dossier L.R. 11.03.2005 N. 12 |
per approfondimenti vedi anche:
L.R. 11.03.2005 n. 12
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P.G.T. -
Piani di Governo del Territorio |
ANNO 2022 |
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marzo 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Standard edilizi, al vaglio di costituzionalità la deroga «senza
limiti» introdotta dal decreto "Fare".
Il Consiglio di Stato rimette alla Consulta l'articolo 2-bis del testo unico
edilizia introdotto dal Dl n. 69/2013.
Al vaglio di costituzionalità la possibilità di disapplicare le norme del
decreto ministeriale 1444 sugli standard, in seguito alla norma prevista del
decreto legge n. 69 del 2013 (cosiddetto decreto "fare") che ha aggiunto
l'articolo 2-bis al testo unico edilizia.
Lo ha deciso la IV Sez. del Consiglio di Stato con l'ordinanza 17.03.2022 n. 1949
di rimessione alla Consulta.
La norma innovativa del Testo unico è stata concepita con l'obiettivo di
superare la rigida applicazione degli standard edilizi -incluso il rispetto
delle distanze minime tra gli edifici- che rappresentano una necessaria
tutela nei contesti urbani di espansione edilizia ma allo stesso tempo un
forte vincolo in quelli in cui si interviene sul costruito.
All'epoca, il governo Letta ha voluto dare una risposta alle pressanti
sollecitazioni degli operatori varando il decreto legge "fare" con
molte altre norme di snellimento procedurale e normativo, sia in materia di
amministrazione pubblica/urbanistica, sia in materia di gare e lavori
pubblici.
Nel corposo e variegato Dl n. 69/2013, approvato nel giugno 2013, ha trovato
spazio anche il nuovo articolo 2-bis inserito nel Dpr 380/2001, secondo il
quale «ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento
civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del
codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e
regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da
destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito
della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a
un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».
Il punto controverso
Il punto controverso -va sottolineato- non è quello del rispetto dei limiti
minimi sulle distanze, sul quale la Corte Costituzionale si è già
pronunciata confermando l'obbligo di rispettare i principi statali,
riconosciuti come «inderogabili in quanto afferenti alla materia
dell'ordinamento civile», e in quanto tali di esclusiva competenza
statale.
In questo caso, la questione controversa resta nell'ambito del governo del
territorio, materia di legislazione concorrente, che dà potere di legiferare
alla Regione, nel rispetto delle norme di principio fissate dallo Stato. La
Lombardia è tra le regioni che ha previsto la disapplicazione della
dotazione di standard indicata nel Dm 1444 (salvo, come detto, per quanto
riguarda i limiti sulle distanze), con una norma inserita nella legge
regionale 12/2005 (articolo 103, comma 1-bis).
Il caso oggetto del contenzioso ha messo in evidenza quello che, visto dalla
prospettiva dei giudici, è apparso una sorta di vulnus, tale da mettere la
norma statale a rischio di anticostituzionalità.
Il "vulnus" che apre al rischio di
incostituzionalità
Il motivo, spiegano i giudici della Quarta Sezione di Palazzo Spada, è che
la norma introdotta nel 2013, «intervenendo in materia di competenza
concorrente senza porre alcun confine di principio al potere di deroga
attribuito a tutte le regioni rispetto alle preesistenti norme statali,
senza assolvere alla funzione propria attribuita dalla Costituzione allo
Stato di individuare i principi, così rendendo certamente possibili
legislazioni regionali molto diverse tra di loro, contrasterebbe con l'art.
117, terzo comma» della Costituzione.
La disapplicazione degli standard, come operata dalla regione Lombardia,
lascia infatti aperta la possibilità di prevedere un diverso valore degli
standard sia inferiore ai limiti del Dm 1444, sia superiore. Di fatto,
questo si traduce nella possibilità di «poter arrivare ad annullarne la
previsione, in violazione dell'articolo 117, secondo comma, lett. m), della
Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto
il territorio nazionale».
Nel caso specifico, relativo a quello di un comune della Lombardia,
l'appellante ha prospettato due possibilità in egual misura paradossali, in
quanto il comune potrebbe in teoria ridurre lo standard all'1%, violando il
precetto della buona amministrazione, sia, all'opposto, imporre uno standard
del 99%, «determinando una situazione para-espropriativa».
Si torna alla legge del 1942
La prospettiva di una tale deregulation -cui corrisponde una potenziale
evidente difformità di trattamento sul territorio- spinge il ragionamento
dei giudici a tornare alla norma statale di riferimento, cioè la legge
urbanistica del '42.
«Può dunque ritenersi -si legge nell'ordinanza al punto 9.3- posto che
nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano
rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono
comma dell'articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l'esigenza
che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano
a criteri di definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non
essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche
vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e
parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali».
È pertanto inaccettabile -prosegue il ragionamento dei giudici- che la
modifica introdotta nel Testo Unico cancelli la «necessità di assicurare
una quota minima di infrastrutture e aree per servizi pubblici che sia la
stessa sull'intero territorio nazionale».
Lo stato fissi i limiti, alle regioni la scelta di
rafforzarli
L'ordinanza conclude richiamando l'importanza del ruolo del legislatore
nazionale.
«In definitiva -si legge al punto 10.1 dell'ordinanza- pur in un quadro
costituzionale e legislativo caratterizzato dai principi di sussidiarietà
verticale e di prossimità territoriale, in ragione dei quali la regolazione
dell'assetto del territorio è rimessa quanto più possibile ai livelli di
governo più vicini alle comunità di riferimento, deve ritenersi che la
determinazione delle dotazioni infrastrutturali pubbliche o di interesse
generale resti riservata al legislatore statale, in quanto ragionevolmente
riconducibile all'ambito delle prestazioni concernenti diritti civili e
sociali; in tale prospettiva, al legislatore statale spetta non soltanto
individuare i principi fondamentali della materia, sibbene fissare i livelli
minimi delle predette prestazioni, rispetto ai quali le normative regionali
potrebbero intervenire esclusivamente in senso "rafforzativo"».
«Ciò peraltro -ci tengono a chiarire i giudici- non comporta la totale
obliterazione delle competenze legislative regionali, atteso che altro è la
determinazione di livelli essenziali (minimi), altro la regolamentazione,
tanto in termini quantitativi che qualitativi, delle dotazioni di standard,
rispetto alla quale ultima –una volta garantito il rispetto della normativa
statale vigente– la competenza regionale (che dovrebbe comunque ritenersi,
ratione materiae, comunque di tipo concorrente) potrebbe tornare in gioco».
Le conseguenze dell'incostituzionalità
Cosa succede se la Corte Costituzionale dovesse dichiarare incostituzionale
l'articolo 2-bis del 380?
Nel caso specifico l'illegittimità costituzionale travolgerebbe
inevitabilmente anche la norma della regione Lombardia (e cioè l'articolo
103, comma 1-bis, della legge 12/2005): «la disposizione -si legge
nell'ordinanza- andrebbe a sua volta dichiarata incostituzionale in via
consequenziale». La parola passa alla Consulta
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 18.03.2022). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Alla
Corte costituzionale le deroghe in materia di limiti di distanza tra
fabbricati.
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Edilizia - Distanze – D.M. n. 1444 del 1968 - livelli essenziali delle
prestazioni – Deroghe delle Regioni – Art. 2-bis, comma 1, d.P.R. n. 380 del
2001 – Questione di legittimità costituzionale.
Sono rilevanti e non manifestamente infondate le
questioni di legittimità costituzionale relative:
a) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
l. 09.08.2013, n. 98, per violazione degli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost.;
b) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
l. 09.08.2013, n. 98, per violazione dell’art. 117, terzo comma, lettere m)
ed s), Cost.;
c) all’art. 103, comma 1-bis, l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12,
come introdotto dalla l.reg. 14.03.2008, n. 4, e successivamente modificato
dalla l.reg. 26.11.2019, n. 18, per violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettere m) ed s), e terzo comma, Cost. (1).
