zone”
(comma 1, n. 2), prevede che la distanza minima assoluta tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde
a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino
all’altezza del fabbricato finitimo più alto, se questa sia
maggiore di 10 metri (comma 2).
In altre parole, qualora uno o entrambi i fabbricati
confinanti (l’edificio pregresso e/o quello di nuova
costruzione) presentino un’altezza maggiore di 10 metri, la
distanza minima tra edifici prescritta dalla legge (10
metri) va maggiorata sino all’altezza del fabbricato più
alto.
La misura minima della distanza, tuttavia, è derogabile in
due ipotesi tassative, contemplate dal comma 2
dell’art. 9: è consentito edificare a distanze inferiori
rispetto a quelle previste dal comma 1 soltanto per i
piani particolareggiati e per le lottizzazioni
convenzionate, e non anche per gli interventi edilizi
diretti, consentiti dallo strumento urbanistico, interventi
tra i quali ricomprendere il permesso di costruire, come,
appunto, nel caso in questione.
Occorre, anzitutto, premettere che secondo l’inequivocabile
tenore della disposizione recata dall’art. 4 del D.M. n.
1444 del 1968 “è prescritta in tutti i casi la distanza
minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti”; la giurisprudenza anche di questa
Sezione ha avuto modo di affermare come le norme sulle
distanze di cui al D. M. 1444/1968 hanno carattere
pubblicistico ed inderogabile e vincolano i comuni in sede
di formazione e revisione degli strumenti urbanistici (cfr.
Cons. St., Sez. IV 05.12.2005 n. 6909).
In particolare, la giurisprudenza in materia ha statuito che
trattandosi di norma volta ad “impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è
pertanto non eludibile”.
A tal proposito il Collegio sottolinea che “le distanze
tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente
in via generale ed astratta, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di
sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun
margine di discrezionalità nell’applicazione della
disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti
interessi” (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 6909 del 2005
cit.).
Ne deriva che il giudice è tenuto ad applicare le
disposizioni concernenti la distanza minima tra gli edifici
“anche in presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali” dovendosi le prime
ritenere automaticamente inserite nel p.r.g. al posto della
norma illegittima (cfr. in tal senso Cass. civ., Sez. II,
29.05.2006, n. 12741).
In particolare, l’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444,
rubricato “Limiti di distanza tra i fabbricati”,
prescrive i limiti minimi di distanza tra edifici a seconda
delle diverse zone territoriali omogenee, e segnatamente, in
ipotesi di costruzione di “nuovi edifici ricadenti in
altre zone” (comma 1, n. 2), prevede che la distanza
minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento
della distanza sino all’altezza del fabbricato finitimo più
alto, se questa sia maggiore di 10 metri (comma 2).
In altre parole, qualora uno o entrambi i fabbricati
confinanti (l’edificio pregresso e/o quello di nuova
costruzione) presentino un’altezza maggiore di 10 metri, la
distanza minima tra edifici prescritta dalla legge (10
metri) va maggiorata sino all’altezza del fabbricato più
alto.
La misura minima della distanza, tuttavia, è derogabile in
due ipotesi tassative, contemplate dal comma 2
dell’art. 9: è consentito edificare a distanze inferiori
rispetto a quelle previste dal comma 1 soltanto per i
piani particolareggiati e per le lottizzazioni
convenzionate, e non anche per gli interventi edilizi
diretti, consentiti dallo strumento urbanistico, interventi
tra i quali ricomprendere il permesso di costruire, come,
appunto, nel caso in questione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.04.2015 n. 2130 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: -
Si ha veduta quando è consentita non solo una comoda
"inspectio" -senza l'uso di mezzi artificiali- sul fondo del
vicino ma anche una comoda, agevole e sicura "prospectio",
cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per
poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente.
Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal legislatore
nella definizione delle vedute, è il porsi l'osservatore di
normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza
l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto
dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera
stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere
oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e
lateralmente, l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da
poter esser visto dall'esterno.
Per poter distinguere una veduta prospettica da una finestra
lucifera, bisogna accertare, avuto riguardo non
all'intenzione del proprietario, ma alle caratteristiche
oggettive ed alla destinazione dei luoghi, se essa adempie
alla funzione, normale e permanente non esclusiva, di dare
aria e luce all'ambiente e di permettere la "inspectio" e la
"prospectio" sul contiguo fondo altrui, in modo da
determinare un inequivoco e durevole assoggettamento di quel
fondo a tale peso. Non può sussistere veduta quando, pur
essendo possibile l'affaccio attraverso un'apertura, non
possa attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza
pericoli, la sporgenza del capo per guardare di fronte,
obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino.
- “Secondo l'uso corrente, che deve ritenersi recepito dal
legislatore nella definizione delle vedute (art. 900 c.c.),
l'espressione "affacciarsi" denota la posizione che
l'osservatore assume per potere, comodamente, senza pericolo
e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, vedere
obliquamente e lateralmente sul fondo altrui, tenendo il
petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello
massimo dell'opera stessa, sicché l'esistenza di un
parapetto alto soltanto cinquantacinque centimetri esclude
che un'apertura possa considerarsi veduta”.
- “la "porta-finestra" che consenta la "inspectio", ma non
la "prospectio", ossia lo sguardo frontale sul fondo del
vicino, ma non lo sguardo obliquo e laterale, non integra
veduta, sebbene permetta occasionalmente e fugacemente,
nel momento dell'uscita, la visione globale e mobile del
fondo alieno”.
---------------
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che impone la distanza
minima di dieci metri, deve osservarsi solo tra edifici
contrapposti ed anche se solo su uno di essi sono aperte le
finestre, essendo tale norma volta a stabilire
nell'interesse pubblico un'idonea intercapedine tra gli
edifici e non a salvaguardare l'interesse privato del
frontista alla riservatezza; mentre in caso di una parete
finestrata perpendicolare, la distanza va computata sulla
base dell'art. 907 c.c., che impone una distanza minima di
tre metri dalle vedute esistenti sul fondo del vicino.
Quanto al secondo profilo, occorre indagare ed accertare la
natura della porta-finestra ed in particolare se essa possa
definirsi “veduta” (come sostiene la ricorrente,
dedicando a tale qualificazione ampia parte del motivo di
ricorso) ovvero “luce”, atteso che solo in ipotesi di
veduta è applicabile l’invocato art. 907 c.c..
In punto di fatto, l’apertura in questione dà attualmente
accesso ad un solaio che non risulta munito, su tutti i
lati, di parapetto. Infatti, a seguito dell’ordinanza
collegiale del Tribunale di Bari del 28.11.2009, alla
originaria proprietaria dell’immobile dotato di
porta-finestra (dante causa dell’odierna ricorrente) è stato
ordinato di rimuovere la ringhiera apposta sul lastrico
(originariamente sprovvisto di parapetto su tutti i lati)
che, pertanto, è praticabile, dalla porta-finestra, in
totale mancanza di protezioni e presidi di sicurezza per chi
via acceda.
L’ordinanza in questione, peraltro, ha anche affermato che
l’apposizione della ringhiera ha determinato la
realizzazione di un’opera finalizzata all’esercizio di una
servitù di affaccio non preesistente e tale da turbare il
possesso della proprietà del lastrico.
Così ricostruita in fatto la situazione, deve escludersi,
per la porta-finestra, la natura di veduta atteso che essa è
sfornita di alcun parapetto che consenta di affacciare in
sicurezza sul lastrico altrui.
(“Si ha veduta quando è consentita non solo una
comoda "inspectio" -senza l'uso di mezzi artificiali- sul
fondo del vicino ma anche una comoda, agevole e sicura "prospectio",
cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per
poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente.
Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal legislatore
nella definizione delle vedute, è il porsi l'osservatore di
normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza
l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto
dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera
stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere
oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e
lateralmente, l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da
poter esser visto dall'esterno. Per poter distinguere una
veduta prospettica da una finestra lucifera, bisogna
accertare, avuto riguardo non all'intenzione del
proprietario, ma alle caratteristiche oggettive ed alla
destinazione dei luoghi, se essa adempie alla funzione,
normale e permanente non esclusiva, di dare aria e luce
all'ambiente e di permettere la "inspectio" e la "prospectio"
sul contiguo fondo altrui, in modo da determinare un
inequivoco e durevole assoggettamento di quel fondo a tale
peso. Non può sussistere veduta quando, pur essendo
possibile l'affaccio attraverso un'apertura, non possa
attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza pericoli,
la sporgenza del capo per guardare di fronte, obliquamente e
lateralmente sul fondo del vicino.” Tribunale Bari, sez.
I, del 18/01/2012, n. 201;
“Secondo l'uso corrente, che deve ritenersi recepito dal
legislatore nella definizione delle vedute (art. 900 c.c.),
l'espressione "affacciarsi" denota la posizione che
l'osservatore assume per potere, comodamente, senza pericolo
e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, vedere
obliquamente e lateralmente sul fondo altrui, tenendo il
petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello
massimo dell'opera stessa, sicché l'esistenza di un
parapetto alto soltanto cinquantacinque centimetri esclude
che un'apertura possa considerarsi veduta.”
(Cassazione civile sez. II, del 12/12/1980, n. 6403).
Ed ancora: “la "porta-finestra" che consenta la "inspectio",
ma non la "prospectio", ossia lo sguardo frontale sul fondo
del vicino, ma non lo sguardo obliquo e laterale, non
integra veduta, sebbene permetta occasionalmente e
fugacemente, nel momento dell'uscita, la visione globale e
mobile del fondo alieno.” Cassazione civile, sez. VI,
del 13/08/2014, n. 17950;).
Esclusa la natura di veduta per l’apertura in esame, deve
escludersi conseguentemente, l’applicabilità dell’art. 907
c.c. e della distanza legale di mt. 3 prescritta sia in
obliquo sia al di sotto delle vedute.
Parimenti infondate sono le ulteriori doglianze articolate
nell’unico motivo di ricorso.
Non risulta sussistente la violazione dell’art. 32 NTA (che
prescrive il distacco minimo dai confini di mt. 5) in quanto
tale disposizione, non vale, per sua espressa deroga, in
ipotesi di costruzione in aderenza (recita testualmente
l’art. 32 NTA: “distacco minimo dai confini (Dc)= 5 mt.
salvo aderenza”); ipotesi ricorrente nel caso in esame.
Parimenti è a dirsi per l’invocato rispetto dell’art. 9 D.M.
n. 1444/1968.
Deve rilevarsi, infatti, che l’edificio da realizzarsi non
ha alcuna parete frontistante con quella della ricorrente su
cui insiste la porta-finestra, pertanto, non può trovare
applicazione la disposizione invocata che riguarda le
costruzioni antistanti (“L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n.
1444, che impone la distanza minima di dieci metri, deve
osservarsi solo tra edifici contrapposti ed anche se solo su
uno di essi sono aperte le finestre, essendo tale norma
volta a stabilire nell'interesse pubblico un'idonea
intercapedine tra gli edifici e non a salvaguardare
l'interesse privato del frontista alla riservatezza; mentre
in caso di una parete finestrata perpendicolare, la distanza
va computata sulla base dell'art. 907 c.c., che impone una
distanza minima di tre metri dalle vedute esistenti sul
fondo del vicino” (Consiglio di Stato, sez. V, del
18/02/2003, n. 871 e TAR Genova (Liguria) sez. I ,
16/02/2005 n. 221)
(TAR Pugli-Bari, Sez. III,
sentenza 22.04.2015 n. 641 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
dicembre 2014 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Circa la questione
relativa al computo nelle distanze dei balconi e dei vani
tecnici, va osservato in linea generale che le parti
aggettanti di un fabbricato rientrano certamente tra gli
elementi che costituiscono gli edifici da assoggettare al
regime delle distanze in edilizia di cui all’articolo 9 del
D.M. 02.04.1968, n. 1444 (“Limiti inderogabili di distanze
tra i fabbricati”) per assicurare le note condizioni di
salubrità sotto il profilo igienico-sanitario, mediante
l’eliminazione di perniciose intercapedini.
E’ invero noto che la distanza di dieci metri tra pareti
finestrate ed edifici antistanti, prevista dall’art 9, D.M.
02.04.1968, n. 1444, come argomentato correttamente dalla
difesa di parte ricorrente, va calcolata con riferimento ad
ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse
siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuole
distanziare, sono solo i manufatti come le mensole, le
lesene, i risalti verticali delle pareti con funzione
decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni,
le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le
sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari
(e significative) dimensioni, che siano quindi destinate
anche a estendere e ampliare per l’intero fronte
dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo.
---------------
In considerazione di tali inderogabili esigenze, ancora di
recente si è espressa la IV Sezione del Consiglio di Stato,
in fattispecie relativa al distacco di una scala, ritenendo
che il vano scale e, a maggior ragione, una rampa di scala
scoperta, pur non incidendo sulla volumetria, trattandosi di
volume tecnico, può assumere diversa rilevanza sul piano
della normativa dettata per le distanze dai confini,
concludendo che deve ritenersi non tollerabile la presenza
di una parte, sia pure di modesta entità, di un opus
edilizio che vada ad insistere in maniera permanente su uno
spazio territoriale che deve rimanere libero da qualsiasi
ingombro.
Analoga conclusione ha tratto il Consiglio di Stato con
riferimento espresso ai balconi, distinguendo, ai fini della
determinazione del volume dell’edificio, i balconi
aggettanti che sporgono dalla facciata dell’edificio,
costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal
quale protendono, senza svolgere alcuna funzione di sostegno
né di copertura, dalle terrazze a livello incassate nel
corpo dell’edificio, il che ha consentito di argomentarne,
invero non proprio pianamente, la sostanziale “irrilevanza”
(o, al contrario, la rilevanza) anche ai fini del computo
delle distanze “solo nel caso in cui una norma di piano
preveda ciò”.
---------------
E’ tuttavia certo che la eventuale norma di piano che, sul
presupposto (e a condizione) della loro minima invadenza
strutturale, escludesse i “balconi” dal computo delle
distanze, o che ne individuasse le condizioni di esclusione,
costituirebbe in ogni caso norma eccezionale e di favore, in
quanto integrativa e “derogativa” della norma di ordine
pubblico di cui all’art. 9 del D.M. più volte richiamato.
IV.4) Il
Collegio ritiene di dover disattendere le contestazioni
mosse e di dover al contrario assumere a proprie le
conclusioni cui è pervenuto il consulente tecnico.
Quanto, anzitutto, al profilo relativo alla possibilità di
deroghe delle distanze minime previste, va osservato che il
provvedimento impugnato è il rilascio di un permesso di
costruire e non già di una lottizzazione convenzionata
ovvero di un piano particolareggiato che preveda
espressamente distanze inferiori in deroga; la mera
possibilità di deroga contenuta nel PRE, in definitiva, non
importa ex se deroga alle distanze ed impone, al contrario,
il rispetto delle stesse ogniqualvolta l’intervento si
atteggi, come nel caso, come individuo.
La ratio della invocata disposizione è peraltro ben
individuabile proprio nella natura unitaria di un intervento
plurimo in tale consistenza autorizzato, che ben
consentirebbe una diversa disposizione reciproca dei
fabbricati edificandi, ove essa fosse, ben vero,
convenzionalmente pattuita (in caso di intervento
convenzionato) ovvero autoritariamente imposta (nel caso di
piano particolareggiato), e nessuno dei due casi ricorre
nella specie.
Quanto alla questione relativa al computo nelle distanze dei
balconi e dei vani tecnici, va osservato in linea generale
che le parti aggettanti di un fabbricato rientrano
certamente tra gli elementi che costituiscono gli edifici da
assoggettare al regime delle distanze in edilizia di cui
all’articolo 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (“Limiti
inderogabili di distanze tra i fabbricati”) per assicurare
le note condizioni di salubrità sotto il profilo
igienico-sanitario, mediante l’eliminazione di perniciose
intercapedini.
E’ invero noto che la distanza di dieci metri tra pareti
finestrate ed edifici antistanti, prevista dall’art 9, D.M.
02.04.1968, n. 1444, come argomentato correttamente dalla
difesa di parte ricorrente, va calcolata con riferimento ad
ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse
siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuole
distanziare, sono solo i manufatti come le mensole, le
lesene, i risalti verticali delle pareti con funzione
decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni,
le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le
sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari
(e significative) dimensioni, che siano quindi destinate
anche a estendere e ampliare per l’intero fronte
dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso abitativo
(cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 6909/2005).
IV.5) In considerazione di tali inderogabili esigenze,
ancora di recente si è espressa la IV Sezione del Consiglio
di Stato (con sentenza 04.03.2014, n. 1000), in fattispecie
relativa al distacco di una scala, ritenendo che il vano
scale e, a maggior ragione, una rampa di scala scoperta, pur
non incidendo sulla volumetria, trattandosi di volume
tecnico, può assumere diversa rilevanza sul piano della
normativa dettata per le distanze dai confini, concludendo
che deve ritenersi non tollerabile la presenza di una parte,
sia pure di modesta entità, di un opus edilizio che vada ad
insistere in maniera permanente su uno spazio territoriale
che deve rimanere libero da qualsiasi ingombro.
Analoga conclusione ha tratto il Consiglio di Stato con
riferimento espresso ai balconi, distinguendo, ai fini della
determinazione del volume dell’edificio, i balconi
aggettanti che sporgono dalla facciata dell’edificio,
costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal
quale protendono, senza svolgere alcuna funzione di sostegno
né di copertura, dalle terrazze a livello incassate nel
corpo dell’edificio (cfr. Cons. di Stato, n. 3381/2008), il
che ha consentito di argomentarne, invero non proprio
pianamente, la sostanziale “irrilevanza” (o, al contrario,
la rilevanza) anche ai fini del computo delle distanze “solo
nel caso in cui una norma di piano preveda ciò” (cfr. TAR
Lazio, n. 5319/2010; TAR Liguria, n. 1736/2009).
E’ tuttavia certo che la eventuale norma di piano che, sul
presupposto (e a condizione) della loro minima invadenza
strutturale, escludesse i “balconi” dal computo delle
distanze, o che ne individuasse le condizioni di esclusione,
costituirebbe in ogni caso norma eccezionale e di favore, in
quanto integrativa e “derogativa” della norma di
ordine pubblico di cui all’art. 9 del D.M. più volte
richiamato (cfr. Cons. di Stato, n. 5557/2013)
(TAR Abruzzo-L’Aquila,
sentenza 20.12.2014 n. 955 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze violate, demolizione anche se si è in buona fede. Balconi. Tutti i condòmini sono legittimati ad agire.
I balconi
troppo vicini non evitano la demolizione, anche se nel
frattempo l’orientamento delle sentenze sul calcolo delle
distanze è cambiato.
Nella
sentenza 02.12.2014 n. 25501 la II Sez. civile della
Corte di Cassazione ha deciso sulla causa nata
dalla domanda dei proprietari di un immobile, i quali
avevano chiesto la demolizione di alcuni manufatti presenti
in un edificio confinante, denunciando la violazione delle
distanze legali tra costruzioni.
Questa domanda era stata proposta sia nei confronti della
società costruttrice del fabbricato, sia nei confronti di
coloro che si erano poi resi acquirenti dei singoli
appartamenti del costituito condominio. Il tribunale di
Sassari e la Corte d’appello di Cagliari avevano dato
ragione a chi aveva promosso la causa, condannando ad
arretrare, fino al rispetto della distanza dal confine
stabilita dal vigente Piano regolatore comunale, l’ingresso
del vano scala condominiale, i balconi e le canne fumarie.
Fra i diversi motivi del ricorso per cassazione, rigettato
dalla Suprema Corte, il compratore di uno degli appartamenti
oggetto della parziale demolizione aveva opposto il proprio
legittimo affidamento e la propria buona fede, stante la
regolarità urbanistica dell’edificio, dotato di regolare
concessione edilizia, e tenuto conto che al momento
dell’acquisto la giurisprudenza non considerava i balconi
aperti ai fini del computo delle distanze.
Ma è ormai pacifico che, mentre non vanno calcolate come
riferimento per le distanze le sporgenze esterne del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale,
costituiscono invece «corpo di fabbrica» i balconi, anche se
scoperti, che siano di apprezzabile profondità e ampiezza.
Il fatto che decenni orsono questa conclusione fosse
controversa nelle aule dei tribunali non vale a fondare oggi
l’affidamento incolpevole di chi avesse comprato all’epoca
un immobile provvisto di balconi troppo vicini alla
proprietà confinante: come spiega ora la Cassazione,
infatti, perché si possa pretendere che un mutamento
interpretativo non sia retroattivo (ovvero, perché si
instauri la cosiddetta tutela da “prospective overruling”),
si deve essere in presenza di un imprevedibile ribaltamento
della giurisprudenza su di una regola del processo, e non su
norme di carattere sostanziale, quali quelle attinenti ai
limiti della proprietà.
È invece altrettanto evidente che, qualora l’immobile
venduto risulti costruito in violazione delle distanze
legali, in favore del compratore opera verso il venditore la
garanzia per evizione, ai sensi degli articoli 1483 e 1484
del Codice civile, o la garanzia prevista dall’articolo
1489.
Quanto ai rapporti tra edifici condominiali e proprietà
confinanti, si consideri come la domanda di arretramento di
un fabbricato in condominio per violazione delle distanze
legali deve essere proposta necessariamente nei confronti di
tutti i condòmini, e non invece nei confronti
dell’amministratore del condominio.
Così come tutti i condòmini, e non soltanto quelli che siano
proprietari degli appartamenti direttamente prospettanti
verso le costruzioni limitrofe che violano le distanze
legali, sono legittimati ad agire per far valere il rispetto
delle relative disposizioni.
Le norme sulle distanze sono poi applicabili anche nei
rapporti tra i condòmini di uno stesso edificio
condominiale, purché compatibili, però, con la disciplina
particolare relativa alle cose comuni, cioè quando
l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le
prime.
Pertanto, se il giudice accerti che non sia alterata la
destinazione delle parti condominiali e non sia impedito il
pari uso agli altri partecipanti, riterrà legittima l’opera
realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per
regolare i rapporti tra le proprietà contigue. Né possono
operare le norme del Codice civile in tema di distanze,
nell’ipotesi dell’installazione di impianti indispensabili
ai fini di una reale abitabilità delle singole unità
immobiliari (articolo Il Sole 24 Ore del
06.01.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
novembre 2014 |
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EDILIZIA PRIVATA: SULLA VALENZA DEL D.M. 1444/1968.
In materia di distanze fra costruzioni, l’art. 9 D.M.
02.04.1968, n. 1444 ha efficacia di legge dello Stato,
essendo
stato emanato su delega dell’art. 21-quinquies L.
17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), come
novellato dall’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765 (c.d.
legge ponte).
In ragione di ciò, poiché tale articolo
dispone
l'inderogabilità dei limiti di densità edilizia, di altezza
e di distanza tra i fabbricati, i Comuni sono obbligati
-in caso di redazione o revisione dei propri strumenti
urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate
da tale norma, le quali comunque prevalgono ove i
regolamenti
locali siano con esse in contrasto.
Sorge, fra due privati, una controversia che investe
l’applicazione
delle distanze di cui all’art. 9 D.M. n. 1444/1968 -norma posta a tutela di un interesse d’igiene pubblica- a
mente della quale nei centri urbani, le distanze minime fra
pareti finestrate di edifici antistanti non può essere
inferiore
dieci metri.
Il Tribunale civile condannava la parte convenuta
all’arretramento
del fabbricato di metri cinque dal confine. Il giudice
d’appello, in parziale riforma, dimidiava la distanza. Per
quanto qui interessi, la Corte di merito affermò che la
norma
in esame -diretta ai Comuni nella redazione degli strumenti
urbanistici- non ha immediata efficacia nei confronti
dei privati e opera esclusivamente per i regolamenti edilizi
successivi all’entrata in vigore del decreto stesso,
avvenuta
in data 17.04.1968.
Nella fattispecie, all'epoca della costruzione realizzata
dalla
convenuta, era in vigore il preesistente regolamento
edilizio,
che prescriveva una diversa e inferiore distanza dal
confine (di metri 2,50).
La questione giunge all’esame della Cassazione, che accoglie
il ricorso osservando che in tema di distanze tra
costruzioni,
l’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 ha efficacia di
legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art.
21-quinquies della L. 17.08.1942, n. 1150 (c.d.
legge urbanistica), come novellato dall’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765 (c.d. legge ponte).
In ragione di ciò, poiché tale articolo dispone
l'inderogabilità
dei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra
i
fabbricati, i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o
revisione dei propri strumenti urbanistici- a non
discostarsi
dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque
prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in
contrasto (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 11.11.2014 n. 24013
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 1/2015). |
settembre 2014 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
Il criterio della prevenzione, quale si evince
dal combinato disposto degli articoli 873 e 875 c.c., è
derogato dal regolamento comunale edilizio nel caso in cui
questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma
anche delle stesse costruzioni dal confine; che siffatta
deroga non opera allorché il regolamento edilizio, pur
imponendo il rispetto di una data distanza altresì dal
confine, consenta anche le costruzioni in aderenza o in
appoggio, con la conseguenza che in tale ipotesi il primo
costruttore ha la scelta tra il costruire alla distanza
regolamentare dal confine e l’erigere la propria fabbrica
fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo; che,
tuttavia, in tal ultima evenienza il preveniente non ha
anche la possibilità di costruire a distanza inferiore dal
confine.
Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e
falsa applicazione degli articoli 872, 873 e 875 c.c. e del
regolamento edilizio del Comune di (OMISSIS) emanato
nell’anno 1955.
Adducono che “la circostanza che nella specie il
regolamento edilizio della (OMISSIS) del 1955, dopo la norma
posta dalla Corte genovese a fondamento della sentenza…,
prevedesse che “è permessa la costruzione a muro cieco sul
confine” impone di ricondurre la fattispecie nell’ambito di
applicazione del criterio della prevenzione” (così ricorso,
pag. 8), cosicché “l’attivita’ edilizia degli appellati
(OMISSIS) e (OMISSIS) sarebbe… legittima” (così ricorso,
pag. 8).
Il motivo è destituito di fondamento.
E’ bastevole, da un canto, reiterare gli insegnamenti di
questa Corte (il riferimento è a Cass. 11.08.1990, n. 8222),
alla cui stregua il criterio della prevenzione, quale si
evince dal combinato disposto degli articoli 873 e 875 c.c.,
è derogato dal regolamento comunale edilizio nel caso in cui
questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma
anche delle stesse costruzioni dal confine; che siffatta
deroga non opera allorché il regolamento edilizio, pur
imponendo il rispetto di una data distanza altresì dal
confine, consenta anche le costruzioni in aderenza o in
appoggio, con la conseguenza che in tale ipotesi il primo
costruttore ha la scelta tra il costruire alla distanza
regolamentare dal confine e l’erigere la propria fabbrica
fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo; che,
tuttavia, in tal ultima evenienza il preveniente non ha
anche la possibilità di costruire a distanza inferiore dal
confine.
E’ bastevole, dall’altro, evidenziare che i medesimi
ricorrenti riconoscono che il piano regolatore generale del
comune di (OMISSIS) –da applicare al caso di specie–
prefigurava la distanza di m. 4 dal confine ed ancora che è
fuor di discussione, siccome il secondo giudice ha
evidenziato, che “l’ampliamento –per una larghezza di cm.
192 dal filo del preesistente fabbricato– si spinge fino a
cm. 173 dal confine col terreno mappale 1237 degli attori”
(così sentenza d’appello, pag. 5) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 15.09.2014 n. 19408 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
materia di distanze legali fra edifici, la sopraelevazione
di un edificio preesistente, determinando la modifica della
volumetria del fabbricato con aumento della sagoma di
ingombro, costituisce nuova costruzione, soggetta alla
disciplina sulle distanze legali in vigore al momento della
sua effettuazione; ne consegue che, qualora tale normativa
sia diversa da quella prevista per la costruzione
originaria, il preveniente non potrà sopraelevare in
allineamento con l’originaria costruzione, non trovando
applicazione il criterio della prevenzione, che –nel caso di
costruzione sul confine– impone a colui che edifica per
primo di costruire in corrispondenza della stessa linea di
confine su cui ha innalzato il piano inferiore oppure a
distanza non inferiore a quella legale, in modo da non
costringere il prevenuto ad elevare a sua volta un immobile
a linea spezzata.
Fondato e meritevole di accoglimento è il primo motivo
del ricorso principale.
È bastevole reiterare l’insegnamento di questa Corte alla
cui stregua, in materia di distanze legali fra edifici, la
sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando la
modifica della volumetria del fabbricato con aumento della
sagoma di ingombro, costituisce nuova costruzione, soggetta
alla disciplina sulle distanze legali in vigore al momento
della sua effettuazione; ne consegue che, qualora tale
normativa sia diversa da quella prevista per la costruzione
originaria, il preveniente non potrà sopraelevare in
allineamento con l’originaria costruzione, non trovando
applicazione il criterio della prevenzione, che –nel caso di
costruzione sul confine– impone a colui che edifica per
primo di costruire in corrispondenza della stessa linea di
confine su cui ha innalzato il piano inferiore oppure a
distanza non inferiore a quella legale, in modo da non
costringere il prevenuto ad elevare a sua volta un immobile
a linea spezzata (cfr. Cass. 12.01.2005, n. 400; cfr.
altresì Cass. 03.01.2011, n. 74, secondo cui in tema di
rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la
sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un
incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile
come nuova costruzione; ad essa, pertanto, è applicabile la
normativa vigente al momento della modifica e non opera il
criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni
originarie, in quanto sostituito dal principio della
priorità temporale correlata al momento della
sopraelevazione).
In questo quadro si da atto che i medesimi controricorrenti
riferiscono e non disconoscono che il “regolamento
edilizio del Comune di Castel S. Angelo, adottato dal Comune
con delibera Consiliare n. 62 del 14/1076 e approvato dalla
Regione Lazio con delibera n. 2452 del 06/06/1978… per la
zona C1 prevede una distanza di m. 5,00 dai confini interni
e di 10 m. dagli altri fabbricati con possibilità di
costruire in aderenza in presenza di una convenzione tra i
privati” (così memoria ex art. 378 c.p.c. diparte
controricorrente, pag. 5).
Ne discende, naturaliter, che del tutto infondato è
l’assunto degli stessi T.B. e R. secondo cui “potevano
senz’altro sopraelevare il proprio fabbricato… in aderenza
in un lotto nel quale si è già costruito sulla linea di
confine” (così memoria ex art. 378 c.p.c. di parte
controricorrente, pag. 6).
Fondato e meritevole di accoglimento è parimenti il
secondo motivo del ricorso principale.
Vero è, certo, che questa Corte spiega che la disposizione
normativa di cui all’art. 873 c.c., dettata in tema di
distanze tra fabbricati e diretta a tutelare interessi
generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitanti (tale,
pertanto, da consentire anche una più rigorosa valutazione
in sede locale), non ha alcuna correlazione con la norma di
cui all’art. 905 c.c., relativa alla distanza delle vedute e
volta, dal suo canto, a salvaguardare il fondo finitimo
dalle indiscrezioni attuabili mediante la realizzazione e
l’uso di un'”opera obbiettivamente destinata a tale scopo”
(cfr. Cass. 26.02.2001, n. 2765).
Nondimeno questa Corte esplicita altresì che siffatto
postulato esegetico opera a condizione che la maggior
distanza tra costruzioni imposta dai regolamenti locali non
sia riferita, specificamente, anche al confine, ma risulti
sancita in via assoluta, indipendentemente dalla
dislocazione delle costruzioni nei rispettivi fondi (cfr.
Cass. 26.02.2001, n. 2765, ove si soggiunge che, al di fuori
dell’ipotesi in cui la distanza sia riferita in modo
specifico anche al confine, la distanza delle vedute dal
confine stesso deve intendersi regolata, in via esclusiva,
dalla norma di cui all’art. 905 c.c., non potendo una norma
sulla distanza sui fabbricati incidere, ex se, su
quelle relative alle vedute; cfr. anche Cass. 27.01.1988, n.
741).
Ebbene si è premesso –in sede di disamina del primo motivo
del ricorso principale– che il regolamento edilizio del
Comune di Castel S. Angelo consente di costruire sul confine
esclusivamente in presenza di un accordo tra i privati
confinanti, sicché, in assenza, impone l’osservanza della
distanza di m. 5 dal confine.
In questi termini risulta del tutto ingiustificato l’assunto
di parte controricorrente secondo cui nella fattispecie non
è utilizzabile la diversa disciplina di cui all’art. 873
c.c. (cfr. memoria ex art. 378 c.p.c. di parte
controricorrente, pag. 7) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 08.09.2014 n. 18889
- link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai fini dell’osservanza delle distanze legali tra
costruzioni finitime, non assume rilevanza la circostanza
che il nuovo manufatto non risulti in regola con i permessi
amministrativi bensì il solo fatto che la violazione dei
limiti privatistici ad esso ricondotta sia effettivamente
sussistente.
1 – Con il primo motivo del ricorso della (OMISSIS) – che
trova perfetta corrispondenza argomentativa nel primo mezzo
del ricorso incidentale della società (OMISSIS) – si assume
la violazione o la falsa applicazione dei confini
applicativi dell’articolo 872 cod. civ. per aver ritenuto,
la Corte territoriale, da un lato di accogliere il terzo
motivo dell’appello incidentale della esponente –affermando
dunque l’assenza di violazione sulle distanze– salvo poi a
mantener ferma la decisione del Tribunale sul diverso
presupposto della mancata regolarizzazione amministrativa di
tali vedute; erroneamente poi la Corte romana avrebbe
accolto la domanda ripristinatoria che è concessa –a mente
del combinato disposto degli articoli 872 ed 873 cod. civ.–
solo per le violazioni delle distanze tra edifici; mentre le
irregolarità amministrative in edilizia potrebbero, se del
caso, determinare una tutela risarcitoria; dette
considerazioni sarebbero state ancor più evidenti nel capo
di decisione che aveva ordinato l’arretramento del parapetto
del proprio balcone, rispetto al quale, del pari, non era
stata riscontrata alcuna violazione delle distanze.
1a – Il motivo è fondato.
1.a.1 – Pur non essendo in rilievo la violazione
dell’articolo 872 cod. civ. –in quanto, sia pure
confusamente, la Corte di Appello pose a parametro normativo
della misurazione delle distanze l’articolo 905 cod. civ.- è
certo che la semplice mancanza di assenso amministrativo
all’apertura di vedute – che però siano state giudicate (non
importa se, correttamente o meno, mancando ricorso
incidentale sul punto), rispettose delle distanze legali-
non incide sulla legittimità dell’opera con riferimento al
diritto del confinante; le osservazioni contenute nel
controricorso del (OMISSIS) in merito alla sussistenza della
violazione delle distanze –data per accertata come pacifica
a fol 5 del controricorso– non sono idonee ad incidere sulle
divergenti conclusioni della Corte di Appello, in quanto non
assumono la struttura di un motivo di ricorso incidentale
secondo i parametri indicati dall’articolo 366 c.p.c.; ad
identiche conclusioni si deve pervenire in merito alle
articolate contestazioni contenute ai foll 8-10 dello stesso
controricorso in merito ai criteri di calcolo delle distanze
tra le finestre ed il balcone rispetto al terrazzo
sottostante (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.09.2014 n. 18689 -
link a http://renatodisa.com). |
luglio 2014 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Apertura pareti finestrate.
L'apertura di pareti finestrate sul
prospetto di un edificio necessita del preventivo rilascio
del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera
denuncia d'inizio attività poiché si tratta d'intervento
edilizio comportante una modifica dei prospetti, in quanto
tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia
"minore".
Quanto al secondo motivo, con cui la difesa censura
l'impugnata sentenza per aver ritenuto penalmente rilevante
la realizzazione delle luci sulla parete, la Corte d'Appello
ha chiarito che ciò aveva determinato una modifica del
prospetto, sicché era necessario il permesso di costruire o,
in alternativa la c.d. SuperDIA, con conseguente rilevanza
penale del fatto (v. Sez. 3, n. 9894 del 20.01.2009 - dep.
05.03.2009, Tarallo, Rv. 243099).
Sul punto, peraltro, deve rilevarsi che, nel caso in esame,
l'intervento riguardava la realizzazione di pareti
finestrate, ciò che comportava, in ogni caso, la modifica
dei prospetti; per "pareti finestrate", infatti, ai
sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei
regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono
intendersi non (soltanto) le pareti munite di "vedute"
ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi,
finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle
due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR
Toscana, Firenze, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR
Piemonte, Torino, 10.10.2008, n. 2565; TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Ne discende, conclusivamente, che l'apertura di pareti
finestrate sul prospetto di un edificio necessita del
preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo
sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si
tratta d'intervento edilizio comportante una modifica dei
prospetti, in quanto tale non qualificabile come
ristrutturazione edilizia "minore".
Infatti, il permesso di costruire è richiesto, per il
disposto dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U. Edilizia (pur
a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 30, comma 1,
lett. c), legge n. 98 del 2013) per le ristrutturazioni che
comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, dei prospetti o delle superfici (ovvero si
riconnettano a mutamenti di destinazione d'uso limitatamente
agli immobili comprese nelle zone omogenee A).
Può, pertanto, essere affermato il seguente principio di
diritto:
«L'apertura di pareti
finestrate sul prospetto di un edificio necessita del
preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo
sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si
tratta d'intervento comportante una modifica dei prospetti,
in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione
edilizia "minore"» (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.07.2014 n. 30575 - tratto da
www.lexambiente.it). |
giugno 2014 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Distanze in edilizia: quando è necessaria la
rimozione delle balconate?
La Corte di Cassazione conferma l'orientamento della
giurisprudenza in materia di edificazione di balconate sulle
facciate degli edifici
All'interno della labirintica tematica delle distanze in
edilizia grande rilievo assumono le controversie
sull'edificazione di balconate sulle facciate delle
costruzioni edili: in tal senso è intervenuta l'importante
sentenza 20.06.2014 n. 14118 della Corte di Cassazione,
Sez. II civile, la quale conferma l'orientamento consolidato
per cui vanno rimosse le vedute e le balconate costruite
senza rispettare le distanze legali, con l’eccezione
dell'eventuale acquisto del diritto di veduta per
usucapione.
La Suprema Corte ha affermato testualmente che "l'inosservanza
delle distanze legali per l'apertura delle vedute
concretizza una molestia di diritto legittimante il
possessore del fondo finitimo ad esercitare l'azione di
manutenzione, intesa a tutelare in via provvisoria ed
immediata l'integrità del fondo medesimo con il ripristino
dello stato dei luoghi".
Non va infatti dimenticato che la giurisprudenza civile ed
amministrativa da anni reitera il seguente concetto:
ovverosia che la distanza di dieci metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i
casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione
di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario,
e pertanto non è eludibile in funzione della natura
giuridica dell’intercapedine (Consiglio di Stato,
05.12.2005, n. 6909).
La sentenza della Cassazione in questione fa riferimento
alla costruzione (precedente al 1969) di una balconata in
aggetto, "frontistante per buona parte l'immobile di
proprietà dei convenuti" attraverso la quale si era dato
inizio all'esercizio, continuativo e pacifico, di una
servitù di veduta diretta ed obliqua in danno dell'edificio
in questione.
Per la decisione finale i giudici si sono focalizzati sulla
disciplina di usucapione e servitù. Ma per giungere a tale
decisione viene data conferma evidente al fondamentale
concetto: balconate e vedute edificate in spregio del
rispetto delle distanze legali devono essere rimosse a spese
di colui che ha cagionato l'abuso. Ovviamente l’usucapione
può sanare la questione mediante il decorso del tempo
(commento tratto da www.ediliziaurbanistica.it). |
marzo 2014 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
P. de Paolis,
Le distanze legali tra pareti finestrate con particolare
riguardo al computo di balconi e sporgenze (Bollettino
di Legislazione Tecnica n. 3/2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sopraelevare corrisponde a realizzare una nuova costruzione.
Rispetto delle distanze legali.
In tema di rispetto delle distanze
legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio
preesistente, determinando un incremento della volumetria
del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione, con
la conseguenza che ad essa è applicabile la normativa
vigente al momento della modifica e non opera il criterio
della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie,
in quanto sostituito dal principio della priorità temporale
correlata al momento della sopraelevazione.
1. Con il primo motivo il ricorrente ha censurato
la sentenza impugnata assumendo l’insufficiente valutazione
della stessa sul punto decisivo della controversia relativo
alla ravvisata inapplicabilità, nella specie, del principio
della prevenzione, sul presupposto del ritenuto accertamento
che la ricostruzione della nuova opera in sopraelevazione
non era stata realizzata sulla stessa area di sedime in cui
insisteva la costruzione precedente. Quale (così
qualificato) ipotetico quesito (non richiesto per i motivi
proposti a mente dell’art. 360 n. 5 c.p.c.), il ricorrente
ha chiesto a questa Corte di precisare se:
a) a fronte delle deduzioni su riportate svolte negli atti
del giudizio di appello (in citazione ed in conclusionale),
facenti riferimento a diverse circostanze probatorie
favorevoli alle tesi del ricorrente,
b) presenti agli atti del giudizio ed ivi precisate
(addirittura, anche con accertamento in sede penale di
quella circostanza),
c) su quello che lo stesso giudicante ha ritenuto essere il
punto decisivo per l’accoglibilità o meno delle
argomentazioni difensive, possa ritenersi compiutamente
svolta e motivata l’attività processuale valutativa degli
elementi decisori della causa, così come presenti agli atti
e richiamati dalla difesa, da parte della sentenza n,
866/2007, qui impugnata, o se, viceversa, questa non risulti
viziata per omesso esame di quegli elementi decisivi,
presenti ed evidenziati.
2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto un
ulteriore, ancorché in via subordinata, vizio di
insufficiente valutazione circa il medesimo punto decisivo
della controversia, reiterando lo stesso “ipotetico”
quesito di diritto formulato con riguardo alla prima
doglianza.
3. I due motivi –esaminabili congiuntamente siccome riferiti
alla stessa doglianza– sono destituiti di fondamento e vanno
respinti.
In primo luogo, occorre evidenziare che, a supporto delle
due richiamate censure, pur facendosi con esse valere dei
vizi di motivazione (e di ciò dimostra consapevolezza lo
stesso ricorrente ponendo in equivoco riferimento al vizio
contemplato dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il cui
oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della
decisione impugnata), risultano formulati –ai sensi
dell’art. 366 bis c.p.c. (“ratione temporis”
applicabile nella fattispecie)– due quesiti di diritto,
oltretutto qualificati come “ipotetici”, nel mentre,
diversamente da quanto ritenuto dalla difesa del P., sarebbe
stato necessario –per concorde giurisprudenza di questa
Corte– provvedere all’illustrazione, ancorché libera da
rigidità formali, della esposizione chiara e sintetica del
fatto controverso –in relazione al quale la motivazione si
assumeva omessa o contraddittoria– ovvero delle ragioni per
le quali la dedotta insufficienza rendeva inidonea la
motivazione stessa a giustificare la decisione.
In ogni caso le dedotte doglianze motivazionali risultano
assolutamente generiche ed apodittiche, attenendo, peraltro,
ad un accertamento di fatto (quello della mancata
ricostruzione dell’opera in sopraelevazione sulla stessa
area di sedime occupata dal manufatto precedente)
congruamente motivato dalla Corte territoriale al fine di
farne conseguire l’inapplicabilità dei principio della
prevenzione.
Ed infatti la Corte veneta –sulla base di motivazione
sufficientemente logica ed adeguata, in quanto supportata
anche dai riscontri documentali acquisiti (come, ad es., il
progetto di ampliamento e sopraelevazione presentato da
ricorrente prima dell’inizio dei lavori in funzione
dell’ottenimento della relativa concessione) e dalle
univoche risultanze della c.t.u. esperita (dalle quali
era emerso che, poiché i fabbricati delle parti erano
frontistanti, nell’esecuzione della sopraelevazione del suo
immobile il P. avrebbe dovuto rispettare le distanze
legali da quello della M. anche per la parte che si elevava
al di sopra dell’altro edificio, ancorché non prospettante
direttamente su di esso)– ha rilevato che, in effetti,
il P. aveva edificato una “nuova costruzione”, ragion
per cui –nella fattispecie– andava rispettata la prescritta
distanza minima tra fabbricati, la quale, perciò, avrebbe
dovuto essere osservata per l’intera sua altezza e, quindi,
non soltanto per la parte dell’edificio che fronteggiava la
parete di quello confinante, ma anche per la parte
sopraelevata.
Del resto, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte
(v., ad es., Cass. n. 6809 del 2000 e Cass. n. 21059) che
la sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni,
comporta sempre un aumento della volumetria e della
superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti
gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle
distanze, come nuova costruzione (per la
distinzione, in generale, tra le definizioni di “ristrutturazione”
e di “nuova costruzione”, v., anche, Cass. n. 9637
del 2006 e Cass., S.U., n. 21578 del 2011, ord.).
Deve, in conclusione, trovare conferma in questa sede il
principio (già affermato, da ultimo, anche da Cass., S.U.,
n. 74 del 2011) secondo cui, in tema di rispetto
delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di
un edificio preesistente, determinando un incremento della
volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova
costruzione, con la conseguenza che ad essa è applicabile la
normativa vigente al momento della modifica e non opera il
criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni
originarie, in quanto sostituito dal principio della
priorità temporale correlata al momento della
sopraelevazione.
4. In definitiva, alla stregua delle ragioni
complessivamente esposte, il ricorso deve essere
integralmente rigettato, con conseguente condanna del
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio,
liquidate nei sensi di cui in dispositivo, sulla scorta dei
nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal
D.M. Giustizia 20.07.2012, n. 140 (applicabile nel caso di
specie in virtù dell’art. 41 dello stesso D.M.: cfr. Cass.,
S.U., n. 17405 del 2012) (Corte
di Cassazione, Sez. II,
sentenza 27.03.2014 n. 7291 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La Consulta ha statuito che "In
materia di distanze tra fabbricati, sono principi
inderogabili della legislazione statale sul governo del
territorio (ai sensi degli artt. 873 Cod. civ. e 9 D.M.
02.04.1968 n. 1444, applicativo dell'art. 41-quinquies L.
17.08.1942 n. 1150, introdotto dall'art. 17 L. 06.08.1967 n.
765) quelli secondo i quali la distanza minima è determinata
dalla legge statale, in sede locale (entro limiti di
ragionevolezza) si possono solo fissare limiti maggiori e le
deroghe locali devono essere previste in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario
di determinate zone del territorio e non ai rapporti tra
vicini isolatamente considerati. Pertanto, è
incostituzionale, per violazione dei detti principi, l'art.
50, comma 8, lett. c), L. reg. Veneto 23.04.2004 n. 11, che
disciplina le distanze solo in funzione degli interessi
privati, autorizzando il confinante a costruire a distanza
inferiore a quella prescritta, salva la distanza dal
confine, quando un fabbricato finitimo già esistente sia
stato posto, rispetto al medesimo confine, a distanza
inferiore dai limiti in atto vigenti, pur se legittimamente
all'epoca dell'edificazione".
Pertanto, la possibilità di costruire sul confine è
consentita soltanto se vi è la possibilità di costruire in
aderenza rispetto ad un fabbricato già edificato e non
laddove il fabbricato già esistente non sia stato costruito
sul confine, ma discosto da esso, ma dall’esame documentale
si apprezza che i box in questione verrebbero realizzati in
aderenza alla rete metallica che separa le due proprietà.
Al suddetto precetto soggiacciono anche le costruzioni
destinate a ricovero per autovetture, come ha già avuto modo
di chiarire questo Consiglio, precisando che persino: “La
tettoia di dimensioni sufficienti al parcheggio di
un'autovettura, pur avendo pareti laterali a graticcio, va
considerata alla stregua di una costruzione col conseguente
obbligo di osservanza delle distanze legali ai sensi
dell'art. 873 Cod. civ., in quanto essa è idonea a creare
intercapedini pregiudizievoli alla sicurezza e alla
salubrità del godimento della proprietà”.
Quanto alla lamentata erroneità della sentenza di primo
grado circa la non corretta esegesi della disciplina delle
distanze che avrebbe condotto il TAR all’erroneo
annullamento nei limiti sopra indicati della concessione
edilizia 14.11.1996, n. 43/96 e dell’art. 45.9 del
regolamento edilizio del comune di Rho, non può convenirsi
con le tesi proposte in entrambi i gravami.
Appare, infatti, corretta la ricostruzione giuridica offerta
dal TAR per la Lombardia, che ha rilevato il contrasto
insanabile tra il citato art. 45.9 del regolamento edilizio
e l’art. 873 c.c., la cui portata precettiva è stata
chiaramente indicata da Corte cost., 16.06.2005, n. 232: “In
materia di distanze tra fabbricati, sono principi
inderogabili della legislazione statale sul governo del
territorio (ai sensi degli artt. 873 Cod. civ. e 9 D.M.
02.04.1968 n. 1444, applicativo dell'art. 41-quinquies L.
17.08.1942 n. 1150, introdotto dall'art. 17 L. 06.08.1967 n.
765) quelli secondo i quali la distanza minima è determinata
dalla legge statale, in sede locale (entro limiti di
ragionevolezza) si possono solo fissare limiti maggiori e le
deroghe locali devono essere previste in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario
di determinate zone del territorio e non ai rapporti tra
vicini isolatamente considerati; pertanto, è
incostituzionale, per violazione dei detti principi, l'art.
50, comma 8, lett. c), L. reg. Veneto 23.04.2004 n. 11, che
disciplina le distanze solo in funzione degli interessi
privati, autorizzando il confinante a costruire a distanza
inferiore a quella prescritta, salva la distanza dal
confine, quando un fabbricato finitimo già esistente sia
stato posto, rispetto al medesimo confine, a distanza
inferiore dai limiti in atto vigenti, pur se legittimamente
all'epoca dell'edificazione”.
Pertanto, la possibilità di costruire sul confine è
consentita soltanto se vi è la possibilità di costruire in
aderenza rispetto ad un fabbricato già edificato e non
laddove il fabbricato già esistente non sia stato costruito
sul confine, ma discosto da esso (Cons. St., Sez. V,
27.04.2012, n. 2458; Id., 13.01.2004, n. 46), ma dall’esame
documentale si apprezza che i box in questione verrebbero
realizzati in aderenza alla rete metallica che separa le due
proprietà.
Al suddetto precetto soggiacciono anche le costruzioni
destinate a ricovero per autovetture, come ha già avuto modo
di chiarire questo Consiglio, precisando che persino: “La
tettoia di dimensioni sufficienti al parcheggio di
un'autovettura, pur avendo pareti laterali a graticcio, va
considerata alla stregua di una costruzione col conseguente
obbligo di osservanza delle distanze legali ai sensi
dell'art. 873 Cod. civ., in quanto essa è idonea a creare
intercapedini pregiudizievoli alla sicurezza e alla
salubrità del godimento della proprietà” (Cons. St.,
Sez. II, 10.11.2004, n. 3523)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.03.2014 n. 1272 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In tema di distanze legali, integra la nozione di
volume tecnico, non computabile nella volumetria della
costruzione e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze
legali, soltanto l'opera edilizia priva di autonomia
funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a
contenere impianti serventi di una costruzione principale
per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima.
E tale non può considerarsi il balcone che non si connoti
per una mera funzionalità decorativa: “Ai fini del computo
delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione,
aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della
immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di
aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente
decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di
entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla
norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza,
della salubrità e dell'igiene”.
Neanche coglie nel segno
l’appello dell’amministrazione comunale nella parte in cui
sostiene che nel computo delle distanze non potrebbero
calcolarsi i balconi.
Milita in senso contrario l’orientamento consolidato del
Consiglio di Stato, secondo il quale: “In tema di
distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non
computabile nella volumetria della costruzione e irrilevante
ai fini del calcolo delle distanze legali, soltanto l'opera
edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, in
quanto destinata a contenere impianti serventi di una
costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della
costruzione medesima” (Cons. St., Sez. IV, 15.01.2013,
n. 223) e tale non può considerarsi il balcone che non si
connoti per una mera funzionalità decorativa: “Ai fini
del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli
elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità
e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti
e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente
decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di
entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla
norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza,
della salubrità e dell'igiene” (Cons. St., Sez. IV,
02.11.2010, n. 7731; Id., 14.10.1998, n. 1467)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.03.2014 n. 1272 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
richiamo all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che
prescrive la distanza di 10 metri per l’apertura di finestre
antistanti l’edificio confinante, si fonda sull’interesse
pubblico di impedire la formazione di intercapedini nocive
sotto il profilo igienico-sanitario: trattasi, come ha
rilevato la giurisprudenza, di prescrizione avente carattere
di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte
normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti
urbanistici locali (ed è quindi irrilevante il riferimento,
operato dall’appellante, all’art. 27 del regolamento
edilizio del Comune di Milano), da sola sufficiente a
fondare la legittimità dell’annullamento del titolo edilizio
senza spazio per la considerazione e la ponderazione di
opposti interessi.
L’appellante asserisce
poi l’irrilevanza della mancata rappresentazione, nella
documentazione originaria, di una finestra sull’immobile
antistante la parete dell’immobile da ristrutturare: ma è
argomentazione fuorviante, dal momento che il provvedimento
impugnato in primo grado si basa non sulla presenza di una
tale finestra, ma sulla circostanza che il manufatto “non è
stato ricostruito fedelmente quanto a volumetria e sagoma,
giacché sono state operate correzioni dell’area di sedime,
traslate pareti, ampliate le aree, razionalizzata la
conformazione delle aree di sedime, comportando la modifica
del perimetro considerato in senso orizzontale e verticale,
in difetto pertanto del principio di mantenimento della
sagoma”; che il manufatto adibito a box e caldaia “si pone a
distanza inferiore ai tre metri dal confine con una
proprietà di terzi”; che, infine, “nel recupero del
sottotetto, sul lato fronteggiante la proprietà confinante,
è stata aperta una finestra a distanza inferiore a mt. 10”.
Queste sono, pertanto, le motivazioni che sorreggono il
provvedimento in esame, rispetto alle quali la
considerazione della mancata rappresentazione della finestra
sull’edificio confinante non assume alcuna decisiva
rilevanza, essendo la distanza appena richiamata considerata
con riferimento, invece, alla finestra aperta sul manufatto
oggetto dell’intervento contestato.
Il richiamo, pure operato dal provvedimento, all’art. 9 del
d.m. 02.04.1968, n. 1444 che prescrive la distanza di 10
metri per l’apertura di finestre antistanti l’edificio
confinante, si fonda sull’interesse pubblico di impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario: trattasi, come ha rilevato la
giurisprudenza, di prescrizione avente carattere di
assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa
statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici
locali (ed è quindi irrilevante il riferimento, operato
dall’appellante, all’art. 27 del regolamento edilizio del
Comune di Milano), da sola sufficiente a fondare la
legittimità dell’annullamento del titolo edilizio senza
spazio per la considerazione e la ponderazione di opposti
interessi (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1054 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Una
scala esterna scoperta non incide sulla volumetria ma rileva
ai fini della distanza dai confini.
Esclusione dei balconi dal computo delle distanze.
Vero è che il vano scale e in
particolare, a maggior ragione, una rampa di scala scoperta
non incide sulla volumetria, trattandosi, di un volume c.d.
tecnico, ma altre conseguenze può avere la stessa struttura
sul diverso versante della normativa dettata per le distanze
dai confini.
Invero, nel calcolo della distanza minima fra costruzioni
posta dall’art. 873 codice civile o da norme regolamentari
di esso integrative (come nel caso di specie) deve tenersi
conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato come
la scala esterna in muratura anche scoperta, se ed in quanto
presenta connotati di consistenza e stabilità.
A deporre nel senso della computabilità del manufatto in
parola nella misurazione delle distanze dai confini, induce
la non irrilevante considerazione sulle finalità sottese al
rispetto della normativa sui distacchi dal confine e in
generale delle disposizioni, di tipo inderogabile recate dal
D.M. n. 1444 del 1968, volte, com’è noto, ad assicurare le
necessarie condizioni di salubrità sotto il profilo
igienico-sanitarie, mediante l’eliminazione di perniciose
intercapedini.
A fronte, perciò, del contenuto “pubblicistico” della
disciplina all’uopo dettata e del carattere inderogabile
della stessa, deve ritenersi non tollerabile la presenza di
una parte sia pure di modesta entità di un opus edilizio che
va ad insistere in maniera permanente su uno spazio
territoriale che deve libero da qualsiasi ingombro.
---------------
L’esclusione dei balconi dal computo
delle distanze, deve avvenire in ragione di un criterio
interpretativo sottolineato da un preciso orientamento
giurisprudenziale secondo cui il balcone aggettante può
essere ricompreso nel computo della distanza dal confine
solo nel caso in cui una norma di piano lo preveda
espressamente e tale ultima circostanza nella specie non è
rinvenibile, posto che le NTA di Piano del Comune non lo
prevede.
Inoltre, non si rinvengono elementi tali da far ritenere che
la maggiore profondità dei balconi sia idonea ad evidenziare
una sorta di ampliamento della consistenza del fabbricato,
giacché se si versasse in tale ultima ipotesi, sicuramente
le sporgenze andrebbero computate ai fini del rispetto delle
distanze.
Viene poi in rilievo la questione relativa alla lamentata
violazione da parte degli originari ricorrenti di primo
grado della distanza dal confine del lotto costruito, in
relazione ad rampa di scala che aggetterebbe ad una distanza
inferiore ai 5 metri e a dei balconi che pure sopravanzano
il fabbricato
Sul punto le osservazioni del primo giudice in ordine alla
sussistenza del vizio dedotto dai sigg.ri Ciavarella,
Sollazzo e Magaraggia con riferimento alla scala meritano
condivisone mentre si ritiene debbano essere disattesi i
rilievi mossi dallo stesso giudicante a carico dei balconi
L’art. 10 delle NTA prevede un’area di distacco dal confine
pari a 5 mt. e l’art. 6 delle stesse norme tecniche di
attuazione stabilisce che le aree di distacco sono
inedificabili.
Come riferito peraltro dagli stessi appellanti in tale area
di distacco viene a posizionarsi sia pure solo per una parte
una scala che partendo in area coperta dell’edificio dei
sigg.ri Losurdo-Dipede si prolunga, sino ad invadere l’area
inedificabile per circa 40 cm (il dato per il vero non è
pacifico, e oscilla, come pare di capire, tra i 30 e i 50
cm).
Ora, vero è che il vano scale e in particolare, a maggior
ragione, una rampa di scala scoperta non incide sulla
volumetria, trattandosi, di un volume c.d. tecnico (Cons.
Stato Sez. IV 07.07.2008 n. 3381), ma altre conseguenze può
avere la stessa struttura sul diverso versante della
normativa dettata per le distanze dai confini.
Invero, nel calcolo della distanza minima fra costruzioni
posta dall’art. 873 codice civile o da norme regolamentari
di esso integrative (come nel caso di specie) deve tenersi
conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato come
la scala esterna in muratura anche scoperta, se ed in quanto
presenta connotati di consistenza e stabilità (Cassazione
civile Sez. II 30/01/2007 n. 1966; Tar Basilicata 19/09/2013
n. 574).
A deporre nel senso della computabilità del manufatto in
parola nella misurazione delle distanze dai confini, induce
la non irrilevante considerazione sulle finalità sottese al
rispetto della normativa sui distacchi dal confine e in
generale delle disposizioni, di tipo inderogabile recate dal
D.M. n. 1444 del 1968, volte, com’è noto, ad assicurare le
necessarie condizioni di salubrità sotto il profilo
igienico-sanitarie, mediante l’eliminazione di perniciose
intercapedini.
A fronte, perciò, del contenuto “pubblicistico” della
disciplina all’uopo dettata e del carattere inderogabile
della stessa, deve ritenersi non tollerabile la presenza di
una parte sia pure di modesta entità di un opus
edilizio che va ad insistere in maniera permanente su uno
spazio territoriale che deve libero da qualsiasi ingombro.
A diversa conclusione invece si deve pervenire in ordine
alla questione dei balconi, senza che per il vero si possa
accedere alla tesi pure propugnata dagli appellanti
dell’assimilabilità e/o equiparabilità tra la scala scoperta
e i balconi in questione in quanto tra le due “strutture”
vi è diversità di tipologia e di consistenza e,
conseguentemente, diversi sono gli effetti derivanti dalla
loro presenza in ordine al rispetto del parametro edilizio
in discussione
In realtà l’esclusione dei balconi dal computo delle
distanze, nella specie deve avvenire in ragione di un
criterio interpretativo sottolineato da un preciso
orientamento giurisprudenziale secondo cui il balcone
aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza
dal confine solo nel caso in cui una norma di piano lo
preveda espressamente e tale ultima circostanza nella specie
non è rinvenibile, posto che le NTA di Piano del Comune di
Cellamare non lo prevede.
Va peraltro pure dato atto che nella vicenda all’esame non
si rinvengono elementi tali da far ritenere che la maggiore
profondità dei balconi sia idonea ad evidenziare una sorta
di ampliamento della consistenza del fabbricato, giacché se
si versasse in tale ultima ipotesi, sicuramente le sporgenze
andrebbero computate ai fini del rispetto delle distanze (
Cons. Stato Sez. IV 17/05/2012 n.2847).
Con colgono nel segno, infine, le critiche formulate da
parte appellante alla statuizione del primo giudice circa la
sussistenza del vizio di violazione delle disposizioni
recate dal D.M. n. 1444/1968 in ordine alla distanza minima
da osservarsi tra pareti finestrate di edifici prospicienti.
Invero, rilevato che la scala costituisce, come già sopra
evidenziato, struttura o corpo aggettante da considerarsi ai
fini del computo della distanza, quest’ultima con
riferimento al parametro edilizio posto dalla norma di cui
all’art. 9 del citato Decreto risulta inferiore ai previsti
10 metri, limite minimo da ritenersi inderogabile, fermo
restando che la disposizione statale in rassegna si rivela
sovraordinata ad altra norma regolamentare locale che fissi
una diversa, minore distanza (ex multis, Cons. Stato
Sez. IV 17/05/2012 n. 2847)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.03.2014 n. 1000 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2014 |
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EDILIZIA PRIVATA:
In tema di distanze tra edifici, ove le
costruzioni non siano incluse nel medesimo piano
particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la
disciplina sulle relative distanze non è recata dal Decreto
Ministeriale 02.04.1968, n. 1444, articolo 9, u.c., che
consente ai Comuni di prescrivere distanze inferiori a
quelle previste dalla normativa statale, bensì dal primo
comma dello stesso articolo 9, quale disposizione di
immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
1.1.- La censura non coglie nel segno e non può essere
accolta.
La Corte torinese ha correttamente identificato la
situazione di fatto sottoposta al suo esame, relativa alla
distanza tra l’edificio dei sigg. (G) e (S) e l’edificio
realizzato dalla società (IE) srl, ed, ad un tempo ha,
correttamente, interpretato ed individuato la norma
applicabile alla fattispecie esaminata. Pertanto, la
sentenza impugnata non merita alcuna censura.
1.1.a).- Appare opportuno chiarire:
-A) che gli edifici oggetto della controversia sono
collocati nella zona che il Piano Regolatore Generale del
Comune di Torino contraddistingue con la lettera b). Detta
zona è qualificata dall’articolo 15 delle Norme urbanistiche
di attuazione del Piano Regolatore Generale del Comune di
Torino (NUEA) tra quelle zone definite “zone urbane di
trasformazione: le parti del territorio per le quali
indipendentemente dallo stato di fatto sono previsti
interventi di radicale ristrutturazione urbanistica e di
nuovo impianto”.
Per tali zone l’articolo 7 del NUEA prevede due possibilità
di trasformazioni: a) una trasformazione unitaria e una
trasformazione per sub ambiti.
-B) che l’edificio dei sigg. (G) e (S), non formava oggetto
del piano di lottizzazione di cui faceva parte l’edifico
realizzato dalla società (IE) srl. (l’edificio del
condominio), ma formava oggetto dello Studio Unitario
d’Ambito (SUA) proposto al Comune di Torino dai danti causa
degli attuali ricorrenti, approvato dall’Amministrazione
comunale con delibera n. 278797 del 1997 ed era stata
stipulata la Convenzione programmata. Il caso in esame, in
particolare, integrava gli estremi di un’ipotesi di
trasformazione sub ambiti.
1.1.b).- A questa situazione di fatto va riferita –come bene
ha chiarito la Corte torinese- la normativa di cui al
Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 9, laddove
stabilisce, per quanto qui può interessare, che la distanza
minima assoluta tra fabbricati per le zone territoriali
omogenee diverse dalla zone A e dalla zona C dovrà essere
quella di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti. Tuttavia, la stessa norma nell’ultima parte
dell’ultimo comma prevede che “sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
Pertanto, posto che gli edifici oggetto della controversia,
nominalisticamente, e come già si è detto, non facevano
parte unitariamente di alcun piano particolareggiato, né di
alcuna lottizzazione convenzionale, restava acquisito che,
sic et simpliciter, la deroga prevista dall’articolo
9, appena citato, non poteva essere estesa al caso in esame.
D’altra parte, come ha già avuto modo di evidenziare questa
Corte in altra occasione (sent. n. 12424 del 2010): in tema
di distanze tra edifici, ove le costruzioni non siano
incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa
lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è
recata dal Decreto Ministeriale 02.04.1968, n. 1444,
articolo 9, u.c., che consente ai Comuni di prescrivere
distanze inferiori a quelle previste dalla normativa
statale, bensì dal primo comma dello stesso articolo 9,
quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia
precettiva (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 18.02.2014 n. 3803 -
link a http://renatodisa.com). |
gennaio 2014 |
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EDILIZIA PRIVATA:
I regolamenti edilizi comunali possono stabilire distanze
tra edifici o dal confine, maggiori (e non minori) da quelle
stabilite dal codice civile.
In tema di distanze legali fra edifici,
mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme
del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale,
di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la
mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili,
rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" le parti
dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d.
"aggettanti") che, seppure non corrispondono a volumi
abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare
la consistenza del fabbricato.
D'altra parte, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ.,
la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge
statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia
pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla
normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella
seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola
facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza
maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella
codicistica.
---------------
2. - La censura,
nella sua duplice articolazione, risulta in parte
inammissibile, in parte priva di fondamento.
2.1. - Deve, anzitutto, osservarsi, quanto al primo quesito,
che esso risulta del tutto inconferente -e la relativa
doglianza, di conseguenza, inammissibile- non trattandosi,
nella specie, di porre in discussione in via generale
l'applicabilità della normativa di cui al Regolamento
Edilizio, ma, come esattamente rilevato nel controricorso,
ove, appunto, viene sollevata eccezione di inammissibilità,
di determinare il criterio applicativo dell'art. 873 cod.
civ. alla luce dell'art. 101 del predetto Regolamento.
2.2. - La norma citata esclude l'obbligo di rispetto delle
distanze per gli aggetti senza sovrastanti corpi chiusi,
cioè, evidentemente, aggetti aventi funzione esclusivamente
ornamentale.
Al riguardo, questa Corte ha chiarito che in tema di
distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine
computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano
funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria
di limitata entità, come la mensole, le lesene, i
cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto
civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio,
quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. "aggettanti")
che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti,
sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del
fabbricato.
D'altra parte, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ.,
la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge
statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia
pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla
normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella
seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola
facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza
maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella
codicistica (v. Cass., sent. n. 1556 del 2005).
Nella specie, la Corte di merito ha escluso, attraverso una
indagine di fatto, che la terrazza costituisca un aggetto
sottratto alla disciplina in materia di distanze, rilevando
che essa è costituita da un piano di calpestio, da un
parapetto in muratura e da una stabile copertura
sovrastante, che concorrevano alla creazione di un volume, e
che, quindi, essendo posta ad una distanza dal confine
inferiore ai cinque metri, come rilevato in sede di c.t.u.,
è soggetta al rispetto delle distanze. Ne deriva la
infondatezza della censura sotto il profilo dell'art. 873
cod.civ.
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 30.01.2014 n. 2094 - link a
www.avvocatocassazionista.it). |
novembre 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Perché si applichi la disciplina inderogabile di
legge in materia di distanze, non è necessario che entrambe
le pareti frontistanti siano finestrate, ma è sufficiente
che lo sia una soltanto di esse.
Si è detto in particolare in passato, che: “la norma
dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, in materia di
distanze fra fabbricati -che, siccome emanata in attuazione
dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, non può essere
derogata dalle disposizioni regolamentari locali- va
interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri
è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti
fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale
parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio
preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di
tale distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona
della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo
una parte di essa si trovi a distanza minore da quella
prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto della
distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che
sono in parte privi di finestre".
Questo Consiglio di Stato ha condiviso –o forse è meglio
dire anticipato- tale approdo, affermando che: “la distanza
di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti
si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi
sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo
edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata
sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o
a diversa altezza rispetto all'altra.
Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza
di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata
con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole
parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e
non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto
che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare,
sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti
verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi
in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei
generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano
quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero
fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso
abitativo".
Si evidenzia soprattutto che, per "pareti finestrate", ai
sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti quei
regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono
intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma
più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi,
finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle
due pareti.
Ne consegue che, posto che la parete dell’edificio di parte
appellante era munito di una porta finestra, e che per tal
motivo rientrava nel concetto di “parete finestrata” si
sarebbe dovuta rispettare la distanza minima. Il detto
argomento difensivo svolto dall’amministrazione comunale,
palesemente inaccoglibile, va pertanto respinto, il che
assume portata decisiva, imponendo l’accoglimento del
ricorso di primo grado (si veda: TAR Abruzzo L'Aquila Sez.
I, 20.11.2012, n. 788: “per "pareti finestrate", ai sensi
dell'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 devono intendersi, non
solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte
le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso
l`esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo -di
veduta o di luce, bastando altresì che sia finestrata anche
la sola parete che subisce l'illegittimo avvicinamento”).
---------------
V’è concordia in dottrina ed in giurisprudenza civile ed
amministrativa in ordine al principio per cui, “nella
materia delle distanze nelle costruzioni, il principio
secondo cui la norma dell'art. 9, numero 2, del d.m.
02.04.1968, che fissa in dieci metri la distanza minima
assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, non è immediatamente operante nei rapporti fra i
privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte
degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con
la citata norma comporta l'obbligo per il giudice di merito
non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma
anche di applicare direttamente la disposizione del
menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica,
parte integrante dello strumento urbanistico, in
sostituzione della norma illegittima che è stata
disapplicata.”.
Con più specifica aderenza al caso devoluto alla cognizione
del Collegio, è stato in passato affermato che “in tema di
distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m.
02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d.
legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato,
sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di
densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali
successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione
automatica.”.
---------------
Di recente è stato affermato il principio secondo il quale
"ha natura di norma di ordine pubblico l'art. 9 del D.M. n.
1444/1968 che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Si
precisa che il balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della predetta distanza solo nel caso in cui una
norma di piano preveda ciò.”.
Nella richiamata decisione è stato, infatti, affermato che
“la giurisprudenza ha, infatti, ormai chiarito la natura di
norma di ordine pubblico dell'art. 9 del D.M. 1444/68, che
prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando
tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della predetta distanza solo nel caso in cui una
norma di piano preveda ciò”.
Altra decisione del Consiglio di Stato, per il vero,
contiene questa significativa affermazione: “secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, i balconi
aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata
dall’edificio, costituendo solo un prolungamento
dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna
funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come
viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello
incassate nel corpo dell’edificio, con la conseguenza che
mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume
dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo
dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione
del volume.”.
Il Collegio infatti condivide
la consolidata giurisprudenza di legittimità civile ed
amministrativa, secondo la quale, perché si applichi la
disciplina inderogabile di legge in materia di distanze, non
è necessario che entrambe le pareti frontistanti siano
finestrate, ma è sufficiente che lo sia una soltanto di
esse.
Si è detto in particolare in passato, che (Cass. civ. Sez.
II, 20.06.2011, n. 13547):
“la norma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, in
materia di distanze fra fabbricati -che, siccome emanata in
attuazione dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765,
non può essere derogata dalle disposizioni regolamentari
locali- va interpretata nel senso che la distanza minima di
dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle
pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente
se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella
dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per
l'applicazione di tale distanza, che le finestre esistano in
qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio,
ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore
da quella prescritta; ne consegue, pertanto, che il rispetto
della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete
che sono in parte privi di finestre.” (vedasi anche Cass.
civ. Sez. II, 28.09.2007, n. 20574).
Questo Consiglio di Stato ha condiviso –o forse è meglio
dire anticipato- tale approdo (Cons. Stato Sez. IV,
05.12.2005, n. 6909), affermando che:
“la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate,
indipendentemente dalla circostanza che una sola delle
pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o
della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi
alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra.
Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza
di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti
finestrate e non solo a quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in posizione
parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare,
sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti
verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi
in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei
generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano
quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero
fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso
abitativo" (Cons. di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n.
6909).
Si evidenzia soprattutto che, per "pareti finestrate", ai
sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 e di tutti
quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano,
devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di
"vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e
considerato altresì che basta che sia finestrata anche una
sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III,
04.12.2001, n.
1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565;
TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419).
Ne consegue che, posto che la parete dell’edificio di parte
appellante era munito di una porta finestra, e che per tal
motivo rientrava nel concetto di “parete finestrata” si
sarebbe dovuta rispettare la distanza minima. Il detto
argomento difensivo svolto dall’amministrazione comunale,
palesemente inaccoglibile, va pertanto respinto, il che
assume portata decisiva, imponendo l’accoglimento del
ricorso di primo grado (si veda: TAR Abruzzo L'Aquila
Sez. I, 20.11.2012, n. 788: “per "pareti finestrate", ai
sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 devono
intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in
generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi
genere verso l`esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo -di veduta o di luce, bastando altresì che sia
finestrata anche la sola parete che subisce l'illegittimo
avvicinamento”, ma anche TAR Puglia Lecce Sez. III,
Sent., 28.09.2012, n. 1624).
Pur potendosi –alla luce di quanto si è dianzi precisato- assorbire le restanti censure, a cagione della già
avvenuta dimostrazione della illegittimità del titolo
abilitativo edilizio rilasciato a parte contro interessata,
in quanto non rispettoso del principio della prevenzione in
punto di rispetto delle distanze, ritiene il Collegio di
affrontare la tematica che ha costituito l’elemento centrale
della decisione di primo grado (motivo n. 1 del mezzo
introduttivo del giudizio di prime cure).
Si rammenta che la disposizione prima richiamata di cui
all’art. 9 del d.M. 02.04.1968 n. 1444 così prevede: “Le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e
per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli
edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti
tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener
conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di
valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in
tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di
edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del
fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una
sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si
fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano
interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con
esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di
singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere
alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml.
7 e ml. 15;
ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate,
risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le
distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura
corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso
di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche.”.
V’è concordia in dottrina ed in giurisprudenza civile ed
amministrativa in ordine al principio per cui, “nella
materia delle distanze nelle costruzioni, il principio
secondo cui la norma dell'art. 9, numero 2, del d.m. 02.04.1968, che fissa in dieci metri la distanza minima
assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, non è immediatamente operante nei rapporti fra i
privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte
degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con
la citata norma comporta l'obbligo per il giudice di merito
non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma
anche di applicare direttamente la disposizione del
menzionato articolo 9, divenuta, per inserzione automatica,
parte integrante dello strumento urbanistico, in
sostituzione della norma illegittima che è stata
disapplicata.”.
Con più specifica aderenza al caso devoluto alla cognizione
del Collegio, è stato in passato affermato che (Cass. civ.
Sez. Unite, 07.07.2011, n. 14953) “in tema di distanze tra
costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge
urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le
sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità,
altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.”.
La gravata decisione ha applicato il principio –di
recente predicato dalla giurisprudenza amministrativa–
secondo il quale (TAR Toscana Firenze Sez. III,
09.06.2011, n. 993) “ha natura di norma di ordine pubblico
l'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 che prescrive la distanza
minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti. Si precisa che il balcone aggettante può
essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo
nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.”. Nella
richiamata decisione è stato, infatti, affermato che “la
giurisprudenza ha, infatti, ormai chiarito la natura di
norma di ordine pubblico dell'art. 9 del D.M. 1444/68, che
prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando
tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della predetta distanza solo nel caso in cui una
norma di piano preveda ciò (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381; TAR Lazio, 31.03.2010 n. 5319; TAR
Liguria, Genova, sez. I, 10.07.2009 n. 1736).”.
La decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008
n. 3381, per il vero, contiene questa significativa
affermazione: “secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, i balconi aggettanti sono quelli che
sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un
prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non
svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria
copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a
livello incassate nel corpo dell’edificio (Cass. civ. sez. II, 17.07.2007, n. 15913;
07.09.1996, n. 8159),
con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti,
non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi
costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi
alla determinazione del volume.”.
Sennonché, anche sotto tale profilo, la censura
dell’appellante appare persuasiva sotto un ulteriore
aspetto: la norma del regolamento comunale (articolo 3 comma
8 delle NTA del Piano delle Regole: “nella verifica delle
distanze non si tiene conto di scale aperte –omissis-, di
balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60, nonché di
altri tipi di aggetti che siano inferiori a m 0,50 e nuovi
spessori delle murature perimetrali determinati dalla
realizzazione di “cappotti termici”) costituisce norma
eccezionale e di favore, in quanto integra e “deroga” (con
il favore della giurisprudenza, come si è avuto modo di
dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma di
ordine pubblico di cui all’art. 9 del dM più volte
richiamato".
Non v’è dubbio che tali “deroghe/integrazioni” debbano
essere interpretate in senso restrittivo: ai fini del
calcolo della distanza, quindi, il balcone aggettante
comunque non può che essere calcolato partendo dalle
finestre, arretrate rispetto al fronte dell’edificio: come
rimasto incontestato, in tale ipotesi il balcone avrebbe un
aggetto di mt. 2,40, e quindi non rientrerebbe nel precetto
“di favore” di cui alla norma regolamentare comunale
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.11.2013 n. 5557 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA: In
tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la
sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un
incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile
come nuova costruzione. Deriva da quanto precede, pertanto,
l’applicazione della normativa urbanistica vigente al
momento della modifica e l’inoperatività del criterio della
prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in
quanto sostituito dal principio della priorità temporale
correlata al momento della sopraelevazione (In applicazione
del riferito principio la Suprema Corte ha accertato che la
parte, nel trasformare in vano chiuso e coperto il terrazzo
a livello posto al primo piano del suo fabbricato, a confine
con il fondo della controparte, avrebbe dovuto comunque
rispettare la distanza prescritta dallo strumento
urbanistico vigente, anche se il nuovo manufatto era
contenuto entro l’ingombro orizzontale del piano inferiore).
E, infatti, l’istituto della prevenzione, secondo
l’interpretazione consolidata del combinato disposto di cui
agli art. 873, 875 e 877 c.c., muove dalla circostanza di
fatto che, a partire dalla linea di confine, non siano
intervenute costruzioni nelle due proprietà sicché, il
soggetto che costruisce per primo, potendo scegliere se
edificare sul confine o a distanza da esso, condiziona il
proprietario del fondo limitrofo che, a propria volta, può
scegliere di costruire in aderenza ovvero mantenendo la
distanza legale minima prescritta: detta figura non può,
quindi, trovare applicazione laddove sui due fondi finitimi,
esistano già edifici, come è nel caso sottoposto all’esame
del Collegio.
Ne discende, quindi, che il principio della prevenzione non
è applicabile quando l’obbligo di osservare un determinato
distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in
tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al
carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative,
da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati
diritti soggettivi, di interessi generali. Proprio in
quest’ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel caso
in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la
necessità di rispettare determinate distanze dal confine non
può ritenersi consentita la costruzione in aderenza o in
appoggio a meno che tale facoltà non sia consentita come
alternativa all’obbligo di rispettare le suddette distanze.
Ne risulta confermata la legittimità anche del secondo
motivo di diniego, cui non osta l’invocato, da parte
ricorrente, criterio della prevenzione.
Si consideri, al riguardo, quanto risulta dalla parte motiva
della sentenza del TAR Veneto – Sez. II, dell’11.11.2011, n. 1683:
“Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione,
condivisa dal Collegio, in tema di rispetto delle distanze
legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio
preesistente, determinando un incremento della volumetria
del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione.
Deriva da quanto precede, pertanto, l’applicazione della
normativa urbanistica vigente al momento della modifica e
l’inoperatività del criterio della prevenzione se riferito
alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal
principio della priorità temporale correlata al momento
della sopraelevazione (In applicazione del riferito
principio la Suprema Corte ha accertato che la parte, nel
trasformare in vano chiuso e coperto il terrazzo a livello
posto al primo piano del suo fabbricato, a confine con il
fondo della controparte, avrebbe dovuto comunque rispettare
la distanza prescritta dallo strumento urbanistico vigente,
anche se il nuovo manufatto era contenuto entro l’ingombro
orizzontale del piano inferiore) (cfr. Cassazione civile,
sez. II, 03.01.2011, n. 74).
E, infatti, l’istituto della prevenzione, secondo
l’interpretazione consolidata del combinato disposto di cui
agli art. 873, 875 e 877 c.c., muove dalla circostanza di
fatto che, a partire dalla linea di confine, non siano
intervenute costruzioni nelle due proprietà sicché, il
soggetto che costruisce per primo, potendo scegliere se
edificare sul confine o a distanza da esso, condiziona il
proprietario del fondo limitrofo che, a propria volta, può
scegliere di costruire in aderenza ovvero mantenendo la
distanza legale minima prescritta: detta figura non può,
quindi, trovare applicazione laddove sui due fondi finitimi,
esistano già edifici, come è nel caso sottoposto all’esame
del Collegio (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 24.12.2001, n.
6374).
Ne discende, quindi, che il principio della prevenzione non
è applicabile quando l’obbligo di osservare un determinato
distacco dal confine sia dettato da regolamenti comunali in
tema di edilizia e di urbanistica, avuto riguardo al
carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative,
da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati
diritti soggettivi, di interessi generali. Proprio in
quest’ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel caso
in cui i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la
necessità di rispettare determinate distanze dal confine –come nell'ipotesi dell’art. 18, comma 3, delle N.T.A.
vigenti nel Comune di Baone– non può ritenersi consentita la
costruzione in aderenza o in appoggio a meno che tale
facoltà non sia consentita come alternativa all’obbligo di
rispettare le suddette distanze (cfr. Consiglio di Stato,
sez. V, 13.01.2004, n. 46)” (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.10.2013 n. 2039 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta
dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari di esso
integrative, deve tenersi conto anche delle strutture
accessorie di un fabbricato, come la scala esterna in
muratura anche se scoperta, quando presenta connotati di
consistenza e stabilità ed emerge in modo sensibile al di
sopra del livello del suolo.
Al riguardo, va statuito che nel
calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta
dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari di esso
integrative, deve tenersi conto anche delle strutture
accessorie di un fabbricato, come la scala esterna in
muratura anche se scoperta, quando presenta connotati di
consistenza e stabilità ed emerge in modo sensibile al di
sopra del livello del suolo (cfr. Cass. Civ. Sez. II Sent.
n. 1966 del 30.1.2007; TAR Bari Sez. III Sent. n. 1219 del
21.06.2012; CONTRA TAR Piemonte Sez. I Sent. n. 505 del
25.03.2008, che richiama le Sentenze Cass. Civ. Sez. II n.
14379 del 21.12.1999 e n. 5467 dell’08.09.1986).
Il vigente art. 10 delle N.T.A. del P.R.G. non contraddice
il suddetto principio giurisprudenziale, quando stabilisce
che la distanza degli edifici dai confini e dalle strade va
“misurata nel punto di massima sporgenza della parete delle
edificio, di logge, balconi, etc.”, atteso che, anche se non
vengono citate espressamente le scale esterne scoperte,
dalla parola abbreviata “etc.” si desume agevolmente che la
predetta norma urbanistica, al fine di evitare un lungo
elenco, intende riferirsi a tutti i corpi aggettanti e
perciò anche alle scale esterne scoperte, che sono
materialmente unite alla parete dell’edificio, come le logge
ed i balconi.
Ma, poiché dalla documentazione acquisita in giudizio non
risulta che il progetto, assentito con l’impugnato permesso
di costruire in sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/2001 ed in
variante (al permesso di costruire del 16.12.2005),
prevedeva che le predette scale esterne scoperte erano
posizionate ad una distanza dal confine inferiore a quella
prescritta di minimo 5 m. ed ad una distanza dai fabbricati
inferiore a quella prescritta di minimo 10 m., deve
ritenersi che la violazione delle N.T.A. del P.d.L.,
approvato con Del. C.C. n. 220 del 06.01.1983, assume la
configurazione di un abuso edilizio, in quanto non
autorizzata dall’impugnato permesso di costruire.
Comunque, nella specie, il Comune di Matera ha l’obbligo di
ordinare la demolizione delle scale esterne, già realizzate,
ed il loro arretramento fino a 5 m. dal confine e 10 m.
dalle adiacenti costruzioni compreso quella dei ricorrenti
(TAR Basilicata,
sentenza 02.10.2013 n. 574 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
settembre 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'osservanza
della norma generale sulle distanze, di cui all'art. 873
cod. civ., la nozione di costruzione avallata dalla Corte di
Cassazione non si identifica con quella di edificio, ma si
estende a qualsiasi opera non completamente interrata,
avente i requisiti della solidità, dell'immobilizzazione
rispetto al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso con una preesistente fabbrica, e ciò
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione, dai
caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e
continuità della massa e dal materiale impiegato per la sua
realizzazione (è stato affermato, per esempio, che ai fini
dell'osservanza delle distanze di cui all'art. 873 cod.
civ., la nozione di costruzione comprende qualunque opera
non completamente interrata avente i requisiti della
solidità e dell'immobilizzazione rispetto al suolo; nello
stesso senso, è stata annullata la sentenza impugnata che
aveva negato il carattere di costruzione, assoggettata al
rispetto delle distanze legali, ad un'opera edilizia
seminterrata, sporgente dal suolo per un altezza di cm. 70).
Ne consegue che, sempre al fine della determinazione della
distanza prescritta dall'art. 873 cod. civ., possono non
essere prese in considerazione soltanto le costruzioni che
si sviluppino interamente nel sottosuolo, in guisa da non
formare dannose intercapedini con i fabbricati alieni
frontistanti.
Tanto premesso, reputa il Collegio come la
tesi del Comune, per cui le costruzioni seminterrate poste
ai lati ovest ed est dell’intervento in esame non possono
rilevare alla stregua di costruzioni o muri di fabbrica, ai
fini della costruzione in aderenza ad esse, non possa essere
condivisa.
Come correttamente rilevato dall’esponente, ai fini
dell'osservanza della norma generale sulle distanze, di cui
all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione avallata
dalla Corte di Cassazione non si identifica con quella di
edificio, ma si estende a qualsiasi opera non completamente
interrata, avente i requisiti della solidità,
dell'immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante
appoggio, incorporazione o collegamento fisso con una
preesistente fabbrica, e ciò indipendentemente dal livello
di posa e di elevazione, dai caratteri del suo sviluppo
aereo, dall'uniformità e continuità della massa e dal
materiale impiegato per la sua realizzazione (cfr. così
Cass. Sez. II, sent. n. 10608 del 05.11.1990; analogamente,
cfr. Cass. S.U., sent. n. 7067 del 09.06.1992, per cui, ai
fini dell'osservanza delle distanze di cui all'art. 873 cod.
civ., la nozione di costruzione comprende qualunque opera
non completamente interrata avente i requisiti della
solidità e dell'immobilizzazione rispetto al suolo; nello
stesso senso, cfr. la sentenza della Cass. Sez. II, n. 12489
del 04.12.1995, citata nelle difese di parte ricorrente, ove
la S.C. ha annullato la sentenza impugnata che aveva negato
il carattere di costruzione, assoggettata al rispetto delle
distanze legali, ad un'opera edilizia seminterrata,
sporgente dal suolo per un altezza di cm. 70).
Ne consegue che, sempre al fine della determinazione della
distanza prescritta dall'art. 873 cod. civ., possono non
essere prese in considerazione soltanto le costruzioni che
si sviluppino interamente nel sottosuolo, in guisa da non
formare dannose intercapedini con i fabbricati alieni
frontistanti (cfr. Cass. Sez. II, sent. n. 2343 del
01.03.1995)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.09.2013 n. 2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Decreto del fare. La finalità di «governo del territorio»
può consentire la riduzione delle soglie minime fissate
dallo Stato.
Deroghe locali per le distanze.
Regioni e Province autonome possono ridurre anche gli
standard urbanistici.
Regioni e Province autonome possono ridurre le distanze
legali tra fabbricati o gli standard urbanistici richiesti
in fase di pianificazione. Il principio è in vigore dal 21
agosto con la legge n. 98/2013, di conversione del decreto
"del fare" (Dl 69/2013).
L'articolo 30 contiene varie disposizioni di semplificazione
in materia edilizia. Tra queste, il comma 1, lettera a), ha
introdotto nel Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001)
l'articolo 2-bis, la cui rubrica riporta «Deroghe in materia
di limiti di distanza tra fabbricati», ma ha in realtà un
ambito più ampio. Infatti, alle Regioni e alle Province
autonome di Trento e Bolzano viene ora consentito di
introdurre deroghe al Dm 1444/1968 e di dettare proprie
disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti
residenziali o produttivi, a quelli riservati alle attività
collettive, al verde e ai parcheggi.
Le deroghe
La possibilità di un intervento normativo regionale investe
anche gli standard urbanistici, come oggi definiti dagli
articoli 3 e seguenti del decreto del 1968 e non si limita,
quindi, alle sole distanze tra edifici.
La nuova norma statale costituisce senz'altro un vincolante
"principio della materia", non solo in quanto viene inserita
tra le disposizioni generali del Dpr 380/2001, ma anche
perché la determinazione di standard minimi rappresenta un
obbligo stabilito dall'articolo 41-quinquies, comma 8 della
legge urbanistica n. 1150/1942, tuttora vigente. Qui si
stabilisce che, nella formazione di nuovi strumenti
urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, in tutti
i Comuni debbono essere osservati limiti inderogabili di
densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati,
nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi. La definizione di questi limiti e rapporti è
contenuta nel Dm 1444/1968.
Le sue previsioni hanno costituito sinora la disciplina di
riferimento unitaria e ritenuta inderogabile dalla
giurisprudenza, specie per quel che attiene alle distanze
minime tra fabbricati, tanto che il giudice è tenuto a
disapplicare le norme del piano regolatore in contrasto il
Dm (tra le altre Consiglio di stato, sezione IV,
n. 7731/2010). È dunque questo l'ambito in cui potranno da
oggi intervenire le Regioni, anche se la nuova disposizione
pone
una duplice condizione cui il legislatore regionale dovrà
attenersi nell'esercizio della propria potestà legislativa e
regolamentare nella materia di competenza concorrente del
«governo del territorio».
Il perimetro
Innanzitutto gli interventi normativi –non solo quelli a
contenuto derogatorio– dovranno riferirsi al momento della
definizione o revisione di strumenti urbanistici ed essere
comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario del
territorio oppure di specifiche aree territoriali, come nel
caso di piani particolareggiati o di lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche.
In secondo luogo, le disposizioni regionali non dovranno
risultare invasive della competenza esclusiva statale in
materia di ordinamento civile, con riferimento al diritto di
proprietà e alle connesse norme del Codice civile e alle
relative disposizioni integrative. Tra queste ultime,
tuttavia, come segnalato negli stessi lavori preparatori
alla legge di conversione, è ricompreso proprio l'articolo 9
del Dm 1444/1968, i cui contenuti le Regioni e le Province
autonome potrebbero derogare in forza del nuovo articolo
2-bis.
L'effettiva portata della disposizione, nella parte in cui
fa «salva la competenza statale in materia di ordinamento
civile» dovrà quindi necessariamente essere letta alla luce
della consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale,
la quale, anche nella sentenza n. 6/2013, ha legittimato
l'intervento legislativo regionale solo se chiaramente
correlato al perseguimento delle finalità pubblicistiche di
complessiva gestione del territorio.
----------------
Gli spazi di manovra
L'applicazione delle novità dettate dal decreto "del fare"
01 | LE DEROGHE
Il Dl 69/2013 (articolo 30) ha introdotto la possibilità per
le Regioni e le Province autonome di prevedere deroghe alle
distanze minime tra fabbricati vicini e alle norme statali
che impongono gli standard urbanistici, ovvero gli spazi
minimi per abitante da distribuire tra residenziale, verde
pubblico, parcheggi e altre funzioni
02 | LE LEGGI STATALI
La normativa statale sulle distanze minime tra i fabbricati
è contenuta nel Codice civile e nel Dm 1444/1968.