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(1) La questione di legittimità costituzionale sollevata
dall’appellante riposa sul presupposto per cui l’art. 2-bis, comma 1, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 autorizzerebbe le Regioni ad emanare una legislazione
derogatoria rispetto al d.m. n. 1444 del 1968 in materia di dotazione delle
aree a standard fino a poter arrivare ad annullarne la previsione, in
violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale.
La Sezione ha esaminato la possibilità di una lettura costituzionalmente
orientata della norma statale, tale da far venir meno il dovere di
rimessione della questione alla Corte costituzionale. Una prima possibile
interpretazione poggia sul rilievo che le regole cogenti del d.m. n. 1444
del 1968 si riespanderebbero in caso di mancato esercizio da parte delle
Regioni della facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2-bis; una
seconda interpretazione prospetta la possibilità di interpretare la norma
nel senso di far salvi in ogni caso i limiti inderogabili stabiliti dal d.m.
Tuttavia, di queste due letture la prima non è idonea a far venir meno la
possibile illegittimità costituzionale della disposizione: il fatto che la “cedevolezza”
delle previsioni del d.m. sia solo potenziale, dipendendo dal concreto
esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga, non fa venir meno
il vulnus a quella che dovrebbe essere, in thesi, la loro
inderogabilità da parte del legislatore regionale.
Quanto alla seconda ipotesi, questa si risolve –in sostanza- nel far dire
alla norma regionale qualcosa che la stessa espressamente non afferma, sulla
base di un’argomentazione ermeneutica “additiva” che non trova
aggancio nel dato testuale. Peraltro, malgrado un dubbio interpretativo
possa forse essere ingenerato dal successivo comma 1-bis dell’articolo in
esame, introdotto dal più recente d.l. 18.04.2019, n. 32, convertito, con
modificazioni, dalla legge 14.06.2019, n. 55, secondo cui le disposizioni
del comma 1 “sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di
limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti
urbani consolidati del proprio territorio”, il tenore testuale del comma
1 rimane inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al d.m. n. 1444/1968
alla possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare
disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e
ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti
urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali”.
Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale,
non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di
autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. n.
1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai
plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le
Regioni si sono avvalse di tale facoltà).
La Sezione ha ipotizzato che la norma statale di principio sia da rivenirsi
nel già citato articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942,
introdotto dalla legge n. 765 del 1967, il quale –come è noto- costituisce
la fonte di derivazione del d.m. n. 1444 del 1968, imponendo agli strumenti
urbanistici generali il rispetto di parametri e limiti definiti
espressamente “inderogabili”.
Ha ancora chiarito la Sezione che posto che nella materia del governo del
territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della
legislazione statale, che il nono comma dell’articolo 41-quinquies della
legge n. 1150/1942 esprima l’esigenza che le dotazioni di spazi pubblici,
infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su
tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile
che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù
dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse
legislazioni regionali.
Tale però sembra essere il risultato dell’applicazione dell’articolo 2-bis
del d.P.R. n. 380/2001, come inserito dal decreto-legge 21.06.2013, n. 69,
convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, il quale,
autorizzando le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano a “prevedere,
con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444”, produce l’effetto di
“neutralizzare” il carattere cogente delle anzi dette disposizioni
dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e delle disposizioni
regolamentari che ne discendono. 9.4.
Tuttavia, anche a voler ritenere che con la novella del 2013 al T.U.
dell’edilizia il legislatore statale abbia inteso perseguire una deliberata
ratio di abrogazione implicita dei commi ottavo e nono dell’articolo
41-quinquies della legge n. 1150/1942, tale operazione appare di dubbia
compatibilità con il quadro costituzionale sopra delineato, in quanto si
risolve in una sostanziale abdicazione dalla fissazione di parametri e
criteri generali, cui pure il legislatore statale sarebbe chiamato in
materia di competenza concorrente, in modo da consentire a ciascuna Regione
di dettare regole autonome e disomogenee in materia di dimensionamento delle
aree a destinazione residenziale, degli spazi pubblici, delle
infrastrutture, del verde pubblico etc.
Ciò peraltro comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo
della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui,
obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo
tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della
legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli,
che –come puntualmente dedotto dal Fallimento nel presente giudizio- risulta
potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse Regioni pur in
relazione ad aree avente identica destinazione urbanistica e ad interventi
edilizi rientranti nella medesima tipologia. Sul possibile contrasto con
l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed s), della Costituzione
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
ordinanza 17.03.2022 n. 1949 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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ORDINANZA
... per la riforma della
sentenza
20.04.2020 n. 654 del Tar per la Lombardia, sede di Milano,
sezione seconda.
...
La fase pregressa del giudizio.
1. La presente controversia concerne la disciplina urbanistica -prevista dal
Piano di Governo del Territorio (d’ora in poi “PGT”) approvato dal Comune di
Villasanta nel 2019– di un’ampia area di proprietà del Fallimento Lo.Pe.
S.r.l., in liquidazione (d’ora in poi “Fallimento”), facente parte
della porzione sud del territorio comunale, occupata da insediamenti
produttivi dismessi o sottoutilizzati, tra i quali la raffineria di
petrolio, per i quali il piano prevede la reindustrializzazione moderna,
ampliata a funzioni “mixitè”, cioè a esercizi commerciali di
vicinato, esercizi pubblici, artigianato e terziario.
1.1. Il Fallimento ha proposto appello, per le parti che lo hanno visto
soccombente, avverso la sentenza del Tar per la Lombardia n. 654 del
20.04.2020, la quale:
a) ha dichiarato inammissibile per carenza di interesse il ricorso
proposto dal Fallimento stesso avverso la ridetta disciplina urbanistica,
nella parte relativa all’impugnazione della determinazione provinciale n.
145 del 30.01.2019, contenente il parere della Provincia di Monza e Brianza;
b) ha accolto parzialmente lo stesso ricorso, nella parte relativa
all’impugnazione del PGT del Comune di Villasanta rispetto alle aree
standard.
1.2. Il Comune si è costituito in giudizio per resistere all’appello ed ha
proposto appello incidentale, con il quale ha criticato la statuizione del
primo giudice che ha ritenuto illegittima, per difetto di motivazione, la
previsione di uno standard pari al 55% della superficie del compendio,
notevolmente superiore al limite minimo del 10%, individuato per le aree
destinate ad insediamenti industriali o assimilati dall’articolo 5 del d.m.
n. 1444 del 02.04.1968.
In particolare, e per quanto qui d’interesse, la tesi del Comune può così
riassumersi:
a) l’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della
Lombardia 11.03.2005, n. 12, salvo che per i limiti inderogabili sulle
distanze, ha disposto la disapplicazione delle norme del d.m. n. 1444 del
1968 per i PGT adeguati alle disposizioni dell’articolo 26, commi 2 e 3,
della stessa legge regionale;
b) la disposizione è conforme al principio previsto dall’articolo
2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il quale accorda a leggi e regolamenti
regionali la possibilità di derogare alle prescrizioni del suddetto d.m. n.
1444/1968, “con particolare riguardo a quelle in materia di spazi da
destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi”, e dunque
agli standards;
c) il principio statale ha trovato applicazione nell’articolo 9,
comma 3, della stessa legge regionale, il quale ha fissato il limite minimo
della dotazione standard per la zona destinata a “residenza” a 18 mq
per abitante, rinviando alla pianificazione locale la determinazione per le
altre destinazioni funzionali;
d) nell’articolo 9, la riserva di atto amministrativo è ancorata a
tre elementi essenziali, costituiti dalla qualità delle attrezzature
insediate e da insediare, alla loro fruibilità e accessibilità;
e) il PGT, pertanto –fatta salva la misura minima stabilita per la
destinazione a residenza– è autonomo nello stabilire il fabbisogno della
dotazione di standard senza dover partire dai minimi previsti nel d.m. n.
1444/1968.
1.3. Il Fallimento ha criticato la tesi suesposta, mettendo in rilievo fra
l’altro:
a) che la “disapplicazione” del d.m. n. 1444/1968 per
effetto dell’articolo 103 della l.r. cit. comporterebbe la conseguenza di
affidare a ciascun singolo PGT dei Comuni adeguatisi alle disposizioni
dell’articolo 26 della stessa l.r. la definizione della quantità di standard
applicabile per le zone diverse da quella residenziale, senza nemmeno un
parametro di riferimento stabilito a livello regionale;
b) che tale interpretazione contrasterebbe con l’articolo 2-bis del
d.P.R. n. 380 del 2001, poiché l’attribuzione alle Regioni del potere di
regolamentare la materia degli standards in modo difforme dal d.m. cit. non
può essere interpretata come totale liberalizzazione (in eccesso e in
riduzione) delle regole affidate all’arbitrio di ogni singola
amministrazione comunale, perché contrasterebbe con il rispetto degli
articoli 7, 10, 13 e dell’articolo 41-quinquies della legge 17.08.1942, n.
1150, introdotto dall’articolo 17 della legge 06.08.1967, n. 765, in tema di
piani urbanistici generali e di piani particolareggiati, che rendono
obbligatoria la fissazione di standards, di limiti e parametri inderogabili
per l’edificazione applicabili in sede di pianificazione urbanistica,
disposizione che ha legittimato l’emanazione del d.m. in argomento;
b1) che, invece, l’articolo 2-bis perseguirebbe
l’obiettivo di consentire alle Regioni di fissare limiti diversi rispetto a
quelli del d.m. per orientare le scelte pianificatorie comunali, con la
conseguenza di rendere possibile la limitata modifica dei parametri generali
previsti dal d.m. medesimo.
Infine, per l’ipotesi che fosse ritenuta corretta la tesi del Comune e non
percorribile una interpretazione adeguatrice delle norme vigenti, il
Fallimento ha chiesto al Collegio di scrutinare la rilevanza e la non
manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli
articoli 26 e 103, comma 1-bis, della citata l.r. n. 12 del 2005 per
contrasto con gli articoli 3, 24, 41, 42, 97, 113 e 117 della Costituzione,
in relazione ai principi fondamentali dettati dagli articoli 7, 10, 13 e
41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, in quanto si determinerebbe:
- il differente trattamento di cittadini che realizzino lo stesso
intervento edilizio in Comuni differenti (articolo 3 Cost.);
- la limitazione al diritto di difesa, in assenza di un parametro
legislativo e regolamentare su cui pre-definire il livello di ragionevolezza
della scelta pianificatoria assunta in tema di standards (articoli 24 e 113
Cost.);
- la lesione del diritto di proprietà e del diritto di impresa,
potendo il Comune prevedere uno standard del 99%, non incontrando limiti nel
massimo, così determinando una situazione para-espropriativa (articoli 41 e
42 Cost.);
- la violazione del precetto di buon andamento della pubblica
amministrazione, non essendo previsti limiti nel minimo, con la conseguenza
che il Comune potrebbe ridurre gli standards dovuti al 1% dell’estensione
territoriale e consentire l’edificazione su tutto il resto, con enorme
carico urbanistico non accompagnato dalle necessarie dotazioni di servizi,
nonostante vi sia obbligo di rispettare l’art. 41-quinquies della l. n. 1150
del 1942 (articolo 97 Cost.);
- la violazione dell’articolo 117, terzo comma, Cost., in relazione
ai principi generali dettati dalla l. n. 1150 del 1942 e dalla l. n. 765 del
1967, dei quali il d.m. n. 1444/1968 costituisce mera attuazione, tanto che
viene definito come regolamento legislativo, oltre che degli articoli 9 e 10
della l. n. 62 del 1953, nella parte in cui obbligano a definire limiti
inderogabili di edificazioni e di standards che le citate norme regionali
hanno impropriamente abrogato, tenendo anche presente che la “disapplicazione”
da parte regionale di norme statali può avvenire solo per le c.d. “norme
cedevoli” regolamentari (il d.m. n. 1444/1968 è, per consolidata
giurisprudenza, norma solo formalmente regolamentare con valenza legislativa
in quanto attua in modo necessitato ed ineludibile norme di legge
inderogabili) in quanto l’urbanistica è materia concorrente, ma non può
avvenire in riguardo a norme di legge statale, specie se fissino principi
fondamentali delle materia, anche riferibili a norme statali di principio
già previgenti, soprattutto con riferimento alle disposizioni del d.m. n.
1444/1968, le quali sono considerate munite di efficacia precettiva
inderogabile, anche in relazione agli obiettivi citati dall’articolo 2-bis
del d.P.R. n. 380 del 2001, essendo evidente la violazione dell’articolo
117, secondo comma, Cost. anche in relazione alla c.d. determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni in cui la dotazione di standards
urbanistici rientra e –più in generale– con riferimento alla competenza
esclusiva statale in tema di proprietà privata.
2. Con
sentenza non definitiva
20.05.2021 n. 3912, questa Sezione:
a) ha respinto l’appello principale;
b) ha disposto l’estromissione della Provincia di Monza e della
Brianza dal giudizio;
c) ha compensato integralmente tra le parti le spese del doppio
grado di giudizio nei confronti della Provincia;
d) ha riservato al definitivo ogni decisione sull’appello
incidentale e sulle spese;
e) ha disposto la prosecuzione del giudizio per la decisione
dell’appello incidentale e ha demandato al Presidente della Sezione la
fissazione dell’udienza di trattazione in esito al deposito delle memorie
delle parti.
2.1. In particolare, la sentenza sopra indicata ha riservato la decisione
sui possibili profili di incostituzionalità, che sono stati analiticamente
enucleati ai punti 15 e 16 e che sono stati sinteticamente individuati al
punto 17, all’esito delle interlocuzioni con le parti.
Giova citare testualmente i sopraindicati passaggi della sentenza:
“15. La questione di costituzionalità prospettata dal Fallimento può così
sintetizzarsi:
Se sia o meno non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 103, comma 1-bis, in combinato disposto con gli
artt. 9 (implicitamente dedotto) e 26, della l.r. n. 12 del 2005, in
riferimento all’art. 117, terzo comma Cost., stante la competenza
concorrente dello Stato in materia di “governo del territorio”, all’art.
117, secondo comma, lett. m), Cost., stante la legislazione esclusiva
statale nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali”, nonché in riferimento ad altri
valori tutelati dalla Costituzione, quali il differente trattamento di
cittadini che realizzino lo stesso intervento edilizio in Comuni differenti
(art. 3 Cost.), il diritto di proprietà (art. 24 Cost.), il buon andamento
della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e il diritto di difesa (art.
24 Cost.); posto che la legge regionale (art. 103, comma 1-bis) -in sede di
adeguamento degli strumenti urbanistici (art. 26)- prevede che non si
applicano tutte le disposizioni del d.m. del 1968 diverse da quelle
attinenti alle distanze tra fabbricati, le quali sono derogabili a
determinate condizioni, e demanda al “Piano dei servizi”, adottato dal
Comune in collegamento con il “Documento di piano” (artt. 8 e 9),
l’individuazione, previa determinazione del numero degli utenti sulla base
di criteri predefiniti, della dotazione globale di aree per attrezzature
pubbliche e di interesse pubblico generale, la dotazione di verde, i
corridoi ecologici e il sistema di verde di connessione tra territorio
rurale ed edificato, la viabilità, stabilisce solamente una dotazione minima
(art. 9, comma 3), pari a diciotto metri quadrati per abitante, di aree per
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale per le zone
residenziali; in tal modo violando i principi fondamentali della
legislazione statale, che impongono in tutti i Comuni l’osservanza di
“rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti (residenziali) e
produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi” (art. 41-quinques, commi 8 e 9, l. n. 1150 del
1942), come specificati dalle disposizioni del d.m. del 1968, più volte
ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile in quanto attuativo
del suddetto art. 41-quinquies (art. 117, terzo comma); violando altresì, la
competenza esclusiva statale in materia di determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (117,
secondo comma) e il buon andamento dell’amministrazione (art. 97),
rimettendo alla regolamentazione comunale anche l’individuazione dei
rapporti minimi di aree standard in zone diverse da quelle residenziali;
nonché il diritto di impresa e il diritto di proprietà (artt. 41 e 42),
rimettendo alla regolamentazione comunale anche l’individuazione dei
rapporti massimi di aree standard; nonché finanche il diritto di difesa
dinanzi al giudice (art. 24 e 113) in assenza di un parametro legislativo di
riferimento per il sindacato di ragionevolezza della scelta del singolo
Comune.