Quest'ultimo provvedimento ha anche dettato le regole per
gli standard urbanistici
03 | EDIFICI RESIDENZIALI: I LIMITI
Regioni e Province autonome possono ora derogare alle
indicazioni del Dm 1444/1968. Queste prevedono rapporti
massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi, con esclusione degli spazi destinati
alle sedi viarie.
Oggi per ogni abitante –insediato o da insediare– la
dotazione minima, inderogabile, è di 18 metri quadri
ripartiti in: 4,50 metri quadrati di aree per l'istruzione;
2 metri quadrati di aree per attrezzature di interesse
comune; 9 metri quadrati di aree per spazi pubblici
attrezzati a parco; 2,50 metri quadrati di aree per
parcheggi in aggiunta a quelli pertinenziali
04 | EDIFICI INDUSTRIALI: I LIMITI
Il Dm 1444/1968 fissa questi limiti (ora derogabili) nei
rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti
produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggi: nei nuovi
insediamenti di carattere industriale compresi nelle zone D)
la superficie non può essere inferiore al 10% (escluse le
sedi viarie); nei nuovi insediamenti di carattere
commerciale e direzionale, a 100 metri quadrati di
superficie lorda di pavimento di edifici previsti, deve
corrispondere la quantità minima di 80 mq di spazio, escluse
le sedi viarie, di cui almeno la metà destinata a parcheggi
(in aggiunta a quelli pertinenziali); tale quantità, per le
zone A e B (centro storico e semi-centro) è ridotta alla
metà, purché siano previste adeguate attrezzature
integrative
05 | GLI ALTRI VINCOLI
Sempre il Dm 1444/1968 indica anche i limiti inderogabili di
densità edilizia e di altezza massima degli edifici, diversi
a seconda della zona territoriale
06 | LE DISTANZE
Nei centri storici (zone A) è obbligatorio mantenere le
distanze preesistenti in caso di ristrutturazione: nelle
altre zone il Dm 1444 impone una distanza minima di 10 metri
tra pareti finestrate.
---------------
Un potere nuovo con limiti già scritti dalla Consulta.
I limiti imposti dal decreto "del fare" alle deroghe alle
distanze minime tra fabbricati e agli standard urbanistici
non sono una novità. Il nuovo articolo 2-bis del Testo unico
dell'edilizia –nello stabilire che le norme regionali
recanti eccezioni al Dm n. 1444/1968 debbano essere emanate
«nell'ambito della definizione o revisione di strumenti
urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e
unitario o di specifiche aree territoriali»– traduce in
legge il costante orientamento della Corte costituzionale in
tema di deroghe alle distanze tra fabbricati, rimarcato,
anche di recente, dalla sentenza n. 6/2013.
Con questa pronuncia, ritenendo fondata la questione
sollevata dalla Corte di cassazione, è stata dichiarata
l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 2,
della legge delle Marche, n. 31/1979. La norma censurata
permetteva ai Comuni di individuare gli edifici suscettibili
di ampliamento tra i fabbricati aventi impianto edilizio
preesistente, compresi nelle zone di completamento con
destinazione residenziale previste dagli strumenti
urbanistici generali, riconoscendo al provvedimento di
individuazione valenza di piano particolareggiato e
consentendo la deroga alle distanze previste dal piano
regolatore, con l'unico obbligo di mantenere la distanza
minima di 3 metri dagli altri manufatti.
La Suprema corte
aveva denunciato il contrasto della disposizione regionale
con l'articolo 9 del Dm 1444/1968, che fissa una distanza
minima tra fabbricati e consente l'edificazione a distanze
inferiori solo «nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche».
La Consulta, confermando l'orientamento già più volte
espresso (sentenze n. 232/2005, n. 173/2011, n. 114/2012) ha
rimarcato che la regolazione delle distanze tra i fabbricati
deve essere inquadrata nell'ordinamento civile, materia di
competenza esclusiva dello Stato –in quanto afferente in
via diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi–
e disciplinata innanzitutto dal Codice civile, nonché dal Dm
1444. Tuttavia, poiché «i fabbricati insistono su di un
territorio... la disciplina che li riguarda tocca anche
interessi pubblici», la cui cura è stata affidata alle
Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di
governo del territorio.
Alle Regioni è quindi consentito fissare limiti in deroga
alle distanze minime stabilite nelle normative statali, ma
solo per soddisfare interessi pubblici legati al governo del
territorio. Pertanto, la legislazione regionale è legittima
se persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico e
riferisce l'operatività dei suoi precetti a «strumenti
urbanistici funzionali a un assetto complessivo e unitario
di determinate zone del territorio». Le norme regionali che,
disciplinando le distanze tra edifici, esulino da queste
finalità, ricadono illegittimamente nella materia
«ordinamento civile», riservata allo Stato.
Nella fattispecie la sentenza ha ritenuto illegittima la
norma delle Marche poiché consentiva ai Comuni di
individuare gli edifici che potevano derogare alle distanze
minime fissate nel Dm 1444; la deroga, riguardando singole
costruzioni non risultava ancorata all'esigenza di
realizzare la conformazione omogenea dell'assetto
urbanistico di una determinata zona (articolo Il Sole 24 Ore del
16.09.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Questa
Corte ha infatti affermato il principio che
l’art. 873 cod. civ. trova applicazione anche quando, a
causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata
nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quello
superiore, in quanto il rispetto delle distanze legali non
viene meno in assenza del pericolo del formarsi
d’intercapedini dannose.
Questa giurisprudenza si ricollega a principi già in
precedenza costantemente affermati, secondo i quali:
- ai fini delle prescrizioni che impongono
distacchi minimi è indifferente che i fondi siano posti a
dislivello o si trovino alla medesima quota;
- le relative misurazioni vanno effettuate sul
piano virtuale orizzontale, prendendo in considerazione,
come su una mappa, le proiezioni in verticale delle sagome
degli edifici e delle linee dei confini;
- soltanto le costruzioni completamente
interrate rispetto al suolo in cui sono realizzate –o che
non ne emergono in misura apprezzabile, come i cordoli ai
margini di un campo da tennis– non sono soggette alla
disciplina contenuta nell’art. 873 c.c. e ss., o a quella
più restrittiva dettata dai regolamenti locali.
---------------
In tema di violazione delle distanze tra costruzioni
previste dal codice civile e dalle norme integrative dello
stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al
proprietario confinante che lamenti tale violazione compete
sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino
della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito,
sia quella risarcitoria ed il danno che egli subisce (danno
conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed
indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel
proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo
godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del
valore della proprietà medesima, deve ritenersi “in re ipsa”,
senza necessità di una specifica attività probatoria.
---------------
Il primo quesito (se l’art. 873 c.c. sia
applicabile qualora i fabbricati non abbiano pareti
contrapposte ovvero tra le frontistanti facciate non
sussista almeno un segmento tale che l’avanzamento ideale di
una o entrambe le facciate porti al loro incontro), tra
l’altro, ha già avuto risposta nella costante giurisprudenza
di questa Corte (allo stato non contraddetta da contrarie
decisioni) che ha negato la necessità, ai fini del rispetto
delle distanze tra costruzioni, che le pareti si trovino
allo stesso livello (cfr. Cass. 15/07/2008 n. 19486).
Questa Corte ha infatti affermato il principio che
l’art. 873 cod. civ. trova applicazione anche quando, a
causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata
nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quello
superiore, in quanto il rispetto delle distanze legali non
viene meno in assenza del pericolo del formarsi
d’intercapedini dannose.
Questa giurisprudenza si ricollega a principi già in
precedenza costantemente affermati, secondo i quali:
- ai fini delle prescrizioni che impongono distacchi
minimi è indifferente che i fondi siano posti a dislivello o
si trovino alla medesima quota
(Cass. 21.05.1997 n. 4511);
- le relative misurazioni vanno effettuate sul piano
virtuale orizzontale, prendendo in considerazione, come su
una mappa, le proiezioni in verticale delle sagome degli
edifici e delle linee dei confini (Cass. 24.11.1995
n. 12163);
- soltanto le costruzioni completamente interrate
rispetto al suolo in cui sono realizzate –o che non ne
emergono in misura apprezzabile, come i cordoli ai margini
di un campo da tennis– non sono soggette alla disciplina
contenuta nell’art. 873 c.c. e ss., o a quella più
restrittiva dettata dai regolamenti locali
(Cass. 01.07.1996 n. 5956).
---------------
Con il sesto motivo il ricorrente deduce la
violazione degli artt. 949, 2043 c.c. e 278 c.p.c. quanto
alla condanna generica al risarcimento del danno, sul
presupposto che le opere che le opere da lui realizzate non
siano illegittime.
Il motivo resta assorbito dall’accertata illegittimità delle
opere; quanto all’esistenza di un danno in re ipsa
per la violazione delle distanze tra costruzioni, la
decisione impugnata è conforme alla più recente
giurisprudenza di questa Corte che qui si condivide
integralmente, secondo la quale in tema di
violazione delle distanze tra costruzioni previste dal
codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali
i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante
che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma
specifica, finalizzata al ripristino della situazione
antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella
risarcitoria ed il danno che egli subisce (danno conseguenza
e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed
indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel
proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo
godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del
valore della proprietà medesima, deve ritenersi “in re
ipsa”, senza necessità di una specifica attività
probatoria (cfr.
Cass. 16/12/2010 n. 25475; Cass. 07/05/2010 n. 11196)
(Corte
di Cassazione, Sez. II,
sentenza 11.09.2013 n. 20850 - tratto da e
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
rilevato come l’edificazione dei cinque abbaini in luogo dei
preesistenti lucernai abbia indubbiamente determinato
un’alterazione della sagoma dell’edificio, comportando
altresì un aumento della volumetria.
Stante la rilevanza edilizia delle opere, che hanno
comportato una sopraelevazione ed un incremento dell’altezza
massima relativamente alle diagonali della precedente
copertura, nonché un incremento di volume in rapporto alla
sostituzione di ciascun lucernaio con un abbaino, è indubbio
che ci si trovi di fronte ad un significativo mutamento
della preesistente costruzione, con una parziale costruzione
‘nuova’ in senso tecnico.
Per la giurisprudenza che la Sezione condivide e fa propria,
una sopraelevazione, pur se di ridotte dimensioni, nella
parte in cui determini aumento della volumetria e della
superficie di ingombro, va qualificata come nuova
costruzione.
---------------
La distanza tra gli edifici va calcolata con riferimento ad
ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano, sicché nella specie risulta illegittimo l’atto
che ha consentito la creazione di una sopraelevazione, nella
forma di un abbaino, in sostituzione di un preesistente
lucernaio, che ha determinato, per alcune parti del tetto,
una distanza inferiore a quella prevista per le nuove
costruzioni dalle NTA.
Sotto un profilo fattuale, va rilevato
come l’edificazione dei cinque abbaini in luogo dei
preesistenti lucernai abbia indubbiamente determinato
un’alterazione della sagoma dell’edificio, comportando
altresì un aumento della volumetria.
Stante la rilevanza edilizia delle opere, che hanno
comportato una sopraelevazione ed un incremento dell’altezza
massima relativamente alle diagonali della precedente
copertura, nonché un incremento di volume in rapporto alla
sostituzione di ciascun lucernaio con un abbaino, è indubbio
che ci si trovi di fronte ad un significativo mutamento
della preesistente costruzione, con una parziale costruzione
‘nuova’ in senso tecnico.
Per la giurisprudenza che la Sezione condivide e fa propria,
una sopraelevazione, pur se di ridotte dimensioni, nella
parte in cui determini aumento della volumetria e della
superficie di ingombro, va qualificata come nuova
costruzione (Cassazione civile, Sezione terza, 01.10.2009, n. 21059).
Le nuove opere così realizzate, in ragione della loro
rilevanza, non potevano quindi considerarsi sottratte
all’obbligo del rispetto delle distanze minime (5 metri) di
cui all’art. 16 delle NTA del piano regolatore comunale di
Vercelli.
La risalenza dell’edificio (nella sua originaria
consistenza) esclude, evidentemente, che debba richiedersi
‘retroattivamente’ –a seguito delle modifiche apportate–
il rispetto della distanza di cinque metri, oggi prevista
dalle NTA: è ovvio che una disposizione (di per sé
innovativa) sulle distanze non rende contra ius un manufatto
realizzato in precedenza.
Tuttavia, non può ammettersi che le modifiche dell’edificio
comportino una distanza tra i due edifici che sia inferiore
alla misura imposta da una disposizione nel frattempo
entrata in vigore: l’art. 16 si applica senz’altro per la
nuova costruzione che si intenda realizzare su un edificio
preesistente.
Peraltro, la distanza tra gli edifici va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole
parti che si fronteggiano (Consiglio di Stato Sezione
Quarta, 02.11.2010, n. 7731, e 05.12.2005, n.
6909), sicché nella specie risulta illegittimo l’atto che ha
consentito la creazione di una sopraelevazione, nella forma
di un abbaino, in sostituzione di un preesistente lucernaio,
che ha determinato, per alcune parti del tetto, una distanza
inferiore a quella prevista per le nuove costruzioni dalle NTA
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.09.2013 n. 4501 - link a www.giustizia-amministrativa). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il decreto ministeriale
n. 1444 del 02.04.1968, in tema di rispetto delle distanze
di vicinato, ha una valenza direttamente precettiva, sino a
comportare la disapplicazione degli strumenti urbanistici,
anche di tipo regolamentare, con esso contrastanti.
In particolare, la prescrizione di cui all’art. 9, che fissa
la distanza di dieci metri fra pareti finestrate di edifici
fronteggianti, in quanto volta a salvaguardare
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ha natura
tassativa ed inderogabile.
---------------
Un preciso orientamento sia della Cassazione, sia di questo
Consiglio di Stato, ha avuto modo di affermare come la
regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui
all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce
esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili
come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono
finestre cosiddette lucifere.
Il Collegio, tenuto conto della già resa sentenza
parziale, è chiamato in questa sede unicamente a dirimere la
questione se il rilascio dell’impugnato titolo ad aedificandum, con cui si autorizza l’esecuzione di lavori di
recupero di un sottotetto, comporti o meno la violazione del
limite di distanza di dieci metri tra fabbricati vicini, di
cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
A tale problematica si ritiene debba darsi risposta
negativa, in senso non favorevole alla tesi difensiva
propugnata dall’appellante, che tale vizio di violazione di
legge ha (erroneamente) denunciato come sussistente.
Com’è noto, il decreto ministeriale n. 1444 del 02.04.1968, in tema di rispetto delle distanze di vicinato, ha una
valenza direttamente precettiva, sino a comportare la
disapplicazione degli strumenti urbanistici, anche di tipo
regolamentare, con esso contrastanti (Cons. Stato Sez. IV 27.10.2011 n. 5759).
In particolare, la prescrizione di cui all’art. 9, che fissa
la distanza di dieci metri fra pareti finestrate di edifici
fronteggianti, in quanto volta a salvaguardare
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ha natura
tassativa ed inderogabile (ex plurimis Cons. Stato Sez. IV
12.06.2009 n. 3094).
Ciò preliminarmente precisato, nel caso di specie, in
ragione delle caratteristiche dello stato dei luoghi come
confermate dalle risultanze emerse dai compiuti accertamenti
istruttori, non è ravvisabile, ad opera dell’assentimento
alle opere di recupero del sottotetto del fabbricato del
sig. Novaro, una situazione comportante il mancato rispetto
del limite di distanza dei dieci metri fra pareti finestrate
di edifici prospicienti.
Ed invero, come rilevasi dal documento contenente i rilievi
tecnici all’uopo esperiti, il fabbricato di proprietà del
controinteressato Novaro (indicato sub “A” nella relazione)
e quello dell’appellante sig.ra Lantero (indicato sub “B”)
sono asimmetrici (il primo è arretrato rispetto al secondo)
e tanto sia con riferimento alle altezze, laddove l’edificio
della Lantero è più alto, sia per la sagoma, nel senso che i
fabbricati sono disallineati, per cui , ai fini de quibus,
viene in rilievo solo una porzione di pareti fronteggianti
che, però, non sono parimenti finestrate.
Più specificatamente, a fronte del muro perimetrale del
fabbricato di proprietà dell’appellante su cui insistono tre
finestre allineate verticalmente (e che prospetta
sull’edificio dirimpettaio ) sussiste il muro perimetrale
dell’edificio di proprietà del controinteressato, ad una
distanza di 4,05 metri, la cui parete però non può
considerarsi finestrata, giacché la stessa non gode di
vedute ma solo di luce.
Ebbene, un preciso orientamento sia della Cassazione (Cass.
Sez. Civ., Sez. II 30.04.2012 n. 6604), sia di questo
Consiglio di Stato (Cons. Stato Sez. IV 22.01.2013
n. 844) -dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi-
ha avuto modo di affermare come la regola del rispetto della
distanza dei dieci metri, di cui all’art. 9 del D.M.
n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di
finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche
quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere (come
nel caso di specie).
Ciò che rileva, insomma, è che il Novaro non ha la
possibilità di “inspicere” nell’altrui prospiciente
proprietà; e se così è, non v’è luogo all’applicazione della
norma ex art. 9 citato, non esistendo, appunto, pareti
finestrate su edifici fronteggianti e/o contrapposti
(illuminante al riguardo è la riproduzione fotografica n. 4
della documentazione acclusa alla relazione dell’Ufficio
accertatore)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.09.2013 n. 4451 - link a www.giustizia-amministrativa). |
agosto 2013 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
L'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, che fissa in
dieci metri la distanza minima assoluta tra le pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, pur non essendo
immediatamente operante nei rapporti fra privati, va
interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti
locali di strumenti urbanistici con esso contrastanti,
comporta l'obbligo, per il giudice, non solo di disapplicare
le disposizioni illegittime, ma anche di applicare
direttamente la disposizione in esso recata, divenuta, per
inserzione automatica, parte integrante dello strumento
urbanistico in sostituzione della norma illegittima
disapplicata.
Va invero rilevato che in giurisprudenza è risalente e
consolidato il principio secondo cui l’art. 9 del d.m. n.
1444/1968, che fissa in dieci metri la distanza minima
assoluta tra le pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, pur non essendo immediatamente operante nei
rapporti fra privati, va interpretato nel senso che
l'adozione, da parte degli enti locali di strumenti
urbanistici con esso contrastanti, comporta l'obbligo, per
il giudice, non solo di disapplicare le disposizioni
illegittime, ma anche di applicare direttamente la
disposizione in esso recata, divenuta, per inserzione
automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in
sostituzione della norma illegittima disapplicata (cfr.
Cass. Civ., sez. II, 30.03.2006 n. 7563; id. 29.01.1999 n.
811; id. 11.01.1992 n. 249) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.08.2013 n. 2087 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Edilizia. Il Decreto del Fare consente alle Regioni di
autorizzare la realizzazione di edifici a meno di 10 metri
l'uno dall'altro.
Meno vincoli sulle costruzioni.
Derogabili le regole nazionali sulla distribuzione degli
spazi urbanistici.
LA CONDIZIONE/
La normative locali non potranno comunque andare oltre il
Codice civile e le disposizioni integrative sulla proprietà.
Il decreto del fare (Dl 69/2013) ha modificato uno dei
princìpi finora considerati inviolabili in edilizia:
l'inderogabilità dei limiti delle distanze tra costruzioni
stabiliti dal Dm 02.04.1968 n. 1444. La legge di
conversione del Dl (la 98/2013) ha, infatti, introdotto un
nuovo articolo –il 2-bis– al Testo unico dell'edilizia
(Tue, Dpr 380/2001), secondo cui le Regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con
proprie leggi e regolamenti, deroghe al Dm 1444/1968, che
disciplina i limiti di densità edilizia, di altezza, di
distanza fra i fabbricati.
Questi enti potranno, poi, dettare disposizioni sugli spazi
da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli
produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al
verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o
revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un
assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali.
Con il nuovo articolo 2-bis, le Regioni e le Province
autonome hanno ora la possibilità di modificare l'assetto
normativo finora regolato dal Dm 1444/1968. Esso contiene il
"cuore" della normativa nazionale su densità abitativa e
dimensione e posizione degli edifici, mentre il Codice
civile si occupa principalmente di distanze rispetto a
siepi, alberi, muri di cinta, pozzi, comunioni forzose,
finestre, balconi eccetera. Il Dm 1444 prevede, in sintesi,
per i nuovi edifici una distanza minima di 10 metri, per
risanamenti conservativi e ristrutturazioni uno spazio non
inferiori a quello tra i volumi edificati preesistenti
(contati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di
epoca recente e prive di valore storico, artistico o
ambientale).
Il nuovo articolo 2-bis del Tue va inquadrato in un contesto
caratterizzato, da un lato, dalla tendenza di Regioni e
Comuni di introdurre disposizioni legislative e
regolamentari derogatorie al Dm 1444/1968 e, dall'altro, da
un costante e consolidato principio giurisprudenziale che dà
efficacia precettiva e inderogabile all'articolo 9 del Dm:
spesso, i giudici sono stati chiamati a valutare norme
comunali contenute nei piani regolatori, nelle Nta (Norme
tecniche di attuazione) e negli strumenti attuativi che si
discostavano variamente dai limiti del Dm, prevedendo
distanze minori, dichiarandole illegittime.
Anche la Corte costituzionale si è più volte pronunciata
sulla legittimità di alcune disposizioni regionali che,
forzando il dettato del Dm 1444/1968, introducevano
disposizioni derogatorie ai limiti fissati dal legislatore
nazionale. Nelle sue pronunce, la Consulta ha costantemente
ribadito che le Regioni che derogano ai limiti nazionali
travalicano le proprie competenze in materia di governo del
territorio interferendo con la competenza esclusiva dello
Stato a fissare le distanze minime (sentenze 232/2005,
114/212 e 6/2013).
In tale quadro, tuttavia, è lo stesso Dm 1444/1968 che
qualifica i limiti in tema di distanze come «inderogabili»
ammettendo, al contempo, distanze inferiori per gruppi di
edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni plano
volumetriche. La deroga, in tali casi, è consentita perché i
piani particolareggiati e le lottizzazioni convenzionate
sono forme di pianificazione attuativa che regolamentano in
modo complessivo e unitario determinate zone. Nell'ambito di
tale normativa è consentito ai Comuni sacrificare
l'interesse al rispetto delle distanze con altri vantaggi
per il bene pubblico (ad esempio, aumento delle aree verdi).
È su questa possibilità di deroga prevista dal Dm 1444/1968
che fa leva la Scheda di lettura redatta dal servizio Studi
della Camera il 7 agosto scorso, quando suggerisce che le
nuove disposizioni derogatorie introdotte dall'articolo
2-bis a favore di Regioni e Province autonome dovrebbero
essere dettate nell'ambito della definizione o revisione di
strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto
complessivo e unitario del territorio o di specifiche aree.
Tuttavia, il punto sembra restare controverso in quanto il
tenore letterale dell'articolo 2-bis sembra prevedere due
distinte facoltà: quella di dettare disposizioni derogatorie
al Dm 1444/1968 accanto a quella di dettare disposizioni
sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività
collettive, al verde e ai parcheggi.
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Licenze. Snellite le procedure di rilascio.
Se c'è un obbligo ambientale 30 giorni per l'ok dell'ufficio.
LA PROROGA/ Possono slittare di tre anni i termini di inizio
e fine lavori nelle convenzioni di lottizzazione.
Il decreto del fare (Dl 69/2013) contiene numerose
semplificazioni nelle costruzioni. Tra queste, oltre alle
innovazioni "sostanziale" (liberalizzazione della sagoma e
derogabilità dei limiti delle distanze tra le costruzioni),
spiccano le modifiche "procedurali" che hanno mutato il
rilascio dei titoli abilitativi. In tale ambito c'è la
sostanziale riscrittura dell'articolo 20 del Testo unico
dell'edilizia (Dpr 380/2001, Tue) sulla disciplina per gli
immobili vincolati.
In particolare l'articolo 20 del Tue prevede ora che quando
sia richiesto un permesso di costruire per un intervento
soggetto a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali il
dirigente (o il responsabile dell'ufficio competente) deve
adottare il provvedimento finale entro 30 giorni dal
rilascio del nulla osta da parte dell'amministrazione
preposta alla tutela del vincolo: in caso di valutazione
positiva, il procedimento amministrativo andrà concluso con
l'adozione di un provvedimento espresso. In caso di diniego
dell'atto di assenso (sia trasmesso dall'amministrazione
competente sia acquisito in conferenza di servizi), se il
dirigente non emana il provvedimento conclusivo (di rigetto)
entro 30 giorni, la domanda si intende respinta e, in tal
caso, il responsabile del procedimento sarà comunque tenuto
trasmettere al richiedente il provvedimento di diniego.
La trasmissione in un termine molto celere –cinque giorni–
garantisce l'effettività dell'azione giudiziale per chi si è
visto negare il provvedimento: in tal modo, si conoscono i
motivi giuridici che ostano all'accoglimento.
Novità anche per l'autorizzazione paesaggistica. Il Dl
69/2013 interviene, in primo luogo, sui termini per il
completamento dei lavori: resta fermo che l'autorizzazione è
efficace per cinque anni, ma il decreto precisa che, se i
lavori sono iniziati nel quinquennio, l'autorizzazione si
considera efficace per tutta la loro durata. Nella
precedente formulazione, scaduto il termine, i lavori ancora
da realizzare dovevano essere nuovamente autorizzati.
Sempre nell'ambito del procedimento per l'autorizzazione
paesaggistica, viene dimezzato il termine di rilascio entro
il quale l'amministrazione competente provvede sulla domanda
di autorizzazione: da 90 a 45 giorni dalla ricezione degli
atti endoprocedimentali.
Ulteriore agevolazione per il settore delle costruzioni è la
possibilità di ottenere una proroga per i termini di inizio
e fine lavori stabiliti dall'articolo 15 del Tue. Per
ottenerla, il titolare di un permesso di costruzione potrà
comunicare all'amministrazione di avvalersi della facoltà
riconosciuta dal comma 3 dell'articolo 30 del Dl 69/2013. La
comunicazione potrà essere presentata a condizione che:
● i termini non siano già decorsi al momento della
presentazione;
● i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento
della comunicazione, con nuovi strumenti urbanistici
approvati o adottati;
● la normativa regionale non preveda disposizioni differenti.
Il decreto del fare prevede una proroga di validità anche
per i termini di inizio e fine lavori nell'ambito delle
convenzioni di lottizzazione o degli accordi simili comunque
nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012: la norma, nella versione convertita dalla
legge 98/2013, accorda uno slittamento dei citati termini di
tre anni.
Si ricorda che la possibilità di ottenere una proroga dei
termini di inizio e fine lavori previsti dall'articolo 15
del Tue prima della nuova disposizione del decreto del fare
esisteva già, ma era sottoposta ad una stringente
valutazione degli uffici tecnici comunali, che la
concedevano soltanto se l'istanza di proroga era
giustificata da serie e non prevedibili ragioni (articolo Il Sole 24 Ore del 25.08.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il computo della distanza
tra edifici, in base alle norme del d.m. n. 1444/1968, nel
caso in cui le pareti dei fabbricati non si estendano
linearmente in altezza, ma manifestino rientranze e
sporgenze, deve operarsi distinguendo fra gli sporti dalle
ridotte dimensioni, aventi scopo meramente ornamentale e
decorativo, da quelli costituenti sporgenze di particolari
proporzioni, destinate per i loro caratteri strutturali e
funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che
vi accedono.
Di questi ultimi deve tenersi conto nel computo anzidetto,
essendo veri e propri corpi di fabbrica che determinano un
aumento dell'edificio in superficie ed incidono quindi sulla
consistenza volumetrica dello stesso come pure deve tenersi
conto di altre sporgenze, quali i balconi, che vengono ad
ampliare in superficie e in volume il fabbricato da cui
sporgono, occupando lo spazio che deve invece rimanere
libero per assicurare il prescritto distacco.
Nel caso di specie, il progetto è, pertanto, illegittimo non
considerando, nel calcolo della distanza di dieci metri, i
balconi che, per la loro sporgenza, pari a 50 cm, non
possono essere qualificati quale mero elemento ornamentale.
È invero fondato il quarto motivo di ricorso con cui viene
lamentata la violazione dell’art. 9, d.m. n. 1444/1968, non
sussistendo la distanza ivi prevista di 10 metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti.
La giurisprudenza ha difatti affermato che il computo della
distanza tra edifici, in base alle norme del d.m. n.
1444/1968, nel caso in cui le pareti dei fabbricati non si
estendano linearmente in altezza, ma manifestino rientranze
e sporgenze, deve operarsi distinguendo fra gli sporti dalle
ridotte dimensioni, aventi scopo meramente ornamentale e
decorativo, da quelli costituenti sporgenze di particolari
proporzioni, destinate per i loro caratteri strutturali e
funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che
vi accedono.
Di questi ultimi deve tenersi conto nel computo anzidetto,
essendo veri e propri corpi di fabbrica che determinano un
aumento dell'edificio in superficie ed incidono quindi sulla
consistenza volumetrica dello stesso (cfr. Cass., Sez. II,
26.11.1996 n. 10497) come pure deve tenersi conto di altre
sporgenze, quali i balconi, che vengono ad ampliare in
superficie e in volume il fabbricato da cui sporgono,
occupando lo spazio che deve invece rimanere libero per
assicurare il prescritto distacco (cfr. Cass., Sez. II,
24.03.1993 n. 3533; 10.11.2011, n. 23553, Cons. Stato, sez.
IV, 05.12.2005, n. 6909; ord. n. 1914 del 28.04.2010; Tar
Lombardia, Milano, sez. II, 11.01.2013, n. 83).
Nel caso di specie, il progetto è, pertanto, illegittimo non
considerando, nel calcolo della distanza di dieci metri, i
balconi che, per la loro sporgenza, pari a 50 cm, non
possono essere qualificati quale mero elemento ornamentale.
La circostanza che la controinteressata abbia presentato
un’istanza di variazione al progetto, volta alla riduzione
della superficie dei balconi aggettanti, non fa venire meno
l’illegittimità del titolo abilitativo, ma anzi la conferma
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.08.2013 n. 2065 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Distanza tra edifici senza deroghe.
Il limite legale di dieci metri si applica anche alle
tettoie e alle autorimesse.
Costruzioni e ristrutturazioni. Le
interpretazioni dei giudici rafforzano il divieto di
procedere sul confine tra fabbricati limitrofi.
Le questioni relative alle distanze dai confini e tra
fabbricati continuano a dare vita ad un notevole contenzioso
giudiziale, tanto che ormai è possibile individuare
orientamenti consolidati, anche nella giurisprudenza della
seconda Sezione della Cassazione, secondo la quale ad
esempio sono soggette ai limiti di distanze anche le
autorimesse e le tettoie.
Le disposizioni in tema di distanze tra edifici sono
contenute nel Codice civile (articoli 873 e seguenti), in
cui si prescrive che le costruzioni su fondi finitimi devono
essere tenute a distanza non minore di tre metri, a meno che
non siano realizzate in unione, cioè strutturalmente
collegate, oppure in aderenza. In questo caso (sentenza n.
21227/2009) è necessario che la nuova opera e quella
preesistente combacino perfettamente da uno dei lati, in
modo che non rimanga tra i due muri, nemmeno per un breve
tratto o ad intervalli, una intercapedine, che lasci
scoperte anche solo parzialmente le relative facciate.
I casi
Il termine "costruzione" viene riferito dalla giurisprudenza
a qualsiasi opera non completamente interrata e che abbia i
caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione
rispetto al suolo, anche se realizzata mediante appoggio o
incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica
preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed
elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua
destinazione, come nel caso di elementi accessori e
pertinenze, quali le autorimesse, che abbiano dimensioni
consistenti e siano stabilmente incorporati al resto
dell'immobile (sentenze n. 72/2013, n. 13389/2011 e n.
4277/2011). È stata ritenuta una «costruzione» anche il
manufatto che, anche se privo di pareti, come nel caso delle
tettoie, determini un incremento del volume, della
superficie e della funzionalità dell'immobile (sentenze n.
16776/2012, n. 5934/2011 e n. 22127/2009).
Rientrano nella nozione di "costruzione" anche tutte quelle
parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati
(cosiddetti «aggettanti») che, pur non essendo volumi
abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare
la consistenza del fabbricato, salvo siano di ridotte
dimensioni o abbiano un carattere meramente decorativo. Non
sono infatti computabili ai fini delle distanze, solo quegli
elementi con funzione ornamentale, di rifinitura od
accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni o le
grondaie (sentenza n. 17242/2010)
La sopraelevazione
le distanze vanno rispettate anche nel caso di
sopraelevazione, «per tale intendendosi qualsiasi
costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda
di un preesistente fabbricato» (sentenza n. 22895/2004),
allorquando sviluppi effettivamente una nuova cubatura.
Anche la modifica del tetto di un fabbricato integra una
sopraelevazione, ma viene considerata "costruzione" solo se
produce aumento della superficie esterna e della volumetria
dei piani sottostanti (sentenza n. 20786/2006)
Al regime delle distanze legali, secondo quanto previsto
dall'articolo 879, comma 2, del Codice civile, non sono
soggette le costruzioni realizzate a confine con le piazze e
le vie pubbliche, anche di proprietà privata gravate da
servitù pubbliche di passaggio (sentenza n. 6006/2008).
Le previsioni del codice civile vengono integrate da quelle
dei regolamenti edilizi locali, che possono anche fissare
distanze superiori, purché nel rispetto della disciplina
urbanistico-edilizia nazionale e regionale, in particolare
quella del Dm 1444/1968. Le distanze minime tra costruzioni
indicate dall'articolo 9 del decreto variano in relazione
alle zone territoriali omogenee in cui ricadono gli edifici,
alla loro altezza ed alla presenza o meno di strade
destinate al traffico veicolare.
Solo per i centri storici (le zone A), in caso di
ristrutturazione vi è l'obbligo di mantenere le distanze
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, mentre
nelle altre zone omogenee per gli edifici di nuova
costruzione è prescritta in ogni caso una distanza minima di
dieci metri tra le pareti finestrate e quelle degli edifici
antistanti. In presenza di strade, le distanze minime
corrisponderanno alla larghezza della sede stradale
maggiorata, per ciascun lato, ad una misura variabile dai 5
ai 10 metri, a seconda dell'ampiezza della strada. Di
conseguenza, in questo caso, la distanza minima potrà andare
dai 17 ai 35 metri.
La norma ammette distanze inferiori, ma solo nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate, con
esclusione degli interventi diretti, realizzati sulla base
di un singolo permesso di costruire.
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Gli orientamenti
01 | A TUTTE LE FINESTRE
LO STESSO PESO
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti, prevista dall'articolo 9 del Dm 02.04.1968,
n. 1444, va calcolata
con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole
parti che si fronteggiano
e con riguardo a tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in posizione
parallela (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza
n. 7731/2010)
02 | NESSUNA DEROGA
NEI PIANI URBANISTICI
L'articolo 9 del Dm 02.04.1968 n. 1444, che impone la
distanza minima di dieci metri tra costruzioni vincola anche
i Comuni in sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite
minimo è illegittima, essendo consentita all'amministrazione
locale solo la fissazione di distanze superiori (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 1491/2009)
03 | I BALCONI E LE LOGGE
ESCLUSI DAL CALCOLO
La distanza dei dieci metri (fissati dall'ex Dm n.
1444/1968) tra pareti finestrate è stata stabilita
in funzione della tutela della riservatezza delle abitazioni
situate in fabbricati che si fronteggiano, ratio che viene
meno in presenza di balconi e di logge, che quindi non
debbono essere tenuti
presenti ai fini del calcolo
della distanza (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 3889/2006)
04 | L'ASCENSORE SUPERA
I VINCOLI DI LEGGE
L'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione
delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino
su parte di un cortile
e di un muro comuni,
deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità
dell'edificio
e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra,
pertanto, nei poteri spettanti
ai singoli condomini ai sensi dell'articolo 1102 del Codice
civile, senza che, ove siano rispettati i limiti di uso
delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi la
disciplina dettata dall'articolo 907
del Codice civile sulla distanza delle costruzioni dalle
vedute (Cassazione civile, sezione II, sentenza n.
14096/2012)
05 | NESSUNA SANATORIA
PER LE VIOLAZIONI
In tema di distanze legali nelle costruzioni, le
prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei
regolamenti edilizi comunali, essendo dettate,
contrariamente a quelle del Codice civile, a tutela
dell'interesse generale a un prefigurato modello
urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte
dei privati. Tali deroghe, se concordate, sono invalide, né
tale invalidità può venire meno per l'avvenuto rilascio di
concessione edilizia, poiché il singolo atto non può
consentire la violazione dei principi generali dettati, una
volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici (Consiglio di Stato, sezione II, sentenza. n. 9751/2010)
06 | NON BASTA UNO SPIGOLO
PER I FONDI FINITIMI
In materia di
rispetto delle distanze legali delle costruzioni rispetto al
confine, la nozione di fondi finitimi è diversa da quella di
fondi meramente "vicini", dovendo per fondi finitimi
intendersi quelli che hanno in comune, in tutto o in parte,
la linea di confine, ossia quelli le cui linee di confine, a
prescindere dall'essere o meno parallele, se fatte avanzare
idealmente l'una verso l'altra, vengono ad incontrarsi
almeno per un segmento; ne consegue che non possono essere
invocate le norme sul rispetto delle distanze ove i fondi
abbiano in comune soltanto uno spigolo o i cui spigoli si
fronteggino pur rimanendo distanti (Cassazione civile, sezione II, sentenze n. 3036/2009)
07 | PER LE APERTURE
SUFFICIENTE UNA PARETE
In tema di distanze tra
le costruzioni, l'articolo 9, n. 2), del Dm 02.04.1968 n.
1444 prescrive, con disposizione tassativa e inderogabile,
la distanza minima assoluta di dieci metri tra i fabbricati
anche nel caso in cui solo una delle pareti antistanti
risulti finestrata e non entrambe (Cassazione civile, sezione II, sentenza n.
22495/2007)
08 | PER I CENTRI STORICI
VIGE L'ESONERO
L'articolo 9,
comma 1, n. 2), del Dm 02.04.1968 n. 1444 in base al quale
la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non
deve essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole
nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro
storico (zona A), posto che in questo ultimo, dove vige il
generale divieto di costruzioni ex novo, la norma si limita
a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella
intercorrente tra i volumi edificati preesistenti (Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 12767/2008)
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FOCUS
La finestra è decisiva
La Cassazione ha precisato per le pareti finestrate il
rispetto della distanza di dieci metri dagli edifici
prospicienti si riferisce esclusivamente alle pareti munite
di finestre qualificabili come vedute, cioè quelle che
permettono di affacciarsi per guardare di fronte, ma non
comprende anche le pareti cui si aprono finestre cosiddette
"lucifere", che consentono solo il passaggio di luce e aria,
senza possibilità di affaccio (sentenza n. 6604/2012). Per
questa ragione e in quanto l'articolo 9 del Dm 1444/1968 è
da considerarsi «norma eccezionale, e perciò insuscettibile
di interpretazione analogica», la Cassazione ha anche
affermato che non possono ricomprendersi tra le pareti
finestrate né le vetrate fisse e prive di aperture, poiché
non consentono l'affaccio, né un terrazzo di copertura, il
quale non è elemento integrante della parete sottostante, ma
costituisce parte distinta e sovrapposta dell'edificio
(sentenza n. 19092/2012).
Per le sole zone C), l'articolo 9 del Dm stabilisce inoltre
che la distanza minima tra pareti finestrate di edifici
antistanti debba essere pari all'altezza del fabbricato più
alto. Questa previsione si applica anche nel caso in cui una
sola parete sia finestrata, se gli edifici si fronteggiano
per oltre dodici metri lineari.
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I paletti. Norma statale invalicabile.
Comuni vincolati nei regolamenti e nei piani urbani.
Le distanze fissate dalle norme nazionali (Dm 1444/1968) non
possono essere scavalcate dai regolamenti comunali.
Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 14953/2011)
hanno da tempo riconosciuto a questo decreto efficacia
analoga a quella della legge statale, con la conseguenza che
i Comuni hanno l'obbligo di conformarsi alle sue previsioni
nella formazione di nuovi strumenti urbanistici o nella
revisione di quelli esistenti, e che le sue disposizioni in
tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza
tra i fabbricati prevalgono sulle previsioni eventualmente
contrastanti contenute in un regolamento locale.
Proprio in ragione della sua forza di legge, la Cassazione
penale (Sezione III, sentenze n. 10431/2012) ha stabilito che
il pubblico ufficiale che rilascia il titolo abilitativo
edilizio, in caso di dolosa violazione della disciplina in
tema di distanze legali, risponde del delitto di abuso
d'ufficio ai sensi dell'articolo 323 del Codice penale.
La seconda Sezione della Cassazione (n. 7563/2006) ha
comunque precisato che la norma non è immediatamente
operante nei rapporti fra i privati e va interpretata nel
senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di
strumenti urbanistici contrastanti con questa disposizione
comporta l'obbligo per il giudice di merito non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente le previsioni dell'articolo 9 del Dm,
che è divenuto, «per inserzione automatica, parte integrante
dello strumento urbanistico».
La stessa sezione (sentenze n.13547/2011 e n. 5741/2008) ha
anche chiarito che la finalità perseguita dalla norma non è
la tutela della riservatezza, bensì la salubrità e la
sicurezza, quindi essa va applicata «indipendentemente
dall'altezza degli edifici antistanti».
Resta comunque salva la possibilità per gli strumenti
attuativi di derogare legittimamente alle prescrizioni
generali sulle distanze, purché gli stessi risultino
effettivamente «volti a disciplinare l'attività urbanistico-edilizia in particolari zone del territorio
comunale, secondo uniformi criteri planovolumetrici,
organici e funzionali, adeguati alla specificità di singoli
settori urbani» (Cassazione, sezione II, sentenza n.
56/2010).
Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è espressa
nello stesso senso, stabilendo che la norma vincola i Comuni
in sede di formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con il limite minimo è
illegittima, essendo consentita all'amministrazione locale
solo la fissazione di distanze superiori ai dieci metri
(Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 844/2013).
Unica
eccezione è costituita dagli edifici situati nei centri
storici (zone A), (Sezione IV, n. 3614/2006), anche se
oggetto di ricostruzione a seguito di demolizione,
volontaria o per evento naturale, ma a condizione che
l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse
operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti
della volumetria, né delle superfici occupate in relazione
alla originaria sagoma di ingombro (sezione IV, n. 844/2013).
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La Consulta. Gli aspetti da contemperare.
Le lottizzazioni fanno eccezione.
LE PRONUNCE/ Le Regioni hanno margini di manovra in presenza
di interessi legati alla materia del governo del territorio.
Il carattere inderogabile delle norme sulle distanze legali
(articolo 9 del Dm 1444/1968) e la sua portata integrativa
delle disposizioni del Codice civile, sono stati
ripetutamente affermati anche dalla Corte costituzionale,
chiamata a pronunciarsi in sede di conflitto di attribuzione
tra il legislatore statale e quello regionale. Quest'ultimo,
infatti, è spesso intervenuto in materia rivendicando la
propria potestà legislativa concorrente nella materia del
governo del territorio.
Secondo la Consulta (da ultimo sentenza n. 232/2005) le norme
sulle distanze legali costituiscono uno dei limiti alla
proprietà previsti dalla legge per assicurarne la funzione
sociale, così come previsto dall'articolo 832 del Codice
civile e dall'articolo 42 della Costituzione. Al fine di
garantire la coesistenza dei diritti dei singoli
proprietari, «alle facoltà di ciascuno sono imposti dalla
legge limiti atti a conciliare il godimento del diritto sul
proprio bene con quello degli altri sui loro beni». Tra
questi limiti vi sono le norme che impongono di rispettare
determinate distanze minime nell'eseguire costruzioni, «la
cui violazione è suscettibile anche della drastica forma di
risarcimento in forma specifica, attraverso la riduzione in
pristino», ai sensi dell'articolo 872, comma 2, del Codice.
Le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le
distanze tra le costruzioni in forza del rinvio contenuto
nell'articolo 873 del Codice hanno carattere integrativo
dello stesso Codice, in quanto concorrono alla stessa
configurazione del diritto di proprietà, disciplinando i
rapporti di vicinato, assicurando un'equità
nell'utilizzazione edilizia dei suoli privati ed attribuendo
il diritto reciproco al loro rispetto.
Ne discende che anche le norme degli strumenti urbanistici
devono essere rispettose della normativa statale anche di
livello regolamentare. Secondo la Consulta alle Regioni è
consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime
stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la
deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio. In
particolare, le deroghe sono legittime se funzionali «agli
assetti urbanistici generali e quindi al governo del
territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti
isolatamente considerati».
Sulla base di questi presupposti, con la sentenza
n.114/2012, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale delle norme della legge della Provincia di
Bolzano n. 13/1997 (modificate dalla Lp n. 15/2011), nella
parte in cui, ai fini dell'isolamento termico degli edifici,
consentiva di derogare nella misura massima di 20 cm alle
distanze tra edifici, alle altezze degli edifici e alle
distanze dai confini previsti nel piano urbanistico
comunale, con il solo rispetto «delle distanze prescritte
dal codice civile» e non anche di quelle del Dm n. 1444/1968.
Più di recente, la sentenza n. 6/2013 ha ribadito questo
principio, ricordando che le deroghe all'ordinamento civile
delle distanze tra edifici vanno lette con riferimento
all'articolo 9 del decreto, il quale «consente che siano
fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche» (articolo Il Sole 24 Ore del
29.07.2013). |
maggio 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA:
E' infondata la tesi per cui un lotto è da
ricondursi a "centro storico” per il
solo fatto che ivi insiste un vincolo a suo tempo imposto ex
L. 1497 del 1939, posto che così argomentando tutte le aree
assoggettate a vincolo paesistico risulterebbero
automaticamente classificate sotto il profilo
urbanistico-edilizio quali zone A.
Del resto, la risalente, ma ancor valida Circolare del
Ministero dei Lavori Pubblici n. 3210 dd. 28.10.1967 n. 3210
chiarisce senza ombra di dubbio che l’inclusione di aree
nelle zone A concerne segnatamente gli “agglomerati urbani”,
e ciò non può dirsi per l’area in questione, stante la sua
ben evidente marginalità rispetto al centro urbano.
---------------
L’art. 9 del D.M. 1444 del 1968, laddove impone la distanza
di 10 metri tra parete finestrata e corpo edificato, è norma
di ordine generale, prevalente anche sulla disciplina
regionale eventualmente difforme, e va pertanto applicata
anche a corpi distinti di un’unica costruzione, ivi dunque
compresa l’ipotesi di sopraelevazione.
Convince viceversa il Collegio la censura rimasta assorbita nel giudizio
di primo grado e riproposta in via tuzioristica dal Wurthner
circa la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444, violazione e falsa applicazione
dell’art. 11 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n.
380, violazione e falsa applicazione dell’art. 31 della L.R.
06.06.2008 n. 16, nonché eccesso di potere per carenza
assoluta di istruttoria e di motivazione e difetto del
presupposto ed illogicità manifesta: ossia che,
sinteticamente, in difformità da tali disposizioni normative
il progetto prevede che i muri perimetrali della porzione
immobiliare di proprietà Ascheri distino all’incirca 7,15
metri dalle pareti finestrate di proprietà Wurthner.
A fronte dell’eccezione del Comune e dell’Ascheri secondo la
quale la disciplina di cui all’art. 9, secondo comma, del
D.M. 02.04.1968 n. 1444 –segnatamente contemplata nella
misura di 10 metri per i nuovi edifici– non si applica alle
zone A così come definite dall’art. 2 dello stesso D.M., la
Sezione ha disposto un’istruttoria chiedendo al Comune
medesimo di produrre agli atti di causa
un certificato di destinazione urbanistica del sito in cui
ricade la costruzione Ascheri – Wurthner.
Il documento prodotto certifica che il foglio 8 del mappale
n. 972 ricade integralmente nella Zona A.12 del P.U.C.
(Piano urbanistico comunale) comprendente l’ambito di
conservazione e riqualificazione delle località Pian dei
Rossi, Sciarto, Mei, Feu … Torre del Mare, nonché secondo il
P.T.C.P. –Piano territoriale di coordinamento paesistico
(Assetto insediativo) nella Zona ID-MA– Regime normativo di
mantenimento, in Zona COL-ISS del P.T.C.P. (Assetto
vegetazionale), secondo il P.T.C.P. (Assetto Geomorfologico)
in Zona MO-A – Aree assoggettate a regime normativo di
modificabilità di tipo-A.
Lo stesso foglio 8, mappale 972, ricade integralmente nella
Carta della suscettività al dissesto dei versanti quale PG1
– Area a suscettività al dissesto bassa, è sottoposta
integralmente a vincolo paesistico-ambientale a’ sensi del
D.L.vo 22.01.2004 n. 42 ed è inoltre assoggettata
integralmente a vincolo idrogeologico a’ sensi della L.R. 16.04.1984 (peraltro ad oggi abrogata dalla L.R.
03.01.2001 n. 1) e del R.D. 30.12.1923 n. 3267.
Secondo la tesi del Comune e dell’Ascheri l’area in
questione ricadrebbe nella Zona A contemplata dall’art. 2
del D.M. 1444 del 1968 in quanto ivi si menzionano “le parti
del territorio interessate da agglomerati urbani che
rivestono carattere storico, artistico o di particolare
pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree
circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per
tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”, e l’ambito
A.12 del P.U.C. di Bergeggi, con superficie territoriale di
mq. 540.146 è definito da tale strumento di pianificazione
“della grande edificazione residenziale per la seconda
casa”, completato da “vaste aree boscate di notevole pregio
ambientale, soprattutto sul versante a mare”.
Sempre secondo il Comune il vincolo paesaggistico introdotto
sull’area medesima a’ sensi del D.M. 06.04.1957 emanato
sulla base dell’allora vigente L. 29.06.1939 n. 1497 in
tal senso dirimente, posto che ivi si definisce l’area
stessa di “una bellezza paesistica costituente un quadro
naturale unitamente all’isolotto omonimo”.
In dipendenza di tutto ciò, quindi, la distanza di cui
trattasi –ossia “la distanza minima assoluta di m. 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”– non si
applicherebbe al caso di specie, stante la vigenza della
disciplina specificamente contemplata relativamente alla
zona A “per le operazioni di risanamento conservativo e per
le eventuali ristrutturazioni”, laddove –per l’appunto-
“le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a
quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti,
computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di
epoca recente e prive di valore storico, artistico o
ambientale”.
Né, da ultimo, andrebbe sottaciuto che la distanza predetta
di m. 10 non si applicherebbe se i fabbricati non hanno tra
loro pareti contrapposte (cfr. sul punto, ad es., Cons.
Stato, Sez. IV, 05.10.2005 n. 5348), stante il fatto che
la relativa disciplina non è deputata alla tutela del
diritto alla riservatezza, ma alla “salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie”, nella specie
non sussistenti (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 22.01.2013 n. 354).
Orbene, ad avviso del Collegio risulta innanzitutto
infondata la tesi che riconduce l’ambito A.12 – Torre di
Porto a “centro storico” per il solo fatto che ivi insiste
un vincolo a suo tempo imposto ex L. 1497 del 1939, posto
che così argomentando tutte le aree assoggettate a vincolo
paesistico risulterebbero automaticamente classificate sotto
il profilo urbanistico-edilizio quali zone A.
Del resto, la risalente, ma ancor valida Circolare del
Ministero dei Lavori Pubblici n. 3210 dd. 28.10.1967 n.
3210 chiarisce senza ombra di dubbio che l’inclusione di
aree nelle zone A concerne segnatamente gli “agglomerati
urbani”, e ciò non può dirsi per l’area in questione, stante
non solo la sua ben evidente marginalità rispetto al centro
urbano di Bergeggi, ma anche –e soprattutto– sia la
circostanza che l’art. 28 del P.U.C. la definisce quale
ambito della “grande edificazione residenziale della seconda
casa, realizzata fra gli anni ’50 e ’90, costituito da
grandi condomίni e ville unifamiliari”, sia l’avvenuta
inclusione nel previgente P.R.G. della zona di “Torre del
Mare” in zona SR, espressamente equiparata dal Piano stesso
a Zona B.
Né –ancora– può convenirsi, sempre in proposito, con la
tesi dell’Ascheri secondo la quale il suo progetto sarebbe
una mera “sopraelevazione” riconducibile, al più, ad un
intervento di “nuova ristrutturazione” e non già di “nuova
costruzione”, con la conseguente applicazione in tale ultimo
caso soltanto della distanza di m. 10 da corpi antistanti.
Tale tesi risulta infatti smentita dalla giurisprudenza,
come ad es. Cons. Stato, Sez. IV, 27.10.2011 n. 5759,
anche sulla scorta di Cass., Civ., Sez. II, 27.03.2001 n.
4413.
Né –ancora– può convenirsi, sempre in proposito, con la
tesi dell’Ascheri, secondo la quale il suo progetto sarebbe
una mera “sopraelevazione” riconducibile, al più, ad un
intervento di “nuova ristrutturazione” e non già di “nuova
costruzione”, con la conseguente applicazione in tale ultimo
caso soltanto della distanza di m. 10 da corpi antistanti.
Va, infatti, in primo luogo evidenziata l’intrinseca
contraddittorietà della tesi dell’Ascheri secondo la quale
la distanza di m. 10 non si applicherebbe alle ipotesi di
“edificio unico”, come –per l’appunto– nel caso in esame,
posto che l’Ascheri medesimo ha ben più fondatamente
sostenuto per l’innanzi, anche con l’adesione di questo
stesso giudice, che l’edificio di cui trattasi non
costituisce un “condominio” ma due unità abitative tra di
loro autonome.
Ma, soprattutto, è assorbente la constatazione, derivante
dalla giurisprudenza dianzi citata, che l’art. 9 del D.M.
1444 del 1968, laddove impone l’anzidetta distanza di 10
metri tra parete finestrata e corpo edificato, è norma di
ordine generale, prevalente anche sulla disciplina regionale
eventualmente difforme, e va pertanto applicata anche a
corpi distinti di un’unica costruzione, ivi dunque compresa
l’ipotesi di sopraelevazione (cfr. sul punto, ad es., Cass.
Civ., Sez. II, 27.03.2001 n. 4413)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2013 n. 2483 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2013 |
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URBANISTICA:
La possibilità
di variare il sedime è implicita nella previsione
dell’obbligo di piano di recupero, e costituisce del resto
una facoltà normalmente ricompresa nella nozione di
ristrutturazione edilizia pesante di cui all’art. 10, comma
1-c, del DPR 06.06.2001 n. 380.
---------------
Per quanto riguarda poi il problema delle distanze
all’interno di un piano di recupero situato in zona A, non
vige la regola della distanza minima di 10 metri dalle
pareti finestrate, in analogia a quanto previsto per i piani
particolareggiati relativi al centro storico.
I piani particolareggiati hanno infatti ampi margini di
discrezionalità per disciplinare direttamente questi profili
ma possono anche rimettere le scelte di dettaglio ai singoli
piani di recupero fissando solo alcune disposizioni
generali, come è avvenuto nel caso in esame.
L’unico limite per la zona A desumibile dall’art. 9 del DM
02.04.1968 n. 1444 è che non sia aggravata la situazione
esistente.
Sulle questioni proposte nel ricorso si
possono formulare le seguenti considerazioni:
Sul condono della tettoia abusiva
(c) il punto da cui occorre partire è quindi la data di
realizzazione della tettoia. Nel provvedimento di sanatoria
del 03.10.2000 si prende atto che la tettoia è stata
realizzata prima del 01.09.1967, ossia prima
dell’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765,
come dichiarato dalla dante causa dei controinteressati
nella domanda di condono presentata il 18.09.1986.
L’ipotesi di condono utilizzata dal Comune è pertanto quella
disciplinata dall’art. 31, comma 5, della legge 28.02.1985 n. 47. In questo caso la sanatoria è assoggettata al
pagamento dell’oblazione ma non del contributo di
concessione, dovuto invece per le opere abusive realizzate
tra il 01.09.1967 e il 01.10.1983;
(d) a proposito dell’epoca di realizzazione della tettoia il
Comune non ha svolto alcun approfondimento (ad esempio
attraverso le aerofotogrammetrie) e dunque non è possibile
stabilire se l’opera sia effettivamente anteriore al 01.09.1967;
(e) esiste però un elemento che avvicina notevolmente la
presenza della tettoia alla data del 01.10.1983, utile
per beneficiare del condono alle condizioni ordinarie e
quindi con pagamento del contributo di concessione. Si
tratta del provvedimento dell’assessore all’Urbanistica del
20.02.1985, con il quale sono stati autorizzati lavori
di manutenzione straordinaria sulla tettoia. Questo
provvedimento dimostra l’esistenza della tettoia. La
retrodatazione della costruzione a un momento anteriore al 01.10.1983 può essere raggiunta in via presuntiva
considerando (1) il carattere pertinenziale del manufatto
rispetto all’attività produttiva, (2) il dato di comune
esperienza secondo cui una manutenzione straordinaria
interviene a una certa distanza temporale dalla costruzione,
(3) la necessità di interpretare i casi dubbi a favore del
soggetto che chiede il condono (v. TAR Brescia Sez. II 10.05.2012 n. 825; TAR Brescia Sez. I 22.11.2010 n.
4664);
(f) il fatto che la tettoia si trovasse a circa 2,5 metri
dalla parete finestrata dell’edificio di proprietà del
ricorrente non impediva la concessione del condono. Gli
immobili sono infatti collocati in zona A, all’interno della
quale in base all’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 non
vige la regola della distanza minima di 10 metri. Occorre
poi sottolineare che la sanatoria è comunque ammissibile
quando sia accompagnata dal vincolo della traslazione del
volume e della superficie oggetto di condono allo scopo di
conseguire un complessivo riordino del comparto (v. TAR
Brescia Sez. II 08.05.2012 n. 788).
Questa condizione nel
caso in esame si è realizzata, in quanto la tettoia è stata
assoggettata a condono esclusivamente per recuperarne la
superficie e riversarla nel nuovo intervento edilizio
regolato dal piano di recupero, con il coinvolgimento di un sedime in parte diverso da quello originario. Il punto di
osservazione del problema delle distanze si trasferisce in
questo modo dall’opera abusiva storica alla nuova disciplina
del piano di recupero. In proposito si osserva che la
possibilità di variare il sedime è implicita nella
previsione dell’obbligo di piano di recupero, e costituisce
del resto una facoltà normalmente ricompresa nella nozione
di ristrutturazione edilizia pesante di cui all’art. 10,
comma 1-c, del DPR 06.06.2001 n. 380 (v. TAR Brescia Sez. II
07.04.2011 n. 525);
(g) la prospettiva dell’utilizzo della superficie della
tettoia a vantaggio di un nuovo edificio consente di
completare la procedura di condono anche se nel frattempo il
manufatto sia stato rimosso. Normalmente infatti l’esistenza
materiale dell’opera abusiva è un presupposto per la
condonabilità della stessa (v. TAR Brescia Sez. I 12.10.2009 n. 1741), ma se la demolizione era già stata in
precedenza valutata e autorizzata in un provvedimento
edilizio, o in un piano urbanistico almeno adottato, il
diritto edificatorio corrispondente all’abuso si può
considerare ormai scorporato dall’opera materiale e
acquisito al patrimonio giuridico del proprietario del
terreno, subordinatamente al rilascio del provvedimento
formale di condono;
Relativamente al piano di recupero
(h) per quanto riguarda poi il problema delle distanze
all’interno di un piano di recupero situato in zona A,
parimenti non vige la regola della distanza minima di 10
metri dalle pareti finestrate, in analogia a quanto previsto
per i piani particolareggiati relativi al centro storico.
I
piani particolareggiati hanno infatti ampi margini di
discrezionalità per disciplinare direttamente questi profili
(v. TAR Brescia Sez. I 29.09.2009 n. 1712) ma possono
anche rimettere le scelte di dettaglio ai singoli piani di
recupero fissando solo alcune disposizioni generali, come è
avvenuto nel caso in esame. L’unico limite per la zona A
desumibile dall’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 è che
non sia aggravata la situazione esistente, cosa che in
concreto non sembra essersi verificata;
(i) circa gli aspetti propriamente qualitativi della
progettazione, e in particolare sul disturbo che il nuovo
edificio arreca a quello del ricorrente e sulla possibilità
di individuare soluzioni di maggiore pregio urbanistico, si
tratta di questioni che si collocano ai limiti della
sindacabilità nel processo amministrativo.
La commissione
edilizia nel parere del 03.04.2000 ha considerato
soddisfacenti le controdeduzioni elaborate per conto dei controinteressati dall’ing. Angelo Laffranchini. Tale
valutazione non presenta profili di irragionevolezza, e in
definitiva non sembra che il Comune autorizzando
l’intervento edilizio abbia favorito una parte procurando un
danno ingiusto all’altra.
Le soluzioni urbanistiche
alternative avrebbero infatti comportato sacrifici non
necessari per la proprietà dei controinteressati, e la
gronda del nuovo edificio non sembra idonea a provocare un
oscuramento intollerabile del primo piano del ricorrente,
mentre per quanto riguarda il piano terra, effettivamente
oscurato, una concausa rilevante è il muro di confine posto
a breve distanza;
(j) la superficie della tettoia trasferita nel nuovo
intervento edilizio è pari a 93,35 mq, mentre la superficie
indicata nella domanda di condono era pari a 87,50 mq e
quella riportata sull’elaborato tecnico allegato alla
suddetta domanda era pari a 85 mq. Le differenze sono
certamente significative, ma non implicano che le misure del
progetto siano sbagliate o non veritiere.
In realtà la
misurazione effettuata ai fini del condono è diretta a
stabilire se siano rispettati i limiti di legge entro cui la
sanatoria è ammissibile e a individuare gli importi a carico
del richiedente. Quando la superficie condonata deve essere
traslata e riutilizzata valgono le normali regole della
progettazione, ossia è richiesta una più accurata
misurazione dell’opera mediante i punti fiduciali per
armonizzarne i valori a quelli degli edifici confinanti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.04.2013 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Le norme sulle distanze
dai fabbricati hanno carattere pubblicistico e inderogabile,
a differenza di quelle sulle distanze dai confini, che sono
derogabili mediante convenzione tra privati.
A tale proposito,
questo Tribunale, nella sentenza n. 327/2005 del 12.10.2005,
confermata dalla Sezione VI del Consiglio di stato con la
decisione n. 6475 del 18.12.2012, con riferimento alle
distanze in materia di costruzioni, ha già esposto che “è
ben noto al Collegio l’orientamento giurisprudenziale in
forza del quale le norme sulle distanze dai fabbricati hanno
carattere pubblicistico e inderogabile, a differenza di
quelle sulle distanze dai confini, che sono derogabili
mediante convenzione tra privati (cfr., ex multis, Consiglio
di Stato, Sez. IV, 12.07.2002, n. 3929 e TAR Lazio, Sez. II,
11.10.2004, n. 10705)”
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 20.03.2013 n. 95
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
fini dell’applicabilità della disciplina in materia di
“pareti finestrate” di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968,
nr. 1444, ed a tutti i regolamenti edilizi locali che a
questo si richiamano, è indifferente che le aperture
preesistenti rientrino nella nozione civilistica di “luci” o
in quella di “vedute” (ciò in considerazione della ratio di
dette regole, che va ricondotta a esigenze
igienico-sanitarie e non di tutela di diritti di vicinato).
Ritenuto che detti approfondimenti, al contrario, si
impongono ai fini della definizione del giudizio nel merito,
tenuto conto anche della circostanza che la Sezione
–contrariamente all’assunto di fondo espresso nella sentenza
impugnata– reputa che, ai fini dell’applicabilità della
disciplina in materia di “pareti finestrate” di cui
all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, nr. 1444, ed a tutti i
regolamenti edilizi locali che a questo si richiamano, è
indifferente che le aperture preesistenti rientrino nella
nozione civilistica di “luci” o in quella di “vedute”
(ciò in considerazione della ratio di dette regole,
che va ricondotta a esigenze igienico-sanitarie e non di
tutela di diritti di vicinato) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
ordinanza 13.03.2013 n. 844 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Allorché due terreni finitimi sono separati da
una striscia intermedia, inedificata o per qualsiasi ragione
inedificabile, e di larghezza inferiore al distacco dal
confine prescritto per le costruzioni, ciascuno dei
proprietari deve costruire sul proprio fondo ad una
distanza, rispetto al confine con il terreno di proprietà
aliena, che non sia inferiore alla metà della differenza che
residua sottraendo dal distacco imposto dalla normativa
edilizia la misura dello spazio occupato dalla striscia di
terreno interposta.
A tale orientamento, che stabilisce, in sostanza,
che nel computo della distanza minima imposta dalla legge o
dal regolamento locale la larghezza della striscia di
terreno interposta tra i due fondi debba essere
"neutralizzata",
cioè eliminata concettualmente, anche nel caso in
cui la distanza sia imposta tra la costruzione ed il
confine, occorre dare continuità, soffermata l'attenzione su
due aspetti della problematica.
Quanto al primo, è ben vero
che "finitimo" è perfettamente sinonimico rispetto a
"confinante" e che dunque a rigori un'area interposta tra
due fondi rende questi ultimi non reciprocamente confinanti.
Tuttavia occorre osservare che allorquando l'area interposta
e inedificabile abbia una larghezza inferiore a quella
prescritta per il distacco tra costruzioni o tra costruzione
e confine, e non si versi nell'ipotesi di cui all'art. 879,
cpv. c.c., l'inapplicabilità della regola del distacco
comporterebbe esattamente le medesime conseguenze negative
che l'art. 873 c.c. e le disposizioni locali integrative
sono dirette ad evitare.
Del tutto assenti indicazioni normative di segno diverso,
tali, cioè, da rendere plausibile la volontà del legislatore
di accettare un tale effetto pratico, s'impone mediante lo
strumento dell'analogia o dell'interpretazione estensiva una
soluzione che collochi la fattispecie entro l'ambito di
applicazione delle regole dettate in materia di distanze.
Per di più, va considerato che la stessa nozione di distanza
non definisce un dato meramente strutturale, ma disciplina
la relazione dinamica fra contrapposte facoltà edificatorie,
sicché anche il concetto di fondi confinanti o finitimi deve
essere inteso in funzione dello scopo normativo ogni qual
volta l'esercizio di tali facoltà incroci le esigenze
d'ordine pubblico e privato tutelate congiuntamente dagli
artt. 873 e ss. c.c.
La seconda considerazione è data dal fatto che
la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo
attestata nel senso di ritenere che le norme degli strumenti
urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o
come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o
in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in
un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a
regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere
integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a
disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo
equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto
la loro violazione consente al privato di ottenere la
riduzione in pristino.
Nel contesto edilizio, pertanto, le norme
degli strumenti urbanistici che impongono l'osservanza di
una determinata distanza della costruzione dal confine non
esprimono una regola diversa rispetto a quella codicistica
basata sulla distanza tra fabbricati, ma una differente
tecnica di protezione interna alla medesima regola del
distacco, che in tutte le sue applicazioni va declinata
unitariamente.
---------------
7. - I primi due motivi, da esaminare congiuntamente
perché inerenti alla medesima quaestio iuris, sono
infondati, anche se per ragioni che richiedono una parziale
correzione ex art. 384,
ult. comma c.p.c. della motivazione in diritto della
sentenza impugnata (basata sul fatto che della particella di
terreno intermedia i Ma. siano comproprietari).
7.1. - Questa Corte ha già avuto modo di osservare che
allorché due terreni finitimi sono separati da una striscia
intermedia, inedificata o per qualsiasi ragione
inedificabile, e di larghezza inferiore al distacco dal
confine prescritto per le costruzioni, ciascuno dei
proprietari deve costruire sul proprio fondo ad una
distanza, rispetto al confine con il terreno di proprietà
aliena, che non sia inferiore alla metà della differenza che
residua sottraendo dal distacco imposto dalla normativa
edilizia la misura dello spazio occupato dalla striscia di
terreno interposta (Cass. nn. 3506/1999 e 7129/1993; vedi
anche Cass. n. 20606/2004, che però si limita a richiamare
detto principio, applicato dal giudice di merito; una
soluzione sostanzialmente analoga era stata accolta da Cass.
n. 3480/1978, che tuttavia, a differenza dell'indirizzo in
esame, non aveva escluso l'applicabilità sia pur parziale
del principio della prevenzione).
7.2. - A tale orientamento, che stabilisce, in sostanza, che
nel computo della distanza minima imposta dalla legge o dal
regolamento locale la larghezza della striscia di terreno
interposta tra i due fondi debba essere "neutralizzata"
(così, in motivazione, la n. 3506/1999 cit.), cioè eliminata
concettualmente, anche nel caso in cui la distanza sia
imposta tra la costruzione ed il confine, occorre dare
continuità, soffermata l'attenzione su due aspetti
della problematica.
7.2.1. - Quanto al primo, è ben vero che "finitimo"
è perfettamente sinonimico rispetto a "confinante" e
che dunque a rigori un'area interposta tra due fondi rende
questi ultimi non reciprocamente confinanti.
Tuttavia occorre osservare che allorquando l'area interposta
e inedificabile abbia una larghezza inferiore a quella
prescritta per il distacco tra costruzioni o tra costruzione
e confine, e non si versi nell'ipotesi di cui all'art. 879,
cpv. c.c., l'inapplicabilità della regola del distacco
comporterebbe esattamente le medesime conseguenze negative
che l'art. 873 c.c. e le disposizioni locali integrative
sono dirette ad evitare.
Del tutto assenti indicazioni normative di segno diverso,
tali, cioè, da rendere plausibile la volontà del legislatore
di accettare un tale effetto pratico, s'impone mediante lo
strumento dell'analogia o dell'interpretazione estensiva una
soluzione che collochi la fattispecie entro l'ambito di
applicazione delle regole dettate in materia di distanze.
Per di più, va considerato che la stessa nozione di distanza
non definisce un dato meramente strutturale, ma disciplina
la relazione dinamica fra contrapposte facoltà edificatorie,
sicché anche il concetto di fondi confinanti o finitimi deve
essere inteso in funzione dello scopo normativo ogni qual
volta l'esercizio di tali facoltà incroci le esigenze
d'ordine pubblico e privato tutelate congiuntamente dagli
artt. 873 e ss. c.c.
7.2.2. - La seconda considerazione, che dà conto
della preferenza dell'indirizzo predetto rispetto a quello
di Cass. n. 7525/2002 invocato dal ricorrente, è data dal
fatto che la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo
attestata nel senso di ritenere che le norme degli strumenti
urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o
come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o
in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in
un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a
regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere
integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a
disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo
equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto
la loro violazione consente al privato di ottenere la
riduzione in pristino (Cass. nn. 7384/2001, 6209/1996 e
12918/1991).
Nel contesto edilizio, pertanto, le norme degli strumenti
urbanistici che impongono l'osservanza di una determinata
distanza della costruzione dal confine non esprimono una
regola diversa rispetto a quella codicistica basata sulla
distanza tra fabbricati, ma una differente tecnica di
protezione interna alla medesima regola del distacco, che in
tutte le sue applicazioni va declinata unitariamente.
7.3. - Pertanto, ricondotta la fattispecie sotto gli artt.
873 e ss. c.c. così
come integrati dall'intera disciplina degli strumenti
urbanistici locali in tema di distanze, viene meno anche il
rilievo della giusta obiezione mossa a Cass. n. 7525/2002,
ossia di non dare contezza del fondamento normativo del
reciproco diritto dei proprietari dei fondi confinanti di
pretendere il rispetto di una distanza maggiore di quella
legale e calcolata non dal confine comune, ma da quello col
fondo intermedio (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 18.02.2013 n. 3968). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Esiste il principio
giurisprudenziale secondo cui, posto che nella disciplina
legale dei rapporti di vicinato l'obbligo di osservare nelle
costruzioni determinate distanze sussiste solo relativamente
alle vedute e non anche dalle luci, la dizione pareti
finestrate contenuta in un regolamento edilizio che,
ispirandosi all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, prescrive
nelle sopraelevazioni il rispetto della distanza di 10 metri
dalle pareti finestrate di edifici prospicienti, si
riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre
qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su
cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
---------------
Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano
con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola
anche i comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444
relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate
e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del
diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque,
tassativa ed inderogabile.
Infatti, nella suddetta materia deve ritenersi che in tema
di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche
alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di
strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime
perché contrastanti con la norma di superiore livello
dell'art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 -che fissa in dieci metri
la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti- comporterebbe l'obbligo per il
giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni
illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico,
nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso
della regola sulla distanza fissata nel decreto
ministeriale.
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m.
02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile,
impone al proprietario dell'area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno
dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il
caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere
mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre
antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle
previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata, oltre alla considerazione
che nella specie la disciplina è stata integrata dal
regolamento comunale in senso ancora più rispettoso e
rigoroso.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in
tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma
primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione.
Va ora esaminato quanto
sostenuto dalla società appellante incidentale, che
sottolinea come il Vannucchi, nell’appello, abbia ammesso
che la violazione della distanza si ponga in relazione a
parete finestrata, dove tuttavia non gode di veduta ma di
luce. Al riguardo invoca il principio secondo cui il
rispetto delle distanze può essere invocato per le vedute e
non per le luci.
Il Collegio osserva che, in realtà, esiste il principio
giurisprudenziale (Cassazione civile sez. II, 30.04.2012, n.
6604) secondo cui, posto che nella disciplina legale dei
rapporti di vicinato l'obbligo di osservare nelle
costruzioni determinate distanze sussiste solo relativamente
alle vedute e non anche dalle luci, la dizione pareti
finestrate contenuta in un regolamento edilizio che,
ispirandosi all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, prescrive
nelle sopraelevazioni il rispetto della distanza di 10 metri
dalle pareti finestrate di edifici prospicienti, si
riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre
qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su
cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
Nella specie, tuttavia, il regolamento edilizio comunale,
all’art. 5.11, rubricato “Distanze fra edifici”,
rinvia sì al D.M. 1968/1444, ma stabilisce che “per i
nuovi edifici è prescritta in tutti i casi la distanza
minima assoluta di m.10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti anche non finestrate”.
Conseguentemente, in assenza di impugnazione o contestazione
di tale clausola del regolamento edilizio comunale, la
eventuale mancanza di veduta nella parete finestrata di
Vannucchi non rileva ai fini di annientare la pretesa al
rispetto delle distanze, che vanno quindi in ogni caso
rispettate.
In ordine alla valenza direttamente precettiva tra privati
del decreto ministeriale sulle distanze (questione oggetto
degli appelli incidentali) questo Consesso (Consiglio di
Stato sez. IV, 27.04.2011, n. 5759) e alla eventuale
disapplicazione di strumenti urbanistici con esso
contrastanti nel senso della minore tutela, ha già avuto
modo di osservare che le prescrizioni di cui al d.m.
02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il
regime delle distanze nelle costruzioni, sicché
l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede
di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444
relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate
e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del
diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque,
tassativa ed inderogabile (per tali principi consolidati,
ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2007, n.
3094).
Infatti, nella suddetta materia deve ritenersi che in tema
di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche
alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di
strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime
perché contrastanti con la norma di superiore livello
dell'art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 -che fissa in dieci metri
la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti- comporterebbe l'obbligo per il
giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni
illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico,
nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso
della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale
(così Cassazione civile, II, 27.03.2001, n. 4413 su
richiamata; così anche Consiglio di Stato, IV, 12.06.2007,
n. 3094).
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m.
02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile,
impone al proprietario dell'area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno
dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il
caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere
mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre
antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle
previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata, oltre alla considerazione
che nella specie la disciplina è stata integrata dal
regolamento comunale in senso ancora più rispettoso e
rigoroso.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in
tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma
primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione.
D’altra parte, come visto, nella specie non solo la norma
comunale ha tenuto conto della disposizione ministeriale
esistente, ma l’ha appunto integrata in senso ancora più
rigoroso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.02.2013 n. 844 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: DISCIPLINA URBANISTICA E DEROGABILITA' DELLE NORME
IN TEMA DI DISTANZE.
Le disposizioni in tema di distanze debbono considerarsi
non derogabili dalla disciplina urbanistica, sicché il
permesso di costruire rilasciato senza che siano stati
rispettati
tali limiti comporta la illegittimità dell’atto
amministrativo;
ne consegue che l’ente competente può
procedere in via di autotutela qualora ravvisi l’esistenza
di detta illegittimità.
La Corte Suprema si sofferma con la sentenza in esame su
un tema che si pone nella sottile linea di confine tra la
disciplina
amministrativa e quella penale, riguardante segnatamente
l’esercizio del potere di autotutela dell’amministrazione
in presenza di atto amministrativo illegittimo.
La vicenda
processuale vedeva imputato il proprietario e direttore dei
lavori
nonché l’esecutore degli stessi, ritenuti responsabili del
reato previsto dall’art. 44, lett. b), del D.P.R. n. 547/1955;
in particolare
agli imputati era stato addebitato di avere proseguito,
nonostante l’ordine di sospensione dei lavori di
ristrutturazione
ed elevazione, la realizzazione di un solaio di circa
mq. 140 situato al terzo livello di un immobile urbano. In
sede
di merito, gli imputati erano stati condannati, nonostante
le censure sollevate in appello, ed incentrate
essenzialmente
sulla illegittimità dell’ordine di sospensione dei lavori,
a
fronte di un previo rilascio di permesso di costruire, e
dunque
di lavori legittimamente avviati.
Secondo i giudici di
appello
l’ordine di sospensione era legittimo, e anzi doveroso,
in quanto rispettoso del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (art.
9)
in tema di distanze tra edifici, che il permesso di
costruire
non aveva invece preso in considerazione così autorizzando opere non conformi alla disciplina primaria. Contro la
sentenza
di condanna proponevano ricorso per Cassazione gli imputati,
sostenendo -per quanto di interesse con riferimento
allo specifico profilo- che la Corte di appello avrebbe
omesso
di considerare che il permesso di costruire non era stato
revocato e che l’ordinanza di sospensione dei lavori è
illegittima
se non preceduta da un provvedimento che in sede di
autotutela intervenga sull’atto autorizzatorio: posto che il
D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 è disposizione che ha come
destinatari i soli enti territoriali e non i privati, non
può sostenersi
per la difesa che il permesso di costruire fosse
illegittimo.
La testi ha convinto i giudici della Suprema Corte che
hanno,
sul punto, annullato con rinvio la decisione. In
particolare, ha
osservato la Cassazione, le disposizioni in tema di distanze
debbono considerarsi non derogabili dalla disciplina
urbanistica
e il permesso di costruire rilasciato senza che siano
stati rispettati tali limiti comporta la illegittimità
dell’atto amministrativo
(v. Cass. pen., sez. III, 16.03.2012, n. 10431,
in Ced. Cass., n. 252247): ciò comporta, per la Corte, la
conseguenza
di ordine generale che l’ente competente può procedere
in via di autotutela qualora ravvisi l’esistenza di detta
illegittimità.
Venendo al contenuto della decisione
impugnata,
la Corte rileva che la sentenza d’appello è caduta in
errore
quando omette di rilevare che il provvedimento
amministrativo
opera un rinvio alla natura sismica del suolo. Tale rinvio
potrebbe risultare coerente, secondo la Cassazione, qualora
l’ordine di sospensione fosse stato emanato in ragione
della tutela sismica; al contrario, il provvedimento che
dispone
la sospensione dei lavori venne emesso per motivi attinenti
il rispetto delle distanze legali tra edifici, e non può
certamente
essere invocata la natura sismica del suolo come
motivazione che ne prolunga gli effetti oltre il termine
fissato
dalla legge. Da qui, dunque, la necessità dell’annullamento (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2013 n. 5487
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
gennaio 2013 |
|
EDILIZIA
PRIVATA:
M. Grisanti,
DISTANZE TRA FABBRICATI (commento a caldo della sentenza
23.01.2013 n. 6/2013 della Corte costituzionale) (25.01.2013
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La Consulta sui poteri delle regioni.
Distanze edifici? Solo se servono.
Le regioni possono introdurre deroghe alle distanze tra
edifici solo per «interessi pubblici di territorio». La
disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra
infatti nella materia dell'ordinamento civile e, quindi,
attiene alla competenza legislativa statale. Alle regioni è
consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime
stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la
deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio.
Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale
ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente
finalità di carattere urbanistico, rimettendo l'operatività
dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un
assetto complessivo ed unitario di determinate zone del
territorio». Le norme regionali che, disciplinando le
distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono
illegittimamente nella materia «ordinamento civile»,
riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Questo è quanto contenuto nella
sentenza 23.01.2013 n. 6 della Corte Costituzionale.
Il fatto in sintesi: l'articolo 1, 2° comma, della legge
della regione Marche 04/09/1979 n. 31 prevede che i comuni
possono individuare gli edifici da ampliare nelle zone di
completamento con destinazione residenziale. Procedura che
ha l'efficacia di piano particolareggiato.
Sulla base di questa disposizione normativa, un cittadino
aveva effettuato un ampliamento, ma il suo vicino ne aveva
chiesto la demolizione. La Corte costituzionale ha precisato
che la deroga alle distanze è consentita solo per interessi
pubblici legati al governo del territorio. Ed ha affermato
che le regioni possono introdurre delle deroghe in
considerazione degli interessi e delle specificità
territoriali.
Pertanto la disposizione della regione Marche è stata
considerata illegittima in quanto non rispetta i limiti
entro i quali la deroga è ammessa (articolo
ItaliaOggi del 09.04.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
1, secondo comma, della legge regionale Marche n. 31 del
1979 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo,
in quanto eccede la competenza regionale concorrente del
«governo del territorio», violando il limite
dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa
esclusiva dello Stato.
Invero, la norma de qua consente (ndr: consentiva)
espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime
fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le
condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo
decreto ministeriale, il quale esige che le deroghe siano
inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia
dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio.
La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza
i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal
rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta,
dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione
omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona,
ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente
considerate.
---------------
La regolazione
delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella
materia «ordinamento civile», di competenza legislativa
esclusiva dello Stato. Infatti, tale disciplina attiene in
via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi
finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice
civile.
La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori
interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il
citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza
costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati
insistono su di un territorio che può avere rispetto ad
altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche
caratteristiche, la disciplina che li riguarda –ed in
particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso–
esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca
anche interessi pubblici», la cui cura è stata affidata alle
Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di
«governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina
delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia
dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza
legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare
limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle
normative statali, solo a condizione che la deroga sia
giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra
gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento
civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo –il
governo del territorio– che ne detta anche le modalità di
esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che
interviene in tale ambito è legittima solo in quanto
persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico,
rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario
di determinate zone del territorio».
Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra
edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente
nella materia «ordinamento civile», riservata alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale
in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in
materia di «governo del territorio», come identificato dalla
Corte costituzionale, trova una sintesi normativa
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che
la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di
«efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio
giurisprudenziale consolidato». Quest’ultima disposizione
consente che siano fissate distanze inferiori a quelle
stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche».
Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici
sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio.
Come ricorda correttamente l’ordinanza di rimessione, questa
Corte ha già affermato che la regolazione delle distanze tra
i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento
civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato
(sentenze n. 114 del 2012, n. 173 del 2011, n. 232 del
2005). Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e
diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha
la sua collocazione innanzitutto nel codice civile.
La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori
interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il
citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza
costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i
fabbricati insistono su di un territorio che può avere
rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche–
specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda
–ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio
stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati
e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del
2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base
alla competenza concorrente in materia di «governo del
territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina
delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia
dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza
legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare
limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle
normative statali, solo a condizione che la deroga sia
giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non
può essere del tutto esclusa una competenza legislativa
regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro
essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente
circoscritta dal suo scopo –il governo del territorio– che
ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la
legislazione regionale che interviene in tale ambito è
legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di
carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi
precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un
assetto complessivo ed unitario di determinate zone del
territorio» (sentenza n. 232 del 2005).
Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra
edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente
nella materia «ordinamento civile», riservata alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale
in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in
materia di «governo del territorio», come identificato
dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che
la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia
precettiva e inderogabile, secondo un principio
giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del
2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005).
Quest’ultima disposizione consente che siano fissate
distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa
statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le
deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici
sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio.
La norma regionale censurata infrange i principi sopra
ricordati, in quanto consente espressamente ai Comuni di
derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del
1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9,
ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come
si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi
strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico
relativo al governo del territorio. La disposizione
regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare
gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze
minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza
di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto
urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare
singole costruzioni, anche individualmente considerate.
La procedura delineata dal legislatore regionale non è
dunque conforme ai principi sopra enunciati, né il vizio può
ritenersi insussistente in ragione dell’art. 2, quarto
comma, della legge regionale impugnata, che intende
conferire a tale procedura «efficacia di piano
particolareggiato», ex lege. Anzi, attraverso
tale autoqualificazione, il legislatore regionale pretende
di attribuire gli effetti tipici degli strumenti urbanistici
a un procedimento che non ne rispecchia la sostanza e le
finalità. L’attribuzione, per via legislativa, della
qualifica formale di piano particolareggiato ad una
procedura che del piano urbanistico non ha le
caratteristiche, perché permette di derogare caso per caso
alle regole sulle distanze tra edifici, non offre alcuna
garanzia che la legge regionale persegua quelle finalità
pubbliche di governo del territorio che, sole, possono
giustificare l’esercizio di una competenza legislativa
regionale in un ambito strettamente connesso alla competenza
statale in materia di «ordinamento civile».
Pertanto, l’art. 1, secondo comma, della legge regionale
Marche n. 31 del 1979 deve essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo, in quanto eccede la
competenza regionale concorrente del «governo del
territorio», violando il limite dell’«ordinamento
civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato
(Corte Costituzionale,
sentenza 23.01.2013 n. 6). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E’ illegittimo il permesso di costruire che non
rispetti le distanze minime tra gli edifici previste
dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444.
In
tema di distanze tra edifici la disposizione di cui all'art.
9, comma 1 n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non
alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al
proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui
di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da
quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la
nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una
quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a
distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in
sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici,
con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque
disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso
che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di
norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione.
---------------
In tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre
non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di
finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole,
le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece,
rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti
dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d.
aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi
coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la
consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali
indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie
che, comunque progettate in relazione alla situazione dei
luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più
confacente dal committente, hanno una struttura che deve
essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad
assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che
non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente
abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il
terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo
edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed
autonomia, in una accezione che comprende tutte le
caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di
rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo
strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal
confine privato.
---------------
Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di
origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici
in funzione integrativa della disciplina privatistica, la
nozione di costruzione non si identifica con quella di
edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell'opera.
Ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non
rileva il materiale utilizzato per la fabbrica,
richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera,
comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro
od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non
transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della
Corte di legittimità secondo il quale “costituisce
costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle
distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e
destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella
specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia
formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a
fienile, magazzino e pollaio)”.
Analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è
stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art.
907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da
ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in
quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei
manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che,
indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è
stata realizzata, determini un ostacolo del genere (nella
specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse
costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava
la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se
ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi
nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili,
in quanto bullonate a tali correntini. La C.S.,
nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha
confermato tale decisione)”.
---------------
In ordine alla illegittimità di una costruzione inferiore
alla distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del
decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444, in ordine alla
cogenza ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine
alla doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la
stessa venga violata, la giurisprudenza è assolutamente
concorde. Si è detto in proposito, infatti, che “laddove si
afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui
all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima
assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e
cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti
edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della
relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola
delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che
l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della
salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse
privato del frontista a mantenere la riservatezza o la
prospettiva”.
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di
legittimità penale ha affermato di recente che “è
illegittimo il permesso di costruire rilasciato per
l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze
minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili
da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze
tra costruzioni, il D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma
2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942,
n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto
dalla legge 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di
legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i
fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa
violazione della disciplina in tema di distanze legali da
parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo
abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso
d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p.".
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il
principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m.
02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10
metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì
alla salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed
inderogabile”.
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato
in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di
conseguenza applicativa del principio, il condivisibile
principio per cui “in tema di distanze tra costruzioni,
applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte
dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni
illegittime perché contrastanti con la norma di superiore
livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa
in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta
l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle
disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento
urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla
inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel
decreto ministeriale”.
La facoltà di costruire sul confine (peraltro neppure
ricorrente nel caso di specie, come si è dimostrato dianzi)
non comporta certo che si possa omettere di rispettare la
successiva disposizione delle n.t.a. laddove la distanza tra
edifici, per effetto della costruzione sul confine, venga ad
essere inferiore al minimo inderogabile stabilito ex lege.
Tale conseguenza pretesa da parte appellante non si evince
dalla combinata lettura delle due prescrizioni; e, laddove
ciò si riscontrasse effettivamente (ma così non è), il dato
interpretativo non potrebbe che importare la disapplicazione
della disposizione, siccome collidente con la disciplina
nazionale inderogabile (ex multis: “in tema di
distanze tra edifici la disposizione di cui all'art. 9,
comma 1 n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non
alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al
proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui
di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da
quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la
nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una
quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a
distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in
sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici,
con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque
disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso
che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di
norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione” -TAR
Puglia Lecce Sez. III, 28.09.2012, n. 1624-).
Anche la lettura “combinata” delle due disposizioni
comunali suggerita da parte appellante deve essere pertanto
disattesa.
In ultimo, rammenta il Collegio che, per condivisa
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “in tema di
distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a
tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che
abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od
accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i
cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel
concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio,
quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti)
che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti,
sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del
fabbricato. Lo stesso può dirsi per le opere di
contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di
cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione
alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente
ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura
che deve essere idonea per consistenza e modalità
costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed
una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed
eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di
sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi
dello stesso. Opere tali da dovere essere riguardate, sotto
il profilo edilizio, come opere dotate di una propria
specificità ed autonomia, in una accezione che comprende
tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde
l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi
prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare,
delle distanze dal confine privato” (Consiglio Stato,
sez. IV, 30.06.2005, n. 3539).
In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di
legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato
che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze
legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti
urbanistici in funzione integrativa della disciplina
privatistica, la nozione di costruzione non si identifica
con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto
non completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell'opera” (Cassazione civile, sez. II, 17.06.2011, n.
13389).
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto
condivisibilmente, ad avviso del Collegio, ha poi fatto
presente che ai fini del rispetto delle distanze fra
costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la
fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera,
comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro
od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non
transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della
Corte di legittimità secondo il quale “costituisce
costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle
distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e
destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella
specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia
formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a
fienile, magazzino e pollaio)” (Cassazione civile, sez.
II, 24.05.1997, n. 4639).
Per completezza si evidenzia che analoga nozione estensiva
del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla
Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a
preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale
ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la
nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti
in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che,
indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è
stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (nella
specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse
costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava
la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se
ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi
nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili,
in quanto bullonate a tali correntini. La C.S.,
nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha
confermato tale decisione)” (Cassazione civile , sez. II,
21.10.1980, n. 5652).
Già alla stregua
della sistematica esposizione che precede, appare evidente
che appare destituito di fondamento il primo caposaldo
dell’impianto dell’appello volto a contestare la
sussumibilità nella nozione di “costruzione”
rilevante in punto di omesso rispetto delle distanze legali
dell’immobile per cui è causa.
E’ appena il caso di rammentare, conclusivamente, che in
ordine alla illegittimità di una costruzione inferiore alla
distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del
decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444, in ordine alla
cogenza ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine
alla doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la
stessa venga violata, la giurisprudenza è assolutamente
concorde. Si è detto in proposito, infatti, che “laddove
si afferma il carattere inderogabile della prescrizione di
cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima
assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e
cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti
edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della
relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola
delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che
l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della
salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse
privato del frontista a mantenere la riservatezza o la
prospettiva” (Cons. Stato Sez. IV, 09.10.2012, n. 5253).
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di
legittimità penale ha affermato di recente che “è
illegittimo il permesso di costruire rilasciato per
l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze
minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili
da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze
tra costruzioni, il D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma
2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942,
n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto
dalla legge 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di
legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i
fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa
violazione della disciplina in tema di distanze legali da
parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo
abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso
d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p." (Cass. pen. Sez.
III, 12.01.2012, n. 10431 -rv. 252247-).
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il
principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m.
02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10
metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì
alla salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile”
(Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759).
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato
in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di
conseguenza applicativa del principio, il condivisibile
principio per cui “in tema di distanze tra costruzioni,
applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte
dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni
illegittime perché contrastanti con la norma di superiore
livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa
in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta
l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle
disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento
urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla
inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel
decreto ministeriale” (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011,
n. 5759)
(Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 22.01.2013 n. 354
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444 detta una
prescrizione tassativa e inderogabile, in quanto finalizzata
alla salvaguardia dell'interesse pubblico sanitario a
mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che
si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete
finestrata.
La norma -emanata in forza dell'art. 41-quinquies l.
17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l. 06.08.1967 n.
765– è dettata in materia inerente all'ordinamento civile,
rientrante, come tale, nella competenza legislativa
esclusiva dello Stato: essa non può, pertanto, trovare un
limite nella classificazione -differente rispetto a quella
prevista dall’art. 2 del d.m. n. 1444/1968- delle zone
omogenee in cui è articolato il territorio comunale
delineata all’art. 10, l.reg. Lombardia n. 12/2005, pena
l’incostituzionalità della legge regionale stessa.
---------------
L’art. 103, c. 1-bis, l.reg. Lombardia n. 12/2005, inserito
dalla l.reg. Lombardia n. 4/2008, dispone che “Ai fini
dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3,
degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le
disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444
(Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di
distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al
verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della
formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione
di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli
interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza
minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile
all'interno di piani attuativi”.
Questa norma deve essere interpretata conformemente a quanto
sostenuto dalla giurisprudenza, nel senso che rientrano
nella nozione di nuova costruzione ai fini del computo delle
distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione
di un manufatto su un'area libera, ma anche interventi,
quali quelli di ristrutturazione che, in ragione dell'entità
delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del
fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso
oggettivamente diversa da quella preesistente.
L’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n.
1444 prescrive che la distanza tra pareti finestrate di
edifici frontisti non sia inferiore a dieci metri per le
nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro
storico (zona A), posto che in questo ultimo -dove vige il
generale divieto di costruzioni "ex novo"- la norma si
limita a disporre che la distanza non sia inferiore a quella
intercorrente tra i volumi edificati preesistenti.
Per giurisprudenza unanime, la norma detta una prescrizione
tassativa e inderogabile, in quanto finalizzata alla
salvaguardia dell'interesse pubblico sanitario a mantenere
una determinata intercapedine tra gli edifici che si
fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata
(Cassazione civile sez. II, 27.05.2011, n. 11842).
La norma -emanata in forza dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l.
06.08.1967
n. 765– è dettata in materia inerente all'ordinamento
civile, rientrante, come tale, nella competenza legislativa
esclusiva dello Stato: essa non può, pertanto, trovare un
limite nella classificazione -differente rispetto a quella
prevista dall’art. 2 del d.m. n. 1444/1968- delle zone
omogenee in cui è articolato il territorio comunale
delineata all’art. 10, l.reg. Lombardia n. 12/2005, pena
l’incostituzionalità della legge regionale stessa.
Nel caso di specie, l’immobile non ricade nel centro storico
né all’interno del nucleo urbano di antica formazione (aree
in cui la facoltà di ampliamento in questione non è neppure
consentita dall’art. 3, c. 1, l.reg. Lombardia n. 13/2009),
zone che possono ritenersi corrispondenti alla zona A di cui
al d.m. n. 1444/1968: esso soggiace, pertanto alla norma
sulle distanze dettata all’art. 9, c. 1, n. 2.
Né, per escludere l’applicabilità della norma del d.m.
1444/1968 al caso di specie, può validamente invocarsi la
previsione di cui all’art. 103, l.reg. Lombardia n. 12/2005
e la qualificazione dell’intervento quale ristrutturazione e
non quale nuova costruzione.
L’art. 103, c. 1-bis, l.reg. Lombardia n. 12/2005, inserito
dalla l.reg. Lombardia n. 4/2008, dispone che “Ai fini
dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3,
degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le
disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444
(Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di
distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al
verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della
formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione
di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli
interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza
minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile
all'interno di piani attuativi”.
Questa norma deve essere interpretata conformemente a quanto
sostenuto dalla giurisprudenza, nel senso che rientrano
nella nozione di nuova costruzione ai fini del computo delle
distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione
di un manufatto su un'area libera, ma anche interventi,
quali quelli di ristrutturazione che, in ragione dell'entità
delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del
fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso
oggettivamente diversa da quella preesistente (cfr.: cass.
civ., sez. 2, sent. 27.04.2006, n. 9637; cass. civ.,
sez. 2, sent. 26.10.2000, n. 14128; TAR Milano
Lombardia sez. II, 10.12.2010, n. 7505).
L’intervento edilizio in questione, che prevede
l’ampliamento, entro il limite del 20% della volumetria
esistente, così come consentito dall’art. 3, c. 1 e 2, l.reg. Lombardia n. 13/2009, a prescindere dalla sua
qualificazione quale nuova costruzione o quale
ristrutturazione edilizia, porta indubbiamente alla
realizzazione di un’opera oggettivamente diversa da quella
preesistente: esso soggiace, pertanto, al limite di distanza
previsto all’art. 9, c. 1, n. 2, d.m. n. 1444/1968.
Attesa la legittimità del motivo di diniego legato al
contrasto con l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, gli ulteriori
motivi di ricorso –che si appuntano avverso le altre ragioni
di diniego addotte dall’amministrazione- anche ove fondati,
non porterebbero comunque all’annullamento dell’atto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.01.2013 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2012 |
|
EDILIZIA PRIVATA: L’articolo
9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza
di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici
antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di intercapedini
nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono
predeterminate con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità
nell'applicazione della disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi.
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in
questione non può essere derogato neppure nelle ipotesi in
cui fra due edifici preesistenti esista già un’intercapedine
limitata in altezza (nella fattispecie, si tratta
dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di
altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile
ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto,
laddove il nuovo edificio superi in altezza –e in modo
notevole– la preesistente cui aderisce, l’effetto è di
determinare una nuova e diversa intercapedine, riferita allo
sviluppo verticale dei due edifici e non soltanto al piano
terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a
distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a
realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di
luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo
complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere
dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione
si determina.
Al riguardo giova premettere che non è contestato in atti
che fra la parete sul lato nord dell’edificio realizzato
dall’appellante e l’edificio frontista del vicino esistesse
una distanza inferiore ai 10 metri, così come non è
contestato che, nell’area in cui ricade l’intervento, trovi
applicazione la previsione di cui all’art. 15, pt. 1), lett.
c), del P.R.G., il quale (in sostanziale continuità con la
generale previsione di cui all’articolo 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444) stabilisce che fra i fabbricati non può
in alcun caso esistere una distanza inferiore a 10 metri.
Ebbene, questo essendo lo stato di fatto e di diritto
sotteso alla vicenda di causa, il Collegio ritiene che la
questione debba essere risolta facendo applicazione del
consolidato orientamento secondo cui l’articolo 9 del d.m.
02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza di dieci
metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (in tal senso: Cons. Stato, IV,
02.11.2010, n. 7731; id., IV, 05.12.2005, n. 6909).
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in
questione non possa essere derogato neppure nelle ipotesi in
cui (come nel caso di specie) fra due edifici preesistenti
esista già un’intercapedine limitata in altezza (si tratta
dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di
altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile
ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto,
laddove (come nel caso in parola) il nuovo edificio superi
in altezza –e in modo notevole– la preesistente cui
aderisce, l’effetto è di determinare una nuova e diversa
intercapedine, riferita allo sviluppo verticale dei due
edifici e non soltanto al piano terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a
distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a
realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di
luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo
complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere
dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione
si determina
(Cons. Stato Sez. VI,
sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Distanza tra fabbricati e intercapedine
preesistente.
La preesistenza di un’intercapedine di circa 3,5 mt. fra il
manufatto cui è stato edificato in aderenza e il diverso
immobile ad uso abitativo appartenente ad altra persona non
esclude l’applicabilità delle disposizioni in materia di
distanze. Infatti, l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444,
dispone la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate
di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi,
trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e
pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi.
Al riguardo giova premettere che non è contestato in atti
che fra la parete sul lato nord dell’edificio realizzato
dall’appellante e l’edificio frontista del vicino esistesse
una distanza inferiore ai 10 metri, così come non è
contestato che, nell’area in cui ricade l’intervento, trovi
applicazione la previsione di cui all’art. 15, pt. 1), lett.
c), del P.R.G., il quale (in sostanziale continuità con la
generale previsione di cui all’articolo 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444) stabilisce che fra i fabbricati non può
in alcun caso esistere una distanza inferiore a 10 metri.
Ebbene, questo essendo lo stato di fatto e di diritto
sotteso alla vicenda di causa, il Collegio ritiene che la
questione debba essere risolta facendo applicazione del
consolidato orientamento secondo cui l’articolo 9 del d.m.
02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza di dieci
metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (in tal senso: Cons. Stato, IV,
02.11.2010, n. 7731; id., IV, 05.12.2005, n. 6909).
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in
questione non possa essere derogato neppure nelle ipotesi in
cui (come nel caso di specie) fra due edifici preesistenti
esista già un’intercapedine limitata in altezza (si tratta
dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di
altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile
ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto,
laddove (come nel caso in parola) il nuovo edificio superi
in altezza –e in modo notevole– la preesistente cui
aderisce, l’effetto è di determinare una nuova e diversa
intercapedine, riferita allo sviluppo verticale dei due
edifici e non soltanto al piano terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a
distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a
realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di
luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo
complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere
dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione
si determina (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’impianto
di ascensore –al pari di quelli serventi alle condotte
idriche, termiche etc. dell’edificio principale– rientra fra
i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle
esigenze tecnico-funzionali dell’immobile.
---------------
Circa la costruzione di un vano ascensore esterno al corpo
di fabbrica, non può il Comune denegare il rilascio del
permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze
di cui all’art. 873 cod. civ., applicandosi in ogni caso
l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2
dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001.
Innanzi tutto, il Collegio reputa fondato il primo motivo
di appello nella parte in cui si sostiene l’estraneità
dell’ascensore oggetto della richiesta di permesso di
costruire alla nozione di “costruzione” di cui
all’art. 873 cod. civ., e quindi l’inapplicabilità ad esso
delle disposizioni in tema di distanze dallo stesso poste.
Ed invero, alla stregua della giurisprudenza più recente
l’impianto di ascensore –al pari di quelli serventi alle
condotte idriche, termiche etc. dell’edificio principale–
rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici
strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell’immobile
(cfr. Cass. civ., sez. II, 03.02.2011, nr. 2566).
Ma, anche al di là di quanto sopra, appare condivisibile
l’impostazione sviluppata nel secondo mezzo, secondo
cui, nell’interpretazione dell’eccezione alla regola del
rispetto delle distanze posta dall’ultima parte del comma 2
dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può prescindersi
dal tener conto dell’inserimento della norma –come già
rilevato- all’interno della disciplina volta
all’eliminazione delle barriere architettoniche
nell’interesse dei soggetti portatori di handicap.
Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto
bilanciamento di interessi, come quello cui ha proceduto il
primo giudice (e al quale gli odierni appellanti,
soprattutto col terzo mezzo, contrappongono un opposto
bilanciamento), quanto soprattutto nell’accezione da dare a
locuzioni ed espressioni tecniche impiegate dal legislatore,
quali quella di “spazio o area di proprietà o di uso
comune”, le quali non possono essere recepite in
un’ottica strettamente civilistica, ma vanno calate
nell’ambito della normativa tecnica esistente in subiecta
materia.
Sotto tale profilo, soccorre il d.m. 14.06.1989, nr. 236,
contenente la normativa regolamentare a suo tempo adottata
in attuazione della legge 09.01.1989, nr. 13, e che ancora
oggi costituisce il riferimento dell’art. 79, d.P.R. nr. 380
del 2001 (nel quale la predetta legge è confluita).
L’art. 2 del citato decreto contiene una serie di
definizioni tecniche utili all’applicazione della normativa
de qua e, in particolare, qualifica come “spazio esterno
(...) l’insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di
pertinenza dell’edificio o di più edifici” (lett. F) e
come “parti comuni dell’edificio (...) quelle unità
ambientali che servono o che connettono funzionalmente più
unità immobiliari” (lett. E).
Applicando tali coordinate interpretative all’ultima parte
del comma 2 dell’art. 79, risulta chiaro come il
legislatore, nel far riferimento a spazi o aree “di
proprietà o di uso comune”, ha inteso richiamare non
soltanto il dato giuridico dell’esistenza di una
comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche il
semplice dato materiale dell’esistenza di uno spazio
comunque denominato, che per le sue caratteristiche si
presti a essere impiegato dai residenti di entrambi gli
immobili confinanti; ed è appena il caso di aggiungere che
la definizione della lettera E non presuppone affatto che le
“unità immobiliari” cui essa fa riferimento debbano
necessariamente essere parte di un medesimo edificio (ché,
anzi, dal combinato disposto di detta definizione con quella
di cui alla successiva lettera F si ricava che uno spazio
esterno comune può certamente interessare anche “più
edifici”).
Con riguardo al caso di specie, se è vero che il cortile
esistente fra i due immobili e nel quale dovrebbe insistere
l’ascensore per cui è causa non risulta essere in
comproprietà fra i due condomini, non risulta però
contraddetto l’assunto degli appellanti secondo cui esso
risulta de facto utilizzato materialmente e per la sua
interezza dai residenti di entrambi gli immobili; per vero,
il TAR si è limitato a rilevare l’esistenza di un confine
catastale che dividerebbe a metà il cortile medesimo, senza
però che questo risulti tagliato da muro o recinzioni (unico
elemento che sarebbe idoneo a escluderne l’ “uso comune”
nel senso sopra precisato).
Ne discende che non poteva il Comune denegare il rilascio
del permesso di costruire per il mancato rispetto delle
distanze di cui all’art. 873 cod. cov., applicandosi in ogni
caso l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2
dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.12.2012 n. 6253 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per “pareti finestrate",
ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei
regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono
intendersi, non solo le pareti munite di "vedute", ma più in
generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi
genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce), bastando altresì che sia
finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo
avvicinamento.
Deve tuttavia rilevarsi che, per il vaglio di fondatezza del
ricorso incidentale, basta fermarsi al dirimente
accertamento storico di una porta che (indipendentemente se
ora sostituita o da sostituire con una nuova finestra)
preesisteva sulla parete dei controinteressati allorquando
il ricorrente principale è stato (illegittimamente)
autorizzato a realizzare opere edilizie, in violazione delle
distanze legali.
Come correttamente evidenziato dal patrono incidentale,
infatti, per “pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m.
02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi
locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non
solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte
le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di
veduta o di luce), bastando altresì che sia finestrata anche
la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento (cfr.
Tar Lombardia -MI- n. 1419/2011, Tar Piemonte 2565/2008, TAR
Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734).
Pertanto, la circostanza accertata in giudizio di una
edificazione ad eccessivo ridosso della confinante parete
finestrata (nel caso di specie, porta del sottotetto) ha a
suo tempo postulato la violazione della normativa
inderogabile sulle distanze di cui al DM 1444/1968, con
conseguente illegittimità del permesso di costruire
rilasciato in sanatoria alla ricorrente principale (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 20.11.2012 n. 788 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il D.M. 02.04.1968 n.
1444 fissa i limiti "inderogabili" di distanza fra i
fabbricati e prevede all'art. 9 che tra i fabbricati debba
essere rispettata "in tutti i casi" la distanza minima
assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti. Lo stesso decreto, peraltro, ammette distanze
inferiori, solo relativamente alle ipotesi di
ristrutturazione in zone A e "nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni plano
volumetriche".
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è quella
non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie:
trattasi cioè di norma volta a impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario.
Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con
carattere cogente in via generale e astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
d’igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi.
Tale previsione è dunque, tassativa e inderogabile e può
essere derogata solo relativamente alle zone A e nel caso di
“strumenti attuativi con previsioni plano volumetriche"; si
tratta proprio del caso in esame, ricadendo l’immobile in
zona A interessata da un piano particolareggiato con
previsioni plano-volumetriche.
Al contrario, solo per gli edifici ricadenti in zona
territoriale diversa dalla A la distanza minima assoluta di
metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, prescritta ai sensi dell'art. 41-quinquies, l.
17.08.1942 n. 1150, modificato dall'art. 17, l. 06.08.1967
n. 765, e dell'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce
una prescrizione di carattere cogente e generale e comporta
altresì l'obbligo per il giudice di merito non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, nel caso di
strumenti urbanistici contrastanti, ma anche di applicare
direttamente la disposizione del menzionato art. 9, che, per
inserzione automatica, diviene parte integrante dello
strumento urbanistico, anche in sostituzione della eventuale
norma illegittima a disapplicata.
Va poi ricordato che il decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968 n. 1444, invocato da parte ricorrente,
fissa i limiti "inderogabili" di distanza fra i
fabbricati e prevede all'art. 9 che tra i fabbricati debba
essere rispettata "in tutti i casi" la distanza
minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti. Lo stesso decreto, peraltro, ammette
distanze inferiori, solo relativamente alle ipotesi di
ristrutturazione in zone A e "nel caso di gruppi di
edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni plano
volumetriche".
La ratio di tale normativa, come sembra evidente, è
quella non di tutela del diritto alla riservatezza, bensì di
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie:
trattasi cioè di norma volta a impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario.
Tali distanze tra costruzioni sono, cioè, predeterminate con
carattere cogente in via generale e astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
d’igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (Cons. St., sez. IV, 12.06.2007, n. 3094,
e 05.12.2005, n. 6909).
Tale previsione è dunque, tassativa e inderogabile e può
essere derogata solo relativamente alle zone A e nel caso di
“strumenti attuativi con previsioni plano volumetriche";
si tratta proprio del caso in esame, ricadendo l’immobile in
zona A interessata da un piano particolareggiato con
previsioni plano-volumetriche.
Al contrario, solo per gli edifici ricadenti in zona
territoriale diversa dalla A la distanza minima assoluta di
metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, prescritta ai sensi dell'art. 41-quinquies, l.
17.08.1942 n. 1150, modificato dall'art. 17, l. 06.08.1967
n. 765, e dell'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, costituisce
una prescrizione di carattere cogente e generale e comporta
altresì l'obbligo per il giudice di merito non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, nel caso di
strumenti urbanistici contrastanti, ma anche di applicare
direttamente la disposizione del menzionato art. 9, che, per
inserzione automatica, diviene parte integrante dello
strumento urbanistico, anche in sostituzione della eventuale
norma illegittima a disapplicata (Cass. Civ. sez. II
07.01.2010 n. 56) (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 15.11.2012 n. 411 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di un porticato chiuso (come nel caso di
specie) lateralmente su due lati (cfr. allegazioni
fotografiche prodotte dal ricorrente in atti del giudizio)
va a costituire una nuova superficie utile, essendo il
porticato destinato ad ospitare arredi fissi e, quindi, a
consentire di svolgervi in ipotesi varie attività della vita
quotidiana. Se ciò e vero e non si è dunque in presenza di
mera pertinenza, allora la costruzione del porticato
(terrazzato) deve necessariamente rispettare le distanze
previste dalle disposizioni attuative del piano regolatore
generale.
E regola generale è che la distanza tra costruzioni su fondi
finitimi va calcolata tenendo conto di qualsiasi elemento
che sporga da una di esse, addirittura non assumendo
rilevanza, ai fini dell'interesse tutelato dalla norma (nel
suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della
salubrità e dell'igiene), che lo sporto sia inadatto
all'incremento volumetrico o superficiario della costruzione
o che aggetti solo per una parte della facciata.
Quanto al “merito” della questione, occorre cominciare con
il rilevare che il porticato per cui è causa deve essere
considerato organismo edilizio avente natura e consistenza
tali da ampliare in superficie o volume l'edificio stesso
(si pensi alla sovrastante terrazza). Esso necessita dunque
di permesso di costruire ed in tal senso si è mosso invero
lo stesso ricorrente. Infatti, la realizzazione di un
porticato chiuso (come nel caso di specie) lateralmente su
due lati (cfr. allegazioni fotografiche prodotte dal
ricorrente in atti del giudizio) va a costituire una nuova
superficie utile, essendo il porticato destinato ad ospitare
arredi fissi e, quindi, a consentire di svolgervi in ipotesi
varie attività della vita quotidiana (cfr. TAR Napoli, VII
Sezione, 14.01.2011 n. 176). Se ciò e vero e non si è dunque
in presenza di mera pertinenza, allora la costruzione del
porticato (terrazzato) deve necessariamente rispettare le
distanze previste dalle disposizioni attuative del piano
regolatore generale (cfr. TAR Piemonte, 15.12.2004 n. 3585).
E regola generale è che la distanza tra costruzioni su fondi
finitimi va calcolata tenendo conto di qualsiasi elemento
che sporga da una di esse, addirittura non assumendo
rilevanza, ai fini dell'interesse tutelato dalla norma (nel
suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della
salubrità e dell'igiene), che lo sporto sia inadatto
all'incremento volumetrico o superficiario della costruzione
o che aggetti solo per una parte della facciata.
I 10 metri
di distanza tra fabbricati, prescritti dal regolamento
edilizio del Comune di Mileto, non vi sono tra il fabbricato
di altra ditta, che fronteggia quello di proprietà del
ricorrente, ed il porticato realizzando ma, sia pure di
misura, vi sono tra il detto fabbricato e la parte interna
del porticato (e cioè l’attuale muro esterno dell’edificio
di proprietà del ricorrente che sarebbe stato interessato
dalla richiesta realizzazione).
E tuttavia la distanza deve avere riguardo non già a detta
parte interna (del porticato ovvero esterna del fabbricato
per come è allo stato) ma alla linea del porticato, peraltro
terrazzato e che costituisce dunque pacificamente affaccio e
veduta verso altro fabbricato. Non sussiste, del pari e per
le medesime ragioni, la prescritta distanza minima dal
ciglio stradale, risultando peraltro ininfluente ai fini di
che trattasi la circostanza per cui si tratterebbe, allo
stato, di strada privata
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 10.11.2012 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
si sia, nel caso di specie, in presenza di una nuova
attività di allevamento, soggetta all’obbligo del rispetto
delle distanze minime imposto dal regolamento di igiene,
ovvero all’adeguamento, previo rilascio di una nuova
autorizzazione, di un’attività già esistente, legittimata a
continuare il suo esercizio anche in deroga all’obbligo
delle distanze minime.
---------------
Ai fini della verifica del rispetto delle distanze legali
tra edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale,
di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le
mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece,
computabili, rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e
corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi
abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la
consistenza del fabbricato. Ne deriva che anche il lato
esterno del portico deve, pertanto, essere considerato al
fine della verifica del rispetto della distanza minima.
Peraltro deve tenersi in debito conto il concetto generale
in materia edilizia, in ragione del quale, per la sua natura
e consistenza costituisce "nuova costruzione" ex art. 3,
lettera e5), d.p.r. n. 380/2001 che esclude dall'ambito
applicativo della norma i soli manufatti che,
indipendentemente dalla loro amovibilità, "non siano diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee".
Al fine della definizione della controversia in esame,
attinente al lamentato mancato rispetto delle distanze
minime intercorrenti tra l’abitazione del ricorrente e
l’allevamento controinteressato, deve, in primo luogo,
risolversi la querelle se si sia, nel caso di specie, in
presenza di una nuova attività di allevamento, soggetta
all’obbligo del rispetto delle distanze minime imposto dal
regolamento di igiene, ovvero all’adeguamento, previo
rilascio di una nuova autorizzazione, di un’attività già
esistente, legittimata a continuare il suo esercizio anche
in deroga all’obbligo delle distanze minime.
A tal fine viene in soccorso il regolamento di igiene
comunale. Esso ammette gli ampliamenti di allevamenti
esistenti e dismessi da meno di tre anni, purché nel
rispetto delle distanze preesistenti. Se, dunque, la deroga
all’obbligo delle distanze minime è ammessa nel caso di
ampliamenti di stabilimenti già esistenti, purché entro il
termine massimo di tre anni dalla loro chiusura e a
condizione che non intervengano variazioni nelle distanze
già esistenti, deve presumersi che la stessa possa, a
maggior ragione, trovare applicazione anche nel caso in cui
lo stabilimento non sia stato ampliato, ma solo adeguato
alla sopravvenuta normativa attraverso un complesso iter che
ha conosciuto una molteplice serie di solleciti e proroghe
di termini e la successiva declaratoria di decadenza
dall’originaria autorizzazione, cui ha fatto seguito, però,
il rilascio di una nuova autorizzazione al suo esercizio.
Invero, nel caso di specie, appare ragionevole ritenere che
un ampliamento vi sia in concreto stato, dal momento che
sono stati realizzati ex novo quattro box esterni in
sostituzione di quelli preesistenti e il cui utilizzo era
stato negato dall’autorizzazione del 2001. Peraltro, a
prescindere dal fatto che vi sia stato, o meno, nel caso di
specie, un ampliamento (accertamento di per sé irrilevante,
dal momento che la norma comunque lo ammetterebbe) ciò che
appare determinante è che dal regolamento richiamato si deve
desumere che, per quanto di rilievo, un’autorizzazione non
può essere considerata “nuova” se non dopo almeno tre anni
dalla dismissione del precedente allevamento.
In altre parole, il fatto che l’edificio fosse già adibito
ad allevamento è sufficiente a rendere possibile la ripresa
dell’attività, nel rispetto delle distanza preesistenti ed
entro il termine massimo di tre anni dalla dismissione, a
prescindere dal fatto che l’esercizio dell’attività sia
stato continuativamente autorizzato o, al contrario,
interrotto.
Nel caso di specie risulta rispettata la prima condizione,
essendo stata rilasciata la nuova dichiarazione a pochi
giorni di distanza dalla decadenza della originaria. Né può
rilevare in senso contrario il cambio di denominazione
subito dall’azienda agricola esercitante l’attività di
allevamento in questione.
Chiarito, dunque, che ci si trova in presenza di un
allevamento “esistente”, si rende allora necessario
verificare il rispetto della seconda condizione e cioè se la
preesistente distanza dall’abitazione del ricorrente sia
stata rispettata e non anche ulteriormente ridotta, come
invece lamentato da parte ricorrente.
Nell’ottica di tale verifica viene in rilievo il par. 3.10.5
del regolamento d’igiene, il quale prevede che, ai fini del
rispetto delle distanze minime, l’allevamento debba essere
considerato come il perimetro dei fabbricati adibiti a
ricovero.
Ci si deve, però, allora, interrogare sul concetto di
“perimetro”.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in
materia, “ai fini della verifica del rispetto delle distanze
legali tra edifici, non sono computabili le sporgenze
estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente
ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità
(come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono,
invece, computabili, rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e
corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi
abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la
consistenza del fabbricato” (Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2010, n. 424; Corte appello Brescia, sez. II, 18.05.2009; Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n.
3539). Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve,
pertanto, essere considerato al fine della verifica del
rispetto della distanza minima.
Peraltro deve tenersi in debito conto il concetto generale
in materia edilizia, in ragione del quale, per la sua natura
e consistenza costituisce "nuova costruzione" ex art. 3,
lettera e5), d.p.r. n. 380/2001 che esclude dall'ambito
applicativo della norma i soli manufatti che,
indipendentemente dalla loro amovibilità, "non siano diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee".
Il Collegio ritiene, pertanto, che sia escluso che i box
esterni, per il solo fatto di essere stati realizzati in
rete metallica, non debbano essere considerati ai fini del
rispetto delle distanze minime o non possano essere, in
linea di principio, riconducibili al concetto di ampliamento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1766 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della verifica del rispetto delle distanze legali tra
edifici, non sono computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale,
di rifinitura o accessoria di limitata entità (come le
mensole, i cornicioni, le grondaie e simili); sono, invece,
computabili, rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti dell'edificio (quali scale, terrazze e
corpi avanzati) che, benché non corrispondano a volumi
abitativi coperti, siano destinati a estendere e ampliare la
consistenza del fabbricato.
Ne deriva che anche il lato esterno del portico deve,
pertanto, essere considerato al fine della verifica del
rispetto della distanza minima.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in
materia, “ai fini della verifica del rispetto delle
distanze legali tra edifici, non sono computabili le
sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione
meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di
limitata entità (come le mensole, i cornicioni, le grondaie
e simili); sono, invece, computabili, rientrando nel
concetto civilistico di costruzione, le parti dell'edificio
(quali scale, terrazze e corpi avanzati) che, benché non
corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati a
estendere e ampliare la consistenza del fabbricato”
(Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2010, n. 424; Corte appello
Brescia, sez. II, 18.05.2009; Consiglio Stato, sez. IV,
30.06.2005, n. 3539). Ne deriva che anche il lato esterno
del portico deve, pertanto, essere considerato al fine della
verifica del rispetto della distanza minima
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 07.11.2012 n. 1766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: E.
Boscariol,
Le distanze in edilizia
(Il Tecnico Legale n. 17/2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'osservanza
delle disposizioni in materia di distanze tra edifici, non
rileva l'eventuale carattere abusivo delle opere realizzate
sul fondo confinante. Ciò, in quanto le disposizioni sulle
distanze tra le costruzioni sono preordinate non solo alla
tutela degli interessi dei proprietari frontisti, ma, in una
più ampia prospettiva, anche alla salvaguardia di esigenze
generali, tra cui la salubrità e la sicurezza pubblica.
Pertanto, l'interesse pubblico primario tutelato dalle norme
urbanistiche sulle distanze impone di prendere in
considerazione la situazione di fatto quale si presenta in
concreto in sede di rilascio di un nuovo titolo edilizio, a
nulla rilevando che taluno dei fabbricati preesistenti, in
relazione al quale va calcolata la distanza, presenti
connotati di abusività.
Contrariamente alla tesi propugnata da parte ricorrente,
ai fini dell'osservanza delle disposizioni in materia di
distanze tra edifici, non rileva l'eventuale carattere
abusivo delle opere realizzate sul fondo confinante. Ciò, in
quanto le disposizioni sulle distanze tra le costruzioni
sono preordinate non solo alla tutela degli interessi dei
proprietari frontisti, ma, in una più ampia prospettiva,
anche alla salvaguardia di esigenze generali, tra cui la
salubrità e la sicurezza pubblica.
Pertanto, l'interesse
pubblico primario tutelato dalle norme urbanistiche sulle
distanze impone di prendere in considerazione la situazione
di fatto quale si presenta in concreto in sede di rilascio
di un nuovo titolo edilizio, a nulla rilevando che taluno
dei fabbricati preesistenti, in relazione al quale va
calcolata la distanza, presenti connotati di abusività (cfr.
Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 12.11.2008, n.
930; TAR Campania, Napoli, sez. III, 12.07.2005, n.
9499; sez. II, 02.12.2009, n. 8326)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 30.10.2012 n. 4328 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel
disporre che <alle costruzioni che si fanno in confine con
le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme
relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i
regolamenti che le riguardano>, intende significare che, in
presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione
di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla
normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e
negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse
pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla
strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua
disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti
urbanistico-edilizi, tra i quali -per l’appunto- il D.M.
1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono ammesse, in
deroga, “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto
di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M. 1444/1968),
cioè soltanto se previste –a loro volta- in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario
(cioè, che contempli la contestuale edificazione degli
edifici antistanti) di determinate zone del territorio.
In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è
dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita
dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici
antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante,
in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di
natura urbanistica, superiore a quello individuale dei
proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente
tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle
costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879 comma 2
c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse
integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto
alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i
regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si
applica in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui limiti di
distanza tra i fabbricati ricadenti in zone territoriali
diverse dalla zona A, costituisce un principio assoluto ed
inderogabile … che prevale –ad un tempo- sia sulla potestà
legislativa regionale, in quanto integra la disciplina
privatistica delle distanze (C. Cost., 16.06.2005, n. 232),
sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni,
in quanto deriva da una fonte normativa statale
sovraordinata, sia, infine, sull'autonomia negoziale dei
privati, in quanto tutela interessi pubblici che, per loro
natura, non sono nella disponibilità delle parti.
Esso, inoltre, è applicabile anche quando tra le pareti
finestrate (o tra una parete finestrata e una non
finestrata) si interponga una via pubblica. La fattispecie è
specificamente regolata dal comma 2 del medesimo art. 9, che
prescrive in questo caso distacchi addirittura maggiorati in
relazione alla larghezza della strada, con la precisazione
che l'esclusione della viabilità a fondo cieco prevista
nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e non alla
distanza minima assoluta di 10 metri, che rimane
inderogabile.
In conclusione, in presenza di pareti finestrate poste a
confine con la via pubblica, non è mai ammissibile la deroga
prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le distanze tra
edifici.
RITENUTO, altresì, che è fondato anche il quarto motivo di
ricorso, nella parte in cui si deduce, che, nel caso di
specie, non potrebbe trovare applicazione, in funzione
derogatoria della distanza minima di 10 metri di cui al D.M.
1444/1968, l’art. 879, comma 2, cod. civ..
Il Collegio ritiene, infatti, condivisibile, anche riguardo
al caso di specie, l’orientamento giurisprudenziale secondo
cui “la disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel
disporre che <alle costruzioni che si fanno in confine con
le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme
relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i
regolamenti che le riguardano>, intenda significare che, in
presenza di una strada pubblica, non si fa tanto questione
di tutelare un diritto soggettivo privato (tutelato dalla
normativa codicistica sulle distanze, rinunciabile e
negoziabile), ma di perseguire il preminente interesse
pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla
strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua
disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti
urbanistico-edilizi, tra i quali -per l’appunto- il D.M.
1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono ammesse, in
deroga, “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto
di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M. 1444/1968),
cioè soltanto se previste –a loro volta- in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario
(cioè, che contempli la contestuale edificazione degli
edifici antistanti) di determinate zone del territorio
(Cons. di St., IV, 12.03.2007, n. 1206).
In presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è
dunque consentito derogare alla distanza minima stabilita
dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici
antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante,
in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di
natura urbanistica, superiore a quello individuale dei
proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente
tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle
costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879 comma 2
c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse
integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto
alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i
regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si
applica in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui limiti di
distanza tra i fabbricati ricadenti in zone territoriali
diverse dalla zona A, costituisce un principio assoluto ed
inderogabile … che prevale –ad un tempo- sia sulla potestà
legislativa regionale, in quanto integra la disciplina
privatistica delle distanze (C. Cost., 16.06.2005, n. 232),
sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni
(Cons. di St., IV, 02.11.2010, n. 7731), in quanto deriva da
una fonte normativa statale sovraordinata, sia, infine,
sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela
interessi pubblici che, per loro natura, non sono nella
disponibilità delle parti.
Esso, inoltre, è applicabile anche quando tra le pareti
finestrate (o tra una parete finestrata e una non
finestrata) si interponga una via pubblica. La fattispecie è
specificamente regolata dal comma 2 del medesimo art. 9, che
prescrive in questo caso distacchi addirittura maggiorati in
relazione alla larghezza della strada, con la precisazione
che l'esclusione della viabilità a fondo cieco prevista
nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e non alla
distanza minima assoluta di 10 metri, che rimane
inderogabile.
In conclusione, in presenza di pareti finestrate poste a
confine con la via pubblica, non è mai ammissibile la deroga
prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le distanze tra
edifici (così TAR Lombardia, Brescia, I, 03.07.2008, n. 788;
nello stesso senso, più recentemente, Tribunale di Teramo,
10.01.2011, n. 4)” (TAR Liguria, Genova, I, 20.07.2011,
n. 1148)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 17.10.2012 n. 2049 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per quanto concerne la distanza tra edifici, la
normativa civilistica esclude dal calcolo gli elementi
ornamentali e gli aggetti di minima entità.
Per quanto concerne la distanza
tra edifici, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che
la normativa civilistica escluda dal calcolo gli elementi
ornamentali e gli aggetti di minima entità (ex plurimis:
Cass.civ., II, 22.07.2010 n. 17242; TAR Lombardia, Milano,
IV, 04.05.2011 n. 1174).
In tal senso si colloca la norma regolamentare vigente a
Velletri (art. 103.1 del regolamento edilizio), la quale,
richiamando le disposizioni del codice civile, determina la
distanza tra fabbricati nella lunghezza del segmento minimo
congiungente la parte più sporgente e quella prospiciente,
esclusi gli aggetti di copertura, gli elementi ornamentali,
le pensiline e i balconi a sbalzo fino a 1 ml, ecc., che non
concorrono alla determinazione della sagoma dell’edificio.
La norma non presenta aspetti di irrazionalità, mentre
appare generica la censura di parte ricorrente
(TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 10.10.2012 n. 8371 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza, laddove afferma il carattere inderogabile
della prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. 1444 del 1968
e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti
edilizi di fonte comunale, impone l’applicazione della
relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola
delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che
l’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello
della salubrità dell’edificato, da non confondersi con
l’interesse privato del frontista a mantenere la
riservatezza o la prospettiva.
---------------
Il Collegio evidenzia pure che la giurisprudenza ritiene
applicabile in via analogica la norma della distanza minima
assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate anche
nelle zone A nelle ipotesi di nuova edificazione: ipotesi
che, peraltro, ragionevolmente non può estendersi ai casi
nei quali l’edificazione avviene nel contesto di un Piano di
Recupero.
Il Collegio
non sottace a tale riguardo che la giurisprudenza, laddove
afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui
all’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 e cogente per tutti gli
strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte
comunale, impone l’applicazione della relativa disciplina
anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata (cfr. sul punto, ad es., Cons.
Stato, Sez. IV, 12.07.2007 n. 3094), posto che
l’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello
della salubrità dell’edificato, da non confondersi con
l’interesse privato del frontista a mantenere la
riservatezza o la prospettiva (cfr. ibidem).
Tuttavia, dall’esame del dato letterale dell’art. 9 risulta
che per le zone di tipo A, in cui ricade l’ambito del Piano
di Recupero contemplante la realizzazione dell’edificio da
parte di C.S.T., “per le operazioni di risanamento
conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le
distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a
quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti,
computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di
epoca recente e prive di valore storico, artistico o
ambientale”, nel mentre soltanto per i “nuovi edifici
ricadenti in altre zone …è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti”.
A questo punto il Collegio evidenzia pure che la
giurisprudenza ritiene applicabile in via analogica la norma
della distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti
finestrate anche nelle zone A nelle ipotesi di nuova
edificazione (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez.
IV, 27.01.2003 n. 419): ipotesi che, peraltro,
ragionevolmente non può estendersi ai casi nei quali -come,
per l’appunto, nell’evenienza in esame- l’edificazione
avviene nel contesto di un Piano di Recupero, atteso che gli
edifici preesistenti di cui si è già detto al § 5.2.2. erano
addossati all’anzidetta parete non finestrata dell’edificio
di proprietà dei Ferrario
(Cons. Stato Sez. IV,
sentenza 09.10.2012 n. 5253 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Secondo giurisprudenza consolidata:
- nella fattispecie disciplinata dagli artt. 873 e seguenti
del codice civile, in applicazione del principio di
prevenzione gli stessi attribuiscono a chi edifica per primo
una triplice facoltà alternativa: a) costruire sul confine;
b) costruire con il distacco previsto dalla normativa
vigente; c) costruire con distacco inferiore alla metà della
distanza minima prescritta, salva la possibilità per il
vicino di costruire successivamente avanzando la propria
fabbrica fino a quella preesistente, pagando la metà del
valore del muro del vicino che diventerà comune, oltreché il
valore del suolo occupato per effetto dell’avanzamento della
fabbrica ovvero arretrare la costruzione sino a rispettare
la maggiore intera distanza imposta dallo strumento
urbanistico;
- la realizzazione di strutture in muratura, pur sovrastate
da una terrazza, per il loro carattere di stabilità e
permanenza costituiscono intervento di sopraelevazione che
rappresenta una vera e propria “costruzione” in relazione
alla quale deve trovare applicazione la disciplina del
codice civile sulle distanze legali;
- la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di
edifici antistanti, prevista dall’art. 9, D.M. 02.04.1968 n.
1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare,
sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti
verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi
in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei
generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano
quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero
fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso
abitativo;
- per “pareti finestrate”, ai sensi dell’art. 9 D.M.
02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi
locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di “vedute”, ma più in generale
tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso
l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di
veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia
finestrata anche una sola delle due pareti.
La ricorrente censura il permesso di costruire da ultimo
rilasciato sostenendo, a ragione, che, per quanto concerne
il nuovo manufatto costruito sul confine, limitatamente alla
parte che fuoriesce sia in altezza, rispetto al piano di
copertura, che in larghezza rispetto al box di proprietà in
adesione del quale è costruito e che, come tale, fronteggia
la facciata finestrata del proprio fabbricato, il titolo sia
stato rilasciato in violazione dell’art. 9 del D.M. n.
1444/1968 (ora art. 136 del d.P.R. n. 380/2001), per
violazione delle distanze legali tra gli edifici (m. 10) e
delle distanze degli edifici rispetto al confine (m. 5).
In particolare, deduce parte ricorrente che avendo la
medesima costruito per prima a una distanza inferiore dal
confine (a circa m. 4,10, per quanto riguarda l’edificio, e
sul confine, per quanto concerne il box), per il principio
di prevenzione temporale, dovrebbe essere la confinante
controinteressata a dovere arretrare, con la sola esclusione
della parte costruita sul confine in aderenza al citato box
e per la relativa altezza ed estensione.
Invero, secondo giurisprudenza consolidata:
- in tale ultimo caso si versa in ipotesi del tutto analoga
a quella disciplinata dagli artt. 873 e seguenti del codice
civile, che in applicazione del principio di prevenzione
attribuisce a chi edifica per primo una triplice facoltà
alternativa: a) costruire sul confine; b) costruire con il
distacco previsto dalla normativa vigente; c) costruire con
distacco inferiore alla metà della distanza minima
prescritta, salva la possibilità per il vicino di costruire
successivamente avanzando la propria fabbrica fino a quella
preesistente, pagando la metà del valore del muro del vicino
che diventerà comune, oltreché il valore del suolo occupato
per effetto dell’avanzamento della fabbrica ovvero arretrare
la costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza
imposta dallo strumento urbanistico (Cass. Civ. sez. II,
07.08.2002, n. 11899; Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2009,
n. 1998);
- la realizzazione di strutture in muratura, pur sovrastate
da una terrazza, per il loro carattere di stabilità e
permanenza costituiscono intervento di sopraelevazione che
rappresenta una vera e propria “costruzione” in
relazione alla quale deve trovare applicazione la disciplina
del codice civile sulle distanze legali (Consiglio Stato,
sez. IV, 31.03.2009, n. 1998);
- la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di
edifici antistanti, prevista dall’art. 9, D.M. 02.04.1968 n.
1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo
di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare,
sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti
verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi
in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei
generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano
quindi destinate anche a estendere e ampliare per l’intero
fronte dell’edificio la parte utilizzabile per l’uso
abitativo (Cons. di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909);
- per “pareti finestrate”, ai sensi dell’art. 9 D.M.
02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi
locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di “vedute”, ma più in
generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi
genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che
basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti
(Corte d’Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze,
sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino,
10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV,
07.06.2011, n. 1419)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 28.09.2012 n. 1624 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La disposizione di cui
all’art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo
volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì
alla salvaguardia d’imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non
solo impone al proprietario dell’area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno
dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il
caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere
mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre
antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle
previsioni dell’art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i
Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti
urbanistici con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è
illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o
comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione
con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata,
atteso che l’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua
natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni
contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
Secondo giurisprudenza
consolidata, dal cui orientamento il Collegio non ravvisa
valide ragioni per discostarsi, la disposizione di cui
all’art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo
volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì
alla salvaguardia d’imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non
solo impone al proprietario dell’area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno
dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il
caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere
mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre
antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle
previsioni dell’art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i
Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti
urbanistici con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è
illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o
comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione
con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata,
atteso che l’art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua
natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni
contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione
(Cons. di Stato, sez. IV, 27.10.2011, n. 5759; Idem,
12.06.2007, n. 3094)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 28.09.2012 n. 1624 -
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EDILIZIA
PRIVATA: La
giurisprudenza ha di recente precisato la natura di norma
cogente che va ascritta al’art. 9 del D.M. n. 1444/1968,
che costituisce fonte primaria alla quale gli strumenti
urbanistici locali debbono conformarsi e che ha attitudine
sostitutiva di eventuali norme locali difformi.
Si è infatti precisato che “Sono inderogabili le
prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444
(che prevede la necessità per le costruzioni di rispettare
una distanza di 10 metri tra pareti finestrate); tali
prescrizioni non possono essere disattese dalle normative
urbanistiche locali ed i Comuni sono obbligati -in caso di
redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a
non discostarsi dalle regole fissate dalla citata norma, le
quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con
esse in contrasto.”
Conseguendone anche che “Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 è una
fonte sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici ed
ai regolamenti edilizi comunali, e contiene norme
inderogabili, di ordine pubblico; in caso di contrasto dei
regolamenti edilizi comunali con le prescrizioni del citata
decreto, il giudice deve disapplicare i regolamenti
contrastanti, applicando, in via di sostituzione, la fonte
statale imperativa.
Orbene, l’art. 51 delle NTA al regolamento
urbanistico del resistente Comune, stabilisce a chiare note
che “la distanza tra fabbricati (muniti di pareti
finestrate, n.d.s.) non deve essere inferiore a quella
prescritta dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444”.
Non è chi non veda dunque, che si è al cospetto di un rinvio
integrale alla disposizione sulle distanze legali tra pareti
finestrate recata dal richiamato art. 9 del D.M. n.
1444/1968, il quale si applica in toto alla fattispecie la
vaglio della Sezione.
Va all’uopo rammentato che la giurisprudenza ha di recente
precisato la natura di norma cogente che va ascritta al’art.
9 del D..M. n. 1444/1968, che costituisce fonte primaria alla
quale gli strumenti urbanistici locali debbono conformarsi e
che ha attitudine sostitutiva di eventuali norme locali
difformi.
Si è infatti precisato che “Sono inderogabili le
prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444 (che prevede la necessità per le costruzioni di
rispettare una distanza di 10 metri tra pareti finestrate);
tali prescrizioni non possono essere disattese dalle
normative urbanistiche locali ed i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti
urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate dalla
citata norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti
locali siano con esse in contrasto.”
Conseguendone anche che
“Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 è una fonte sovraordinata
rispetto agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi comunali, e contiene norme inderogabili, di ordine
pubblico; in caso di contrasto dei regolamenti edilizi
comunali con le prescrizioni del citata decreto, il giudice
deve disapplicare i regolamenti contrastanti, applicando, in
via di sostituzione, la fonte statale imperativa“ (TAR
Piemonte, Sez. I, 10.10.2008 n. 2565, in termini già
Cass. civile, Sez. II, 03.03.2008, n. 5741). Nel senso che
gli strumenti urbanistici non possono infrangere le
previsioni di cui al D.M. n. 1444/1968, cfr. già TAR
Liguria, Sez. I, 07.03.2008, n. 379
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.08.2012 n. 1483 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA
PRIVATA:
Ascensore a distanza
ravvicinata.
Sì all'impianto in deroga alla vicinanza minima
dall'immobile. La Cassazione:
l'opera abbatte le barriere architettoniche ed è funzionale
all'abitabilità.
L'installazione dell'ascensore in un edificio condominiale,
in quanto opera finalizzata all'abbattimento delle
cosiddette barriere architettoniche e necessaria per la
piena ed effettiva abitabilità di un appartamento, può
avvenire anche senza il rispetto delle distanze legali tra
immobili.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della
Corte di Cassazione nella recente
sentenza
03.08.2012 n. 14096.
Il caso concreto. Nella specie l'assemblea di un condominio
aveva deliberato l'avvio di opere volte all'installazione di
un impianto di ascensore esterno all'edificio e che avrebbe
occupato una parte del cortile, venendo a trovarsi a
distanza inferiore ai tre metri previsti dalla legge (art.
907 c.c.) rispetto alle finestre di alcuni appartamenti.
Alcuni dei rispettivi proprietari avevano quindi impugnato
giudizialmente la delibera condominiale sia per la predetta
lesione del diritto di veduta sia per il pregiudizio che
tale opera avrebbe comportato per il decoro architettonico
dell'edificio.
Il tribunale, tuttavia, aveva respinto il
ricorso, qualificando l'ascensore quale impianto necessario
all'effettiva abitabilità di un immobile, al pari di quelli
di acqua, luce e gas, come tale non sottostante al regime
civilistico delle distanze legali. Di avviso contrario era
però stata la corte d'appello presso la quale i condomini
avevano deciso di impugnare la decisione di primo grado, che
aveva invece ritenuto pienamente applicabile nella specie il
disposto di cui all'art. 907 c.c.. Infatti, secondo il
giudice di secondo grado, poiché l'art. 2 della legge n.
13/1989 sull'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche
impone in ogni caso il rispetto della destinazione delle
parti comuni (art. 1120, comma 2, c.c.), a maggior ragione
deve ritenersi che tale norma non consenta di recare
pregiudizio alle proprietà esclusive.
Inoltre, sempre
secondo la corte di merito, sarebbe stata la stessa legge or
ora richiamata, laddove all'art. 3 si deroga espressamente
al rispetto delle distanze previste dai regolamenti locali,
senza fare alcuna menzione delle distanze minime previste
dal codice civile, a rendere applicabili anche in materia
condominiale le disposizioni in materia di vedute.
La decisione della Suprema corte.
La decisione della corte di appello è quindi stata portata
all'esame della Cassazione dal condominio, che reclamava la
piena legittimità della deliberazione assembleare. E la
Suprema corte, a sua volta, ha completamente ribaltato le
argomentazioni giuridiche seguite dai giudici di merito,
annullando la sentenza impugnata e stabilendo una serie di
interessanti principi in materia di installazione degli
ascensori e abbattimento delle c.d. barriere
architettoniche.
In estrema sintesi, i giudici di legittimità hanno infatti
ritenuto che la normativa sulle distanze legali, per quanto
applicabile anche in ambito condominiale (seppure in via
subordinata alla disciplina delle cose comuni di cui
all'art. 1102 c.c.), non opera nei confronti di quegli
impianti, tra i quali è sicuramente compreso anche
l'ascensore, che siano necessari all'effettiva abitabilità
di un immobile.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l'applicabilità della
normativa in materia di vedute anche in ambito condominiale
non può ritenersi implicitamente confermata dal predetto
art. 3 della legge n. 13/1989 che, contrariamente a quanto
ritenuto nella specie dai giudici di appello, riguarda
soltanto i rapporti tra immobili confinanti appartenenti a
diversi proprietari e non anche le ipotesi di condominio
degli edifici (articolo ItaliaOggi
Sette del 27.08.2012). |
EDILIZIA-PRIVATA:
L'edificazione di abbaini sul
tetto, contraddistinti da rilevanti
dimensioni tali da trasformare la struttura
preesistente, con conseguente creazione di
nuovi spazi interni dapprima non
utilizzabili per esigenze abitative,
comporta aumento di volumetria, incidendo
significativamente sulla sagoma
dell'edificio. Del resto, la realizzazione
di tali nuove strutture coperte laddove
prima esse non esistevano, implica una
radicale trasformazione della sagoma del
tetto.
Le opere così realizzate, pertanto, proprio
in virtù della loro rilevanza edilizia, non
possono considerarsi sottratte all'obbligo
generale del rispetto delle distanze. Ed
infatti, gli aumenti della volumetria o
delle superfici occupate, in relazione
all'originaria sagoma di ingombro, anche
qualora siano definiti come
ristrutturazione, sono rilevanti ai fini del
computo delle distanze rispetto agli edifici
contigui, come previste dagli strumenti
urbanistici locali.
---------------
Le distanze tra edifici, anche in relazione
a quanto previsto dal d.m. n. 1444 del 1968,
vanno calcolate con riferimento ad ogni
punto dei fabbricati e non alle sole parti
che si fronteggiano e a tutte le pareti
finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano
o meno in posizione parallela.
Nel merito si deve osservare, innanzi tutto,
che l’edificazione dei cinque “abbaini”
sul tetto dell’edificio di proprietà del
controinteressato ha determinato un’evidente
alterazione della sagoma di esso insieme ad
un innegabile avanzamento (nonché
innalzamento) della struttura coperta. Sono
stati, infatti, ricavati cinque spazi chiusi
innestati sulla superficie curva del tetto
con altrettante strutture aventi
pavimentazione piana, che fuoriescono
notevolmente dalla struttura preesistente,
con altezza pari a m. 3,20 (cfr. tavola n.
3/5 del progetto: doc. n. 20 del
controinteressato) tale da poter essere
sfruttata anche per esigenze abitative.
Deve, in proposito, richiamarsi la
giurisprudenza amministrativa dominante,
secondo la quale l’edificazione di abbaini
sul tetto, caratterizzati da rilevanti
dimensioni tali da trasformare la struttura
preesistente, con conseguente creazione di
nuovi spazi interni dapprima non
utilizzabili per esigenze abitative,
comporta aumento di volumetria ed incide
significativamente sulla sagoma
dell’edificio (cfr. ex multis: TAR
Veneto, sez. II, n. 1692 del 2003; Cons.
Stato, sez. V, n. 689 del 1996; TAR
Campania, Napoli, sez. VII, n. 13309 del
2010).
Non può avere rilevanza, in proposito,
quanto eccepiscono in fatto
l’amministrazione resistente e il
controinteressato, ossia che le cinque nuove
strutture non fuoriescono né rispetto al
filo di gronda né rispetto al colmo del
tetto: se ciò è vero, è anche vero però che
sono state realizzate nuove strutture
coperte laddove prima esse non esistevano,
ossia previa occupazione di spazi (sia verso
l’esterno, sia verso l’alto) prima liberi,
con conseguente radicale trasformazione
della sagoma del tetto.
Le opere così realizzate, pertanto, proprio
per effetto della loro rilevanza edilizia,
non potevano non considerarsi sottratte
all’obbligo generale del rispetto delle
distanze: come si precisa in giurisprudenza,
infatti, gli aumenti della volumetria o
delle superfici occupate, in relazione
all’originaria sagoma di ingombro, anche
qualora siano definiti come “ristrutturazione”,
sono rilevanti ai fini del computo delle
distanze rispetto agli edifici contigui,
come previste dagli strumenti urbanistici
locali (cfr., ad es.: Cassaz. civ., sez.
un., n. 21578 del 2011; TAR Lombardia,
Milano, sez. II, n. 7505 del 2010; TAR
Liguria, sez. I, n. 3566 del 2009).
L’assunto, del resto, trova conferma anche
in quelle pronunce giurisprudenziali (come
Cons. Stato, sez. IV, n. 5490 del 2011,
invocata dall’amministrazione resistente)
che, pur ricordando che gli interventi di
ristrutturazione effettuati sopra un
manufatto già esistente non impongono il
rispetto delle distanze minime, evidenziano
però l’inoperatività di tale “principio”
allorché risulti essere stata realizzata “un'opera
difforme da quella preesistente per sagoma,
volume e superficie, anche in termini di
ampliamento e sopraelevazione” (così,
per l’appunto, Cons. Stato n. 5490 del 2011,
cit.), come è avvenuto nel caso oggetto del
presente giudizio.
---------------
Quanto, poi, all’ulteriore circostanza di
fatto (evidenziata dal controinteressato)
che i due edifici “non si fronteggiano e
non vi è pericolo di creazione di
intercapedini nocive”, si deve comunque
osservare che le distanze tra edifici, anche
in relazione a quanto previsto dal d.m. n.
1444 del 1968, vanno calcolate con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e
non alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal
fatto che esse siano o meno in posizione
parallela (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, n. 7731 del 2010 e n. 6909
del 2005) (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 05.07.2012 n. 807 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
d.m. 02.04.1968 n. 1444, che fissa i limiti
“inderogabili” di distanza fra i fabbricati,
prevede all’art. 9 che tra i fabbricati
debba rispettata “in tutti i casi” la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti,
con possibilità di ammettere distanze
inferiori, solo relativamente alle ipotesi
di ristrutturazione in zone A e “nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di
piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni plano
volumetriche”.
La ratio di tale normativa, come sembra
evidente, è quella non di tutela del diritto
alla riservatezza, bensì di salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie:
trattasi cioè di norma volta ad impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario. Tali distanze
tra costruzioni sono, cioè, predeterminate
con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e
di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità
nell’applicazione della disciplina in
materia di equo contemperamento degli
opposti interessi.
Va, invero, rilevato che il decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 n.
1444, che fissa i limiti “inderogabili”
di distanza fra i fabbricati, prevede
all’art. 9 che tra i fabbricati debba
rispettata “in tutti i casi” la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti,
con possibilità di ammettere distanze
inferiori, solo relativamente alle ipotesi
di ristrutturazione in zone A e “nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di
piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni plano
volumetriche”.
La ratio di tale normativa, come
sembra evidente, è quella non di tutela del
diritto alla riservatezza, bensì di
salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie: trattasi cioè di norma
volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario. Tali distanze tra
costruzioni sono, cioè, predeterminate con
carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e
di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità
nell’applicazione della disciplina in
materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (Cons. St., sez. IV,
12.06.2007, n. 3094, e 05.12.2005, n. 6909)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 03.07.2012 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Scala esterna in muratura e distanze tra costruzioni.
La scala, anche se priva
di copertura, costituisce corpo aggettante
rilevante ai fini della disciplina delle
distanza, essendo idoneo a ridurre le
intercapedini tra un edificio e l’altro e
quindi a pregiudicare l’esigenza di
salubrità che costituisce finalità
essenziale della previsione di distanze
minime.
Infine, con riferimento alla lamentata
violazione della distanza dal confine
prevista dall’art. 10 N.T.A. (m. 5), essendo
prevista una rampa di scale a distanza
inferiore, osserva il Collegio che la scala,
anche se priva di copertura, costituisce
corpo aggettante rilevante ai fini della
disciplina delle distanza, essendo idoneo a
ridurre le intercapedini tra un edificio e
l’altro e quindi a pregiudicare l’esigenza
di salubrità che costituisce finalità
essenziale della previsione di distanze
minime.
In tal senso si è espressa con orientamento
costante la giurisprudenza della Cassazione
in materia di distanze, evidenziando che “Nel
calcolo della distanza minima fra
costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da
norme regolamentari integrative, deve
tenersi conto anche delle strutture
accessorie di un fabbricato (nella specie,
scala esterna in muratura), qualora queste,
presentando connotati di consistenza e
stabilità, abbiano natura di opera edilizia”
(Cass. 1966/2007, 17390/2004, 4372/2002,
tutte con riferimento a scale esterne)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 21.06.2012 n. 1219 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra
edifici - Concessione per nuove costruzioni.
La scala, anche se priva
di copertura, costituisce corpo aggettante
rilevante ai fini della disciplina delle
distanza, essendo idoneo a ridurre le
intercapedini tra un edificio e l’altro e
quindi a pregiudicare l’esigenza di
salubrità che costituisce finalità
essenziale della previsione di distanze
minime.
Nel
calcolo della distanza minima fra
costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da
norme regolamentari integrative, deve
tenersi conto anche delle strutture
accessorie di un fabbricato (nella specie,
scala esterna in muratura), qualora queste,
presentando connotati di consistenza e
stabilità, abbiano natura di opera edilizia.
---------------
Mentre rientrano nella categoria degli
sporti, non computabili ai fini delle
distanze, soltanto quegli elementi con
funzione meramente ornamentale, di
rifinitura od accessoria, come le mensole,
le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni
di gronda e simili, costituiscono invece
corpi di fabbrica, computabili nelle
distanze fra costruzioni, le sporgenze di
particolari proporzioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se
scoperte, di apprezzabile profondità ed
ampiezza.
Il balcone aggettante può essere ricompreso
nel computo della distanza ai sensi della
norma in questione solo nel caso in cui una
norma di piano preveda ciò, mentre nel caso
di specie il regolamento prevede norma
contraria.
Infine, con
riferimento alla lamentata violazione della
distanza dal confine prevista dall’art. 10
N.T.A. (m. 5), essendo prevista una rampa di
scale a distanza inferiore, osserva il
Collegio che la scala, anche se priva di
copertura, costituisce corpo aggettante
rilevante ai fini della disciplina delle
distanza, essendo idoneo a ridurre le
intercapedini tra un edificio e l’altro e
quindi a pregiudicare l’esigenza di
salubrità che costituisce finalità
essenziale della previsione di distanze
minime.
In tal senso si è espressa con orientamento
costante la giurisprudenza della Cassazione
in materia di distanze, evidenziando che “Nel
calcolo della distanza minima fra
costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da
norme regolamentari integrative, deve
tenersi conto anche delle strutture
accessorie di un fabbricato (nella specie,
scala esterna in muratura), qualora queste,
presentando connotati di consistenza e
stabilità, abbiano natura di opera edilizia”
(Cass. 1966/2007, 17390/2004, 4372/2002,
tutte con riferimento a scale esterne).
---------------
Va quindi
esaminata la violazione dell’art. 26-bis del
Regolamento Edilizio Comunale, dedotta come
secondo motivo di ricorso.
La norma citata prevede infatti la distanza
minima di m. 8 dalle finestre nei cortili
interni, senza contare gli aggetti e i
balconi se di profondità inferiore a cm 80,
mentre nel caso di specie essendo i balconi
di profondità di m. 1,20 la distanza non
sarebbe rispettata.
Sul punto risulta pacifico che il balcone ha
un aggetto superiore al limite di 80 cm,
avendo anche il Comune confermato tale
circostanza, deducendo che è prassi
dell’ente autorizzare balconi di maggiore
aggetto senza computarli ai fini del
rispetto delle distanze.
Tale assunto, tuttavia, non è idoneo a
fondare la legittimità del titolo edilizio,
a fronte della perdurante vigenza della
regola di cui al regolamento edilizio
secondo la quale non vengono computati ai
fini del rispetto delle distanza solo i
balconi di sporgenza inferiore a cm. 80; il
balcone in questione, profondo m. 1,20, va
quindi computato ai fini della
determinazione della distanza minima e deve,
pertanto, costituire il limite esterno a
partire dal quale va misurata la distanza di
m. 8, con conseguente illegittimità della
sua edificazione a distanza inferiore di m.
8 dalla parete dell’edificio dei ricorrenti.
La norma del regolamento è coerente con la
giurisprudenza in materia di distanze fra
edifici, secondo la quale, mentre rientrano
nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente
ornamentale, di rifinitura od accessoria,
come le mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili,
costituiscono invece corpi di fabbrica,
computabili nelle distanze fra costruzioni,
le sporgenze di particolari proporzioni,
come i balconi, costituite da solette
aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza (TAR
Lombardia, Milano, 04.05.2011, n. 1174,
Cass. 17242/2010, TAR Sardegna sez. II, 06.04.2009, n. 432).
Il balcone aggettante
può essere ricompreso nel computo della
distanza ai sensi della norma in questione
solo nel caso in cui una norma di piano
preveda ciò (TAR Liguria, sez. I, 10.07.2009 n. 1736, TAR Toscana sez. III,
09.06.2011 n. 993), mentre nel caso di
specie il regolamento prevede norma
contraria.
Si consideri, altresì, che la realizzazione
di cortili secondari e chiostrine a cavallo
sul confine tra due proprietà é possibile
secondo la disciplina edilizia applicabile
nel Comune di Cellamare ove sia stipulata, a
tale scopo, una apposita convenzione, la
quale non deve pregiudicare in alcun modo le
possibilità costruttive sui fondi, mentre in
tal caso nessuna convenzione è stata
stipulata tra le parti
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 21.06.2012 n. 1219 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza minima di 10 metri fra pareti
finestrate è prevista dalla norma –assolutamente inderogabile e
prevalente sulle eventuali differenti
prescrizioni degli strumenti urbanistici– di
cui all’art. 9 del DM 1444/1968.
In ordine alle distanze, come
risulta dalla tavola planimetrica (doc. 5
del Comune), l’edificio del ricorrente,
insistente sul mappale 629, é distante 2,1
metri dal mappale 826, oltre che meno di 10
metri dall’edificio con parete finestrata di
cui al mappale 160.
Si tratta di distanze inferiori a quelle di
legge; in particolare la distanza minima di
10 metri fra pareti finestrate è prevista
dalla norma –assolutamente inderogabile e
prevalente sulle eventuali differenti
prescrizioni degli strumenti urbanistici–
di cui all’art. 9 del DM 1444/1968 (sul
carattere inderogabile della norma,
applicabile a qualsivoglia intervento
edilizio, anche di ristrutturazione, si
vedano, fra le tante, TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 08.09.2011, n. 2187 e 04.11.2011, n.
2654; TAR Piemonte, sez. I, 17.01.2007, n. 22
e TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.07.2008,
n. 788).
Il Comune non poteva pertanto avallare un
intervento edilizio in contrasto con le
prescrizioni degli strumenti urbanistici e
della normativa in materia di distanze
minime fra edifici
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.06.2012 n. 1721 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disciplina delle distanze minime fra gli
edifici tra i quali sono interposte strade
destinate al traffico di veicoli è quella di
cui all'art. 9, d.m. n. 1444/1968.
La definizione di strada cui questa
disposizione fa riferimento, in linea con
l’art. 1 del codice della strada, va
riferita alle sole aree ad uso pubblico
destinate alla circolazione, essendo tali
norme finalizzate a disciplinare le fasce di
rispetto delle costruzioni ai fini della
sicurezza della circolazione.
---------------
L'accertamento in ordine alla natura
pubblica di una strada presuppone
l'esistenza di un atto o di un fatto in base
al quale la proprietà del suolo su cui essa
sorge sia di proprietà di un ente pubblico
territoriale, ovvero che a favore del
medesimo ente sia stata costituita una
servitù di uso pubblico, e che la stessa sia
destinata all'uso pubblico con una
manifestazione di volontà espressa o tacita
dell'ente medesimo, senza che sia
sufficiente, a tal fine, l'esplicarsi di
fatto del transito del pubblico, né la mera
previsione programmatica della sua
destinazione a strada pubblica, o
l'intervento di atti di riconoscimento da
parte dell'amministrazione medesima circa la
funzione da essa assolta
L'art. 28 delle n.t.a. del piano
regolatore comunale disciplina le distanze
minime fra gli edifici tra i quali sono
interposte strade destinate al traffico di
veicoli, riproducendo le prescrizioni di cui
all'art. 9, d.m. n. 1444/1968.
La definizione di strada cui queste
disposizioni fanno riferimento, in linea con
l’art. 1 del codice della strada, va riferita
alle sole aree ad uso pubblico destinate
alla circolazione, essendo tali norme
finalizzate a disciplinare le fasce di
rispetto delle costruzioni ai fini della
sicurezza della circolazione (si richiamano
al riguardo le motivazioni espresse, in una
fattispecie analoga, dal Consiglio di Stato,
sez. V, 28.06.2011, n. 3868).
Nel caso di specie, l'amministrazione ha
invece ritenuto applicabile la normativa in
questione per il solo fatto che si tratta di
strada con passaggio di veicoli, circostanza
meramente fattuale che non coincide con
l'uso pubblico della strada.
L'accertamento in ordine alla natura
pubblica di una strada presuppone, invero,
l'esistenza di un atto o di un fatto in base
al quale la proprietà del suolo su cui essa
sorge sia di proprietà di un ente pubblico
territoriale, ovvero che a favore del
medesimo ente sia stata costituita una
servitù di uso pubblico, e che la stessa sia
destinata all'uso pubblico con una
manifestazione di volontà espressa o tacita
dell'ente medesimo, senza che sia
sufficiente, a tal fine, l'esplicarsi di
fatto del transito del pubblico, né la mera
previsione programmatica della sua
destinazione a strada pubblica, o
l'intervento di atti di riconoscimento da
parte dell'amministrazione medesima circa la
funzione da essa assolta (Cassazione civile,
sez. II, 07.04.2006, n. 8204).
Il provvedimento impugnato è quindi affetto
dai vizi di difetto di istruttoria e di
motivazione. Le ulteriori censure possono
essere assorbite.
La domanda di risarcimento dei danni deve
essere respinta perché la società ha
tempestivamente ottenuto la tutela cautelare
richiesta ed anche poiché non è stata
offerta, in corso di giudizio, una prova dei
danni derivanti del ritardo nella
edificazione, mediante l'allegazione di
precise circostanze di fatto.
Per le ragioni esposte la domanda di
annullamento è fondata e va quindi accolta.
Va invece respinta la domanda di
risarcimento dei danni
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.06.2012 n. 1612 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Ai fini del calcolo delle
distanze devono essere computate scale,
terrazze, corpi avanzati ed opere di
contenimento.
2. Nozione di opera interrata.
3. Calcolo della cubatura. Inclusione nel
caso di opere non completamente interrate.
1. In tema di distanze legali tra edifici o
dal confine, mentre non sono a tal fine
computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente
ornamentale, di finitura od accessoria di
limitata entità, come le mensole, le lesene,
i cornicioni, le grondaie e simili, invece,
rientrano nel concetto civilistico di
costruzioni, le parti dell'edificio, quali
scale, terrazze e corpi avanzati (c.d.
aggettanti) che, se pur non corrispondono a
volumi abitativi coperti, sono destinate ad
estendere ed ampliare la consistenza del
fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di
contenimento, che, comunque progettate in
relazione alla situazione dei luoghi ed alla
soluzione esteticamente ritenuta più
confacente dal committente, hanno una
struttura che deve essere idonea per
consistenza e modalità costruttive ad
assolvere alla funzione di contenimento ed
una funzione, che non è quella di
delimitare, proteggere ed eventualmente
abbellire la proprietà, ma essenzialmente di
sostenere il terreno al fine di evitare
movimenti franosi dello stesso (1).
2. Al fine di individuare se un manufatto
sia o meno interrato, va fatto riferimento
al livello naturale del terreno, con la
conseguenza che la sporgenza di un manufatto
dal suolo va riscontrata con riferimento al
piano di campagna, cioè al livello naturale
del terreno, e non al livello eventualmente
inferiore cui si trovi un finitimo edificio
realizzato con abbassamento di quel piano
(2).
3. Ai sensi dell'art. 9 della l. 24.03.1989
n. 122, la realizzazione di autorimesse e
parcheggi è soggetta alla disciplina
urbanistica dettata per le ordinarie nuove
costruzioni fuori terra, se non effettuata
totalmente al di sotto del piano di campagna
naturale (3).
---------------
(1) Cfr. Cons. Stato, sez. IV,
30.06.2005, n. 3539.
V. anche Cassazione civile, sez. II,
17.06.2011, n. 13389, secondo cui, "ai fini
dell'osservanza delle norme sulle distanze
legali di origine codicistica o prescritte
dagli strumenti urbanistici in funzione
integrativa della disciplina privatistica,
la nozione di costruzione non si identifica
con quella di edificio ma si estende a
qualsiasi manufatto non completamente
interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione al
suolo, anche mediante appoggio,
incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di
elevazione dell'opera.
La giurisprudenza civile di merito,
altrettanto condivisibilmente, ad avviso del
Collegio ha poi fatto presente che ai fini
del rispetto delle distanze fra costruzioni,
non rileva il materiale utilizzato per la
fabbrica, richiedendosi soltanto una
durevolezza dell'opera comunemente
riconoscibile anche alle opere in legno o
ferro od altri materiali leggeri, purché
infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza
dell’insegnamento della Corte di legittimità
secondo il quale "costituisce costruzione,
agli effetti della disciplina del c.c. sulle
distanze legali, ogni manufatto che, per
struttura e destinazione, ha carattere di
stabilità e permanenza (nella specie il
manufatto, con finestra, era coperto da
tettoia formata da travi con soprastanti
lamiere, ed era destinato a fienile,
magazzino e pollaio). "(Cassazione civile,
sez. II, 24.05.1997, n. 4639).
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.12.2010, n.
8547 ed in passato Cons. Stato, sez. V,
21.10.1991, n. 1231, secondo la quale
soltanto "i locali costruiti al di sotto
dell'originario piano di campagna non sono
infatti computabili ai fini
dell'applicazione degli standards
urbanistici e non concernono al computo
della volumetria.".
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.11.2010,
n. 8260 (massima tratta da
www.regione-piemonte.it -
Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2012 n. 2847 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema
di distanze legali tra edifici o dal
confine, mentre non sono a tal fine
computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente
ornamentale, di finitura od accessoria di
limitata entità, come le mensole, le lesene,
i cornicioni, le grondaie e simili, invece,
rientrano nel concetto civilistico di
costruzioni, le parti dell'edificio, quali
scale, terrazze e corpi avanzati (c.d.
aggettanti) che, se pur non corrispondono a
volumi abitativi coperti, sono destinate ad
estendere ed ampliare la consistenza del
fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di
contenimento che, comunque progettate in
relazione alla situazione dei luoghi ed alla
soluzione esteticamente ritenuta più
confacente dal committente, hanno una
struttura che deve essere idonea per
consistenza e modalità costruttive ad
assolvere alla funzione di contenimento ed
una funzione, che non è quella di
delimitare, proteggere ed eventualmente
abbellire la proprietà, ma essenzialmente di
sostenere il terreno al fine di evitare
movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate,
sotto il profilo edilizio, come opere dotate
di una propria specificità ed autonomia, in
una accezione che comprende tutte le
caratteristiche proprie dei fabbricati,
donde l'obbligo di rispetto di tutti gli
indici costruttivi prescritti dallo
strumento urbanistico e, in particolare,
delle distanze dal confine privato.
---------------
Ai fini dell'osservanza delle norme sulle
distanze legali di origine codicistica o
prescritte dagli strumenti urbanistici in
funzione integrativa della disciplina
privatistica, la nozione di costruzione non
si identifica con quella di edificio ma si
estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i
caratteri della solidità, stabilità, ed
immobilizzazione al suolo, anche mediante
appoggio, incorporazione o collegamento
fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di
elevazione dell'opera.
Ai fini del rispetto delle distanze fra
costruzioni non rileva il materiale
utilizzato per la fabbrica, richiedendosi
soltanto una durevolezza dell'opera
comunemente riconoscibile anche alle opere
in legno o ferro od altri materiali leggeri,
purché infissi al suolo non
transitoriamente.
---------------
Costituisce costruzione, agli effetti della
disciplina del c.c. sulle distanze legali,
ogni manufatto che, per struttura e
destinazione, ha carattere di stabilità e
permanenza (nella specie il manufatto, con
finestra, era coperto da tettoia formata da
travi con soprastanti lamiere, ed era
destinato a fienile, magazzino e pollaio).
---------------
Analoga nozione estensiva del concetto di
“fabbricato” è stata dettata dalla Corte di
Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c.,
diretto a preservare l'esercizio delle
vedute da ogni eventuale ostacolo con
carattere di stabilità, in quanto la nozione
di costruzione è comprensiva non solo dei
manufatti in calce e mattoni, ma di
qualsiasi opera che, indipendentemente dalla
forma e dal materiale con cui è stata
realizzata, determini un ostacolo del genere
(nella specie, il giudice del merito aveva
ritenuto che costituisse costruzione nel
senso anzidetto una veranda che ostacolava
la veduta dal balcone e dalla finestra
sovrastanti, anche se ottenuta mediante la
posa in opera, su correntini infissi nel
muro, di lastre di fibrocemento facilmente
asportabili, in quanto bullonate a tali
correntini. La C.S., nell'enunciare il
precisato principio di diritto, ha
confermato tale decisione).
Rileva in proposito il Collegio che, per
condivisa giurisprudenza di questo Consiglio
di Stato, “in tema di distanze legali tra
edifici o dal confine, mentre non sono a tal
fine computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente
ornamentale, di finitura od accessoria di
limitata entità, come le mensole, le lesene,
i cornicioni, le grondaie e simili, invece,
rientrano nel concetto civilistico di
costruzioni, le parti dell'edificio, quali
scale, terrazze e corpi avanzati (c.d.
aggettanti) che, se pur non corrispondono a
volumi abitativi coperti, sono destinate ad
estendere ed ampliare la consistenza del
fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di
contenimento, quali indubbiamente si
configurano quelle di cui al caso di specie
che, comunque progettate in relazione alla
situazione dei luoghi ed alla soluzione
esteticamente ritenuta più confacente dal
committente, hanno una struttura che deve
essere idonea per consistenza e modalità
costruttive ad assolvere alla funzione di
contenimento ed una funzione, che non è
quella di delimitare, proteggere ed
eventualmente abbellire la proprietà, ma
essenzialmente di sostenere il terreno al
fine di evitare movimenti franosi dello
stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate,
sotto il profilo edilizio, come opere dotate
di una propria specificità ed autonomia, in
una accezione che comprende tutte le
caratteristiche proprie dei fabbricati,
donde l'obbligo di rispetto di tutti gli
indici costruttivi prescritti dallo
strumento urbanistico e, in particolare,
delle distanze dal confine privato”
(Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n.
3539)
In modo pressoché simmetrico, la
giurisprudenza civile di legittimità ha
ancora di recente condivisibilmente
affermato che “ai fini dell'osservanza
delle norme sulle distanze legali di origine
codicistica o prescritte dagli strumenti
urbanistici in funzione integrativa della
disciplina privatistica, la nozione di
costruzione non si identifica con quella di
edificio ma si estende a qualsiasi manufatto
non completamente interrato che abbia i
caratteri della solidità, stabilità, ed
immobilizzazione al suolo, anche mediante
appoggio, incorporazione o collegamento
fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di
elevazione dell'opera” (Cassazione
civile, sez. II, 17.06.2011, n. 13389).
La giurisprudenza civile di merito,
altrettanto condivisibilmente, ad avviso del
Collegio ha poi fatto presente che ai fini
del rispetto delle distanze fra costruzioni
non rileva il materiale utilizzato per la
fabbrica, richiedendosi soltanto una
durevolezza dell'opera comunemente
riconoscibile anche alle opere in legno o
ferro od altri materiali leggeri, purché
infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza
dell’insegnamento della Corte di legittimità
secondo il quale “costituisce
costruzione, agli effetti della disciplina
del c.c. sulle distanze legali, ogni
manufatto che, per struttura e destinazione,
ha carattere di stabilità e permanenza
(Nella specie il manufatto, con finestra,
era coperto da tettoia formata da travi con
soprastanti lamiere, ed era destinato a
fienile, magazzino e pollaio)“
(Cassazione civile, sez. II, 24.05.1997, n.
4639).
Per completezza –tenuto conto dei profili
sollevati dall’appellato nella propria
memoria di replica- si evidenzia che analoga
nozione estensiva del concetto di “fabbricato”
è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai
fini dell'art. 907 c.c., diretto a
preservare l'esercizio delle vedute da ogni
eventuale ostacolo con carattere di
stabilità, “in quanto la nozione di
costruzione è comprensiva non solo dei
manufatti in calce e mattoni, ma di
qualsiasi opera che, indipendentemente dalla
forma e dal materiale con cui è stata
realizzata, determini un ostacolo del
genere. (Nella specie, il giudice del merito
aveva ritenuto che costituisse costruzione
nel senso anzidetto una veranda che
ostacolava la veduta dal balcone e dalla
finestra sovrastanti, anche se ottenuta
mediante la posa in opera, su correntini
infissi nel muro, di lastre di fibrocemento
facilmente asportabili, in quanto bullonate
a tali correntini. La C.S., nell'enunciare
il precisato principio di diritto, ha
confermato tale decisione)” (Cassazione
civile, sez. II, 21.10.1980, n. 5652)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2012 n. 2847 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra
edifici - Art. 9 del d.m. 1444/1968.
Sull'incostituzionalità di una norma
provinciale che, ai fini dell’isolamento
termico per garantire le prestazioni
energetiche, consente agli edifici già
legalmente esistenti alla data del
12.01.2005 o concessionati prima di tale
data di derogare nella misura massima di 20
centimetri alle distanze tra edifici.
Le norme in materia di
distanze fra edifici costituiscono principio
inderogabile che integra la disciplina
privatistica delle distanze.
In particolare, data la connessione e le
interferenze tra interessi privati e
interessi pubblici in tema di distanze tra
costruzioni, l’assetto costituzionale delle
competenze in materia di governo del
territorio interferisce con la competenza
esclusiva dello Stato a fissare le distanze
minime, sicché le Regioni devono esercitare
le loro funzioni nel rispetto dei principi
della legislazione statale, potendo, nei
limiti della ragionevolezza, fissare limiti
maggiori. Le deroghe alle distanze minime,
poi, devono essere inserite in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto
complessivo ed unitario di determinate zone
del territorio, poiché la loro legittimità è
strettamente connessa agli assetti
urbanistici generali e quindi al governo del
territorio, non, invece, ai rapporti tra
edifici confinanti isolatamente considerati.
Nel caso di specie, la norma in questione («6.
Ai fini dell’isolamento termico per
garantire le prestazioni energetiche,
definite ai sensi del comma 2, degli edifici
già legalmente esistenti alla data del
12.01.2005 o concessionati prima di tale
data, è permesso derogare nella misura
massima di 20 centimetri alle distanze tra
edifici, alle altezze degli edifici e alle
distanze dai confini previsti nel piano
urbanistico comunale o nel piano di
attuazione, nel rispetto delle distanze
prescritte dal codice civile, salvo quanto
disposto dalla normativa di attuazione della
direttiva 2006/32/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio del 05.04.2006 relativa
all’efficienza degli usi finali dell’energia
e i servizi. La deroga può essere esercitata
nella misura massima da entrambi gli edifici
confinanti.
7. La Giunta provinciale definisce le
caratteristiche tecniche delle verande la
cui costruzione vale come misura per
l’utilizzo di energia solare ai sensi del
comma 5. A tal fine si può derogare alle
distanze tra edifici, alle distanze dai
confini nonché all’indice di area coperta
previsti nel piano urbanistico, nel rispetto
delle distanze prescritte dal codice civile
e purché la distanza dal confine di
proprietà non sia inferiore alla metà
dell’altezza della facciata della veranda»),
attraverso il mero richiamo delle norme del
codice civile, è suscettibile di consentire
l’introduzione di deroghe particolari in
grado di discostarsi dalle distanze di cui
all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444,
emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della
legge 17.08.1942, n. 1150, recante «Legge
urbanistica» (introdotto dall’art. 17 della
legge 06.08.1967, n. 765), avente, per
giurisprudenza consolidata, un’efficacia
precettiva e inderogabile.
In quanto tali deroghe non attengono
all’assetto urbanistico complessivo delle
zone di cui si verte, il mancato richiamo
alle norme statali vincolanti per la
Provincia, determina l’illegittimità
costituzionale delle relative norme per
violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost., avendo invaso la
competenza statale in materia di ordinamento
civile.
8.― Infine, il Presidente del Consiglio dei
ministri ha impugnato l’art. 9, commi 6 e 7
(recte: art. 9, comma 4, alinea 6 e
7, trattandosi dei commi 6 e 7 dell’articolo
127 della legge provinciale 11.08.1997, n.
13, modificato dalla legge impugnata), nella
parte in cui prevedono, ai fini
dell’isolamento termico degli edifici e
dell’utilizzo dell’energia solare, la
possibilità di derogare alle distanze tra
edifici, alle altezze degli edifici ed alle
distanze dai confini previsti nel piano
urbanistico comunale o nel piano di
attuazione, nel rispetto delle distanze
prescritte dal codice civile.
A suo avviso, dette disposizioni, non
prevedendo il rispetto delle altezze e delle
distanze di cui al decreto ministeriale
02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di
densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra
spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde
pubblico o a parcheggi da osservare ai fini
della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli
esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L.
06.08.1967, n. 765), contrasterebbe con
l’art. 117, secondo comma, lettera l), della
Costituzione.
8.1.― La questione è fondata.
8.2.― In linea preliminare, va osservato che
i commi 6 e 7 dell’articolo 127 della legge
provinciale n. 13 del 1997, nel testo
modificato dalle disposizioni impugnate,
così dispongono: «6. Ai fini
dell’isolamento termico degli edifici già
legalmente esistenti alla data del
12.01.2005 o concessionati prima di tale
data, è possibile derogare alle distanze tra
edifici, alle altezze degli edifici e alle
distanze dai confini previsti nel piano
urbanistico comunale o nel piano di
attuazione, nel rispetto delle distanze
prescritte dal codice civile.
7. La Giunta provinciale definisce le
caratteristiche tecniche delle verande la
cui costruzione vale come misura per
l’utilizzo di energia solare ai sensi del
comma 5. A tale fine si può derogare alle
distanze tra edifici, alle distanze dai
confini nonché all’indice di area coperta
previsti nel piano urbanistico o nel piano
di attuazione, nel rispetto delle distanze
prescritte dal codice civile e purché la
distanza verso il confine di proprietà non
sia inferiore alla metà dell’altezza della
facciata della veranda».
Successivamente alla proposizione del
ricorso, l’art. 26, comma 3, della legge
provinciale n. 15 del 2011, ha nuovamente
modificato tali disposizioni, così
sostituendole: «6. Ai fini
dell’isolamento termico per garantire le
prestazioni energetiche, definite ai sensi
del comma 2, degli edifici già legalmente
esistenti alla data del 12.01.2005 o
concessionati prima di tale data, è permesso
derogare nella misura massima di 20
centimetri alle distanze tra edifici, alle
altezze degli edifici e alle distanze dai
confini previsti nel piano urbanistico
comunale o nel piano di attuazione, nel
rispetto delle distanze prescritte dal
codice civile, salvo quanto disposto dalla
normativa di attuazione della direttiva
2006/32/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 05.04.2006 relativa
all’efficienza degli usi finali dell’energia
e i servizi. La deroga può essere esercitata
nella misura massima da entrambi gli edifici
confinanti.
7. La Giunta provinciale definisce le
caratteristiche tecniche delle verande la
cui costruzione vale come misura per
l’utilizzo di energia solare ai sensi del
comma 5. A tal fine si può derogare alle
distanze tra edifici, alle distanze dai
confini nonché all’indice di area coperta
previsti nel piano urbanistico, nel rispetto
delle distanze prescritte dal codice civile
e purché la distanza dal confine di
proprietà non sia inferiore alla metà
dell’altezza della facciata della veranda».
Dal raffronto fra le disposizioni risulta
evidente che l’ultima modifica, dato il suo
carattere sostanzialmente marginale, non
incide in modo significativo sul contenuto
precettivo delle disposizioni impugnate, e
certamente non ha contenuto satisfattivo,
per cui la questione va trasferita sulla
nuova norma, in applicazione del succitato
principio di effettività della tutela
costituzionale.
8.3.― La censura verte sul mancato richiamo
al rispetto delle norme sulle distanze fra
edifici, integrative del codice civile e, in
particolare, dell’art. 9 del citato d.m. n.
1444 del 1968.
In tale ambito, questa Corte ha in più
occasioni precisato che le norme in materia
di distanze fra edifici costituiscono
principio inderogabile che integra la
disciplina privatistica delle distanze.
In particolare, data la connessione e le
interferenze tra interessi privati e
interessi pubblici in tema di distanze tra
costruzioni, l’assetto costituzionale delle
competenze in materia di governo del
territorio interferisce con la competenza
esclusiva dello Stato a fissare le distanze
minime, sicché le Regioni devono esercitare
le loro funzioni nel rispetto dei principi
della legislazione statale, potendo, nei
limiti della ragionevolezza, fissare limiti
maggiori. Le deroghe alle distanze minime,
poi, devono essere inserite in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto
complessivo ed unitario di determinate zone
del territorio, poiché la loro legittimità è
strettamente connessa agli assetti
urbanistici generali e quindi al governo del
territorio, non, invece, ai rapporti tra
edifici confinanti isolatamente considerati
(sentenza n. 232 del 2005).
Nel caso di specie, la norma in questione,
attraverso il mero richiamo delle norme del
codice civile, è suscettibile di consentire
l’introduzione di deroghe particolari in
grado di discostarsi dalle distanze di cui
all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444,
emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della
legge 17.08.1942, n. 1150, recante «Legge
urbanistica» (introdotto dall’art. 17
della legge 06.08.1967, n. 765), avente, per
giurisprudenza consolidata, un’efficacia
precettiva e inderogabile.
In quanto tali deroghe non attengono
all’assetto urbanistico complessivo delle
zone di cui si verte, il mancato richiamo
alle norme statali vincolanti per la
Provincia, determina l’illegittimità
costituzionale delle relative norme per
violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost., avendo invaso la
competenza statale in materia di ordinamento
civile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1)
(omissis)
2)
dichiara l’illegittimità
costituzionale degli articoli 2, comma 10,
3, commi 1 e 3, 5, comma 1, 9, comma 4,
alinea 6 e 7, della legge della Provincia
autonoma di Bolzano 21.06.2011, n. 4
(Misure di contenimento dell’inquinamento
luminoso ed altre disposizioni in materia di
utilizzo di acque pubbliche, procedimento
amministrativo ed urbanistica);
3)
dichiara l’illegittimità
costituzionale degli articoli 24, comma 2, e
26, comma 3, della legge della Provincia
autonoma di Bolzano 21.12.2011, n. 15
(Disposizioni per la formazione del bilancio
di previsione per l’anno finanziario 2012 e
per il triennio 2012-2014 – Legge
finanziaria 2012);
4)
(omissis) (Corte Costituzionale,
sentenza 10.05.2012 n. 114). |
EDILIZIA PRIVATA:
Serre, inapplicabili le norme
sulle distanze per gli edifici.
I dati normativi
convergono nel disporre che le serre non
debbano essere qualificate come costruzioni.
Pertanto, nel caso di specie avrebbe dovuto
essere applicata non la distanza per le
edificazioni ma quella prevista per la
piantagione degli alberi, misurata, per le
ragioni esposte, a partire dalla sede di
occupazione dell’autostrada.
La corte amministrativa pugliese ha
esaminato le disposizioni relative alla
violazione sostanziale delle norme in
materia di distanze delle costruzione e
delle piantagioni dalla sede autostradale.
Il disposto dell’art. 9 L. 729/1961, prevede
che “Lungo i tracciati delle autostrade e
i relativi accessi, previsti sulla base dei
progetti regolarmente approvati, è vietato
costruire, ricostruire o ampliare edifici o
manufatti di qualsiasi specie a distanza
inferiore a metri 25 dal limite della zona
di occupazione dell’autostrada stessa. La
distanza è ridotta a metri 10 per gli alberi
da piantare”.
La lettura della norma chiarisce quindi
expressis verbis, innanzitutto, che
la distanza va misurata a partire dalla zona
di occupazione dell’autostrada, e non dal
confine della proprietà autostradale;
pertanto il parere negativo espresso dalla
società Autostrade, sulla cui base è stata
negata dal Comune la sanatoria, risulta
viziato nella parte in cui quantifica la
distanza minima delle opere dal confine
autostradale, riportando la misura di m.
1,50.
Ma deve anche rilevarsi che, nel caso di
specie, non è applicabile, come sostenuto
dalla ricorrente, la distanza prevista per
le costruzioni.
A tale conclusione conducono infatti sia il
disposto del decreto del Ministro dei lavori
pubblici del 16.12.1987, secondo cui la
costruzione di serre smontabili in fregio
all’autostrada non costituisce edificazione,
sia la disciplina dell’art. 59 l.r. 1/2005,
secondo cui “le serre e i loro annessi
non sono da considerarsi costruzioni,
indipendentemente dai materiali usati per la
loro realizzazione e dai sistemi di
ancoraggi”.
I dati normativi convergono dunque nel
disporre che le serre non debbano essere
qualificate come costruzioni e, pertanto,
nel caso di specie avrebbe dovuto essere
applicata non la distanza per le
edificazioni ma quella prevista per la
piantagione degli alberi, misurata, per le
ragioni esposte, a partire dalla sede di
occupazione dell’autostrada (commento tratto
da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 05.04.2012 n. 682 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9 d.m. 1444/1968 non può essere derogato
dalle disposizioni regolamentari locali e,
in caso di contrasto, prevale su di esse.
---------------
L'art. 9 d.m. n. 1444/1968 va rispettato
anche in caso di realizzazione di interventi
di recupero del sottotetto: si richiama al
riguardo il precedente di questa Sezione,
10.12.2010, n. 7505, oltre a quanto
affermato dalla Corte Costituzionale con la
sentenza n. 19.05.2011, n. 173, secondo cui
l'art. 64, comma 2, della legge della
Regione Lombardia n. 12 del 2005 "deve
interpretarsi nel senso che esso consente la
deroga dei parametri e indici urbanistici ed
edilizi di cui al regolamento locale ovvero
al piano regolatore comunale, fatto salvo il
rispetto della disciplina sulle distanze tra
fabbricati, essendo quest'ultima materia
inerente all'ordinamento civile e rientrante
nella competenza legislativa esclusiva dello
Stato".