15.1. Può aggiungersi che il presupposto interpretativo assunto dal
Fallimento posto alla base della richiesta principale di rigetto
dell’appello incidentale, è che l’art. 2-bis cit. consenta solo alla
legislazione regionale, e non anche alla regolamentazione urbanistica
comunale, deroghe ai principi stabiliti dalla legislazione statale, e che,
in mancanza delle deroghe previste dalla legge regionale -come nella
fattispecie dove la legislazione regionale disciplina solo il minimo degli
standards nelle zone residenziali (peraltro in maniera parziale e
individuando la dotazione minima nella stessa percentuale prevista dall’art.
3 del d.m. del 1968)– per le aree non disciplinate dalla legislazione
regionale continuano ad applicarsi i principi statali dell’art.
41-quinquies, l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. del 1968, con
conseguente possibilità di sindacato sulla motivazione dei piani comunali
quando si discostano notevolmente dalla percentuale minima statale.
16. Il profilo dell’interpretazione del suddetto art. 2-bis all’interno del
sistema dei principi vincolanti per la legislazione regionale individuati,
dall’art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m.
del 1968.
L’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 consente solo alle Regioni di
prevedere disposizioni derogatorie al d.m. del 1968 in materia di standard,
“nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque
funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali”. Trattandosi di deroghe a principi della legislazione statale
vincolanti sul territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, terzo comma, in
mancanza, totale o parziale, dell’esercizio di tale potere di deroga da
parte delle Regioni potrebbe inferirsi che si riespande l’applicazione dei
principi statali dell’art. 41-quinquies, commi 8 e 9, l. n. 1150 del 1942,
come specificati dal d.m. n. 1444 del 1968, secondo lo stesso presupposto
interpretativo assunto dal Fallimento.
16.1. Tuttavia, la possibile sostenibilità di tale interpretazione
costituzionalmente orientata, secondo il Collegio non consente, nella
fattispecie, di sottrarsi alla valutazione della non manifesta infondatezza
della possibile questione di legittimità costituzionale delle norme
regionali, eccepita dal Fallimento.
16.1.1. La ragione si rinviene nella peculiare “costruzione” dell’art. 103,
comma 1-bis, in uno con un esercizio del potere regionale di emanare norme
derogatorie che potremmo definire “estremo” per difetto.
Infatti, da un lato l’art. 103, comma 1-bis, dispone la generale non
applicabilità del d.m. del 1968 (con l’eccezione disciplinata della materia
delle distanze, che nella causa non viene in rilievo); dall’altro, la
Regione esercita il potere di legiferare riconosciutole dall’art. 2-bis al
minimo, e cioè prevedendo solo (art. 9, comma 3) la dotazione minima di
standards per le aree residenziali; per di più, riproducendo la misura
minima già individuata dall’art. 3, primo comma, del d.m. del 1968 e,
quindi, intendendo non applicabili, secondo la previsione generale dell’art.
103, anche le altre disposizioni nella stessa materia, previste dai
successivi commi dell’art. 3 e dall’art. 4, primo e secondo comma.
16.1.2. In definitiva, si potrebbe dire che le norme regionali che derivano
il loro fondamento nell’art. 2-bis integrino una “forma apparente” di
esercizio del potere conferito alla Regione dall’art. 2-bis.
16.3. D’altro canto, proprio la possibile questione di legittimità
costituzionale ipotizzabile a parere del Collegio in riferimento allo stesso
art. 2-bis, conduce pure nella direzione di escludere la soluzione della
interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso articolo,
sostenuta dal Fallimento.
17. Il profilo della compatibilità costituzionale del suddetto art. 2-bis,
rispetto alla competenza concorrente delle regioni in materia di “governo
del territorio” in riferimento alla regolamentazione delle aree standards.
Ritiene il Collegio che sia percorribile la tesi secondo cui la nuova
disposizione statale introdotta nel 2013, intervenendo in materia di
competenza concorrente senza porre alcun confine di principio al potere di
deroga attribuito a tutte le regioni rispetto alle preesistenti norme
statali, senza assolvere alla funzione propria attribuita dalla Costituzione
allo Stato di individuare i principi, così rendendo certamente possibili
legislazioni regionali molto diverse tra di loro, contrasterebbe con l’art.
117, terzo comma, Cost.
17.1. Inoltre, andrebbe esplorato anche un altro possibile profilo di
legittimità costituzionale, rispetto all’art. 117, secondo comma Cost.
attinente alle materie di competenza esclusiva dello Stato.
Si tratta di valori costituzionali che, come evidenziato anche dal
Fallimento nella prospettazione della questione di costituzionalità, sono
oramai strettamente correlati alla materia del “governo del territorio”,
quali la materia attinente alla “determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” [117, secondo comma,
lett. m)], quella della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni
culturali” [art. 117, secondo comma, lett. s)], nonché il diritto di impresa
e il diritto di proprietà (artt. 41 e 42 Cost.). Correlazione tanto più
evidente negli anni Duemila, come si è sviluppata nel corso del tempo nella
giurisprudenza della Corte costituzionale ed eurounitaria, rispetto ad
epoche ormai lontane, quali gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso
ai quali risale la legislazione nazionale di principio di nostro interesse”.
2.2. Inoltre, a delimitare la questione di legittimità costituzionale ai
fini della disamina della sua rilevanza e non manifesta infondatezza, si
richiama un altro paragrafo della sentenza non definitiva nel quale si è
rilevato che:
“13. L’esistenza nell’ordinamento statale dell’art. 2-bis cit., oltre che
dell’art. 41-quinquies, l. n. 1150 del 1942 e del d.m. del 1968, pone
all’attenzione del Collegio il preliminare profilo dell’interpretazione del
suddetto art. 2-bis all’interno del sistema dei principi vincolanti per la
legislazione regionale, individuati dall’art. 41-quinquies, commi 8 e 9,
della l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. del 1968, e della sua
compatibilità costituzionale rispetto alla competenza concorrente delle
Regioni in materia di “governo del territorio”, posto che se fosse
ipotizzabile la non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2-bis per violazione dell’art. 117, terzo e secondo
comma, la stessa sarebbe logicamente preliminare alla illegittimità
prospettata dal Fallimento rispetto alle norme regionali, venendo meno –nel
caso di ipotetico accoglimento– la base normativa statale che consente di
emanare disposizioni regionali derogatorie ai principi già presenti nella
legislazione statale.
13.1. Preliminarmente, deve precisarsi che dalla fattispecie in esame
derivano i confini della rilevanza della possibile questione di
costituzionalità, dovendosi escludere ogni profilo attinente alle deroghe in
materia di limiti di distanze tra fabbricati, sui quali la Corte
costituzionale è più volte intervenuta.
La fattispecie in esame è incentrata, infatti, unicamente sulle possibili
deroghe, da parte della legislazione regionale, al d.m. del 1968 in materia
di “spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi,
a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi”, e
dunque agli standards, “nell’ambito della definizione o revisione di
strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e
unitario o di specifiche aree territoriali”. Materia che, a prescindere
dalla mancata ricomprensione nel titolo dell’articolo, è indubbiamente
disciplinata dall’art. 2-bis”.