Anche il secondo, il terzo ed il quarto
motivo di ricorso –che possono essere
trattati congiuntamente perché strettamente
connessi sul piano logico e giuridico- sono
privi di fondamento in quanto:
- per giurisprudenza costante, l'art. 9 d.m. 1444/1968 non può essere derogato dalle
disposizioni regolamentari locali e, in caso
di contrasto, prevale su di esse (cfr. da
ultimo, Cassazione civile sez. un.,
07.07.2011, n. 14953); non assume, dunque,
alcun rilievo il rispetto, nel caso di
specie, della previsione dell'art. 27, c. 2
del r.e.c.;
- l'art. 9 d.m. n. 1444/1968 va rispettato
anche in caso di realizzazione di interventi
di recupero del sottotetto: si richiama al
riguardo il precedente di questa Sezione,
10.12.2010, n. 7505, oltre a quanto
affermato dalla Corte Costituzionale con la
sentenza n. 19.05.2011, n. 173, secondo cui
l'art. 64, comma 2, della legge della
Regione Lombardia n. 12 del 2005 "deve
interpretarsi nel senso che esso consente la
deroga dei parametri e indici urbanistici ed
edilizi di cui al regolamento locale ovvero
al piano regolatore comunale, fatto salvo il
rispetto della disciplina sulle distanze tra
fabbricati, essendo quest'ultima materia
inerente all'ordinamento civile e rientrante
nella competenza legislativa esclusiva dello
Stato (sentenza n. 232 del 2005)";
- legittimamente l'amministrazione ha
qualificato l'intervento in questione quale
nuova costruzione e non quale
ristrutturazione edilizia mediante
demolizione e ricostruzione, essendo
incontestato il mutamento della sagoma del
fabbricato.
Né può invocarsi la previsione di cui
all'art. 27, comma 1, lettera d), ultimo
periodo, della legge della Regione Lombardia
n. 12 del 2005, come interpretato dall'art.
22 della legge della Regione Lombardia n. 7
del 2010, in quanto dichiarato
incostituzionale con sentenza della Corte
Costituzionale n. 309 del 23.11.2011.
Non può, inoltre, condividersi, al riguardo,
quanto affermato dal ricorrente circa
l'inapplicabilità della pronuncia di
incostituzionalità al caso di specie.
Per giurisprudenza costante, infatti,
l'efficacia delle sentenze dichiarative
della illegittimità costituzionale di una
norma incontra il solo limite dei rapporti
esauriti in modo definitivo ed irrevocabile
per avvenuta formazione del giudicato o per
essersi comunque verificato altro evento cui
l'ordinamento ricollega il consolidamento
del rapporto, laddove il rapporto in
questione, insorto in conseguenza
dell'annullamento in autotutela della d.i.a.,
è lungi dall'essere esaurito; né assume
rilievo la circostanza che il titolo
edilizio si fosse perfezionato in epoca
antecedente la pronuncia di illegittimità
costituzionale, avendo l'amministrazione
inciso sulla sua validità mediante il potere
di autotutela
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.04.2012 n. 1002 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
V. Lioniello,
Le distanze tra gli edifici: il contrasto
tra la normativa nazionale e quella
regolamentare adottata dai Comuni - Nota a
Cass. Civ., Sez. II, 14.03.2012 n. 4076 (link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere funzionali all’eliminazione delle
barriere architettoniche sono solo quelle
tecnicamente necessarie a garantire
l’accessibilità, l’adattabilità e la
visitabilità degli edifici privati e non già
le opere dirette alla migliore fruibilità
dell’edificio e alla maggior comodità dei
residenti.
Sicché, nel bilanciamento tra l’interesse
alla tutela del patrimonio storico-artistico
nazionale e quello alla salvaguardia del
diritto alla salute ed al normale
svolgimento della vita di relazione e
socializzazione dei soggetti in minorate
condizioni fisiche, la normativa ha dato
prevalenza in via generale al secondo,
consentendo, purtuttavia, il diniego
dell’autorizzazione alla realizzazione di
interventi su beni vincolati nei soli casi
di accertato e motivato «serio pregiudizio»
del bene vincolato; mentre, nel
bilanciamento degli interessi in gioco si è
ritenuto, al contrario, prevalente quello
relativo al rispetto della normativa
antincendio.
Per quando attiene, in particolare,
l’eliminazione di tali barriere negli
edifici in condominio, la normativa vigente
sopra richiamata nel contrasto tra
l’interesse dei condomini a non vedere
modificati i beni comuni e quello dei
soggetti portatori di minorazioni fisiche ha
tutelato questi ultimi in termini assoluti
ed inderogabili, per cui non è richiesto il
consenso di tutti i proprietari del
fabbricato ove l’opera debba essere
realizzata in cortili o chiostrine “interni
ai fabbricati o comuni o di uso comune a più
fabbricati”.
---------------
Relativamente al conflitto tra gli interessi
dei soggetti portatori di minorazioni
fisiche e quello dei soggetti terzi, il
legislatore con la previsione contenuta
nell'art. 79 dpr 380/2001 e nell'art. 873
del codice civile, ha ritenuto di dare
prevalenza al diritto di questi ultimi al
rispetto delle distanze tra le costruzioni,
che quindi non può mai essere “minore di 3
metri”, in base alla previsione codicistica,
all’evidente fine di garantire la salubrità
delle costruzioni. In definitiva, il
legislatore nel bilanciamento degli
interessi in gioco nel mentre ha ritenuto
prevalente l’interesse dei portatori di
handicap rispetto a quello degli altri
“condomini”, ha ritenuto al contrario
recessivo tale interesse rispetto a quello
dei soggetti “terzi”, cioè dei proprietari
di immobili finitimi, che non possono veder
leso il loro diritto alla salute, ugualmente
meritevole di tutela, a non vedere create
delle intercapedini che possono incidere
sulla salubrità delle costruzioni.
---------------
La costruzione di un ascensore esterno in
facciata di condominio per un verso ha quei
connotati e quelle caratteristiche di
stabilità che impongono di ricomprenderlo
nella nozione di “costruzione” di cui al
predetto art. 873 del codice civile e per
altro verso, per le sue caratteristiche
costruttive, viene a creare una permanente
intercapedine dannosa per la sicurezza e la
salubrità delle costruzioni vicine; per cui
tale opera deve necessariamente rispettare
le distanze legali.
... per l'annullamento del provvedimento
24.05.2011, prat. n. 4/2001, con il quale il
Responsabile del III Settore (Assetto ed uso
del territorio) del Comune di Loreto
Aprutino ha rigettato la domanda di permesso
di costruire presentata dal ricorrenti per
l’esecuzione dei lavori di installazione di
un ascensore esterno ...
...
L’impugnato provvedimento di rigetto della
domanda di permesso di costruire presentata
dai ricorrenti per l’esecuzione dei lavori
di installazione di un ascensore esterno è
motivato con riferimento alla testuale
considerazione che, in violazione dell’art.
79 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, non era
rispettata la “distanza di tre metri di
cui all’art. 873 del codici civile,
ricorrendo il caso in cui tra le opere da
realizzare (ascensore finalizzato
all’eliminazione delle barriere
architettoniche) ed il fabbricato alieno …
non è interposto alcuno spazio o alcuna area
di proprietà o di uso comune”.
Tale ragione giustificativa del diniego del
titolo edilizio richiesto si sottrae, ad
avviso del Collegio, alle censure di
legittimità dedotte con il ricorso.
Va al riguardo premesso che il Testo unico
delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia, approvato
con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel
disciplinare all’art. 79 le opere
finalizzate all’eliminazione delle barriere
architettoniche dispone testualmente al suo
primo comma che tali opere “possono
essere realizzate in deroga alle norme sulle
distanze previste dai regolamenti edilizi,
anche per i cortili e le chiostrine interni
ai fabbricati o comuni o di uso comune a più
fabbricati”; al suo secondo comma
precisa, inoltre, che “è fatto salvo
l’obbligo di rispetto delle distanze di cui
agli articoli 873 e 907 del codice civile
nell’ipotesi in cui tra le opere da
realizzare e i fabbricati alieni non sia
interposto alcuno spazio o alcuna area di
proprietà o di uso comune”.
Tale richiamato art. 873 del codice civile,
nel disciplinare le distanze nelle
costruzioni, dispone a sua volta che “le
costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a
distanza non minore di tre metri”.
Va, infine, ricordato che con Decreto
ministeriale 14.06.1989, n. 236, sono state
dettate le prescrizioni tecniche necessarie
a garantire l’accessibilità degli edifici
privati ai fini del superamento e
dell’eliminazione delle barriere
architettoniche.
Così puntualizzato il quadro normativo di
riferimento, va evidenziato che tali
previsioni per il superamento e
l’eliminazione delle barriere
architettoniche negli edifici privati
-dettate in via generale dalla legge n. 13
del 1989, poi trasfusa nel predetto t.u., ed
articolate in dettaglio nella normativa
tecnica di attuazione di cui al D.M.
14.06.1989, n. 236- hanno elevato il livello
di tutela dei soggetti portatori di
minorazioni fisiche, che oggi non è più
relegato ad un ristretto ambito soggettivo
ed individuale, ma è ormai considerato come
interesse primario dell’intera collettività,
da soddisfare con interventi mirati a
rimuovere situazioni preclusive dello
sviluppo della persona e dello svolgimento
di una normale vita di relazione (Corte
Costituzionale 10.03.1999, n. 167, e
04.07.2008, n. 251, e da ultimo TAR
Campania, sede Napoli, sez. IV, 14.11.2011,
n. 5343).
Purtuttavia, va anche precisato che la
giurisprudenza ha al riguardo meglio
precisato che tale sistema di tutela delle
persone disabili è, in concreto, applicabile
compatibilmente con altri interessi pubblici
che non possono essere pretermessi e che
devono essere, invece, bilanciati con
quello, superiore, alla tutela ottimale
delle medesime persone; con la conseguenza
che le misure necessarie a rendere effettiva
la tutela delle persone disabili, alla
stregua degli art. 2, 3 e 32 della
Costituzione possono essere legittimamente
graduate in vista dell’attuazione del
principio di parità di trattamento, tenuto
conto di tutti i valori costituzionali in
gioco e fermo comunque il rispetto di un
nucleo indefettibile di garanzie per gli
interessati. In definitiva, tale normativa
consente il diniego della richiesta
autorizzazione qualora non sia possibile
realizzare le opere senza pregiudizio di
altri beni ugualmente tutelati.
Premesso che le opere funzionali
all’eliminazione delle barriere
architettoniche sono solo quelle
tecnicamente necessarie a garantire
l’accessibilità, l’adattabilità e la
visitabilità degli edifici privati e non già
le opere dirette alla migliore fruibilità
dell’edificio e alla maggior comodità dei
residenti (TAR Abruzzo, sede L'Aquila,
08.11.2011, n. 526), va ricordato che il
legislatore ha effettuato delle scelte
puntuali in ordine alla graduazione degli
interessi coinvolti.
Così, in particolare, nel bilanciamento tra
l’interesse alla tutela del patrimonio
storico-artistico nazionale e quello alla
salvaguardia del diritto alla salute ed al
normale svolgimento della vita di relazione
e socializzazione dei soggetti in minorate
condizioni fisiche, tale normativa ha dato
prevalenza in via generale al secondo,
consentendo, purtuttavia, il diniego
dell’autorizzazione alla realizzazione di
interventi su beni vincolati nei soli casi
di accertato e motivato «serio
pregiudizio» del bene vincolato (TAR
Sicilia, sede Palermo, sez. I, 04.02.2011,
n. 218, TAR Campania, sede Napoli, sez. IV,
15.09.2011, n. 4402, e TAR Toscana sez. III,
25.10.2011, n. 1546); mentre, nel
bilanciamento degli interessi in gioco si è
ritenuto, al contrario, prevalente quello
relativo al rispetto della normativa
antincendio (Cons. St. sez. V, 08.03.2011,
n. 1437).
Per quando attiene, in particolare,
l’eliminazione di tali barriere negli
edifici in condominio, la normativa vigente
sopra richiamata nel contrasto tra
l’interesse dei condomini a non vedere
modificati i beni comuni e quello dei
soggetti portatori di minorazioni fisiche ha
tutelato questi ultimi in termini assoluti
ed inderogabili, per cui non è richiesto il
consenso di tutti i proprietari del
fabbricato ove l’opera debba essere
realizzata in cortili o chiostrine “interni
ai fabbricati o comuni o di uso comune a più
fabbricati” (TAR Lazio, sez. Latina,
04.03.2011, n. 221, e Cons. St. sez. IV,
04.05.2010, n. 2546).
Relativamente, invece, al conflitto tra gli
interessi dei soggetti portatori di
minorazioni fisiche e quello dei soggetti
terzi, il legislatore con la sopra ricordata
previsione contenuta nel predetto art. 79 e
nel richiamato art. 873 del codice civile,
ha ritenuto di dare prevalenza al diritto di
questi ultimi al rispetto delle distanze tra
le costruzioni, che quindi non può mai
essere “minore di tre metri”, in base
alla previsione codicistica, all’evidente
fine di garantire la salubrità delle
costruzioni. In definitiva, il legislatore
nel bilanciamento degli interessi in gioco
nel mentre ha ritenuto prevalente
l’interesse dei portatori di handicap
rispetto a quello degli altri “condomini”,
ha ritenuto al contrario recessivo tale
interesse rispetto a quello dei soggetti “terzi”,
cioè dei proprietari di immobili finitimi,
che non possono veder leso il loro diritto
alla salute, ugualmente meritevole di
tutela, a non vedere create delle
intercapedini che possono incidere sulla
salubrità delle costruzioni.
Tale scelta legislativa, ad avviso del
Collegio, non sembra inficiata da profili di
costituzionalità, in quanto rientra nella
discrezionalità del legislatore dare la
prevalenza all’uno o all’altro degli
interessi in conflitto; inoltre, la scelta
effettuata con la normativa di cui al più
volte ricordato art. 79 non sembra illogica
o particolarmente penalizzante degli
interessi dei soggetti portatori di
handicap, ove si consideri che nella specie
tale diritto è stata ritenuto recessivo nei
confronti del diritto alla salute, di pari
rilevanza, dei soggetti confinanti.
---------------
I ricorrenti con i tre motivi di gravame si
sono nella sostanza lamentati delle seguenti
circostanze:
1) che l’opera da realizzare non doveva
rispettare le distanze legali, in quanto non
creava una intercapedine dannosa per la
sicurezza e la salubrità della collettività
e che, peraltro, non era rispettata la
distanza in questione solo per una parte
marginale;
2) che l’opera era conforme alle
prescrizioni vigenti in quanto realizzata su
uno “spazio o area comune”;
3) che la legislazione di favore nei
confronti dei portatori di handicap, volta
all’eliminazione delle barriere
architettoniche, deve essere interpretata
nel senso che è consentita la deroga della
predetta distanza di tre metri ove sia
impossibile una diversa collocazione
dell’opera da realizzare.
Se, con riferimento a quanto sopra esposto,
sembra evidente la mancanza di pregio di
quanto dedotto con il terzo motivo, in
quanto il vigente sistema non tutela le
persone disabili in termini assoluti ed
inderogabili (Cons. St. sez. V, 08.03.2011,
n. 1437), ma effettua un bilanciamento degli
interessi in gioco, ponendo dei precisi
limiti alla realizzazione delle opere in
questione quando venga leso il diritto alla
salute dei confinanti, va evidenziato in
punto di fatto che l’opera da realizzare
-contrariamente a quanto dedotto con il
ricorso- non si sviluppa solo fino al primo
piano dell’edificio, ma è destinata a
raggiungere anche gli ulteriori piani
dell’edificio, che non sono abitati dal
soggetto portatore di handicap.
Conseguentemente, ritiene il Collegio che
l’opera -così come si rileva dagli atti
progettuali versati in giudizio anche dalla
parte ricorrente- per un verso ha quei
connotati e quelle caratteristiche di
stabilità che impongono di ricomprenderla
nella nozione di “costruzione” di cui
al predetto art. 873 del codice civile e per
altro verso, per le sue caratteristiche
costruttive, viene a creare una permanente
intercapedine dannosa per la sicurezza e la
salubrità delle costruzioni vicine; per cui
tale opera deve necessariamente rispettare
le distanze legali. Mentre appare in merito
irrilevante il fatto che tale distanza non
era rispettata solo per una parte
dell’opera, in quanto la norma sui distacchi
tra le costruzione prevede delle precise
distanze che, salva la c.d. tolleranza di
cantiere, debbono essere necessariamente
rispettate.
Quanto, infine, alla circostanza che
l’ascensore sarebbe stato realizzato su uno
“spazio o area comune”, va
evidenziato che la normativa in questione,
quando utilizza tale espressione, intende
riferirsi all’esistenza di un diritto di
comunione sull’area sulla quale deve essere
realizzata l’opera. Ora dagli atti di causa
non risulta che il cortile in questione sia
in comunione, né risulta dimostrata che
sull’area esista una servitù di passaggio;
al contrario, dalle mappe catastali e dagli
atti progettuali si evince che i due edifici
che si fronteggiano sono separati da una
precisa linea di confine posta a distanza di
un metro e mezzo dai due edifici.
Non trattandosi di un’area “comune”
la costruzione dell’ascensore, in assenza
del consenso dei proprietari dell’edificio
adiacente, avrebbe dovuto, pertanto,
rispettare le distanze di legge; né appare
utile al riguardo il riferimento alle
definizioni contenute nel predetto decreto
ministeriale 14.06.1989, n. 236, con il
quale sono state dettate le prescrizioni
tecniche necessarie a garantire
l’accessibilità degli edifici privati ai
fini del superamento e dell’eliminazione
delle barriere architettoniche, e ciò non
solo per il rango nella gerarchia delle
fonti di tale decreto e per la sua
inidoneità a modificare norme di legge, ma
anche e soprattutto per il fatto che le
definizioni contenute in tale decreto si
riferiscono alle prescrizioni tecniche
disciplinate con la normativa in questione
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 24.02.2012 n. 87 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza minima di 10 metri tra fabbricati
imposta dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444 costituisce limite inderogabile che
prevale sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali e che la norma sopra
indicata si applica anche alle
sopraelevazioni.
Ai fini della verifica del rispetto delle
distanze tra edificio sono computabili,
rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti di edificio quali
scale, terrazze e corpi avanzati.
Invero, a voler tralasciare il fatto che
nella specie le terrazze prese in
considerazione sembrano costituire una
soluzione architettonica volta a consentire
il passaggio di luce ed aria proprio al fine
di evitare intercapedini igienicamente
dannose, rimane nella vicenda all’esame
applicabile la deroga prevista dall’ultimo
comma dell’art. 9 del citato D.M. secondo
cui “sono ammesse distanze inferiori a
quelle indicate nei precedenti commi, nel
caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piano particolareggiato con
previsioni planovolumetriche”, evenienza,
questa, che ricorre nel caso di specie in
cui viene in rilievo una variante
urbanistica ad un piano particolareggiato
con previsioni plano-volumetriche.
Sono noti alla
Sezione gli orientamenti giurisprudenziali
secondo i quali la distanza minima di 10
metri tra fabbricati imposta dall’art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444 costituisce limite
inderogabile che prevale sulle contrastanti
previsioni dei regolamenti locali (Cons.
Stato, Sez. IV 02/11/2010 n. 7731) e che la
norma sopra indicata si applica anche alle
sopraelevazioni (Corte Costituzionale
19/05/2011 n. 173).
Parimenti questa Sezione ha avuto modo di
affermare che ai fini della verifica del
rispetto delle distanze tra edificio sono
computabili, rientrando nel concetto
civilistico di costruzione, le parti di
edificio quali scale, terrazze e corpi
avanzati (decisione 27/10/2010 n. 424; idem,
30/06/2005 n. 3539) ma le critiche formulate
dalla parte appellante (che prende a
riferimento della misurazione le terrazze)
non paiono cogliere nel segno.
Invero, a voler tralasciare il fatto che
nella specie le terrazze prese in
considerazione sembrano costituire una
soluzione architettonica volta a consentire
il passaggio di luce ed aria proprio al fine
di evitare intercapedini igienicamente
dannose, rimane nella vicenda all’esame
applicabile la deroga prevista dall’ultimo
comma dell’art. 9 del citato D.M. (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 02/11/2010 n. 7731)
secondo cui “sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti
commi, nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piano particolareggiato
con previsioni planovolumetriche”,
evenienza, questa che ricorre nel caso di
specie in cui viene in rilievo una variante
urbanistica ad un piano particolareggiato
con previsioni plano-volumetriche
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.01.2012 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni
in aderenza e problematiche connesse alle
previsioni urbanistiche del p.r.g..
Nella sentenza in esame il Consiglio di
Stato ha fatto proprio l'orientamento
secondo cui “la previsione urbanistica
del p.r.g. secondo cui nella zona destinata
alla costruzione di case a schiera non sono
stabiliti limiti di distanza tra edifici,
non trova applicazione ove nel fondo
finitimo preesista un edificio non
posizionato sul confine, non essendo
ipotizzabile, in tale evenienza,
l'edificazione in aderenza, secondo la
tipologia delle costruzioni a schiera, senza
alcun titolo pattizio.” (Consiglio
Stato, sez. V, 08.02.1991, n. 114).
D’altro canto, la giurisprudenza civilistica
è attenta nel contenere l’applicabilità del
principio della “prevenzione” in
termini analoghi a quelli applicati (reiettivamente)
dall’amministrazione comunale, essendosi in
proposito rilevato che “In tema di
distanze nelle costruzioni, qualora gli
strumenti urbanistici stabiliscano
determinate distanze dal confine e nulla
aggiungano sulla possibilità di costruire
«in aderenza» od «in appoggio», la
preclusione di dette facoltà non consente
l'operatività del principio della
prevenzione; nel caso in cui, invece, tali
facoltà siano previste, si versa in ipotesi
del tutto analoga a quella disciplinata
dagli art. 873 e ss. c.c., con la
conseguenza che è consentito al preveniente
costruire sul confine, ponendo il vicino,
che intenda a sua volta edificare,
nell'alternativa di chiedere la comunione
del muro e di costruire in aderenza
-eventualmente esercitando le opzioni
previste dagli art. 875 e 877, comma 2,
c.c.- , ovvero di arretrare la sua
costruzione sino a rispettare la maggiore
intera distanza imposta dallo strumento
urbanistico.” (Cassazione civile, sez.
II, 09.04.2010, n. 8465).
La giurisprudenza della Sezione ha affermato
costantemente analoghi principi (ex
multis: “il principio della
prevenzione ex art. 873 e ss. c.c. trova
applicazione non soltanto nei comuni
sprovvisti di strumenti urbanistici, ma
altresì in quelli nei quali gli strumenti
urbanistici non vietino l'edificazione sul
confine: in questo caso, dunque, essendo
ammessa la costruzione in aderenza, a chi
edifica per primo sul fondo contiguo ad
altro spettano tre diverse facoltà: in primo
luogo, quella di costruire sul confine; in
secondo luogo, quella di costruire con
distacco dal confine, osservando la distanza
minima imposta dal codice civile ovvero
quella maggiore distanza stabilita dai
regolamenti edilizi locali; ed infine quella
di costruire con distacco dal confine a
distanza inferiore alla metà di quella
prescritta per le costruzioni su fondi
finitimi, facendo salvo in questa evenienza
la facoltà per il vicino, il quale edifichi
successivamente, di avanzare il proprio
manufatto fino a quella preesistente, previa
corresponsione della metà del valore del
muro del vicino e del valore del suolo
occupato per effetto dell'avanzamento della
fabbrica.” (Consiglio Stato, sez. IV,
04.02.2011, n. 802)
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 27.01.2012 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
norma di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 parla
genericamente di “pareti finestrate”, e deve
dunque essere riferita, in generale, a tutte
le pareti con aperture non solo di veduta,
ma anche di luce, di qualsiasi genere, verso
l'esterno, mentre la
distanza a sua volta “va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e
non alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal
fatto che esse siano o meno in posizione
parallela”.
La norma di cui
all’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 parla
genericamente di “pareti finestrate”, e deve
dunque essere riferita, in generale, a tutte
le pareti con aperture non solo di veduta,
ma anche di luce, di qualsiasi genere, verso
l'esterno (conf. TAR Lombardia Milano,
sez. IV, 19.05.2011, n. 1282), mentre la
distanza a sua volta “va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e
non alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal
fatto che esse siano o meno in posizione
parallela” (C.d.S. IV, 02.11.2010, n.
7731)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 32 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 9 dm 1444/1968 riferisce
letteralmente il limite corrispondente
all’altezza dell’edificio più alto ai soli
edifici ricadenti nelle zone C.
Trattandosi nella fattispecie di edificio
ricadente in zona B, si applica, invece, il
solo limite di 10 metri fra pareti
finestrate.
Con il nono e
decimo motivo di ricorso, viene denunciata
la violazione dell’art. 9 del d.M. lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, che prevede
una distanza minima assoluta di metri 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti ovvero, quando uno degli edifici
che si fronteggiano abbia altezza superiore
a metri 10, una distanza almeno pari
all’altezza del fabbricato più alto.
Sarebbero pertanto illegittime, ad avviso di
parte ricorrente, le impugnate varianti
parziali al P.R.G.C. che hanno consentito
una distanza fra gli edifici di 10 metri,
mentre avrebbero dovuto imporre il rispetto
di una distanza pari all’altezza del
fabbricato maggiormente sviluppato in
altezza, ossia di oltre 22 metri.
Ne conseguirebbe, inoltre, l’illegittimità
derivata del permesso di costruire
rilasciato alla controinteressata.
La censura non considera esattamente il
tenore testuale della disposizione normativa
che si assume violata.
Il citato art. 9, infatti, riferisce
letteralmente il limite corrispondente
all’altezza dell’edificio più alto ai soli
edifici ricadenti nelle zone C.
Trattandosi nella fattispecie di edificio
ricadente in zona B, si applica, invece, il
solo limite di 10 metri fra pareti
finestrate, il cui rispetto non è fatto
oggetto di contestazione (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 12.01.2012 n. 17 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le norme locali possono derogare
alle distanze su edifici preesistenti.
Quando gli strumenti urbanistici locali
prevedano, riguardo ad edifici preesistenti,
la facoltà di costruire in deroga alle
prescrizioni contenute nel piano regolatore
sulle distanze, si applica il principio di
prevenzione.
Questo principio, in caso di
sopraelevazione, comporta che “mentre il
preveniente deve attenersi, nella
prosecuzione in altezza del fabbricato,
della scelta operata originariamente, di
guisa che ogni parte dell’immobile risulti
conforme al criterio di prevenzione adottato
sulla base di esso, a ciò non può frapporre
ostacoli il confinante (prevenuto) che, se a
sua volta abbia costruito in aderenza fino
all’altezza inizialmente raggiunta dal
preveniente, ha diritto di sopraelevare
soltanto sul confine, ovvero a distanza da
questo (e, quindi, dalla eventuale
sopraelevazione del preveniente) pari a
quella globale minima di legge o dei
regolamenti” (Cass. civ. Sez. III,
27.08.1990, n. 8849).
Nel caso in commento il ricorrente aveva
contestato l’annullamento d’ufficio di una
concessione edilizia per un intervento di
ristrutturazione e sopraelevazione, motivato
sulla violazione dell’art. 873 cod. civ., in
quanto la distanza del fabbricato da quello
di altra proprietà era risultata inferiore
alla normativa. Ma secondo il ricorrente,
trattandosi di costruzione su confine eretta
anteriormente a quella del vicino (che
avrebbe costruito in violazione della
distanza di tre metri), spetterebbe al
preveniente regolare le distanze anche per
la successiva sopraelevazione.
E i giudici del Consiglio di Stato,
appoggiando questa posizione, hanno chiarito
che, quando gli strumenti urbanistici locali
fissino senza alternativa le distanze delle
costruzioni dal confine, salva soltanto la
possibilità di costruzione in aderenza, non
può farsi luogo all’applicazione del
principio di prevenzione; ma, al contrario,
quando essi prevedano, riguardo ad edifici
preesistenti, la facoltà di costruire in
deroga alle prescrizioni contenute nel piano
regolatore sulle distanze, si versa in
ipotesi del tutto analoga a quella
disciplinata dall’art. 873 c.c., “con la
conseguenza che è consentito al preveniente
costruire sul confine, ponendo il vicino,
che intenda a sua volta edificare,
nell'alternativa di chiedere la comunione
del muro e di costruire in aderenza ovvero
di arretrare la sua costruzione sino a
rispettare la maggiore intera distanza
imposta dallo strumento urbanistico
(Cassazione civile, sez. II, 09.04.2010, n.
8465)” (Cons. St. Sez. IV, 09.05.2011,
n. 2749; analogamente, Cons. St. Sez. IV,
31.03.2009, n. 1998) (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 10.01.2012 n. 53 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre
il preveniente deve attenersi, nella
prosecuzione in altezza del fabbricato,
della scelta operata originariamente, di
guisa che ogni parte dell’immobile risulti
conforme al criterio di prevenzione adottato
sulla base di esso, a ciò non può frapporre
ostacoli il confinante (prevenuto) che, se a
sua volta abbia costruito in aderenza fino
all’altezza inizialmente raggiunta dal
preveniente, ha diritto di sopraelevare
soltanto sul confine, ovvero a distanza da
questo (e, quindi, dalla eventuale
sopraelevazione del preveniente) pari a
quella globale minima di legge o dei
regolamenti.
Mentre quando gli strumenti urbanistici
locali fissino senza alternativa le distanze
delle costruzioni dal confine, salva
soltanto la possibilità di costruzione in
aderenza, non può farsi luogo
all’applicazione del principio di
prevenzione, quando, al contrario, essi
prevedono, riguardo ad edifici preesistenti,
la facoltà di costruire in deroga alle
prescrizioni contenute nel piano regolatore
sulle distanze, si versa in ipotesi del
tutto analoga a quella disciplinata
dall’art. 873 c.c., “con la conseguenza che
è consentito al preveniente costruire sul
confine, ponendo il vicino, che intenda a
sua volta edificare, nell'alternativa di
chiedere la comunione del muro e di
costruire in aderenza ovvero di arretrare la
sua costruzione sino a rispettare la
maggiore intera distanza imposta dallo
strumento urbanistico.
Il ricorrente ha impugnato dinanzi al Tar
per l’Emilia Romagna il provvedimento di
annullamento d’ufficio della concessione
edilizia rilasciata in suo favore dal Comune
di Rimini per un intervento di
ristrutturazione e sopraelevazione di
edificio di sua proprietà. L’ annullamento è
motivato sulla violazione dell’art. 873 cod.
civ., in quanto la concessione sarebbe stata
rilasciata sul falso presupposto che la
distanza del fabbricato di proprietà del
ricorrente da quello di altra proprietà
fosse di ml 3,00, mentre, successivamente al
rilascio, essa sarebbe risultata invece
variabile da ml 2,63 a ml 2,70.
Il Tar ha respinto il ricorso, giudicando la
concessione effettivamente contrastante con
l’art. 873 cod. civ e con gli artt. 19 e
2.04 delle N.T.A. del piano regolatore
generale del Comune, che ammettono
interventi ampliativi purché nel rispetto
delle distanze prescritte dal codice civile.
Propone appello l’interessato, denunciando
l’erroneità della sentenza per violazione
della normativa urbanistica generale e di
zona, l’errata applicazione dell’art. 873
cod. civ e l’irrilevanza dell’errore
incolpevole della rappresentazione della
distanza negli elaborati grafici. Invero,
come evidenziato nell’istruttoria del
Responsabile del procedimento, la
sopraelevazione per la costruzione del tetto
sarebbe impostata sulla stessa quota
dell’edificio preesistente e sarebbe
conforme alle previsioni dell’art. 4.04, in
quanto l’innalzamento era previsto su una
parete già preesistente sul confine, e
dell’art. 16 della n.t.a. del PRG, che
consente la costruzione sul confine.
La costruzione non violerebbe, pertanto,
l’art. 873, dovendosi armonizzare il
principio della distanza con quello della
prevenzione.
Si è costituito in resistenza il Comune di
Rimini, evidenziando l’erroneità della
rappresentazione grafica presentata dal
ricorrente e la non pertinenza del richiamo
all’art. 16 n.t.a., riguardante l’ipotesi di
distanza degli edifici dai confini di
proprietà, e chiedendo la conferma della
sentenza di primo grado.
...
Gli art. 2.04 e 19 n.t.a. del piano
regolatore generale, nello stabilire le
distanze tra costruzioni, ammettono
interventi ampliativi, anche tramite
sopraelevazione, sugli edifici esistenti in
contrasto con dette distanze, purché nel
rispetto delle norme del codice civile.
In effetti, il provvedimento di annullamento
d’ufficio, riguardante immobili preesistenti
non rispettosi delle distanze introdotte
dalla normativa urbanistica, è motivato
sulla violazione dell’art. 873 c.c. in
materia di distanza tra edifici .
Considera, tuttavia, il Collegio che la
corretta applicazione dei principi
civilistici in materia di distanza tra
edifici, richiamati dalle norme tecniche di
attuazione del piano regolatore, involga
anche quello di prevenzione, data la
circostanza (non contestata) che l’edificio
che il ricorrente intende sopraelevare
preesiste rispetto a quello del vicino,
costruito ad una distanza inferiore a tre
metri.
Detto principio, in caso di sopraelevazione,
comporta che “mentre il preveniente deve
attenersi, nella prosecuzione in altezza del
fabbricato, della scelta operata
originariamente, di guisa che ogni parte
dell’immobile risulti conforme al criterio
di prevenzione adottato sulla base di esso,
a ciò non può frapporre ostacoli il
confinante (prevenuto) che, se a sua volta
abbia costruito in aderenza fino all’altezza
inizialmente raggiunta dal preveniente, ha
diritto di sopraelevare soltanto sul
confine, ovvero a distanza da questo (e,
quindi, dalla eventuale sopraelevazione del
preveniente) pari a quella globale minima di
legge o dei regolamenti” (Cass. civ.
Sez. III, 27.08.1990, n. 8849).
La possibilità, nella specie, di fare
applicazione di detto principio trova
conferma nel consolidato orientamento per
cui, mentre quando gli strumenti urbanistici
locali fissino senza alternativa le distanze
delle costruzioni dal confine, salva
soltanto la possibilità di costruzione in
aderenza, non può farsi luogo
all’applicazione del principio di
prevenzione, quando, al contrario, essi
prevedono, riguardo ad edifici preesistenti,
la facoltà di costruire in deroga alle
prescrizioni contenute nel piano regolatore
sulle distanze, si versa in ipotesi del
tutto analoga a quella disciplinata
dall’art. 873 c.c., “con la conseguenza
che è consentito al preveniente costruire
sul confine, ponendo il vicino, che intenda
a sua volta edificare, nell'alternativa di
chiedere la comunione del muro e di
costruire in aderenza ovvero di arretrare la
sua costruzione sino a rispettare la
maggiore intera distanza imposta dallo
strumento urbanistico (Cassazione civile,
sez. II, 09.04.2010, n. 8465)” (Cons.
St. Sez. IV, 09.05.2011, n. 2749;
analogamente, Cons. St. Sez.IV, 31.03.2009,
n. 1998).
Dalle suesposte considerazioni discende la
fondatezza dell’appello in punto di erronea
applicazione dell’art. 873 c.c., richiamato
dalle n.t.a., non essendosi tenuto conto
della prevenzione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.01.2012 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2011 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Determinazione
della misura delle distanze fra nuove
costruzioni in mancanza di norme nel
regolamento edilizio comunale.
In materia di distanze tra nuove
costruzioni, quando il regolamento edilizio
comunale presenta una lacuna normativa, la
disciplina applicabile è quella contenuta
nell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del
1942 che richiama l'art. 9 d.m. 02.04.1968
n. 1444, ed ha natura di norma integrativa
dell'art. 873 c.c..
In difetto di norme regolamentari, quindi
deve applicarsi la norma del d.m. del 1968,
n. 1444 (art. 9), concernente la distanza
minima di dieci metri tra edifici finestrati
e, per dato logico, in assenza di tali
edifici, di 5 metri dal confine in quanto se
e' pur vero che l’art. 9 citato è nella sua
formulazione rivolto ad indirizzare la
pianificazione urbanistica (formazione degli
strumenti urbanistici), è altrettanto vero
che in assenza di norme locali esso è
direttamente applicabile in sede di rilascio
degli assensi edilizi
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6955 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n.
1444, nel prescrivere, per gli edifici
ricadenti in zone territoriali diverse dalla
zona A, la distanza minima assoluta di dieci
metri tra pareti finestrate, pone una
prescrizione tassativa ed inderogabile.
L'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur
riferendosi (comma 1 n. 2) alla
realizzazione di "nuovi edifici", è
applicabile anche agli interventi di
sopraelevazione.
---------------
Poiché l'art. 9, d.m. 1444/1968 è stato
emanato su delega dell'art. 41-quinquies l.
17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l.
06.08.1967 n. 765, ha efficacia di legge
dello Stato, le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e
distanza tra i fabbricati prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti
locali successivi, ai quali si sostituiscono
per inserzione automatica.
La
giurisprudenza è costante nell'affermare che
l'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, nel
prescrivere, per gli edifici ricadenti in
zone territoriali diverse dalla zona A, la
distanza minima assoluta di dieci metri tra
pareti finestrate, ponga una prescrizione
tassativa ed inderogabile (Cassazione
civile, sez. II, 22.04.2008, n. 10387; sez.
II, 03.03.2008, n. 5741).
È ugualmente pacifico che l'art. 9, d.m.
02.04.1968 n. 1444, pur riferendosi (comma 1
n. 2) alla realizzazione di "nuovi
edifici", sia applicabile anche agli
interventi di sopraelevazione (Corte
costituzionale, 19.05.2011, n. 173; Cass.
Civ., sez. II, 27.03.2001, n. 4413; TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 10.12.2010, n.
7505).
Questi principi trovano piena applicazione
nella fattispecie oggetto del presente
giudizio non potendo condividersi quanto
sostenuto dalla difesa dell'amministrazione
resistente circa la assimilazione dei nuclei
rurali in questione -azzonati dal p.r.g. in
zona agricola E- alle zone A, e, quindi,
l'esclusione dall'ambito di applicazione
dell'art. 9, d.m. 1444/1968.
La norma, invero, non può che fare
riferimento alla classificazione operata
dallo strumento urbanistico comunale ai
sensi dell'art. 2, d.m. 1444/1968 e non
possono, quindi, invocarsi asserite
caratteristiche obiettive della zona
contrastanti con la qualificazione operata
dal p.r.g.
Né trova applicazione la deroga prevista
all'ultimo comma dell'art. 9 d.m. 02.04.1968
n. 1444, concernendo solo i piani
particolareggiati e le lottizzazioni
convenzionate e non i permessi di costruire
(cfr. Consiglio Stato sez. IV, 02.11.2010,
n. 7731).
Per le ragioni esposte va quindi affermata
l'illegittimità del permesso di costruire
rilasciato dal Comune di Premana a favore
dei sig.ri ... poiché prevede la
realizzazione di una sopraelevazione senza
che sia rispettata la distanza di 10 metri
tra pareti finestrate (rispetto all'edificio
di proprietà del ricorrente) prevista
dall'art. 9, d.m. 1444/1999. Le altre
censure proposte possono essere assorbite.
---------------
Poiché l'art. 9, d.m. 1444/1968 è stato
emanato su delega dell'art. 41-quinquies l.
17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l.
06.08.1967 n. 765, ha efficacia di legge
dello Stato, le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e
distanza tra i fabbricati prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti
locali successivi, ai quali si sostituiscono
per inserzione automatica (Cassazione civile
sez. un., 07.07.2011, n. 14953; Consiglio
Stato, sez. IV, 02.11.2010, n. 7731) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.12.2011 n. 3248 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disposizione di cui all’art. 9 del D.M. n.
1444/1968, che impone la distanza minima di
10 metri tra pareti contrapposte di edifici
antistanti, è norma volta a evitare,
nell'interesse pubblico, la formazione di
intercapedini nocive tra edifici, e non a
salvaguardare l'interesse privato del
frontista alla riservatezza.
Essa costituisce un limite alla stessa
potestà legislativa regionale concorrente in
materia di governo del territorio, ed, a
maggior ragione, preclude il rilascio di
titoli edilizi per la realizzazione di
interventi comportanti la violazione della
distanza minima di dieci metri.
Pacifico che tale distanza debba essere
osservata anche nel caso in cui una sola
delle pareti contrapposte risulti
finestrata, le caratteristiche del progetto
assentito dal Comune di Recco agli odierni
controinteressati non consentono di
qualificare l’intervento di recupero del
sottotetto come semplice ristrutturazione.
Questa, infatti, ai sensi dell’art. 3 del
D.P.R. n. 380/2001, si contraddistingue
dalla nuova edificazione per il fatto di
operare su un territorio già trasformato,
conservando la struttura fisica
dell'edificazione preesistente (sia pure con
la sovrapposizione di un insieme sistematico
di opere, che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente), ovvero
sostituendola, ma, in questo caso, con
ricostruzione rispettosa quantomeno della
volumetria e della sagoma della costruzione
preesistente.
Com’è noto, la disposizione di cui all’art.
9 del D.M. n. 1444/1968, che impone la
distanza minima di dieci metri tra pareti
contrapposte di edifici antistanti, è norma
volta a evitare, nell'interesse pubblico, la
formazione di intercapedini nocive tra
edifici, e non a salvaguardare l'interesse
privato del frontista alla riservatezza (per
tutte, da ultimo cfr. Cons. Stato, sez. IV,
02.11.2010, n. 7731).
Ciò posto, non è dubitabile che, con
riferimento all’impugnazione di un titolo
edilizio che consenta l’edificazione in
spregio della distanza minima prescritta dal
citato art. 9, riveste una posizione
differenziata il proprietario dell’edificio
frontistante la nuova costruzione
illegittimamente autorizzata, quale soggetto
direttamente coinvolto nella situazione di
rischio igienico-sanitario che il D.M. n.
1444/1968 mira a scongiurare: se, pertanto,
è innegabile la configurabilità della
legittimazione ad agire in capo al
ricorrente ..., proprietario dell’abitazione
rispetto alla quale il nuovo corpo di
fabbrica verrebbe a trovarsi a distanza
inferiore a quella legale, le medesime
conclusioni valgono per anche per le altre
ricorrenti, condomine dello stabile di via
Roma 250, e perciò –in quanto titolari di
diritti sulle parti comuni, ivi compresi i
muri perimetrali– portatrici di un interesse
differenziato alla salvaguardia delle
condizioni di salubrità dell’immobile (il
rilievo conferma l’omogeneità delle
posizioni soggettive fatte valere dai
ricorrenti).
---------------
L'art. 9 D.M. n. 1444/1968, lo si è detto, è
norma di ordine pubblico sanitario
preordinata a vietare le intercapedini
dannose fra edifici. Per costante
giurisprudenza, essa costituisce un limite
alla stessa potestà legislativa regionale
concorrente in materia di governo del
territorio (cfr. TAR Liguria, sez. I,
30.06.2009, n. 1621), ed, a maggior ragione,
preclude il rilascio di titoli edilizi per
la realizzazione di interventi comportanti
la violazione della distanza minima di dieci
metri.
Pacifico che tale distanza debba essere
osservata anche nel caso in cui una sola
delle pareti contrapposte risulti finestrata
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 18.02.2003, n.
871), le caratteristiche del progetto
assentito dal Comune di Recco agli odierni
controinteressati non consentono di
qualificare l’intervento di recupero del
sottotetto come semplice ristrutturazione.
Questa, infatti, ai sensi dell’art. 3 del
D.P.R. n. 380/2001, si contraddistingue
dalla nuova edificazione per il fatto di
operare su un territorio già trasformato,
conservando la struttura fisica
dell'edificazione preesistente (sia pure con
la sovrapposizione di un insieme sistematico
di opere, che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente), ovvero
sostituendola, ma, in questo caso, con
ricostruzione rispettosa quantomeno della
volumetria e della sagoma della costruzione
preesistente (così Cons. Stato, sez. IV,
04.02.2011, n. 802).
Nella specie, di contro, è vero che il colmo
del tetto della porzione oggetto di
intervento, attualmente appoggiato in
aderenza all’edificio adiacente, viene
complessivamente innalzato dalla quota di
8,91 a quella di 10,34; ma è altrettanto
vero che, per effetto della mutata tipologia
e orientamento delle falde, l’altezza della
parete frontistante l’edificio di proprietà
dei ricorrenti sale di oltre tre metri, da
quota 6,96 a quota 10,34, appunto (si vedano
le tavole di progetto 2a e 2b), dando luogo
ad una radicale modifica della sagoma e
della volumetria del manufatto preesistente:
modifica annoverabile alla tipologia della
nuova costruzione anche ai sensi della legge
regionale n. 24/2001 sul recupero dei
sottotetti esistenti, perché ampiamente
eccedente il modesto incremento delle
altezze che –secondo la giurisprudenza della
Sezione (TAR Liguria, sez. I, 19.12.2006, n.
1711), come richiamata dalla stessa
circolare regionale invocata dai
controinteressati– potrebbe risultare
compatibile con la nozione di
ristrutturazione e, conseguentemente,
legittimare la sottrazione dell’intervento
all’ambito operativo dell’art. 9 D.M. n.
1444/1968 (del resto, basta esaminare le
tavole progettuali di raffronto tra lo stato
attuale e quello di progetto per apprezzare
in tutta la sua evidenza come l’innalzamento
della parete determini il formarsi di una
nuova intercapedine con la parete
frontistante)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 16.12.2011 n. 1858 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della verifica del rispetto delle
distanze legali tra edifici, non sono
computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano una funzione
meramente ornamentale, di rifinitura o
accessoria di limitata entità (come le
mensole, i cornicioni, le grondaie e
simili); sono, invece, computabili,
rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti dell'edificio (quali
scale, terrazze e corpi avanzati) che,
benché non corrispondano a volumi abitativi
coperti, siano destinati a estendere e
ampliare la consistenza del fabbricato.
Quanto alla diversa questione della distanza
dal fabbricato lato est, che il Comune
chiede di rispettare entro i 10 ml, la
difesa di parte ricorrente ne deduce
l’illegittimità, perché avrebbe considerato
il vano scale come chiuso, invece che
aperto, e dunque non rilevante ai fini del
calcolo della distanza. Ma tale deduzione
difensiva, a tacere di ogni questione
inerente il calcolo delle distanze nelle
operazioni di ricostruzione previa
demolizione limitatamente all’aumento di
cubatura del 20%, è comunque infondata,
perché –così come prospettata da parte
ricorrente- urta con il pacifico
insegnamento giurisprudenziale secondo cui,
“ai fini della verifica del rispetto
delle distanze legali tra edifici, non sono
computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano una funzione
meramente ornamentale, di rifinitura o
accessoria di limitata entità (come le
mensole, i cornicioni, le grondaie e
simili); sono, invece, computabili,
rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti dell'edificio (quali
scale, terrazze e corpi avanzati) che,
benché non corrispondano a volumi abitativi
coperti, siano destinati a estendere e
ampliare la consistenza del fabbricato”
(Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2010 , n.
424; cfr. anche ex plurimis e tra le
più recenti Corte appello Brescia, sez. II,
18.05.2009; Consiglio Stato, sez. IV,
30.06.2005, n. 3539; cfr. anche Cassazione
civile, sez. II, 03.02.2011, n. 2566, che
considera computabile ai fini delle distanze
il torrino cassa scale)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 23.11.2011 n. 832 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di rispetto delle distanze legali tra
costruzioni, la sopraelevazione di un
edificio preesistente, determinando un
incremento della volumetria del fabbricato,
è qualificabile come nuova costruzione.
Deriva da quanto precede, pertanto,
l'applicazione della normativa urbanistica
vigente al momento della modifica e
l'inoperatività del criterio della
prevenzione se riferito alle costruzioni
originarie, in quanto sostituito dal
principio della priorità temporale correlata
al momento della sopraelevazione.
L’istituto della prevenzione, secondo
l'interpretazione consolidata del combinato
disposto di cui agli art. 873, 875 e 877
c.c., muove dalla circostanza di fatto che,
a partire dalla linea di confine, non siano
intervenute costruzioni nelle due proprietà
sicché, il soggetto che costruisce per
primo, potendo scegliere se edificare sul
confine o a distanza da esso, condiziona il
proprietario del fondo limitrofo che, a
propria volta, può scegliere di costruire in
aderenza ovvero mantenendo la distanza
legale minima prescritta: detta figura non
può, quindi, trovare applicazione laddove
sui due fondi finitimi, esistano già
edifici, come è nel caso sottoposto
all’esame del Collegio).
Ne discende, quindi, che il principio della
prevenzione non è applicabile quando
l'obbligo di osservare un determinato
distacco dal confine sia dettato da
regolamenti comunali in tema di edilizia e
di urbanistica, avuto riguardo al carattere
indiscutibilmente cogente di tali fonti
normative, da intendersi preordinate alla
tutela, oltre che di privati diritti
soggettivi, di interessi generali. Proprio
in quest'ottica la giurisprudenza ha
sottolineato che nel caso in cui i
regolamenti edilizi stabiliscano
espressamente la necessità di rispettare
determinate distanze dal confine non può
ritenersi consentita la costruzione in
aderenza o in appoggio a meno che tale
facoltà non sia consentita come alternativa
all'obbligo di rispettare le suddette.
Secondo la giurisprudenza della Corte di
Cassazione, condivisa dal Collegio, in tema
di rispetto delle distanze legali tra
costruzioni, la sopraelevazione di un
edificio preesistente, determinando un
incremento della volumetria del fabbricato,
è qualificabile come nuova costruzione.
Deriva da quanto precede, pertanto,
l'applicazione della normativa urbanistica
vigente al momento della modifica e
l'inoperatività del criterio della
prevenzione se riferito alle costruzioni
originarie, in quanto sostituito dal
principio della priorità temporale correlata
al momento della sopraelevazione (In
applicazione del riferito principio la
Suprema Corte ha accertato che la parte, nel
trasformare in vano chiuso e coperto il
terrazzo a livello posto al primo piano del
suo fabbricato, a confine con il fondo della
controparte, avrebbe dovuto comunque
rispettare la distanza prescritta dallo
strumento urbanistico vigente, anche se il
nuovo manufatto era contenuto entro
l'ingombro orizzontale del piano inferiore)
(cfr. Cassazione civile, sez. II,
03.01.2011, n. 74).
E, infatti, l’istituto della prevenzione,
secondo l'interpretazione consolidata del
combinato disposto di cui agli art. 873, 875
e 877 c.c., muove dalla circostanza di fatto
che, a partire dalla linea di confine, non
siano intervenute costruzioni nelle due
proprietà sicché, il soggetto che costruisce
per primo, potendo scegliere se edificare
sul confine o a distanza da esso, condiziona
il proprietario del fondo limitrofo che, a
propria volta, può scegliere di costruire in
aderenza ovvero mantenendo la distanza
legale minima prescritta: detta figura non
può, quindi, trovare applicazione laddove
sui due fondi finitimi, esistano già
edifici, come è nel caso sottoposto
all’esame del Collegio (cfr. Consiglio
Stato, sez. V, 24.12.2001, n. 6374).
Ne discende, quindi, che il principio della
prevenzione non è applicabile quando
l'obbligo di osservare un determinato
distacco dal confine sia dettato da
regolamenti comunali in tema di edilizia e
di urbanistica, avuto riguardo al carattere
indiscutibilmente cogente di tali fonti
normative, da intendersi preordinate alla
tutela, oltre che di privati diritti
soggettivi, di interessi generali. Proprio
in quest'ottica la giurisprudenza ha
sottolineato che nel caso in cui i
regolamenti edilizi stabiliscano
espressamente la necessità di rispettare
determinate distanze dal confine non può
ritenersi consentita la costruzione in
aderenza o in appoggio a meno che tale
facoltà non sia consentita come alternativa
all'obbligo di rispettare le suddette
distanze (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
13.01.2004, n. 46) (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 11.11.2011 n. 1683 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sono
soggetti alla disciplina delle distanze
tutti gli interventi edilizi, ancorché
definiti come “ristrutturazione”, che
comportino l'ampliamento di edifici
«all'esterno della sagoma esistente» [cfr.
le «definizioni» di cui all'art. 27, comma
1, lett. e), n. 1), l.rg. n. 12 del 2005,
che testualmente annovera tale fattispecie
tra gli «interventi di nuova costruzione»].
Infatti la disposizione di cui all’art. 9,
d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur riferendosi
(comma 1 n. 2) alla realizzazione di "nuovi
edifici", è applicabile anche agli
interventi di sopraelevazione e dunque anche
alle ristrutturazioni, quando comportano un
incremento dell'altezza del fabbricato.
Con il ricorso principale viene impugnata la
delibera di approvazione del piano di
recupero, interessante un immobile limitrofo
alla proprietà di parte ricorrente.
...
Nel merito il ricorso merita accoglimento,
essendo prima facie fondato il motivo
n. 4 (indicato nel ricorso al punto 9),
relativo alla violazione delle distanze.
Dalla ricostruzione dei fatti è evidente che
la torretta è stata ampliata e sostituita
con un nuovo piano, violando la distanza dai
confini e dagli edifici.
...
Questa Sezione ha recentemente affermato che
sono soggetti alla disciplina delle distanze
tutti gli interventi edilizi, ancorché
definiti come “ristrutturazione”, che
comportino l'ampliamento di edifici «all'esterno
della sagoma esistente» [cfr. le «definizioni»
di cui all'art. 27, comma 1, lett. e), n.
1), l.rg. n. 12 del 2005, che testualmente
annovera tale fattispecie tra gli «interventi
di nuova costruzione»] (TAR Lombardia
Milano, sez. II, 10.12.2010, n. 7505).
Infatti la disposizione di cui all’art. 9,
d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur riferendosi
(comma 1, n. 2) alla realizzazione di "nuovi
edifici", è applicabile anche agli
interventi di sopraelevazione e dunque anche
alle ristrutturazioni, quando comportano un
incremento dell'altezza del fabbricato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.11.2011 n. 2654 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
regola delle distanze legali tra costruzioni
di cui al comma 2 dell’art. 9 DM 1444/1968 è
applicabile anche alle sopraelevazioni.
In tema di distanze tra costruzioni,
applicabile, come detto, anche alle
sopraelevazioni, l’adozione da parte dei
Comuni di strumenti urbanistici contenenti
disposizioni illegittime perché contrastanti
con la norma di superiore livello dell’art.
9 DM 02.04.1968 n. 1444 –che fissa in dieci
metri la distanza minima assoluta tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti–
comporta l’obbligo per il giudice di
applicare, in sostituzione delle
disposizioni illegittime, quelle dello
stesso strumento urbanistico, nella
formulazione derivate, però, dalla
inserzione in esso della regola sulla
distanza fissata nel decreto ministeriale.
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1,
n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo
tassativa ed inderogabile, impone al
proprietario dell'area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio
edificio ad almeno dieci metri da quello,
senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad
essere mantenuta ad una quota inferiore a
quella dalle finestre antistanti e a
distanza dalla soglia di queste conforme
alle previsioni dell'art. 907 comma 3, c.c.
Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n.
1444 integrano con efficacia precettiva il
regime delle distanze nelle costruzioni,
sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i comuni in sede di
formazione o revisione degli strumenti
urbanistici. Conseguentemente, ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l'anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto di impugnazione, o
comunque disapplicata, stante la sua
automatica sostituzione con la clausola
legale dettata dalla fonte sovraordinata.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta
disposizioni in tema di distanze tra
costruzioni, stante la natura di norma
primaria, sostituisce eventuali disposizioni
contrarie contenute nelle norme tecniche di
attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m.
02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza
minima di 10 m. tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti è volta non
alla tutela del diritto alla riservatezza,
bensì alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque,
tassativa ed inderogabile.
E’ da rigettarsi anche l’altro motivo di
appello, con il quale si deduce la
inapplicabilità alla fattispecie del
richiamato art. 9, comma 2 D.M. 02.04.1968
n. 1444, perché esso sarebbe applicabile
alle sole nuove costruzioni e non anche alle
sopraelevazioni.
Infatti, è vero il contrario, secondo
consolidata giurisprudenza (si veda, tra
tante, in tal senso, Cassazione civile,
sezione II, 27.03.2001, n.4413) che ritiene
che la regola delle distanze legali tra
costruzioni di cui al comma 2 dell’art. 9
sia applicabile anche alle sopraelevazioni.
Sono infondati anche gli altri motivi,
sostenuti in entrambi gli appelli, con i
quali si sostiene la erroneità della
sentenza impugnata perché:
a) il PRG vigente
all’epoca dei fatti faceva unicamente
riferimento ai limiti di altezza e non di
distanze;
b) era ammessa la deroga di cui al
secondo comma dell’art. 9 su menzionato;
c)
la delibera comunale avrebbe natura di piano
particolareggiato e non di mero studio
urbanistico, travisando dalla intitolazione.
Infatti, ad opinione del Collegio nella
suddetta materia deve ritenersi che in tema
di distanze tra costruzioni, applicabile,
come detto, anche alle sopraelevazioni,
l’adozione da parte dei Comuni di strumenti
urbanistici contenenti disposizioni
illegittime perché contrastanti con la norma
di superiore livello dell’art. 9 DM
02.04.1968 n. 1444 –che fissa in dieci metri
la distanza minima assoluta tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti–
comporta l’obbligo per il giudice di
applicare, in sostituzione delle
disposizioni illegittime, quelle dello
stesso strumento urbanistico, nella
formulazione derivate, però, dalla
inserzione in esso della regola sulla
distanza fissata nel decreto ministeriale
(così Cassazione civile, II, 27.03.2001, n.
4413 su richiamata; così anche Consiglio di
Stato, IV, 12.06.2007, n. 3094).
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1,
n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo
tassativa ed inderogabile, impone al
proprietario dell'area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio
edificio ad almeno dieci metri da quello,
senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad
essere mantenuta ad una quota inferiore a
quella dalle finestre antistanti e a
distanza dalla soglia di queste conforme
alle previsioni dell'art. 907 comma 3, c.c.
Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n.
1444 integrano con efficacia precettiva il
regime delle distanze nelle costruzioni,
sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i comuni in sede di
formazione o revisione degli strumenti
urbanistici. Conseguentemente, ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l'anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto di impugnazione, o
comunque disapplicata, stante la sua
automatica sostituzione con la clausola
legale dettata dalla fonte sovraordinata.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta
disposizioni in tema di distanze tra
costruzioni, stante la natura di norma
primaria, sostituisce eventuali disposizioni
contrarie contenute nelle norme tecniche di
attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m.
02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza
minima di 10 m. tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti è volta non
alla tutela del diritto alla riservatezza,
bensì alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque,
tassativa ed inderogabile (per tali principi
consolidati, ex plurimis, Consiglio
Stato, sez. IV, 12.06.2007, n. 3094)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.10.2011 n. 5759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art. 873 c.c. non
contiene una definizione di costruzione,
rilevante ai fini del calcolo delle distanze
tra edifici; tale definizione è data
dall’interpretazione giurisprudenziale,
secondo cui vi rientra qualsiasi opera non
totalmente interrata avente i caratteri
della solidità e immobilizzazione rispetto
al suolo, compresi i balconi e le scale
esterne in muratura.
---------------
La concessione edilizia in sanatoria può
introdurre o recepire prescrizioni tese ad
imporre correttivi sull’esistente, qualora
si tratti, come nel caso di specie, di
integrazioni minime, di esigua entità, che
consentano il ripristino della salvaguardia
di diritti dei terzi.
L’art. 17 delle
N.T.A. del piano regolatore approvato con
deliberazione regionale n. 11302 del
12/12/1988 (richiamato da Grilli s.a.s.
nella memoria difensiva; documento n. 4
depositato in giudizio dalla stessa) prevede
che non vadano considerate, ai fini del
calcolo delle distanze tra edifici e dai
confini, “le sporgenze dei balconi che
abbiano uno sbalzo inferiore a 2 metri e,
sempre nel limite di 2 metri dal corpo di
fabbrica principale, tutte le scale esterne
sia principali che di servizio insieme agli
aggetti delle coperture”. Analoga
esclusione dal computo delle distanze è
prevista dall’art. 7 delle N.T.A. del
regolamento urbanistico, nel testo vigente
al momento dell’emissione del gravato
provvedimento.
La disposizione di cui al citato art. 17,
tuttavia, è intitolata “distanze tra gli
edifici”, assume a presupposto la
distanza, maggiore di quella prevista
dall’art. 873 c.c., dettata dalla normativa
comunale, sviluppa la disciplina dell’art.
16 dedicata alla distanza degli edifici dai
confini (disciplina che completa quanto
statuito dall’art. 873 c.c., facente
riferimento non alla distanza dal confine ma
alla distanza tra costruzioni), e fa
espressamente salve le disposizioni del
codice civile, con la conseguenza che il
criterio di esclusione da essa introdotto
riguarda il computo delle distanze da
rispettare nella costruzione degli edifici,
e non l’apertura di vedute e balconi, la cui
dislocazione è disciplinata dall’art. 905
c.c., ispirato a finalità del tutto diverse
da quelle perseguite dall’art. 873 c.c. ed
applicabile alle scale esterne o ai
pianerottoli in cui sia possibile l’affaccio
verso il fondo altrui (ex multis:
Cons. Stato, IV, 21/02/2011, n. 1086; Cass.,
II, 15/10/2008, n. 25188).
Invero l’art. 873 c.c. non contiene una
definizione di costruzione, rilevante ai
fini del calcolo delle distanze tra edifici;
tale definizione è data dall’interpretazione
giurisprudenziale, secondo cui vi rientra
qualsiasi opera non totalmente interrata
avente i caratteri della solidità e
immobilizzazione rispetto al suolo (Cass.,
II, 19/10/2009, n. 22127), compresi i
balconi (Cass., II, 25/03/2004, n. 5963) e
le scale esterne in muratura (Cass., II,
30/01/2007, n. 1966).
In tale contesto l’art. 17 delle N.T.A. si
limita a precisare la nozione di costruzione
rilevante ai fini del computo delle distanze
dell’edificio dal confine o tra edifici,
escludendo da essa, con statuizione
chiarificatrice, i balconi e le scale
esterne, integrando così quanto sancito
dall’art. 873 c.c. e facendo salva per il
resto la normativa codicistica (compreso
l’art. 905 c.c.).
Di ciò è apparsa consapevole la stessa parte
controinteressata, in quanto, nella
relazione annessa alla domanda di
concessione in sanatoria, il tecnico
incaricato ha precisato che “in
corrispondenza del confine dovrà essere
installato un parapetto frangisole di
altezza tale da non consentire la vista
diretta o laterale verso la proprietà
confinante” (documento n. 3 depositato
in giudizio da Grilli s.a.s.).
Il Comune di Monsummano, nel rilasciare il
titolo richiesto, non ha espressamente
recepito la prescrizione indicata nella
relazione tecnica; tuttavia il gravato
provvedimento, richiamando indistintamente
la relazione tecnica medesima e tutti gli
elaborati e documenti annessi all’istanza,
non prescinde dalla dichiarazione scritta
del tecnico incaricato in punto di necessità
di installare un adeguato parapetto
frangisole a tutela del diritto del
confinante, dichiarazione che vale come
persistente impegno del richiedente ad
integrare l’opera in tal senso.
Invero la concessione edilizia in sanatoria
può introdurre o recepire prescrizioni tese
ad imporre correttivi sull’esistente,
qualora si tratti, come nel caso di specie,
di integrazioni minime, di esigua entità
(TAR Liguria, I, 04/11/2004, n. 1515; idem,
11/07/2007, n. 1380; TAR Campania, Napoli,
VIII, 30/10/2006, n. 9249), che consentano
il ripristino della salvaguardia di diritti
dei terzi (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 25.10.2011 n. 1541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'obbligo di osservare nelle
costruzioni determinate distanze sussiste
solo in relazione alle vedute, e non anche
con riferimento alle luci; ne deriva che la
dizione "pareti finestrate", che si ispiri
all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 riguardo
la distanza minima nelle sopraelevazioni di
dieci metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, va riferita
esclusivamente alle pareti munite di
finestre qualificabili come "vedute", senza
ricomprendere quelle sulle quali si aprono
finestre cosiddette "lucifere".
In tema di limitazioni legali della
proprietà, l'art. 873 cod. civ., per evitare
intercapedini dannose, prevede che le norme
sulle distanze tra fabbricati non si
misurano in modo radiale, come invece
avviene per le distanze rispetto alle
vedute, ma in modo lineare. Questo modo di
misurazione comporta anche che, in ragione
della ratio che governa la specifica
disciplina in esame, le norme sulle distanze
legali si applicano soltanto agli edifici
che si fronteggiano, mentre non hanno
rilievo le distanze calcolate fra gli
spigoli delle costruzioni prese in esame.
Osserva il Collegio che, in linea generale
non ha motivo di discostarsi
dall’orientamento della giurisprudenza
riguardo la materia delle distanze nelle
costruzioni e nel richiamare la disciplina
legale dei "rapporti di vicinato"
rileva che l'obbligo di osservare nelle
costruzioni determinate distanze sussiste
solo in relazione alle vedute, e non anche
con riferimento alle luci; ne deriva che la
dizione "pareti finestrate", che si
ispiri all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444
riguardo la distanza minima nelle
sopraelevazioni di dieci metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti,
va riferita esclusivamente alle pareti
munite di finestre qualificabili come "vedute",
senza ricomprendere quelle sulle quali si
aprono finestre cosiddette "lucifere"
(cfr. Cass. civile, sez. II, 04.02.1999, n.
982).
In tema di limitazioni legali della
proprietà, l'art. 873 cod. civ., per evitare
intercapedini dannose, prevede che le norme
sulle distanze tra fabbricati non si
misurano in modo radiale, come invece
avviene per le distanze rispetto alle
vedute, ma in modo lineare. Questo modo di
misurazione comporta anche che, in ragione
della ratio che governa la specifica
disciplina in esame, le norme sulle distanze
legali si applicano soltanto agli edifici
che si fronteggiano, mentre non hanno
rilievo le distanze calcolate fra gli
spigoli delle costruzioni prese in esame
(cfr. Cass. civile, sez. II, 07.04.2005, n.
7285; Corte Appello Salerno, 29.01.2007, n.
66) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 11.10.2011 n. 7896 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra edifici.
Va ribadito
il carattere inderogabile delle disposizioni
di legge sulle distanze tra gli edifici
(tratto da www.lexambiente.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.10.2011 n. 35749). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Distanze -
Pareti finestrate e edifici antistanti -
Art. 9, D.M. n. 1444 del 1968 -
Inderogabilità.
2. Distanze -
Aggetti che estendano il volume edificatorio
- Applicabilità normativa sulle distanze
legali - Necessità.
1. La distanza di dieci metri tra le pareti
finestrate di edifici antistanti prevista
dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444,
va rispettata in tutti i casi, trattandosi
di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
6909/2005; TAR Milano, sent. n.
1419/2011).
2. Gli aggetti presenti sull'edificio che
estendano il volume edificatorio non possono
considerarsi meri elementi decorativi: al
contrario, essi costituiscono corpo di
fabbrica e vanno, pertanto, conteggiati nel
calcolo della distanza
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2187 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive
la distanza di 10 metri tra le pareti
finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile.
Gli aggetti (bow window) presenti
sull’edificio in questione non possono
considerarsi meri elementi decorativi; al
contrario, estendendo il volume
edificatorio, costituiscono corpo di
fabbrica e vanno, pertanto, conteggiati nel
calcolo della distanza.
Con la seconda censura il ricorrente lamenta
la violazione della distanza di 10 metri
dall’immobile di sua proprietà -situato sul
mappale n. 4705, esterno al piano di
lottizzazione– in quanto il p.d.l.
ometterebbe di considerare la presenza in
aggetto alla facciata nord-ovest
dell’edificio, di un bow window.
Questa censura è fondata.
La tavola 3.1. non raffigura, invero, la
presenza sulla facciata dell’edificio di
proprietà del ricorrente, situato sul
mappale n. 4705, di due bow window e
non ne tiene, dunque, in considerazione nel
conteggio della distanza prevista di 10
metri.
Per costante giurisprudenza, l'art. 9 d.m.
02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la
distanza di dieci metri tra le pareti
finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
05.12.2005, n. 6909).
Gli aggetti presenti sull’edificio in
questione non possono considerarsi meri
elementi decorativi; al contrario,
estendendo il volume edificatorio,
costituiscono corpo di fabbrica e vanno,
pertanto, conteggiati nel calcolo della
distanza.
Le deliberazioni n. 24 del 28.05.2010 e n.
58 del 22.12.2009 sono pertanto illegittime
nella parte in cui consentono l’edificazione
ad una distanza inferiore ai 10 metri
dall’immobile situato sul mappale 4705, per
non avere tenuto conto degli aggetti
presenti sulla facciata nord ovest
dell’edificio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n. 2187 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
sottolineata la prevalenza della disciplina
imperativa delle distanze di cui all'art. 9
del DM 1444/1968 che, stante la natura di
norma primaria, sostituisce eventuali
disposizioni contrarie contenute nelle norme
tecniche di attuazione, per cui le distanze
legali previste dagli standards urbanistici
sono immediatamente applicabili ai rapporti
privati, anche ove gli strumenti urbanistici
prevedono distanze minori. Si tratta di una
disposizione dettata in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di
igiene e di sicurezza, di modo che al
giudice non è lasciato alcun margine di
discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi.
In merito poi alle modalità di calcolo di
tale distanza, va ricordato come questa va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate
e non solo a quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela, e va computata in
relazione a tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità,
della stabilità e della immobilizzazione,
salvo che non si tratti di sporti e di
aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali
da potersi definire di entità trascurabile
rispetto all'interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
La censura proposta sottolinea come
l’edifico progettato, che prevede la
realizzazione di balconi per i tre piani
previsti in elevazione, dell’ampiezza pari a
ml. 1,5, non rispetterebbe le disposizioni
sulle distanze tra edifici, posto che la
distanza, nel caso di specie, tenuto conto
dei balconi previsti e di quelli del
frontistante fabbricato condominiale,
sarebbe senz’altro inferiore a quella
indicata in ml. 10.50, calcolata appunto
senza tenere conto dei balconi. Ci sarebbe
quindi violazione dell’art. 22 N.T.A. del
P.R.G. che prevede che “il distacco
minimo tra pareti che fronteggino edifici
preesistenti deve essere pari ad almeno
l’altezza dell’edificio da costruire e,
comunque, mai inferiore a ml. 10”, dove
il costruendo fabbricato è posto ad una
distanza di ml. 10.50 rispetto alla parete
del fabbricato antistante il condominio “Verde
Sud”.
Il giudice di prime cure, evidenziando come
l’art. 5, lett. A), IV comma della NTA,
preveda che dal calcolo delle distanze “restano
esclusi gli sporti dalle pareti quali
cornicioni, balconi, pensiline, ecc.”,
ha escluso l’illegittimità della previsione
ed ha ritenuto che non fosse applicabile la
normativa nazionale sui distacchi tra
edifici, in quanto questa, avendo la
funzione di evitare la produzione di
intercapedini da dannose, riguarda
espressamente le “pareti finestrate”.
Va tuttavia rimarcato come la giurisprudenza
di questa Sezione (Consiglio di Stato, sez.
IV, 02.11.2010, n. 7731) abbia già osservato
come la questione debba essere diversamente
valutata. In primo luogo, va sottolineata la
prevalenza della disciplina imperativa delle
distanze di cui all'art. 9 che, stante la
natura di norma primaria, sostituisce
eventuali disposizioni contrarie contenute
nelle norme tecniche di attuazione
(Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n.
6909), per cui le distanze legali previste
dagli standards urbanistici sono
immediatamente applicabili ai rapporti
privati, anche ove gli strumenti urbanistici
prevedono distanze minori. Si tratta di una
disposizione dettata in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di
igiene e di sicurezza, di modo che al
giudice non è lasciato alcun margine di
discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi.
In merito poi alle modalità di calcolo di
tale distanza, va ricordato come questa va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate
e non solo a quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela, e va computata in
relazione a tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità,
della stabilità e della immobilizzazione,
salvo che non si tratti di sporti e di
aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali
da potersi definire di entità trascurabile
rispetto all'interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene
(Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n.
268).
Nel caso in specie, l’ampiezza dei balconi,
pari a ml. 1,50, è tale da non poter essere
inclusa nel concetto di modeste dimensioni,
stante la loro funzione di estendere ed
ampliare per l'intero fronte dell'edificio
la parte utilizzabile per l'uso abitativo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.09.2011 n. 4968 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'atto
edificatorio del vicino in violazione delle
norme, del codice o regolamentari comunali,
sulle distanze, oltre a ledere gli interessi
pubblici sottesi alla disciplina concernente
l'assetto del territorio, pone in essere
un'attività edilizia eccedente quanto è
previsto, nei rapporti tra confinanti, dalla
normativa conformativa del diritto di
proprietà, sicché il privato che, nei
confronti dell'edificante illegittimo,
lamenti la lesione della sua sfera
proprietaria, ha diritto, ai sensi dell'art.
872 c.c., comma 2, ad una doppia tutela:
all'eliminazione dello stato di cose che si
è illegittimamente creato e al risarcimento
del danno patito medio tempore.
L'inosservanza delle distanze legali nelle
costruzioni sui fondi finitimi costituisce
per il vicino una limitazione al godimento
del bene, e quindi all'esercizio di una
delle facoltà che si riconnettono al diritto
di proprietà: per questo il danno è in re
ipsa, perché l'azione risarcitoria è volta a
porre rimedio all'imposizione di una servitù
di fatto e alla conseguente diminuzione di
valore del fondo subita dal proprietario in
conseguenza dell'edificazione illegittima
del vicino, per il periodo di tempo
anteriore all'eliminazione dell'abuso.
---------------
Non può essere accolta l'ulteriore domanda
di risarcimento dei danni esistenziali e
morali lamentati genericamente dalla istante
“in quanto trattasi di domanda che ... non
risulta assistita dalla prova concreta del
danno non patrimoniale paventato, e,
neppure, da un principio di prova in ordine
ad eventuali ripercussioni negative ....
sulle consuetudini di vita degli istanti.
Infatti, come ribadito anche di recente dal
Consiglio di Stato, la pretesa risarcitoria
avente ad oggetto il danno non patrimoniale
-ove non si sia verificato un mero disagio o
fastidio, inidoneo, ex se, a fondare una
domanda di risarcimento del danno- esige una
allegazione di elementi concreti e specifici
da cui desumere, secondo un criterio di
valutazione oggettiva, l'esistenza e
l'entità del pregiudizio subito, il quale
non può essere ritenuto sussistente in re
ipsa, né è consentito l'automatico ricorso
alla liquidazione equitativa”.
Secondo altro condivisibile arresto
giurisprudenziale, “la sussistenza di un
danno non patrimoniale risarcibile di cui
all'art. 2059 c.c., difatti, deve essere
dimostrata, sempre secondo la Suprema Corte,
anche quando derivi dalla lesione di diritti
inviolabili della persona, dal momento che
costituisce "danno conseguenza", e non
"danno evento"; né può sostenersi
fondatamente che "nel caso di lesione di
valori della persona il danno sarebbe in re
ipsa, perché la tesi snatura la funzione del
risarcimento, che verrebbe concesso non in
conseguenza dell'effettivo accertamento di
un danno, ma quale pena privata per un
comportamento lesivo".
La giurisprudenza richiamata a sostegno
delle ragioni introdotte in giudizio
(Cassazione civile, sez. II, 07.05.2010, n.
11196), limitano alla violazione delle
distanze legali l’ipotesi della
configurabilità del danno in re ipsa.
In maniera più dettagliata si esprime altra
decisione della Suprema Corte (cfr.
Cassazione civile, sez. II, 16.12.2010, n.
25475), secondo la quale “in materia di
violazione delle distanze tra costruzioni
previste dal codice civile e dalle norme
integrative dello stesso, al proprietario
confinante che lamenti tale violazione
compete sia la tutela in forma specifica,
finalizzata al ripristino della situazione
antecedente al verificarsi dell'illecito,
sia quella risarcitoria, e, determinando la
suddetta violazione un asservimento di fatto
del fondo, il danno deve ritenersi in re
ipsa, senza necessità di una specifica
attività probatoria".
E' vero che nella giurisprudenza di questa
Corte è presente anche un indirizzo di segno
diverso, a termini del quale la violazione
delle norme codicistiche sulle distanze
legali (ovvero delle norme locali richiamate
dal codice), mentre legittima sempre la
condanna alla riduzione in pristino, non
costituisce di per sé fonte di danno
risarcibile, essendo al riguardo necessario
che chi agisca per la sua liquidazione
deduca e dimostri l'esistenza, oltre che la
misura, del pregiudizio effettivamente
realizzatosi (Cass., Sez. 2^, 23.03.1982, n.
1838; Cass., Sez. 2^, Cass., Sez. 2^,
02.08.1990, n. 7747; Cass., Sez. 2^,
24.09.2009, n. 20608).
Quest'ultimo orientamento non è condiviso
dal Collegio.
L'atto edificatorio del vicino in violazione
delle norme, del codice o regolamentari
comunali, sulle distanze, oltre a ledere gli
interessi pubblici sottesi alla disciplina
concernente l'assetto del territorio, pone
in essere un'attività edilizia eccedente
quanto è previsto, nei rapporti tra
confinanti, dalla normativa conformativa del
diritto di proprietà, sicché il privato che,
nei confronti dell'edificante illegittimo,
lamenti la lesione della sua sfera
proprietaria, ha diritto, ai sensi dell'art.
872 c.c., comma 2, ad una doppia tutela:
all'eliminazione dello stato di cose che si
è illegittimamente creato e al risarcimento
del danno patito medio tempore.
L'inosservanza delle distanze legali nelle
costruzioni sui fondi finitimi costituisce
per il vicino una limitazione al godimento
del bene, e quindi all'esercizio di una
delle facoltà che si riconnettono al diritto
di proprietà: per questo il danno è in re
ipsa, perché l'azione risarcitoria è
volta a porre rimedio all'imposizione di una
servitù di fatto e alla conseguente
diminuzione di valore del fondo subita dal
proprietario in conseguenza
dell'edificazione illegittima del vicino,
per il periodo di tempo anteriore
all'eliminazione dell'abuso.
Il Collegio intende dare continuità al
prevalente indirizzo -non soltanto risalente
nella giurisprudenza di questa Corte (Cass.,
Sez. 2^, 27.02.1946, n. 201; Cass., Sez. 2^,
08.05.1946, n. 551; Cass., Sez. Un.,
24.06.1961, n. 1520; Cass., Sez. 2^,
12.02.1970, n. 341), ma anche ribadito negli
arresti degli ultimi lustri (Cass., Sez. 2^,
15.12.1994, n. 10775; Cass., Sez. 2^,
25.09.1999, n. 10600; Cass., Sez. 2^,
07.03.2002, n. 3341; Cass., Sez. 2^,
27.03.2008, n. 7972; Cass., Sez. 2^,
07.05.2010, n. 11196)- che, in caso di
violazione delle norme sulle distanze,
concede al proprietario, nei confronti
dell'edificante illegittimo, l'azione
risarcitoria per il danno determinatosi
prima della riduzione in pristino, senza la
necessità di una specifica attività
probatoria.
Questa soluzione non determina un eccesso di
tutela per il proprietario od uno
snaturamento del sistema della
responsabilità civile, che, com'è noto,
ammette la risarcibilità del solo danno
conseguenza (cfr., con riguardo al danno non
patrimoniale, Cass., Sez. Un., 11.11.2008,
n. 26972).
Discorrere di danno in re ipsa,
infatti, non significa riconoscere che il
risarcimento venga accordato per il solo
fatto del comportamento lesivo o si risolva
in una pena privata nei confronti di chi
violi l'altrui diritto di proprietà, in
contrasto, tra l'altro, con la tavola dei
valori espressa dalla Carta costituzionale,
che riconosce e garantisce la proprietà
privata, ma non la inquadra tra i diritti
fondamentali della persona umana, per i
quali soltanto è predicabile una
connotazione di inviolabilità, di
incondizionatezza e di primarietà.
Significa, piuttosto, ammettere che, nel
caso di violazione di una norma relativa
alle distanze tra edifici, il danno che il
proprietario subisce (danno conseguenza e
non danno evento) è l'effetto, certo ed
indiscutibile, dell'abusiva imposizione di
una servitù nel proprio fondo, e quindi
della limitazione del relativo godimento,
che si traduce in una diminuzione temporanea
del valore della proprietà medesima.
Il principio della immancabilità del
risarcimento del danno non vale invece là
dove si tratti di violazioni di disposizioni
non integrative di quelle sulle distanze: in
tale evenienza, mancando un asservimento di
fatto del fondo contiguo, la prova del danno
è richiesta ed il proprietario è tenuto a
fornire una dimostrazione precisa
dell'esistenza del danno, sia in ordine alla
sua potenziale esistenza che alla sua entità
obiettiva, in termini di amenità, comodità,
tranquillità ed altro (tra le tante, Cass.,
Sez. 2^, 05.06.1998, n. 5514; Cass., Sez.
2^, 12.06.2001, n. 7909; Cass., Sez. 2^,
07.03.2002, n. 3341, cit.).
Prendendo spunto da detta ultima
affermazione, il Collegio ritiene che la
sopraelevazione, oggetto della contestazione
in esame, non necessariamente costituisca un
nocumento (o un apprezzabile pregiudizio)
per il fondo limitrofo, dovendosi dimostrare
l’effettività del danno, quale, ad esempio,
la limitazione del panorama o degli altri
connotati del godimento immobiliare.
Basterebbe pensare all’immobile sovrastante
quello abusivo o realizzato per effetto di
titolo ritenuto, come nel caso in esame,
illegittimo, di tal guisa che l’eventuale
sopraelevazione di quest’ultimo non abbia
affatto impedito al primo la vista e le
comodità connesse all’uso del bene di
proprietà.
Da qui la necessità della prova del
pregiudizio, mancando la quale, non è
possibile accedere ad alcun risarcimento e,
comunque, a graduarlo.
---------------
Analogamente, non può essere accolta
l'ulteriore domanda di risarcimento dei
danni esistenziali e morali lamentati
genericamente dalla istante (sempre nella
memoria del 07.04.2011), “in quanto
trattasi di domanda che ... non risulta
assistita dalla prova concreta del danno non
patrimoniale paventato, e, neppure, da un
principio di prova in ordine ad eventuali
ripercussioni negative .... sulle
consuetudini di vita degli istanti.
Infatti, come ribadito anche di recente dal
Consiglio di Stato (cfr. decisione Sez. VI,
18.03.2011 n. 1672), la pretesa risarcitoria
avente ad oggetto il danno non patrimoniale
-ove non si sia verificato un mero disagio o
fastidio, inidoneo, ex se, a fondare una
domanda di risarcimento del danno- esige una
allegazione di elementi concreti e specifici
da cui desumere, secondo un criterio di
valutazione oggettiva, l'esistenza e
l'entità del pregiudizio subito, il quale
non può essere ritenuto sussistente in re
ipsa, né è consentito l'automatico ricorso
alla liquidazione equitativa” (cfr. TAR
Lombardia Milano, sez. II, 30.03.2011, n.
854).
Secondo altro condivisibile arresto
giurisprudenziale (cfr. TAR Friuli Venezia
Giulia Trieste, sez. I, 26.05.2011, n. 260),
“la sussistenza di un danno non
patrimoniale risarcibile di cui all'art.
2059 c.c., difatti, deve essere dimostrata,
sempre secondo la Suprema Corte, anche
quando derivi dalla lesione di diritti
inviolabili della persona, dal momento che
costituisce "danno conseguenza", e non
"danno evento"; né può sostenersi
fondatamente che "nel caso di lesione di
valori della persona il danno sarebbe in re
ipsa, perché la tesi snatura la funzione del
risarcimento, che verrebbe concesso non in
conseguenza dell'effettivo accertamento di
un danno, ma quale pena privata per un
comportamento lesivo" (Cass. Civ., SS.UU,
sentenza n. 26972 dell'11.11.2008).
Conclusivamente, la genericità della
richiesta e la mancata dimostrazione del
danno ricevuto determinano il rigetto della
domanda risarcitoria.
E’ possibile accedere, invece, alla
richiesta di cui all’art. 26, comma 2,
c.p.a., articolata in udienza pubblica,
posto che la stessa può anche essere
delibata d’ufficio e, pertanto, non richiede
gli adempimenti ritenuti necessari sia per
la corretta introduzione della domanda che
per la dimostrazione del danno ricevuto.
Invero, il precedente giudicato formatosi di
seguito alla sentenza n. 2210/2001 di questo
stesso Tribunale, in mancanza di altri
apporti giustificativi e di una motivazione
“forte”, tali, cioè, da consentire la
riedizione del medesimo provvedimento
ritenuto dalla detta decisione in precedenza
illegittimo, ha reso, così come richiesto
dalla invocata norma del codice, manifeste
le ragioni di parte ricorrente
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 01.08.2011 n. 2044 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanza tra le costruzioni –
Tutela della salubrità degli edifici –
Sussiste – Tutela della riservatezza – Non
sussiste.
La distanza tra costruzioni, prevista
dall'art. 9 del DM 02.04.1968, n. 1444, è
volta non alla tutela della riservatezza, ma
alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico sanitarie ed è dunque
tassativa ed inderogabile (a differenza
delle distanze dal confine) per via di
private pattuizioni.
Conseguentemente, essa deve operare, per un
verso, anche nel caso in cui una sola delle
due pareti frontistanti sia finestrata, per
l'altro, anche nel caso in cui la nuova
opera sia di altezza inferiore rispetto alle
preesistenti vedute o parzialmente nascosta
dal muretto e dalla recinzione di confine.
L'interesse pubblico presidiato dalla norma
è quello della salubrità dell'edificato e
non va confuso con l'interesse privato del
frontista a mantenere la riservatezza o la
prospettiva (massima tratta da
www.centrostudi-sv.org - Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 20.07.2011 n. 4374 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
muro di contenimento tra due aree poste a
livello differente va considerato
costruzione, se il dislivello deriva
dall'opera dell'uomo o è stato
artificialmente accentuato; in quanto
costruzione, esso è soggetto all'osservanza
delle norme sulle distanze.
La disciplina delle distanze ex D.M. n.
1444/1968 è applicabile anche ai beni e alle
opere pubblici, secondo quanto affermato
(tra l'altro con specifico riferimento alle
distanze tra pareti finestrate ex art. 9)
dal TAR Liguria, sez. I, nella recente
sentenza 26.03.2010 n. 1235 che richiama la
decisione del Consiglio di Stato, sez. V,
03.11.2000 n. 5907; e d'altra parte, tenuto
conto che la norma citata è volta ad
impedire la formazione di intercapedini
nocive sotto il profilo igienico-sanitario
ed è perciò ineludibile non si vede perché
le opere pubbliche dovrebbero sottrarsi alla
sua osservanza.
In proposito si osserva quanto segue:
- come evidenziato al precedente punto 3.2),
la realizzazione della nuova strada è
prevista ad una quota superiore di oltre 3
metri rispetto al piano terreno
dell’abitazione dei ricorrenti; ciò
presuppone la realizzazione di un rilevato
artificiale e di muri di contenimento, come
risulta chiaro dalla planimetria doc. 20
depositata dal Comune resistente il
27/04/2011;
- la giurisprudenza è orientata a ritenere
che il muro di contenimento tra due aree
poste a livello differente va considerato
costruzione, se il dislivello deriva
dall'opera dell'uomo o è stato
artificialmente accentuato, come nel caso in
esame; in quanto costruzione, esso è
soggetto all'osservanza delle norme sulle
distanze (cfr. Cass. Civile, sez. II,
22.01.2010 n. 1217; TAR Marche 10.02.2009 n.
18);
- contrariamente a quanto sostenuto dalle
controparti la disciplina delle distanze ex
D.M. n. 1444/1968 è applicabile anche ai
beni e alle opere pubblici, secondo quanto
affermato (tra l'altro con specifico
riferimento alle distanze tra pareti
finestrate ex art. 9) dal TAR Liguria, sez.
I, nella recente sentenza 26.03.2010 n. 1235
che richiama (oltre a precedenti del
medesimo Tribunale) la decisione del
Consiglio di Stato, sez. V, 03.11.2000 n.
5907; e d'altra parte, tenuto conto che la
norma citata è volta ad impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario ed è perciò
ineludibile (cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, 02.11.2010 n. 7731 e 05.12.2005 n. 6909;
TAR Toscana, sez. III, 04.12.2001 n. 1734)
non si vede perché le opere pubbliche
dovrebbero sottrarsi alla sua osservanza;
- perché debba trovare applicazione il
citato art. 9 in tema di "pareti
finestrate" è sufficiente che sia tale
anche una sola delle due pareti frontistanti
(TAR Milano, sez. IV, 19.05.2011 n. 1282): e
questo è proprio il caso di cui controverte,
in cui la norma in questione risulta dunque
violata
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 20.07.2011 n. 1251 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
limiti di distanza tra i fabbricati di cui
al D.M. 1444/1968, una volta recepiti nelle
norme tecniche di attuazione dei singoli
piani regolatori comunali, assumono
“altresì” veste regolamentare e natura
integrativa del codice civile, ex art. 873
c.c., in quanto regolatrici (anche) dei
rapporti tra vicini, isolatamente
considerati in funzione degli interessi
privati dei proprietari dei fondi finitimi.
E' evidente come la disposizione di cui
all’art. 879 c.c., nel disporre che “alle
costruzioni che si fanno in confine con le
piazze e le vie pubbliche non si applicano
le norme relative alle distanze, ma devono
osservarsi le leggi e i regolamenti che le
riguardano”, intenda significare che, in
presenza di una strada pubblica, non si fa
tanto questione di tutelare un diritto
soggettivo privato (tutelato dalla normativa
codicistica sulle distanze, rinunciabile e
negoziabile), ma di perseguire il preminente
interesse pubblico ad un ordinato sviluppo
urbanistico intorno alla strade ed alle
piazze, ordinato sviluppo che trova la sua
disciplina esclusivamente nelle leggi e
regolamenti urbanistico-edilizi, tra i quali
-per l’appunto- il D.M. 1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono
ammesse, in deroga, “nel caso di gruppi di
edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni
planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M.
1444/1968), cioè soltanto se previste –a
loro volta- in strumenti urbanistici
funzionali ad un assetto complessivo ed
unitario (cioè, che contempli la contestuale
edificazione degli edifici antistanti) di
determinate zone del territorio.
In presenza di una strada pubblica tra due
fondi, non è dunque consentito derogare alla
distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M.
02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici
antistanti, neppure con il consenso del
vicino frontistante, in quanto, trattandosi
di tutelare un interesse pubblico, di natura
urbanistica, superiore a quello individuale
dei proprietari dei fondi finitimi
(interesse specificamente tutelato dalle
norme del codice civile sulle distanze nelle
costruzioni), non trovano applicazione -ex
art. 879 comma 2 c.c.- le disposizioni
civilistiche (e quelle di esse integrative)
sulle distanze, in quanto recessive rispetto
alla speciale normativa urbanistico-edilizia
(le “leggi e i regolamenti” di cui all’art.
879 comma 2 c.c.), che si applica in luogo
delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui
limiti di distanza tra i fabbricati
ricadenti in zone territoriali diverse dalla
zona A, costituisce un principio assoluto ed
inderogabile che prevale –ad un tempo- sia
sulla potestà legislativa regionale, in
quanto integra la disciplina privatistica
delle distanze, sia sulla potestà
regolamentare e pianificatoria dei Comuni,
in quanto deriva da una fonte normativa
statale sovraordinata, sia, infine,
sull'autonomia negoziale dei privati, in
quanto tutela interessi pubblici che, per
loro natura, non sono nella disponibilità
delle parti. Esso, inoltre, è applicabile
anche quando tra le pareti finestrate (o tra
una parete finestrata e una non finestrata)
si interponga una via pubblica.
In conclusione, in presenza di pareti
finestrate poste a confine con la via
pubblica, non è mai ammissibile la deroga
prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le
distanze tra edifici.
Il D.M.
02.04.1968, emanato in forza dell’art.
41-quinquies commi 8 e 9 della legge
urbanistica 17.08.1942, n. 1150, detta “limiti
inderogabili” di densità edilizia, di
altezza, di distanza tra i fabbricati,
nonché rapporti massimi tra spazi destinati
agli insediamenti residenziali e produttivi
e spazi pubblici o riservati alle attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggi,
da osservarsi dai comuni in sede di
formazione degli strumenti urbanistici (così
anche l’art. 1 del D.M. 1444/1968).
Si tratta dunque –sicuramente- di norme così
dette di azione, in quanto volte a
disciplinare il potere pianificatorio dei
comuni.
Ovviamente, i limiti di distanza tra i
fabbricati di cui al D.M. 1444/1968, una
volta recepiti nelle norme tecniche di
attuazione dei singoli piani regolatori
comunali, assumono “altresì” veste
regolamentare e natura integrativa del
codice civile, ex art. 873 c.c., in quanto
regolatrici (anche) dei rapporti tra vicini,
isolatamente considerati in funzione degli
interessi privati dei proprietari dei fondi
finitimi.
Stando così le cose, è evidente come la
disposizione di cui all’art. 879 c.c., nel
disporre che “alle costruzioni che si
fanno in confine con le piazze e le vie
pubbliche non si applicano le norme relative
alle distanze, ma devono osservarsi le leggi
e i regolamenti che le riguardano”,
intenda significare che, in presenza di una
strada pubblica, non si fa tanto questione
di tutelare un diritto soggettivo privato
(tutelato dalla normativa codicistica sulle
distanze, rinunciabile e negoziabile), ma di
perseguire il preminente interesse pubblico
ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno
alla strade ed alle piazze, ordinato
sviluppo che trova la sua disciplina
esclusivamente nelle leggi e regolamenti
urbanistico-edilizi, tra i quali -per
l’appunto- il D.M. 1444/1968.
Tanto ciò è vero che distanze inferiori sono
ammesse, in deroga, “nel caso di gruppi
di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni
planovolumetriche” (art. 9 u.c. D.M.
1444/1968), cioè soltanto se previste –a
loro volta- in strumenti urbanistici
funzionali ad un assetto complessivo ed
unitario (cioè, che contempli la contestuale
edificazione degli edifici antistanti) di
determinate zone del territorio (Cons. di
St., IV, 12.03.2007, n. 1206).
In presenza di una strada pubblica tra due
fondi, non è dunque consentito derogare alla
distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M.
02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici
antistanti, neppure con il consenso del
vicino frontistante, in quanto, trattandosi
di tutelare un interesse pubblico, di natura
urbanistica, superiore a quello individuale
dei proprietari dei fondi finitimi
(interesse specificamente tutelato dalle
norme del codice civile sulle distanze nelle
costruzioni), non trovano applicazione -ex
art. 879 comma 2 c.c.- le disposizioni
civilistiche (e quelle di esse integrative)
sulle distanze, in quanto recessive rispetto
alla speciale normativa urbanistico-edilizia
(le “leggi e i regolamenti” di cui
all’art. 879 comma 2 c.c.), che si applica
in luogo delle stesse.
Dunque, l'art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sui
limiti di distanza tra i fabbricati
ricadenti in zone territoriali diverse dalla
zona A, costituisce un principio assoluto ed
inderogabile (così l’art. 41-quinquies comma
8 L.U. –cfr. TAR Liguria, I, 12.02.2004, n.
145), che prevale –ad un tempo- sia sulla
potestà legislativa regionale, in quanto
integra la disciplina privatistica delle
distanze (C. Cost., 16.6.2005, n. 232), sia
sulla potestà regolamentare e pianificatoria
dei Comuni (Cons. di St., IV, 2.11.2010, n.
7731), in quanto deriva da una fonte
normativa statale sovraordinata, sia,
infine, sull'autonomia negoziale dei
privati, in quanto tutela interessi pubblici
che, per loro natura, non sono nella
disponibilità delle parti.
Esso, inoltre, è applicabile anche quando
tra le pareti finestrate (o tra una parete
finestrata e una non finestrata) si
interponga una via pubblica.
La fattispecie è specificamente regolata dal
comma 2 del medesimo art. 9, che prescrive
in questo caso distacchi addirittura
maggiorati in relazione alla larghezza della
strada, con la precisazione che l'esclusione
della viabilità a fondo cieco prevista nella
stessa norma va riferita alle maggiorazioni
e non alla distanza minima assoluta di 10
metri, che rimane inderogabile.
In conclusione, in presenza di pareti
finestrate poste a confine con la via
pubblica, non è mai ammissibile la deroga
prevista dall'art. 879, comma 2 c.c., per le
distanze tra edifici (così TAR
Lombardia-Brescia, I, 03.07.2008, n. 788;
nello stesso senso, più recentemente,
Tribunale di Teramo, 10.01.2011, n. 4) (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 20.07.2011 n. 1148 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pareti finestrate, distanze
legali da interpretare.
La Corte di legittimità ritorna sulle
insidiose problematiche delle distanze
legali e sui criteri interpretativi al
riguardo delle norme regolamentari locali.
Ai fini dell'osservanza delle distanze
legali, ove sia applicabile il d.m. n.
1444/1968 in quanto recepito negli strumenti
urbanistici, l'obbligo del rispetto della
distanza minima assoluta di dieci metri tra
pareti finestrate di edifici antistanti,
deve essere applicato anche nel caso in cui
una sola delle pareti che si fronteggiano
sia finestrata, mentre l'altra risulti
parzialmente composta da un avancorpo cieco
di altezza inferiore all'edificio
finestrato, atteso che la norma in esame è
finalizzata alla salvaguardia dell'interesse
pubblico-sanitario a mantenere una
determinata intercapedine tra gli edifici
che si fronteggiano quando uno dei due abbia
una parete finestrata e non, quindi, a
salvaguardare l'interesse privato del
frontista alla riservatezza.
In altri termini, il citato d.m. n. 1444 del
1968, che, in applicazione dell'art.
41-quinquies della legge urbanistica, come
modificato dall'art. 17 della cosiddetta
legge ponte, detta i limiti di densità,
altezza, distanza tra i fabbricati, pone
all'art. 9, secondo comma, una prescrizione
tassativa ed inderogabile, e cioè che negli
edifici ricadenti in zone territoriali
diverse dalla zona "A" debba essere
rispettata in tutti i casi una distanza
minima di dieci metri tra pareti finestrate
e pareti di edifici antistanti,
indipendentemente dalla circostanza che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia
finestrata e che tale parete sia quella del
nuovo edificio o dell'edificio preesistente,
o che si trovi alla medesima o a diversa
altezza rispetto all'altra.
E’ stato, in proposito, precisato che
l'indicato art. 9 del d.m. 02.04.1968 n.
1444 in materia di distanze fra fabbricati
va interpretato nel senso che la distanza
minima di dieci metri è richiesta anche nel
caso che una sola delle pareti
fronteggiantisi sia finestrata e che è
indifferente se tale parete sia quella del
nuovo edificio o quella dell'edificio
preesistente, essendo sufficiente per
l'applicazione di tale distanza che le
finestre esistano in qualsiasi zona della
parete contrapposta ad altro edificio,
ancorché solo una parte di essa si trovi a
distanza minore da quella prescritta.
Infine la giurisprudenza di legittimità ha
puntualizzato che la distanza minima di
dieci metri tra le costruzioni stabilita
dall'articolo 9, n. 2, del d.m. 02.04.1968
n. 1444, traente la sua efficacia precettiva
inderogabile dall'articolo 41-quinquies
della legge 17.08.1942 n. 1150 (come
modificato dall'articolo 17 della legge
06.08.1967 n. 765) -"ratione temporis"
applicabile-, deve osservarsi in modo
assoluto e che, pertanto essa va applicata
indipendentemente dall'altezza degli edifici
antistanti e dall'andamento parallelo delle
pareti di questi, purché sussista almeno un
segmento di esse tale che l'avanzamento di
una o di entrambe le facciate medesime porti
al loro incontro, sia pure per quel limitato
segmento.
Per utili riferimenti sul principio
essenziale affermato dalla S.C. cfr. Cass.
n. 1984 del 1999; Cass. n. 1108 del 2001 e,
da ultimo, Cass. n. 20574 del 2007 (commento
tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione
civile, sentenza 20.06.2011 n. 13547). |
EDILIZIA PRIVATA: Sussiste
il carattere di assolutezza e di
inderogabilità delle prescrizioni dettate
con il D.M. 02.04.1968 n. 1444, in tema di
distanze minime tra i fabbricati. Le stesse
hanno carattere pubblicistico e inderogabile
e vincolano anche i comuni in sede di
formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici; in particolare, quella che
prescrive la distanza minima assoluta di 10
metri tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti ha carattere di
assolutezza ed inderogabilità e risulta
dalla citata fonte normativa statuale,
sovraordinata rispetto agli organi
urbanistici locali.
La regola della distanza di 10 metri tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti prevista dalla suddetta norma
vincola anche i Comuni in sede di formazione
e di revisione degli strumenti urbanistici,
con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l'anzidetto
limite minimo è illegittima e va
disapplicata, essendo consentita alle
amministrazioni locali solo la fissazione di
distanze superiori.
La suindicata inderogabilità da parte degli
strumenti urbanistici e dei regolamenti
edilizi comunali della normativa del D.M. n.
1444/1968, comporta che l’eventuale
introduzione, in via tacita o espressa, da
parte della normativa edilizia comunale di
deroghe alla normativa nazionale sulle
distanze minima, risulterebbe del tutto
illegittima e, come tale, la norma comunale
andrebbe disapplicata.
In punto di diritto il Collegio evidenzia il
carattere di assolutezza e di inderogabilità
delle prescrizioni dettate con il D.M.
02.04.1968 n. 1444, in tema di distanze
minime tra i fabbricati.
Le stesse hanno carattere pubblicistico e
inderogabile e vincolano anche i comuni in
sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici; in particolare,
quella che prescrive la distanza minima
assoluta di dieci metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti ha
carattere di assolutezza ed inderogabilità e
risulta dalla citata fonte normativa
statuale, sovraordinata rispetto agli organi
urbanistici locali (TAR Toscana Firenze,
sez. III, 22.06.2004, n. 2289), rendendo
illegittima ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo,
essendo consentita alla p.a. solo la
fissazione di distanze superiori (TAR
Abruzzo Pescara, 09.01.2006, n. 11).
Tale inderogabilità è stata reiteratamente
affermata in giurisprudenza anche in
recentissime decisioni che hanno
puntualizzato come il D.M. 02.04.1968 n.
1444 -emanato in virtù dell'art.
41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto
a sua volta dall'art. 17 l. 06.08.1967 n.
765 (c.d. L. Ponte)- ripete dal rango di
fonte primaria della norma delegante la
forza di legge, suscettibile di integrare
con efficacia precettiva il regime delle
distanze dalle costruzioni di cui all'art.
872 c.c.; la regola della distanza di 10
metri tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti prevista dalla suddetta
norma vincola anche i Comuni in sede di
formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l'anzidetto limite minimo è illegittima e va
disapplicata, essendo consentita alle
amministrazioni locali solo la fissazione di
distanze superiori (TAR Lombardia - Milano,
Sez. IV - sentenza 19.05.2011, n. 1282)
L’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444
sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione
di un piano regolatore; la prescritta
distanza di dieci metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, infatti,
va rispettata in tutti i casi, trattandosi
di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario e della sicurezza, per
cui il suo disposto non è eludibile in
funzione della natura giuridica
dell'intercapedine stessa (Consiglio Stato,
Sez. IV - sentenza 09.05.2011, n. 2749).
A questo punto viene in rilievo la questione
dell’applicabilità della normativa sulle
distanze minime dell’indicato art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444 all’intervento in
esame.
L’articolo in questione prevede la necessità
del rispetto della distanza minima assoluta
di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti solo per i “nuovi
edifici”.
Tale necessità non ricorre invece per gli
interventi di operazioni di risanamento
conservativo o ristrutturazione, ove è
sufficiente che le distanze tra gli edifici
non siano inferiori a quelle intercorrenti
tra i volumi edificati preesistenti.
Il
Collegio osserva che la suindicata
inderogabilità da parte degli strumenti
urbanistici e dei regolamenti edilizi
comunali della normativa del D.M. n.
1444/1968, comporta che l’eventuale
introduzione, in via tacita o espressa, da
parte della normativa edilizia comunale di
deroghe alla normativa nazionale sulle
distanze minima, risulterebbe del tutto
illegittima e, come tale, la norma comunale
andrebbe disapplicata
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 15.06.2011 n. 3184 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
accessori e le pertinenze che abbiano
dimensioni consistenti e siano stabilmente
incorporati al resto dell'immobile in
maniera tale da ampliarne la superficie o la
funzionalità pratico-economica oltre alla
superficie e alla funzionalità, assumono il
carattere di costruzione anche sotto il
profilo delle distanze tra edifici che
devono essere calcolate non dall'edificio
principale bensì dal nuovo complesso
edilizio unitario.
Ai fini dell'osservanza delle norme in
materia di distanze legali stabilite dagli
artt. 873 e seguenti c.c. e delle
disposizioni legislative e regolamentari
aventi carattere integrativo, gli accessori
e le pertinenze che abbiano dimensioni
consistenti e siano stabilmente incorporati
al resto dell'immobile, in guisa da
ampliarne la superficie o la funzionalità
pratico-economica, costituiscono con
l'immobile principale una costruzione
unitaria, che va considerata nel suo insieme
indipendentemente dallo sviluppo orizzontale
o verticale dei singoli corpi di fabbrica di
cui si compone, e senza distinguere tra
immobile principale e accessori o pertinenze
aventi le ridette caratteristiche, di guisa
che le distanze devono essere calcolate non
dalla parete dell'edificio maggiore, ma da
quella che risulti più prossima alla
proprietà antagonista
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza n. 4277/2011 - link a www.pausania.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della distanza minima di mt. 10,00
tra fabbricati solo nel caso in cui una
norma di piano preveda ciò.
Le norme di cui al D.M. 1444/1968, emanate
in forza dell’art. 17 della legge n.
765/1967, traggono da questa la forza di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze nelle costruzioni, sicché
l’inderogabile distanza di metri 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i Comuni in sede di
formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto di impugnazione o,
secondo l’indirizzo prevalente, comunque
disapplicata, stante la sua automatica
sostituzione con la clausola legale dettata
dalla fonte sovraordinata.
La giurisprudenza ha ormai chiarito la
natura di norma di ordine pubblico dell’art.
9 del D.M. 1444/1968, che prescrive la
distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti,
precisando tuttavia che il balcone
aggettante può essere ricompreso nel computo
della predetta distanza solo nel caso in cui
una norma di piano preveda ciò (cfr., Cons.
Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381; TAR
Lazio, 31.03.2010 n. 5319; TAR Liguria,
Genova, sez. I, 10.07.2009 n. 1736).
E tale norma nel caso di specie non è
rinvenibile.
Vi è, peraltro, una norma (art. 3, comma 6,
delle N.T.A. del P.R.G.) che detta la
definizione di “Distanza dai confini”,
stabilendo che “è la distanza fra le
proiezioni orizzontali dei fabbricati per la
parte fuori terra e i confini escluse le
terrazze e gli aggetti di carattere
ornamentale e strutturale con sporgenze
inferiori o uguali a mt. 2,00”.
Dunque, se la terrazza non supera i due
metri di sporgenza non viene computata ai
fini delle distanze dai confini.
E tale disposizione, ancorché non dettata ai
fini del calcolo della distanza minima di 10
mt. lineari tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, di cui al ripetuto
art. 9 del D.M. 1444/1968, in assenza di una
norma di piano ad hoc, può comunque
fungere da utile parametro di riferimento
per il computo della distanza in questione.
Ne consegue che nella fattispecie in esame
le terrazze non sono computabili ai fini
delle distanze fra edifici, in quanto hanno
una sporgenza di ml. 1,76 e sono
completamente aperte.
Le considerazioni sin qui svolte sono
assorbenti di ogni altra e determinano la
reiezione del ricorso principale, senza che
occorra verificare la portata delle norme
tecniche di attuazione operanti nel caso di
specie, in quanto, per consolidata
giurisprudenza, le norme di cui al ripetuto
D.M. 1444/1968, emanate in forza dell’art.
17 della legge n. 765/1967, traggono da
questa la forza di integrare con efficacia
precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l’inderogabile distanza
di metri 10 tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola anche i Comuni
in sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l’anzidetto limite minimo è
illegittima e va annullata ove oggetto di
impugnazione o, secondo l’indirizzo
prevalente, comunque disapplicata, stante la
sua automatica sostituzione con la clausola
legale dettata dalla fonte sovraordinata
(cfr., Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2007 n.
3094)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 09.06.2011 n. 993 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Distanze - Pareti finestrate e
edifici antistanti - D.M. n. 1444 del 1968 -
Inderogabilità in sede di formazione e di
revisione degli strumenti urbanistici
comunali - Conseguenze.
2. Distanze - Pareti finestrate -
Nozione - Art. 9 D.M. n. 1444 del 1968.
1. Il D.M.
02.04.1968, n. 1444, ripete
dal rango di fonte primaria della norma
delegante la forza di legge, suscettibile di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze dalle costruzioni di cui
all'art. 872 c.c.: la regola della distanza
di 10 metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola anche i Comuni
in sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo è
illegittima e va disapplicata, essendo
consentita alle amministrazioni locali solo
la fissazione di distanze superiori.
2.
Con riferimento alla nozione di pareti
finestrate, per pareti finestrate, ai sensi
dell'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 e di
tutti quei regolamenti edilizi locali che ad
esso si richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di vedute, ma
più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce)
(tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.06.2011 n.
1419 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanza minima, decide lo
Stato.
I comuni non possono diminuire i limiti tra
gli edifici. Il Tar Lombardia chiarisce i
rapporti tra normativa nazionale e locale in
tema di costruzioni.
I regolamenti comunali non possono diminuire
la distanza minima tra edifici richiesta
dalla disciplina di livello nazionale. I
dieci metri previsti dalla normativa
edilizia statale come limite minimo da
rispettare per le nuove costruzioni da
erigere a fronte delle pareti finestrate non
possono quindi essere derogati dagli enti
locali.
Lo ha stabilito di recente il TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV, con la
sentenza
07.06.2011 n. 1419, nella quale i giudici
amministrativi hanno chiarito i rapporti tra
normativa statale e locale in materia di
distanze tra le costruzioni.
La sentenza del Tar
Lombardia.
Nel caso in questione alcuni privati avevano
impugnato la concessione edilizia rilasciata
da un comune lombardo ai rispettivi vicini
di casa per la costruzione di un'autorimessa
ritenuta troppo vicina al proprio
fabbricato.
Il provvedimento di
autorizzazione comunale era infatti stato
adottato sulla base di quanto previsto dal
regolamento edilizio locale, che ammetteva
l'erezione di nuovi manufatti con
l'osservanza della distanza minima di soli
cinque metri tra una costruzione e l'altra.
I ricorrenti avevano quindi chiesto
l'annullamento della concessione edilizia,
segnalando la violazione dell'art. 9 del
decreto ministeriale n. 1444/1968, che prevede
il rispetto di una distanza minima di 10
metri tra nuovo e vecchio edificio.
La
quarta sezione del Tribunale amministrativo
regionale lombardo, richiamando un proprio
recentissimo precedente (sentenza n.
1282/2011), ha quindi avuto modo di chiarire
che la misura minima tra le costruzioni
prevista dall'art. 9 del dm n. 1444/1968 ha
valore cogente e non derogabile nei
confronti delle pubbliche amministrazioni,
nemmeno in sede di formazione e revisione
dei propri strumenti urbanistici, con la
conseguenza che eventuali norme locali in
contrasto con la disciplina regolamentare
nazionale devono ritenersi illegittime e,
come tali, vanno disapplicate, potendo i
comuni disporre soltanto la fissazione di
distanze minime in misura superiore a quella
prevista nella citata disposizione.
Il Tar
ha quindi fornito anche una lettura
estensiva dell'espressione «pareti
finestrate» di cui all'art. 9, comma 2, del
predetto decreto ministeriale, chiarendo che
con tale termine devono intendersi non
soltanto le pareti munite di vedute ma, più
in generale, tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi e finestre
di ogni tipo.
Le distanze minime tra gli
edifici.
Il tema delle distanze minime da rispettare
nella costruzione di nuovi edifici
appassiona spesso gli operatori del diritto
e i tecnici, affollando di conseguenza le
aule dei tribunali civili e amministrativi
di cause, c.d. di vicinato, nelle quali si
litiga appunto per fare accertare il diritto
a che il vicino costruisca a una distanza
maggiore dal proprio confine.
Nel codice civile è contenuto un articolo,
il numero 873, che prescrive una distanza
minima di tre metri fra le costruzioni, a
meno che le stesse non siano unite o
aderenti (fattispecie che presuppone la
mancanza nelle pareti di luci o vedute: si
veda il relativo approfondimento). La norma
in questione, proprio per la sua
collocazione, riguarda però i rapporti tra i
privati e rileva ai fini del risarcimento
del danno da riconoscere in favore del
soggetto vittima del comportamento
illegittimo del vicino.
A livello edilizio e urbanistico, invece, la
norma di riferimento per le distanze tra
edifici è l'art. 9 del dm 02.04.1968, n.
1444, emanato in esecuzione dell'art.
41-quinquies della legge urbanistica n.
1150/1942, come modificato dalla successiva
legge n. 765/1967, che come detto prescrive la
distanza minima inderogabile di 10 metri tra
pareti finestrate o pareti di edifici
antistanti.
La disposizione in questione
impone infatti determinati limiti edilizi ai
comuni nella formazione o nella revisione
degli strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante nei rapporti tra i
privati. Pertanto, come evidenziato dalla
Corte di cassazione (sezione seconda,
sentenza n. 3771/2001), l'eventuale
previsione nei regolamenti urbanistici
locali di distanze inferiori a quelle
prescritte dal predetto art. 9 è da
considerarsi illegittima e deve essere
disapplicata.
Tuttavia la previsione del dm
n. 1444/1968 non può considerarsi
immediatamente applicabile nei rapporti tra
i privati, almeno fino a che non la misura
della distanza minima tra edifici non sia
stata inserita negli stessi strumenti
urbanistici adottati o modificati a livello
locale.
---------------
Almeno tre metri tra
finestre e fabbricati.
Le distanze tra le luci e le vedute (con
tali termini si intendono, in buona
sostanza, i balconi e le finestre di
qualsiasi dimensione e forma) e i
fabbricati, secondo quanto previsto
dall'art. 907 c.c., non possono essere
inferiori ai tre metri (e, quindi, non può
essere mai ammessa la costruzione in
aderenza, che equivarrebbe alla chiusura
della luce o della veduta). Secondo il
disposto dell'art. 900 c.c., infatti, le
luci «danno passaggio alla luce e all'aria,
ma non permettono di affacciarsi sul fondo
del vicino», mentre le vedute o prospetti
«permettono di affacciarsi e di guardare di
fronte, obliquamente o lateralmente».
Da evidenziare come, secondo la
giurisprudenza ormai consolidata di
legittimità (Cassazione, sezione seconda,
sentenza n. 12097/1995 e sentenza n.
10500/1994), la nozione di costruzione
comprende non solo i manufatti in calce e
mattoni, ma qualsiasi opera che,
indipendentemente dalla forma e dal
materiale con cui è stata eretta, sia di
ostacolo alla libera visuale del
proprietario dell'immobile confinante. La
norma in questione attribuisce al privato un
vero e proprio diritto soggettivo, con la
conseguenza che anche la pubblica
amministrazione non può legittimamente
autorizzare la costruzione di opere che non
rispettino tali distanze minime.
Il presupposto logico-giuridico
dell'applicazione della disciplina della
distanza delle costruzioni dalle vedute è
ovviamente quello dell'anteriorità
dell'acquisto del diritto alla veduta sul
fondo vicino rispetto all'esercizio, da
parte del proprietario di quest'ultimo, del
proprio ius aedificandi, ovvero del proprio
diritto di elevare delle costruzioni sul
proprio terreno. Perché si possa parlare di
veduta la situazione di fatto dell'immobile
dal quale si pretende di esercitare tale
diritto deve consentire le c.d. inspectio e
prospectio sul fondo vicino, ovvero una
piena e comoda visione del paesaggio
circostante.
In particolare la inspectio si
concreta nella possibilità di guardare nel
fondo del vicino senza l'uso di mezzi
artificiali, mentre la prospectio consiste
nello sporgere il capo e nel vedere nelle
diverse direzioni in modo agevole e non
pericoloso (si veda Cassazione, sentenza n.
15371/2000). In altre parole, l'apertura sul
fondo del vicino costituisce veduta quando
la stessa consenta di affacciarsi e di
guardare secondo una valutazione rapportata
a criteri di comodità, sicurezza e
normalità.
È appena il caso di osservare che
è del tutto irrilevante l'amenità del
paesaggio che è possibile osservare dalla
veduta: che si tratti di un pittoresco
paesaggio marino, piuttosto che di un povero
orto di campagna o di una ciminiera
industriale, il diritto del proprietario
della veduta è appunto quello di avere
libero e senza ostacoli il relativo spazio
visivo (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.10.2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
D.M. n. 1444/1968 - Forza
vincolante - Integrazione del regime delle
distanze di cui all’art. 872 c.c. -
Previsioni di P.R.G. difformi -
Illegittimità - Disapplicazione.
Il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù
dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942
introdotto a sua volta dall'art. 17 l.
06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete
dal rango di fonte primaria della norma
delegante la forza di legge, suscettibile di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze dalle costruzioni di cui
all'art. 872 c.c.: la regola della distanza
di 10 metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola pertanto anche
i comuni in sede di formazione e di
revisione degli strumenti urbanistici, con
la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l'anzidetto
limite minimo è illegittima e va
disapplicata, essendo consentita alle
amministrazioni locali solo la fissazione di
distanze superiori (TAR Lombardia Brescia,
sez. I, 30.08.2007, n. 832).
D.M. n. 1444/1968 -
Pareti finestrate - Nozione.
Per "pareti finestrate", ai sensi
dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di
tutti quei regolamenti edilizi locali che ad
esso si richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute",
ma più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce) (Corte
d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche
una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez.
III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte,
10/10/2008 n. 2565) (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
sentenza 07.06.2011 n. 1419 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sostituzione
ope legis delle N.T.A di un Comune e nozione
di pareti finestrate.
Il TAR Milano, Sez. IV, con
sentenza 07.06.2011 n. 1419, in
conformità a quanto espresso dal Consiglio
di Stato con la sentenza n. 2749/2011, ha
dichiarato l’illegittimità di una
concessione edilizia rilasciata sulla base
di norme tecniche di attuazione che,
trovandosi in contrasto con la previsione
contenuta nell’articolo 9 del D.M. 1444/1968
del Comune, dovevano ritenersi sostituite
ope legis dalle disposizioni del decreto
ministeriale.
La sentenza in commento è stata pronunciata
in seguito ad un ricorso con il quale veniva
contestata la legittimità di una concessione
edilizia che in attuazione delle N.T.A.
(Norme tecniche di attuazione) del Comune
aveva consentito, in contrasto con le
disposizioni contenute nell’articolo 9 del
D.M., la costruzione di un’autorimessa ad
una distanza di cinque metri dal fabbricato
dei ricorrenti.
Sul punto i giudici milanesi hanno chiarito
come “La giurisprudenza ha costantemente
affermato che il d.m. 02.04.1968 n. 1444
–emanato in virtù dell’art. 41-quinquies l.
n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta
dall’art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L.
Ponte)– ripete dal rango di fonte primaria
della norma delegante la forza di legge,
suscettibile di integrare con efficacia
precettiva il regime delle distanze dalle
costruzioni di cui all’art. 872 c.c.: la
regola della distanza di 10 metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti
vincola anche i comuni in sede di formazione
e di revisione degli strumenti urbanistici,
con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto
limite minimo è illegittima e va
disapplicata, essendo consentita alle
amministrazioni locali solo la fissazione di
distanze superiori (TAR Lombardia Brescia,
sez. I, 30.08.2007, n. 832)”.
Sulla nozione di pareti finestrate i giudici
del TAR Milano, richiamando quanto statuito
in precedenti sentenze sia dal giudice
amministrativo che civile, hanno precisato
come con tale definizione si devono
intendere non soltanto le pareti munite di “vedute”,
ma più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l’esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce) e
considerato altresì che basta che sia
finestrata anche un sola delle due pareti.
In attuazione di tali principi i giudici
hanno dunque dichiarato l’illegittimità
della concessione, disapplicando le regole
poste dalle N.T.A., in quanto contrastanti
con la previsione dell’articolo 9 del d.m.
1444/1968
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima la concessione edilizia per la
costruzione di una autorimessa posta a 5,00
mt. dalla parete finestrata del fabbricato
dei ricorrenti.
L'art. 15.2.7 delle N.T.A. del Comune,
essendo in contrasto con la previsione
dell’art. 9 D.M. 1444/1968, deve ritenersi
sostituito ope legis dal precetto contenuto
in questa norma di diretta applicazione
secondo il principio di gerarchia delle
fonti che si applica nel caso di contrasto
apparente tra le norme.
La difesa dei ricorrenti ha prodotto la
sentenza del Tribunale di Como che aveva
deciso la controversia tra i ricorrenti
medesimi e i controinteressati e nella
quale, per quanto di interesse nel presente
giudizio, era stata negata la diretta
applicabilità nei rapporti tra privati
dell’art. 9 D.M. 1444/1968 anche superando
la normativa urbanistica comunale vigente.
L’interpretazione offerta dal Tribunale di
Como è in linea con l’orientamento espresso
dalla Suprema Corte in alcune sentenze pure
richiamate dalla decisione del giudice
lariano (Cass. 3771/2001, 5889/1997), che
però ha sempre sostenuto come la norma
contenuta nell’art. 9 D.M. 1444/1968 dovesse
ritenersi cogente per l’amministrazione
locale superando anche la previsione di
norme urbanistiche locali difformi.
In merito all’unico motivo di ricorso non
può che ribadirsi un recente orientamento
espresso da questa stessa sezione nella
sentenza 1282/2011 che in merito ha
affermato: “L’art. 9 del D.M. 1444/1968
misura le distanze con riferimento alle
pareti finestrate con riferimento a: 2)
Nuovi edifici ricadenti zone diverse dalla
zona A: è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti;
Zone C): è altresì prescritta, tra pareti
finestrate di edifici antistanti, la
distanza minima pari all'altezza del
fabbricato più alto.
La giurisprudenza ha costantemente affermato
che il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in
virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del
1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l.
06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete
dal rango di fonte primaria della norma
delegante la forza di legge, suscettibile di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze dalle costruzioni di cui
all'art. 872 c.c.: la regola della distanza
di 10 metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola anche i comuni
in sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo è
illegittima e va disapplicata, essendo
consentita alle amministrazioni locali solo
la fissazione di distanze superiori (TAR
Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n.
832).
Con riferimento alla nozione di pareti
finestrate la giurisprudenza afferma che
"per "pareti finestrate", ai sensi dell'art.
9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei
regolamenti edilizi locali che ad esso si
richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute", ma
più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce)" (Corte
d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche
una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez.
III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte,
10/10/2008 n. 2565).”.
Orbene nel caso di specie non vi è dubbio
che l’autorimessa di cui alla concessione
impugnata sia posta a cinque metri dalla
parete finestrata del fabbricato dei
ricorrenti.
Ciò comporta l’illegittimità della
concessione impugnata in quanto l’art.
15.2.7 delle N.T.A. del Comune, essendo in
contrasto con la previsione dell’art. 9 D.M.
1444/1968, deve ritenersi sostituita ope
legis dal precetto contenuto in questa
norma di diretta applicazione secondo il
principio di gerarchia delle fonti che si
applica nel caso di contrasto apparente tra
le norme
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.06.2011 n. 1419 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Lavatelli,
Le
distanze tra i fabbricati e dai confini in
materia edilizia (nota 05.06.2010 -
tratto da www.cameramministrativacomo.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
- Violazione normativa - Tutela
giurisdizionale - Ripartizione giurisdizione
tra AGO e AGA - Fattispecie.
E' opinione comune nella giurisprudenza che
i proprietari di fabbricati vicini possono
chiedere il rispetto delle norme che
prescrivono distanze tra le costruzioni
innanzi al giudice ordinario, allorquando la
controversia sia instaurata nei soli
confronti di altri soggetti privati,
vertendosi in tal caso su questioni di
diritto soggettivo, ovvero innanzi al
giudice amministrativo quando sia contestata
la legittimità del titolo abilitativo
rilasciato in violazione delle norme sulle
distanza, vertendosi in tal caso in tema di
interessi legittimi
(tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.05.2011 n.
1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La regola della distanza di 10
metri tra pareti finestrate vincola anche i
Comuni in sede di formazione e di revisione
degli strumenti urbanistici.
Il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù
dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942
introdotto a sua volta dall'art. 17 l.
06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete
dal rango di fonte primaria della norma
delegante la forza di legge, suscettibile di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze dalle costruzioni di cui
all'art. 872 c.c.; la regola della distanza
di 10 metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti prevista dalla
suddetta norma vincola anche i Comuni in
sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo è
illegittima e va disapplicata, essendo
consentita alle amministrazioni locali solo
la fissazione di distanze superiori (TAR
Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n.
832).
Per "pareti finestrate", ai sensi
dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di
tutti quei regolamenti edilizi locali che ad
esso si richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute",
ma più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce) (Corte
d’Appello di Catania, 22.11.2003); ai fini
dell’applicazione della norma è inoltre
sufficiente che sia finestrata anche una
sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez. III,
04.12.2001, n. 1734 e TAR Piemonte,
10.10.2008 n. 2565)
(massima
tratta da www.regione.piemonte.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.05.2011 n. 1282 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
"pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9
d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei
regolamenti edilizi locali che ad esso si
richiamano, devono intendersi non (soltanto)
le pareti munite di "vedute" ma più in
generale tutte le pareti munite di aperture
di qualsiasi genere verso l'esterno, quali
porte, balconi, finestre di ogni tipo (di
veduta o di luce) e considerato altresì che
basta che sia finestrata anche una sola
delle due pareti.
L’art. 9 del
D.M. 1444/1968 misura le distanze con
riferimento alle pareti finestrate con
riferimento a: 2) Nuovi edifici ricadenti
zone diverse dalla zona A: è prescritta in
tutti i casi la distanza minima assoluta di
m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti; Zone C): è altresì
prescritta, tra pareti finestrate di edifici
antistanti, la distanza minima pari
all'altezza del fabbricato più alto.
La giurisprudenza ha costantemente affermato
che il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in
virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del
1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l.
06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete
dal rango di fonte primaria della norma
delegante la forza di legge, suscettibile di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze dalle costruzioni di cui
all'art. 872 c.c.: la regola della distanza
di 10 metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola anche i comuni
in sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo è
illegittima e va disapplicata, essendo
consentita alle amministrazioni locali solo
la fissazione di distanze superiori (TAR
Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n.
832).
Con riferimento alla nozione di pareti
finestrate la giurisprudenza afferma che “per
"pareti finestrate", ai sensi dell'art.
9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei
regolamenti edilizi locali che ad esso si
richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute",
ma più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce)” (Corte
d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche
una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez.
III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte,
10/10/2008 n. 2565).
Il secondo motivo è infondato in quanto la
norma delle n.t.a. riprende l’art. 873 c.c.
e non interferisce con l’applicazione delle
disposizioni previste da norme speciali in
materia di distanze. La distanza prevista
dall’art. 873 c.c., infatti, non può essere
inferiore a quella prevista dall'art. 9 del
D.M. 02.04.1968, n. 1444 in quanto la norma
è obbligatoria e vincolante per la potestà
regolamentare comunale e prevale sulla norma
locale con il sistema dell’inserzione
automatica di clausole (Cass. civ., sez. II,
24.01.2006, n. 1282)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.05.2011 n. 1282 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di demolizione e
ricostruzione innovativa, ossia quando
l’area è assoggettata a una trasformazione
tale da recidere il rapporto di continuità
con la sagoma e i volumi preesistenti, sono
applicabili le regole sulle distanze
previste per le nuove costruzioni.
Nel caso di demolizione e ricostruzione
innovativa che fronteggi un edificio con
pareti finestrate viene in rilievo, accanto
all’interesse urbanistico, anche l’interesse
igienico-sanitario essendo necessario
garantire l’aerazione degli spazi interni ed
evitare la formazione di intercapedini
malsane. Questo secondo interesse non è
nella disponibilità dei privati e neppure
delle amministrazioni locali, ed è protetto
su tutto il territorio nazionale dalla
disposizione sulla distanza minima assoluta
di 10 metri di cui all’art. 9 del DM
1444/1968.
Il vincolo della distanza minima deve però
essere applicato secondo il canone di
proporzionalità, ossia nei limiti necessari
a prevenire il degrado igienico-sanitario
dei luoghi. Si può infatti ritenere che
anche all’esterno dei piani attuativi la
deroga alla distanza minima dalle pareti
finestrate risulti in concreto ammissibile
quando non vi siano pericoli di
peggioramento delle condizioni
igienico-sanitarie nelle abitazioni servite
dalle finestre.
Questa situazione può verificarsi in
fattispecie particolari, ad esempio quando
non vi sia esatta contrapposizione tra il
nuovo muro e la parete finestrata
preesistente oppure quando attorno a
quest’ultima rimanga comunque spazio
sufficiente per conservare inalterate
l’aerazione e l’illuminazione
Nel caso di demolizione e ricostruzione
innovativa, ossia quando l’area (come nella
vicenda in esame) è assoggettata a una
trasformazione tale da recidere il rapporto
di continuità con la sagoma e i volumi
preesistenti, sono applicabili le regole
sulle distanze previste per le nuove
costruzioni.
Se l’aspetto di un’area viene
significativamente alterato, la demolizione
e ricostruzione svincola i proprietari dai
condizionamenti connessi ai vecchi edifici
ma allo stesso tempo fa perdere il diritto
di prevenzione fondato sugli stessi.
---------------
Nel caso di
demolizione e ricostruzione innovativa che
fronteggi un edificio con pareti finestrate
viene in rilievo, accanto all’interesse
urbanistico, anche l’interesse
igienico-sanitario essendo necessario
garantire l’aerazione degli spazi interni ed
evitare la formazione di intercapedini
malsane.
Questo secondo interesse non è nella
disponibilità dei privati e neppure delle
amministrazioni locali, ed è protetto su
tutto il territorio nazionale dalla
disposizione sulla distanza minima assoluta
di 10 metri di cui all’art. 9 del DM
1444/1968 (v. C.Cost. 16.06.2005 n. 232). È
vero che proprio l’art. 9, comma 3, del DM
1444/1968 contiene l’originaria deroga poi
ripresa anche dalla disciplina comunale in
esame, ossia la facoltà di costruire a
distanze inferiori nel caso di gruppi di
edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o di lottizzazioni
convenzionate con previsioni
planivolumetriche.
Tale norma è però fondata sul presupposto
che la realizzazione ex novo e così
pure la sistemazione integrale di un insieme
di edifici consentano di adottare soluzioni
progettuali e accorgimenti tecnici in grado
di evitare problemi igienico-sanitari anche
con una distanza inferiore a 10 metri. Di
conseguenza la deroga è logicamente
riferibile soltanto all’ambito territoriale
ricompreso nei suddetti piani e considerato
nella progettazione unitaria;
In concreto il vincolo della distanza minima
deve però essere applicato secondo il canone
di proporzionalità, ossia nei limiti
necessari a prevenire il degrado
igienico-sanitario dei luoghi. Si può
infatti ritenere che anche all’esterno dei
piani attuativi la deroga alla distanza
minima dalle pareti finestrate risulti in
concreto ammissibile quando non vi siano
pericoli di peggioramento delle condizioni
igienico-sanitarie nelle abitazioni servite
dalle finestre.
Questa situazione può verificarsi in
fattispecie particolari, ad esempio quando
non vi sia esatta contrapposizione tra il
nuovo muro e la parete finestrata
preesistente oppure quando attorno a
quest’ultima rimanga comunque spazio
sufficiente per conservare inalterate
l’aerazione e l’illuminazione (v. TAR
Brescia Sez. I 27.08.2010 n. 3240; TAR
Brescia Sez. I 03.07.2008 n. 788)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 17.05.2011 n. 730 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 9 del d.m. 20.04.1968 n. 1444, il
quale detta le citate disposizioni in tema
di distanze tra le costruzioni, stante la
sua natura di norma primaria, sostituisce
eventuali disposizioni contrarie contenute
nelle norme tecniche di attuazione di un
piano regolatore e la prescritta distanza di
10 metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti va rispettata in tutti i casi,
trattandosi di norma volta ad impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario e della
sicurezza, per cui esso disposto non è
eludibile in funzione della natura giuridica
dell'intercapedine stessa.
In tema di distanze legali nelle
costruzioni, le prescrizioni contenute nei
piani regolatori e nei regolamenti edilizi
comunali, essendo dettate, contrariamente a
quelle del codice civile, a tutela
dell'interesse generale a un prefigurato
modello urbanistico, non tollerano deroghe
convenzionali da parte dei privati e tali
deroghe, se concordate, sono invalide, né
tale invalidità può venire meno per
l'avvenuto rilascio di concessione edilizia,
poiché il singolo atto non può consentire la
violazione dei principi generali dettati,
una volta per tutte, con gli indicati
strumenti urbanistici.
Qualora gli strumenti urbanistici
stabiliscano determinate distanze dal
confine e nulla aggiungano sulla possibilità
di costruire “in aderenza” od “in appoggio”,
la preclusione di dette facoltà non consente
l'operatività del principio della
prevenzione, mentre, nel caso in cui invece
tali facoltà siano previste, si versa in
ipotesi del tutto analoga a quella
disciplinata dagli art. 873 e ss. c.c., con
la conseguenza che è consentito al
preveniente costruire sul confine, ponendo
il vicino, che intenda a sua volta
edificare, nell'alternativa di chiedere la
comunione del muro e di costruire in
aderenza (eventualmente esercitando le
opzioni previste dagli art. 875 e 877, comma
2, c.c.), ovvero di arretrare la sua
costruzione sino a rispettare la maggiore
intera distanza imposta dallo strumento
urbanistico.
La giurisprudenza (cfr. Cons. St., IV,
02.11.2010 n. 7731), da tempo ha chiarito
che l'art. 9 del d.m. 20.04.1968 n. 1444, il
quale detta le citate disposizioni in tema
di distanze tra le costruzioni, stante la
sua natura di norma primaria, sostituisce
eventuali disposizioni contrarie contenute
nelle norme tecniche di attuazione di un
piano regolatore e la prescritta distanza di
10 metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti va rispettata in tutti i casi,
trattandosi di norma volta ad impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario e della
sicurezza, per cui esso disposto non è
eludibile in funzione della natura giuridica
dell'intercapedine stessa.
Segue da ciò -a prescindere dalla rilevanza
o incidenza connesse alle ventilate
disposizioni del regolamento edilizio
comunale e poiché la norma di cui all'art.
9, d.m. n. 1444 del 1968 è finalizzata a
stabilire un'idonea intercapedine tra
edifici nell'interesse pubblico, non a
salvaguardare l'interesse privato del
frontista alla riservatezza- che al giudice
non è lasciato alcun margine di
discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia di distanze e comunque
non possano dispiegare alcun effetto
distintivo la circostanza che si tratti di
corpi di uno stesso edificio ovvero di
edifici distinti oppure assumere ruolo
interpretazioni intorno alle caratteristiche
dello spazio interno, quantunque chiostrina
o cortile o pozzo luce, specie in zona
sismica nella quale occorre in ogni caso
garantire l’intervallo di sicurezza.
Va richiamata
consolidata giurisprudenza civile in ordine
alla sopravvenienza di norme urbanistiche e
relativamente all’applicabilità di un regime
edificatorio in deroga convenzionale,
secondo la quale:
- in tema di distanze legali nelle
costruzioni, le prescrizioni contenute nei
piani regolatori e nei regolamenti edilizi
comunali, essendo dettate, contrariamente a
quelle del codice civile, a tutela
dell'interesse generale a un prefigurato
modello urbanistico, non tollerano deroghe
convenzionali da parte dei privati e tali
deroghe, se concordate, sono invalide, né
tale invalidità può venire meno per
l'avvenuto rilascio di concessione edilizia,
poiché il singolo atto non può consentire la
violazione dei principi generali dettati,
una volta per tutte, con gli indicati
strumenti urbanistici (Cassazione civile ,
sez. II, 23.04.2010, n. 9751);
- qualora gli strumenti urbanistici
stabiliscano determinate distanze dal
confine e nulla aggiungano sulla possibilità
di costruire “in aderenza” od “in
appoggio”, la preclusione di dette
facoltà non consente l'operatività del
principio della prevenzione, mentre, nel
caso in cui invece tali facoltà siano
previste, si versa in ipotesi del tutto
analoga a quella disciplinata dagli art. 873
e ss. c.c., con la conseguenza che è
consentito al preveniente costruire sul
confine, ponendo il vicino, che intenda a
sua volta edificare, nell'alternativa di
chiedere la comunione del muro e di
costruire in aderenza (eventualmente
esercitando le opzioni previste dagli art.
875 e 877, comma 2, c.c.), ovvero di
arretrare la sua costruzione sino a
rispettare la maggiore intera distanza
imposta dallo strumento urbanistico
(Cassazione civile , sez. II, 09.04.2010, n.
8465)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.05.2011 n. 2749 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini del rispetto delle distanze, soltanto
le strutture edilizie meramente accessorie o
ornamentali possono essere escluse
dall’obbligo del rispetto delle stesse, come
chiarito dalla giurisprudenza, secondo la
quale “in tema di distanze fra edifici,
mentre rientrano nella categoria degli
sporti, non computabili ai fini delle
distanze, soltanto quegli elementi con
funzione meramente ornamentale, di
rifinitura od accessoria, come le mensole,
le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni
di gronda e simili, costituiscono corpi di
fabbrica, computabili nelle distanze fra
costruzioni, le sporgenze di particolari
proporzioni, come i balconi, costituite da
solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza".
---------------
Mentre non sono [ai fini delle distanze]
computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano una funzione
meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria di limitata entità, come le
mensole, i cornicioni, le grondaie e simili,
rientrano nel concetto civilistico di
costruzione le parti dell’edificio, quali
scale, terrazze e corpi avanzati che,
seppure non corrispondono a volumi abitativi
coperti, sono destinate ad estendere ed
ampliare la consistenza del fabbricato; e
che, agli effetti dell'art. 873 c.c., la
nozione di costruzione, che è stabilita
dalla legge statale, è unica, e non può
essere derogata, sia pure al limitato fine
del computo delle distanze, dalla normativa
secondaria, giacché il rinvio contenuto
nella seconda parte dell’art. 873 c.c., è
limitato alla sola facoltà per i regolamenti
locali di stabilire una distanza maggiore
(tra edifici o dal confine) rispetto a
quella codicistica.
Nel provvedimento impugnato si assume,
erroneamente, che il progetto presentato dai
ricorrenti sia destinato a creare un
ampliamento in sopraelevazione, mentre
appare evidente che con lo stesso si mira a
creare una maggiore volumetria
dell’immobile, non modificando in alcun modo
l’altezza massima dell’edificio.
Difatti la presenza di un muro di altezza di
6,20 metri su un lato dell’edificio non può
essere considerata come un’appendice di
carattere puramente estetico, rappresentando
al contrario una struttura di sicura
rilevanza e impatto in termini urbanistici.
Del resto, ai fini del rispetto delle
distanze, soltanto le strutture edilizie
meramente accessorie o ornamentali possono
essere escluse dall’obbligo del rispetto
delle stesse, come chiarito dalla
giurisprudenza, secondo la quale “in tema
di distanze fra edifici, mentre rientrano
nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente
ornamentale, di rifinitura od accessoria,
come le mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili,
costituiscono corpi di fabbrica, computabili
nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze
di particolari proporzioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se
scoperte, di apprezzabile profondità ed
ampiezza” (Cassazione civile, II,
22.07.2010, n. 17242).
Con il secondo motivo si assume che nessuna
violazione delle distanze tra la costruzione
e la strada sarebbe realizzata con la
concessione richiesta, visto che nessuna
modifica sarebbe effettuata con riferimento
alla parete più vicina alla strada, oggetto
di concessione in sanatoria nel 1995.
Anche questa doglianza è fondata.
In tal senso la giurisprudenza della Corte
di Cassazione ha costantemente affermato che
“mentre non sono [ai fini delle distanze]
computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano una funzione
meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria di limitata entità, come le
mensole, i cornicioni, le grondaie e simili,
rientrano nel concetto civilistico di
costruzione le parti dell’edificio, quali
scale, terrazze e corpi avanzati che,
seppure non corrispondono a volumi abitativi
coperti, sono destinate ad estendere ed
ampliare la consistenza del fabbricato; e
che, agli effetti dell'art. 873 c.c., la
nozione di costruzione, che è stabilita
dalla legge statale, è unica, e non può
essere derogata, sia pure al limitato fine
del computo delle distanze, dalla normativa
secondaria, giacché il rinvio contenuto
nella seconda parte dell’art. 873 c.c., è
limitato alla sola facoltà per i regolamenti
locali di stabilire una distanza maggiore
(tra edifici o dal confine) rispetto a
quella codicistica” (Cassazione civile,
II, 10.09.2009, n. 19554).
Essendo la parete di 6,20 m. già esistente,
nessuna violazione di distanze si può
configurare in relazione al richiesto
intervento edilizio della cui legittimità si
controverte
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 04.05.2011 n. 1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: R.
D'Isa,
Le luci e vedute
(link a www.iussit.eu). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
LE DISTANZE TRA LE COSTRUZIONI ex artt. 873
e ss. c.c.
(link a www.iussit.eu). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze legali, prova del danno
influenzata dall'urbe locale.
La S.C. ritorna sulla discussa questione
delle condizioni di risarcibilità del danno
in caso di opere illegittime che violano i
limiti legali di vicinato. Mentre in tema di
violazioni di norme prescrittive di distanze
legali la giurisprudenza della S.C. ritiene
configurabile un danno “in re ipsa”,
per le altre violazioni è necessario provare
in concreto il danno subito.
E’ stato, infatti, statuito, in materia di
violazione delle distanze tra costruzioni
previste dal codice civile e dalle norme
integrative dello stesso, quali i
regolamenti edilizi comunali, al
proprietario confinante che lamenti tale
violazione compete sia la tutela in forma
specifica, finalizzata al ripristino della
situazione antecedente al verificarsi
dell'illecito, sia quella risarcitoria, e,
determinando la suddetta violazione un
asservimento di fatto del fondo del vicino,
il danno deve ritenersi "in re ipsa",
senza necessità di una specifica attività
probatoria.
In altri termini, ricorrendo tali
violazioni, al proprietario confinante che
deduca il superamento delle distanze legali
spetta sia la tutela in forma specifica,
finalizzata al ripristino della situazione
antecedente al verificarsi dell'illecito,
sia quella risarcitoria, ed il danno che
egli subisce (danno conseguenza e non danno
evento), essendo l'effetto, certo ed
indiscutibile, dell'abusiva imposizione di
una servitù nel proprio fondo e, quindi,
della limitazione del relativo godimento,
che si traduce in una diminuzione temporanea
del valore della proprietà medesima, deve
ritenersi "in re ipsa", senza
necessità di una specifica attività
probatoria.
Per contro, la realizzazione di opere in
violazione di norme recepite dagli strumenti
urbanistici locali, diverse da quelle in
materia di distanze, non comportano
immediato e contestuale danno per i vicini,
il cui diritto al risarcimento presuppone
l'accertamento di un nesso tra la violazione
contestata e l'effettivo pregiudizio subito.
La prova di tale pregiudizio deve essere
fornita dagli interessati in modo preciso,
con riferimento alla sussistenza del danno
ed all'entità dello stesso.
Con la segnalata sentenza è stato, altresì,
precisato che, in tema di "servitus non
aedificandi", il contenuto del diritto
si concreta nel corrispondente dovere del
proprietario del fondo servente di astenersi
da qualsiasi attività edificatoria che abbia
come risultato quello di comprimere o
ridurre le condizioni di vantaggio derivanti
al fondo dominante dalla costituzione di
detta servitù, quale che sia, in concreto,
l'entità di siffatta compressione o
riduzione e indipendentemente dalla misura
dell'interesse del titolare del diritto a
far cessare impedimenti e turbative del
medesimo; ne consegue che non è possibile
subordinare la tutela giudiziale di una tale
servitù, come, in genere, di ogni diritto
reale, all'esistenza di un concreto
pregiudizio derivante dagli atti lesivi,
attesa l'assolutezza propria di tali
situazioni giuridiche soggettive, tutelate
da ogni forma di compressione o ingerenza da
parte di terzi, col solo limite del divieto
di atti emulativi e salva la rilevanza
dell'entità del pregiudizio al solo fine
della quantificazione dell'eventuale
risarcimento.
Per opportuni riferimenti cfr. Cass. n. 7909
del 2001 e, da ultimo, Cass. n. 24387 del
2010 (commento tratto da www.ipsoa.it -
Corte di Cassazione civile,
sentenza 31.03.2011 n. 7479). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9, punto 2, d.m. n. 1444/1968 (implicante m.
10 lineari fra le pareti) risulta
applicabile solo in aree diverse dalla zona
A.
Deve precisarsi come il ricordato art. 9,
punto 2, d.m. n. 1444/1968 (implicante m. 10
lineari fra le pareti) risulti applicabile
solo in aree diverse dalla zona A e, quindi,
in situazioni completamente differenziate da
quella in questione (relativa al semplice
ampliamento di un manufatto già edificato)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.03.2011 n. 1781 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Le Luci e Vedute (24.03.2011 - tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9 del D.M. n. 1444/1968 è norma
assolutamente inderogabile, sicché le
previsioni urbanistiche locali, con essa
contrastanti, devono essere disapplicate dal
giudice, tenuto ad applicare direttamente
quelle di cui all’art. 9: e ciò perché la
ratio di questa prescrizione non è tanto la
tutela di interessi di carattere
privatistico come la riservatezza, bensì la
salvaguardia d’imprescindibili esigenze di
natura pubblicistica quali la sicurezza e la
salubrità dei luoghi.
L’ultimo motivo di ricorso lamenta la
violazione dell’art. 9 del D.M. n.
1444/1968, nonché l’eccesso di potere per
travisamento dei presupposti di fatto:
l’intervento autorizzato comporterebbe,
infatti, la violazione della disciplina
delle distanze tra pareti finestrate
rispetto ad un fabbricato, distante sette
metri, preesistente e parzialmente
prospiciente.
Orbene, il citato art. 9 dispone che per i “nuovi
edifici”, ricadenti in zone diverse
dalla A –come nel caso– “è prescritta in
tutti i casi la distanza minima assoluta di
m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti”.
Si tratta, non v’è dubbio, di una norma
assolutamente inderogabile, sicché le
previsioni urbanistiche locali, con essa
contrastanti, devono essere disapplicate dal
giudice, tenuto ad applicare direttamente
quelle di cui all’art. 9: e ciò perché la
ratio di questa prescrizione non è tanto
la tutela di interessi di carattere
privatistico come la riservatezza, bensì la
salvaguardia d’imprescindibili esigenze di
natura pubblicistica quali la sicurezza e la
salubrità dei luoghi (cfr., ex multis
Cass. 07.01.2010, n. 56; id. 03.03.2008, n.
5741, C.d.S., IV, 12.03.2009, n. 1491).
Ciò posto, è tuttavia da ritenere che, nella
fattispecie, non tale disposizione sia
rilevante, ma vi si applichino soltanto le
norme civilistiche sulle distanze, la cui
osservanza non è qui in questione.
L’art. 9, infatti, trova applicazione ai “nuovi
edifici”, mentre, nel caso in esame, si
è ristrutturato un edificio preesistente,
conservandone dimensioni e sagoma.
E se è bensì vero che la forometria è stata
modificata, bisogna osservare che lo stesso
edificio già prima dell’intervento
presentava, sul lato fronteggiante la
costruzione più vicina –posta in effetti a
meno di 10 metri- una serie di aperture,
alcune vere e proprie finestre, altre
semplici luci: tali tuttavia, nel complesso,
da poter escludere che la ristrutturazione
operata abbia condotto, almeno sotto questo
specifico profilo, ad un nuovo edificio
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 23.02.2011 n. 300 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9, d.m. 02.04.1968 n. 1444 è inteso a
impedire la formazione di intercapedini
nocive sotto il profilo igienico-sanitario.
Si tratta poi di disposizione tassativa ed
inderogabile, la quale trova applicazione
anche nel caso in cui solo una delle pareti
antistanti risulti finestrata e non
entrambe.
Per costante giurisprudenza (tra le ultime,
TAR Liguria Genova, sez. I, 30.06.2009, n.
1621), l'art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444 è
inteso a impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario.
Si tratta poi di disposizione tassativa ed
inderogabile, la quale trova applicazione
anche nel caso in cui solo una delle pareti
antistanti risulti finestrata e non entrambe
(Cass., sez. II, 26.10.2007, n. 22495)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 23.02.2011 n. 298 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Le distanze tra le costruzioni ex artt. 873 e ss., c.c.
(03.03.2011 - tratto da http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
legali in caso di demolizione e
ricostruzione. Se la ricostruzione non è
fedele si tratta di nuova costruzione; cosa
cambia ai fini delle distanze tra
costruzioni.
Con l'importante
sentenza 04.02.2011 n. 802, il
Consiglio di Stato, Sez. IV, ha chiarito in
quali casi un intervento di demolizione e
ricostruzione va considerato come «nuova
costruzione», e come questo debba essere
trattato ai fini dell'applicazione delle
norme sulle distanze legali, ed in
particolare del principio della prevenzione.
Ciò che contraddistingue la ristrutturazione
dalla nuova edificazione è la già avvenuta
trasformazione del territorio, attraverso
un’edificazione di cui si conservi la
struttura fisica (sia pure con la
sovrapposizione di un «insieme
sistematico di opere, che possono portare ad
un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente»), ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma, in quest'ultimo caso, con
ricostruzione, se non «fedele»
(termine espunto dall'attuale disciplina),
comunque rispettosa della volumetria e della
sagoma della costruzione preesistente.
il principio della prevenzione, che ricorre
quando il fondo è situato in un comune
sprovvisto di strumenti urbanistici, non è
applicabile quando l'obbligo di osservare un
determinato distacco dal confine sia dettato
da regolamenti comunali in tema di edilizia
e di urbanistica, avuto riguardo al
carattere indiscutibilmente cogente di tali
fonti normative, da intendersi preordinate
alla tutela, oltre che di privati diritti
soggettivi, di interessi generali.
Proprio in quest’ottica la giurisprudenza
sottolinea che solo nel caso in cui i
regolamenti edilizi stabiliscano
espressamente la necessità di rispettare
determinate distanze dal confine, non può
ritenersi consentita la costruzione in
aderenza o in appoggio a meno che tale
facoltà non sia consentita come alternativa
all'obbligo di rispettare le suddette
distanze.
Non verificandosi la situazione appena
esaminata, il principio della prevenzione
assume tutta la sua valenza, consentendo, in
ossequio a quanto previsto dagli art. 873 e
seguenti del Codice Civile, a chi edifica
per primo sul fondo contiguo ad altro tre
diverse facoltà:
• in primo luogo, quella di costruire sul
confine;
• in secondo luogo, quella di costruire con
distacco dal confine, osservando la distanza
minima imposta dal codice civile ovvero
quella maggiore distanza stabilita dai
regolamenti edilizi locali;
• infine quella di costruire con distacco
dal confine a distanza inferiore alla metà
di quella prescritta per le costruzioni su
fondi finitimi, facendo salvo in questa
evenienza la facoltà per il vicino, il quale
edifichi successivamente, di avanzare il
proprio manufatto fino a quella
preesistente, previa corresponsione della
metà del valore del muro del vicino e del
valore del suolo occupato per effetto
dell'avanzamento della fabbrica.
Nel caso concreto esaminato dalla Corte con
la pronuncia in commento, l'intervento
edilizio assentito con il permesso di
costruire impugnato, prevedendo la
realizzazione di un intervento di
demolizione e ricostruzione con sagoma e
volumi diversi rispetto al fabbricato
preesistente, è stato ritenuto inquadrabile
tra le nuove costruzioni, e dunque è stato
ritenuto applicabile, stante il rispetto
degli altri requisiti di legge, il principio
della prevenzione, che tra i due proprietari
confinanti consente a quello che costruisce
per primo le possibilità sopra elencate
(commento tratto da
www.legislazionetecnica.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9
prescrive in tutti i casi la distanza minima
assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti- è norma che
impone determinati limiti edilizi ai comuni
nella formazione o revisione degli strumenti
urbanistici, ma non è immediatamente
operante anche nei rapporti tra privati.
L'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, là
dove prescrive la distanza di 10 metri tra
pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile in funzione della natura giuridica
dell'intercapedine.
Come
evidenziato dalla consolidata
giurisprudenza, il D.M. 02.04.1968 n. 1444
-là dove all'art. 9 prescrive in tutti i
casi la distanza minima assoluta di metri 10
tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti- è norma che impone determinati
limiti edilizi ai comuni nella formazione o
revisione degli strumenti urbanistici, ma
non è immediatamente operante anche nei
rapporti tra privati.
E da ciò deriva (cfr. ex multis Cass.
Civ. Sez. II 01.11.2004 n. 21899) che
l'adozione, da parte degli enti locali, di
strumenti urbanistici contrastanti con la
norma comporta l'obbligo, per il giudice di
merito, non solo di disapplicare le
disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del
ricordato art. 9, divenuta, per inserzione
automatica, parte integrante dello strumento
urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata (cfr. Cons. St.,
sez. V, 02.11.2010 n. 7731; TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 16.10.2009, n. 1742).
Più in generale, va posto in rilievo che
l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, là
dove prescrive la distanza di 10 metri tra
pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile in funzione della natura giuridica
dell'intercapedine (cfr. TAR Toscana, Sez.
III, 04.12.2001 n. 1734, TAR Liguria Sez. I,
12.02.2004 n. 145).
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono
predeterminate con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e di sicurezza, di modo
che al giudice non è lasciato alcun margine
di discrezionalità nell'applicazione della
relativa disciplina (cfr. Cons. St., Sez. IV,
05.12.2005 n. 6909) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 01.02.2011 n. 185 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di distanze fra costruzioni o di queste
con i confini vige il regime della c.d.
"doppia tutela", per cui il soggetto che
assume di essere stato danneggiato dalla
violazione delle norme in materia è
titolare, da un lato, del diritto soggettivo
al risarcimento del danno o alla riduzione
in pristino nei confronti dell'autore
dell'attività edilizia illecita (con
competenza del G.O.) e, dall'altra,
dell'interesse legittimo alla rimozione del
provvedimento invalido dell'amministrazione,
quando tale attività sia stata autorizzata,
consentita, permessa (conosciuto dal G.A.).
La controversia derivante dalla impugnazione
di un permesso di costruire da parte del
vicino che lamenti la violazione delle
distanze legali costituisce una disputa non
già tra privati ma tra privato e pubblica
amministrazione, nella quale la posizione
del primo si atteggia a interesse legittimo,
con conseguente spettanza della
giurisdizione (anche e certamente) al
giudice amministrativo.
Costituisce principio consolidato e pacifico
che in tema di distanze fra costruzioni o di
queste con i confini vige il regime della
c.d. "doppia tutela", per cui il
soggetto che assume di essere stato
danneggiato dalla violazione delle norme in
materia è titolare, da un lato, del diritto
soggettivo al risarcimento del danno o alla
riduzione in pristino nei confronti
dell'autore dell'attività edilizia illecita
(con competenza del G.O.) e, dall'altra,
dell'interesse legittimo alla rimozione del
provvedimento invalido dell'amministrazione,
quando tale attività sia stata autorizzata,
consentita, permessa (conosciuto dal G.A.).
Il privato, che si ritiene danneggiato da
un'attività edilizia autorizzata, che ha
violato le norme in tema di distanza fra
costruzioni o di queste con i confini, ha
diritto alla c.d. "doppia tutela" che
si caratterizza per essere concorrente ma
separata per le diverse posizioni giuridiche
di diritto soggettivo e interesse.
Pertanto per tali controversie la
giurisdizione spetta al giudice
amministrativo, qualora si tratti di
impugnazione del relativo provvedimento per
l'annullamento di quest'ultimo, poiché in
tal caso si fa valere una posizione di
interesse legittimo, mentre spetta al
giudice ordinario, qualora venga richiesto
il risarcimento del danno, ovvero alla
rimozione dell'opera (in tal caso infatti è
implicita una richiesta di disapplicazione
dell'atto medesimo) (in tal senso, tra
tante, si veda Consiglio Stato, sez. V,
24.10.1996 , n. 1273).
La controversia derivante dalla impugnazione
di un permesso di costruire da parte del
vicino che lamenti la violazione delle
distanze legali costituisce una disputa non
già tra privati ma tra privato e pubblica
amministrazione, nella quale la posizione
del primo si atteggia a interesse legittimo,
con conseguente spettanza della
giurisdizione (anche e certamente) al
giudice amministrativo (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 28.01.2011 n. 678 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
D.M. n. 1444/1968 -
Prescrizioni su altezze e distanze - Natura
- Tutela dell'interesse pubblico -
Legittimazione a ricorrere - Qualsiasi
soggetto in situazione di stabile
collegamento con l'area interessata.
L'art. 8 del D.M. 1444/1968 in materia di
altezze degli edifici è posto a tutela non
dell'interesse privatistico dei confinanti,
bensì dell'interesse pubblico affinché si
realizzi un determinato assetto urbanistico:
pertanto, tale interesse può essere fatto
valere da tutti coloro che si trovino in una
situazione di stabile collegamento con
l'area interessata (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
88 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA: La
normativa sui distacchi tra edifici riguarda
espressamente le “pareti finestrate”, nel
senso che “il balcone aggettante può essere
compreso nel computo delle distanze solo nel
caso in cui una norma di piano preveda ciò,
posto che uno sporto non integra la specie
dell’intercapedine dannosa che legittima
l’applicazione della norma di ordine
pubblico derivante dal D.M. 02.04.1968, n.
1444".
La normativa
sui distacchi tra edifici, che ha, com’è
noto, la funzione di evitare la produzione
di intercapedini da dannose, riguarda
espressamente le “pareti finestrate”,
nel senso che “il balcone aggettante può
essere compreso nel computo delle distanze
solo nel caso in cui una norma di piano
preveda ciò, posto che uno sporto non
integra la specie dell’intercapedine dannosa
che legittima l’applicazione della norma di
ordine pubblico derivante dal D.M.
02.04.1968, n. 1444" (cfr., ex pluris,
TAR Lombardia, Milano, n. 91/2010; TAR
Abruzzo, Pescara, n. 579/2009 e TAR Liguria,
n. 1736/2009)
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 22.12.2010 n. 865 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Distanza minima
tra edifici - Art. 9 D.M. 1444/1968 -
Sopraelevazioni e recupero sottotetti -
Rispetto delle distanze - Necessità - Ratio.
2. Distanza minima
tra edifici - Art. 9 D.M. 1444/1968 -
Sopraelevazioni e recupero sottotetti -
Rispetto delle distanze - In caso di
demolizione e ricostruzione a medesima
distanza - Inapplicabilità.
1. In tema di distanze fra edifici, ed in
particolare la distanza minima di 10 metri
fra pareti finestrate, ex art. 9 D.M.
1444/1968, le porzioni di edificio
risultanti dal recupero ai fini abitativi
dei sottotetti esistenti devono
considerarsi, ai fini del rispetto dell'art.
9, quali nuove costruzioni, con la
conseguenza che dovranno necessariamente
essere collocate ad almeno 10 metri dalla
parete dell'edificio antistante: ciò, in
quanto l'art. 9 è norma di ordine pubblico,
insuscettibile di deroga negli strumenti
urbanistici e nei regolamenti locali, volta
ad impedire la realizzazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico, cosicché deve essere rispettata
anche in caso di sopraelevazioni o di
recupero di sottotetti (cfr. TAR Milano,
sent n. 3262/2010, n. 1991/2007; Cons. di
Stato, sent. n. 7731/2010).
2. L'art. 9 D.M. 1444/1968 è applicabile ai
nuovi edifici e tale non può essere
considerato lo stabile demolito e poi
ricostruito alla stessa distanza del
precedente (cfr. TAR Milano, sent. n.
1220/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.12.2010 n.
7511 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Distanze legali
tra fabbricati - In caso di ristrutturazione
con ampliamento di edifici all'esterno della
sagoma esistente - Applicabilità normativa
sulle distanze legali - Inderogabilità.
2. Distanze legali
tra fabbricati - In caso di modifica del
tetto incidente sulla sagoma esterna
dell'edificio con aumento di volumetria dei
piani sottostanti - Applicabilità normativa
sulle distanze legali - Necessità.
1. Sono soggetti alla disciplina delle
distanze tutti gli interventi edilizi,
ancorché definiti come "ristrutturazione"
(recupero del sottotetto) che comportino
l'ampliamento di edifici all'esterno della
sagoma esistente (cfr. TAR Milano, n.
1991/2007).
In particolare, l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, mirando ad evitare la
creazione di intercapedini in grado di
impedire la libera circolazione dell'aria,
come tali produttive di insalubrità oltreché
riduttive di luminosità e dunque non
autorizzabili per motivi igienico-sanitari,
risponde ad esigenze pubblicistiche che
sovrastano gli interessi dei singoli, per
soddisfare interessi generali, e non è
pertanto suscettibile di deroghe pattizie
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1565/1999;
TAR Catania, sent. n. 2373/1994).
2. Ogni modifica del tetto incidente sulla
sagoma esterna dell'edificio che produca
aumento della volumetria dei piani
sottostanti è soggetta all'osservanza delle
distanze legali (cfr. Cass. Civ., sent. n.
20786/2006) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.12.2010 n.
7505 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sono soggetti alla disciplina
delle distanze tutti gli interventi edilizi,
ancorché definiti come “ristrutturazione”,
che comportino l’ampliamento di edifici
“all’esterno della sagoma esistente”.
L’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur
riferendosi (comma 1, n. 2) alla
realizzazione di “nuovi edifici”, è
applicabile anche agli interventi di
sopraelevazione e, dunque, anche alle
ristrutturazioni che comportino un
incremento non trascurabile dell’altezza del
fabbricato.
Come statuito dal Tribunale in casi analoghi
(cfr. TAR Milano 2^, 29.05.2007 n. 1991,
richiamata in sede cautelare) sono soggetti
alla disciplina delle distanze tutti gli
interventi edilizi, ancorché definiti come “ristrutturazione”,
che comportino l’ampliamento di edifici “all’esterno
della sagoma esistente” [cfr. le “definizioni”
di cui all’art. 27, primo comma, lettera e),
n. 1), legge regionale n. 12/2005, che
testualmente annovera tale fattispecie tra
gli “interventi di nuova costruzione”].
L’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur
riferendosi (comma 1, n. 2) alla
realizzazione di “nuovi edifici”, è
applicabile anche agli interventi di
sopraelevazione (Cass. 2^ 27.03.2001 n.
4413; Cons. Stato V, 19.10.1999 n. 1565), e
dunque anche alle ristrutturazioni che
-volte, come quella de qua, al
recupero del sottotetto- comportino un
incremento non trascurabile dell’altezza del
fabbricato.
La normativa in questione, mirando ad
evitare la creazione di intercapedini in
grado di impedire la libera circolazione
dell’aria, come tali produttive di
insalubrità oltreché riduttive di luminosità
e dunque non autorizzabili per motivi
igienico-sanitari (Cons. Stato V, 19.10.1999
n. 1565; TAR Catania, 27.10.1994 n. 2373),
risponde ad esigenze pubblicistiche che
sovrastano gli interessi dei singoli, per
soddisfare interessi generali, e non è
pertanto suscettibile di deroghe pattizie.
Si tratta di una disciplina di carattere
tassativo e inderogabile, non eludibile da
parte dello strumento urbanistico comunale,
e direttamente applicabile, per inserzione
automatica, quale parte integrante del piano
regolatore, in sostituzione di eventuali
norme locali difformi, che devono essere
disapplicate e, in caso di impugnazione,
annullate (cfr. Cons. Stato IV, 18.06.2009
n. 4015).
A sostegno dell’opposta tesi non può essere
invocato l’art. 64, secondo comma, della
legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per
il governo del territorio), secondo cui il
recupero a fini abitativi dei sottotetti
esistenti “.... è ammesso anche in deroga
ai limiti e alle prescrizioni degli
strumenti di pianificazione comunale …”,
dovendo la norma interpretarsi nel senso che
la derogabilità non opera nei casi in cui lo
strumento urbanistico riproduce disposizioni
normative di rango superiore, a carattere
inderogabile, qual è appunto il decreto
ministeriale nella parte in cui disciplina
le distanze tra fabbricati, trattandosi di
materia inerente all’ordinamento civile e
rientrante, come tale, nella competenza
legislativa esclusiva dello Stato (cfr.
Corte cost. 16.06.2005 n. 232).
Non a caso, l’art. 103 della legge regionale
n. 12/2005, pur disponendo la
disapplicazione del decreto ministeriale
02.04.1968, n. 1444, fa salvo, per gli
interventi di nuova costruzione, il rispetto
della distanza minima tra fabbricati pari a
dieci metri, derogabile solo all’interno di
piani attuativi (cfr. comma 1-bis, aggiunto
dall'art. 1, comma 1, lett. xxx), l.r.
14.03.2008 n. 4)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2010 n. 7505 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
distanze tra pareti di edifici ex art. 9
D.M. 1444/1968 valgono anche per le luci,
non solo per le finestre.
La norma delle N.T.A. del P.R.G., nella
parte in cui prescrive che “non
s’intenderanno come pareti finestrate quelle
in cui siano praticate esclusivamente luci
(art. 901 c.c.)”, è illegittima per
violazione del citato art. 9, comma 1, del
D.M 02.04.1968 n. 1444, il quale non
consente di escludere dal concetto di
“pareti finestrate” le ipotesi in cui nella
parere siano presenti esclusivamente “luci”.
Considerato, in punto di diritto:
- che l’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M.
02.04.1968 n. 1444 prescrive, per i “nuovi
edifici” ricadenti in zone diverse dalla
zona A), il rispetto di una distanza minima
assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti;
- che la norma in esame, in quanto
finalizzata alla salvaguardia dell'interesse
pubblico-sanitario a mantenere una
determinata intercapedine tra gli edifici
che si fronteggiano quando uno dei due abbia
una parete finestrata, ha carattere
tassativo ed inderogabile, non eludibile da
parte dello strumento urbanistico comunale,
il quale può solo prescrivere distanze
maggiori, ma non limitarne l’applicazione
(Cons. Stato, sez. IV; 05.12.2005, n. 6909;
Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3929;
Cass. Civ., sez. II, 10.01.2006, n. 145; TAR
Piemonte, sez. I, 17.01.2007, n. 22);
- che la suddetta prescrizione, data la
finalità igienico-sanitaria che intende
perseguire, vale anche per la distanza da
edificio adibito ad autorimessa, come nel
caso di specie;
- che il concetto di “parete finestrata”
va interpretato in conformità a quanto
previsto dall’art. 900 c.c., secondo cui il
concetto di “finestra” include, oltre
alle vedute, anche le luci (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV, 18.06.2009, n. 4015; TAR
Campania Napoli, sez. II, 02.12.2009, n.
8326; TAR Puglia Lecce, sez. III,
07.07.2008, n. 2058; TAR Piemonte, sez. I,
17.01.2007, n. 22),
alla luce di quanto esposto:
- la norma di cui all’art. 15 delle N.T.A.
del P.R.G.C del Comune di Almese, nella
parte in cui prescrive che “non
s’intenderanno come pareti finestrate quelle
in cui siano praticate esclusivamente luci
(art. 901 c.c.)”, è illegittima per
violazione del citato art. 9, comma 1, del
D.M 02.04.1968 n. 1444, il quale,
correttamente interpretato nei termini sopra
esposti, non consente di escludere dal
concetto di “pareti finestrate” le
ipotesi in cui nella parere siano presenti
esclusivamente “luci”;
- il permesso di costruire impugnato nel
presente giudizio è parimenti illegittimo
avendo consentito l’edificazione di una
nuova costruzione (non qualificabile come
intervento edilizio “minore”) a
distanza inferiore a quella inderogabile di
10 metri dalla “parere finestrata”
dell’antistante edificio di proprietà dei
ricorrenti
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 02.12.2010 n. 4374 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di Costruire - Distanze
tra i fabbricati - Art. 878 c.c. - Caratteristiche della costruzione -
Sopravvenuta carenza di interesse.
Considerato l'art. 878 c.c. secondo cui
il muro di cinta con altezza inferiore ai
tre metri non è considerato per il computo
delle distanze di cui all'art. 873 c.c., e
le caratteristiche del manufatto (modificate
con D.I.A.) si deve escludere la rilevanza,
ai fini delle distanze, di una costruzione
(muro di cinta, appunto) avente le
caratteristiche di cui alla citata norma del
codice civile, risultando conseguente improcedibile il gravame per sopravvenuta
carenza di interesse (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 09.11.2010 n.
7236 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta
disposizioni in tema di distanze tra le
costruzioni, stante la natura di norma
primaria, sostituisce eventuali disposizioni
contrarie contenute nelle norme tecniche di
attuazione.
La distanza di dieci metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, prevista
dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate
e non solo a quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela.
Ai fini del computo delle distanze assumono
rilievo tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità,
della stabilità e della immobilizzazione,
salvo che non si tratti di sporti e di
aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali
da potersi definire di entità trascurabile
rispetto all’interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell’igiene.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non
computare ai fini delle distanze perché non
attinenti alle caratteristiche del corpo di
fabbrica che racchiude il volume che si vuol
distanziare, sono i manufatti come le
mensole, le lesene, i risalti verticali
delle parti con funzione decorativa, gli
elementi in oggetto di ridotte dimensioni,
le canalizzazioni di gronde e i loro
sostegni, non invece le sporgenze, anche dei
generi ora indicati, ma di particolari
dimensioni, che siano quindi destinate anche
ad estendere ed ampliare per l'intero fronte
dell'edificio la parte utilizzabile per
l'uso abitativo.
L'art. 9 del
d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta
disposizioni in tema di distanze tra le
costruzioni, stante la natura di norma
primaria, sostituisce eventuali disposizioni
contrarie contenute nelle norme tecniche di
attuazione (Consiglio Stato, sez. IV,
05.12.2005, n. 6909).
Le distanze legali previste dagli standards
urbanistici sono immediatamente applicabili
ai rapporti privati, ove gli strumenti
urbanistici prevedono distanze minori.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove
prescrive la distanza di 10 metri tra le
pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni
sono predeterminate con carattere cogente in
via generale ed astratta, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e di sicurezza, di modo
che al giudice non è lasciato alcun margine
di discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi
(Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n.
6909).
In materia di distanze legali, l’art. 136
d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in
vigore l’art. 47-quinquies, commi 6, 8, 9,
della legge nazionale n. 1150 del 1942, per
cui in forza dell’art. 9 del d.m. n. 1444
del 1968 la distanza minima inderogabile di
10 metri tra le pareti finestrate e di
edifici antistanti è quella che tutti i
Comuni sono tenuti ad osservare, ed il
giudice è tenuto ad applicare tale
disposizione anche in presenza di norme
contrastanti incluse negli strumenti
urbanistici locali, dovendosi essa ritenere
automaticamente inserita nel prg al posto
della norma illegittima (Cassazione civile,
Sez. II, 29.05.2006, n. 12741).
Inoltre, se la deroga è consentita solo per
piani particolareggiati e le lottizzazioni
convenzionate, in tale previsione non può
ricomprendersi il permesso di costruire.
La distanza di dieci metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, prevista
dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate
e non solo a quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela (così, Consiglio Stato,
Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Ai fini del computo delle distanze assumono
rilievo tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità,
della stabilità e della immobilizzazione,
salvo che non si tratti di sporti e di
aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali
da potersi definire di entità trascurabile
rispetto all’interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell’igiene
(Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996,
n.268).
Gli sporti, cioè le sporgenze da non
computare ai fini delle distanze perché non
attinenti alle caratteristiche del corpo di
fabbrica che racchiude il volume che si vuol
distanziare, sono i manufatti come le
mensole, le lesene, i risalti verticali
delle parti con funzione decorativa, gli
elementi in oggetto di ridotte dimensioni,
le canalizzazioni di gronde e i loro
sostegni, non invece le sporgenze, anche dei
generi ora indicati, ma di particolari
dimensioni, che siano quindi destinate anche
ad estendere ed ampliare per l'intero fronte
dell'edificio la parte utilizzabile per
l'uso abitativo (Consiglio Stato , Sez. IV,
05.12.2005, n. 6909)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.11.2010 n. 7731 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ricostruzione con varianti
rispetto all’edificio preesistente -
Rispetto delle distanze legali dagli edifici
limitrofi - DM 1444/1968 - Necessità.
La ricostruzione che contempla varianti
rispetto all’edificio preesistente deve
sempre essere rispettosa delle distanze
legali dagli edifici limitrofi prescritte
dal D.M. 1444/1968 e dalle NN.TT.AA. (cfr.
nello stesso senso Tar Genova, 3566/2009;
Cass. civ., II, 22689/2009), venendo in
rilievo prescrizioni rivolte a tutela di
imprescindibili interessi pubblici quali
quelli della salubrità, dell’igiene, della
viabilità, che non possono naturalmente
essere compressi in via convenzionale o in
forza di una (illegittima, ancorché diffusa)
prassi amministrativa (TAR Sicilia-Catania,
Sez. I,
sentenza 12.10.2010 n. 4099 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cassazione: nelle distanze tra
costruzioni regole più restrittive non sono
retroattive.
Con la
sentenza 22.09.2010 n. 20038 la
Corte di Cassazione, Sez. è
intervenuta sul tema delle distanze tra
costruzioni quando intervengano regole più
restrittive durante il corso
dell'edificazione.
La Corte di Cassazione ha affermato che
nelle distanze tra le costruzioni, eventuali
sopravvenute disposizioni più restrittive
devono essere applicate per tutte le nuove
costruzioni che siano ancora da realizzare
anche se il titolo abilitativo è stato
rilasciato precedentemente all'entrata in
vigore delle nuove disposizioni, mentre non
hanno efficacia quando si tratta di
manufatti che possono considerarsi già
completati nelle strutture essenziali (link
a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Sopraelevazione -
Distacco tra costruzioni - Pareti finestrate - art. 9 D.M.
02.04.1968 n. 1444 - Norma
inderogabile.
2. Sopraelevazione -
Distacco tra costruzioni - Deroga -
presupposti.
1. Qualora la sopraelevazione si collochi di
fronte a pareti finestrate la distanza
minima di 10 metri prevista (al di fuori
della zona A) dall'art. 9, comma 1, n. 2, del
DM 1444/1968 costituisce un ostacolo
insuperabile.
Tale norma per la sua genesi
(è stata adottata ex art. 41-quinquies, comma
8, della legge 17.08.1942 n. 1150, come
introdotto dall'art. 17 della 06.08.1967
n. 765) e per la sua funzione
igienico-sanitaria (evitare intercapedini
malsane) costituisce un principio
inderogabile della materia che prevale sia
sulla potestà legislativa regionale, in
quanto integra la disciplina privatistica
delle distanze (v. C.Cost. 16.06.2005 n.
232), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei comuni, in quanto deriva
da una fonte normativa statale sovraordinata,
sia infine sull'autonomia negoziale dei
privati, in quanto tutela interessi pubblici
che per la loro natura igienico-sanitaria
non sono nella disponibilità delle parti.
2. Non è possibile per la legge regionale (e
nemmeno per gli strumenti urbanistici
comunali) intervenire nei rapporti tra i
privati autorizzando in via generale la
sopraelevazione in deroga alla distanza
minima dalle pareti finestrate disposta
disposta dall'art. 9, comma 1, n. 2, del DM
1444/1968: la deroga può essere inserita
unicamente in una previsione normativa
dedicata a una situazione urbanistica
particolare in una precisa zona del
territorio in modo da garantire che gli
interessi pubblici coinvolti (e
specificamente quelli di natura
igienico-sanitaria) siano stati in concreto
valutati e tutelati mediante soluzioni planivolumetriche adeguate
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.08.2010 n.
3240 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul recupero del sottotetto in
Lombardia con innalzamento di quota in
merito: alla distanza minima dai confini di
proprietà, al rispetto della distanza di mt.
10,00 tra pareti finestrate di cui anche
abusiva, alla nozione di sottotetto utile da
recuperare in deroga ex L.R. 12/2005.
Occorre precisare in primo luogo che la
qualificazione del recupero del sottotetto
come ristrutturazione non è idonea da sola a
rendere automaticamente possibile la
sopraelevazione dell’edificio.
La ristrutturazione è una categoria di
interventi edilizi che si può ripartire in
due sottogruppi: da un lato la
ristrutturazione pesante di cui all’art. 10,
comma 1, lett. c), del DPR 380/2001 (ossia
quella che conduce a un organismo edilizio
in tutto o in parte diverso dal precedente e
comporta aumento di unità immobiliari o
modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti, delle superfici) e dall’altro la
ristrutturazione leggera (definita per
residualità).
La ristrutturazione pesante equivale nella
sostanza a una nuova costruzione che si
aggiunge a una costruzione esistente. In
questo quadro la scelta del legislatore
regionale di definire il recupero del
sottotetto come ristrutturazione non ha
contenuto innovativo ma si limita a
utilizzare il concetto di ristrutturazione
pesante già presente nella normativa
statale.
Il problema diventa allora fino a che punto
la ristrutturazione pesante abbia regole
diverse dalla nuova edificazione su area
libera. In negativo, ovvero sotto il profilo
sanzionatorio, non vi è nessuna differenza,
in quanto l’art. 33, comma 6-bis, e l’art.
34, comma 2-bis, del DPR 380/2001 prevedono
anche in questo caso l’applicazione di
misure ripristinatorie o in subordine
pecuniarie come negli abusi edilizi
maggiori. In positivo, ovvero per quanto
riguarda i diritti edificatori, dipende dal
grado di resistenza delle norme che devono
essere derogate.
Relativamente alla distanza dai confini si
può ritenere che il recupero del sottotetto
comportante sopraelevazione possa avvenire
in deroga alle previsioni stabilite negli
strumenti urbanistici comunali.
In via generale la giurisprudenza (v. Cass.
civ. Sez. II 11.06.2008 n. 15527; Cass. civ.
Sez. II 12.01.2005 n. 400; Cass. civ. Sez.
II 27.05.2003 n. 8420; Cass. civ. Sez. II
08.01.2001 n. 200) si attiene alla seguente
regola:
(a) la sopraelevazione, comportando nuovo
volume, richiede sempre il rispetto della
distanza dai confini indipendentemente dal
fatto che in origine vi sia stata
prevenzione nei confronti del proprietario
confinante;
(b) tuttavia la normativa comunale può
stabilire se e a quali condizioni sia
ammessa la costruzione senza arretramento.
Nel caso del sottotetto è direttamente il
legislatore regionale che pone la
disciplina, sovrapponendosi alle scelte dei
singoli comuni, con un chiaro favore per la
realizzabilità di questo tipo di interventi.
L’art. 64, comma 1, della LR 12/2005
consente modificazioni delle altezze di
colmo e di gronda e delle linee di pendenza
delle falde (con il solo limite dell’altezza
massima di zona) senza alcun riferimento
all’arretramento dei muri esterni in
relazione alla distanza dai confini.
L’art. 64, comma 2, della LR 12/2005 precisa
ulteriormente che il recupero del sottotetto
è ammesso anche in deroga ai limiti e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici
comunali, ad eccezione del reperimento di
spazi per parcheggi pertinenziali.
La finalità che emerge da queste norme è di
far prevalere su ogni diversa valutazione
comunale l’interesse all’insediamento di
nuova volumetria residenziale in continuità
con le costruzioni sottostanti. Vi è quindi
incompatibilità logica con il vincolo della
distanza minima dai confini, che potrebbe
compromettere l’utilità del recupero del
sottotetto e alterare in modo disarmonico la
sagoma degli edifici.
Poiché il legislatore regionale si è
sostituito ai comuni in una materia nella
disponibilità dei comuni stessi non vi sono
altre ragioni che si oppongano alla
possibilità di sopraelevare lungo il
perimetro dell’edificio esistente.
La situazione cambia però radicalmente
quando la sopraelevazione si collochi di
fronte a pareti finestrate. In questo caso
la distanza minima di 10 metri prevista (al
di fuori della zona A) dall’art. 9, comma 1,
n. 2, del DM 1444/1968 costituisce un
ostacolo insuperabile.
La giurisprudenza ha chiarito che questa
norma per la sua genesi (è stata adottata ex
art. 41-quinquies, comma 8, della legge
17.08.1942 n. 1150, come introdotto
dall’art. 17 della 06.08.1967 n. 765) e per
la sua funzione igienico-sanitaria (evitare
intercapedini malsane) costituisce un
principio inderogabile della materia.
In particolare si tratta di una norma che
prevale sia sulla potestà legislativa
regionale, in quanto integra la disciplina
privatistica delle distanze (v. C.Cost.
16.06.2005 n. 232), sia sulla potestà
regolamentare e pianificatoria dei comuni,
in quanto deriva da una fonte normativa
statale sovraordinata (v. Cass. civ. Sez. II
31.10.2006 n. 23495), sia infine
sull’autonomia negoziale dei privati, in
quanto tutela interessi pubblici che per la
loro natura igienico-sanitaria non sono
nella disponibilità delle parti (v. CS Sez.
IV 12.06.2007 n. 3094).
Si può aggiungere che un’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 64
della LR 12/2005 impedisce di leggervi una
deroga estesa anche all’art. 9 del DM
1444/1968.
La Corte Costituzionale nella sentenza n.
232/2005 afferma al punto 4 che le normative
locali (regionali o comunali) possono
prevedere distanze inferiori alla misura
minima, però fissa precisi limiti (“le
deroghe, per essere legittime, devono
attenere agli assetti urbanistici e quindi
al governo del territorio e non ai rapporti
tra vicini isolatamente considerati in
funzione degli interessi privati dei
proprietari dei fondi finitimi”).
Se ne deduce che l’introduzione di deroghe è
consentita solo nell’ambito della
pianificazione urbanistica, come
nell’ipotesi espressamente prevista
dall’art. 9 comma 3 del DM 1444/1968, che
riguarda edifici tra loro omogenei perché
inseriti in un piano particolareggiato o in
un piano di lottizzazione (per una
fattispecie relativa al centro storico v.
TAR Brescia Sez. I 29.09.2009 n. 1712).
Di conseguenza non è possibile per la legge
regionale (e nemmeno per gli strumenti
urbanistici comunali) intervenire nei
rapporti tra i privati autorizzando in via
generale la sopraelevazione in deroga alla
distanza minima dalle pareti finestrate: la
deroga può essere inserita unicamente in una
previsione normativa dedicata a una
situazione urbanistica particolare in una
precisa zona del territorio.
In questo modo si ottiene una ragionevole
garanzia circa il fatto che gli interessi
pubblici coinvolti (e specificamente quelli
di natura igienico-sanitaria) siano stati in
concreto valutati e tutelati mediante
soluzioni planivolumetriche adeguate.
Estendendo questa linea argomentativa si può
sostenere che la deroga alla distanza minima
dalle pareti finestrate diventa ammissibile
quando non vi siano in concreto pericoli di
peggioramento delle condizioni
igienico-sanitarie all’interno delle
abitazioni servite dalle finestre.
Questa situazione può verificarsi in
fattispecie particolari, ad esempio quando
il muro da sopraelevare non si trovi
esattamente in corrispondenza della parete
finestrata (v. TAR Brescia Sez. I 03.07.2008
n. 788).
Nel caso in esame i ricorrenti con le due
DIA in variante (v. sopra ai punti 4 e 7)
hanno cercato di limitare la sopraelevazione
nella porzione del muro di confine che
fronteggia il cavedio con la parete
finestrata, tuttavia non è stato dimostrato
che attraverso queste modifiche il progetto
lasci del tutto immutata la condizione dei
locali che ricevono luce e aria dalle
finestre. In realtà per raggiungere questo
obiettivo sarebbe necessario garantire alle
finestre una fascia di rispetto (intesa come
volume vuoto) di ampiezza tale da rendere
neutre le sopraelevazioni ai lati.
Si osserva che il vincolo della distanza
minima dalle pareti finestrate è efficace
anche quando la presenza delle finestre sia
abusiva. L’interesse pubblico di natura
igienico-sanitaria che vieta la formazione
di intercapedini malsane vale infatti in
qualunque situazione, indipendentemente
dalla regolarità della costruzione, in
quanto non si colloca soltanto sul piano
urbanistico ma coinvolge anche la tutela
della salute.
È quindi necessario ottenere prima la
rimozione dell’abuso: l’eliminazione delle
finestre abusive determina di conseguenza
anche la fuoriuscita dalla fattispecie di
cui all’art. 9 del DM 1444/1968. Nel caso in
esame i ricorrenti sostengono che il
cavedio, in corrispondenza del primo piano,
sarebbe stato realizzato abusivamente in
luogo di un ripostiglio senza finestre.
Peraltro la licenza edilizia relativa a
questi lavori è del 1965 e quindi l’altezza
del cavedio e la presenza delle relative
finestre sono ormai elementi consolidati
anche sotto il profilo giuridico.
L’art. 63,
comma 1-bis, della LR 12/2005 definisce il
sottotetto come il volume sovrastante
l'ultimo piano degli edifici dei quali sia
stato eseguito il rustico e completata la
copertura.
La norma non richiede che lo spazio sia
praticabile e non indica la volumetria o
l’altezza minima che distinguono il
sottotetto dalle semplici intercapedini. In
considerazione del favore legislativo per
gli interventi di recupero è preferibile
aderire a un’interpretazione estensiva della
nozione di sottotetto, qualificando come
tale qualsiasi volume non del tutto
irrilevante che sia compreso tra il solaio e
le falde del tetto e abbia la funzione di
tenere separati questi elementi
architettonici. La soglia di rilevanza può
variare a seconda della morfologia
dell’edificio.