3. A seguito della sentenza non definitiva e della richiesta di
interlocuzione sui possibili profili di compatibilità costituzionale, le
parti hanno depositato memorie, rispettivamente il Fallimento in data
16.07.2021 e il Comune di Villasanta in data 19.07.2021.
3.1. Entrambe le parti hanno, quindi, depositato istanze di passaggio in
decisione senza discussione della causa.
4. Alla pubblica udienza del 28.10.2021 la causa è stata trattenuta in
decisione.
5. Delimitato dunque il thema decidendum ai profili di rilevanza e di
non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale
dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’articolo 103 della
legge regionale n. 12 del 2005 della Regione Lombardia sopra individuate, la
Sezione ritiene di dover sottoporre alla Corte costituzionale la questione
di legittimità costituzionale della precitata norma statale, e in via
consequenziale della norma regionale.
Sulla rilevanza della questione relativa all’articolo 2-bis del d.P.R. n.
380 del 2001 e, in particolare, al suo comma 1, con i quali è consentita la
deroga a livello regionale dei parametri di cui al d.m. n. 1444/1968.
6. La questione di legittimità costituzionale sollevata dall’appellante
riposa sul presupposto per cui l’articolo 2-bis, d.P.R. cit. autorizzerebbe
le Regioni ad emanare una legislazione derogatoria rispetto al d.m. n. 1444
del 1968 in materia di dotazione delle aree a standard fino a poter arrivare
ad annullarne la previsione, in violazione dell’articolo 117, secondo comma,
lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale.
6.1. Ad avviso della Sezione la questione, nel caso in esame, presenta il
requisito della rilevanza come argomentato dall’appellante principale.
Infatti, diversamente da quanto in contrario eccepito dal Comune di
Villasanta, le disposizioni regionali applicate al caso in esame hanno
consentito, proprio in applicazione dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380
del 2001, di adottare la disciplina urbanistica applicabile al contesto di
proprietà del Fallimento con un sovradimensionamento degli standards per la
destinazione produttiva attribuita al comparto al di sopra di quanto
previsto dall’articolo 5 dello stesso d.m.
Il citato d.m. è parzialmente disapplicato nella Regione Lombardia sulla
base dell’articolo 103, comma 1-bis, lett. a), della legge regionale n. 12
del 2005, per cui la materia degli standards è interamente disciplinata, in
ambito regionale, dall’articolo 9 che prevede limiti minimi e non massimi
soltanto per le zone residenziali e lascia alla programmazione urbanistica
di competenza comunale la scelta della previsione di limiti minimi e massimi
per tutte le altre destinazioni. Pertanto –ciò che rileva sotto il profilo
della rilevanza– in caso di declaratoria della incostituzionalità
dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 verrebbe a mancare il
presupposto sul quale poggia la disposizione regionale (a sua volta
incostituzionale in via derivata) e sarebbe di nuovo applicabile il d.m. n.
1444 del 1968 con i limiti ivi indicati per gli standards.
La questione di costituzionalità dell’articolo 2-bis appare, quindi,
rilevante per la definizione del giudizio poiché in caso di suo annullamento
verrebbe meno il presupposto sul quale poggiano le disposizioni del PGT
comunale oggetto del contenzioso.
Non può, d’altro canto, trovare spazio l’argomento del Comune, secondo cui
la questione di costituzionalità sarebbe irrilevante poiché il d.m. n. 1444
del 1968 non fissa limiti massimi per la dotazione di standards ma solo
limiti minimi, per cui, nel caso in esame, vertendosi in tema di
sovradimensionamento degli standards, non vi sarebbe una violazione bensì
una deroga generalizzata autorizzata ai sensi dell’articolo 2-bis.
La tesi testé esposta conduce, infatti, alla impossibilità per il giudice di
sindacare, in base ai parametri di legittimità, di ragionevolezza e di
proporzionalità, le scelte effettuate dall’Amministrazione nell’ambito della
pianificazione urbanistica, essendo venuto meno, per il tramite del
meccanismo di deroga di cui all’articolo 2-bis, anche il limite minimo nella
fissazione degli standard.
Nel caso in esame la questione di costituzionalità è pertanto rilevante
poiché l’appellante è stato sottoposto ad una cessione di aree a standard
sulla base delle norme del PGT che trovano la loro fonte legittimante nella
legge regionale, a sua volta “autorizzata” a stabilire deroghe
dall’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001.
7. Tanto premesso, va innanzi tutto esaminata la possibilità di una lettura
costituzionalmente orientata della norma statale, tale da far venir meno il
dovere di rimessione della questione alla Corte costituzionale.
Una prima possibile interpretazione del genere è stata adombrata, in termini
dubitativi e da definirsi a seguito della interlocuzione delle parti, nella
stessa precedente sentenza parziale (§§ 16 e 16.1), laddove si sottolinea
come, in ogni caso, le regole cogenti del d.m. n. 1444 del 1968 si
riespanderebbero in caso di mancato esercizio da parte delle Regioni della
facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2-bis; una seconda è ipotizzata
dal Comune, il quale prospetta la possibilità di interpretare la norma nel
senso di far salvi in ogni caso i limiti inderogabili stabiliti dal d.m.
(pag. 5 della memoria del 12.07.2021).
Tuttavia, di queste due letture la prima non è idonea a far venir meno la
possibile illegittimità costituzionale della disposizione: il fatto che la “cedevolezza”
delle previsioni del d.m. sia solo potenziale, dipendendo dal concreto
esercizio dal parte delle Regioni della facoltà di deroga, non fa venir meno
il vulnus a quella che dovrebbe essere, in thesi, la loro
inderogabilità da parte del legislatore regionale.
Quanto alla seconda ipotesi, questa si risolve –in sostanza- nel far dire
alla norma regionale qualcosa che la stessa espressamente non afferma, sulla
base di un’argomentazione ermeneutica “additiva” che non trova
aggancio nel dato testuale.
Peraltro, malgrado un dubbio interpretativo possa forse essere ingenerato
dal successivo comma 1-bis dell’articolo in esame, introdotto dal più
recente d.l. 18.04.2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge
14.06.2019, n. 55, secondo cui le disposizioni del comma 1 “sono
finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità
edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati
del proprio territorio”, il tenore testuale del comma 1 rimane
inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al d.m. n. 1444/1968 alla
possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare
disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e
ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti
urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali”.
Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale,
non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di
autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. n.
1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai
plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le
Regioni si sono avvalse di tale facoltà).
8. Ritenuta impraticabile la via della interpretazione costituzionalmente
orientata, la Sezione osserva che la questione assume rilevanza in relazione
alla possibile violazione dei parametri costituzionali di cui agli articoli
3 e 117, terzo comma, con riferimento alla lesione della competenza statale
concorrente in materia di “governo del territorio”, nonché rispetto
al secondo comma del medesimo articolo 117, lett. m) ed s) (lesione della
competenza esclusiva statale in materia di “determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” e di “tutela
dell’ambiente”).
Sul possibile contrasto con gli articoli 3 e 117, terzo comma, della
Costituzione.
9. Con riguardo al primo profilo oggetto di scrutinio, va preliminarmente
rilevato che –come già precisato nella sentenza non definitiva emessa da
questa stessa Sezione (§13.1.: “Preliminarmente deve precisarsi che dalla
fattispecie in esame derivano i confini della rilevanza della possibile
questione di costituzionalità, dovendosi escludere ogni profilo attinente
alle deroghe in materia di limiti di distanze tra fabbricati, sui quali la
Corte è più volte intervenuta. la fattispecie in esame è incentrata,
infatti, unicamente sulle possibili deroghe, da parte della legislazione
regionale, al D.M. del 1968 in materia di “spazi da destinare agli
insediamenti residenziali, a quelli a quelli riservati alle attività
collettive ai parcheggi” e dunque agli standards, “nell’ambito delle
definizione revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un
assetto complessivo e unitario di specifiche aree territoriali”)– non vi è
alcuna analogia della questione in esame rispetto a quelle esaminate dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale (in particolare sent. n. 13 del 07.02.2020) relative alle norme del medesimo d.m. n. 1444/1968 in materia
di distanze (articoli 9 e 10).
Tali ultime norme sono state ritenute dalla Corte in via di principio
inderogabili da parte della legislazione regionale, in quanto afferenti alla
materia dell’ordinamento civile (articolo 117, secondo comma, lettera l),
Cost.), mentre lo stesso non si può dire per le altre norme contenute nel
citato decreto, le quali prima facie attengono unicamente alla materia
“governo del territorio”, oggetto di competenza concorrente ai sensi del
terzo comma del medesimo articolo 117 Cost.: ciò impone di individuare le
norme di principio della legislazione statale in subiecta materia, le quali
segnano il limite della competenza legislativa regionale.
9.1. Per quanto qui interessa, può ipotizzarsi che la norma statale di
principio sia da rivenirsi nel già citato articolo 41-quinquies della legge
n. 1150 del 1942, introdotto dalla legge n. 765 del 1967, il quale –come è
noto- costituisce la fonte di derivazione del d.m. n. 1444 del 1968,
imponendo agli strumenti urbanistici generali il rispetto di parametri e
limiti definiti espressamente “inderogabili”.
9.2. Orbene, ad avviso della Sezione e contrariamente a quanto sostenuto in
giudizio dal Comune di Villasanta, non può ritenersi –neanche a seguito
della riforma del Titolo V della Costituzione attuata con la legge
costituzionale n. 3/2001- che ad oggi inderogabile da parte della
legislazione regionale sia soltanto l’ottavo comma del predetto articolo (il
quale, appunto, stabilisce l’obbligo che gli strumenti urbanistici generali
stabiliscano “limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di
distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”) e non anche il
successivo nono comma, che demanda a un apposito decreto ministeriale la
fissazione dei predetti limiti e rapporti; ciò, alla luce della
giurisprudenza costituzionale dianzi richiamata, dovrebbe portare alla
bizzarra conclusione che il comma da ultimo citato sia -in realtà-
derogabile da parte delle Regioni non sempre e comunque, ma solo per la
parte relativa ai “rapporti”, dal momento che per quella relativa ai
“limiti” (di densità, altezza, distanza) è già pacifico che non lo è, attesa
la acclarata riconducibilità delle norme del d.m. n. 1444 del 1968 in tema
di distanze, altezze etc. alla materia “ordinamento civile” di esclusiva
competenza statale (cfr. Corte cost., sent. n. 13/2020, cit.).
9.3. Può dunque ritenersi, posto che nella materia del governo del
territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della
legislazione statale, che il nono comma dell’articolo 41-quinquies della
legge n. 1150/1942 esprima l’esigenza che le dotazioni di spazi pubblici,
infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su
tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile
che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù
dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse
legislazioni regionali.
Tale però sembra essere il risultato dell’applicazione dell’articolo 2-bis
del d.P.R. n. 380/2001, come inserito dal decreto-legge 21.06.2013, n.
69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, il
quale, autorizzando le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano
a “prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al
decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444”, produce
l’effetto di “neutralizzare” il carattere cogente delle anzi dette
disposizioni dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e delle
disposizioni regolamentari che ne discendono.
9.4. Tuttavia, anche a voler ritenere che con la novella del 2013 al T.U.
dell’edilizia il legislatore statale abbia inteso perseguire una deliberata
ratio di abrogazione implicita dei commi ottavo e nono dell’articolo
41-quinquies della legge n. 1150/1942, tale operazione appare di dubbia
compatibilità con il quadro costituzionale sopra delineato, in quanto si
risolve in una sostanziale abdicazione dalla fissazione di parametri e
criteri generali, cui pure il legislatore statale sarebbe chiamato in
materia di competenza concorrente, in modo da consentire a ciascuna Regione
di dettare regole autonome e disomogenee in materia di dimensionamento delle
aree a destinazione residenziale, degli spazi pubblici, delle
infrastrutture, del verde pubblico etc.
Ciò peraltro comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo
della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui,
obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo
tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della
legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli,
che –come puntualmente dedotto dal Fallimento nel presente giudizio-
risulta potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse
Regioni pur in relazione ad aree avente identica destinazione urbanistica e
ad interventi edilizi rientranti nella medesima tipologia.
Sul possibile contrasto con l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed
s), della Costituzione.
10. Sotto diverso profilo, la disposizione di cui al comma 1 del ricordato
articolo 2-bis, d.P.R. n. 380/2001 interseca le competenze statali esclusive
di cui all’articolo 117, comma secondo, lettere m) (“determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali
che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”) ed s)
(“tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”) della
Costituzione.
10.1. Quanto al primo aspetto, anche prescindendo dall’orientamento
giurisprudenziale che, anteriormente alla entrata in vigore dell’articolo
2-bis, sosteneva che le disposizioni del d.m. n. 1444 del 1968 fossero
sempre e comunque cogenti nei confronti dei pianificatori comunali, il più
volte citato nono comma dell’articolo 41-quinquies, l. n. 1150/1942 rileva
anche sotto il profilo della necessità di assicurare una quota minima di
infrastrutture e aree per servizi pubblici che sia la stessa sull’intero
territorio nazionale.
In definitiva, pur in un quadro costituzionale e legislativo caratterizzato
dai principi di sussidiarietà verticale e di prossimità territoriale, in
ragione dei quali la regolazione dell’assetto del territorio è rimessa
quanto più possibile ai livelli di governo più vicini alle comunità di
riferimento, deve ritenersi che la determinazione delle dotazioni
infrastrutturali pubbliche o di interesse generale resti riservata al
legislatore statale, in quanto ragionevolmente riconducibile all’ambito
delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali; in tale prospettiva,
al legislatore statale spetta non soltanto individuare i principi
fondamentali della materia, sibbene fissare i livelli minimi delle predette
prestazioni, rispetto ai quali le normative regionali potrebbero intervenire
esclusivamente in senso “rafforzativo”.
Ciò peraltro non comporta la totale obliterazione delle competenze
legislative regionali, atteso che altro è la determinazione di livelli
essenziali (minimi), altro la regolamentazione, tanto in termini
quantitativi che qualitativi, delle dotazioni di standard, rispetto alla
quale ultima –una volta garantito il rispetto della normativa statale
vigente– la competenza regionale (che dovrebbe comunque ritenersi, ratione
materiae, comunque di tipo concorrente) potrebbe tornare in gioco.
10.2. Sotto il secondo dei profili dianzi indicati, già da tempo la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha evidenziato come il potere di
pianificazione, specie alla luce delle scelte legislative più recenti, non
possa dirsi limitato all’individuazione delle destinazioni delle zone del
territorio comunale, e in specie alle potenzialità edificatorie delle stesse
e ai limiti che incontrano tali potenzialità, dovendo invece essere inteso
in relazione ad un concetto di urbanistica che non sia limitato solo alla
disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi
di edilizia, distinti per finalità), ma che, per mezzo della disciplina
dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della
comunità locale, non in contrasto ma, anzi, in armonico rapporto con
analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato,
in funzione di uno sviluppo del territorio che si svolga nel quadro del
rispetto e dell’attuazione di valori costituzionalmente tutelati (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. II, 14.11.2019, n. 7839; id., sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
Tale impostazione è stata nella sostanza condivisa anche dalla
giurisprudenza costituzionale, la quale, dopo la riforma del Titolo V della
Costituzione, ha rilevato che la nozione di “governo del territorio” ha un
contenuto più ampio di quella di “urbanistica”, individuando in linea di
principio tutto ciò che attiene all’uso del territorio ed alla
localizzazione di impianti o attività (cfr. Corte cost., sent. 07.10.2003, n. 307), ed ha altresì precisato che la relativa disciplina, pur
toccando profili tradizionalmente appartenenti all’urbanistica e
all’edilizia, non si esaurisce in esse, riferendosi piuttosto all’insieme
delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in base
ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio (cfr.