Nel caso in esame l’altezza di 0,91 metri
(media tra il valore minimo di 0,60 metri e
quello massimo di 1,22 metri) si può
considerare idonea a definire un vero e
proprio locale con autonome seppure limitate
funzionalità (ad esempio soffitta o
ripostiglio).
Non è quindi corretto parlare di mera
intercapedine, concetto da riservare agli
spazi marginali.
In via generale è compito del responsabile
del procedimento assicurare la completezza
della documentazione ai sensi dell’art. 38,
comma 5, della LR 12/2005 prima del rilascio
del permesso di costruire.
L’omissione di questi controlli non
garantisce al privato l’esenzione dall’onere
di produzione ma impone all’amministrazione
di fissare un termine per la
regolarizzazione della pratica edilizia
prima della conclusione dei lavori.
Solo nel caso in cui il supplemento
istruttorio finalizzato alla
regolarizzazione non abbia dato alcun esito
l’amministrazione è legittimata a
considerare inesistente la certificazione
dell’invalidità e ad annullare in autotutela
il permesso di costruire nella parte in cui
prevede la deroga alla distanza minima dai
confini (oppure integralmente se la deroga
alla distanza non è scindibile dal resto del
progetto)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.08.2010 n. 3240 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra costruzioni - Art. 9
D.M. 1444/1968 - Natura - E' norma di ordine
pubblico - Applicabilità in caso di unica
parete finestrata - Sussiste.
In materia di distanze tra edifici, l'art. 9
D.M. 1444/1968 -applicabile in Regione
Lombardia in virtù del richiamo contenuto
nell'art. 103, comma 1-bis, L.R. 12/2005- è
norma di ordine pubblico, destinata a
soddisfare interessi generali di carattere
igienico-sanitario, mirando ad evitare la
creazione di intercapedini in grado di
impedire la libera circolazione dell'aria ed
è applicabile anche nel caso in cui una sola
parete sia finestrata (cfr. Cassaz. Civ.,
sent. n. 22495/2007; Cons. di Stato, sent.
n. 1565/1999; TAR Catania, sent. n.
2373/1994; TAR Milano, sent. n. 1991/2007)
(nel caso di specie il TAR ha quindi
ritenuto legittimo l'annullamento da parte
di un Comune di un permesso di costruire che
prevedeva una distanza tra pareti finestrate
inferiore a dieci metri) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 26.07.2010 n.
3262 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanza tra costruzioni - Art. 9
D.M. 1444/1968 - Pareti finestrate di
edifici antistanti - Distanza di 10 metri -
Finalità della norma - Interesse del
frontista alla riservatezza - Esclusione -
Profilo igienico sanitario - Carattere
cogente - Corpi di un medesimo edificio -
Irrilevanza.
L'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, laddove
prescrive la distanza di 10 metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile in funzione della natura giuridica
dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono
predeterminate con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e di sicurezza, di modo
che al giudice non è lasciato alcun margine
di discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi.
Invero, essendo la norma finalizzata a
stabilire un'idonea intercapedine tra
edifici nell'interesse pubblico, e non a
salvaguardare l'interesse privato del
frontista alla riservatezza (cfr. Cass.
Civ., Sez. II, 26.01.2001 n. 1108), non può
dispiegare alcun effetto distintivo la
circostanza che si tratti di corpi di uno
stesso edificio ovvero di edifici distinti
(cfr. ex multis Cons. St., Sez. IV,
05.12.2005 n. 6909) (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. I,
sentenza 08.07.2010 n. 2461 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Negli
edifici ricadenti in zona territoriale
diversa dalla A è prescritta, in tutti i
casi, la distanza minima assoluta di metri
10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti.
Negli edifici ricadenti in zona territoriale
diversa dalla A è prescritta, in tutti i
casi, la distanza minima assoluta di metri
10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti. Ciò, a tenore della normativa di
cui all’art. 41-quinquies della legge
17.08.1942 n. 1150, nonché all’art. 9, comma
primo, n. 2), del d.m. 02.04.1968 n. 1444.
Quest’ultima norma regolamentare trae dalla
predetta norma di legge la capacità di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze nelle costruzioni (cfr.:
Cons. Stato IV, 12.03.2009 n. 1491).
E’ plausibile ritenere che tale orientamento
ermeneutico della giurisprudenza sopravviva
persino alla riforma del testo unico
dell’edilizia (cfr.: TAR Molise 08.07.2009
n. 599)
(TAR Molise,
sentenza 08.07.2010 n. 267 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le norme degli strumenti
urbanistici locali sulle distanze tra
fabbricati sono inderogabili.
Secondo consolidato orientamento
giurisprudenziale di legittimità le norme
degli strumenti urbanistici locali, che
impongono di mantenere le distanze fra
fabbricati o di questi dai confini –a
differenza dalle norme sulle distanze di cui
all’art. 873 c.c., dettate a tutela di
reciproci diritti soggettivi dei singoli e
miranti unicamente ad evitare la creazione
di intercapedini antigieniche e pericolose,
come tali suscettibili di deroga mediante
convenzione tra privati–, non sono
derogabili, perché dirette, più che alla
tutela di interessi privati, a quella di
interessi generali e pubblici in materia
urbanistica (v. in tal senso, ex plurimis,
Cass. Civ., Sez. II, 31.05.2006, n. 12966) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 30.06.2010 n. 4181 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
logge (alla pari dei balconi coperti e
tamponati) costituiscono perimetro del
fabbricato e quindi valgono ai fini del
computo delle distanze previste per le
pareti esterne.
Vale la regola per cui le logge (alla pari
dei balconi coperti e tamponati)
costituiscono perimetro del fabbricato e
quindi valgono ai fini del computo delle
distanze previste per le pareti esterne, ai
sensi dell’articolo 65 del regolamento
edilizio comunale.
Oltre alla previsione del regolamento
edilizio comunale, si può richiamare anche
l’articolo 873 codice civile, in materia di
distanze tra costruzioni, quale principio
generale della materia.
Ai sensi di tale articolo “le costruzioni
sui fondi finitimi, se non sono unite e
aderenti, devono essere tenute a distanza
non minore di tre metri. Nei regolamenti
locali può essere stabilita una distanza
maggiore.”
La giurisprudenza ritiene al proposito che
il concetto di costruzione, proprio per
l’interesse tutelato dalla norma, comprenda
tutte le opere infisse stabilmente al suolo,
anche se in legno o altro materiale idoneo.
Il concetto di costruzione, ai fini del
rispetto della regola delle distanze, non
necessariamente quindi deve essere un
edificio, ma anche un qualsiasi manufatto e
quindi anche un loggiato, come nella specie
(in tal senso, per il caso di una tettoia,
avente caratteristiche di consistenza e
stabilità o che emerge in modo sensibile dal
suolo, Cassazione civile, n. 3199 del
06.03.2002)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.06.2010 n. 3542 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Distanze legali tra fabbricati
- In caso di nuova costruzione -
Applicabilità normativa sulle distanze
legali - Necessità.
2. Distanze legali
tra fabbricati - Mancato rispetto delle
distanze - Ordinanza di sospensione lavori -
Presupposti - Necessità di indagine sul
carattere originario o sopravvenuto della
violazione - Non sussiste.
1. Nei rapporti tra proprietà immobiliari
private, ancorché facenti parte del medesimo
condominio, ovvero nei rapporti tra
condominio e singolo condòmino, operano le
norme sulle distanze ogniqualvolta un
intervento, comunque lo si qualifichi,
comporti l'aggiunta, alle preesistenze, di
nuovi elementi, tale da configurare, sotto
questo profilo, una "nuova costruzione"
(cfr. Cassaz. Civile, sent. n. 7044/2004, n.
8978/2003).
2. La realizzazione di un'opera edilizia a
distanza inferiore a quella legale è
sufficiente a legittimare l'ordine di
sospensione dei lavori: ciò, a prescindere
dall'indagine se la violazione della
distanza trovi causa nelle difformità dal
progetto, ovvero nel progetto originario
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 31.05.2010 n.
1725 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: M.
Lavatelli,
Le distanze tra i fabbricati e dai confini
in materia edilizia
(link a www.lavatellilatorraca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Applicazione P.R.G.C. in tema di
distanze.
Viene richiesto parere al Servizio scrivente
in ordine all’interpretazione ed
all’applicazione di situazioni –talora
presenti nei Piani Regolatori Generali dei
Comuni piemontesi– in tema di distanze.
Si tratta di stabilire quale sia la distanza
dal confine di proprietà da mantenere nel
caso di ampliamenti e nuove costruzioni, nel
silenzio della norma sul punto, ed in
presenza di disposizioni che disciplinano
solamente il cd. indice di visuale libera
richiamando poi quanto stabilito dal Codice
Civile.
Il Comune elenca quindi una serie di casi e
chiede al servizio di consulenza di valutare
la correttezza delle soluzioni proposte
(Regione Piemonte,
parere n.
18/2010 - link a
www.regione.piemonte.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
diritto di ottenere la riduzione in pristino
di un immobile costruito senza il rispetto
delle distanze legali non si estingue per il
decorso del tempo ma subisce gli effetti
dell'usucapione, in quanto quest’ultimo
istituto può dar luogo all'acquisto di un
contrario (e prevalente) diritto a mantenere
la costruzione a distanza inferiore a quella
legale.
La
giurisprudenza equipara l'azione per il
rispetto delle distanze legali a una
negatoria servitutis (v. Cass. civ. Sez.
II 21.10.2009 n. 22348) e precisa che il
diritto di ottenere la riduzione in pristino
di un immobile costruito senza il rispetto
delle distanze legali non si estingue per il
decorso del tempo ma subisce gli effetti
dell'usucapione, in quanto quest’ultimo
istituto può dar luogo all'acquisto di un
contrario (e prevalente) diritto a mantenere
la costruzione a distanza inferiore a quella
legale (v. Cass. civ. Sez. II 07.09.2009 n.
19289).
Dunque da una parte non vi è un affidamento
tutelabile dei destinatari della
concessione, che hanno fuorviato il Comune,
ma dall’altra non vi è più un affidamento
tutelabile del terzo.
A questo punto solo un autonomo e attuale
interesse pubblico potrebbe sostenere
l’annullamento d’ufficio, ma tale interesse
evidentemente non può essere costituito dal
mero ripristino delle distanze minime dal
confine, dove vengono in rilievo norme
integrative del codice civile (v. Cass. civ.
Sez. II 10.01.2006 n. 145) che tutelano
primariamente la proprietà confinante.
Quando i rapporti tra i privati a proposito
dei confini hanno stabilmente assunto una
diversa sistemazione è preclusa
all’amministrazione la possibilità di
intervenire per il ripristino della
legalità.
Sarebbero necessari altri interessi pubblici
(ad esempio di natura igienico-sanitaria o
collegati alla sicurezza collettiva) ma di
questi non è fornita alcuna puntuale
dimostrazione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2010 n. 1733 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L’articolo 9 del D.M. 1444/1968
consente “distanze inferiori a quelle
indicate nei precedenti commi, nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di
piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche”. Tale deroga può
applicarsi agli strumenti di recupero (ndr:
Piani di Recupero) ma solo allorquando le
opere preesistenti non vengano demolite
ovvero vengano fedelmente ricostruite con
gli ingombri originari; viceversa l’art. 9
citato non può mai riferirsi alle nuove
costruzioni per le parti eccedenti i limiti
dell’immobile demolito.
Il sig. Teseo impugna i citati provvedimenti
di pianificazione (Piano di Recupero),
lamentando che l’attuazione dello strumento
urbanistico così deliberato comporterebbe
fatalmente –a causa del costruendo
fabbricato in luogo del modesto capannone
esistente- una notevole violazione delle
distanze rispetto all’immobile finitimo, di
cui egli è comproprietario. Si tratterebbe
peraltro di una demolizione irrazionalmente
disposta su di un manufatto ancora valido e
comunque ben suscettibile di interventi di
restauro, risanamento e ristrutturazione.
Il ricorso trova accoglimento per
l’assorbente fondatezza della prima censura
con cui viene dedotta l’illegittimità del
piano per violazione degli artt. 8 e 9 del
D.M. 1444/1968, senza che in contrario possa
essere invocato l’articolo 9 del citato
D.M., ove si consentono “distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti
commi , nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni
planovolumetriche” (il Comune resistente
ha per l’appunto sostenuto che la valenza
attuativa del piano di recupero –simile al
piano particolareggiato- ben avrebbe
legittimato la deroga alle distanze
lamentata dal ricorrente).
Va infatti rilevato che tale deroga può
applicarsi agli strumenti di recupero ma
solo allorquando le opere preesistenti non
vengano demolite ovvero vengano fedelmente
ricostruite con gli ingombri originari;
viceversa l’art. 9 citato non può mai
riferirsi alle nuove costruzioni per le
parti eccedenti i limiti dell’immobile
demolito (tar Abruzzo -AQ- n. 903/2007,
Cass. Civ. n. 3762/1989; C.S. sez. IV, n.
3929/2002).
Nel caso di specie non è controverso in atti
né la rilevante diversità dimensionale del
nuovo immobile rispetto al modesto manufatto
preesistente, né la circostanza che le
distanze rispetto al fabbricato di
comproprietà del ricorrente si
attesterebbero al di sotto dei limiti
previsti dal citato D.M. 1444/1968
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 05.05.2010 n. 395 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire - Violazione delle distanze fra
edifici D.M. n. 1444/1968 - Opere di
ristrutturazione - Inapplicabilità.
Non sussiste in relazione al permesso di
costruire impugnato la lamentata violazione
della disciplina sulle distanze tra edifici,
prevista sia dal codice civile sia dal D.M.
n. 1444/1968, in quanto tale disciplina
trova applicazione in caso di nuove
costruzioni ma non di ristrutturazione
mediante demolizione di edificio esistente e
costruzione nel rispetto del volume e della
sagoma originari, con mantenimento
dell'originaria distanza (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.05.2010 n.
1220 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza minima tra edifici di cui al D.M.
1444/1968 trova applicazione in caso di
nuove costruzioni e non in caso di
ristrutturazione mediante demolizione di
edificio esistente e costruzione nel
rispetto del volume e della sagoma
originari, con mantenimento dell’originaria
distanza.
Nel sesto mezzo, è lamentata la violazione
della disciplina sulle distanza fra edifici,
prevista sia dal codice civile sia dal DM
1444/1968.
La censura deve essere respinta, in quanto
la normativa sopra indicata trova
applicazione in caso di nuove costruzioni ma
non, come nella presente controversie, di
ristrutturazione mediante demolizione di
edificio esistente e costruzione nel
rispetto del volume e della sagoma
originari, con mantenimento dell’originaria
distanza (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez.
II, 26.04.2007 n. 1991 e Cass. Civ., sez. II,
27.10.2009, n. 22689)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.05.2010 n. 1220 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: All'interno
di un giudizio riguardante le costruzioni su
fondi finitimi, in cui l'attore abbia
chiesto la condanna del proprietario
frontista alla demolizione del fabbricato
costruito in violazione delle distanze
legali, non costituisce domanda nuova in
appello il rilievo relativo
all'illegittimità dell'adozione di un
regolamento comunale contrastante con il dm
pro tempore vigente (nella specie, il dm
02.04.1968, n. 1444) in quanto il giudice
adito, nell'ambito della sua verifica delle
norme applicabili, è tenuto a rilevare
l'illegittimità dell'adozione da parte
dell'amministrazione comunale di un
regolamento edilizio contrastante con le
norme vigenti e ad applicare, in
sostituzione delle disposizioni illegittime,
le norme violate, in quanto divenute
automaticamente parte integrante del
successivo strumento urbanistico locale.
- Poiché il balcone, estendendo in
superficie e volume l'edificio, costituisce
corpo di fabbrica e poiché l'art. 9 del dm
n. 1444 del 1968 stabilisce la distanza
minima di 10 metri tra pareti finestrate e
pareti antistanti, un regolamento edilizio
che stabilisca un criterio di misurazione
della distanza tra edifici che non tenga
conto dell'estensione del balcone è contra
legem in quanto, sottraendo dal calcolo
della distanza la estensione del balcone,
viene a determinare una distanza tra
fabbricati interiore a 10 metri, violando il
distacco voluto dalla legge ponte.
Da lunghi anni, è costante e consolidata la
giurisprudenza che afferma la diretta
applicabilità della norma sulle distanze di
cui al dm 02.04.1968, n. 1444 in ipotesi di
norma locale contrastante colla norma
ministeriale (cfr., in tal senso, tra le
ultime, Cassazione civile, sez. II,
03.03.2008, n. 5741: «All'interno di un
giudizio riguardante le costruzioni su fondi
finitimi, in cui l'attore abbia chiesto la
condanna del proprietario frontista alla
demolizione del fabbricato costruito in
violazione delle distanze legali, non
costituisce domanda nuova in appello il
rilievo relativo all'illegittimità
dell'adozione di un regolamento comunale
contrastante con il dm pro tempore vigente
(nella specie, il dm 02.04.1968, n. 1444) in
quanto il giudice adito, nell'ambito della
sua verifica delle norme applicabili, è
tenuto a rilevare l'illegittimità
dell'adozione da parte dell'amministrazione
comunale di un regolamento edilizio
contrastante con le norme vigenti e ad
applicare, in sostituzione delle
disposizioni illegittime, le norme violate,
in quanto divenute automaticamente parte
integrante del successivo strumento
urbanistico locale»): dunque, è
prioritaria l’interpretazione della norma
ministeriale ché, se la interpretazione
della norma locale dovesse condurre a un
risultato contrastante colla prima, non vi
sarebbe che da disapplicare quella locale.
Sul punto della interpretazione della norma
ministeriale la Corte non ha ragione di
disattendere la persuasiva giurisprudenza
del SC secondo la quale, «poiché il
balcone, estendendo in superficie e volume
l'edificio, costituisce corpo di fabbrica e
poiché l'art. 9 del dm n. 1444 del 1968
stabilisce la distanza minima di 10 metri
tra pareti finestrate e pareti antistanti,
un regolamento edilizio che stabilisca un
criterio di misurazione della distanza tra
edifici che non tenga conto dell'estensione
del balcone è contra legem in quanto,
sottraendo dal calcolo della distanza la
estensione del balcone, viene a determinare
una distanza tra fabbricati interiore a 10
metri, violando il distacco voluto dalla
legge ponte» (Cassazione civile, sez. II,
2707.2006, n. 17089)
(Corte d'Appello-Firenze, Sez. I,
sentenza 04.05.2010 n. 679). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non
può essere imposta, mediante regolamento
comunale edilizio, l'osservanza di
determinate distanze dagli edifici
esistenti; ugualmente, ed anzi a maggior
ragione, non si può pretendere di
localizzare gli impianti ad una determinata
distanza dal confine di proprietà,
trattandosi di previsione che appare priva
di giustificazione alcuna e rappresenta solo
un indebito impedimento nella realizzazione
di una rete completa di telecomunicazioni.
E' condivisibile l'affermazione contenuta
nella decisione n. 8214/2009 secondo cui “-
riguardo alla competenza regolamentare in
materia, in particolare attribuita ai Comuni
con l’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del
2001, la giurisprudenza ha precisato la
differenza fra "criteri localizzativi” e
“limiti alla localizzazione” ritenendosi
consentiti i primi, in quanto recanti
criteri specifici rispetto a localizzazioni
puntuali, e non i secondi, in quanto recanti
divieti generalizzati per intere aree (ex
multis: Cons. Stato, Sez. VI: 05.06.2006, n.
3452; 19.05.2008, n. 2287; 17.07.2008, n.
3596), dovendosi concludere, su questa base,
che la citata norma del regolamento edilizio
comunale, riguardando l’intero centro
abitato, viene a rientrare nella normativa
del secondo tipo;
- la realizzazione degli impianti in
questione è subordinata soltanto
all’autorizzazione prevista dall’art. 87 del
Codice, che pone una normativa speciale
esaustiva dell’esame di diversi profili
implicati, incluso quello della
compatibilità edilizio-urbanistica
dell’intervento, non occorrendo perciò il
permesso di costruire di cui agli articoli 3
e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 (ex multis:
Cons. Stato, Sez. VI: 17.10.2008, 5044;
05.08.2005, n. 4159)”.
Già in passato, peraltro, la Sezione,
coerentemente con l’impostazione sopra
riportata la cui piena condivisibilità deve
ribadirsi in questa sede, aveva evidenziato
che “il regolamento comunale che delinei
la suddivisione del territorio comunale in
tre tipologie di aree (maggiormente idonee,
di attenzione e sensibili) si pone in
contrasto con il d.lg. n. 259 del 2003, non
consentendo tale decreto alle
amministrazioni comunali di estendere la
propria competenza sino a selezionare le
aree del territorio, individuandone solo
alcune come idonee ad ospitare gli impianti.
L'installazione di impianti di
telecomunicazione, infatti, deve ritenersi
in generale consentita sull'intero
territorio comunale in modo da poter
realizzare, con riferimento a quelli di
interesse generale, un'uniforme copertura di
tutta l'area comunale interessata”
(Consiglio Stato, sez. VI, 28.03.2007, n.
1431)
Tale orientamento è stato ancora di recente
ribadito dalla Sezione (Consiglio Stato,
sez. VI, 23.06.2008, n. 3133), e da esso non
si ravvisano motivi per discostarsi.
Si è detto in
passato, pertanto, che “va dichiarata
l'illegittimità di un regolamento comunale
adottato ai sensi dell'art. 8 comma 6 l.
22.02.2001 n. 36, laddove l'ente
territoriale si sia posto quale obiettivo,
sebbene non dichiarato, ma evincibile dal
contenuto dell'atto regolamentare, quello di
preservare la salute umana dalle emissioni
elettromagnetiche promananti da impianti di
radiocomunicazione (ad esempio attraverso la
fissazione di distanze minime delle stazioni
radio base da particolari tipologie
d'insediamenti abitativi), essendo tale
materia attribuita alla legislazione
concorrente Stato-regioni dell'art. 117
cost., come riformato dalla l. cost.
18.10.2001 n. 3“ (Consiglio Stato, sez.
VI, 20.12.2002, n. 7274).
Del pari, è stato rilevato che “come non
può essere imposta, mediante regolamento
comunale edilizio l'osservanza di
determinate distanze dagli edifici
esistenti; ugualmente, ed anzi a maggior
ragione, non si può pretendere di
localizzare gli impianti ad una determinata
distanza dal confine di proprietà,
trattandosi di previsione che appare priva
di giustificazione alcuna e rappresenta solo
un indebito impedimento nella realizzazione
di una rete completa di telecomunicazioni”
(Consiglio Stato, sez. VI, 25.06.2007, n.
3536).
Si è addirittura escluso che la stessa “causale”
dell’esercizio della potestà regolamentare
possa essere determinata da esigenze
protettive di interessi diversi da quelli
relativi a “valutazioni strettamente
riguardanti interessi riferibili ad aspetti
urbanistici, edilizi, architettonici, di
decoro o di protezione del territorio”
(Consiglio Stato, sez. VI, 06.08.2002, n.
4096).
Sul punto può aggiungersi che, ancora di
recente, si è affermato che “ai sensi
dell'art. 8, comma 6, della legge quadro
sulla protezione dalle esposizioni ai campi
elettrici, magnetici ed elettromagnetici
22.02.2001 n. 36, i comuni possono adottare
un regolamento atto ad assicurare il
corretto insediamento urbanistico e
territoriale degli impianti e minimizzare
l'esposizione della popolazione comunale ai
campi elettromagnetici. Tuttavia, il potere
regolamentare comunale non può implicare la
fissazione di limiti di esposizione ai campi
elettromagnetici diversi da quelli stabiliti
dallo Stato, non rientrando tale potere
nell'ambito delle competenze comunali. Non
può, pertanto, il comune, attraverso il
formale utilizzo degli strumenti di natura
edilizia-urbanistica, adottare misure
derogatorie ai predetti limiti di
esposizione fissati dallo Stato, quali, ad
esempio, il generalizzato divieto di
installazione delle stazioni radio base per
telefonia cellulare in tutte le zone
territoriali omogenee a destinazione
residenziale; ovvero, introdurre misure che
pur essendo tipicamente urbanistiche
(distanze, altezze, ecc.) non siano
funzionali al governo del territorio, quanto
piuttosto alla tutela della salute dai
rischi dell'elettromagnetismo (Consiglio
Stato, sez. VI, 03.10.2007, n. 5098, ma si
veda anche Consiglio Stato, sez. VI,
05.06.2006, n. 3332, secondo cui “è
illegittimo il regolamento comunale che, in
materia di installazione di impianti di
telefonia mobile, contiene prescrizioni che
non costituiscono espressione di
pianificazione urbanistica, ma di tutela
della salute e ciò in quanto la l. quadro
22.02.2001 n. 36 ha attribuito
esclusivamente allo Stato la funzione di
fissazione dei criteri e dei limiti
rilevanti ai fini della protezione della
popolazione dalle potenzialità nocive insite
nell'esposizione ai campi magnetici”)"
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.04.2010 n. 2436 -
link a www.giustizia-aministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le norme sulle distanze tra
costruzioni, contenute nei piani regolatori
e nei regolamenti comunali di edilizia,
contrariamente a quelle contenute nel codice
civile, essendo essenzialmente dettate a
tutela dell’interesse generale, quale la
realizzazione di un modello urbanistico
prefigurato, non tollerano deroghe
convenzionali che, se concordate, sono
invalide anche nei rapporti interni tra i
proprietari confinanti, salva per
quest’ultimi la possibilità di accordarsi
sulla ripartizione tra i rispettivi fondi
del distacco da osservare.
Le norme sulle distanze tra costruzioni,
contenute nei piani regolatori e nei
regolamenti comunali di edilizia,
contrariamente a quelle contenute nel codice
civile, essendo essenzialmente dettate a
tutela dell’interesse generale, quale la
realizzazione di un modello urbanistico
prefigurato, non tollerano deroghe
convenzionali che, se concordate, sono
invalide anche nei rapporti interni tra i
proprietari confinanti, salva per
quest’ultimi la possibilità di accordarsi
sulla ripartizione tra i rispettivi fondi
del distacco da osservare (Cass. nn.
237/2000; 12984/1999 ed altre conformi)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 23.04.2010 n.
9751). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per il risparmio
energetico è possibile derogare alle
distanze legali.
Sulla Gazzetta
Ufficiale n. 92 del 21.04.2010 è stato
pubblicato il d.lgs. 29.03.2010, n. 56
recante "Modifiche ed integrazioni al
decreto 30.05.2008, n. 115, recante
attuazione della direttiva 2006/32/CE,
concernente l'efficienza degli usi finali
dell'energia e i servizi energetici e
recante abrogazioni della direttiva
93/76/CEE.".
Tra le modifiche apportate al provvedimento
segnaliamo quelle apportate all'art. 11.
L'art. 11 del provvedimento prevede
incentivi "urbanistici" per gli
edifici (di nuova costruzione o esistenti)
più efficienti dal punto di vista
energetico.
Per gli edifici di nuova costruzione, in
particolare, il comma 1 del suddetto
articolo prevede che non siano considerati
nei computi per la determinazioni dei
volumi, delle superfici e nei rapporti di
copertura:
- gli spessori delle murature esterne,
delle tamponature o dei muri portanti
superiori ai 30 centimetri (per la sola
parte eccedente, fino ad un massimo di 25
cm.);
- il maggiore spessore dei solai e tutti
i maggiori volumi e superfici necessari
all'esclusivo miglioramento dei livelli di
isolamento termico o di inerzia termica
degli edifici (fino ad un massimo di 15 cm.
per i solai intermedi).
Sempre nel rispetto di tali limiti è
permesso derogare a quanto previsto dalle
normative nazionali, regionali o dai
regolamenti edilizi comunali, in merito:
- alle distanze minime tra edifici;
- alle distanze minime di protezione del
nastro stradale;
- alle altezze massime degli edifici.
Per gli edifici esistenti, sui quali si
intende realizzare interventi di
riqualificazione energetica che comportano
maggiori spessori delle murature esterne e
degli elementi di copertura, è prevista
(art. 11 comma 2) la deroga alle normative
nazionali e locali, alle distanze minime tra
edifici e dalle strade:
- nella misura massima di 20 cm. per il
maggiore spessore delle pareti verticali
esterne e delle altezze massime degli
edifici;
- nella misura massima di 25 cm. per il
maggior spessore degli elementi di
copertura.
Tale deroga può essere esercitata nella
misura massima da entrambi gli edifici
confinanti.
In base alle modifiche apportare dal D.Lgs.
56/2010, in entrambi i precedenti casi e
sempre nel rispetto dei limiti predetti, è
ora possibile derogare anche alle distanze
minime dai confini della proprietà.
È stata quindi ampliata la casistica
originariamente prevista dal D.Lgs.
115/2008, che prevedeva la possibilità di
non considerare gli spessori aggiuntivi di
elementi verticali, solai e coperture,
derogando ad altezze massime e distanze
minime tra edifici ...
(link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
V. Montaruli e S. Rocca,
La disciplina delle distanze minime tra i
fabbricati nel nuovo assetto costituzionale
(link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ciò
che rende computabili i balconi ai fini
della misurazione delle distanze tra fondi
finitimi è la loro riconducibilità al
concetto di costruzione edilizia,
comportando essi un ampliamento della
consistenza dell'edificio tale da doversi
senz'altro considerare nel calcolo delle
distanze legali.
In merito alla distanza minima di 10 mt. tra
fabbricati, il balcone aggettante può essere
ricompreso nel computo della predetta
distanza solo nel caso in cui una norma di
piano preveda ciò.
Al riguardo va ricordato che, come affermato
da costante giurisprudenza, ai fini del
computo delle distanze, assumono rilievo
tutti gli elementi costruttivi, anche
accessori, qualunque ne sia la funzione,
aventi i caratteri della solidità, della
stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti ed oggetti di
modeste dimensioni con funzione meramente
decorativa e di rifinitura, tali da potersi
definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
Infatti, ciò che rende computabili i balconi
ai fini della misurazione delle distanze tra
fondi finitimi è la loro riconducibilità al
concetto di costruzione edilizia,
comportando essi un ampliamento della
consistenza dell'edificio tale da doversi
senz'altro considerare nel calcolo delle
distanze legali (TAR Sardegna Cagliari, sez.
II, 06.04.2009, n. 432).
La giurisprudenza ha ormai chiarito la
natura di norma di ordine pubblico dell’art.
9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che
prescrive la distanza minima di 10 mt.
lineari tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti, precisando tuttavia che
il balcone aggettante può essere ricompreso
nel computo della predetta distanza solo nel
caso in cui una norma di piano preveda ciò
(TAR Liguria Genova, sez. I, 10.07.2009, n.
1736) ed ha altresì precisato che i muri di
contenimento non possono essere considerati
“costruzioni” ai fini della
disciplina della distanze (cfr. Cons. St.,
sez. VI, n. 2954 del 13.6.2008) (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 31.03.2010 n. 5319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disciplina delle distanze legali tra
costruzioni di cui all'art. 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444 è applicabile anche alle
sopraelevazioni e nel caso di edifici
pubblici.
E' noto infatti che la disciplina delle
distanze legali tra costruzioni di cui
all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 è
applicabile anche alle sopraelevazioni.
La fattispecie
riguarda la costruzione della sede centrale
del Comando provinciale dei Vigili del
fuoco.
In mancanza di una disposizione delle norme
attuative del P.R.G. che, per la zona SP,
detti una speciale disciplina sulle distanze
delle opere di interesse statale dalle altre
costruzioni, debbono dunque trovare diretta
applicazione i limiti di cui all’art. 9,
comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444,
il quale trae dall'art. 41-quinquies della
legge urbanistica la forza di integrare con
efficacia precettiva il regime delle
distanze nelle costruzioni (Cons. di St., V,
26.10.2006, n. 6399; cfr. anche TAR Liguria,
I, 30.6.2009, n. 1621; id., 19.12.2006, n.
1711; id., 07.07.2005, n. 1027).
Ed è appena il caso di osservare che,
quand’anche la deroga alle prescrizioni
spaziali contenuta nell’art. 19 delle N.T.A.
del P.R.I.S. dovesse ritenersi applicabile
anche alle opere di interesse statale (il
che pacificamente non è, non rientrando lo
Stato tra gli enti locali territoriali), la
disposizione, di natura regolamentare,
dovrebbe essere disapplicata perché in
contrasto con il D.M. 02.04.1968, n. 1444,
che trae dall’art. 41-quinquies, comma 8,
della L. 17.08.1942, n. 1150 la natura di
norma primaria (in tal senso Cons. di St.,
IV, 05.12.2005, n. 6909), ad essa
sovraordinata.
E’ noto infatti che il giudice
amministrativo, in conformità al principio
di gerarchia delle fonti, anche in sede di
giurisdizione generale di legittimità ha il
potere di disapplicare un regolamento non
conforme a legge (TAR Lombardia, IV,
18.07.2007, n. 5424)
(TAR Liguria,
sentenza 26.03.2010 n. 1235 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le norme degli strumenti
urbanistici locali che prescrivono le
distanze tra le costruzioni sui fondi
finitimi ad integrazione di quella previste
del codice civile sono dettate a tutela sia
dell'interesse del privato proprietario del
fondo finitimo sia a tutela dell'interesse
pubblico, che trascende quello dei privati,
essendo espressione del potere che è dato
all'Ente locale di adottare, nell'interesse
generale, norme preordinate all'ordinato
sviluppo urbanistico del territorio
comunale.
È noto, per pacifica giurisprudenza, che le
norme degli strumenti urbanistici locali,
che prescrivono le distanze tra le
costruzioni sui fondi finitimi, ad
integrazione di quella previste del codice
civile, sono dettate a tutela sia
dell'interesse del privato proprietario del
fondo finitimo sia, essenzialmente, a tutela
dell'interesse pubblico, che trascende
quello dei privati, essendo espressione del
potere che è dato all'Ente locale di
adottare, nell'interesse generale, norme
preordinate all'ordinato sviluppo
urbanistico del territorio comunale (cfr.,
ex multis, Cassazione sez. II, 03.10.2007,
n. 20769, Cass. Sez. 2^ n. 11633/2003; Cass.
Sez. 2^, 31/05/2006, n. 12966).
La finalità insita nella natura di dette
norme comporta che esse siano derogabili
solo nei casi previsti dalla normativa
urbanistica sopra richiamata proprio per la
natura pubblicistica dell'esigenza di
garantire, in ogni caso, un certo distacco
tra fabbricati così che si versa nell'ambito
dei diritti indisponibili dei proprietari
dei fondi confinanti, con la conseguenza che
una eventuale convenzione tra costoro per la
costruzione dei loro edifici in deroga delle
distanze prescritte dalle norme integrative
contenute nei regolamenti edilizi o piani
urbanistici non comporta l'acquisto per
usucapione di una servitù avente ad oggetto
il mantenimento di una costruzione a
distanza inferiore a quella fissata da norme
inderogabili, non potendo l'ordinamento
accordare tutela ad una situazione che,
attraverso l'inerzia del vicino, finisce per
aggirare l'interesse pubblico rendendo
legittima la permanenza di un manufatto
edificato in maniera che tale interesse
contrasta
(TRGA Trentino Alto Adige,
sentenza 19.03.2010 n. 81 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 è una disposizione
tassativa ed inderogabile, la quale trova
applicazione anche nel caso in cui solo una
delle pareti antistanti risulti finestrata e
non entrambe.
Il permesso di costruire impugnato ha
consentito, sul terreno confinante con
quello dei ricorrenti, la realizzazione di
un intervento edilizio che, per le sue
caratteristiche (demolizione integrale
dell’esistente; costruzione di un edificio a
due piani in luogo di quello precedente ad
un solo piano, il quale utilizza in parte la
volumetria preesistente, che era collocata
in manufatti ora non riedificati, e si
prolunga in parallelo con l’edificio dei
ricorrenti per una lunghezza ben maggiore
del precedente) non può essere qualificato
come di semplice ricostruzione.
Tale nuovo edificio si colloca alla distanza
di 8 metri circa dalla casa del Gobbi,
mentre avrebbe dovuto rispettare la distanza
minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti,
prescritta, tra l’altro, dall’art. 20 delle
n.t.a. applicabili alla fattispecie e,
comunque dall'art. 9, d.m. 02.04.1968 n.
1444: né si ravvisa contrasto tra
quest’ultima norma regolamentare e l’altra
disposizione qui citata.
Il fatto che, dopo la presentazione del
ricorso sia stata presentata dai
controinteressati una denuncia d’inizio
attività al Comune, destinata a modificare
la parete finestrata, occludendo le relative
vedute, non basta a far venir meno
l’originario profilo d’illegittimità del
provvedimento (appunto costituito dalla
violazione del ripetuto art. 9).
Infatti, per costante giurisprudenza (tra le
ultime, TAR Liguria Genova, sez. I,
30.06.2009, n. 1621), la norma de qua
è intesa a impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario.
Si tratta poi di disposizione tassativa ed
inderogabile, la quale trova applicazione
anche nel caso in cui solo una delle pareti
antistanti risulti finestrata e non entrambe
(Cass., sez. II, 26.10.2007, n. 22495): ciò
che appunto continua a verificarsi nella
fattispecie
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 16.03.2010 n. 823 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
tra fabbricati: é usucapibile il diritto a
mantenere le costruzioni a distanza
inferiore a quella di legge.
Su indicazione dello Studio legale Carrara e
Luzzi di Sondrio, segnaliamo una
interessante sentenza della Corte di
Cassazione in materia di distanze tra
fabbricati.
Afferma la Corte che, ferma la distinzione
dei caratteri tra potere privato e potere
pubblico, deve ritenersi ammissibile
l'acquisto per usucapione di una servitù
avente ad oggetto il mantenimento di una
costruzione a distanza inferiore a quella
fissata dalle norme del codice civile o da
quelle dei regolamenti e degli strumenti
urbanistici locali.
Non sono di ostacolo a questa concezione
-afferma la Corte- le possibili frodi
prospettate dalla giurisprudenza.
Si tratta,
infatti:
- di un inconveniente (dipendente comunque
da un congegno macchinoso e precario) che
non giustifica un inquadramento incoerente
dei principi vigenti sui modi di acquisto
dei diritti reali e sulla disciplina dei
limiti legali della proprietà.
Tantomeno questo inconveniente vale a
giustificare la illogica dicotomia tra
tutela delle distanze di fonte codicistica e
di fonte regolamentare.
Non sarebbero neppure configurabili le
temibili diseconomie esterne (conseguenze
negative sul piano della salute e
dell'ambiente) che gli studiosi di analisi
economica del diritto rinvengono nella
deroga pattizia alle distanze.
Altro è infatti incidere sui poteri
pubblici, o consentire una generalizzata
derogabilità, il che può cagionare effetti
lesivi permanenti dell'interesse generale
tutelato; altro è ammettere che operi il
fenomeno dell'usucapione.
Esso vale soltanto a riportare il meccanismo
di contemperamento dei diritti soggettivi
nell'alveo ordinario previsto dal
legislatore, escludendo la sussistenza, nel
circoscritto ambito della proprietà
immobiliare, di diritti soggettivi a tutela
rafforzata
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 22.02.2010 n. 4240 -
commento e sentenza tratti da http://studiospallino.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Usucapione
della servitù avente ad oggetto il diritto
di mantenere l'edificio a distanza inferiore
a quella legale.
In materia di violazione delle distanze
legali tra proprietà confinanti, deve
ritenersi ammissibile l'acquisto per
usucapione di una servitù avente ad oggetto
il mantenimento di una costruzione a
distanza inferiore a quella fissata dalle
norme del codice civile o da quelle dei
regolamenti e degli strumenti urbanistici
locali
(massima tratta da www.lavatellilatorraca.it
- Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 22.02.2010 n. 4240). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Distanze tra
fabbricati - Previsioni regolamentari in
contrasto con art. 872 c.c. - Illegittimità.
2. Distanze tra
fabbricati - Nozione di costruzione ai fini
del rispetto dell'art. 9, comma 2, D.M. n.
1444/1968 - Sopraelevazione - Rilevanza.
3. Distanze tra
fabbricati - Computo della distanza -
Funzione della costruzione - Irrilevanza -
Consistenza fisica- Rilevanza.
4. Distanze tra
fabbricati - Edificio realizzato in
violazione di norme civilistiche sulle
distanze - Diniego di sanatoria -
Motivazione - E' sufficiente il richiamo
alle norme del codice civile.
1. Ogni previsione regolamentare in
contrasto con il limite minimo in materia di
distanze dettato dall'art. 872 c.c. è
illegittima e va disapplicata, essendo
consentita alle amministrazioni locali solo
la fissazione di distanze superiori (cfr.
TAR Pescara, sent. n. 494/2007; Cons.
Stato, sent. n. 3930/2002): ciò in forza
dell'art. 9 D.M. 1444/1968 secondo il quale
in materia di distanze tra fabbricati
sussiste un vincolo a carattere
pubblicistico ed inderogabile, diretto non
soltanto a salvaguardare interessi privati,
ma anche a tutelare interessi generali in
materia urbanistica, di igiene, decoro e
sicurezza degli abitati (cfr. Cass. Civ.,
sent. n. 1201/1996; TAR Bologna, sent. n.
136/2004).
2. In materia di distanze le disposizioni
dell'art. 9, comma 2, D.M. n. 1444/1968 si
applicano anche alle sopraelevazioni, le
quali, ai fini del rispetto delle distanze
fra edifici, rientrano nella nozione di
nuova costruzione, la quale a sua volta
comprende qualsiasi modifica della
volumetria di un fabbricato preesistente che
comporti l'aumento della sagoma d'ingombro,
così da incidere direttamente sulla
situazione di distanza tra edifici ed
indipendentemente dalla sua utilizzabilità
ai fini abitativi (cfr. TAR Brescia,
sent. nn. 832/2007 e 244/2006; TAR
Milano, sent. n. 5831/2007).
3. Ai fini del computo delle distanze tra
fabbricati non si deve tenere conto della
funzione principale od accessoria o pertinenziale del vano realizzato, quanto la
sua consistenza fisica.
4. Dal momento che la costruzione realizzata
a distanza inferiore a quella prescritta
dall'art. 873 c.c. rende impossibile
qualsiasi indagine circa l'esistenza ed i
limiti della dannosità della intercapedine -giacché siffatta valutazione deve ritenersi
implicita nella imposizione di determinate
distanze nelle costruzioni, alla cui precisa
osservanza il legislatore ha inteso affidare
la tutela dell'interesse pubblico e privato
della salubrità, igiene e sicurezza negli
abitati (cfr. Cassaz. Civile, sent. n.
1911/1980)- ne consegue che il diniego di
sanatoria è sufficientemente motivato anche
con il solo riferimento alla violazione
delle distanze previste dal codice civile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.02.2010 n.
271 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fanno
distanza, ai fini del rispetto dei 10 mt.
tra fabbricati, le parti dell'edificio
(quali scale, terrazze e corpi avanzati)
che, seppur non corrispondano a volumi
abitativi coperti, siano destinati a
estendere e ampliare la consistenza del
fabbricato.
In tema di distanze legali tra edifici,
mentre non sono computabili le sporgenze
estreme del fabbricato che abbiano una
funzione meramente ornamentale, di
rifinitura o accessoria di limitata entità
(come le mensole, i cornicioni, le grondaie
e simili), sono invece computabili,
rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti dell'edificio (quali
scale, terrazze e corpi avanzati) che,
seppur non corrispondano a volumi abitativi
coperti, siano destinati a estendere e
ampliare la consistenza del fabbricato
(Cass. Civ., 10.09.2009, n. 19554)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 27.01.2010 n. 424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Conferma TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 24.07.2009 n. 944 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra costruzioni - Art. 9
del DM 1444/1968 - Fattispecie.
Gli ultimi due capoversi dell'art. 9 del
D.M. n. 1444/1968 contengono una disciplina,
tra loro integrativa, per il calcolo delle
distanze nel solo caso di edifici tra i
quali sono interposte strade, con la chiara
ipotesi di esclusione delle strade a fondo
cieco, che è stata accertata nel caso de
quo.
Anche la disposizione secondo cui va
calcolata la distanza va maggiorata fino al
raggiungimento della misura corrispondente
all'altezza del fabbricato più alto si
applica solo nell'ipotesi di edifici tra i
quali sono interposte strade destinate al
traffico dei veicoli (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 27.01.2010 n. 191 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella
distanza tra fabbricati frontistanti una
strada a fondo cieco, quest'ultima non deve
essere tenuta in considerazione, trovando
applicazione il disposto di cui all'art. 9,
comma 2, del DM 1444/1968.
Parte ricorrente insiste nel ritenere
applicabile l’ultimo comma dell’art. 9 del
DM 1444/1968, secondo cui “qualora le
distanze tra fabbricati, come sopra
computate, risultino inferiori all'altezza
del fabbricato più alto, le distanze stesse
sono maggiorate fino a raggiungere la misura
corrispondente all'altezza stessa. Sono
ammesse distanze inferiori a quelle indicate
nei precedenti commi, nel caso di gruppi di
edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni
planovolumetriche.” Pertanto, secondo i
calcoli di parte ricorrente, il nuovo
edificio sarebbe tenuto a rispettare una
distanza pari alla sua progettata altezza
dalle costruzioni.
Secondo le difese avversarie la disposizione
va invece letta unitamente al capoverso
precedente, dettato per la disciplina delle
distanze tra fabbricati tra i quali siano
interposte strade destinate al traffico, ad
esclusione della viabilità a fondo cieco al
servizio di singoli edifici e di
insediamenti.
E’ emerso dall’istruttoria che Via Mocchetti
è una strada a fondo cieco, il fabbricato
erigendo dista dagli altri fabbricati
rispettivamente mt. 10,05 a sud e 10,75 a
nord, mentre l’altezza prevista nel permesso
di costruire è di 11,70, a fronte di quella
massima consentita di 12,50.
Ad avviso del Collegio la distanza è
rispettata, dovendo trovare applicazione nel
caso de quo l’art. 9, punto 2), che
prescrive la distanza di 10 mt..
Gli ultimi due capoversi invece contengono
una disciplina, tra loro integrativa, per il
calcolo delle distanze nel caso di edifici
tra i quali sono interposte strade, con la
chiara ipotesi di esclusione delle strade a
fondo cieco, che è stata accertata nel caso
de quo.
Anche la disposizione secondo cui va
calcolata la distanza va maggiorata fino al
raggiungimento della misura corrispondente
all’altezza del fabbricato più alto si
applica solo nell’ipotesi di edifici tra i
quali sono interposte strade destinate al
traffico dei veicoli.
Quanto alla distanza dal box e dal muro, si
osserva che correttamente il box non è stato
considerato, in quanto lo stesso è interrato
e pertanto non integra, ai fini delle
distanze, la nozione di costruzione.
Rispetto al muro di sostegno, parte
ricorrente afferma la violazione della
distanza in quanto disterebbe mt. 8,10 dal
suddetto muro, da considerarsi come muro di
fabbrica e non di cinta e quindi
assoggettato al rispetto delle distanze
legali.
Il Comune ha invece qualificato il muro come
muro di sostegno del terreno di proprietà
del ricorrente, in quanto ha la funzione di
contenimento del dislivello naturale;
pertanto è corretta la scelta di non
considerare detto manufatto rilevante ai
fini delle distanze ai fini dell'art. 9 del
d.m. 1444/1968, dal momento che la norma
presuppone che le pareti siano «costruzioni»
in senso edilizio, non mere opere di
contenimento del declivio naturale (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.01.2010 n. 191 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra fabbricati - Sporti
- Computabilità nel calcolo della distanza -
Solo in presenza di specifiche norme di
piano - Fattispecie.
Il balcone aggettante può essere ricompreso
nel computo della distanza, in conformità di
quanto disposto dall'art. 9 del D.M.
1444/1968, solo nel caso in cui una norma di
piano preveda ciò, posto che uno sporto non
integra la specie dell'intercapedine dannosa
che legittima l'applicazione della norma di
ordine pubblico derivante dal D.M. n.
1444/1968, (cfr. TAR Pescara, sent. n.
579/2009; TAR Genova, sent. n.
1736/2009) (nel caso di specie il balcone
di misura modesta, ossia mt. 1,60, non
contrasta con la funzione igienico-sanitaria
-evitare intercapedini malsane- di cui alla
disposizione comunale oggetto del
contendere: un balcone di tali dimensioni si
configura infatti come un manufatto di
modesta estensione, che costituisce una
entità trascurabile rispetto agli interessi
tutelati dalla normativa di sicurezza,
salubrità e igiene) (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 19.01.2010 n. 91
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2009 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra edifici.
L'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.1444,
nell’imporre la distanza di 10 metri tra
costruzioni, rende illegittima ogni
eventuale previsione regolamentare in
contrasto con l’anzidetto limite minimo,
mentre è indubbiamente consentito alle
amministrazioni comunali fissare distanze
superiori.
Ai fini dell’applicazione della normativa in
materia di distanze tra edifici, per nuova
costruzione deve intendersi non solo la
realizzazione ex novo d’un fabbricato
ma anche qualsiasi modificazione nella
volumetria d’un fabbricato preesistente, che
ne comporti l’aumento della sagoma
d’ingombro, in tal guisa direttamente
incidendo sulla situazione degli spazi tra
gli edifici esistenti, e ciò anche
indipendentemente dalla realizzazione o meno
d'una maggior volumetria e/o
dall'utilizzabilità della stessa a fini
abitativi; per il che si è ripetutamente
ritenuto che la sopraelevazione, appunto,
costituisca, a tutti gli effetti, nuova
costruzione (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 02.12.2009 n. 8326 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra edifici - Art. 9
D.M. n. 1444/1968 - Distanza di dieci metri
- Amministrazioni comunali - Fissazione di
distanze superiori - Legittimità.
L’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444,
nell’imporre la distanza di dieci metri tra
costruzioni, rende illegittima ogni
eventuale previsione regolamentare in
contrasto con l’anzidetto limite minimo,
mentre è indubbiamente consentito alle
amministrazioni comunali fissare distanze
superiori (cfr. Consiglio di Stato, Sezione
IV, 12.03.2009, n. 1491; Cassazione civ.,
29.10.1994, n. 8944).
Distanze tra edifici - Nozione di
“nuova costruzione” - Aumento della sagoma
d’ingombro - Maggior volumetria o
utilizzabilità a fini abitativi -
Irrilevanza- Fattispecie: sopraelevazione.
Ai fini dell’applicazione della normativa in
materia di distanze tra edifici, per nuova
costruzione deve intendersi non solo la
realizzazione ex novo d’un fabbricato ma
anche qualsiasi modificazione nella
volumetria d’un fabbricato preesistente, che
ne comporti l’aumento della sagoma
d’ingombro, in tal guisa direttamente
incidendo sulla situazione degli spazi tra
gli edifici esistenti, e ciò anche
indipendentemente dalla realizzazione o meno
d'una maggior volumetria e/o
dall'utilizzabilità della stessa a fini
abitativi; per il che la sopraelevazione
costituisce, a tutti gli effetti, nuova
costruzione (cfr. TAR Campania, Sezione II,
12.04.2006, n. 3457; Consiglio di Stato,
Sezione IV, 31.03.2009, n. 1998; Sezione V,
14.03.1993, n. 481; Cassazione civ., Sezione
II, 11.06.2008, n. 15527).
Distanze tra edifici - Carattere
abusivo dei fabbricati preesistenti -
Irrilevanza - Finalità delle disposizioni in
materia di distanze - Salvaguardia della
salubrità e della sicurezza pubblica.
Ai fini dell’osservanza delle disposizioni
in materia di distanze fra immobili, non
rileva l’eventuale carattere abusivo dei
fabbricati preesistenti. Le disposizioni
sulle distanze tra le costruzioni sono
infatti preordinate non solo alla tutela
degli interessi dei frontisti ma, in una più
ampia visione, anche alla salvaguardia di
esigenze generali, tra cui la salubrità e la
sicurezza pubblica.
Pertanto, l’interesse pubblico primario
tutelato dalle norme urbanistiche sulle
distanze impone di prendere in
considerazione la situazione di fatto quale
si presenta in concreto in sede di rilascio
di un nuovo titolo edilizio, a nulla
rilevando che taluno dei fabbricati
preesistenti, in relazione al quale va
calcolata la distanza, sia abusivo, ferma
restando l’attività repressiva rimessa allo
stesso ente (cfr. TAR Campania, Sezione III,
12.07.2005, n. 9499; Consiglio Giust. Amm.
Sicilia, 12.11.2008, n. 930; Consiglio di
Stato, Sezione V, 06.11.1992, n. 1174) (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 02.12.2009 n. 8326 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
norme sulle distanze tra le costruzioni o
tra queste ed i terreni confinanti,
contenute nel Codice Civile (come quelle
contenute per es. negli artt. 873, 905, 906
e 907 C.C.), sono derogabili (per usucapione
o mediante convenzione, la quale in tali
casi costituisce un vero e proprio diritto
di servitù, in quanto arreca una menomazione
per l’immobile che avrebbe diritto alla
distanza legale), in quanto la predetta
normativa del Codice Civile ha lo scopo di
tutelare i reciproci diritti soggettivi dei
singoli proprietari e/o i rapporti
intersoggettivi di vicinato (per es. l’art.
873 C.C. mira unicamente ad evitare la
creazione di intercapedini antigieniche e
pericolose.
Mentre le norme sulle distanze tra le
costruzioni o tra queste ed i terreni
confinanti, contenute negli strumenti
urbanistici e/o nei Regolamenti Edilizi
comunali, poiché trascendono l’interesse
meramente privatistico, in quanto hanno la
funzione di tutelare l’interesse pubblico
alla realizzazione di un determinato assetto
urbanistico prefigurato, non possono essere
derogate (le apposite convenzioni sono
invalide anche nei rapporti interni tra i
proprietari confinanti) e la loro violazione
comporta la facoltà del vicino di chiedere
la riduzione in pristino.
Secondo pacifico orientamento
giurisprudenziale (cfr. con riferimento
all’art. 905 C.C. Cass. Civ. Sez. II Sent.
n. 4605 del 14.07.1981; con riferimento
all’art. 873 C.C. cfr. Cass. Civ. Sez. II
Sent. n. 19449 del 28.09.2004; Cass. Civ.
Sez. II Sent. n. 2117 del 04.02.2004; Cass.
Civ. Sez. II Sent. n. 12984 del 23.11.1999;
Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 8260 del
13.08.1990; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 5711
del 27.06.1987; Cass. Civ. Sez. II Sent. n.
4737 del 27.05.1987; Cass. Civ. Sez. II
Sent. n. 2331 del 30.03.1983; Cass. Civ.
Sez. II Sent. n. 5117 del 05.10.1982; Cass.
Civ. Sez. II Sent. n. 287 del 12.01.1980;
Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 60 del
05.01.1980), che questo Tribunale condivide
(cfr. TAR Basilicata Sent. n. 519 del
04.09.2007):
1) le norme sulle distanze tra le
costruzioni o tra queste ed i terreni
confinanti, contenute nel Codice Civile
(come quelle contenute per es. negli artt.
873, 905, 906 e 907 C.C.), sono derogabili
(per usucapione o mediante convenzione, la
quale in tali casi costituisce un vero e
proprio diritto di servitù, in quanto arreca
una menomazione per l’immobile che avrebbe
diritto alla distanza legale), in quanto la
predetta normativa del Codice Civile ha lo
scopo di tutelare i reciproci diritti
soggettivi dei singoli proprietari e/o i
rapporti intersoggettivi di vicinato (per
es. l’art. 873 C.C. mira unicamente ad
evitare la creazione di intercapedini
antigieniche e pericolose; mentre l’art. 905
C.C. ha la finalità di proteggere la
riservatezza del proprietario frontistante,
la quale ai sensi del 3° comma dello stesso
art. 905 viene meno se tra i due fondi vi è
una via pubblica o soggetta ad uso
pubblico);
2) mentre le norme sulle distanze tra le
costruzioni o tra queste ed i terreni
confinanti, contenute negli strumenti
urbanistici e/o nei Regolamenti Edilizi
comunali, poiché trascendono l’interesse
meramente privatistico, in quanto hanno la
funzione di tutelare l’interesse pubblico
alla realizzazione di un determinato assetto
urbanistico prefigurato, non possono essere
derogate (le apposite convenzioni sono
invalide anche nei rapporti interni tra i
proprietari confinanti) e la loro violazione
comporta la facoltà del vicino di chiedere
la riduzione in pristino
(TAR Basilicata,
sentenza 17.11.2009 n. 766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nozione
di costruzione.
Ai fini dell'osservanza delle norme in
materia di distanze legali stabilite
dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari
integrative, la nozione di «costruzione»
comprende qualsiasi opera non completamente
interrata avente i caratteri della solidità
ed immobilizzazione rispetto al suolo (nella
specie, si è ritenuto che integrasse la
nozione di «costruzione», ai predetti
fini, una baracca di zinco costituita solo
da pilastri sorreggenti lamiere, priva di
mura perimetrali ma dotata di copertura)
(massima tratta da www.lavatellilatorraca.it
- Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 19.10.2009 n. 22127). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Distacco tra
costruzioni - art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444.
2. Distacco tra
costruzioni - c.d. doppia tutela.
1. L'art. 9 D.M.
02.04.1968 n. 1444 che
prescrive in tutti i casi la distanza minima
assoluta di metri 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti,
non è immediatamente operante anche nei
rapporti tra privati: da ciò deriva che
l'adozione, da parte degli enti locali, di
strumenti urbanistici contrastanti con la
norma comporta l'obbligo, per il giudice di
merito, non solo di disapplicare le
disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del
ricordato art. 9, divenuta, per inserzione
automatica, parte integrante dello strumento
urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata.
2. Nel nostro ordinamento vige il regime
della c.d. "doppia tutela" in relazione a
possibili violazioni della disciplina
vigente in materia di distacco delle
costruzioni dai confini del fondo ovvero da
altre costruzioni, a seconda che si agisca
nei riguardi del confinante ovvero nei
confronti dell'Amministrazione Comunale che
ha rilasciato il titolo edilizio, ben
potendo le azioni stesse coesistere e ben
potendo il titolare dell'interesse
qualificato alla legittimità dell'azione
amministrativa ottenere, comunque, in sede
di giurisdizione amministrativa
l'annullamento ope iudicis del titolo
edilizio reputato illegittimo anche a
prescindere dalla sua eventuale
disapplicazione da parte del giudice
ordinario concomitantemente adito, a' sensi
degli artt. 4 e 5 della L. 25.03.1965 n.
2248, all. E (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza
16.10.2009 n.
1742 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra fabbricati.
L'art. 9
del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (emanato in
esecuzione della norma sussidiaria dell'art.
41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150,
introdotto dalla l. 06.08.1967 n. 765), là
dove prescrive la distanza di dieci metri
tra pareti finestrate di edifici antistanti,
va rispettata in tutti i casi, trattandosi
di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile in funzione della natura giuridica
dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono
predeterminate con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e di sicurezza, di modo
che al giudice non è lasciato alcun margine
di discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.10.2009 n. 1742 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze - Pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti - D.M.
02.04.1968, n. 1444, art. 9 - Strumenti
urbanistici contrastanti con la norma -
Giudice di merito - Disapplicazione.
Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all’art.
9 prescrive in tutti i casi la distanza
minima assoluta di metri dieci tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti- è
norma che impone determinati limiti edilizi
ai comuni nella formazione o revisione degli
strumenti urbanistici.
Da ciò deriva (cfr. ex multis Cass.
Civ. Sez. II 01.11.2004 n. 21899) che
l'adozione, da parte degli enti locali, di
strumenti urbanistici contrastanti con la
norma comporta l'obbligo, per il giudice di
merito, non solo di disapplicare le
disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del
ricordato art. 9, divenuta, per inserzione
automatica, parte integrante dello strumento
urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata.
Distanza fra costruzioni - Regime
della cd. “doppia tutela”.
In tema di distanza fra costruzioni o di
queste con i confini vige il regime della
c.d. “doppia tutela”. Questo vuol dire che
il soggetto che assume di essere stato
danneggiato dalla violazione delle norme in
materia è titolare, da un lato, del diritto
soggettivo al risarcimento del danno o alla
riduzione in pristino nei confronti
dell'autore dell'attività edilizia illecita
e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla
rimozione del provvedimento invalido
dell'amministrazione, quando tale attività
sia stata autorizzata. (cfr., ex multis,
Cass., SS.UU., 01.07.2002 n. 9555).
Consegue, quindi, da ciò che sussistono nel
nostro ordinamento ipotesi di doppia tutela
in relazione a possibili violazioni della
disciplina vigente in materia di distacco
delle costruzioni dai confini del fondo
ovvero da altre costruzioni, a seconda che
si agisca nei riguardi del confinante ovvero
nei confronti dell'Amministrazione Comunale
che ha rilasciato il titolo edilizio, ben
potendo le azioni stesse coesistere e ben
potendo il titolare dell'interesse
qualificato alla legittimità dell'azione
amministrativa ottenere, comunque, in sede
di giurisdizione amministrativa
l'annullamento ope iudicis del titolo
edilizio reputato illegittimo anche a
prescindere dalla sua eventuale
disapplicazione da parte del giudice
ordinario concomitantemente adito, a' sensi
degli artt. 4 e 5 della L. 25.03.1965 n.
2248, all. E. (cfr. TAR Veneto Sez 2°
17.06.2005 n. 2504).
Distanze tra edifici -
Proprietario frontista - Diritto al
mantenimento di un fabbricato preesistente
costruito a distanza inferiore a quella
legale - Ulteriore diritto ad apportare
modifiche o aggiunte - Esclusione.
L'eventuale diritto del proprietario
frontista a mantenere un fabbricato
preesistente sin dall'origine costruito ad
una distanza inferiore a quella legale
rispetto all'immobile limitrofo non
conferisce al predetto l'ulteriore diritto
di apportare al manufatto aggiunte e/o
modifiche di qualsiasi natura nella parte
che, in base alla normativa attualmente
vigente, risulti a distanza inferiore a
quella minima legale, atteso che dette
aggiunte o modifiche costituirebbero
un'ulteriore -e non consentita- violazione
della normativa in materia di distanze.
(cfr. Cass. Civ. Sez. II, 26.08.2002, n.
12483) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.10.2009 n. 1742 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, là dove
prescrive la distanza di 10 metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e -pertanto- non è
eludibile in funzione della natura giuridica
dell'intercapedine.
La questione portata all’esame della Sezione
riguarda l’autorizzazione alla realizzazione
da parte dei controinteressati, in forza
dell’impugnata concessione edilizia, di una
parete in muratura a chiusura di una tettoia
-posta a protezione di un bocciodromo- in
sostituzione della antecedente protezione,
costituita da un telone di plastica
(cellophane).
Va innanzi tutto ricordato che il D.M.
02.04.1968 n. 1444 –recante “Limiti
inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza fra i fabbricati e
rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività
collettive, al verde pubblico o a parcheggi
da osservare ai fini della formazione dei
nuovi strumenti urbanistici o della
revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell'art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765”–
all’art 9. “Limiti di distanza tra i
fabbricati” stabilisce che: “Le
distanze minime tra fabbricati per le
diverse zone territoriali omogenee sono
stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento
conservativo e per le eventuali
ristrutturazioni, le distanze tra gli
edifici non possono essere inferiori a
quelle intercorrenti tra i volumi edificati
preesistenti, computati senza tener conto di
costruzioni aggiuntive di epoca recente e
prive di valore storico, artistico o
ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è
prescritta in tutti i casi la distanza
minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti;
…omissis …”.
Va innanzitutto disattesa la prospettazione
della difesa dell’Amministrazione comunale,
secondo cui la norma in questione troverebbe
ingresso solamente nei rapporti tra privati
.
E’ anzi vero l’opposto (cfr. ex multis
Cass. Civ., Sez. II, 02.10.2000 n. 13011,
idem, Sez. II, 22.09.2004 n. 19009), poiché
il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all’art.
9 prescrive in tutti i casi la distanza
minima assoluta di metri 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti– è
norma che impone determinati limiti edilizi
ai comuni nella formazione o revisione degli
strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante anche nei rapporti
tra privati. E da ciò deriva (cfr. ex
multis Cass. Civ. Sez. II 01.11.2004 n.
21899) che l'adozione, da parte degli enti
locali, di strumenti urbanistici
contrastanti con la norma comporta
l'obbligo, per il giudice di merito, non
solo di disapplicare le disposizioni
illegittime, ma anche di applicare
direttamente la disposizione del ricordato
art. 9, divenuta, per inserzione automatica,
parte integrante dello strumento urbanistico
in sostituzione della norma illegittima
disapplicata.
Più in generale, va posto in rilievo che
l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444
(emanato in esecuzione della norma
sussidiaria dell'art. 41-quinquies l.
17.08.1942 n. 1150, introdotto dalla l.
06.08.1967 n. 765), là dove prescrive la
distanza di 10 metri tra pareti finestrate
di edifici antistanti, va rispettata in
tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini
nocive sotto il profilo igienico-sanitario,
e -pertanto- non è eludibile in funzione
della natura giuridica dell'intercapedine
(cfr. TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001 n.
1734, TAR Liguria Sez. I, 12.02.2004 n.
145). Pertanto, le distanze tra costruzioni
sono predeterminate con carattere cogente in
via generale ed astratta, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e di sicurezza, di modo
che al giudice non è lasciato alcun margine
di discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi
(cfr. Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005 n.
6909).
Va ulteriormente osservato che in tema di
distanza fra costruzioni o di queste con i
confini vige il regime della c.d. “doppia
tutela”. Questo vuol dire che il
soggetto che assume di essere stato
danneggiato dalla violazione delle norme in
materia è titolare, da un lato, del diritto
soggettivo al risarcimento del danno o alla
riduzione in pristino nei confronti
dell'autore dell'attività edilizia illecita
e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla
rimozione del provvedimento invalido
dell'amministrazione, quando tale attività
sia stata autorizzata.
Più specificamente, per consolidata
giurisprudenza delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione, "le controversie tra
proprietari di fabbricati vicini aventi ad
oggetto questioni relative all'osservanza di
norme che prescrivano distanze tra le
costruzioni o rispetto ai confini,
appartengono alla giurisdizione del giudice
ordinario, essendo anche a tale materia
applicabile il principio secondo il quale
nei rapporti tra privati non si pone una
questione di giurisdizione, essendo la
posizione di interesse legittimo
prospettabile solo in rapporto all'esercizio
del potere della pubblica amministrazione
che, invece, in tali controversie non è
parte in causa. Né a tal fine rileva
l'avvenuto rilascio di concessione edilizia,
atteso che il giudice ordinario, cui spetta
la giurisdizione, vertendosi in tema di
assunta violazione di un diritto soggettivo,
può incidentalmente accertare l'eventuale
illegittimità della concessione edilizia
medesima, onde disapplicarla; mentre la
giurisdizione del giudice amministrativo è
al riguardo configurabile allorché la
controversia sia insorta tra il privato e la
pubblica amministrazione, per avere il primo
impugnato detta concessione al fine di
ottenerne l'annullamento nei confronti della
seconda" (cfr., ex multis, Cass.,
SS.UU., 01.07.2002 n. 9555).
Consegue, quindi, da ciò che sussistono nel
nostro ordinamento ipotesi di doppia tutela
in relazione a possibili violazioni della
disciplina vigente in materia di distacco
delle costruzioni dai confini del fondo
ovvero da altre costruzioni, a seconda che
si agisca nei riguardi del confinante ovvero
nei confronti dell'Amministrazione Comunale
che ha rilasciato il titolo edilizio, ben
potendo le azioni stesse coesistere e ben
potendo il titolare dell'interesse
qualificato alla legittimità dell'azione
amministrativa ottenere, comunque, in sede
di giurisdizione amministrativa
l'annullamento ope iudicis del titolo
edilizio reputato illegittimo anche a
prescindere dalla sua eventuale
disapplicazione da parte del giudice
ordinario concomitantemente adito, a' sensi
degli artt. 4 e 5 della L. 25.03.1965 n.
2248, all. E. (cfr. TAR Veneto Sez 2°
17.06.2005 n. 2504).
In tale contesto deve dunque affermarsi che
la sostituzione della preesistente chiusura
laterale con telo di cellophane con una
parete di chiusura in muratura dotata di
finestre costituisce trasformazione della
res, con conseguente obbligo di rispetto
della disposizione di cui all’art. 9 del
D.M. n. 1444/1968.
Va soggiunto (cfr. Cass. Civ. Sez. II,
26.08.2002, n. 12483) che l'eventuale
diritto del proprietario frontista a
mantenere un fabbricato preesistente sin
dall'origine costruito ad una distanza
inferiore a quella legale rispetto
all'immobile limitrofo non conferisce al
predetto l'ulteriore diritto di apportare al
manufatto aggiunte e/o modifiche di
qualsiasi natura nella parte che, in base
alla normativa attualmente vigente, risulti
a distanza inferiore a quella minima legale,
atteso che dette aggiunte o modifiche
costituirebbero un'ulteriore -e non
consentita- violazione della normativa in
materia di distanze
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.10.2009 n. 1742 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M.
02.04.1968 integrano con efficacia
precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l’inderogabile distanza
di 10 metri fra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola anche i comuni
in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l’anzidetto limite minimo è
illegittima e va annullata ove oggetto
d’impugnazione, o comunque disapplicata,
stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte
sovraordinata.
E ciò nella preminente considerazione che
tale distanza “va rispettata in tutti i
casi, trattandosi di norma volta ad impedire
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario (…); pertanto, le
distanze fra costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni d’igiene e di
sicurezza”. Ed ancora: “Ai sensi
dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 (…) è
prescritta in tutti i casi, con disposizione
tassativa e inderogabile, la distanza minima
assoluta di dieci metri fra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti.
Tale disposizione, stante la sua assolutezza
e inderogabilità, risultante da fonte
normativa statuale, sovraordinata rispetto
agli strumenti urbanistici locali, comporta…”.
In tema di distanze fra costruzioni,
l’art. 9, comma 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444,
ha efficacia di legge dello Stato (…); i
comuni sono obbligati –in caso di redazione
o revisione dei propri strumenti
urbanistici– a non discostarsi dalle regole
fissate da tale norma, le quali comunque
prevalgono, ove i regolamenti comunali siano
con esse in contrasto” (Cass. 11.02.2008
n. 3199). “L’adozione da parte degli enti
locali di strumenti urbanistici contrastanti
con la norma, comporta l’obbligo, per il
giudice di merito, non solo di disapplicare
le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del
ricordato art. 9, divenuta, per inserzione
automatica, parte integrante dello strumento
urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata.
“Per consolidata ed ormai costante
giurisprudenza,” scrive il primo
giudice, “l’art. 9 D.M. n. 1444/1968 che
prescrive la distanza minima di 10 mt tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti impone, sì, limiti ai Comuni
nella formazione o revisione degli strumenti
urbanistici, ma non è immediatamente
operante anche nei rapporti tra privati.”
L’assunto è inesatto, perché la
giurisprudenza non è in questo senso, e non
lo era già alla data della decisione, cioè
nel 2005.
Ci fu, in effetti, intorno agli anni ’90, un
disorientamento, sfociato nella sentenza
della Cassazione a Sezioni Unite 01.07.1997
n. 5889, la quale, effettivamente, in un
caso (riguardava il Comune di Vittoria,
sprovvisto, allora, di piano regolatore) di
totale assenza di strumento urbanistico
generale, ritenne che le prescrizioni
tecniche contenute nel D.M. del 1968,
servissero solamente di direttiva per i
comuni in vista della elaborazione dei loro
strumenti urbanistici, e che perciò, “dato
il carattere della norma, destinato a
sopperire alla carenza di strumenti
urbanistici e ad incentivarne la rapida
formazione e approvazione”, in quanto
diretta ai comuni, e non alla generalità dei
soggetti, non fosse per questi ultimi fonte
di diritti. Non recependo il comune la
prescrizione ministeriale della distanza
minima tra fabbricati, o perfino
rifiutandola illegittimamente con
l’adottarne una minore, il cittadino non
avrebbe avuto azione diretta per imporre al
vicino il rispetto di quella distanza.
Una tale interpretazione non ha avuto più
seguito, né nella giurisprudenza della
stessa Suprema Corte, né in quella del
Consiglio di Stato. “Le prescrizioni di
cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 integrano
con efficacia precettiva il regime delle
distanze nelle costruzioni, sicché
l’inderogabile distanza di 10 metri fra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i comuni in sede di
formazione o revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto d’impugnazione, o
comunque disapplicata, stante la sua
automatica sostituzione con la clausola
legale dettata dalla fonte sovraordinata”
(Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2007 n. 3094;
non diversamente, Cons. Stato, sez. IV,
05.12.2005 n. 6909; Cons. Stato, sez. IV,
17.02.2002 n. 3229 ed altre).
E ciò nella preminente considerazione che
tale distanza “va rispettata in tutti i
casi, trattandosi di norma volta ad impedire
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario (…); pertanto, le
distanze fra costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni d’igiene e di
sicurezza” (Cons. Stato 6909/2005 cit.).
Ed ancora: “Ai sensi dell’art. 9 D.M.
02.04.1968 n. 1444 (…) è prescritta in tutti
i casi, con disposizione tassativa e
inderogabile, la distanza minima assoluta di
dieci metri fra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti. Tale disposizione,
stante la sua assolutezza e inderogabilità,
risultante da fonte normativa statuale,
sovraordinata rispetto agli strumenti
urbanistici locali, comporta…” (Cass.
10.01.2006 n. 145).
“In tema di distanze fra costruzioni,
l’art. 9, comma 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444,
ha efficacia di legge dello Stato (…); i
comuni sono obbligati –in caso di redazione
o revisione dei propri strumenti
urbanistici– a non discostarsi dalle regole
fissate da tale norma, le quali comunque
prevalgono, ove i regolamenti comunali siano
con esse in contrasto” (Cass. 11.02.2008
n. 3199). “L’adozione da parte degli enti
locali di strumenti urbanistici contrastanti
con la norma, comporta l’obbligo, per il
giudice di merito, non solo di disapplicare
le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del
ricordato art. 9, divenuta, per inserzione
automatica, parte integrante dello strumento
urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata” (Cass.
19.11.2004 n. 21899).
Se lo stato della giurisprudenza è questo,
come in effetti è, e cioè se le disposizioni
dell’art. 9 del D.M. del 1968, tutt’altro
che essere mero strumento a finalità
provvisoria, d’incentivazione delle
amministrazioni comunali nel loro obbligo di
dotarsi di strumenti urbanistici (come
affermano le Sezioni Unite della Cassazione
nel 1997), sono norme assolute e
inderogabili, dettate per esigenze
collettive di igiene e sicurezza, tali da
comportare la loro inserzione automatica
negli strumenti urbanistici difettosi, al
giudice non rimane che tenerne conto, come
fonte diretta di diritti del cittadino,
disapplicando le eventuali contrarie
disposizioni della regolamentazione locale,
siano esse antecedenti, che successive.
Né avrebbe senso, in relazione a tale
ratio iuris della normativa,
sottilizzare (è l’estrema risorsa, in
definitiva, a cui si appiglia l’appellato)
distinguendo fra strumenti urbanistici
anteriori al 1968, ossia all’entrata in
vigore delle prescrizioni contenute nel
decreto ministeriale, e strumenti
urbanistici sopravvenuti, in guisa da poter
dire che la inserzione automatica delle
prescrizioni del decreto ministeriale
avrebbe luogo solo nei confronti degli
strumenti urbanistici sopravvenuti, e non
pure in quelli preesistenti, e che,
conseguentemente, al giudice, adito dal
privato per il rispetto della distanza
legale fra costruzioni, sarebbe dato
disapplicare, in quanto illegittima per
contrasto con la norma dello Stato, la
prescrizione del regolamento locale solo se
sopravvenuta al decreto ministeriale.
Una tale interpretazione, tutt’altro che
incentivare, come pensavano di poter dire le
Sezioni Unite nel 1997, la volontà di
adeguamento dei comuni alla mutate esigenze
urbanistiche, avrebbe finito per sortire
l’effetto contrario di premiare l’inerzia,
la pigrizia, e perfino il preordinato
disegno di sottrarsi deliberatamente alle
più rigorose prescrizioni imposte dallo
Stato nell’interesse dell’igiene e della
sicurezza di tutti, rinunciando o ritardando
di proposito l’adozione dello strumento
urbanistico o la revisione di quello
preesistente.
Completamente illogica, giuridicamente
inspiegabile e incostituzionale, sarebbe poi
l’idea di ammettere due differenti parametri
di valutare le esigenze assolute d’igiene e
di sicurezza, ed i diritti dei singoli ad
esse connessi, a seconda che nel comune di
residenza sia in vigore uno strumento
urbanistico successivo al 1968 o antecedente
o addirittura (è il caso di Vittoria,
risolto in quel modo dalle Sezioni Unite) ne
sia del tutto privo. D’altronde, se, per
effetto del decreto ministeriale in
questione (nonché, beninteso, per effetto
della legge da cui esso traeva la sua forza
normativa) è indubitabile che tutti i comuni
fossero tenuti ad adeguare ad esso i propri
strumenti urbanistici –segnatamente in punto
di distanze fra costruzioni– non si vede
come la posizione soggettiva del privato,
tesa, cioè a vedere rispettata la distanza
prevista dalla normativa nazionale, si
atteggiasse come diritto soggettivo (di
proprietà), tutelabile come tale, se il
comune, pur continuando a violare quella
distanza, si fosse nel frattempo provvisto
di uno, o di un nuovo strumento urbanistico,
e come interesse se il comune, rendendosi
ancor più inadempiente, avesse omesso
completamente qualsiasi revisione del suo
apparato strumentale.
Ancora più difficile sarebbe giustificare il
potere del giudice ordinario di
disapplicare, per contrarietà alla distanza
legale, contenuta, appunto, nell’art. 9 del
decreto ministeriale, la regolamentazione
locale sopravvenuta, e negare un tale potere
se la disposizione difforme è antecedente
alla legge, il che, in altri termini, si
traduce nell’impossibilità di giustificare
l’inserzione automatica della norma
nazionale, assoluta e inderogabile, solo
nelle regolamentazioni successive alla sua
emanazione, e non anche in quelle
preesistenti.
Per altro verso, lasciando, in pratica, ai
comuni, la facoltà di ritardare, o omettere
del tutto, il recepimento della distanza
imposta a livello nazionale, si determina
una situazione esattamente inversa a quella
prevista dall’art. 873 c.c., laddove ai
comuni è fatta salva la facoltà dei comuni
di stabilire una distanza maggiore di quella
legale, ma non inferiore. Qui, nel comune di
Pisa e in quanti possono trovarsi in
situazione analoga, varrebbe la regola
contraria: che, per inerzia o volontà
contraria dello stesso comune, non si
applica la distanza prescritta dalla legge
per tutto il territorio nazionale, ma la
distanza regolamentare “minore”,
illegittimamente mantenuta ferma dagli
organi locali.
Alla luce di tali considerazioni, la
denunciata costruzione appare illegittima,
per violazione della distanza legale, e se
ne deve ordinare l’arretramento.
La norma in questione, come è orientamento
pacifico (Cass. 26.10.2007 n. 22495; Appello
Firenze, 01.10.2005 n. 1386), si applica
anche quando una sola delle due pareti
frontiste sia provvista di finestre (CORTE
DI APPELLO di Firenze, Sez. I, sentenza
09.2009 n. 1165). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
disposizioni sulle distanze fra i fabbricati
dettate dall'art. 873 c.c., che hanno lo
scopo di evitare pericolose intercapedini
tra pareti che si fronteggiano, vincolano,
con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e
sicurezza, anche i Comuni in sede di
formazione e revisione degli strumenti
urbanistici.
La normativa sulle distanze deve essere
quindi rispettata quando attraverso la
ristrutturazione si modifica sostanzialmente
il manufatto esistente, realizzando un
organismo edilizio diverso dal precedente
per volume e sagoma, perché in tal caso si
integrano gli estremi di una vera e propria
nuova costruzione non riconducibile
concettualmente né tipologicamente alla
categoria giuridica della ristrutturazione
come disciplinata dall’art. 3 del d.P.R.
06.06.2001 n. 380, recante il Testo Unico
dell’Edilizia.
L’ordinamento giuridico prevede, in via
generale, limitazioni di varia natura al
diritto di costruire, a tutela dell’ordinato
sviluppo del territorio e dei diritti dei
terzi controinteressati.
Tali limiti possono essere di natura
civilistica e dipendere direttamente dalla
legge (come stabilito nel libro terzo, capo
secondo, del codice civile con le norme
sulle distanze, le luci, le vedute, etc.) o
dall’autonomia pattizia delle parti o essere
di natura pubblicistica, e dipendere dalle
scelte urbanistiche ed edilizie effettuate
dall’amministrazione.
I limiti legali, come quelli sulle distanze,
peraltro non sono diretti solo a tutelare la
proprietà privata ed i rapporti tra vicini
ma anche l’ordinato sviluppo urbanistico del
territorio, ed infatti molto spesso tali
limiti coincidono con i limiti che i vari
Comuni inseriscono nei piani regolatori o
sono da questi resi più rigorosi. Per tali
profili gli aspetti pubblicistici e gli
aspetti privatistici dell’attività
edificatoria si sovrappongono ed assumono
rilevanza qualificata nel procedimento di
rilascio di un permesso di costruire.
Per quanto riguarda in particolare le
distanze fra i fabbricati, i limiti
all’edificazione sono dettati, oltre che
dalle norme del codice civile, dall’art. 9
del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (che, al di
fuori delle zone A dei Piani Regolatori,
prevede una distanza minima assoluta di 10
metri tra le pareti finestrate e le pareti
degli edifici antistanti) e dalla disciplina
di dettaglio contenuta nella strumentazione
urbanistica ed edilizia dei singoli Comuni.
In proposito si è affermato che le
disposizioni sulle distanze fra i fabbricati
dettate dall'art. 873 c.c., che hanno lo
scopo di evitare pericolose intercapedini
tra pareti che si fronteggiano (Consiglio di
Stato, sez. IV, 05.10.2005, n. 5348),
vincolano, con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e sicurezza, anche i
Comuni in sede di formazione e revisione
degli strumenti urbanistici (Consiglio di
Stato, sez. V, 26.10.2006, n. 6399).
In conseguenza gli organi comunali, a
seguito della richiesta di rilascio di un
permesso di costruire, sono tenuti a
verificare il rispetto delle norme previste
dagli strumenti urbanistici ed edilizi in
materia di distanza tra gli edifici, così
garantendo anche il rispetto delle norme
codicistiche sulle distanze (TAR Campania,
Napoli, Sez. II, n. 19795 del 2008).
le disposizioni sulle distanze dettate
dall'art. 9 del DM n. 1444 del 1968 (e dal
Regolamento Edilizio Comunale) si applichino
a tutti gli interventi edilizi che abbiano
il contenuto sostanziale di nuova
costruzione, e quindi anche alle
ristrutturazioni con ampliamento dei volumi
(Cassazione civile, Sez. II, 28 settembre
2007 n. 20574).
La normativa sulle distanze deve essere
quindi rispettata quando attraverso la
ristrutturazione si modifica sostanzialmente
il manufatto esistente, realizzando un
organismo edilizio diverso dal precedente
per volume e sagoma, perché in tal caso si
integrano gli estremi di una vera e propria
nuova costruzione non riconducibile
concettualmente né tipologicamente alla
categoria giuridica della ristrutturazione
come disciplinata dall’art. 3 del d.P.R.
06.06.2001 n. 380, recante il Testo Unico
dell’Edilizia.
Infatti il concetto di ristrutturazione
edilizia comprende anche la demolizione
seguita dalla ricostruzione del manufatto,
ma tanto può ritenersi consentito alla
precisa condizione che la riedificazione
assicuri la piena conformità di sagoma e
volume tra il vecchio e il nuovo manufatto.
È quindi possibile pervenire in tal modo ad
un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente, purché la diversità
sia dovuta ad interventi comprendenti il
ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento
di nuovi elementi ed impianti, e non già la
realizzazione di nuovi volumi o una diversa
ubicazione. Ciò in quanto, diversamente
opinando, sarebbe sufficiente la
preesistenza di un edificio per definire
ristrutturazione qualsiasi nuova
realizzazione eseguita in luogo o sul luogo
di quella preesistente (Consiglio di Stato,
sez. V, 04.03.2008, n. 918).
Le disposizioni sulle distanze devono essere
poi applicate anche nel caso di
sopraelevazione di un immobile esistente.
Infatti la circostanza che un edificio
preesista non dà diritto a mantenere
l'allineamento acquisito per una eventuale
sopraelevazione, fatti salvi casi
particolari, quando l'allineamento
corrisponda a un interesse pubblico autonomo
e attinente all'assetto urbanistico
complessivo di una zona urbanistica (Corte
Costituzionale 16.06.2005 n. 232)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 30.09.2009 n. 5110 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanza minima
tra edifici di nuova costruzione in zona A -
pareti finestrate - scelta comunale - art. 9
DM 1444/1968 comma 3 - ammissibilità.
E' rimessa ai Comuni la scelta (da
esercitarsi in base al comma 3, art. 9, DM
1444/1968) della distanza minima tra edifici
con pareti finestrate nel caso di nuova costruzione in zona A stante la lacuna ex
art. 9, comma 1, n. 1, dm 1444/1968 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza
29.09.2009 n.
1712 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
possibilità di realizzare in zona A nuove
costruzioni a meno di 10 metri da pareti
finestrate si deve considerare subordinata
alla presenza di una specifica disciplina
comunale adottata in relazione al
particolare stato dei luoghi.
Con il primo motivo viene proposta
un’interpretazione dell’art. 9, comma 1, n.
1 e 2 del DM 1444/1968 in base alla quale in
zona A per gli interventi qualificabili come
nuova costruzione (ossia diversi dal
risanamento conservativo e dalla
ristrutturazione) dovrebbe comunque essere
applicata la distanza minima di 10 metri tra
pareti finestrate prevista per le nuove
costruzioni al di fuori della zona A.
La tesi contiene elementi di ragionevolezza,
in quanto la necessità di evitare
intercapedini malsane si fonda su esigenze
igienico-sanitarie che valgono l’intero
territorio comunale. La soluzione proposta
non può tuttavia essere condivisa. Gli
argomenti che impediscono l’accoglimento
della tesi dei ricorrenti sono
essenzialmente due, uno formale e uno
sostanziale.
Sul piano formale occorre prendere atto
della formulazione dell’art. 9 del DM
1444/1968, che non prevede per la zona A una
distanza minima tra pareti finestrate nel
caso di nuova costruzione. È vero che il
centro storico è per definizione edificato e
quindi normalmente non esiste il problema di
inserire nuovi edifici, ma questa evenienza
non può neppure essere del tutto esclusa.
Occorre poi considerare che nella
terminologia dell’art. 9 del DM 1444/1968
hanno valore di nuova costruzione tutti gli
interventi comportanti ulteriore volumetria,
come emerge dal fatto che gli edifici sono
presi in considerazione in quanto “volumi
edificati preesistenti”.
Aumenti di volumetria possono quindi
certamente riguardare anche il centro
storico, prevalentemente in occasione di
interventi di ristrutturazione o di recupero
del sottotetto. Accertata una lacuna
nell’art. 9, comma 1, n. 1 del DM 1444/1968
non sarebbe tuttavia corretto, per il
principio generale che vieta l’analogia
in malam partem, applicare le norme
limitative previste per le altre zone del
territorio. Il risultato logico è invece
l’estensione del potere di regolamentazione
dei comuni, ai quali è in definitiva rimessa
la scelta della distanza minima (v. Cass.
civ. Sez. II 03.02.1999 n. 879: “il punto
n. 1 dell'art. 9 di tale decreto, autorizza
i Comuni a prevedere in queste aree dei
distacchi diversi e minori da quelli che
devono essere rispettati nelle altre parti
del territorio”).
Sul piano sostanziale il riconoscimento di
un ampio potere regolatorio dei comuni
impone che sia raggiunto a livello locale un
equilibrio accettabile tra le esigenze
edificatorie dei privati e la tutela degli
interessi pubblici urbanistici e
igienico-sanitari. Di conseguenza, a parte i
casi in cui non vi sia in concreto il
rischio di intercapedini (v. TAR Brescia
03.07.2008 n. 788), la possibilità di
realizzare in zona A nuove costruzioni a
meno di 10 metri da pareti finestrate si
deve considerare subordinata alla presenza
di una specifica disciplina comunale
adottata in relazione al particolare stato
dei luoghi.
Sotto questo profilo può essere applicato il
comma 3 (secondo periodo) dell’art. 9 del DM
1444/1968, in quanto norma che precisa le
condizioni di esercizio del potere
regolatorio dei comuni. Indubbiamente questa
norma ha come oggetto primario
l’edificazione al di fuori del centro
storico (circostanza evidenziata dal
riferimento alle convenzioni di
lottizzazione con previsioni
planivolumetriche).
Potendo impostare ex novo
l’urbanizzazione di un’area vi è
l’opportunità di superare attraverso
apposite soluzioni costruttive i problemi
derivanti dalla vicinanza degli edifici. Non
si può tuttavia escludere che una
valutazione in questo senso sia possibile
anche in relazione al tessuto urbano già
edificato, e in effetti il riferimento della
norma ai piani particolareggiati
(utilizzabili per qualsiasi parte del
territorio, compreso il centro storico)
lascia aperta questa opzione interpretativa.
Nel caso in esame esiste un piano
particolareggiato del centro storico che per
l’edificio della controinteressata consente
espressamente la sopraelevazione ai fini del
recupero del sottotetto. L’intervento
edilizio in questione si colloca quindi
all’interno di una puntuale valutazione
urbanistica, il che equivale
all’autorizzazione a mantenere invariate le
distanze preesistenti rispetto alle pareti
finestrate dei fabbricati vicini.
È vero che il piano particolareggiato è
risalente nel tempo e ormai scaduto per
decorrenza del termine decennale (previsto
dall’art. 2 del piano stesso) ma gli effetti
conformativi sono per interpretazione
giurisprudenziale tendenzialmente permanenti
(v. CS Sez. IV 04.12.2007 n. 6170). Dunque
l’attività edificatoria consiste tuttora
nelle facoltà e nelle prescrizioni stabilite
dal piano
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.09.2009 n. 1712 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di distanze legali tra
edifici, mentre non sono a tal fine
computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano una funzione
meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria di limitata entità, come le
mensole, i cornicioni, le grondaie e simili,
rientrano nel concetto civilistico di
costruzione le parti dell’edificio, quali
scale, terrazze e corpi avanzati che,
seppure non corrispondono a volumi abitativi
coperti, sono destinate ad estendere ed
ampliare la consistenza del fabbricato; e
che, agli effetti dell’art. 873 Cc, la
nozione di costruzione, che è stabilita
dalla legge statale, è unica, e non può
essere derogata, sia pure al limitato fine
del computo delle distanze, dalla normativa
secondaria, giacché il rinvio contenuto
nella seconda parte dell’art. 873 Cc, è
limitato alla sola facoltà per i regolamenti
locali di stabilire una distanza maggiore
(tra edifici o dal confine) rispetto a
quella codicistica.
Il danno derivante dalla violazione sulle
distanze nelle costruzioni -consistente non
solo nel deprezzamento commerciale del bene
(aspetto che viene superato dalla tutela
ripristinatoria) ma anche dalla indebita
limitazione del pieno godimento del fondo in
termini di diminuzione di amenità, comodità
e tranquillità, trattandosi di effetti
egualmente suscettibili di valutazione
patrimoniale- è in re ipsa, sicché, una
volta dimostrato il fatto obiettivo della
violazione, non occorre un’autonoma e
specifica prova del pregiudizio sofferto,
che può essere valutato dal giudice
equitativamente a norma dell’art. 1226 Cc,
ove risulti la difficoltà di una sua precisa
determinazione in relazione alla peculiarità
del fatto dannoso.
Se è possibile per i Comuni integrare l’art.
873 Cc, per quanto riguarda le prescritte
distanze tra edifici, non è possibile
indicare nelle norme tecniche di attuazione
una nozione di costruzione diversa da quella
già presente nell’ordinamento giuridico.
In tema di distanze legali tra edifici,
mentre non sono a tal fine computabili le
sporgenze estreme del fabbricato che abbiano
una funzione meramente ornamentale, di
rifinitura od accessoria di limitata entità,
come le mensole, i cornicioni, le grondaie e
simili, rientrano nel concetto civilistico
di costruzione le parti dell’edificio, quali
scale, terrazze e corpi avanzati che,
seppure non corrispondono a volumi abitativi
coperti, sono destinate ad estendere ed
ampliare la consistenza del fabbricato; e
che, agli effetti dell’art. 873 Cc, la
nozione di costruzione, che è stabilita
dalla legge statale, è unica, e non può
essere derogata, sia pure al limitato fine
del computo delle distanze, dalla normativa
secondaria, giacché il rinvio contenuto
nella seconda parte dell’art. 873 Cc, è
limitato alla sola facoltà per i regolamenti
locali di stabilire una distanza maggiore
(tra edifici o dal confine) rispetto a
quella codicistica (Cass., Sez. II,
26.05.2005, n. 1556).