Corte cost., sentt. 14.10.2005, n. 383, e 28.06.2004, n. 196).
Ne discende, in relazione al rapporto tra le competenze concorrenti in subiecta materia e la competenza statale esclusiva in materia di tutela
dell’ambiente ex articolo 117, secondo comma, lettera s), Cost., che quest’ultima
segna un limite negativo alle discipline che le Regioni possono introdurre
in altre materie di propria competenza, salva la facoltà di queste ultime di
adottare livelli di tutela ambientale più elevati (cfr. Corte cost., sent.
n. 22.07.2021, n. 164, e in precedenza sentt. 23.07.2009, n. 235, 18.04.2008, n. 104, e
07.11.2007, n. 367).
Alla stregua dei consolidati orientamenti che si sono richiamati, anche
laddove si sia in presenza di una legislazione regionale esclusivamente
indirizzata a introdurre una disciplina in materia di pianificazione
urbanistica, e che tuttavia intercetti aspetti “sensibili” sotto il profilo
della vivibilità del territorio quali sono quelli afferenti alla dotazione
di infrastrutture e servizi per la collettività, non può non venire in
rilievo la competenza esclusiva statale de qua con la correlativa
possibilità per le Regioni di intervenire in deroga solo in senso
“migliorativo”.
Sulla consequenziale illegittimità costituzionale dell’articolo 103,
comma 1-bis, della l.r. della Lombardia n. 12/2005.
11. La prospettata illegittimità costituzionale dell’articolo 2-bis, comma
1, del d.P.R. n. 380/2001, per le ragioni testé evidenziate, comporterebbe
il venir meno della base normativa delle disposizioni regionali con cui, in
attuazione di quanto stabilito nella norma statale, sia stata introdotta una
disciplina degli standard urbanistici potenzialmente derogatoria dei limiti
“inderogabili” di cui al d.m. n. 1444 del 1968, è fra queste, per quanto qui
interessa, dell’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della
Lombardia n. 12 del 2005.
Sotto quest’ultimo profilo non ha pregio l’argomento, articolato dal Comune
nella memoria del 12.07.2021, secondo cui la disposizione in questione
non opererebbe a regime, riguardando solo l’adeguamento degli strumenti
urbanistici vigenti alle nuove disposizioni introdotte dalla stessa l.r. n.
12 del 2005: infatti, ai fini che qui interessano, rileva soltanto il fatto
che per effetto di essa possano trovare ingresso nell’ordinamento
prescrizioni urbanistiche, comunque destinate a valere a tempo indefinito,
elaborate nella totale disapplicazione del criteri e parametri di cui al
ricordato d.m. n. 1444 del 1968.
Pertanto, la disposizione andrebbe a sua volta dichiarata incostituzionale
in via consequenziale in applicazione dell’articolo 27 della legge
11.03.1953, n. 87, secondo cui la Corte costituzionale, allorché dichiara
illegittime le disposizioni che formano direttamente oggetto dell’incidente
di costituzionalità, “dichiara altresì, quali sono le altre disposizioni
legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione
adottata”.
Conclusioni.
12. Alla stregua dei rilievi fin qui svolti, devono quindi essere dichiarate
rilevanti e non manifestamente infondate le descritte questioni di
legittimità costituzionale:
i) dell’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n.
194, S.O.), per violazione degli articoli 3 e 117, secondo comma, della
Costituzione;
ii) dell’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n.
194, S.O.), per violazione dell’articolo 117, terzo comma, lettere m) ed s),
della Costituzione;
iii) in via consequenziale, dell’articolo 103, comma 1-bis, della
legge regionale della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (pubblicata sul
Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 16.03.2005), come introdotto
dalla legge regionale 14.03.2008, n. 4 (pubblicata sul Bollettino ufficiale
della Regione Lombardia 17.03.2008, n. 12), e successivamente modificato
dalla l.r. 26.11.2019, n. 18 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della
Regione Lombardia 29.11.2019, n. 48), per violazione dell’articolo 117,
secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, della Costituzione.
Il presente giudizio va quindi sospeso con trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta),
visto l’art. 23 della legge 11.03.1953, n. 87,
dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di
legittimità costituzionale relative:
-
all’articolo
2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n.
194, S.O.), per violazione degli articoli 3 e 117, terzo comma, della
Costituzione;
-
all’articolo
2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n.
194, S.O.), per violazione dell’articolo 117, terzo comma, lettere m) ed s),
della Costituzione;
- in via consequenziale,
all’articolo
103, comma 1-bis, della legge regionale della Regione Lombardia 11.03.2005,
n. 12
(pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 16.03.2005),
come introdotto dalla legge regionale 14.03.2008, n. 4 (pubblicata sul
Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 17.03.2008, n. 12), e
successivamente modificato dalla l.r. 26.11.2019, n. 18 (pubblicata sul
Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 29.11.2019, n. 48), per
violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo
comma, della Costituzione (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
ordinanza 17.03.2022 n. 1949 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2021 |
|
dicembre 2021 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Prime indicazioni applicative a seguito della declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 40-bis l.r. 12/2005 nel testo vigente prima
dell’entrata in vigore della l.r. 24.06.2021 n. 11 e dell’art. 40-bis, comma
11-quinquies, l.r. 12/2005 introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. m), l.r.
11/2021 (ANCI Lombardia,
circolare 13.12.2021 n.
811). |
ottobre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: E'
incostituzionale la normativa della Regione Lombardia sul recupero degli
immobili dismessi.
L'art.
40-bis della l.r. n. 12/2005, siccome introdotto dall’art. 4, comma 1, lett.
a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, così recita:
1. I comuni, con deliberazione consiliare,
anche sulla base di segnalazioni motivate e documentate,
individuano entro sei mesi
dall'entrata in vigore della legge regionale recante 'Misure di
semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale,
nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e
integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) e ad altre leggi regionali' gli immobili di
qualsiasi destinazione d'uso, dismessi da oltre cinque anni, che causano
criticità per uno o più dei seguenti aspetti: salute, sicurezza idraulica,
problemi strutturali che ne pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado
ambientale e urbanistico-edilizio.
La disciplina del presente articolo si applica, anche senza la deliberazione
di cui sopra, agli immobili già individuati dai comuni come degradati e
abbandonati. Le disposizioni di cui al presente articolo, decorsi i termini
della deliberazione di cui sopra, si applicano anche agli immobili non
individuati dalla medesima, per i quali il proprietario, con perizia
asseverata giurata, certifichi oltre alla cessazione dell'attività,
documentata anche mediante dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà
a cura della proprietà o del legale rappresentante, anche uno o più degli
aspetti sopra elencati, mediante prova documentale e/o fotografica. I comuni
aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, entro sei mesi dall'entrata
in vigore della legge regionale recante 'Misure di semplificazione e
incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il
recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad
altre leggi regionali', mediante deliberazione del consiglio comunale
possono individuare gli ambiti del proprio territorio ai quali non si
applicano le disposizioni di cui ai commi 5 e 10 del presente articolo, in
relazione a motivate ragioni di tutela paesaggistica.
2. I comuni, prima delle deliberazioni di cui al
comma 1, da aggiornare
annualmente, notificano ai sensi del codice di procedura
civile ai proprietari degli immobili dismessi e che causano criticità le
ragioni dell'individuazione, di modo che questi, entro 30 giorni dal
ricevimento di detta comunicazione, possano dimostrare, mediante prove
documentali, l'assenza dei presupposti per l'inserimento.