Il limite
imposto dall’art. 873 Cc, ai regolamenti
locali in tema di distanze tra costruzioni è
che in nessun caso essi possono stabilire
distanze inferiori a tre metri: purché non
sia stato violato questo limite, i
regolamenti locali, nello stabilire distanze
maggiori, possono anche determinare punti di
riferimento, per la misurazione delle
distanze, diversi da quelli indicati dal
codice civile, escludendo taluni elementi
della costruzione dal calcolo delle più
ampie distanze previste in sede
regolamentare (Cass., Sez. II, 22.06.1990,
n. 6351; Cass., Sez. II, 13.05.1998, n.
4819).
La norma, così interpretata, si porrebbe in
contrasto con quella del codice civile solo
nel caso in cui, misurata la distanza
regolamentare in questo modo, i balconi
esistenti determinassero poi una distanza
tra le due costruzioni in questione
inferiore a quella prescritta dal codice
civile.
Secondo il costante orientamento della
giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez.
II, 23.03.1993, n. 3414; Cass., Sez. II,
17.05.2000, n. 6414; Cass., Sez. II,
07.03.2002, n. 3341; Cass., Sez. II,
27.03.2008, n. 7972), il danno derivante
dalla violazione sulle distanze nelle
costruzioni -consistente non solo nel
deprezzamento commerciale del bene (aspetto
che viene superato dalla tutela
ripristinatoria) ma anche dalla indebita
limitazione del pieno godimento del fondo in
termini di diminuzione di amenità, comodità
e tranquillità, trattandosi di effetti
egualmente suscettibili di valutazione
patrimoniale- è in re ipsa, sicché,
una volta dimostrato il fatto obiettivo
della violazione, non occorre un’autonoma e
specifica prova del pregiudizio sofferto,
che può essere valutato dal giudice
equitativamente a norma dell’art. 1226 Cc,
ove risulti la difficoltà di una sua precisa
determinazione in relazione alla peculiarità
del fatto dannoso (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 10.09.2009 n.
19554). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Botteon,
Le distanze dalle strade nelle costruzioni:
fasce di inedificabilità assoluta o
relativa? (link a
www.lexitalia.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
v'è dubbio in ordine alla qualificazione
della sopraelevazione di un edificio alla
stregua di una nuova costruzione per cui
essa deve rispettare le norme di legge e del
piano a tale riguardo.
Il collegio osserva al riguardo che non v’è
dubbio in giurisprudenza in ordine alla
qualificazione della sopraelevazione di un
edificio alla stregua di una nuova
costruzione (ad esempio, in epoca recente,
cons. Stato, 31.03.2009, n. 1998; cass.,
11.06.2008, n. 15527), per cui essa deve
rispettare le norme di legge e del piano a
tale riguardo: la scheda d’ambito prodotta
dalla ricorrente in data 08.04.2009 come
documento sub-13 prescrive una distanza dal
confine metri cinque ed una distanza tra le
pareti finestrate di metri dieci
(TAR Liguria. Sez. I,
sentenza 10.07.2009 n. 1736 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della distanza tra edifici solo nel
caso in cui una norma di piano preveda ciò,
posto che uno sporto come quello effigiato
in atti non integra la specie
dell’intercapedine dannosa che legittima
l’applicazione della norma di ordine
pubblico derivante dal d.m. 02.04.1968, n.
1444 (vengono pertanto in applicazione le
norme di piano, ed a tale stregua si osserva
che l’art. 4 del vigente PUC di Varazze
attribuisce rilevanza ai fini del calcolo
delle distanze solo ai balconi che superano
la misura di m. 1,20, circostanza che
incombeva alla ricorrente comprovare e che
risulta invece senza riscontri in atti,
derivandone l’infondatezza del motivo).
A tale proposito l’amministrazione ha
considerato legittimo il progetto assentito,
dal quale risulta che la distanza tra lo
spigolo più vicino della casa della
ricorrente e la parte meno rientrante della
sopraelevazione in progetto supera i dieci
metri lineari: l’interessata eccepisce che
non s’è tenuto conto dei balconi sporgenti
dalla facciata della sua casa, che
contribuiscono al computo delle distanze (tar
Campania, Napoli, 23.04.2007, n. 4215, cass.,
31.05.2006, n. 12964).
Il tribunale rileva che il balcone
aggettante può essere ricompreso nel computo
della distanza ai sensi della norma in
questione solo nel caso in cui una norma di
piano preveda ciò, posto che uno sporto come
quello effigiato in atti non integra la
specie dell’intercapedine dannosa che
legittima l’applicazione della norma di
ordine pubblico derivante dal d.m.
02.04.1968, n. 1444: vengono pertanto in
applicazione le norme di piano, ed a tale
stregua si osserva che l’art. 4 del vigente
PUC di Varazze attribuisce rilevanza ai fini
del calcolo delle distanze solo ai balconi
che superano la misura di m. 1,20,
circostanza che incombeva alla ricorrente
comprovare e che risulta invece senza
riscontri in atti, derivandone
l’infondatezza del motivo
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 10.07.2009 n. 1736 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della distanza ai sensi del D.M.
02.04.1968 n. 1444 solo nel caso in cui una
norma di piano preveda ciò, posto che uno
sporto come quello effigiato in atti non
integra la specie dell’intercapedine dannosa
che legittima l’applicazione della norma di
ordine pubblico derivante dal d.m.
1444/1968.
Non v’è dubbio
in giurisprudenza in ordine alla
qualificazione della sopraelevazione di un
edificio alla stregua di una nuova
costruzione (ad esempio, in epoca recente,
cons. Stato, 31.03.2009, n. 1998; cass.,
11.06.2008, n. 15527), per cui essa deve
rispettare le norme di legge e del piano a
tale riguardo: la scheda d’ambito prodotta
dalla ricorrente in data 08.04.2009 come
documento sub 13 prescrive una distanza dal
confine metri cinque ed una distanza tra le
pareti finestrate di metri dieci.
A tale proposito l’amministrazione ha
considerato legittimo il progetto assentito,
dal quale risulta che la distanza tra lo
spigolo più vicino della casa della
ricorrente e la parte meno rientrante della
sopraelevazione in progetto supera i dieci
metri lineari: l’interessata eccepisce che
non s’è tenuto conto dei balconi sporgenti
dalla facciata della sua casa, che
contribuiscono al computo delle distanze
(TAR Campania, Napoli, 23.04.2007, n. 4215,
Cass., 31.05.2006, n. 12964).
Il tribunale rileva che il balcone
aggettante può essere ricompreso nel computo
della distanza ai sensi della norma in
questione solo nel caso in cui una norma di
piano preveda ciò, posto che uno sporto come
quello effigiato in atti non integra la
specie dell’intercapedine dannosa che
legittima l’applicazione della norma di
ordine pubblico derivante dal d.m.
02.04.1968, n. 1444: vengono pertanto in
applicazione le norme di piano, ed a tale
stregua si osserva che l’art. 4 del vigente
PUC di Varazze attribuisce rilevanza ai fini
del calcolo delle distanze solo ai balconi
che superano la misura di m. 1,20,
circostanza che incombeva alla ricorrente
comprovare e che risulta invece senza
riscontri in atti, derivandone
l’infondatezza del motivo (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 10.07.2009 n. 1736 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disciplina delle distanze tra
costruzioni si applica anche alle
sopraelevazioni.
La disciplina
dell’art. 41-quinquies della legge
17.08.1942, n. 1150, integrata dalle
disposizioni dell’art. 9 del D.M. n. 1444
del 1968, prevede una distanza tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti
non inferiore a 10 metri, prescindendo
dall’altezza della parete, ovvero dal fatto
che la parete sia quella del nuovo edificio
o dell’edificio preesistente.
Negli edifici ricadenti in zone territoriali
diverse dalla zona A, è prescritta, in tutti
i casi, una distanza minima assoluta di
dieci metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti e tale prescrizione ha
carattere di assolutezza e di
inderogabilità. Pertanto, l’art. 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444 -prescrivente la
distanza di dieci metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti- deve
essere rispettato, trattandosi di norma
intesa a impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario. Tale orientamento
ermeneutico della giurisprudenza sopravvive
alla riforma del Testo Unico dell’edilizia.
La disciplina delle distanze legali tra
costruzioni è applicabile anche alle
sopraelevazioni.
Se è vero che due edifici frontistanti
confinano con la pubblica via, è altresì
vero che ciò può valere ad escludere il
rispetto delle distanze codicistiche (artt.
873, 878 e 879, comma secondo, codice
civile), non già il rispetto delle distanze
imposte da leggi e da regolamenti
urbanistici
(TAR Molise, Sez. I,
sentenza 08.07.2009 n. 599 - link
a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Negli edifici ricadenti in zone
territoriali diverse dalla zona A è
prescritta, in tutti i casi, una distanza
minima assoluta di 10 metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti e
tale prescrizione ha carattere di
assolutezza e di inderogabilità.
L’edificio frontistante a quello del
ricorrente, da ampliare in sopraelevazione,
dista appena 5 metri lineari, anche se lo
spazio teorico antistante la parte alta
dell’edificio, in caso di sopraelevazione,
sarebbe superiore ai 10 metri. Sennonché, la
disciplina dell’art. 41-quinquies della
legge 17.08.1942 n. 1150, integrata dalle
disposizioni dell’art. 9 del D.M. n. 1444
del 1968, prevede una distanza tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti
non inferiore a 10 metri, prescindendo
dall’altezza della parete, ovvero dal fatto
che la parete sia quella del nuovo edificio
o dell’edificio preesistente (cfr.: Cons.
Stato IV, 12.06.2007 n. 3094; TAR Emilia
Romagna, Bologna II, 30.03.2006 n. 348; idem
TAR Toscana III, 22.01.2007 n. 55).
E’ orientamento di una autorevole
giurisprudenza ritenere che, negli edifici
ricadenti in zone territoriali diverse dalla
zona A, sia prescritta, in tutti i casi, una
distanza minima assoluta di 10 metri tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti e che tale prescrizione abbia
carattere di assolutezza e di
inderogabilità. Pertanto, l’art. 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444 -prescrivente la distanza
di 10 metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti- deve essere rispettato,
trattandosi di norma intesa a impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario (cfr.: Cons.
Stato IV, 05.12.2005 n. 6909; idem
12.07.2002 n. 3929; Cons. Giust. Amm.
Sicilia, sez. giurisd., 17.05.2000 n. 240;
Cass. Civile II, 10.01.2006 n. 145). Tale
orientamento ermeneutico della
giurisprudenza sopravvive alla riforma del
Testo Unico dell’edilizia, atteso che l’art.
136 del T.U. 06.06.2001 n. 380,
nell’abrogare l’art. 17, comma primo, lett.
c), della legge n. 765 del 1967, lascia in
vigore i commi sesto, ottavo e nono
dell’art. 41-quinquies della legge n. 1150
del 1942, di talché gli strumenti
urbanistici locali devono osservare la
prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. n.
1444 del 1968 (cfr.: Cass. Civile II,
29.05.2006 n. 12741).
La disciplina delle distanze legali tra
costruzioni è, ovviamente, applicabile anche
alle sopraelevazioni (cfr.: Cass. Civile II,
27.03.2001 n. 4413).
Se è vero che i due edifici frontistanti
confinano con la pubblica via, è altresì
vero che ciò può valere ad escludere il
rispetto delle distanze codicistiche (artt.
873, 878 e 879 comma secondo codice civile),
non già il rispetto delle distanze imposte
da leggi e da regolamenti urbanistici (cfr.:
Cass. Civile II, 16.04.2007 n. 9077).
E' da qualificarsi come nuova costruzione la
realizzazione di un intero piano, in aumento
volumetrico, con la conseguente
modificazione dei parametri edilizi (cfr.:
Cons. Stato V, 26.10.2006 n. 6399; TAR
Bologna II, 30.03.2006 n. 348) (TAR Molise,
Sez. I,
sentenza 08.07.2009 n. 599 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9 del D.M. n. 1444/1968 (pareti finestrate
tra edifici antistanti) ha natura primaria e
si sostituisce ad ogni eventuale
disposizione contraria contenuta nelle NTA; essa, pertanto, va rispettata in
tutti casi, avendo natura cogente e
suscettibile di inserzione automatica nello
strumento urbanistico.
La distanza di 10 mt. va calcolata con
riferimento ad ogni punto del fabbricato e
per tutte le pareti finestrate.
Il punto nodale è rappresentato dalla
nozione di “sopraelevazione” che,
ancorché nominalmente distinta nel
regolamento edilizio (art. 2) dalle nuove
costruzioni, non ha avuto una sua autonoma
configurazione giuridica e non può non
essere ricompresa nella stessa unitaria
disciplina (lex ubi voluit, dixit),
rappresentando la sopraelevazione un “plus”
aggiuntivo rispetto all’esistente, che, con
un’elevazione dell’edificio, viene ad
assumere altra consistenza (volumetria,
superficie, sagoma, parametri edilizi).
Da ciò discende la violazione degli artt. 7,
8, 9 del REC, essendo stato omesso il parere
obbligatorio.
L’art. 41 delle NTA del PRG viene impugnato,
non in quanto tale, bensì per
l’interpretazione data dal Comune nel
rilasciare la concessione edilizia e,
quindi, non è possibile eccepire alcuna
tardività; esso, invero, consente di
realizzare sopraelevazioni, nei limiti della
sagoma planimetrica, in deroga alle norme
sulle distanze e nel rispetto del c.c.;
l’espressione è generica ed ambigua, anche
perché l’art. 873 “distanze nelle
costruzioni” si riferisce ai “fondi
finitimi”, stabilendo il limite minimo
di mt. 3.
Nella fattispecie sono in discussione gli
standards di cui all’art. 9 del D.M. n.
1444/1968 (pareti finestrate tra edifici
antistanti), che non sono stati considerati
nella loro specificità; la norma ha,
comunque, natura primaria e si sostituisce
ad ogni eventuale disposizione contraria
contenuta nelle NTA (C.S., IV, n.
6909/2005); essa, pertanto, va rispettata in
tutti casi, avendo natura cogente e
suscettibile di inserzione automatica nello
strumento urbanistico (Cass. Civ., II, n.
21899/2004).
La distanza di 10 mt. va calcolata con
riferimento ad ogni punto del fabbricato e
per tutte le pareti finestrate
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 06.07.2009 n. 481 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Applicabilità art. 9, D.M.
02.04.1968, n. 1444.
Si pongono diversi quesiti in merito
all’applicabilità, o meno, dell’art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444, (e quindi della
disciplina delle distanze tra fabbricati)
nell’ipotesi di pareti finestrate
appartenenti ad un unico edificio (Regione
Piemonte,
parere n. 53/2009 -
tratto da
www.regione.piemonte.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’obbligo
di rispettare una distanza minima di 10
metri tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti, ex art. 9 DM 1444/1968,
presenta carattere tassativo in quanto tale
non derogabile dalla disciplina urbanistica
comunale.
Con l'espressione “pareti finestrate”
occorre fare riferimento, in via
interpretativa, all’articolo 900 c.c. che
include nella stessa oltre alle vedute anche
le luci.
La questione
controversa tra le parti attiene all’ambito
di applicazione dell’articolo 9 del D.M. n.
1444 del 1968, nella parte in cui impone
l’obbligo di rispettare una distanza minima
di dieci metri tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti.
La disposizione mira ad impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico sanitario e presenta
pertanto carattere tassativo, come
esattamente rilevato dal primo giudice, in
quanto tale non derogabile dalla disciplina
urbanistica comunale.
Quanto al significato della espressione “pareti
finestrate”, occorre fare riferimento,
in via interpretativa, all’articolo 900
c.c., che include nella stessa, oltre alle
vedute, anche le luci.
Sul significato del termine “edifici”,
esso va ragionevolmente inteso come “edificato”
ed indipendentemente dalla destinazione
dello stesso, avuto riguardo alla
evidenziata finalità della disposizione
(nella specie, risulta rilevante la
inferiore distanza, rispetto al prescritto
limite minimo, tra il muro di cui alla nuova
edificazione e la parete finestrata).
Circa la “novità” della costruzione,
va osservato che nella specie è stato
realizzato un organismo edilizio diverso da
quello preesistente per volumetria, sagoma e
dislocazione nel lotto: basti fare
riferimento alla rappresentazione grafica
contenuta nella memoria dell’appellato
depositata in vista dell’udienza di
discussione della causa per percepire con
immediatezza la diversità del realizzato
rispetto al preesistente relativamente agli
elementi sopra indicati (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.06.2009 n. 4015 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di distanze nelle costruzioni, nel caso
di trasformazione del tetto in terrazzo,
munito di riparo o ringhiera, che venga a
trovarsi a distanza inferiore a quella
legale rispetto all'altrui fondo, il comodo
affaccio esercitabile su di questo
costituisce turbativa del possesso del
vicino. Tale possesso è reclamabile con
l'azione di manutenzione ed alla predetta
turbativa è possibile porre rimedio con
l'esecuzione di opere idonee, secondo
l'insindacabile apprezzamento del giudice di
merito in quanto sorretto da coerente
motivazione, ad evitare l'affaccio a
distanza inferiore a quella legale.
In tema di distanze
legali, sono da ritenere integrative delle
norme del codice civile solo le disposizioni
dei regolamenti edilizi locali relative alla
determinazione della distanza tra i
fabbricati in rapporto all'altezza e che
regolino con qualsiasi criterio o modalità
la misura dello spazio che deve essere
osservato tra le costruzioni, mentre le
norme che, avendo come scopo principale la
tutela d'interessi generali urbanistici,
disciplinano solo l'altezza in sé degli
edifici, senza nessun rapporto con le
distanze intercorrenti tra gli stessi,
tutelano, nell'ambito degli interessi
privati, esclusivamente il valore economico
della proprietà dei vicini; ne consegue che,
mentre nel primo caso sussiste, in favore
del danneggiato, il diritto alla riduzione
in pristino, nel secondo è ammessa la sola
tutela risarcitoria.
In linea di principio, una recente pronuncia
della Corte di Cassazione insegna che: “in
tema di distanze nelle costruzioni, nel caso
di trasformazione del tetto in terrazzo,
munito di riparo o ringhiera, che venga a
trovarsi a distanza inferiore a quella
legale rispetto all'altrui fondo, il comodo
affaccio esercitabile su di questo
costituisce turbativa del possesso del
vicino. Tale possesso è reclamabile con
l'azione di manutenzione ed alla predetta
turbativa è possibile porre rimedio con
l'esecuzione di opere idonee, secondo
l'insindacabile apprezzamento del giudice di
merito in quanto sorretto da coerente
motivazione, ad evitare l'affaccio a
distanza inferiore a quella legale”
(massima tratta da Cass. 07.05.2008 n.
11201).
In
ordine all’efficacia civilistica delle norme
urbanistiche, la giurisprudenza della
Suprema Corte si esprime nel senso che: “in
tema di distanze legali, sono da ritenere
integrative delle norme del codice civile
solo le disposizioni dei regolamenti edilizi
locali relative alla determinazione della
distanza tra i fabbricati in rapporto
all'altezza e che regolino con qualsiasi
criterio o modalità la misura dello spazio
che deve essere osservato tra le
costruzioni, mentre le norme che, avendo
come scopo principale la tutela d'interessi
generali urbanistici, disciplinano solo
l'altezza in sé degli edifici, senza nessun
rapporto con le distanze intercorrenti tra
gli stessi, tutelano, nell'ambito degli
interessi privati, esclusivamente il valore
economico della proprietà dei vicini; ne
consegue che, mentre nel primo caso
sussiste, in favore del danneggiato, il
diritto alla riduzione in pristino, nel
secondo è ammessa la sola tutela
risarcitoria” (massima tratta da Cass.
16.01.2009 n. 1073. (Corte
d'Appello di Firenze, Sez. I civile,
sentenza 04.06.2009 n. 758). |
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza minima assoluta di 10 metri tra
pareti finestrate è volta non alla tutela
del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa
ed inderogabile.
Tale norma sulle distanza, infine, non è
derogabile neanche pattiziamente dai
privati.
Carattere pregiudiziale ed assorbente
riveste in merito la censura di violazione
del D.M. 02.04.1968, n. 1444, con la quale
la parte istante si è lamentata nella
sostanza del fatto che la nuova costruzione
non rispetta la distanza minima di 10 metri
tra pareti finestrate.
Premesso che l’art. 9 di tale D.M. dispone
che le nuove costruzioni debbono rispettare
la distanza minima assoluta di 10 metri tra
pareti finestrate e che è consentito
derogare a tale prescrizione nelle zone "A"
solo relativamente alle operazioni di
risanamento conservativo ed alle
ristrutturazioni, in quanto in tali zone
vige il generale divieto di costruzioni “ex
novo” (Cass. Civ., sez. II, 20.05.2008, n.
12767), va osservato che tale prescrizione
-come costantemente chiarito dalla
giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. St.,
sez. IV, 12.06.2007, n. 3094)- è volta non
alla tutela del diritto alla riservatezza,
bensì alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque,
tassativa ed inderogabile.
Tale prescrizione per la sua funzione
igienico-sanitaria di evitare intercapedini
malsane costituisce, invero, un principio
inderogabile della materia e prevale sia
sulla potestà legislativa regionale, in
quanto integra la disciplina privatistica
delle distanze, sia sulla potestà
regolamentare e pianificatoria dei comuni,
in quanto deriva da una fonte normativa
statale sovraordinata, e sia infine
sull’autonomia negoziale dei privati, in
quanto tutela interessi pubblici che per la
loro natura igienico-sanitaria non sono
nella disponibilità delle parti (TAR
Lombardia, sez. Brescia, 03.07.2008, n.
788); in particolare, come anche questa
stessa Sezione ha anche di recente precisato
(con sentenza 24.11.2007, n. 903), tale
disposizione comporta che, ove lo strumento
urbanistico contenga disposizioni
contrastanti, il giudice deve non solo
disapplicare tali disposizioni illegittime,
ma anche applicare direttamente la
disposizione del ricordato art. 9, divenuta,
per inserimento automatico, parte integrante
dello strumento urbanistico in sostituzione
della norma illegittima disapplicata. Tale
norma sulle distanza, infine, non è
derogabile neanche pattiziamente dai privati
(TAR Sicilia, sez. Catania, sez. I,
26.06.2008, n. 1232)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 11.05.2009 n. 336 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
pareti finestrate -circa il rispetto della
distanza minima di mt. 10 di cui al D.M.
1444/1968- devono intendersi non soltanto le
pareti munite di "vedute" ma, più in
generale, tutte le pareti munite di aperture
di qualsiasi genere verso l'esterno, quali
porte, balconi, finestre di ogni tipo (di
veduta o di luce), essendo sufficiente che
sia finestrata anche una sola delle due
pareti.
Come la
Sezione ha già recentemente affermato, è
cogente il disposto di cui all’art. 9 del
D.M. n. 1444/1968 che ha natura di fonte
inderogabile anche da parte dei regolamenti
locali e prevale anche su eventuali difformi
disposizioni regolamentari locali (TAR
Piemonte, Sez. I, 10.10.2008, n. 2565)
essendo dettata dall’esigenza di tutelare
interessi pubblici superindividuali.
Ne consegue che la necessità del rispetto
degli standard in materia di distanze,
contemplati dalla predetta norma di fonte
primaria, è elevata a precetto inderogabile
dalla seconda parte dell’art. 32, comma 27,
lett. d), del D.L. n. 269/2003, là dove viene
sancita la non sanabilità delle opere
abusive “non conformi alle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici”.
E’ di palmare evidenza e di cristallina
chiarezza, a parere della Sezione, che il
riferimento contenuto nella norma appena
riportata alle “norme urbanistiche” va
sicuramente esteso alla disposizione di cui
all’art. 9 del D.M. cit. che impone il
rispetto della distanza minima di metri 10
tra pareti finestrate, all’uopo bastando,
come pure ha rilevato il Tribunale con la
ricordata recente sentenza, che sia
finestrata una sola delle due pareti,
indifferentemente del ricorrente o del controinteressato e che per pareti
finestrate “devono intendersi, non soltanto
le pareti munite di "vedute", ma più in
generale tutte le pareti munite di aperture
di qualsiasi genere verso l'esterno, quali
porte, balconi, finestre di ogni tipo (di
veduta o di luce), essendo sufficiente
che sia finestrata anche una sola delle due
pareti” (TAR Piemonte, Sez. I,
10.10.2008, n. 2565)
(TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.04.2009 n. 987 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre
rientrano nella categoria delle sporgenze,
non computabili ai fini delle distanze,
soltanto gli elementi con funzione meramente
ornamentale, di rifinitura od accessoria,
come le mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili,
costituiscono corpi di fabbrica, computabili
nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze
di particolari dimensioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se
scoperte, di apprezzabile profondità ed
ampiezza.
In tema di distanze legali fra edifici non
sono computabili le sporgenze esterne del
fabbricato che abbiano funzione meramente
ornamentale, mentre costituiscono corpo di
fabbrica le sporgenze degli edifici aventi
particolari proporzioni, come i balconi
sostenuti da solette aggettanti, anche se
scoperti, ove siano di apprezzabile
profondità e ampiezza, giacché, pur non
corrispondendo a volumi abitativi coperti,
rientrano nel concetto civilistico di
costruzione, in quanto destinati ad
estendere ed ampliare la consistenza dei
fabbricati.
Ai fini del computo delle distanze, assumono
rilievo tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità,
della stabilità e della immobilizzazione,
salvo che non si tratti di sporti ed oggetti
di modeste dimensioni con funzione meramente
decorativa e di rifinitura, tali da potersi
definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
In tema di distanze fra edifici, infatti,
per consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa, mentre
rientrano nella categoria delle sporgenze,
non computabili ai fini delle distanze,
soltanto gli elementi con funzione meramente
ornamentale, di rifinitura od accessoria,
come le mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili,
costituiscono corpi di fabbrica, computabili
nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze
di particolari dimensioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se
scoperte, di apprezzabile profondità ed
ampiezza (cfr: TAR Campania, Napoli, Sez. II,
23.04.2007 n. 4215).
Anche la Corte di Cassazione è pacificamente
orientata nel senso di ritenere che “In
tema di distanze legali fra edifici non sono
computabili le sporgenze esterne del
fabbricato che abbiano funzione meramente
ornamentale, mentre costituiscono corpo di
fabbrica le sporgenze degli edifici aventi
particolari proporzioni, come i balconi
sostenuti da solette aggettanti, anche se
scoperti, ove siano di apprezzabile
profondità e ampiezza, giacché, pur non
corrispondendo a volumi abitativi coperti,
rientrano nel concetto civilistico di
costruzione, in quanto destinati ad
estendere ed ampliare la consistenza dei
fabbricati” (Cass. Civ., Sez. II,
26.05.2006 n. 12964).
Deve quindi concludersi nel senso che, ai
fini del computo delle distanze, assumono
rilievo tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità,
della stabilità e della immobilizzazione,
salvo che non si tratti di sporti ed oggetti
di modeste dimensioni con funzione meramente
decorativa e di rifinitura, tali da potersi
definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 06.04.2009 n. 432 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra
fabbricati - Recinzioni tra costruzioni -
Irrilevanza.
La presenza di una recinzione tra due
fabbricati (nel caso di specie recinzione di
mattoni forati tra box e abitazione) non
esime dal rispetto della distanza tra
fabbricati (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
3094/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
13.03.2009 n. 1924 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La distanza minima di mt. 10,00
tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti (ex art. 9 DM 1444/1968) vincola
anche i Comuni in sede di formazione e di
revisione degli strumenti urbanistici, con
la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto
limite minimo è illegittima essendo
consentita alla Pubblica amministrazione
solo la fissazione di distanze superiori.
Questo Consesso ha già affermato che l’art.
9 D.M. 02.04.1968 n. 1444, che pone
l’inderogabile distanza minima assoluta di
10 metri tra costruzioni, trae dall’art.
41-quinquies L. 17.08.1942 n. 1150
(modificato dall’art. 17 L. 06.08.1967 n.
765) la forza di integrare con efficacia
precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché la distanza tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti,
prederminata con carattere cogente in via
generale ed astratta in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di
igiene e di sicurezza, vincola anche i
Comuni in sede di formazione e di revisione
degli strumenti urbanistici, con la
conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto
limite minimo è illegittima essendo
consentita alla Pubblica amministrazione
solo la fissazione di distanze superiori
(Cons. di Stato, sez. V, n. 6399/2006).
In particolare l’applicazione dell’art. 9
alla fattispecie edilizia dell’aumento di
volume di un edificio esistente si spiega
con l’evidente “ratio” di tutelare le
posizioni soggettive del confinante, il
quale subisce la vicinanza alla medesima
distanza originaria di un fabbricato però
maggiormente ingombrante, destinatario di un
intervento che non può essere collocato
nella categoria delle ristrutturazioni con
fedele ricostruzione, ma che, rientrando
piuttosto in quella della costruzione “ex
novo”, deve rispettare la distanza
minima stabilita dal cennato art. 9, nella
sua cennata valenza integrativa.
L’interpretazione contraria, privilegiata
dal Comune di San Bonifacio, comporterebbe
peraltro che, successivamente al varo di uno
strumento urbanistico conforme al DM n.
1444/1968, si pervenga ad una
regolamentazione derogatoria che in origine
non avrebbe potuto essere adottata ed
approvata (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.03.2009 n. 1491 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Integrazione
dell'art. 873 C.C. da parte delle norme
degli strumenti urbanistici sulle distanze.
Le prescrizioni dei piani regolatori
generali e degli annessi regolamenti
comunali edilizi, che disciplinano le
distanze nelle costruzioni anche con
riguardo ai confini, sono integrative del
codice civile, sicché il giudice, in
applicazione del principio iura novit
curia, deve acquisirne diretta
conoscenza d'ufficio, quando la violazione
di queste sia dedotta dalla parte
(massima tratta da www.lavatellilatorraca.it
- Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 02.02.2009 n. 2563). |
EDILIZIA PRIVATA: Altezza
e distanza tra le costruzioni: la sola
violazione delle altezze non comporta la
demolizione.
Sono
da ritenere integrative delle norme del
codice civile solo le disposizioni relative
alla determinazione della distanza tra
fabbricati in rapporto all'altezza e che
regolino con qualsiasi criterio o modalità
(quali la previsione di spazi liberi o il
rapporto tra altezza e distanza tra
edifici), la misura dello spazio che deve
essere osservato tra le costruzioni: in tal
caso le distanze legali sono calcolate con
riferimento all'altezza dei fabbricati. Le
norme che, invece, disciplinano solo
l'altezza in sé degli edifici, a differenza
di quelle che invece impongono l'altezza dei
fabbricati in rapporto alla distanza
intercorrente tra gli stessi, tutelano,
oltre che l'interesse pubblico di ordine
igienico ed estetico, esclusivamente il
valore economico della proprietà dei vicini,
per il che comportano, in caso di loro
violazione, il solo risarcimento dei danni.
Pertanto, nell'ambito delle norme dei
regolamenti locali edilizi, hanno carattere
integrativo delle disposizioni dettate nelle
materie disciplinate dagli art. 873 e ss.
c.c. quelle dirette a completare,
rafforzare, armonizzare con il pubblico
interesse di un ordinato assetto urbanistico
la disciplina dei rapporti intersoggettivi
di vicinato. Se violate, sussiste in favore
del danneggiato il diritto alla riduzione in
pristino.
Non rivestendo, invece, tale carattere le
norme che hanno come scopo principale la
tutela di interessi generali urbanistici,
quali la limitazione del volume,
dell'altezza e della densità degli edifici,
le esigenze dell'igiene, della viabilità, la
conservazione dell'ambiente ed altro. In
questa seconda ipotesi la tutela accordata
al privato nel caso di violazione della
norma rimane limitata al risarcimento del
danno eventualmente subito (Corte di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 16.01.2009 n.
1073). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Diniego di
intervento interdittivo da parte della P.A.
- Distanze tra i fabbricati previste
dall'art. 9 D.M. 1444/1968 - Sopraelevazione
per recupero abitativo di sottotetto -
Applicabilità - Illegittimità.
2. Diniego di
intervento interdittivo da parte della P.A.
- Risarcimento del danno - Mancanza di prova
di colpa dell'amministrazione e del danno
sofferto - Non sussiste.
1. L'art. 9 D.M. 1444/1968, pur riferendosi
ai nuovi edifici, è applicabile anche agli
interventi di sopraelevazione e dunque anche
alle ristrutturazioni che -volte al recupero
del sottotetto- comportano un incremento
dell'altezza non trascurabile del
fabbricato. La possibilità di realizzare ai
sensi della L.R. 15/1996 volumetrie aggiuntive
da destinarsi al recupero dei sottotetti in
deroga agli strumenti urbanistici non opera
in relazione alle previsioni dello strumento
urbanistico che riproducono disposizioni
normative di rango superiore, quale la
disciplina delle distanze tra fabbricati del
D.M. 1444/1968 che ha carattere inderogabile
in quanto materia inerente all'ordinamento
civile, che risponde ad esigenze
pubblicistiche sovrastanti gli interessi dei
singoli, e rientrante nella competenza
legislativa esclusiva dello Stato. Pertanto,
il provvedimento comunale che motiva la
mancata adozione di un provvedimento interdittivo delle opere oggetto di D.I.A.
per non essere il recupero abitativo di
sottotetto realizzato soggetto alle
prescrizioni dell'art. 9 D.M. 1444/1968, è
illegittimo.
2. Non è accoglibile la richiesta avanzata
dal ricorrente di risarcimento del danno
patito per il mancato intervento
interdittivo del Comune in quanto
l'imputabilità della responsabilità
all'Amministrazione non consegue al mero
dato obiettivo dell'illegittimità
dell'azione amministrativa, ma richiede
l'accertamento in concreto della colpa
dell'Amministrazione che, nel caso specie,
non è stata provata dal ricorrente (che non
ha provato neppure il danno sofferto), né
risulta aliunde (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.01.2009 n. 77). |
EDILIZIA PRIVATA:
Normative di settore - Distanze
in materia sanitaria.
Nel caso in cui il regolamento edilizio
prescriva, per il rilascio della concessione
di costruzione di porcilaie, una determinata
distanza da una sorgente, agli effetti della
verifica della legittimità dell'impugnato
diniego è ininfluente accertare se nella
specie si trattava di nuova costruzione
ovvero di mera ristrutturazione di un locale
prima destinato all'allevamento di bovini ed
ora da utilizzare per l'allevamento di
suini, atteso che non è il tipo di
intervento, ma la destinazione dell'impianto
alla produzione suinicola a imporre
l'osservanza della disciplina edilizia sulle
distanze di sicurezza (massima tratta da www.studiospallino.it -
TAR Molise, Sez. I,
sentenza 14.01.2009 n. 6
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2008 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Quesito 7 -
Sull'applicabilità anche alle "luci" e non
solo alle "vedute" della norma che impone un
distacco minimo tra le pareti finestrate di
10 metri (Geometra
Orobico n. 6/2008). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quesito 9 -
Sull'obbligo di rispettare o meno la
distanza di 10 metri tra pareti finestrate
per la sopraelevazione di un edificio che
fronteggi in altro edificio più basso già
esistente (Geometra Orobico n.
5/2008). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Berto,
Distanze tra le costruzioni e principio
della prevenzione (link a
www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
norme sulle distanze dei fabbricati
contenute nel d.m. n. 1444/1968 hanno
carattere pubblicistico ed inderogabile.
La sopraelevazione di un fabbricato
esistente costituisce nuova costruzione.
Secondo un preciso e ormai consolidato
orientamento giurisprudenziale cui la
Sezione ritiene di aderire pienamente, le
norme sulle distanze dei fabbricati
contenute nel d.m. n. 1444/1968 hanno
carattere pubblicistico ed inderogabile e
vincolano i Comuni in sede di formazione e
revisione degli strumenti urbanistici (cfr.
Cons. Stato Sez. IV 05/12/2005 n. 6909;
questa Sezione 22.06.2004 n. 2289). In
particolare, poi, quella che prescrive la
distanza minima assoluta di dieci metri tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti è un previsione che ha carattere
di assolutezza ed inderogabilità e, in
quanto derivante da fonte normativa statale,
deve considerarsi sovraordinata rispetto
agli strumenti urbanistici locali (cfr.
Cons. Stato sezione IV 12/07/2002 n. 3929;
Cass. Civ. II 07/06/1993 n. 6360; TAR
Lombardia Milano Sez. II 15/04/2003 n.
1007).
Il manufatto da
realizzarsi in sopraelevazione (un piano
abitabile) costituisce una nuova
costruzione, dacché comporta modifiche
planovolumetriche e comunque significative
innovazioni in ordine al volume, all’altezza
e alla forma del fabbricato, tali da far
meritare all’aggiuntivo piano che si va a
realizzare la natura e consistenza di una
nuova costruzione, che, come tale, ricade
nella previsione del D.M. prescrittiva
dell’osservanza del limite di distanza di 10
metri: all’uopo, nei sensi testé illustrati
depone un preciso orientamento
giurisprudenziale che il Collegio ritiene di
dover condividere (cfr. Tar Campania Napoli
Sez. II 12/04/2006 n. 3547; questa Sezione
22/01/2007 n. 55, idem 13.04.2007)
(TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 19.12.2008 n. 4160 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
distanza di 10 mt. dai fabbricati nel caso
di demolizione/ricostruzione.
La demolizione e la ricostruzione di un
fabbricato esistente, opere queste che
connotano esattamente la nozione di
ristrutturazione edilizia che, come
ripetutamente sancito in giurisprudenza
(vedi Cons. Stato Sezione 31.10.2006 n.
6464; idem Sezione V 26/05/1992 n. 464;
questa Sezione 02/07/2007 n. 1022; idem n.
662/2001) riveste un’ampia portata, da
comprendere, appunto, la demolizione
dell’immobile preesistente, la sua
successiva ricostruzione, fino
all’inserimento di un quid novi, il
tutto nel rispetto del canone legislativo di
definizione degli interventi di
ristrutturazione di cui all’originario testo
dell’art. 31 della legge n. 457 del 1978 e
alle attuali disposizioni recate dal testo
unico dell’edilizia contenuto nel DPR n. 380
del 06.06.2001 (art. 3, lettera c).
Nel caso di un
intervento edilizio consistente nella
demolizione/ricostruzione fedele di un
fabbricato non è invocabile la denunciata
violazione delle disposizioni vigenti in
materia di rispetto delle distanze di cui al
D.M. n. 1444/1968 dal momento che i limiti
imposti valgono per le nuove costruzioni e
tale non può qualificarsi l’intervento
assentito.
In altri termini, nella specie siamo in
presenza ad un intervento di
ristrutturazione edilizia in cui è stata
previsto il mantenimento del muro di confine
di proprietà in relazione al quale non
appaiono applicabili i limiti dei 10 metri
tra le pareti finestrate e dei 3 metri tra
costruzioni su fondi finitimi
(TAR Toscana, Sez. II, sentenza III,
sentenza 19.12.2008 n. 4159 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra
pareti finestrate - Portico aperto su tre
lati - Non si applicano.
Non ricorrono i presupposti per applicare
la distanza minima di 10 metri verso pareti
finestrate prevista dall'art. 9, comma 1, n. 2,
DM 02.04.1968 n. 1444, in caso di
realizzazione di un portico, destinato a
rimanere aperto su tre lati, e quindi è
inidoneo a costituire le strette
intercapedini vietate sotto il profilo
igienico-sanitario dalla suddetta norma (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia,
sentenza
11.11.2008 n.
1601 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
finestrata non solo la parete munita di
vedute ma,
più in generale, tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce).
Il Collegio condivide l’assunto della
giurisprudenza di legittimità che ha, di
recente, ribadito l’imperatività e
inderogabilità delle prescrizioni di cui al
D.M. 1444/1968, che non possono essere
disattese dalle normative urbanistiche
locali, conseguendone che “i comuni sono
obbligati -in caso di redazione o revisione
dei propri strumenti urbanistici- a non
discostarsi dalle regole fissate da tale
norma, le quali comunque prevalgono ove i
regolamenti locali siano con esse in
contrasto” (Cassazione Civile, Sez. II,
11.02.2008, n. 3199) .
Il Tribunale è anche dell’avviso che il D.M.
n. 1444/1968 sia una fonte sovraordinata
rispetto agli strumenti urbanistici, in
quanto contenente norme inderogabili, di
ordine pubblico e che in caso di contrasto
dei primi con le prescrizioni del Decreto,
il Giudice debba disapplicare i predetti
regolamenti comunali contrastanti,
applicando, in via di sostituzione, la fonte
statale imperativa (Cassazione civile, Sez.
II, 03.03.2008, n. 5741; nel senso che gli
strumenti urbanistici non possono infrangere
tali previsioni, TAR Liguria, Sez. I,
07.03.2008, n. 379).
Per la giurisprudenza è finestrata non
solo la parete munita di vedute, in quanto
“per "pareti finestrate", ai sensi
dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di
tutti quei regolamenti edilizi locali che ad
esso si richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute", ma
più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce)” (Corte
d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche
una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez.
III, 04.12.2001, n. 1734) (TAR Piemonte,
Sez. I,
sentenza 10.10.2008 n. 2565 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le distanze ex d.m. 1444/1968 non
si applicano tra edifici posti in zone
omogenee diverse.
L’articolo 9 del DM n. 1444/1968 non si
applica tra fabbricati posti l’uno in zona
omogenea A, l’altro in zona omogenea B,
poiché diversamente dovrebbe affermarsi, in
modo illogico e contrario alla disposizione
del D.M. citato, l'ultrattività delle
maggiori distanze di 10 mt., anche nella
zona A (TRIBUNALE di Como, Sez. distaccata
di Menaggio,
ordinanza 10.10.2008 - link a
www.cameramministrativacomo.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le terrazze non devono rispettare la distanza minima di mt. 10,00
tra pareti finestrate.
Il Collegio osserva, infatti, che le terrazze non possono venire
considerate ai fini del calcolo delle distanze tra pareti finestrate,
non essendo sussumibili nel paradigma dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968,
n. 1444 richiamato dagli istanti (decreto recante: “Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i
fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività
collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della
formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti, ai sensi dell'art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765”): ed
invero, la terrazza, priva di qualsiasi manufatto, non conta in alcun
modo ai fini delle distanze qui in esame, essendo palese che i distacchi
individuati dal suddetto decreto sono da calcolarsi tra le pareti degli
edifici propriamente dette.
La disposizione testé citata così recita:
“9. Limiti di distanza tra i fabbricati. Le distanze minime tra
fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come
segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le
eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono
essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati
preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di
epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi
la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici
antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto;
la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora
gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano interposte strade
destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a
fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti)- debbono
corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
-
ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
-
ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
-
ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino
inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono
maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza
stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti
commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano
volumetriche”.
Il punto 2) dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 prescrive “in tutti
i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti”: nel caso di specie la distanza
contestata non è tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”,
bensì tra una veranda ed una parete
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 04.08.2008 n. 422 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
distanza minima di mt. 10,00 tra fabbricati che si applica non solo alle
"vedute" ma anche alle "luci".
Le norme del regolamento edilizio si applicano a prescindere dal
richiamo che ne facciano le altre disposizioni di natura
edilizio-urbanistica, e ciò in quanto il R.E.C. disciplina in generale
l’attività edilizia e quindi pone precetti che sono validi in qualsiasi
zona del territorio, salvo deroghe espresse. E la norma che impone
distacchi minimi tra fabbricati è una norma di portata generale,
considerata la ratio che è alla base della disposizione in parola
(ossia, quella di evitare le c.d. intercapedini dannose).
Non si può ritenere che la norma che impone un distacco minimo tra
pareti finestrate presuppone l’esistenza solo di “vedute”, in quanto la
fruibilità dell’immobile è intaccata anche quando viene violata la
distanza minima fra “luci” (riducendosi in questo caso l’illuminazione
naturale all’interno dell’edificio) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.07.2008 n. 2058
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul rispetto o meno dei 10 mt. tra pareti finestrate nel caso di
ristrutturazione edilizia con sopralzo e nel caso si interponga una
strada pubblica.
Il progetto del piano di recupero prevede la realizzazione di un
sopralzo dell’edificio da ristrutturare in parziale corrispondenza di
una parete finestrata posta a una distanza inferiore a 10 metri. Questa
previsione progettuale contrasta con l’art. 9, comma 1 n. 2, del DM
1444/1968, il quale impone per gli edifici realizzati al di fuori della
zona A una distanza minima di 10 metri dalle pareti finestrate. La
giurisprudenza ha chiarito che questa norma per la sua genesi (è stata
adottata ex art. 41-quinquies comma 8 della legge 17.08.1942 n. 1150,
come introdotto dall’art. 17 della 06.08.1967 n. 765) e per la sua
funzione igienico-sanitaria (evitare intercapedini malsane) costituisce
un principio inderogabile della materia. In particolare si tratta di una
norma che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto
integra la disciplina privatistica delle distanze (v. C.Cost. 16.06.2005
n. 232, punto 4, con le eccezioni ivi previste), sia sulla potestà
regolamentare e pianificatoria dei comuni, in quanto deriva da una fonte
normativa statale sovraordinata (v. Cass. civ. Sez. II 31.10.2006 n.
23495), sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto
tutela interessi pubblici che per la loro natura igienico-sanitaria non
sono nella disponibilità delle parti (v. CS Sez. IV 12.06.2007 n. 3094).
Più in dettaglio si osserva che l’art. 9, comma 1 n. 2, del DM 1444/1968
si applica a tutti gli interventi edilizi che abbiano il contenuto
sostanziale di costruzione, e quindi anche alle ristrutturazioni con
ampliamento del volume e della superficie (v. Cass. civ. Sez. II
28.09.2007 n. 20574). Il fatto che l’edificio preesista e venga
sopraelevato non dà diritto a mantenere l’allineamento acquisito. Una
simile conclusione potrebbe essere ammissibile solo in circostanze
particolari, quando l’allineamento corrisponda a un interesse pubblico
autonomo e attinente all'assetto urbanistico complessivo di una zona
urbanistica (v. ancora C.Cost. 16.06.2005 n. 232, punto 4). Nel caso in
esame un tale interesse non è evidenziato, e dunque è necessario
disapplicare l’art. 22 comma 16 delle NTA che consente la
sopraelevazione sugli allineamenti esistenti senza tenere in
considerazione la presenza di pareti finestrate.
L’art. 9 comma 1 n. 2 del DM 1444/1968 è applicabile anche quando tra le
pareti finestrate (o tra una parete finestrata e una non finestrata) si
interponga una via pubblica. La fattispecie è regolata dal comma 2 del
medesimo art. 9, che prescrive in questo caso distacchi maggiorati in
relazione alla larghezza della strada. L’esclusione della viabilità a
fondo cieco prevista nella stessa norma va riferita alle maggiorazioni e
non alla distanza minima di 10 metri, che rimane inderogabile a
salvaguardia delle esigenze igienico-sanitarie. In presenza di pareti
finestrate poste a confine con la via pubblica non è quindi mai
ammissibile la deroga prevista dall’art. 879 comma 2 c.c. per le
distanze tra edifici e dall’art. 905 comma 3 c.c. per le vedute (v. CS
Sez. IV 19.06.2006 n. 3614). Per imporre l’obbligo di arretramento è
sufficiente che anche solo una porzione del nuovo edificio (o del
sopralzo) fronteggi la parete finestrata. Occorre peraltro stabilire
fino a che punto si spinga tale obbligo. Trattandosi di edifici con
altezze diverse la giurisprudenza afferma che vi è sempre obbligo di
arretramento anche se la nuova costruzione sia mantenuta a una quota
inferiore a quella delle finestre antistanti e a una distanza dalla
soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907 comma 3 c.c. (v.
Cass. civ. Sez. II 31.10.2006 n. 23495). L’obbligo di rispettare la
distanza è stato affermato anche nel caso di edifici che si fronteggiano
con pareti aventi andamento non parallelo (v. Cass. civ. Sez. II
30.03.2001 n. 4715). Nel caso in esame tuttavia una parte dell’edificio
rialzato non fronteggia in orizzontale alcuna parete è dunque con
riguardo a questa porzione l’arretramento costituirebbe una misura
sproporzionata, quantomeno se il risultato complessivo consentisse di
escludere la formazione di un’intercapedine. Questo non esime però dal
rispetto della distanza nei punti in cui esiste una parete finestrata, e
dunque è necessario che l’intero progetto sia rivisto.
La presenza di una via pubblica consente la deroga alle norme sulle
distanze tra gli edifici ma non incide sull’applicazione, che rimane
necessaria, dell’art. 9 comma 1 n. 2 del DM 1444/1968. La qualificazione
del vicolo chiuso come via pubblica non consente quindi al Comune di
concedere una deroga alla distanza di 10 metri dalle pareti finestrate.
La questione della natura pubblica o privata dell’area rimane peraltro
rilevante al più limitato fine di individuare le possibilità di
utilizzazione da parte della controinteressata (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 03.07.2008 n. 788
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
balcone aggettante deve essere conteggiato al fine del rispetto dei 10
mt. tra pareti finestrate.
I seguenti principi sono stati più volte affermati da questa Corte:
- nel calcolo delle distanze fra le costruzioni devono trascurarsi
soltanto quegli sporti che non siano idonei a determinare intercapedini
dannose o pericolose, consistendo in sporgenze di limitata entità, con
funzione meramente decorativa, mentre vengono in considerazione le
sporgenze costituenti, per i loro caratteri strutturali e funzionali,
veri e propri aggetti, implicanti, perciò, un ampliamento dell'edificio
in superficie e volume, come, appunto, i balconi formati da solette
aggettanti (anche se scoperti) di apprezzabile profondità, ampiezza e
consistenza (sentenze 27/07/2006 n. 17089; 31/05/2006 n. 12964;
25/03/2004 n. 5963; 02/10/2000 n. 13001; 18/06/1998 n. 5719);
- la concessione edilizia ha il limitato fine di rimuovere un ostacolo
pubblicistico alla esplicazione del diritto di edificare e la sanatoria
(cosiddetto condono edilizio) attiene esclusivamente alla
regolarizzazione delle opere dal punto di vista amministrativo, penale e
fiscale, senza però incidere nei rapporti fra privato costruttore e i
suoi vicini, che conservano il diritto di ottenere il risarcimento del
danno e, in ipotesi di violazione delle norme sulle distanze, la
riduzione in pristino (sentenze 23/11/1999 n. 12984; 22/07/1999 n. 7892;
22/03/1999 n. 2658);
- nell'ambito delle opere edilizie, la semplice "ristrutturazione" si
verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente
interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e,
all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali,
quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre
è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell'edificio preesistente
siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione,
dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle
stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria
sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in
ipotesi di "nuova costruzione", da considerare tale, ai fini del computo
delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli
strumenti urbanistici locali (sentenze 27/04/2006 n. 9637; 15/07/2003 n.
11027; 26/10/2000 n. 14128);
- in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi
dell'art. 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo
calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume
edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché il D.M.
02.04.1968, art. 9, applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla
legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, come modificata dalla L.
06.08.1967, n. 765, stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti
finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca
un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga
conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo
dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare
una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco
voluto dalla cd. legge ponte (sentenza 27/07/2006 n. 17089)
(Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 20.06.2008 n. 16950). |
EDILIZIA PRIVATA:
DISTANZE TRA FABBRICATI -
NORMATIVA APPLICABILE – INAPPLICABILITA’ IN
RIFERIMENTO AD UNA PUBBLICA VIA -
PRESUPPOSTI.
…l'esonero dal rispetto delle distanze
legali previsto dall'art. 879, comma 2, c.c.
per le costruzioni a confine con le piazze e
vie pubbliche, vada riferito anche alle
costruzioni a confine delle strade di
proprietà privata gravate da servitù
pubbliche di passaggio, attenendo il
carattere pubblico della strada -rilevante
ai fini dell'applicazione della norma
citata- più che alla proprietà formale del
bene all'uso concreto di esso da parte della
collettività ….
…anche una strada privata poteva assumere
una connotazione pubblicistica rilevante ex
art. 879 cit. laddove essa fosse stata
effettivamente asservita ad uso pubblico e
tale uso avesse trovato titolo, se non in
una convenzione tra i proprietari del suolo
stradale e l'ente pubblico, in una
protrazione di fatto del medesimo per il
tempo necessario alla relativa usucapione (Tribunale
di Nola, Sez. II civile,
sentenza 17.06.2008 - link a
www.iussit.eu). |
EDILIZIA PRIVATA: A.
Rinaldi,
Le
distanze tra profili amministrativi, edilizi e civilistici
(link a www.greenlex.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sopraelevazione di un fabbricato che fronteggi un altro edificio
esistente più basso deve, comunque, rispettare la distanza minima di mt.
10,00.
Il Collegio ritiene condivisibile l’orientamento Giurisprudenziale
secondo il quale le previsioni di cui all’art. 9 DM 1444/1968 traggono
dall’art. 41-quinquies L. 1150/1942 la forza di integrare con efficacia
precettiva le eventuali norme regolamentari contrastanti, che pertanto
possono essere disapplicate anche in mancanza di specifica impugnativa.
L’art. 2.18 delle NTA, come si è visto, impone il rispetto di una
distanza tra fabbricati non inferiore a quella intercorrente tra i
volumi preesistenti, ma tale distanza può risultare inferiore a 10
metri: trattasi pertanto di norma illegittima, suscettibile di essere
disapplicata siccome contrastante con l’art. 9 del DM 1444/1968, nella
parte in cui implicitamente consente che pareti finestrate di nuove
costruzioni possano essere realizzate ad una distanza inferiore a dieci
metri rispetto a fabbricati già esistenti.
La distanza tra fabbricati imposta dall’art. 9 del DM 1444/1968 è, come
noto, assolutamente inderogabile, in quanto finalizzata a garantire
igiene e salubrità dei fabbricati, e deve essere osservata anche se una
sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata: di guisa che non è
pensabile di superare il problema mediante accordi tra vicini o
prescrivendo, al primo che sopraeleva, di mantenere cieca la parete
prospiciente il fondo confinante: anche il tal caso, infatti, si
creerebbe una limitazione alla possibilità per il confinante di
sopraelevare a propria volta. Si deve pertanto ritenere che, seppure nel
momento in cui viene realizzata non fronteggi alcuna parete, una
sopraelevazione deve comunque essere attuata osservando sia le distanze
dai confini, ove previste; sia i dieci metri di cui all’art. 9 DM
1444/1968 dagli eventuali fabbricati –più bassi- già esistenti. Unica
eccezione può essere data nel caso in cui il proprietario del fondo
confinante, che non abbia ancora sopraelevato, rinunci a costruire in
sopraelevazione, con atto costituito nelle forme previste per la
costituzione di servitù “altius non tollendi”
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 04.06.2008 n. 1387
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Applicazione
dell'art. 9 D.M. 1444/1968.
L'art. 9, comma 1 n. 2, d.m. 02.04.1968 n.
1444 -emanato in forza dell'art.
41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto
dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765- in base
al quale la distanza tra pareti finestrate
di edifici frontisti non deve essere
inferiore a dieci metri, si riferisce alle
sole nuove edificazioni consentite in zone
diverse dal centro storico (zona A), posto
che in questo ultimo, dove vige il generale
divieto di costruzioni "ex novo", la
norma si limita a prescrivere che la
distanza non sia inferiore a quella
intercorrente tra i volumi edificati
preesistenti
(massima tratta da www.lavatellilatorraca.it
- Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 20.05.2008 n. 12767). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La distanza si conta dal balcone. Ogni «corpo
avanzato» va considerato se non è solo ornamentale. La
Cassazione allarga il concetto di costruzione ai fini del
calcolo dello spazio minimo.
Si allarga il concetto di «costruzione». E ai fini delle
distanze si calcolano anche terrazze e scale sterne.
Con la sentenza 28.09.2007 n. 20574 la Corte di Cassazione
ha affermato che ai fini dell'osservanza delle distanze
legali deve considerarsi costruzione qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato.
E ciò indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell'opera, dai caratteri del suo sviluppo volumetrico
esterno, dall'uniformità o continuità della massa, dal
materiale impiegato per la sua realizzazione e dalla sua
funzione o destinazione ... (articolo
Il Sole 24 Ore del 28.04.2008, pag. 48). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sopraelevazione di un fabbricato esistente
costituisce, a tutti gli effetti, nuova
costruzione e, come tale, deve
rispettare la distanza minima di mt. 10 dai
fabbricati circostanti.
Ai fini dell’applicazione della normativa in
materia di distanze tra edifici, per nuova
costruzione deve intendersi non solo la
realizzazione ex novo d’un fabbricato ma
anche qualsiasi modificazione nella
volumetria d’un fabbricato preesistente, che
ne comporti l’aumento della sagoma
d’ingombro, in tal guisa direttamente
incidendo sulla situazione degli spazi tra
gli edifici esistenti, e ciò anche
indipendentemente dalla realizzazione o meno
d'una maggior volumetria e/o
dall'utilizzabilità della stessa a fini
abitativi; per il che si è ripetutamente
ritenuto che la sopraelevazione, appunto,
costituisca, a tutti gli effetti, nuova
costruzione (cfr. Consiglio di Stato, V
Sezione, 14.03.1993 n. 481; Cassazione civ.,
11.06.1997 n. 5246).
Va poi aggiunto che le norme di cui al D.M.
02.04.1968, n. 1444, hanno carattere
pubblicistico e inderogabile, in quanto
dirette, più che alla tutela di interessi
privati, a quella di interessi generali in
materia urbanistica (cfr. Cassazione civ.,
II, 16.02.1996, n. 1021).
Il D.M. 02.04.1968, infatti, emanato ai
sensi dell'art. 17 della n. 765 del 1967,
trae da questa la forza di integrare con
efficacia precettiva il regime delle
distanze nelle costruzioni, sicché
l'inderogabile distanza di dieci metri tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti –ricadenti in zone territoriali
diverse dalla zona A, come nel caso di
specie, ove trattasi di zona B del P.d.F.–
vincola anche i Comuni in sede di formazione
e di revisione degli strumenti urbanistici,
con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l'anzidetto
limite minimo è illegittima (cfr. Cassazione
civ., SS.UU., 21.02.1994, n. 1645), essendo
consentita alla P.A. solo la fissazione di
distanze superiori (cfr. Consiglio di Stato,
IV Sezione, 13.05.1992, n. 511; Cassazione
civ., 29.10.1994, n. 8944).
Il Collegio
condivide il pacifico orientamento
giurisprudenziale in base al quale la norma
richiamata trova applicazione
indipendentemente dalla circostanza che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia
finestrata e che tale parete sia quella del
nuovo edificio o dell’edificio preesistente
(cfr. Cassazione civ., II Sezione,
26.01.2001, n. 1108, 03.08.1999, n. 8383;
18.02.1997, n. 1486)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 12.04.2006 n. 3547 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
normativa in materia di distanze minime che
debbono essere osservate in caso di
edificazione trova applicazione solo laddove
il confinante realizzi una “costruzione”,
non rilevando a tale fine la realizzazione
di manufatti che, per le loro
caratteristiche, non possono essere ritenute
tali.
Seppure non è contestata dal ricorrente la
circostanza che l’estradosso della parte del
seminterrato a confine con altro lotto
fuoriesce di 15 centimetri dalla recinzione
del lotto assegnato alla ditta ..., non è
logico assimilare ad una costruzione tale
parte della copertura del seminterrato.
Infatti, la normativa in materia di distanze
minime che debbono essere osservate in caso
di edificazione trova applicazione solo
laddove il confinante realizzi una “costruzione”,
non rilevando a tale fine la realizzazione
di manufatti che, per le loro
caratteristiche, non possono essere ritenute
tali.
Nel caso di specie, il Comune ritiene che la
piccola porzione della copertura del
seminterrato che fuoriesce dalla recinzione
(a causa, fra l’altro, del dislivello
esistente fra i due lotti) sia da equiparare
ad una costruzione, la qual cosa, come
detto, non appare logica, proprio a causa
del limitatissimo impatto che il manufatto è
in grado di provocare sulla proprietà
confinante
(TAR Puglia-Lecce, sez. III,
sentenza 29.03.2008 n. 910 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Violazione distanze legali tra fabbricati.
La concessione edilizia rilasciata in violazione
sulle distanze legali tra fabbricati investe anche un
rapporto pubblicistico con l’Ente territoriale a tutela di
una posizione di interesse legittimo (TAR Puglia-Lecce, Sez.
III,
sentenza 03.01.2008 n. 2
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
tra edifici - Art. 873 c.c. - Regime derogatorio per i vani
tecnici - Inconfigurabilità.
Quantunque il vano tecnico partecipi di un regime
differenziato, nel senso che esso può essere portato in
aggiunta alla volumetria massima realizzabile in fase di
progettazione dell’immobile (T.A.R Lazio II sez. 21/06/04 n.
6016; Cons. St. V sez. 23/03/1991 n. 329), ciò non significa
che il regime derogatorio riguardi anche il distacco degli
edifici. Va da sé infatti che la realizzazione di vani
tecnici a distanza minore da quella normativamente prevista
inevitabilmente comprometterebbe il raggiungimento delle
finalità perseguite dalle regole di cui all’art. 873 c.c..
Distanze tra edifici - Concessione edilizia rilasciata
in violazione dell’art. 873 c.c. - Giurisdizione ordinaria -
Giurisdizione amministrativa.
L’obbligo del rispetto della distanza minima assoluta tra
edifici (nel caso di specie imposto anche da norme
regolamentari) è inderogabile anche per la P.A preposta al
rilascio della concessione edilizia (C.G.R.S 17/05/2000 n.
240). Sicché, ferma restando la possibilità per
l’interessato di tutelare innanzi al giudice ordinario il
diritto leso dalla esecuzione di opere edilizie non conformi
alle prescrizioni di legge o degli strumenti urbanistici
(Cass. SS. UU. 12/06/1999 n. 333), deve comunque
riconoscersi altresì legittima la reazione giurisdizionale
in sede amministrativa, posto che la concessione edilizia
rilasciata in violazione sulle distanze legali tra
fabbricati investe anche un rapporto pubblicistico con
l’Ente territoriale a tutela di una posizione di interesse
legittimo (Cons. St. V sez. 13/01/2004 n. 46) (TAR
Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 03.01.2008 n. 2
- link a www.ambientediritto.it). |
anno 2007 |
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EDILIZIA PRIVATA: 1. Scelta
urbanistica volta alla tutela dell'ambiente
- Motivazione ampia - Non necessità.
2. Distanze tra
fabbricati - Limiti minimi del D.M.
02.04.1968, n. 1444 -Inderogabilità -
Ulteriori limiti di P.R.G. - Ammissibilità.
3. Condono edilizio - Coordinamento artt.
39, comma 4 della L. n. 724/1994 e art. 35,
comma 18 della L. n. 47/1985 - Sussiste -
Silenzio assenso ex art. 35, comma 18 della
L. n. 47/1985 - Ipotesi di cui all'art. 33
della L. n. 47/1985 - Inapplicabilità.
1. La scelta urbanistica dichiaratamente
destinata a tutelare l'ambiente, anche
laddove si risolve nell'imprimere ad un'area
il connotato di zona agricola o parco
privato o verde pubblico, non necessita di
una motivazione particolarmente ampia, avuto
riguardo al valore costituzionale ex art. 9
Cost. della tutela dell'ambiente.
2. Il D.M. 02.04.1968 stabilisce standards
invalicabili solo per quanto riguarda la
misura minima delle distanze tra i
fabbricati, sicché il Comune con lo
strumento urbanistico può discrezionalmente
fissare standards superiori, pur se entro
limiti ragionevoli, per scongiurare
situazioni pregiudizievoli sotto il profilo
igienico-sanitario e dell'ordinato assetto
del territorio.
3. L'art. 39, comma 4 della L. n. 724/1994
deve essere coordinato con l'art. 35, comma
18 della L. n. 47/1985 che esclude la
possibilità del silenzio assenso sulle
domande di condono nelle ipotesi di cui
all'art. 33 della L. n. 47/1985 tra le quali
rientra quella dei vincoli preordinati
all'esproprio
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 18.12.2007 n. 6675
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Solo
nel caso in cui il nuovo edificio
(demolizione/ricostruzione) non esorbita
dalle dimensioni di quello preesistente, non
trova applicazione l’art. 9 del DM
1444/1968, che è riferito alle nuove
costruzioni e che risulta applicabile, in
caso di ricostruzione di fabbricati, solo
alla parte eccedente i limiti dell’immobile
preesistente.
Il D.M. 1444/1968 ha imposto ai Comuni di
adeguare i propri strumenti urbanistici alle
prescrizioni edilizie in esso contenute, in
sede di formazione di detti strumenti o di
revisione degli stessi (TAR Emilia Romagna,
BO, sez. II, 26.05.2003, n. 645).
La giurisprudenza, con indirizzo unanime e
costante, ha chiarito che l’art. 9 del
citato DM, che non è immediatamente operante
nei rapporti tra privati, va interpretato
nel senso che l’adozione da parte degli enti
locali, di strumenti urbanistici
contrastanti con la norma, comporta
l’obbligo, per il giudice di merito, non
solo di disapplicare le disposizioni
illegittime, ma anche di applicare
direttamente la disposizione del ricordato
art. 9, divenuta, per inserimento
automatico, parte integrante dello strumento
urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata (Cass. civ., sez.
II, 19.11.2004, n. 21899; C.S., sez. IV,
05.12.2005, n. 6909).
Dalle tavole di
progetto relative allo stato futuro si
evince chiaramente che sul fronte di via
Cespa l’altezza del fabbricato da recuperare
o recuperato risulta, all’evidenza, non solo
maggiore di quella preesistente, ma presenta
diverse vedute aperte a seguito della
realizzazione del terzo piano e del quarto
piano mansardato, piani che, esorbitando
dall’altezza precedente, vanno sicuramente
qualificati come nuova costruzione e che in
quanto tali dovevano rispettare la distanza
inderogabile di 10 mt. tra pareti finestrate
di edifici che si fronteggiano, ex art. 9
del D.M. 1444/1968, per cui avrebbero dovuto
essere costruiti in arretramento.
Solo nel caso in cui il nuovo edificio non
esorbita dalle dimensioni di quello
preesistente, non trova applicazione l’art.
9 citato, che è riferito alle nuove
costruzioni e che risulta applicabile, in
caso di ricostruzione di fabbricati, solo
alla parte eccedente i limiti dell’immobile
preesistente (Cass. Civ., 25.08.1989, n.
3762; C.S., sez. IV, n. 3929/2002)
(TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 24.11.2007 n. 903 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
normativa dettata dall’art. 9 DM 1444/1968,
essendo diretta ad evitare intercapedini
nocive tra i fabbricati e a garantire
condizioni di igiene, luminosità ed aria, è
norma tassativa e inderogabile, con l’unica
eccezione, prevista dall’ultimo comma, di
edifici ricompresi in un piano
particolareggiato o di lottizzazione
convenzionata con previsioni
planivolumetriche.
La giurisprudenza ha chiarito che
l’eventuale adozione da parte degli enti
locali di strumenti urbanistici contrastanti
con l’art. 9 del DM 1444/1968, che è norma
primaria, ricevendo forza dall’art. 17 della
L. n. 765/1967 (introduttiva dell’art.
41-quinquies della L.U. 1150/1942), comporta
l’obbligo da parte del giudice di merito non
solo di disapplicare le disposizioni
illegittime, ma anche di applicare
direttamente la disposizione del ricordato
art. 9, divenuta, per inserzione automatica,
parte integrante dello strumento urbanistico
in sostituzione della norma illegittima
disapplicata (Cass. Civ., sez. II,
19.11.2004, n. 21899; 24.01.2006, n. 1282;
C.S., sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
La normativa dettata dall’art. 9, essendo
diretta ad evitare intercapedini nocive tra
i fabbricati e a garantire condizioni di
igiene, luminosità ed aria, è norma
tassativa e inderogabile, con l’unica
eccezione, prevista dall’ultimo comma, di
edifici ricompresi in un piano
particolareggiato o di lottizzazione
convenzionata con previsioni
planivolumetriche (TAR Liguria, GE, sez. I,
12.02.2004, n. 145; 14.01.2005, n. 38)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 24.11.2007 n. 900 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nozione
di parete finestrata e distanza tra
fabbricati.
In tema di distanze tra le costruzioni,
l'art. 9 n. 2 d.m. 02.04.1968 n. 1444
prescrive, con disposizione tassativa ed
inderogabile, la distanza minima assoluta di
10 metri tra i fabbricati anche nel caso in
cui solo una delle pareti antistanti risulti
finestrata e non entrambe (massima tratta da
www.lavatellilatorraca.it - Corte di
Cassazione, Sez. II civile, 26.10.2007 n.
22495). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Concessione edilizia - Distanze dei fabbricati.
Per giurisprudenza costante le norme sulle distanze dei
fabbricati contenute nel D.M. n. 1444/1968, a differenza di
quelle sulle distanze dai confini, derogabili mediante una
convenzione tra privati, hanno carattere pubblicistico ed
inderogabile, in quanto dirette, più che alla tutela di
interessi privati, a quella di interessi generali in materia
urbanistica (T.A.R. Liguria, Sez. I, n. 1711/2006 cit.) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.10.2007 n.
6128 -
massima tratta da www.solom.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre
ai fini dell’osservanza delle norme sulle
distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c.
e dalle disposizioni dei regolamenti locali
da esso richiamate, deve farsi riferimento
alle costruzioni che, essendo erette sopra
il suolo, ne sporgano stabilmente (essendo
escluse dal rispetto delle distanze legali
soltanto i manufatti completamente
interrati), viceversa ai fini del rispetto
delle norme contenute nei regolamenti
edilizi, che stabiliscono le distanze tra le
costruzioni e di esse dal confine, essendo
tali norme volte non solo ad evitare la
formazione di intercapedini nocive fra
edifici frontistanti, ma anche a tutelare
l’assetto urbanistico di una data zona e la
densità degli edifici in relazione
all'ambiente, ciò che rileva è la distanza
in sé delle costruzioni a prescindere dal
loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello
dei fondi su cui insistono.
La giurisprudenza (Cass. civ., sez. II,
04.10.2005, n. 19350), con riferimento alla
necessità di rispettare la distanza dai
confini, ha già avuto modo di chiarire che
mentre ai fini dell’osservanza delle norme
sulle distanze legali stabilite dall’art.
873 c.c. e dalle disposizioni dei
regolamenti locali da esso richiamate, deve
farsi riferimento alle costruzioni che,
essendo erette sopra il suolo, ne sporgano
stabilmente (essendo escluse dal rispetto
delle distanze legali soltanto i manufatti
completamente interrati), viceversa ai fini
del rispetto delle norme contenute nei
regolamenti edilizi, che stabiliscono le
distanze tra le costruzioni e di esse dal
confine, essendo tali norme volte non solo
ad evitare la formazione di intercapedini
nocive fra edifici frontistanti, ma anche a
tutelare l’assetto urbanistico di una data
zona e la densità degli edifici in relazione
all'ambiente, ciò che rileva è la distanza
in sé delle costruzioni a prescindere dal
loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello
dei fondi su cui insistono
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 18.10.2007 n. 819 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Distanze tra fabbricati - Demolizione e ricostruzione
fedele - Distanza preesistente, inferiore alla distanza
minima tra fabbricati.
La conservazione della distanza preesistente, inferiore alla
distanza minima tra fabbricati prescritta dal decreto
ministeriale n. 1444/1968, può ritenersi ammissibile nei soli
casi di demolizione e ricostruzione fedele (quantomeno nelle
medesime dimensioni esterne), configurandosi in tal caso non
una nuova costruzione, ma un recupero edilizio realizzato
con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione
straordinaria; nessuna deroga è ammissibile, viceversa, nel
caso in cui, previa demolizione di un edificio preesistente,
venga ricostruito al suo posto un fabbricato completamente
diverso (cfr. Cons. Stato IV 12.07.02 n. 3929) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.10.2007 n. 5831 -
massima tratta da www.solom.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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EDILIZIA PRIVATA: La
disciplina delle distanze tra costruzioni su
fondi finitimi è applicabile anche alle
sopraelevazioni di edifici preesistenti.
In materia edilizia, la disciplina delle
distanze tra costruzioni su fondi finitimi è
applicabile anche alle sopraelevazioni di
edifici preesistenti, le quali rappresentano
a tutti gli effetti delle nuove costruzioni,
considerato che ogni intervento destinato a
creare nuovi volumi deve essere ricondotto
al concetto di “nuovo edificio”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.09.2007 n. 4826 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Lombardia, sulla questione del
recupero dei sottotetti ex L.R. n. 12/2005.
Sulla distanza minima di mt. 10 tra pareti
finestrate.
L’art. 873 del c.c. rubricato “Distanze
nelle costruzioni” stabilisce che “Le
costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a
distanza non minore di tre metri. Nei
regolamenti locali può essere stabilita una
distanza maggiore”.
La disposizione è stata interpretata nel
senso che le norme del piano regolatore
generale e quelle tecniche di attuazione
dello stesso –che fissano la distanza tra le
costruzioni facendo riferimento alla
distanza dal confine– sono integrative delle
norme del codice civile ed hanno carattere
assoluto e non derogabile dai privati (Corte
di Cassazione, sez. II civile – 09/06/1999
n. 5666), in quanto volte a salvaguardare
sia l’interesse della collettività locale ad
un migliore assetto dell'agglomerato urbano
sia l’aspirazione dei singoli a fruire di un
distacco congruo dalle proprietà limitrofe:
esse dunque tendono a regolare i rapporti
tra residenti su fondi finitimi in modo equo
e fanno sorgere a favore del soggetto
danneggiato da una nuova costruzione il
diritto di chiedere la riduzione in pristino
ai sensi dell’art. 872 c.c. (Corte di
Cassazione, sez. II civile – 10/04/2001 n.
10471).
E’ stato peraltro rilevato che
l’applicazione della sanzione della
riduzione in pristino, richiesta dal vicino
danneggiato dalla costruzione realizzata a
distanza non legale, consegue ipso iure alla
violazione della norma, la quale non lascia
al giudice alcun margine di apprezzamento in
ordine ai pregiudizi prodotti dalla sua
inosservanza (Corte di Cassazione, sez. II
civile – 11/01/2006 n. 213).
In definitiva i regolamenti locali
richiamati dall'art. 873 del c.c., i quali
stabiliscono una distanza maggiore di tre
metri per le costruzioni sui fondi finitimi,
attribuiscono a ciascun proprietario un
diritto soggettivo perfetto al rispetto
della maggiore distanza, il quale è
tutelabile, in caso di inosservanza, sia con
la riduzione in pristino sia con il
risarcimento del danno (Corte di Cassazione,
sez. II civile – 06/12/1984 n. 6402; sez.
unite civili – 18/06/1985 n. 3659).
Deve altresì essere puntualizzato che le
sopraelevazioni, ai fini del rispetto delle
distanze, rientrano nella nozione di nuova
costruzione, la quale comprende qualsiasi
modifica della volumetria di un fabbricato
preesistente che comporti l'aumento della
sagoma d'ingombro in guisa da incidere
direttamente sulla situazione di distanza
tra edifici ed indipendentemente dalla sua
utilizzabilità ai fini abitativi (cfr. ex
plurimis Corte di Cassazione, sez. II civile
– 12/01/2005 n. 400; 05/07/2000 n. 8954;
24/05/2000 n. 6809).
Il panorama normativo si è arricchito in
seguito alla riforma del titolo V della
Costituzione. Per effetto di essa il
“governo del territorio” è divenuta materia
a competenza legislativa ripartita tra Stato
e Regione (cfr. nuovo art. 117) e lo Stato
esercita la propria potestà dettando
soltanto i principi fondamentali.
In materia di sottotetti è da ultimo
intervenuta la L.r. 11/03/2005 n. 12 ai
sensi della quale “La Regione promuove il
recupero a fini abitativi dei sottotetti
esistenti con l'obiettivo di contenere il
consumo di nuovo territorio e di favorire la
messa in opera di interventi tecnologici per
il contenimento dei consumi energetici”
(art. 63 comma 1), mentre “Si definiscono
sottotetti i volumi sovrastanti l'ultimo
piano degli edifici dei quali sia stato
eseguito il rustico e completata la
copertura” (art. 63 comma 1-bis).
Il successivo art. 64 stabilisce al comma 1
che “Gli interventi edilizi finalizzati al
recupero volumetrico dei sottotetti possono
comportare l'apertura di finestre,
lucernari, abbaini e terrazzi …, nonché, …
modificazioni delle altezze di colmo e di
gronda e delle linee di pendenza delle
falde, purché nei limiti di altezza massima
degli edifici posti dallo strumento
urbanistico ed unicamente al fine di
assicurare i parametri di cui all'articolo
63, comma 6” (altezza media ponderale di m.
2,40). Aggiunge al comma 2 che “Il recupero
ai fini abitativi dei sottotetti esistenti è
classificato come ristrutturazione edilizia
ai sensi dell'articolo 27, comma 1, lettera
d). Esso non richiede preliminare adozione
ed approvazione di piano attuativo ed è
ammesso anche in deroga ai limiti ed alle
prescrizioni degli strumenti di
pianificazione comunale vigenti ed adottati,
…”.
Osserva il Collegio anzitutto che ogni
questione che coinvolge le relazioni tra
privati individui appartiene all’ampia
materia dell’ordinamento civile, enucleata
dall’art. 117 Cost. e riservata alla
competenza esclusiva dello Stato.
Ad avviso dei ricorrenti la normativa
regionale citata opererebbe in deroga al
regime delle distanze, precludendo a priori
alle amministrazioni locali di stabilire
misure superiori allo “standard” di 3 metri
fissato dal codice civile.
Una simile impostazione non può essere
condivisa dal Collegio, anche alla luce
della significativa pronuncia della Corte
costituzionale 16/06/2005 n. 232 sui
rapporti tra potestà statale e potestà
regionale in materia.
Secondo la Corte, con riferimento alla
disciplina delle distanze tra fabbricati
l’attribuzione alle Regioni di competenza
concorrente in materia di governo del
territorio interferisce con l’ordinamento
civile di spettanza esclusiva dello Stato, e
in tale contesto “le Regioni devono
esercitare le loro funzioni nel rispetto dei
principi della legislazione statale”.
Il primo principio, fissato in epoca
risalente, “è che la distanza minima sia
determinata con legge statale, mentre in
sede locale, sempre ovviamente nei limiti
della ragionevolezza, possono essere
soltanto fissati limiti maggiori”.
In secondo luogo, l'ordinamento statale
consente deroghe alle distanze con normative
locali, “purché però siffatte deroghe siano
previste in strumenti urbanistici funzionali
ad un assetto complessivo ed unitario di
determinate zone del territorio”. Tali
principi si ricavano dall'art. 873 cod. civ.
e dall'ultimo comma dell'art. 9 del D.M.
1444/1968 ai sensi del quale “Qualora le
distanze tra fabbricati, come sopra
computate, risultino inferiori all'altezza
del fabbricato più alto, le distanze stesse
sono maggiorate fino a raggiungere la misura
corrispondente all'altezza stessa. Sono
ammesse distanze inferiori a quelle indicate
nei precedenti commi, nel caso di gruppi di
edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
L’ipotesi prospettata riguarda ad es. Piani
particolareggiati, Piani di recupero o Piani
di lottizzazione, strumenti di
pianificazione che hanno la funzione di
determinare un ordinato assetto di un ambito
individuato o di una zona identificata del
territorio comunale.
In ogni caso secondo la Corte Costituzionale
i suindicati limiti alla possibilità di
fissare distanze difformi da quelle previste
dalla normativa statale “trovano la loro
ragione nel rilievo che le deroghe, per
essere legittime, devono attenere agli
assetti urbanistici e quindi al governo del
territorio e non ai rapporti tra vicini
isolatamente considerati in funzione degli
interessi privati dei proprietari dei fondi
finitimi”.
Al riguardo la normativa regionale invocata
è chiaramente ispirata al principio di
favore per il recupero dei sottotetti,
perseguendo l’interesse pubblico di evitare
il consumo di nuovo territorio, e dunque
estende il proprio raggio di applicazione a
tutte le zone residenziali o comunque
abitate e non limita la propria portata a
particolari aree o ambiti. Non sembra
viceversa che il legislatore regionale abbia
inteso incidere sulle relazioni
intersoggettive tra privati, rispetto alle
quali la disciplina sui sottotetti non può
interferire dovendo arrestarsi di fronte ai
limiti invalicabili dell’ordinamento civile,
di competenza esclusiva dello Stato.
In quest’ottica i Comuni esercitano una
potestà straordinaria ed integrano una norma
di rango statale con efficacia immediata sui
rapporti tra privati individui, introducendo
regole riconosciute e tutelate dal diritto
comune, e in questo senso l’art. 873 del
c.c. è norma di rinvio dinamico (o mobile)
che fa riferimento alla fonte richiamata,
ossia ai regolamenti locali abilitati a
stabilire la misura delle distanze.
La “doppia funzione” di tale disposizione
–che appunto tutela sia l'interesse dei
privati alla fruizione di un distacco
congruo sia quello della collettività ad un
ordinato assetto del territorio– comporta
che, anche ammettendo una potestà
derogatoria in capo alla Regione in merito
ai profili urbanistici, la stessa
incontrerebbe un ostacolo ineludibile
rappresentato dai puntuali diritti
soggettivi dei singoli, la cui fonte è
rintracciabile in una norma statale
inderogabile. In definitiva alla Regione è
preclusa ogni ingerenza nei rapporti
interprivatistici, ai quali la disciplina
delle distanze tra costruzioni attiene in
via primaria e diretta.
Nella specie la Regione non può in buona
sostanza incidere sui diritti soggettivi che
traggono origine dal binomio norma statale-regolamento locale, secondo un atipico
sistema di fonti che non sovverte il
principio di gerarchia ma rappresenta oggi
la logica traduzione del principio di
sussidiarietà, il quale impone che
l’esercizio delle funzioni pubblicistiche
–nel loro momento decisionale ed attuativo–
debba essere riservato al livello
istituzionale che presenta la maggiore
prossimità con i cittadini, salve le ipotesi
che richiedono necessariamente la competenza
del livello successivo e più ampio:
espressione del principio di sussidiarietà è
infatti il canone secondo cui il potere
centrale non deve intervenire quando
l’autorità periferica è in grado di curare
efficacemente i propri interessi.
E’ evidente che in materia di distanze tra
costruzioni il legislatore nazionale ha
ritenuto giustificato il diretto intervento
del pianificatore locale per la sua
conoscenza del territorio e dei fabbisogni
dei singoli (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza
30.08.2007 n. 834 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Lombardia, sulla questione del
recupero dei sottotetti ex L.R. n. 12/2005.
Sulla distanza minima di mt. 10 tra pareti
finestrate.
L’art. 9 del D.M. 02/04/1968 n. 1444,
rubricato “Limiti di distanza tra i
fabbricati” stabilisce testualmente al comma
1 che “Le distanze minime tra fabbricati per
le diverse zone territoriali omogenee sono
stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento
conservativo e per le eventuali
ristrutturazioni, le distanze tra gli
edifici non possono essere inferiori a
quelle intercorrenti tra i volumi edificati
preesistenti, computati senza tener conto di
costruzioni aggiuntive di epoca recente e
prive di valore storico, artistico o
ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è
prescritta in tutti i casi la distanza
minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti;
…”
La giurisprudenza ha costantemente affermato
che il citato D.M. –emanato in virtù
dell’art. 41-quinquies della L. 1150/1942
introdotto a sua volta dall’art. 17 della L.
06/08/1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)– ripete
dal rango di fonte primaria della norma
delegante la forza di legge, suscettibile di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze dalle costruzioni di cui
all’art. 872 c.c.: la regola della distanza
di 10 metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola anche i Comuni
in sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l’anzidetto limite minimo è
illegittima e va disapplicata, essendo
consentita alle amministrazioni locali solo
la fissazione di distanze superiori (TAR
Abruzzo Pescara – 28/04/2007 n. 494;
Consiglio di Stato, sez. IV – 12/07/2002 n.
3930). E’ stato dunque introdotto un vincolo
a carattere pubblicistico ed inderogabile,
diretto non soltanto a salvaguardare
interessi privati ma anche a tutelare
interessi generali in materia urbanistica,
di igiene, decoro e sicurezza degli abitati
(cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile –
16/02/1996 n. 1201; TAR Emilia Romagna
Bologna, sez. II – 29/01/2004 n. 136).
In punto di fatto l’intervento in esame
comporta un sopralzo di 1 metro alla
distanza di 3,15 mt. da un fabbricato
antistante. In proposito si è detto che le
disposizioni di cui all'art. 9 comma 2 del
D.M. citato sono applicabili anche alle
sopraelevazioni, giacché tendono ad evitare
la creazione di intercapedini che
impediscono la libera circolazione dell'aria
con effetti produttivi di insalubrità e di
riduzione della luminosità (T.A.R. Veneto,
sez. II – 22/04/2005 n. 1778; Consiglio di
Stato, sez. V – 19/10/1999 n. 1565): in
definitiva le sopraelevazioni, ai fini del
rispetto delle distanze fra edifici,
rientrano nella nozione di nuova
costruzione, la quale comprende qualsiasi
modifica della volumetria di un fabbricato
preesistente che comporti l'aumento della
sagoma d'ingombro in guisa da incidere
direttamente sulla situazione di distanza
tra edifici ed indipendentemente dalla sua
utilizzabilità ai fini abitativi (cfr. ex
plurimis Corte di Cassazione, sez. II civile
– 12/01/2005 n. 400; 05/07/2000 n. 8954;
24/05/2000 n. 6809).
In materia di distanze legali l’art. 136 del
D.P.R. 06/06/2001 n. 380 ha mantenuto in
vigore l’art. 41-quinquies commi 6, 8, 9
della L. 1150/1942, per cui in forza
dell’art. 9 del D.M. 1444/68 la distanza
minima inderogabile di 10 metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti è
quella che tutti i Comuni sono tenuti ad
osservare, mentre il giudice è tenuto ad
applicare tale disposizione anche in
presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali, dovendosi essa
ritenere automaticamente inserita nel P.R.G.
al posto della norma illegittima. (cfr.
Corte di Cassazione, sez. II civile –
29/05/2006 n. 12741).
Osserva il Collegio anzitutto che la
disciplina civilistica delle distanze tra
costruzioni investe principalmente i
rapporti tra proprietari di fondi limitrofi,
e i loro diritti sono tutelati –in caso di
inosservanza– dall’autorità giudiziaria
ordinaria alla quale è possibile rivolgersi
anche per ottenere la riduzione in pristino
(cfr. art. 872 c.c.); è altrettanto evidente
che ogni questione che coinvolge le
relazioni tra privati individui appartiene
all’ampia materia dell’ordinamento civile,
enucleata dall’art. 117 Cost. e riservata
alla competenza esclusiva dello Stato.
Ad avviso della ricorrente la normativa
regionale sui sottotetti opererebbe in
deroga al regime delle distanze tra
fabbricati, senza che il Comune di Bovezzo
abbia ritenuto di avvalersi della facoltà di
sottrarsi alla disciplina regionale così
come consentito dall’art. 65 della L.r.
12/2005.
Una simile impostazione non può essere
condivisa dal Collegio, anche alla luce
della significativa pronuncia della Corte
costituzionale 16/06/2005 n. 232 sui
rapporti tra potestà statale e potestà
regionale in materia.
Secondo la Corte, con riferimento alla
disciplina delle distanze tra fabbricati
l’attribuzione alle Regioni di competenza
concorrente in materia di governo del
territorio interferisce con l’ordinamento
civile di spettanza esclusiva dello Stato, e
in tale contesto “le Regioni devono
esercitare le loro funzioni nel rispetto dei
principi della legislazione statale”.
Il primo principio, fissato in epoca
risalente, “è che la distanza minima sia
determinata con legge statale, mentre in
sede locale, sempre ovviamente nei limiti
della ragionevolezza, possono essere
soltanto fissati limiti maggiori”.
In secondo luogo, l'ordinamento statale
consente deroghe alle distanze minime con
normative locali, “purché però siffatte
deroghe siano previste in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto
complessivo ed unitario di determinate zone
del territorio”. Tali principi si ricavano
dall'art. 873 cod. civ. e dall'ultimo comma
dell'art. 9 del D.M. 1444/1968 ai sensi del
quale “Qualora le distanze tra fabbricati,
come sopra computate, risultino inferiori
all'altezza del fabbricato più alto, le
distanze stesse sono maggiorate fino a
raggiungere la misura corrispondente
all'altezza stessa. Sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti
commi, nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni
planovolumetriche”.
L’ipotesi prospettata riguarda ad es. Piani
particolareggiati, Piani di recupero o Piani
di lottizzazione, strumenti di
pianificazione che hanno la funzione di
determinare un ordinato assetto di un ambito
individuato o di una zona identificata del
territorio comunale.
In ogni caso secondo la Corte Costituzionale
i suindicati limiti alla possibilità di
fissare distanze inferiori a quelle previste
dalla normativa statale “trovano la loro
ragione nel rilievo che le deroghe, per
essere legittime, devono attenere agli
assetti urbanistici e quindi al governo del
territorio e non ai rapporti tra vicini
isolatamente considerati in funzione degli
interessi privati dei proprietari dei fondi
finitimi”.
Al riguardo la normativa regionale invocata
è chiaramente ispirata al principio di
favore per il recupero dei sottotetti,
perseguendo l’interesse pubblico di evitare
il consumo di nuovo territorio, e dunque
estende il proprio raggio di applicazione a
tutte le zone residenziali o comunque
abitate e non limita la propria portata a
particolari aree o ambiti. Non sembra
viceversa che il legislatore regionale abbia
inteso incidere sulle relazioni
intersoggettive tra privati, rispetto alle
quali la disciplina sui sottotetti non può
interferire dovendo arrestarsi di fronte ai
limiti invalicabili dell’ordinamento civile,
di competenza esclusiva dello Stato.
Il Collegio richiama la costante
giurisprudenza della Corte di Cassazione, la
quale ha ripetutamente affermato che le
norme degli strumenti urbanistici in materia
di distanze – sia che si riferiscano al
confine oppure all'altra costruzione – sono
destinate a tutelare sia l'interesse dei
vicini alla fruizione di un distacco
congruo, sia quello della collettività
all'instaurazione di un assetto urbanistico
sotto ogni aspetto ordinato (cfr. ex
plurimis Corte di Cassazione, sez. II civile
– 24/03/2005 n. 6401; 29/04/1999 n. 4343).
La “doppia funzione” di tali disposizioni
comporta che, anche ammettendo una potestà
derogatoria in capo alla Regione in merito
ai profili urbanistici, la stessa
incontrerebbe un ostacolo ineludibile
rappresentato dai puntuali diritti
soggettivi dei singoli, la cui fonte è
rintracciabile in una norma statale
inderogabile. In definitiva alla Regione è
preclusa ogni ingerenza nei rapporti
interprivatistici, ai quali la disciplina
delle distanze tra costruzioni attiene in
via primaria e diretta.
Sul punto esiste, infine, un precedente
specifico, ed il Tribunale adito, con
pronuncia in forma semplificata, ha
sostenuto che l’art. 64 comma 2 della L.r.
12/2005 deve interpretarsi “… nel senso che
la derogabilità non opera nei casi in cui lo
strumento urbanistico riproduce disposizioni
normative di rango superiore, a carattere
inderogabile, qual è appunto il decreto
ministeriale nella parte in cui disciplina
le distanze tra fabbricati, trattandosi di
materia inerente all’ordinamento civile e
rientrante, come tale, nella competenza
legislativa esclusiva dello Stato” (TAR Lombardia-Milano, sez. II – 26/04/2007 n.
1991) (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza
30.08.2007 n. 832 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza di 10 metri fra pareti finestrate
vincola con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e sicurezza, anche i
Comuni in sede di formazione e revisione
degli strumenti urbanistici.
L’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 che prevede la
distanza minima assoluta di 10 metri tra
costruzioni in applicazione dell’art.
41-quinquies l.u. integra con efficacia
precettiva, in forza della norma di legge
appena richiamata, il regime delle distanze
nelle costruzioni.
Sicché la distanza di 10 metri fra pareti
finestrate vincola con carattere cogente in
via generale ed astratta, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e sicurezza, anche i
Comuni in sede di formazione e revisione
degli strumenti urbanistici (cfr. Cons. St.,
sez. V, 26.10.2006 n. 6399).
Limite minimo integrativo, inoltre, delle
disposizioni previste agli artt. 872 ss c.c.
ritenuto espressione di disciplina d’ordine
pubblico a tutela della salubrità dei luoghi
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 11.07.2007 n. 1367 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
distanza minima tra pareti finestrate di edifici antistanti.
Come è noto, l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 prescrive che, nella
costruzione di nuovi immobili non ricompresi (come quelli in
controversia) in zona A di P.R.G. deve osservarsi la distanza minima
inderogabile di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti.
Tale distanza standard è volta non alla tutela della riservatezza, come
l’appellante sembra ritenere, ma alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico sanitarie ed è dunque tassativa ed inderogabile (a
differenza delle distanze dal confine) per via di private pattuizioni.
Conseguentemente, essa deve operare per un verso anche nel caso, qui
ricorrente, in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata;
per l’altro, anche nel caso in cui la nuova opera sia di altezza
inferiore rispetto alle preesistenti vedute o parzialmente nascosta dal
muretto e dalla recinzione di confine.
L’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello della
salubrità dell’edificato e non va confuso con l’interesse privato del
frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva.
La preesistenza di un muro a confine (che già precluda in parte il
prospicere al titolare della veduta) è dunque sostanzialmente
irrilevante, ove come nel caso in questione si controverta del rispetto
della norma sulle distanze tra edifici e frontistanti pareti finestrate.
In tal senso è stato infatti chiarito che la disposizione di cui
all’art. 9 primo comma n. 2 del citato D.M., essendo tassativa ed
inderogabile, impone al proprietario dell’area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri
da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova
costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a
quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste
conforme alle previsioni dell’art. 907, 3º comma, cod. civ. (cfr. Cass.
II Sez. n. 11013 del 2002).
Ne deriva da un lato che ha errato il Tribunale allorché ha tenuto conto
solo della porzione di parete sovrastante la recinzione; dall’altro che
in ogni caso –ciò che qui conta- il permesso di costruire rilasciato
all’Impresa appellata viola in parte qua l’art. 9 del ridetto D.M. n.
1444.
Tanto chiarito, e venendo all’esame della normativa urbanistica
comunale, si premette che per consolidata giurisprudenza le norme di cui
al D.M. in questione, emanate in forza dell' art. 17 L. 06.08.1967 n.
765, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva
il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile
distanza di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione
degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e
va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo
prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione
con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 12.06.2007 n. 3094 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Lombardia, i sottotetti di cui alla l.r. n. 12/2005 devono rispettare la
distanza minima di mt. 10,00 dai fabbricati
confinanti.
L'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, pur
riferendosi (comma 1, n. 2) alla
realizzazione di "nuovi edifici", è
applicabile anche agli interventi di
sopraelevazione (Cass. 2^, 27.03.2001, n.
4413; Cons. Stato, V, 19.10.1999, n. 1565),
e dunque anche alle ristrutturazioni che
-volte, come quella de qua, al recupero del
sottotetto- comportino un incremento non
trascurabile dell'altezza del fabbricato (da
mt. 7,60 a mt. 9,54);
La normativa in questione, mirando ad
evitare la creazione di intercapedini in
grado di impedire la libera circolazione
dell'aria, come tali produttive di
insalubrità oltre che riduttive di
luminosità e dunque non autorizzabili per
motivi igienico-sanitari (Cons. Stato, V,
19.10.1999, n. 1565; T.A.R. Catania,
27.10.1994, n. 2373), risponde ad esigenze
pubblicistiche che sovrastano gli interessi
dei singoli, per soddisfare interessi
generali, e non è pertanto suscettibile i
deroghe pattizie.
Considerato, inoltre, che a sostegno
dell'opposta tesi non può essere invocato
l'art. 64, secondo comma, della legge
regionale n. 12 del 2005 (legge per il
governo del territorio), secondo cui il
recupero a fini abitativi dei sottotetti
esistenti "... è ammesso anche in deroga ai
limiti ed alle prescrizioni degli strumenti
di pianificazione comunale ....", dovendo la
norma interpretarsi nel senso che la
derogabilità non opera nei casi in cui lo
strumento urbanistico riproduce disposizioni
normative di rango superiore, a carattere
inderogabile, qual è appunto il decreto
ministeriale nella parte in cui disciplina
le distanze tra fabbricati, trattandosi di
materia inerente l'ordinamento civile e
rientrante, come tale, nella competenza
esclusiva dello Stato (cfr. Corte cost.
16.06.2005, n. 232) (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 26.04.2007 n. 1991). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un balcone in cemento armato
della profondità di mt. 1.20 fa distanza.
Ai fini del computo delle distanze tra
fabbricati (10 mt. di cui al D.M.
1444/1968), assumono rilievo tutti gli
elementi costruttivi, anche accessori,
qualunque ne sia la funzione, aventi i
caratteri della solidità, della stabilità e
della immobilizzazione, salvo che non si
tratti di sporti ed oggetti di modeste
dimensioni con funzione meramente decorativa
e di rifinitura, tali da potersi definire di
entità trascurabile rispetto all'interesse
tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della
salubrità e dell'igiene.
La parte ricorrente assume che l’erigenda
costruzione, per una sua parte (8 balconi ed
alcune pilastrature), risulterebbe collocata
ad una distanza (pari a mt. 6,35) inferiore
a quella di 10 metri, prescritta dalla
normativa di settore.
Tanto violerebbe l’art. 2 del locale
regolamento edilizio che, conformemente alle
prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444 e relativamente alle
distanze intercorrenti tra fabbricati,
indica una distanza minima di 10 mt. tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti.
Di contro, la parte controinteressata oppone
che le deduzioni attoree sarebbero
inconferenti, in quanto l’incidenza degli
sporti e degli aggetti suindicati dovrebbe
essere valutata, ai fini del computo delle
distanze, in una diversa dimensione
prospettica.
Più precisamente, i balconi in questione, in
quanto posti lungo le pareti est ed ovest
del fabbricato, non sarebbero rilevanti,
atteso che la parete dell’edificio frontista
insiste sul confine nord.
A giudizio del Collegio va condivisa
l’opzione ermeneutica attorea, in quanto non
può essere revocata in dubbio l’appartenenza
delle sporgenze in contestazione (aggetto
costituente copertura del piano seminterrato
e balconi) anche alla “parete nord”,
della quale costituiscono un prolungamento a
tutti gli effetti.
Come di recente evidenziato in
giurisprudenza, anche accettando, in linea
di principio, il criterio del computo in
modo “lineare" e non “radiale”
della distanza minima tra pareti finestrate
e pareti di edifici antistanti, il D.M. cit.
sottolinea che la distanza debba essere
“assoluta” e prescritta “in tutti i casi”.
Si deve pertanto convenire che debba essere
calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano (cfr. Tar Toscana n. 55 del
22.01.2007; C.d.S., V, 16/02/79 n. 89)
Le strutture in questione risultano, invero,
stabilmente incorporate alla suddetta parete
e si pongono anche a servizio di essa come
accessorio edilizio ovvero permettendo la
sosta e l’affaccio: quanto a tale ultimo
profilo, le dette sporgenze, per la tipica
strutturazione dei balconi, che consentono
un affaccio diretto su tre lati, recano in
sé, anche sul versante nord, la dimensione
tipica di pareti finestrate.
Trova, dunque, applicazione il principio di
portata generale, secondo cui in tema di
distanze fra edifici, mentre rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai
fini delle distanze, soltanto quegli
elementi con funzione meramente ornamentale,
di rifinitura od accessoria, come le
mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili,
costituiscono corpi di fabbrica, computabili
nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze
di particolari dimensioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se
scoperte, di apprezzabile profondità ed
ampiezza (la Corte, nel confermare la
sentenza impugnata, ha qualificato come
costruzione la realizzazione di un balcone
della profondità di mt. 1,20 con soletta in
cemento armato, rilevando come per le
dimensioni, per la natura, la destinazione e
l'utilizzo, detto balcone, costituendo un
elemento funzionale dell'edificio, non
potesse rivestire funzione ornamentale)”
(Cassazione civile, sez. II, 25.03.2004, n.
5963; cfr. anche ex plurimis
Cassazione civile, sez. II, 02.10.2000, n.
13001, e Cassazione civile, sez. II,
29.03.1999, n. 2986).
In altri termini, deve concludersi nel senso
che, ai fini del computo delle distanze,
assumono rilievo tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, qualunque ne
sia la funzione, aventi i caratteri della
solidità, della stabilità e della
immobilizzazione, salvo che non si tratti di
sporti ed oggetti di modeste dimensioni con
funzione meramente decorativa e di
rifinitura, tali da potersi definire di
entità trascurabile rispetto all'interesse
tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della
salubrità e dell'igiene.
Vale aggiungere che il limite in questione
deve essere osservato anche nel caso in cui
una sola delle pareti fronteggiantisi sia
finestrata, posto che detta norma è
finalizzata a stabilire nell’interesse
pubblico un’idonea intercapedine tra
edifici, e non a salvaguardare l'interesse
privato del frontista alla riservatezza
(vedi tra le più recenti pronunce Cass. S.U.
18.02.1997 n. 1486; Cass. 09.03.1999 n.
1984).
Viene cioè in rilievo l’esigenza di evitare
la realizzazione di spazi tra fabbricati la
cui ampiezza non sia sufficiente ad
assicurare quella condizione, d'aerazione,
luminosità ed igiene che è considerata
minima indispensabile alle esigenze di vita
degli abitanti.
Tanto premesso, ed in disparte quanto finora
osservato in ordine all’attitudine
funzionale del balcone ad integrare di per
se stesso una parete finestrata su tre
prospetti, non può essere obliterato che le
sporgenze in contestazione, nella parte in
cui prospettano su via cittadella, risultano
frontistanti rispetto ad una parete
finestrata del fabbricato di proprietà
attorea ( terrazzo e due finestre), come
evincibile dal corredo fotografico della
relazione di parte prodotta a corredo del
gravame.
In altri termini, anche a voler prescindere
dalla natura delle suddette sporgenze
(balconi), le stesse, quali semplici
elementi costitutivi e, dunque, parti
integranti di una parete dell’edificio in
costruzione, si trovano collocate ad una
distanza non consentita: ed, invero, pur
fronteggiando una parete finestrata
dell’edificio di proprietà di Sasso Giovanni
si trovano collocate ad una distanza (mt.
6.35) inferiore a quella minima di 10 mt.
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 23.04.2007 n. 4215 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di sopraelevazione di preesistente
fabbricato non è possibile derogare alle
distanze fissate dal piano mediante
allineamento col sottostante corpo di
fabbrica, atteso che, in assenza di una
apposita norma derogatoria, le due porzioni
di fabbricato, in quanto eseguite in tempi
diversi, restano regolate dalla disciplina
vigente al momento della rispettiva
costruzione.
Deve trovare applicazione, nel caso di
specie, l'indirizzo giurisprudenziale e i
principi già più volte affermati da questo
Tribunale, secondo cui “nel caso di
sopraelevazione di preesistente fabbricato
non è possibile derogare alle distanze
fissate dal piano mediante allineamento col
sottostante corpo di fabbrica, atteso che,
in assenza di una apposita norma
derogatoria, le due porzioni di fabbricato,
in quanto eseguite in tempi diversi, restano
regolate dalla disciplina vigente al momento
della rispettiva costruzione” (Tar
Sardegna n. 2014 del 27.09.2006; Tar Lazio,
Roma, sez. II, n. 557/1995; Tar Piemonte,
Torino, n. 849/2001).
Le medesime censure risultano altresì
fondate anche avuto riguardo alla
demolizione e ricostruzione del corpo di
fabbrica destinato a pollaio, dovendosi
ritenere che il mutamento di destinazione
d’uso della parte di fabbricato in questione
e il mutamento delle caratteristiche
edilizie del medesimo, comporti che
l’intervento edilizio debba essere
correttamente qualificato come nuova
costruzione e, in quanto tale, debba essere
soggetto alle limitazioni imposte dalle
norme urbanistiche in vigore al momento in
cui viene esaminata la domanda di
concessione edilizia ed in particolare a
quelle stabilite dalle norme di attuazione
del vigente piano di fabbricazione del
Comune di Narcao in materia di distanze dai
confini e dai fabbricati già esistenti
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 15.03.2007 n. 455 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Distanze legali minime tra costruzioni - Disciplina
applicabile ai rapporti tra privati - Art. 9 del D.M., n.
1444/1968 - Esclusione - Disciplina codicistica - Art. 873
segg. cod. civ..
La disciplina delle distanze legali minime tra costruzioni
posta dall'art. 9 del D.M., n. 1444/1968 non è applicabile
ai rapporti tra privati, trattandosi di disposizione
esclusivamente dedicata ai Comuni, i quali sono tenuti al
rispetto delle menzionate distanze nella predisposizione
degli strumenti urbanistici.
Ne consegue che: a) se lo strumento urbanistico si ponga in
contrasto con l'art. 9 del D.M. n 1444/1968, esso può essere
finanche disapplicato dal giudice ordinario, che può
riconoscere immediata precettività al predetto art. 9,
divenuto, per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico in sostituzione della disposizione
disapplicata; b) se lo strumento urbanistico non stabilisca
distanze legali minime per le costruzioni in una determinata
area, dall'impossibilità di applicazione dell'art, 9 D.M. n.
1444/1968 nei rapporti interprivati discende che alla
costruzioni si applica la disciplina codicistica, con
possibilità di edificazioni sul confine o in aderenza (artt.
873 segg. cod. civ.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1894
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Distanze
minime tra fabbricati: la lettura della c.d. ''distanza
lineare''.
Quanto alle modalità di
calcolo della distanza, il Collegio che, anche accettando,
in linea di principio, il criterio del computo in modo “lineare"
e non “radiale” della distanza minima tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, il D.M. cit.
sottolinei che la distanza debba essere “assoluta” e
prescritta “in tutti i casi”.
Si deve pertanto convenire che debba essere calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole
parti che si fronteggiano ed indipendentemente dal fatto che
la parete sopraelevata si trovi alla medesima o a diversa
altezza rispetto all’altra
(TAR Toscana,
Sez. III,
sentenza 22.01.2007 n. 55
- link a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza di mt. 10 va rispettata indipendentemente dal fatto che la
parete sopraelevata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto
all’altra.
Reputa il Collegio che, anche accettando, in linea di principio, il
criterio del computo in modo “lineare" e non “radiale” della distanza
minima tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, il D.M.
1444/1968 sottolinei che la distanza debba essere “assoluta” e
prescritta “in tutti i casi”.
Si deve pertanto convenire che debba essere calcolata con riferimento ad
ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (C.d.S.,
V, 16/02/1979 n. 89) ed indipendentemente dal fatto che la parete
sopraelevata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto
all’altra (Cass., II, 03/08/1999 n. 8383, nonché TAR Emilia-Romagna, II,
30/03/2006 n. 348) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 22.01.2007 n. 55 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9 dm n. 1444 del 1968, relativo all’obbligo
di rispettare una distanza minima di 10
metri tra pareti finestrate (e quindi munite
di luci e/o vedute, secondo la definizione
contenuta nell’art. 900 cod. civ.) ed
edifici antistanti, è volto ad impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico sanitario: ha, pertanto,
carattere tassativo ed inderogabile, non
eludibile da parte dello strumento
urbanistico comunale, il quale può solo
prescrivere distanze maggiori, ma non
limitarne l’applicazione.
L’adozione, da parte dell’ente locale, di
una prescrizione contenuta nello strumento
urbanistico contrastante con la citata
norma, anche in senso meramente limitativo,
comporta l’obbligo di applicare direttamente
la disposizione del menzionato art. 9
divenuta, per inserzione automatica, parte
integrante del piano regolatore, in
sostituzione della norma illegittima, che
deve essere disapplicata ovvero annullata.
E' evidente la fondatezza del ricorso, che
denuncia la violazione dell’art. 9 dm n.
1444 del 1968, relativo all’obbligo di
rispettare una distanza minima di 10 metri
tra pareti finestrate (e quindi munite di
luci e/o vedute, secondo la definizione
contenuta nell’art. 900 cod. civ.) ed
edifici antistanti, obbligo che, essendo
volto ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico sanitario, ha pertanto carattere
tassativo ed inderogabile, non eludibile da
parte dello strumento urbanistico comunale,
il quale può solo prescrivere distanze
maggiori, ma non limitarne l’applicazione
(per tutte, Cons. Stato, sez. IV,
05.12.2005, n. 6909; Cass. civ., sez. II,
10.01.2006, n. 145).
Ne deriva che l’adozione, da parte dell’ente
locale, di una prescrizione contenuta nello
strumento urbanistico contrastante con la
citata norma, anche in senso meramente
limitativo, comporta l’obbligo di applicare
direttamente la disposizione del menzionato
art. 9, divenuta, per inserzione automatica,
parte integrante del piano regolatore, in
sostituzione della norma illegittima che,
deve essere disapplicata (per tutte, Cass.
Civ., sez. II, 30.03.2006, n. 7563 e
29.05.2006, n. 12741) ovvero annullata, ove
(come nella specie) impugnata.
Lla suddetta prescrizione, data la finalità
che intende perseguire, che è, come si è
detto, di natura igienico–sanitaria, vale
anche per la distanza da edificio adibito ad
autorimessa, come nel caso di specie (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 17.01.2007 n. 22 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Recupero sottotetti - Disciplina transitoria
- Irragionevolezza - Non sussiste - Disparità di mero fatto - Sussiste
-Questione di legittimità costituzionale art. 63 L.R. 12/2005 - è
manifestamente infondata.
2. Recupero sottotetti - Sopraelevazione -
Distanze tra fabbricati - E' derogabile.
1. E' manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale, sollevata in relazione all'art. 63 L.R. 12/2005, in
quanto lesivo del criterio generale di ragionevolezza desumibile dagli
artt. 3 e 97 Cost. nella parte in cui attribuirebbe una sorta di bonus
edificatorio a chi ha avuto la ventura di ottenere un permesso di
costruire prima del 31 dicembre 2005. Per il Collegio, infatti, il co. 2
dell'art. 63 costituisce norma speciale rispetto alla regola generale di
cui ai commi 2 e 4 del medesimo articolo, avente la finalità di
disciplinare le fattispecie in esso previste nel periodo transitorio: in
tale ottica le possibili diversità di regime rappresentano delle
disparità di mero fatto che scaturiscono dalla natura stessa del regime
transitorio, il quale, chiamato ad introdurre una disciplina di
passaggio tra sistemi normativi, necessariamente si salda ad un
determinato momento o fatto, da individuare quale linea di demarcazione
a partire dalla quale il regime stesso è chiamato ad operare.
2. L'art. 64, co. 1, della L.R.12/2005 ammette il recupero del
sottotetto mediante sopraelevazione, nel rispetto dei limiti massimi di
altezza stabiliti dallo strumento urbanistico per la zona, senza imporre
l'arretramento dei muri esterni per adeguare il distacco tra gli edifici
a causa della maggiore altezza. Ciò in quanto l'imposizione di un simile
onere avrebbe potuto compromettere la fattibilità del recupero (e,
quindi, la realizzazione degli obiettivi di riduzione del consumo di
territorio indicata dall'art. 63 sopra citato) che non avrebbe comunque
potuto essere realizzato ove l'edificio preesistente fosse già posto
alla minima distanza possibile, secondo le leggi vigenti, dagli edifici
confinanti. E' evidente peraltro che la norma regionale ha voluto
evitare proprio tale conseguenza ed ha perciò previsto la possibilità di
derogare ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di
pianificazione comunale, ivi comprese le norme sui distacchi e sulle
distanze. Si deve quindi ritenere che, sotto questo profilo, prevalga la
qualificazione dell'intervento di recupero del sottotetto come
ristrutturazione e che conseguentemente si estenda al nuovo piano
sottotetto il regime delle distanze acquisito per il resto dell'edificio (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 12.01.2007 n. 11
- massima tratta da www.solom.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2006 |
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EDILIZIA
PRIVATA: Interesse
ad agire dei vicini, sopraelevazione, distanze dei
fabbricati.
La situazione giuridica
soggettiva azionata dai proprietari di immobili situati
nelle immediate vicinanze dell'opera assentita ed ivi
residenti, comporta la sussistenza di quella situazione di
stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento costruttivo autorizzato richiesta per la
titolarità della potestà di impugnativa in materia e al
riguardo laddove i ricorrenti facciano valere in primo luogo
un interesse giuridicamente protetto di natura urbanistica,
quale è quello dell'osservanza delle prescrizioni
regolatrici dell'edificazione, non occorre procedere ad
alcuna ulteriore indagine al fine di accertare, in concreto,
se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno
un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone
l'impugnazione (vd. ad es. CdS, IV, n. 6467/2005);
La sopraelevazione -per tale intendendosi qualsiasi
costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda
di un preesistente fabbricato- deve rispettare le distanze
legali tra costruzioni stabilite dalla normativa vigente al
momento della realizzazione della stessa, poiché comporta
sempre un aumento della volumetria preesistente (vd. ad es.
TAR Puglia Lecce, n. 565/2006);
Le norme sulle distanze dei fabbricati contenute nel D.M. n.
1444 del 1968, a differenza di quelle sulle distanze dai
confini derogabili mediante convenzione tra privati, hanno
carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette
alla tutela di interessi generali in materia urbanistica,
sicché l'inderogabile distanza di dieci metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i
comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con il suddetto limite minimo è
illegittima essendo consentito alla p.a. solo la fissazione
di distanze superiori (vd. ad es. TAR Liguria, 1027/2005);
Gli strumenti urbanistici locali devono osservare la
prescrizione di cui all'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 che
prevede la distanza minima inderogabile di mt. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti; pertanto, nel
caso di norme contrastanti , il giudice è tenuto ad
applicare la disposizione di cui al citato art. 9, in quanto
automaticamente inserita nello strumento urbanistico in
sostituzione della norma illegittima (vd. ad es. Cass.
Civile, n. 12741/2006);
In linea di diritto deve escludersi che l'ampliamento di un
fabbricato attraverso la sopraelevazione di un piano possa
configurarsi alla stregua di una mera ristrutturazione.
Infatti ai fini dell'individuazione della tipologia di un
intervento edilizio, il concetto di sopraelevazione si
differenzia da quello di mero innalzamento, dovendosi
considerare che quest'ultimo, specie se modesto ed inidoneo
a determinare un incremento volumetrico, può risultare
compatibile con la nozione di ristrutturazione, mentre
altrettanto non può affermarsi nel caso di una
sopraelevazione che sia inscindibilmente connessa
all'incremento volumetrico in ragione di un rapporto di
causa ed effetto e che sia quindi diretta all'accrescimento
della cubatura di un fabbricato (vd. ad es. TAR Piemonte, n.
1603/2003);
Le autorizzazioni paesaggistiche, sebbene abbiano natura di
atti ampliativi della sfera giuridica dei destinatari,
debbono essere congruamente motivate in modo che possa
essere ricostruito l'iter logico che ha condotto a ritenere
le opere autorizzate non lesive dei valori paesistici
sottesi all'imposizione del vincolo (vd. ad es. TAR Liguria
n. 1408/2005)
(TAR Liguria,
Sez. I,
sentenza 19.12.2006 n. 1711
- link a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie
in materia di ristrutturazione -
Sopraelevazione.
Costituisce
principio costante e pienamente
condivisibile quello in base al quale la
sopraelevazione -per tale intendendosi
qualsiasi costruzione che si eleva al di
sopra della linea di gronda di un
preesistente fabbricato- deve rispettare le
distanze legali tra costruzioni stabilite
dalla normativa vigente al momento della
realizzazione della stessa, poiché comporta
sempre un aumento della volumetria
preesistente (cfr. ad es. TAR Puglia Lecce,
sez. III, 27.01. 2006, n. 565 e Cassazione
civile, sez. II, 12.01.2005, n. 400).
Ha natura inderogabile la norma sulle
distanze minime fra edifici, essendo
disposizione di ordine pubblico atta ad
evitare intercapedini dannose per la salute
pubblica; in particolare, la normativa
dettata dall'art. 9, comma 1, d.m.
02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive per
gli edifici ricadenti in zone territoriali
diverse dalla zona A la distanza minima
assoluta di 10 metri tra le pareti di
edifici antistanti, è tassativa ed
inderogabile, con l'unica eccezione di
edifici ricompresi in un piano
particolareggiato.
Le norme sulle distanze dei fabbricati
contenute nel d.m. citato quindi, a
differenza di quelle sulle distanze dai
confini derogabili mediante convenzione tra
privati, hanno carattere pubblicistico e
inderogabile, in quanto dirette, più che
alla tutela di interessi privati, a quella
di interessi generali in materia
urbanistica, sicché l'inderogabile distanza
di 10 metri tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i
comuni in sede di formazione e di revisione
degli strumenti urbanistici, con la
conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l'anzidetto
limite minimo è illegittima essendo
consentita alla p.a. solo la fissazione di
distanze superiori (cfr. ad es. TAR Liguria
Genova, sez. I, 07.07.2005, n. 1027).
Più in generale, sulla costante valenza
della disciplina predetta, poiché l'art. 136
t.u. 06.06.2001 n. 380, nell'abrogare (con
effetto ex nunc) l'art. 17, comma 1,
lett. c, delle legge n. 765 del 1967, ha
lasciato in vigore i commi 6, 8, 9,
dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150
del 1942, gli strumenti urbanistici locali
devono osservare la prescrizione di cui
all'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che
prevede la distanza minima inderogabile di
mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti; pertanto, nel caso di
norme contrastanti, il giudice è tenuto ad
applicare la disposizione di cui al citato
art. 9, in quanto automaticamente inserita
nello strumento urbanistico in sostituzione
della norma illegittima (cfr. ad es.
Cassazione civile, sez. II, 29.05.2006, n.
12741).
Inoltre, nel nuovo contesto costituzionale
post riforma del titolo V della parte
seconda della Carta fondamentale, assumono
rilievo la natura delle norme sulle
distanze, il richiamo espresso contenuto nel
testo unico dell'edilizia ed il loro
inquadramento ai sensi dell'art. 117 lett.
l) ed m) cost.: da ciò non può che
conseguire un’applicazione della normativa
in materia sulla scorta dell’unica opzione
ermeneutica conforme a Costituzione.
Ai fini dell’individuazione della tipologia
di un intervento edilizio, il concetto di
sopraelevazione si differenzia da quello di
mero innalzamento, dovendosi considerare che
quest’ultimo, specie se modesto ed inidoneo
a determinare un incremento volumetrico, può
risultare compatibile con la nozione di
ristrutturazione, mentre non altrettanto può
affermarsi nel caso di una sopraelevazione
che sia inscindibilmente connessa
all’incremento volumetrico in ragione di un
rapporto di causa ed effetto e che sia
quindi diretta all’accrescimento della
cubatura di un fabbricato (cfr. ad es. TAR
Piemonte Torino, sez. I, 19.11.2003, n.
1603) (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 19.12.2006 n. 1711
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
distanza da osservare tra pareti finestrate.
Costituisce principio costante e pienamente
condivisibile quello in base al quale la
sopraelevazione -per tale intendendosi
qualsiasi costruzione che si eleva al di
sopra della linea di gronda di un
preesistente fabbricato- deve rispettare le
distanze legali tra costruzioni stabilite
dalla normativa vigente al momento della
realizzazione della stessa, poiché comporta
sempre un aumento della volumetria
preesistente (cfr. ad es. TAR Puglia-Lecce,
sez. III, 27.01.2006 , n. 565 e Cassazione
civile , sez. II, 12.01.2005 , n. 400).
Analoga natura di principio deve essere
riconosciuta alla normativa in tema di
distanze tra edifici statuita dalla
normativa invocata da parte ricorrente. Al
riguardo va infatti ribadito che ha natura
inderogabile la norma sulle distanze minime
fra edifici, essendo disposizione di ordine
pubblico atta ad evitare intercapedini
dannose per la salute pubblica; in
particolare, la normativa dettata dall'art.
9, comma 1, d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove
prescrive per gli edifici ricadenti in zone
territoriali diverse dalla zona A la
distanza minima assoluta di dieci metri tra
le pareti di edifici antistanti, è tassativa
ed inderogabile , con l'unica eccezione di
edifici ricompresi in un piano
particolareggiato.
Le norme sulle distanze dei fabbricati
contenute nel d.m. citato quindi, a
differenza di quelle sulle distanze dai
confini derogabili mediante convenzione tra
privati, hanno carattere pubblicistico e
inderogabile, in quanto dirette, più che
alla tutela di interessi privati, a quella
di interessi generali in materia
urbanistica, sicché l' inderogabile distanza
di dieci metri tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i
comuni in sede di formazione e di revisione
degli strumenti urbanistici, con la
conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l'anzidetto
limite minimo è illegittima essendo
consentita alla p.a. solo la fissazione di
distanze superiori. (cfr. ad es. TAR
Liguria-Genova, sez. I, 07.07.2005 , n.
1027).
Più in generale, sulla costante valenza
della disciplina predetta, poiché l'art. 136
t.u. 06.06.2001 n. 380, nell'abrogare (con
effetto ex nunc) l'art. 17, comma 1 lett. c,
delle legge n. 765 del 1967, ha lasciato in
vigore i commi 6, 8, 9, dell'art.
41-quinquies della legge n. 1150 del 1942,
gli strumenti urbanistici locali devono
osservare la prescrizione di cui all'art. 9
del d.m. n. 1444 del 1968, che prevede la
distanza minima inderogabile di mt. 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti; pertanto, nel caso di norme
contrastanti, il giudice è tenuto ad
applicare la disposizione di cui al citato
art. 9, in quanto automaticamente inserita
nello strumento urbanistico in sostituzione
della norma illegittima (cfr. ad es.
Cassazione civile, sez. II, 29.05.2006 , n.
12741).
Inoltre, nel nuovo contesto costituzionale
post riforma del titolo V della parte
seconda della Carta fondamentale, assumono
rilievo la natura delle norme sulle
distanze, il richiamo espresso contenuto nel
testo unico dell'edilizia ed il loro
inquadramento ai sensi dell'art. 117 lett.
l) ed m) cost.: da ciò non può che
conseguire un’applicazione della normativa
in materia sulla scorta dell’unica opzione
ermeneutica conforme a Costituzione
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 19.12.2006 n. 1711
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione
degli strumenti urbanistici.
Secondo pacifico orientamento giurisprudenziale il d.m. 02.04.1968 n.
1444 trae dall'art. 41-quinquies della legge urbanistica (come
modificato dall’art. 17 L. 06.08.1967 n. 765, c.d. legge ponte) la forza
di integrare con efficacia precettava il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché la distanza di 10 metri tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti, predeterminata con carattere cogente in
via generale ed astratta in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, vincola anche i Comuni in
sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la
conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima (cfr. Cass. Civ., SS.UU.,
21.02.1994 n. 1645), essendo consentita alla pubblica Amministrazione
solo la fissazione di distanze superiori (cfr. Cons. St., sez. IV,
05.12.2005 n. 6909; id., 12.07.2002 n. 3929; 13.05.1992 n. 511; Cass.
Civ., 29.10.1994 n. 8944; id., 21.02.1994 n. 1645; id. 04.02.1998 n.
1132) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.10.2006 n. 6399 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie
in materia di ristrutturazione - Distanze.
Nella nozione di ristrutturazione edilizia
rientrano anche gli interventi consistenti
nella demolizione e nella successiva
ricostruzione di un manufatto, a condizione
che siano rispettate la sagoma e la
volumetria della costruzione preesistente
(da ultimo Cons. St., sez II, 2526/2004 del
22.02.2006).
Le norme in tema di distanze contenute negli
strumenti urbanistici sopravvenuti
disciplinano le nuove costruzioni e non
riguardano affatto, in mancanza di contraria
espressa e specifica previsione, gli
interventi di ristrutturazione che osservano
le distanze preesistenti fra edifici
limitrofi (massima tratta da
www.studiospallino.it - TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 13.10.2006 n. 1209 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nozione
di costruzione e distanze legali tra
fabbricati.
In tema di distanze tra costruzioni su fondi
finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con
riferimento alla determinazione del relativo
calcolo, poiché il balcone, estendendo in
superficie il volume edificatorio,
costituisce corpo di fabbrica, e poiché
l'art. 9 d.m. 02.04.1968 -applicabile alla
fattispecie, disciplinata dalla legge
urbanistica 17.08.1942 n. 1150, come
modificata dalla l. 06.08.1967 n. 765-
stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra
pareti finestrate e pareti antistanti, un
regolamento edilizio che stabilisca un
criterio di misurazione della distanza tra
edifici che non tenga conto dell'estensione
del balcone, è contra legem in
quanto, sottraendo dal calcolo della
distanza l'estensione del balcone, viene a
determinare una distanza tra fabbricati
inferiore a mt. 10, violando il distacco
voluto dalla cd. legge ponte (l. 06.08.1967
n. 765, che, con l'art. 17, ha aggiunto alla
legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 l'art.
41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al
d.m. 02.047.1968, che all'art. 9, numero 2,
ha prescritto il predetto limite di mt. 10)
(massima tratta da www.lavatellilatorraca.it
- Corte di Cassazione, Sez II civile,
sentenza 27.07.2006 n. 17089). |
EDILIZIA PRIVATA: Sostituzione
automatica delle norme degli strumenti
urbanistici difformi dall'art. 9 D.M.
1444/1968.
Poiché l'art. 136 t.u. 06.06.2001 n. 380,
nell'abrogare (con effetto ex nunc)
l'art. 17, comma 1, lett. c, delle legge n.
765 del 1967, ha lasciato in vigore i commi
6, 8, 9, dell'art. 41-quinquies della legge
n. 1150 del 1942, gli strumenti urbanistici
locali devono osservare la prescrizione di
cui all'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968,
che prevede la distanza minima inderogabile
di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti; pertanto, nel caso di
norme contrastanti, il giudice è tenuto ad
applicare la disposizione di cui al citato
art. 9, in quanto automaticamente inserita
nello strumento urbanistico in sostituzione
della norma illegittima
(massima tratta da www.lavatellilatorraca.it
- Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 29.05.2006 n. 12741). |
EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie
in materia di ristrutturazione - Distanze e
nozione
Nell’ambito delle opere edilizie, la
semplice "ristrutturazione" si
verifica ove gli interventi, comportando
modificazioni esclusivamente interne,
abbiano interessato un edificio del quale
sussistano (e, all’esito degli stessi,
rimangano inalterate) le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le
strutture orizzontali, la copertura, mentre
è ravvisabile la "ricostruzione"
allorché dell’edificio preesistente siano
venute meno, per evento naturale o per
volontaria demolizione, dette componenti, e
l’intervento si traduca nell’esatto
ripristino delle stesse operato senza alcuna
variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell’edificio, e, in particolare,
senza aumenti della volumetria, né delle
superfici occupate in relazione alla
originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte,
invece, in ipotesi di "nuova costruzione",
da considerare tale, ai fini del computo
delle distanze rispetto agli edifici
contigui come previste dagli strumenti
urbanistici locali, nel suo complesso, ove
lo strumento urbanistico rechi una norma
espressa con la quale le prescrizioni sulle
maggiori distanze previste per le nuove
costruzioni siano estese anche alle
ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta
norma non esista, solo nelle parti eccedenti
le dimensioni dell’edificio originario
(massima tratta da www.studiospallino.it -
Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 27.04.2006 n. 9637). |
EDILIZIA PRIVATA: I
10 mt. vanno rispettati anche se una sola delle due pareti che si
fronteggiano è finestrata.
A livello nazionale, la normativa standard, a cui i comuni non possono
derogare se non nel senso di un maggior rigore, ossia prevedendo
distanze maggiori (la giurisprudenza è, su questo punto, consolidata:
Cass. 19.11.2004 n. 21899; Cass. 10.01.2003 n. 158; Cons. Stato, sez. IV,
12.07.2002 n. 3229), è quella del D.M. 02.04.1968 n. 1444, emesso in
attuazione dell’art. 41-quinquies della legge urbanistica del 1942, come
modificata dalla n. 765 del 1967.
La tesi dei convenuti, secondo la quale la distanza reciproca dei 10
metri sarebbe necessaria solo quando entrambe le pareti sono finestrate,
manca di ratio iuris, perché se la ragione di distanziare le costruzioni
è, indubitabilmente, quella di evitare le c.d. intercapedini dannose,
cioè situazioni di asfitticità ambientale, tale ragione sussiste anche
quando la parete finestrata sia una sola. Seguendo la tesi dei
convenuti, si arriverebbe all’assurdo di consentire la realizzazione di
pareti cieche anche a soli tre metri dalle finestre del vicino, che
potrebbe significare anche due metri e perfino meno ove si trattasse di
finestre provviste di ballatoio: un’edilizia, insomma, da quartieri
spagnoli.
Che il D.M. 1444 del 1968 prescriva l’obbligo della distanza minima di
10 metri anche nell’ipotesi in cui solo la parete dell’edificio
preesistente sia finestrata è un dato di giurisprudenza consolidata
(Cass. Sez. Un. 18.02.1997 n. 1486, e, precedentemente, Cass. 08.05.1993
n. 5226; Cass. 05.11.1992 n. 12001; Cass. 28.08.1991 n. 9207; Cass.
05.03.1986 n. 1387). D’altronde, pur essendo riconosciuto (Cass. Sez.
Un. 01.07.1997 n. 5889) che destinatari diretti della normativa
ministeriale sono i comuni, e non i cittadini, la giurisprudenza è ormai
consolidata nel ritenere che essa in ogni caso prevale, anche nei
rapporti fra privati, rispetto alle disposizioni dei regolamenti locali
che ammettano distanze inferiori alle minime prescritte dal decreto
ministeriale. Infatti, secondo Cass. 19.11.2004 n. 21899, “in tema di
distanze fra costruzioni, il principio secondo il quale la norma di cui
all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (che fissa in dieci metri la
distanza minima assoluta fra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti) imponendo limiti edilizi ai comuni nella formazione di
strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei rapporti tra
privati, va interpretato nel senso che l’adozione, da parte degli enti
locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta
l’obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare la
disposizione illegittima, ma anche di applicare direttamente la
disposizione del ricordato art. 9, divenuto, per inserzione automatica,
parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata.” . Il principio si ritrova altresì in
Cass. 10.01.2003 n. 158, così pure in Cass. 27.03.2001 n. 4413 (Corte
d’Appello di Firenze, Sez. I, sentenza 30.03.2006 n. 785). |
EDILIZIA PRIVATA: L'obbligo
di rispettare le distanze tra edifici
applicazione anche con riferimento ad un
precedente fabbricato realizzato in tutto o
in parte abusivamente od illegittimamente.
a)
la disciplina dell’art. 41-quinquies della
legge 17.08.1942 n. 1150, integrato
dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444,
riguarda espressamente la distanza fra
fabbricati e non la distanza di questi dal
confine (Cass, II, 16.02.1996 n. 1021), ed
in questo senso costituisce un vincolo per i
Comuni in sede di predisposizione degli
strumenti urbanistici: vincolo a carattere
pubblicistico e inderogabile, in quanto
diretto, più che alla tutela di interessi
privati, a quella di interessi generali in
materia urbanistica (igiene, decoro e
sicurezza degli abitati);
b)
se è vero che l’applicazione dell’art. 17
della legge n. 765/1967 e del DM 1444/1968
sulla distanza minima di 10 metri fra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti
sono subordinati all’inesistenza di
strumenti urbanistici anteriori contenenti
norme sulle distanze (Cass, SS.UU n.
9871/1994), tuttavia gli strumenti
urbanistici e le relative revisioni
approvati successivamente all’entrata in
vigore del citato decreto non possono
contrastare con le direttive del decreto
stesso (Cass, II, 24.07.2001 n. 10062; Cons.
Stato, IV, 12.07.2002 n. 3929);
c)
le sopraelevazioni, ai fini del rispetto
delle distanze fra edifici, rientrano nella
nozione di nuova costruzione, dovendosi
considerare tale qualsiasi modificazione dei
parametri edilizi idonea a creare quelle
intercapedini dannose, riduttive di aria e
di luce, che la norma appunto vuole evitare
(ex multis, Cons. Stato, V, 19,10.1999 n.
1565, TAR Sicilia, Catania, n. 225/2002; TAR
Friuli n. 22/2001);
d)
la prescrizione opera indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti
fronteggiantesi sia finestrata e che tale
parete sia quella del nuovo edificio o
dell’edificio preesistente, o che si trovi
alla medesima o a diversa altezza rispetto
all’altra (TAR per l’Emilia–Romagna, sez. II
n. 136/2004; Cons. Stato, IV, n. 3929/2002 e
giurisprudenza ivi richiamata sul punto).
e)
La disposizione normativa di cui all'art.
873 c.c. in tema di distanze tra fabbricati,
diretta a tutelare interessi generali di
igiene, decoro e sicurezza degli abitanti, e
tale da consentire anche una più rigorosa
valutazione in sede locale, non ha alcuna
correlazione con la norma di cui all'art.
905 c.c. relativa alla distanza delle
vedute, volta a salvaguardare il fondo
finitimo dalle indiscrezioni attuabili
mediante la realizzazione e l'uso di
un'opera obbiettivamente destinata a tale
scopo (Cass. civ. II, 05.06.1998 n. 5518).
Come chiarito
dalla giurisprudenza anche costituzionale
(Corte Costituzionale n. 120 del 18.04.1996)
l'obbligo di rispettare le distanze tra
edifici, perseguendo il pubblico interesse
(igiene, decoro, sicurezza e assetto
urbanistico) trova applicazione anche con
riferimento ad un precedente fabbricato
realizzato in tutto o in parte abusivamente
od illegitimamente. Tale aspetto meramente
prospettato, pertanto, è irrilevante nel
presente giudizio e potrà eventualmente
essere accertato in un separato giudizio
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez.
II,
sentenza 30.03.2006 n. 348 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
sopralzo del sottotetto deve rispettare la distanza minima
di mt. 10,00 dai fabbricati limitrofi.
Il recupero volumetrico (sopraelevazione) dei
sottotetti in Lombardia, in forza della l.r. n. 12/2005 e
s.m.i., non può derogare dalla distanza minima di mt. 10,00
tra fabbricati di cui al D.M. 02.04.1968 1444 (TRIBUNALE di
Como, Sez. civile,
sentenza
06.02.2006). |
EDILIZIA PRIVATA: In
merito alla distanza di 10 mt. tra pareti
finestrate di fabbricati, appare più
coerente con il sistema una interpretazione
della dizione “parete finestrata” nel senso
di parete munita di "vedute" e non anche
parete su cui si aprono finestre lucifere,
così come ritenuto anche dalla
giurisprudenza della Cassazione.
La questione giuridica da risolvere è se per
“parete finestrata”, ai sensi
dell’art. 9 del D.M. del 02.04.1968 debba
intendersi una parete sulla quale si aprano
delle semplici luci, o solo delle vedute.
Come è noto la giurisprudenza della
Cassazione definisce veduta o prospetto una
finestra che consente non soltanto una
comoda inspectio sul fondo vicino
senza l'impiego di mezzi artificiali, ma
anche una comoda prospectio e cioè la
possibilità di affacciarsi con lo sporgere
il capo. In particolare, la Cassazione ha
chiarito che la possibilità di prospicere,
in astratto, può anche non essere impedita
dall'esistenza di un'inferriata, purché, in
relazione all'ampiezza delle maglie di
questa, possa essere in concreto stabilita
la possibilità di affaccio con la
possibilità di protendere il capo
(Cassazione civile, sez. II, 17.01.2002, n.
480).
Di contro la nozione di luce si trae in
negativo dall’art. 902 c.c., secondo il
quale “L'apertura che non ha i caratteri
di veduta o di prospetto è considerata come
luce, anche se non sono state osservate le
prescrizioni indicate dall'articolo 901”.
Chiarito ciò, occorre stabilire se la
presenza di luci comporti o meno
l’applicazione della distanza minima di 10
m.
Ritiene il collegio che la questione debba
essere risolta alla luce del complessivo
sistema delineato dal codice civile che,
nell'ambito della disciplina legale dei
rapporti di vicinato, impone di osservare
nelle costruzioni determinate distanze solo
dalle vedute (art. 907) e non anche dalle
luci.
L'art. 907 C.C., in particolare, nel
disporre che rispetto alle vedute dirette
verso il fondo vicino il proprietario di
questo non possa fabbricare a distanza
inferiore a tre metri, non menziona le
aperture lucifere (la cui realizzazione
rappresenta di norma l'esercizio di una mera
facoltà del diritto di proprietà art. 901
C.C.), così manifestando di tutelare le
vedute, attesa la loro funzione
economico-sociale nel campo edilizio, in
modo più netto e deciso rispetto alle luci,
in relazione alle quali è consentito al
proprietario confinante di costruire in
appoggio o in aderenza al muro perimetrale
che le contiene con conseguente liceità
della chiusura delle stesse ricorrendone, ai
sensi dell'art. 904 C.C., i presupposti di
legge.
In questo quadro, appare dunque più coerente
con il sistema una interpretazione della
dizione “parete finestrata” nel senso
di parete munita di "vedute" e non
anche parete su cui si aprono finestre
lucifere, così come ritenuto anche dalla
giurisprudenza della Cassazione (Cassazione
civile, Sezione II, 22.02.1996, n. 1362)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 27.01.2006 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nozione
di costruzione e distanze legali.
In tema di distanze legali, il muro di
contenimento di una scarpata o di un
terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione"
agli effetti della disciplina di cui
all'art. 873 c.c. per la parte che adempie
alla sua specifica funzione, e, quindi,
dalle fondamenta al livello del fondo
superiore, qualunque sia l'altezza della
parete naturale o della scarpata o del
terrapieno cui aderisce, impedendone lo
smottamento; la parte del muro che si
innalza oltre il piano del fondo
sovrastante, invece, in quanto priva della
funzione di conservazione dello stato dei
luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica
propria delle sue oggettive caratteristiche
di costruzione in senso tecnico giuridico,
ed alla medesima disciplina devono ritenersi
soggetti, perché costruzioni nel senso sopra
specificato, il terrapieno ed il relativo
muro di contenimento elevati ad opera
dell'uomo per creare un dislivello
artificiale o per accentuare il naturale
dislivello esistente (massima tratta da
www.lavatellilatorraca.it - Corte di
Cassazione, Sez. II civile, sentenza
10.01.2006 n. 145). |
anno 2005 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
La distanza di 10 metri, che deve
sussistere tra edifici antistanti, va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano. Tale calcolo si riferisce a
tutte le pareti finestrate e non soltanto a
quella principale, prescindendo altresì dal
fatto che esse siano o meno in posizione
parallela, indipendentemente dalla
circostanza che una sola delle pareti
fronteggiantesi sia finestrata e che tale
parete sia quella del nuovo edificio o
dell'edificio preesistente, o della
progettata sopraelevazione, ovvero ancora
che si trovi alla medesima o a diversa
altezza rispetto all'altra.
Ai fini della misurazione delle distanze tra
edifici non si deve tenere conto delle
rientranze delle pareti o altri artifici
architettonici che interrompono il fronte
naturale dell'edificio; gli sporti, cioè le
sporgenze da non computare ai fini delle
distanze perché non attinenti alle
caratteristiche del corpo di fabbrica che
racchiude il volume che si vuol distanziare,
sono i manufatti come le mensole, le lesene,
i risalti verticali delle parti con funzione
decorativa, gli elementi in aggetto di
ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le
sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma
di particolari dimensioni, che siano quindi
destinate anche ad estendere ed ampliare per
l'intero fronte dell'edificio la parte
utilizzabile per l'uso abitativo.
La disciplina di cui all'art. 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444, in tema di distanze tra
costruzioni, stante la sua natura di norma
primaria, è obbligatoriamente applicabile in
sostituzione di eventuali disposizioni
comunali illegittime (Cass. Civ., Sez. II,
10.01.2003, n. 158; 27.03.2001, n. 4713).
Giova richiamare, sia bure brevemente, i
principi che la giurisprudenza, civile ed
amministrativa, ha enunciato in materia:
a).
l’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942,
n. 1150, (legge urbanistica), integrato
dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444,
nella parte in cui stabilisce che la
distanza dagli edifici vicini non può essere
inferiore a quella di ciascun fronte
dell'edificio da costruire, fa riferimento
alla distanza fra fabbricati e non alla
distanza di questi dal confine (cfr. Cass,
Sez. II, 16.02.1996 n. 1201);
b).
l'art. 9 del citato D.M. del 1968, laddove
prescrive la distanza di 10 metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile in funzione della natura giuridica
dell'intercapedine (cfr. Cass., Sez. II,
26.01.2001 n. 1108; Cons. Stato, Sez. V,
19.10.1999 n. 1565); conseguentemente, le
distanze fra le costruzioni sono
predeterminate con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa
che al giudice non è lasciato alcun margine
di discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia per equo
contemperamento degli opposti interessi
(cfr. Cass., Sez. II, 16.08.1993 n. 8725 e
07.06.1993 n. 6360);
c).
la distanza di 10 metri, che deve sussistere
tra edifici antistanti, va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e
non alle sole parti che si fronteggiano (CdS,
Sez. V, 16.02.1979, n. 89). Tale calcolo,
infatti, si riferisce a tutte le pareti
finestrate e non soltanto a quella
principale, prescindendo altresì dal fatto
che esse siano o meno in posizione parallela
(Cass., Sez. II, 30.03.2001 n. 4715),
indipendentemente dalla circostanza che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia
finestrata e che tale parete sia quella del
nuovo edificio o dell'edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero
ancora che si trovi alla medesima o a
diversa altezza rispetto all'altra (cfr.
Cass., Sez. II, 03.08.1999 n. 8383);
d).
il computo della distanza tra edifici, in
base alle norme del più volte citato decreto
ministeriale del 1968, nel caso in cui le
pareti dei fabbricati non si estendano
linearmente in altezza, ma che manifestino
rientranze e sporgenze, deve operarsi
distinguendo fra gli sporti dalle ridotte
dimensioni, aventi scopo meramente
ornamentale e decorativo, da quelli
costituenti sporgenze di particolari
proporzioni, destinate per i loro caratteri
strutturali e funzionali ad ampliare la
superficie abitativa dei vani che vi
accedono, dei quali soltanto deve tenersi
conto nel computo anzidetto, essendo veri e
propri corpi di fabbrica che determinano un
aumento dell'edificio in superficie ed
incidono quindi sulla consistenza
volumetrica dello stesso (cfr. Cass., Sez.
II, 26.11.1996 n. 10497) nonché di altre
sporgenze, quali i balconi, che vengono ad
ampliare in superficie e in volume il
fabbricato da cui sporgono, occupando lo
spazio che deve invece rimanere libero per
assicurare il prescritto distacco (cfr.
Cass., Sez. II, 24.03.1993 n. 3533).
Ai fini della
misurazione delle distanze tra edifici non
si deve tenere conto delle rientranze delle
pareti o altri artifici architettonici che
interrompono il fronte naturale
dell'edificio (venga interrotto) (CGA,
06.05.1998, n. 291; CdS, Sez. V, 24.11.1990,
n. 791), e che gli sporti, cioè le sporgenze
da non computare ai fini delle distanze
perché non attinenti alle caratteristiche
del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare, sono i
manufatti come le mensole, le lesene, i
risalti verticali delle parti con funzione
decorativa, gli elementi in aggetto di
ridotte dimensioni, le canalizzazioni di
gronde e i loro sostegni, non invece le
sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma
di particolari dimensioni, che siano quindi
destinate anche ad estendere ed ampliare per
l'intero fronte dell'edificio la parte
utilizzabile per l'uso abitativo (CdS, Sez.
V, 19.03.1996, n. 268)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.12.2005 n. 6909 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
sopraelevazioni, poiché pacificamente
includibili nella categoria delle “nuove opere”,
risultano sottoposte al regime delle
distanze previsto per queste ultime, pur se
con opportune armonizzazioni con il
principio della prevenzione; per cui, in
linea generale, sia il preveniente che il
prevenuto possono costruire sul filo della
precedente costruzione, e, solo se non
ritengano di rispettare tale linea
costruttiva, devono osservare dall’altro
fabbricato, indipendentemente dal
superamento o meno del livello di
quest’ultimo, il distacco minimo previsto
dal codice civile o dal regolamento locale.
Osserva il Tribunale che, se è certamente
vero che una sostituzione (eventualmente con
modifiche) della struttura costituente la
copertura di un edificio già esistente non
può, ex sé, costituire una
sopraelevazione, poiché in tal caso
l’attività edilizia viene ad essere soltanto
volta ad assicurare il permanere di un
elemento accessorio indispensabile per
l’immobile; tuttavia quando –come nel caso
di specie– l’esecuzione di lavori comporta
innovazioni tali da determinare la creazione
di un nuovo volume utile per il proprietario
(ancorché “tecnico”, cioè non
utilizzabile per fini abitativi, esso
risulta però destinato ad un uso diverso,
quale “lavanderia”, “stenditoio”,
etc.), è evidente che l’opera non può non
qualificarsi come “sopraelevazione”,
trattandosi di nuove fabbriche, dotate di
autonoma utilità e determinanti
l’innalzamento dell’originaria altezza
dell’edificio (cfr. Cass. Civ. n° 7764 del
20.07.1999; Cass. Civ. n° 10568 del
24.10.1998; Cass. Civ. n° 5839
dell’01.07.1997; Cass. Civ. n° 5164 del
10.06.1997; Tribunale Bologna 24.06.1998, in
Arch. Locazioni 1999, 286).
Ebbene, anche le sopraelevazioni, poiché
pacificamente includibili nella categoria
delle “nuove opere”, risultano
sottoposte al regime delle distanze previsto
per queste ultime, pur se con opportune
armonizzazioni con il principio della
prevenzione; per cui, in linea generale, sia
il preveniente che il prevenuto possono
costruire sul filo della precedente
costruzione, e, solo se non ritengano di
rispettare tale linea costruttiva, devono
osservare dall’altro fabbricato,
indipendentemente dal superamento o meno del
livello di quest’ultimo, il distacco minimo
previsto dal codice civile o dal regolamento
locale (cfr. Cass. Civ. n° 9726 del
27.09.1993; Cass. Civ. n° 11284 del
15.10.1992; Cass. Civ. n° 8849 del
27.08.1990; Cass. Civ. n° 4352 del
24.06.1983; Cass. Civ. n° 3742 del
18.06.1982): ma nel caso di specie, oltre a
non essere stata rispettata la linea
costruttiva originaria (atteso che il nuovo
“tetto termico” risulta posto a
distanza di mt. 0,88 dal confine, ove
insistono le preesistenti fabbriche),
comunque la normativa locale attualmente
vigente impone in via assoluta un distacco
di mt. 5,00 dal confine stesso o di mt.
10,00 da fabbriche, cosicché la normativa
sulla prevenzione viene ad essere recessiva
e non più applicabile.
Pertanto, in
definitiva, è da escludere che a Barone
Francesco potesse essere consentito di
realizzare una sopraelevazione in
allineamento con l’originaria costruzione,
per cui la nuova opera avrebbe dovuto
rispettare le distanze imposte dalla citata
normativa regolamentare locale in vigore
(cfr. Cass. Civ. n° 200 dell’08.01.2001;
Cass. Civ. n° 10864 del 30.10.1998; Cass.
Civ. n° 5246 dell’11.06.1997; Cass. Civ. n°
3817 del 09.06.1986)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.11.2005 n. 2479 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
sopralzo di un fabbricato esistente è
subordinato al rispetto delle norme sulle
distanze dalle strade o da altre
costruzioni.
Il rilascio del titolo edilizio, con
riguardo alla parte dell’intervento
qualificabile come nuova costruzione, è
subordinato al rispetto delle norme sulle
distanze dalle strade o da altre costruzioni
(v. Cass. Civ., Sez. II, 16.03.2000, n.
3054; id., 24.05.2000, n. 6809; TAR Veneto,
sez. II, 22.04.2005, n. 1778, relative ad
interventi di sopraelevazione di edifici
esistenti)
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 18.10.2005 n. 109 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo i principi generali
elaborati in campo civilistico in materia di
distanze tra edifici, anche la
sopraelevazione è considerata nuova
costruzione, la quale deve osservare le
distanze prescritte dalla legge.
In base alle disposizioni del Codice della
Strada e del suo regolamento di attuazione,
fuori dai centri abitati (come nel caso di
specie ove è stato perimetrato il centro
abitato), è fatto divieto di costruire o
ampliare gli edifici fronteggianti le
strade.
Detto divieto risulta reiterato, in quanto
norma di principio volta a tutelare la
pubblica incolumità, inderogabile da parte
delle amministrazioni, rispetto alla
disciplina previgente (r.d. n. 1740/1933,
art. 1 rimasto in vigore a seguito
dell’emanazione del vecchio codice della
strada del 1959; d.m. 01.04.1968, n. 1404,
art. 4).
Dette prescrizioni continuano a trovare
applicazione, indipendentemente
dall’avvenuta classificazione delle strade
ad opera delle amministrazioni locali,
stante il disposto di cui all’art. 234 del
Codice della Strada, nella parte in cui
dispone che “…Fino all’attuazione di tali
adempimenti (classificazione delle strade ad
opera degli enti proprietari) si applicano
le previgenti disposizioni in materia”.
Il richiamo, contenuto nel provvedimento
impugnato, alla sentenza di questo
Tribunale, n. 5363/2003, risulta pertinente
nella parte in cui si afferma che le
disposizioni contenute nella legge regionale
n. 24/1985, le quali consentono
l’ampliamento degli edifici esistenti
ubicati nelle zone di protezione delle
strade di cui al D.M. n. 1404/1968, sono
divenute incompatibili con l’art. 26 del
regolamento esecutivo del nuovo codice della
strada e soprattutto con l’art. 16 dello
stesso codice, da cui il divieto di
realizzare ampliamenti fronteggianti le
strade.
Detta incompatibilità deve ritenersi
sussistente anche con riferimento alla
disciplina previgente ancora applicabile
nelle more dell’attuazione delle nuove
disposizioni; pertanto, non può trovare
applicazione il richiamo alla normativa
regionale effettuato dalle norme contenute
nel regolamento edilizio comunale.
Nel caso di specie l’intervento progettato
dal ricorrente risulta in contrasto con il
divieto suddetto quanto meno con riferimento
alla parte in cui viene progettata la
sopraelevazione dell’edificio esistente, in
quanto, secondo i principi generali
elaborati in campo civilistico in materia di
distanze tra edifici, anche la
sopraelevazione è considerata nuova
costruzione, la quale deve osservare le
distanze prescritte dalla legge (cfr.
C.d.S., Sez. IV, n. 744/1980; Cons. Giust.
Amm. Sicilia, Sez. giurisd., n. 37/1997)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 22.04.2005 n. 1778 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’obbligo del rispetto della
distanza minima tra fabbricati frontistanti
è previsto non soltanto a tutela dei
proprietari frontisti, ma anche per finalità
di pubblico interesse e va dunque rispettato
anche nel caso di costruzioni abusive ed a
prescindere se sia intervenuta la relativa
sanatoria amministrativa.
Anche chi ha costruito abusivamente può
pretendere che l’altro fabbricato, pure
eseguito illegittimamente, sia ridotto a
distanza legale o, se del caso, abbattuto.
Non può fondatamente sostenersi che il
rilascio del provvedimento di condono
edilizio è precluso dalla violazione delle
norme sulle distanze, essendo l’atto volto a
regolare i rapporti tra privato costruttore
e pubblica amministrazione e restando
naturalmente illesi i diritti dei terzi, che
potranno essere fatti valere in sede di
giurisdizione civile, chiedendo, a seconda
dei casi, la demolizione delle opere abusive
od il risarcimento dei danni.
Le norme disciplinanti la distanza tra
fabbricati, da osservare in sede di rilascio
di concessione di costruzione, sono
applicabili anche nel caso di
sopraelevazione di un fabbricato
preesistente.
Il Tribunale deve disattendere l’eccezione
della controinteressata, secondo cui
l’obbligo di rispettare le distanze legali
non sussisterebbe, nella specie, in quanto
il fabbricato frontista è abusivo.
Per vero, l’obbligo citato è previsto non
soltanto a tutela dei proprietari frontisti,
ma anche per finalità di pubblico interesse
e va dunque rispettato anche nel caso di
costruzioni abusive ed a prescindere se sia
intervenuta la relativa sanatoria
amministrativa (cfr. Cass. civ., II Sez.,
24.05.2004 n. 9911 e 02.08.1995 n. 8476).
Ne consegue, sotto il versante del diritto
civile, anche chi ha costruito abusivamente
può pretendere che l’altro fabbricato, pure
eseguito illegittimamente, sia ridotto a
distanza legale o, se del caso, abbattuto
(cfr. Cass. civ., I Sez., 17.11.2003 n.
17339).
Infine, non può fondatamente sostenersi che
il rilascio del provvedimento di condono è
precluso dalla violazione delle norme sulle
distanze, essendo l’atto volto a regolare i
rapporti tra privato costruttore e pubblica
amministrazione e restando naturalmente
illesi i diritti dei terzi, che potranno
essere fatti valere in sede di giurisdizione
civile, chiedendo, a seconda dei casi, la
demolizione delle opere abusive od il
risarcimento dei danni (cfr. Cons. Stato, IV
Sez., 16.10.1998 n. 1306; TAR Toscana, III
Sez., 11.03.2004 n. 675).
Tanto esposto,
al collegio non resta che prendere atto di
quel che tra i contendenti è rimasto fuori
discussione: e cioè che la sopraelevazione
del fabbricato della controinteressata si
pone a distanza inferiore, per circa la
metà, rispetto a quella legale di ml. 3,
contenuta nell’art. 873 c.c. (sulla
tassatività ed inderogabilità delle norme
sulle distanze dai fabbricati, cfr. Cass.
civile, II Sez., 03.08.1999 n. 8383; Cons.
Stato, IV Sez., 12.07.2002 n. 3929).
D’altro canto, le norme disciplinanti la
distanza tra fabbricati, da osservare in
sede di rilascio di concessione di
costruzione, sono applicabili anche nel caso
di sopraelevazione di un fabbricato
preesistente (cfr. Cass. civile, II Sez.,
07.12.2004 n. 22895; TAR Molise 05.07.1990,
n. 186) (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 22.04.2005 n. 665 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La distanza di mt. 10,00 deve sempre essere rispettata, anche se
una delle due pareti non è finestrata.
L’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1404, in applicazione dell'articolo
41-quinquies della legge urbanistica, come modificato dall'articolo 17
della legge 06.08.1967 n. 765 (cosiddetta «legge ponte»), detta i limiti
di densità, altezza, distanza tra i fabbricati, pone al secondo comma
dell'articolo 9 una prescrizione tassativa ed inderogabile, secondo la
quale «Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue: (…) 2) Nuovi edifici
ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima
assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti».
Questa distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti deve perciò essere sempre rispettata,
indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti
fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo
edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a
diversa altezza rispetto all'altra (Cass., 03.08.1999, n. 8383).
Ed è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella
dell'edificio preesistente, essendo sufficiente per l'applicazione di
tale distanza che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete
contrapposta ad altro edificio, prescindendo altresì dal fatto che esse
siano o meno in posizione parallela e ancorché solo una parte di essa si
trovi a distanza minore da quella prescritta (Cass., 26.07.2002, n.
11013; Cass., 30.03.2001, n. 4715; Cass., 24.07.2001, n. 10062, in Arch.
locaz. e cond. 2001, 797; Cass., 03.08.1999, n. 8383; Cass., sez. un.,
18.02.1997, n. 1486; Cass., 06.05.1993, n. 5226; Cass., 05.11.1992, n.
12001, in Riv. giur. edilizia 1993, I, 776; Cass., 28.08.1991, n. 9207).
Pertanto, la disciplina sulle distanze deve esser osservata anche se
soltanto su uno di essi sono aperte le finestre, mentre quello di fronte
ha una parete cieca, perché l’articolo 9 del decreto ministeriale
02.04.1968 n. 1404 è volto a stabilire, nell'interesse pubblico,
un'idonea intercapedine tra edifici, e non a salvaguardare l'interesse
privato del frontista alla riservatezza (Cass., 06.07.2002, n. 11013;
Cass., 03.05.2001, n. 6176; Cass., 26.01.2001, n. 1108; Cass.,
09.03.1999, n. 1984).
Ciò posto, è ius receptum che, ai fini dell'osservanza delle norme in
materia di distanze legali stabilite dagli articoli 873 e seguenti del
codice civile e delle norme dei regolamenti locali integrativi della
disciplina codicistica, deve ritenersi «costruzione» qualsiasi opera non
completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità ed
immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante appoggio o
incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica
contestualmente realizzato o preesistente e ciò indipendentemente dal
livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo
sviluppo aereo dall'uniformità e continuità della massa, dal materiale
impiegato per la sua realizzazione, dalla sua destinazione.
In particolare, quando si realizzi un edificio dotato di sporti od
aggetti, ovvero un'opera ad esso accessiva consistente in sporti od
aggetti, questi, ove non presentino funzione complementare meramente
decorativa ma dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati
nell'immobile, del quale vengono a costituire un accessorio o una
pertinenza di guisa da ampliarne la superficie o la funzionalità,
assumono il carattere di costruzione e se ne deve tener conto ai fini
dell'accertamento del rispetto della normativa sulle distanze (Cass.,
15.02.2001, n. 2228).
Sicché, nel calcolo delle distanze fra le costruzioni devono trascurarsi
solo gli sporti che consistono in sporgenze di limitata entità, con
funzione meramente decorativa, mentre vengono in considerazione le
sporgenze costituenti, per i loro caratteri strutturali e funzionali,
veri e propri aggetti (Cass., 02.10.2000, n. 13001).
Con la conseguenza che il proprietario del terreno confinante non può,
in violazione delle distanze legali, realizzare una tettoia che avanzi
rispetto all'edificio già esistente, dovendo la tettoia considerarsi
parte integrante del fabbricato (Cass., 30.10.2003, n. 16358; Cass.,
06.03.2002, n. 3199, in Riv. giur. edilizia 2002, I, 1073) (Corte
d’Appello di Firenze, Sez. I, ottobre 2005 n. 1386). |
EDILIZIA PRIVATA: L'obbligo
del rispetto della distanza minima assoluta
tra pareti finestrate e pareti di edifici
esistenti è inderogabile anche per la p.a.
preposta al rilascio della concessione
edilizia.
Il controricorso avversario si limita ad
osservare che la concessione edilizia
rilasciata fa salvi i diritti dei terzi e
che "non spetta al Giudice Amministrativo
indagare sulla effettiva distanza tra le
costruzioni o sulla natura delle stesse
circa la loro contiguità".
Il Collegio a tal proposito osserva che, per
costante giurisprudenza, l'obbligo del
rispetto della distanza minima assoluta tra
pareti finestrate e pareti di edifici
esistenti è inderogabile anche per la p.a.
preposta al rilascio della concessione
edilizia (Cons. giust. amm. sic., sez.
giurisdiz., 17.05.2000, n. 240, TAR Sicilia,
sez. 2^, Catania, 16.12.1993, n. 1003)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 31.01.2005 n. 140 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2004 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Una
costruzione può essere realizzata sul
confine del vicino limitatamente all’altezza
del preesistente muro di fabbrica, mentre
una volta superata tale altezza debbono
essere rispettate le distanze previste tra
le costruzioni dalla disciplina urbanistica.
Come correttamente evidenziato dal TAR, il ricorrente stava realizzando
una costruzione che era solo in parziale
aderenza con quanto costruito in precedenza
dal Sig. Greco, con superamento in altezza
del muro di confine, con la conseguenza che
parte della nuova costruzione era stata
edificata ad una distanza di circa 5 metri
dalla preesistente parete finestrata del
confinante, mentre il limite minimo in
questi casi era stabilito in 10 metri dalla
locale normativa urbanistica.
L’appellante non contesta detta situazione
di fatto ma sostiene che essendoci un muro
di confine tra i due fabbricati non
occorreva rispettare alcuna distanza per la
nuova costruzione.
Occorre invece tener presente che una
costruzione può essere realizzata sul
confine del vicino limitatamente all’altezza
del preesistente muro di fabbrica, mentre
una volta superata tale altezza debbono
essere rispettate le distanze previste tra
le costruzioni dalla disciplina urbanistica
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.11.2004 n. 7746 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
distanza tra pareti finestrate
ricomprendendo o meno il balcone.
A quest’ultimo proposito si noti, peraltro,
per completezza, in relazione alla censura
svolta in primo grado, che la disciplina
vigente al momento del rilascio della
contestata concessione edilizia era, come si
ripete, quella promanante dell’art. 44 del
Regolamento edilizio del 1982 e dall’art. 4
delle NTA del PRG del 1980.
In base all'art. 44 del vigente Regolamento
Edilizio “la distanza dai confini” (fissata,
in linea generale e salve talune eccezioni
qui non rilevanti, in mt. 5) “si misura
sulla normale portata al confine dal punto
più vicino dell’edificio che faccia parte
del volume o della superficie coperta dello
stesso”.
In base all'art. 4 delle NTA del PRG, poi,
il volume delle costruzioni “si ricava
moltiplicando la superficie lorda di
pavimento dei singoli piani per l’altezza
virtuale dell’interpiano…….”; e nella
superficie lorda di pavimento, in base alla
stessa norma, non sono da ricomprendere, tra
gli altri, gli aggetti aperti, i balconi e
le terrazze; quanto alla superficie coperta,
sempre in base al ripetuto art. 4, sono da
essa pure escluse le parti aggettanti e i
balconi.
Ne consegue che, nel calcolo delle distanze
dai confini, correttamente non si è tenuto
conto, nella specie, da parte del Comune,
dei contestati balconi, in quanto non
rientranti, in base alla disciplina locale,
nel volume, né nella superficie lorda, né in
quella coperta dell’edificio da realizzare;
la distanza di mt. 5, infatti, andava
calcolata non a partire dal punto più vicino
dell’erigendo edificio, bensì solo dalle
parti dell’edificio stesso costituenti
volume o superficie coperta del medesimo,
mentre tali non sono stati considerati, in
base alla predetta disciplina normativa e
nel rispetto della medesima, le parti
aggettanti e, in particolare, i balconi; si
può discutere della legittimità di una
disciplina siffatta che, di fatto, esclude,
dal computo delle distanze, parti
dell’edificio che, normalmente, vanno
considerate a tali fini; ma la disciplina
stessa non è stata fatta oggetto di
specifico gravame (Consiglio di Stato, Sez.
V, sentenza V,
sentenza 12.08.2004 n. 5554 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza minima di mt. 10,00 deve essere rispettata anche nel caso di
sopralzo.
La previsione di un obbligo di distanza maggiore (rispetto a quella
imposta dal codice civile) fra costruzioni, quando vi sono finestre, si
ricollega alla necessità di offrire uno strumento di conservazione di
spazi di un certo respiro (in termini di aria, luce e panorama), non
angusto, tutelando le posizioni di coloro che hanno affacci e vedute in
parete.
La distanza minima di mt. 10 fra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, prescritta dall'art. 9, comma 2°, D.M. 02.04.1968 n. 1444, è
applicabile anche in caso di sopraelevazione, atteso che la sua ratio è
di evitare la creazione di intercapedini in grado di impedire la libera
circolazione dell' aria e la riduzione della luminosità (Cfr. TAR
Puglia, Bari, 1386 - 26.03.2003; Cons. Stato, V Sez., 19.10.1999 n.
1565) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 18.04.2004 n. 757). |
EDILIZIA PRIVATA: L'articolo
878 del codice civile si riferisce soltanto
ad un muro che abbia entrambe le facce
isolate dalle altre costruzioni e non
racchiuda, quindi, uno spazio coperto con
una propria volumetria come nel caso in
esame e, pertanto, le norme tecniche di
attuazione di un Comune non sono autorizzate
a modificare la definizione codicistica.
Il ricorrente, in qualità di proprietario confinante, ha impugnato la
concessione edilizia in epigrafe indicata,
nonché l'articolo 27, commi 4° e 5°, delle NTA della variante al PRG, sulla
quale si fonda il rilascio del suddetto
provvedimento, con il quale la controinteressata è stata autorizzata a
costruire un fabbricato ad uso autorimessa,
di altezza di circa m. 3, da porsi sul
confine di proprietà per un fronte di m. 4,
deducendone l’illegittimità sotto vari
profili.
Si è costituito in giudizio il Comune
intimato che ha chiesto il rigetto del
ricorso.
Non si sono costituiti in giudizio né la
provincia di Ferrara né la controinteressata.
L'istanza cautelare è stata accolta con
ordinanza n. 399 del 25.06.2003 e la
causa è stata trattenuta in decisione
all'udienza del 18.03.2004.
Il ricorso è fondato con specifico
riferimento alle censure di violazione degli
articoli 873 e 878 del codice civile e di
eccesso di potere per irragionevolezza e
falso presupposto di diritto.
Già in un'analoga controversia promossa
dall'odierno ricorrente avverso un'altra
simile costruzione da realizzare sempre sul
confine di proprietà da parte di un altro
confinante, sul lato nord, questo Tribunale
Amministrativo Regionale, con sentenza n.
2770 del 31.12.2003, ha rilevato uno
specifico contrasto tra l'articolo 27, comma
quinto, delle predette norme tecniche di
attuazione rispetto agli articoli suddetti
del codice civile.
Infatti, la citata disposizione comunale
dispone che "nelle zone residenziali
è possibile, anche in deroga alle distanze
fissate dall'articolo 12 delle presenti
norme, l'edificazione sul confine di
proprietà di edifici, privi di pareti
finestrate, di altezza esterna, intesa come
massimo ingombro, inferiore a metri tre,
senza necessità di convenzione tra
confinanti, intendendo tali edifici come
muri di cinta, ai sensi del codice civile".
Invero, come già precisato dalla suddetta
sentenza, l'articolo 878 del codice civile
si riferisce soltanto ad un muro che abbia
entrambe le facce isolate dalle altre
costruzioni e non racchiuda, quindi, uno
spazio coperto con una propria volumetria
come nel caso in esame e, pertanto, le norme
tecniche di attuazione di un Comune non sono
autorizzate a modificare la definizione codicistica.
Del resto la strumentazione urbanistica del
Comune intimato, per regola generale,
all'articolo 12, lettera c, dispone che gli
interventi di nuove costruzioni debbano
osservare una distanza minima di 5
metri dai confini di proprietà, riducibile a
metri 3 soltanto con apposita convenzione
tra confinanti, con ciò escludendo
l'applicazione diretta del criterio
civilistico della prevenzione, di cui
all’articolo 873 del codice civile, che non
può indirettamente essere reintrodotto
attraverso un'illogica ed illegittima
equiparazione di una vera e propria
costruzione, a tutti gli effetti, ad un muro
privo di volumetria coperta (TAR Emilia
Romagna, sez. II, sent. n. 2770 del 31.12.2003).
Per tali ragioni, di carattere assorbente
rispetto alle ulteriori censure dedotte, il
ricorso va accolto, e per l’effetto, si
conferma l’annullamento dell'articolo 27,
comma 5°, delle NTA della variante al
PRG del comune di Poggiorenatico (FE),
ivi comprese, in parte qua, le deliberazioni
di adozione e di approvazione meglio
indicate in epigrafe (già pronunciato con la
citata sentenza del TAR Emilia
Romagna, sez. II, sent. n. 2770 del 31.12.2003), nonché, per illegittimità
derivata, la concessione edilizia impugnata
n. C034/2002 rilasciata a Masina Margherita
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 08.04.2004 n. 509 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie
in materia di ristrutturazione - Distanze.
Poiché nel concetto di ristrutturazione
rientrano anche le opere di totale
demolizione e di fedele ricostruzione di un
edificio, ove la ricostruzione assicuri la
piena conformità di sagoma, di volume e di
superficie tra il vecchio ed il nuovo
fabbricato (fra le tante: Cons. St., Sez. V,
09.07.1990 n. 594; 18.12.1997 n. 1581;
20.10.1998 n. 1491; 03.04.2000 n. 1906;
09.10.2002 n. 5410), sono illegittime le
Norme tecniche di attuazione di un comune
che impongono il rispetto delle distanze dai
confini e dalle strade laddove gli
interventi di ristrutturazione edilizia
siano attuati mediante demolizione e
ricostruzione, perché in tal modo si
impedisce nella sostanza la ricostruzione
fedele del preesistente edificio (massima tratta da www.studiospallino.it -
TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 11.03.2004 n. 266
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2003 |
|
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza minima di mt. 10 tra fabbricati non
è soggetta ad essere derogata con accordi
pattizi tra privati.
La disciplina delle distanze legali tra
fabbricati è sancita da norme poste a tutela
delle superiori esigenze di ordine pubblico
ad una ordinata e razionale edificazione, e
perciò non soggette ad essere derogate da
accordi pattizi privati (cfr. Cons. Stato,
IV Sezione, n. 3929 del 12.07.2002)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.09.2003 n. 5032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
comune può prevedere distanze maggiori, tra
fabbricati, di quella minima di 10 mt. di
cui al
DM 02.04.1968
n. 1444.
L'art. 9 del DM
02.04.1968 n. 1444 non preclude ai comuni,
nella formazione dei piani regolatori
generali e dei regolamenti edilizi, la
possibilità di prescrivere un distacco fra
edifici che si fronteggino, maggiore
rispetto a quello minimo imposto dal decreto
(Cass. civ. sez. II, 04.02.1998, n. 1132)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.01.2003 n. 419 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di distanza minima di 10 mt. tra
fabbricati, ex art. 9 DM 1444/1968,
in presenza di
contrasto tra norma legislativa e norma
regolamentare, deve ritenersi disapplicabile
la seconda.
In tema di distanze tra costruzioni restano
salvi i diritti dei terzi i quali, ove lesi
dalla costruzione realizzata senza il
rispetto delle disposizioni sulle distanze,
conservano il diritto ad ottenere la
riduzione in pristino.
La
distanza di mt. 10 tra pareti finestrate
rappresenta quella minima inderogabile
prestabilita dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, decreto che, in quanto emanato
in esecuzione della norma sussidiaria
dell’art. 41-quinquies della L. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dalla L.
06.08.1967 n. 765, ripete dal rango della stessa
legge delegante la forza di norma
legislativa capace di integrare l’art. 872 cod.civ..
Tanto comporta che, in presenza di contrasto
tra norma legislativa e norma regolamentare,
deve ritenersi disapplicabile la seconda,
giacché, secondo la giurisprudenza, pur in
difetto di specifica doglianza di parte, è
consentito al Giudice Amministrativo
sindacare gli atti di normazione secondaria,
incidenti su diritti soggettivi di terzi, al
fine di accertarne l’idoneità ad innovare
l’ordinamento e, in concreto, a fornire la
regola di giudizio per risolvere la
questione controversa (Cons. St., Sez. V, 26.02.1992 n. 154; 24.07.1993 n. 799;
07.04.1995 n. 531; Sez. IV, 29.02.1996
n. 222).
Peraltro, in tema di distanze tra
costruzioni restano salvi i diritti dei
terzi i quali, ove lesi dalla costruzione
realizzata senza il rispetto delle
disposizioni sulle distanze, conservano il
diritto ad ottenere la riduzione in pristino
(Cass., Sez. II, 13.10.2000 n. 13639)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 23.01.2003 n. 197 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2002 |
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EDILIZIA PRIVATA: La
deroga alle distanze tra fabbricati può
trovare applicazione solo relativamente alle
distanze tra edifici facenti parte della
stessa lottizzazione. Nel caso di un Piano
di Recupero,
avente natura attuativa alla stessa stregua
del piano di lottizzazione, tale deroga può
trovare applicazione solo tra edifici
compresi nel perimetro del piano stesso.
Secondo la
giurisprudenza, l’ultimo comma dell’art. 9
del D.M. 02.04.1968 n. 1444, che consente
una deroga alle distanze tra fabbricati, può
trovare applicazione solo relativamente alle
distanze tra edifici facenti parte della
stessa lottizzazione (Cass., SS.UU.,
18.02.1997 n. 1486), sicché, nel caso di che
trattasi, concernente un piano di recupero,
avente natura attuativa alla stessa stregua
del piano di lottizzazione, tale deroga può
trovare applicazione solo tra edifici
compresi nel perimetro del piano stesso,
mentre gli immobili dei ricorrenti sono
esterni ad esso.
Peraltro, in tema di distanze tra
costruzioni, l’esistenza di
un’autorizzazione da parte del Comune
all’edificazione fa salvi i diritti dei
terzi, pertanto è priva di rilevanza nei
rapporti tra privati i quali, ove lesi dalla
costruzione realizzata senza il rispetto
delle disposizioni sulle distanze,
conservano il diritto ad ottenere la
riduzione in pristino (Cass., Sez. II,
13.10.2000 n. 13639).
Né giova a far ritenere legittima, sul
punto, la concessione edilizia in discorso
l’esistenza del presupposto piano di
recupero, divenuto inoppugnabile, che
prevede la possibilità di derogare alle
norme sulle distanze, previste in m. 10 tra
pareti finestrate dal PRG vigente.
Infatti, deve ricordarsi che tale distanza
rappresenta quella minima inderogabile
prestabilita dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968
n.1444, decreto che, in quanto emanato in
esecuzione della norma sussidiaria dell’art.
41-quinquies della L. 17.08.1942 n. 1150,
introdotto dalla L. 06.08.1967 n. 765,
ripete dal rango della stessa legge
delegante la forza di norma legislativa
capace di integrare l’art. 872 cod. civ..
Tanto comporta che, in presenza di contrasto
tra norma legislativa e norma regolamentare,
deve ritenersi disapplicabile la seconda,
giacché, secondo la giurisprudenza, pur in
difetto di specifica doglianza di parte, è
consentito al Giudice Amministrativo
sindacare gli atti di normazione secondaria,
incidenti su diritti soggettivi di terzi, al
fine di accertarne l’idoneità ad innovare
l’ordinamento e, in concreto, a fornire la
regola di giudizio per risolvere la
questione controversa (Cons. St., Sez.V,
26.02.1992 n. 154; 24.07.1993 n. 799;
07.04.1995 n. 531; Sez. IV, 29.02.1996 n.
222)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 25.10.2002 n. 1023 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie
in materia di ristrutturazione - Distanze.
Il riattamento di un sottotetto di edificio
esistente, con rialzo del medesimo, non
costituisce realizzazione di un nuovo
edificio, ma ristrutturazione
dell'esistente.
Ne consegue che non trova applicazione la
disciplina delle distanze dai confini e non
esistono potenziali controinteressati, e che
il recupero del sottotetto va considerato
ristrutturazione ex art. 3, comma 2, della
l.reg. Lombardia, 15.07.1996, n. 15, anche
se comporta un aumento dell'altezza
dell'edificio (massima tratta da
www.studiospallino.it - TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 18.09.2002 n. 1176 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
D.M. 02.04.1968 n. 1444, emanato in forza
dell’art. 17 della <<legge ponte>>, trae da
questa la forza di integrare con efficacia
precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l’inderogabile distanza
di dieci metri tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i
Comuni in sede di formazione e di revisione
degli strumenti urbanistici, con la
conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto
limite minimo è illegittima, essendo
consentita alla P.A. solo la fissazione di
distanze superiori.
Non può, pertanto, escludersi la
legittimazione e l’interesse del privato
confinante ad impugnare le norme dello
strumento urbanistico comunale ed i
conseguenti atti applicativi nel momento in
cui in base ad essi sia prevista a favore
del vicino costruttore una consistente
deroga alla rigida osservanza delle distanze
tra fabbricati di cui al D.M. n.1444/1968
cit., nella specie attuata, come dedotto
dagli appellati, tramite la demolizione di
un edificio preesistente -una villetta- e la
ricostruzione al suo posto di un fabbricato
di sei piani posto a una distanza inferiore
ai dieci metri prescritti; la deroga,
infatti, viene ritenuta ammissibile
unicamente nei casi di demolizione e
ricostruzione in forma fedele (quantomeno
nelle medesime dimensioni esterne), non
potendosi ritenere sussistente in tal caso
una nuova costruzione, ma solo il suo
recupero, con una serie di interventi
assimilabili alla manutenzione
straordinaria.
Il D.M.
02.04.1968 cit., infatti, emanato in forza
dell’art. 17 della <<legge ponte>>
trae da questa la forza di integrare con
efficacia precettiva il regime delle
distanze nelle costruzioni, sicché
l’inderogabile distanza di dieci metri tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i Comuni in sede di
formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima
(cfr. Cass. civ., SS.UU., 21.02.1994,
n.1645), essendo consentita alla P.A. solo
la fissazione di distanze superiori (cfr.
Cons. St., IV, 13.05.1992, n. 511; Cass.
civ., 29.10.1994, n. 8944; id., 21.02.1994,
n. 1645; id. 04.02.1998, n.1132); non può,
pertanto, escludersi la legittimazione e
l’interesse del privato confinante ad
impugnare le norme dello strumento
urbanistico comunale ed i conseguenti atti
applicativi nel momento in cui in base ad
essi sia prevista a favore del vicino
costruttore una consistente deroga alla
rigida osservanza delle distanze tra
fabbricati di cui al D.M. n. 1444/1968 cit.,
nella specie attuata, come dedotto dagli
appellati, tramite la demolizione di un
edificio preesistente -una villetta- e la
ricostruzione al suo posto di un fabbricato
di sei piani posto a una distanza inferiore
ai dieci metri prescritti; la deroga,
infatti, viene ritenuta ammissibile
unicamente nei casi di demolizione e
ricostruzione in forma fedele (quantomeno
nelle medesime dimensioni esterne), non
potendosi ritenere sussistente in tal caso
una nuova costruzione, ma solo il suo
recupero, con una serie di interventi
assimilabili alla manutenzione straordinaria
(cfr. Cass. civ., 25.08.1989, n. 3762)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.07.2002 n. 3929 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’inderogabile
distanza di 10 metri tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i
Comuni in sede di formazione e di revisione
degli strumenti urbanistici, con la
conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto
limite minimo è illegittima.
Le norme di cui al D.M. 02.04.1968, n.
1444, hanno carattere pubblicistico e
inderogabile, in quanto dirette, più che
alla tutela di interessi privati, a quella
di interessi generali in materia
urbanistica, norme che si riferiscono alla
distanza fra fabbricati e non alla distanza
di questi dal confine (cfr. Cass. civ., II,
16.02.1996, n. 1021).
Il D.M.
02.04.1968 cit., infatti, emanato in forza
dell’art. 17 della <legge ponte>
trae da questa la forza di integrare con
efficacia precettiva il regime delle
distanze nelle costruzioni, sicché
l’inderogabile distanza di dieci metri tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i Comuni in sede di
formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima
(cfr. Cass. civ., SS.UU., 21.02.1994,
n. 1645), essendo consentita alla P.A. solo
la fissazione di distanze superiori (cfr.
Cons. St., IV, 13.05.1992, n. 511; Cass.
civ., 29.10.1994, n. 8944; id., 21.02.1994,
n. 1645; id. 04.02.1998, n. 1132); non può,
pertanto, escludersi la legittimazione e
l’interesse del privato confinante ad
impugnare le norme dello strumento
urbanistico comunale ed i conseguenti atti
applicativi nel momento in cui in base ad
essi sia prevista a favore del vicino
costruttore una consistente deroga alla
rigida osservanza delle distanze tra
fabbricati di cui al D.M. n. 1444/1968 cit.,
nella specie attuata, come dedotto dagli
appellati, tramite la demolizione di un
edificio preesistente -una villetta- e la
ricostruzione al suo posto di un fabbricato
di sei piani posto a una distanza inferiore
ai dieci metri prescritti; la deroga,
infatti, viene ritenuta ammissibile
unicamente nei casi di demolizione e
ricostruzione in forma fedele (quantomeno
nelle medesime dimensioni esterne), non
potendosi ritenere sussistente in tal caso
una nuova costruzione, ma solo il suo
recupero, con una serie di interventi
assimilabili alla manutenzione straordinaria
(cfr. Cass. civ., 25.08.1989, n. 3762).
Se è vero che l’applicazione dell’art. 17
della legge n. 765 del 1967 e della
disposizione del D.M. n. 1444 del 1968,
secondo cui le costruzioni debbono osservare
una distanza minima di 10 metri tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, sono subordinate all’inesistenza
di strumenti urbanistici anteriori
contenenti norme sulle distanze (cfr. Cass.
civ., SS.UU., 22.11.1994, n. 9871), tuttavia
gli strumenti urbanistici (e le relative
revisioni) approvati successivamente
all’entrata in vigore del citato decreto non
possono contrastare con le direttive del
decreto stesso (cfr. Cass. civ., II,
24.07.2001, n. 10062) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.07.2002 n. 3929 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2001 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie
in materia di ristrutturazione - Distanze.
La demolizione e ricostruzione di un
edificio rientra nel concetto di
ristrutturazione edilizia allorché ricorrono
i seguenti presupposti: sostituzione di
elementi strutturali quali le pareti
perimetrali, ricostruzione nel medesimo
sito, cubatura identica salvo gli
scostamenti di modesto rilievo correlati
alla c.d. "tolleranza di cantiere"
(variazione nel limite del 3% rispetto alle
precedenti dimensioni per cubatura altezze,
distanze ecc.) (massima tratta da
www.studiospallino.it - TAR Sicilia-Catania,
Sez. I, sentenza 12.12.2001 n. 2400). |
EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie
in materia di ristrutturazione - Distanze.
La demolizione e ricostruzione di un
edificio rientra nel concetto di
ristrutturazione edilizia allorché ricorrono
i seguenti presupposti: sostituzione di
elementi strutturali quali le pareti
perimetrali, ricostruzione nel medesimo
sito, cubatura identica salvo gli
scostamenti di modesto rilievo correlati
alla c.d. "tolleranza di cantiere"
(variazione nel limite del 3% rispetto alle
precedenti dimensioni per cubatura altezze,
distanze ecc.) (massima tratta da
www.studiospallino.it - TAR Sicilia-Catania,
Sez. I, sentenza 05.12.2001 n. 2203). |
anno 2000 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie
in materia di ristrutturazione - Distanze.
Nell’ambito delle opere edilizie, va tenuta
distinta la semplice ristrutturazione, che
si verifica ove gli interventi abbiano
interessato un edificio del quale
sussistano, ed, all’esito degli stessi,
rimangano inalterate le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le
strutture orizzontali, la copertura, sicché
le modificazioni siano solo interne, dalla
ricostruzione, ravvisabile allorché
dell’edificio preesistente siano venute
meno, per evento naturale o per volontaria
demolizione, dette componenti, e
l’intervento si traduca nell’esatto
ripristino delle stesse operato senza alcuna
variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell’edificio, ed, in
particolare, senza aumenti né della
volumetria, né delle superfici occupate in
relazione alla originaria sagoma di
ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte,
invece, in ipotesi di nuova costruzione, da
considerare tale, ai fini del computo delle
distanze rispetto agli edifici contigui come
previste dagli strumenti urbanistici locali,
nel suo complesso, ove lo strumento
urbanistico rechi una norma espressa con la
quale le prescrizioni sulle maggiori
distanze previste per le nuove costruzioni
siano estese anche alle ricostruzioni,
ovvero, ove una siffatta norma non esista,
solo nelle parti eccedenti le dimensioni
dell’edificio originario (massima tratta da
www.studiospallino.it - Corte di Cassazione,
Sez. II civile, sentenza 26.10.2000 n.
14128). |
EDILIZIA PRIVATA: 1 - Concessione - Distanze legali
tra edifici - Ratio della norma.
2 - Concessione - Distanze legali
tra edifici - Violazione del D.M. 1444/1968
- Annullamento in via di autotutela
-Legittimità - Irrilevanza della
destinazione dello spazio tra edifici e
dell'unicità del fabbricato.
1 - La disciplina legale delle distanze è
preordinata alla tutela di interessi
generali sussumibili nell'esigenza di
evitare la creazione di intercapedini tra
fabbricati dannose dal punto di vista
igienico ma anche alla tutela di privati
diritti soggettivi da individuarsi nella
pretesa per ciascun proprietario o
possessore di un edificio di godere di
sufficiente veduta e di luce.
2 - E' legittimo l'annullamento in via di
autotutela della concessione edilizia
rilasciata in violazione dell'art. 9 del
D.M. 1444/1968 in quanto, ai fini
dell'osservanza delle distanze legali, la
realizzazione di una sopraelevazione (e più
precisamente il piano rialzato di un
edificio) costituisce una nuova costruzione
(o nuovo edificio, i due termini devono
considerarsi sinonimi) che va ad occupare
nuovi spazi a fronte dei quali sorge
l'indefettibile esigenza, affermata dal
legislatore, di assicurare al proprietario
frontista un "minimum" di distacco
commisurato appunto nei 10 metri di cui
all'art. 9 del D.M. 1444/1968.
A tal fine,
non rileva né l'eventuale circostanza che
trattasi di un unico edificio, né la
funzione riservata dai proprietari agli
spazi esistenti tra edifici vicini, ma solo
la loro oggettiva idoneità a costruire
intercapedini vietate dalla legge, cosicché
la distanza tra costruzioni imposta ex
lege deve essere osservata anche
nell'ipotesi in cui lo spazio tra detti
edifici abbia funzione di cortile,
costituendo questo, se largo meno della
distanza minima prescritta, una
intercapedine vietata.
__________________
1. - Sulla rilevanza pubblicistica degli
standard imposti dal D.M. 1444/1968 con
riguardo ai distacchi tra fabbricati e i
confini, si veda Tar Toscana, sez. III, 02.12.1999 n. 676 in Rass.
TAR 2000 pag. 773 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 19.05.2000 n.
922 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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