3. (omissis)
5. Gli interventi sugli immobili di cui al comma 1
usufruiscono di un incremento del 20 per cento dei diritti edificatori
derivanti dall'applicazione dell'indice di edificabilità massimo previsto o,
se maggiore di quest'ultimo, della superficie lorda esistente e sono inoltre
esentati dall'eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, a eccezione di
quelle aree da reperire all'interno dei comparti edificatori o degli
immobili oggetto del presente articolo, già puntualmente individuate
all'interno degli strumenti urbanistici e da quelle dovute ai sensi della
pianificazione territoriale sovraordinata. A tali interventi non si
applicano gli incrementi dei diritti edificatori di cui all'articolo 11,
comma 5. Nei casi di demolizione l'incremento dei diritti edificatori del 20
per cento si applica per un periodo massimo di dieci anni dalla data di
individuazione dell'immobile quale dismesso.
6. E' riconosciuto un ulteriore incremento
dell'indice di edificabilità massimo previsto dal PGT o rispetto alla
superficie lorda (SL) esistente del 5 per cento per interventi che
assicurino una superficie deimpermeabilizzata e destinata a verde non
inferiore all'incremento di SL realizzato, nonché per interventi che
conseguano una diminuzione dell'impronta al suolo pari ad almeno il 10 per
cento. A tal fine possono essere
utilizzate anche le superfici situate al di fuori del lotto di intervento,
nonché quelle destinate a giardino pensile, cosi come regolamentate dalla
norma UNI 11235/2007.
7. Se il proprietario non provvede entro il termine di cui al comma
4, non può più accedere ai benefici di cui ai commi 5 e 6 e il comune lo
invita a presentare una proposta di riutilizzo, assegnando un termine da
definire in ragione della complessità della situazione riscontrata, e
comunque non inferiore a mesi quattro e non superiore a mesi dodici.
8. Decorso il termine di cui al comma 7 senza
presentazione delle richieste o dei titoli di cui al comma 4, il comune
ingiunge al proprietario la demolizione dell'edificio o degli edifici
interessati o, in alternativa, i necessari interventi di recupero e/o messa
in sicurezza degli immobili, da effettuarsi entro un anno. La demolizione
effettuata dalla proprietà determina il diritto ad un quantitativo di
diritti edificatori pari alla superficie lorda dell'edificio demolito fino
all'indice di edificabilità previsto per l'area. I diritti edificatori
generati dalla demolizione edilizia possono sempre essere perequati e
confluiscono nel registro delle cessioni dei diritti edificatori di cui
all'articolo 11, comma 4.
9. Decorso infruttuosamente il termine di cui al
comma 8, il comune provvede in via sostitutiva, con obbligo di rimborso
delle relative spese a carico della proprietà, cui è riconosciuta la SL
esistente fino all'indice di edificabilità previsto dallo strumento
urbanistico.
10. Tutti gli interventi di rigenerazione degli
immobili di cui al presente articolo sono realizzati in deroga alle norme
quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento, sulle distanze
previste dagli strumenti urbanistici comunali vigenti e adottati e ai
regolamenti edilizi, fatte salve le norme statali e quelle sui requisiti
igienico-sanitari.
11. (omissis)
11-bis. (omissis)
In generale,
l’imposizione ai Comuni, per di più al di fuori di
qualsiasi procedura di raccordo collaborativo, di una disciplina quale
quella in esame finisce per alterare i termini essenziali di esercizio della
funzione pianificatoria, anche perché obbliga i medesimi Comuni a far
dipendere le loro scelte fondamentali sulle forme di uso e sviluppo del
territorio da una decisione legislativa destinata a incidere in modo assai
significativo sull’aumento dell’edificato e sulla conseguente pressione
insediativa.
Ciò contrasta con l’assunto, che questa Corte condivide, per
cui «il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo
all’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio […], ma è
rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti
interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti».
Deve, pertanto, essere
dichiarata l’illegittimità costituzionale
●
dell’art. 40-bis della legge della Regione Lombardia 11.03.2005,
n. 12
(Legge per il governo del territorio), introdotto dall’art.
4, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n.
18, recante «Misure di
semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale,
nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e
integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) e ad altre leggi regionali», nel testo
vigente prima dell’entrata in vigore della legge della Regione Lombardia
24.06.2021, n. 11, recante
«Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità.
Modifiche all’art. 40-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per
il governo del territorio)»;
●
in via conseguenziale,
ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della
legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1,
lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.
---------------
SENTENZA
9.– Alla luce delle ragioni ora esposte, deve quindi procedersi all’esame
delle sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis
della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nel testo vigente prima delle
modifiche ad esso apportate dall’art. 1 della legge reg. Lombardia n. 11 del
2021.
Con un primo ordine di questioni, il TAR Lombardia ritiene che tale
previsione normativa, introdotta dall’art. 4, comma 1, lettera a), della
legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, si ponga in contrasto con plurimi
parametri costituzionali (artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, commi
secondo, lettera p, terzo e sesto, e 118 Cost.), perché il legislatore
regionale avrebbe introdotto una disciplina per il recupero degli immobili
abbandonati e degradati che comprime illegittimamente, da più angolazioni,
la potestà pianificatoria comunale, essenzialmente in ragione della sua
portata temporalmente indefinita, dell’assolutezza delle sue prescrizioni e
dell’assenza di una procedura di interlocuzione con i Comuni.
10.– Le questioni sono fondate.
10.1.– È utile premettere che la legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, con
cui è stato introdotto nella legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 il
censurato art. 40-bis, individua quali obiettivi da perseguire lo «sviluppo
sostenibile» e stabilisce che gli interventi finalizzati alla
rigenerazione urbana e territoriale, riguardante ambiti, aree ed edifici,
costituiscono «azioni prioritarie per ridurre il consumo di suolo,
migliorare la qualità funzionale, ambientale e paesaggistica dei territori e
degli insediamenti, nonché le condizioni socio-economiche della popolazione»
(art. 1).
Il recupero e la rigenerazione degli immobili dismessi, pertanto,
rappresentano uno strumento a cui il legislatore regionale ha ritenuto di
ricorrere nell’ambito di una rinnovata declinazione degli strumenti di
governo del territorio e, in particolare, dell’azione pianificatoria, che in
Lombardia ha trovato una significativa attuazione già con la legge reg.
Lombardia, n. 31 del 2014. In essa, secondo quanto si ricava dal suo art. 1,
comma 1, sono infatti dettate disposizioni «affinché gli strumenti di
governo del territorio, nel rispetto dei criteri di minimizzazione del
consumo di suolo, orientino gli interventi edilizi prioritariamente verso le
aree già urbanizzate, degradate o dismesse ai sensi dell’articolo 1 della
legge regionale 11.03.2005, n. 12».
10.2.– Così ricostruita la finalità che il legislatore lombardo ha inteso
perseguire con la disposizione censurata, è di tutta evidenza come essa si
presti a incidere sull’esercizio della potestà pianificatoria comunale, per
il fatto di dettare una disciplina sul recupero degli immobili dismessi
idonea, in ragione della sua natura autoapplicativa, a ripercuotersi su
scelte attinenti all’uso del territorio.
La disciplina regionale oggetto di esame, infatti, si sovrappone ad
attribuzioni assegnate ai Comuni in tale ambito e, in particolare, ai
contenuti necessari del piano delle regole fissati dall’art. 10 della legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005. Il comma 2 di tale articolo prevede, in
particolare, che, anche in vista dell’obiettivo della minimizzazione del
consumo di suolo, stabilito dall’art. 8, comma 1, lettera b), della medesima
legge regionale, spetti al piano delle regole definire «le
caratteristiche fisico-morfologiche che connotano l’esistente, da rispettare
in caso di eventuali interventi integrativi o sostitutivi, nonché le
modalità di intervento, anche mediante pianificazione attuativa o permesso
di costruire convenzionato, nel rispetto dell’impianto urbano esistente».
Il successivo comma 3 demanda poi al medesimo piano delle regole il compito
di identificare una serie di parametri da rispettare «negli interventi di
nuova edificazione o sostituzione», tra i quali «caratteristiche
tipologiche, allineamenti, orientamenti e percorsi» (lettera a), «consistenza
volumetrica o superfici lorde di pavimento esistenti o previste»
(lettera b), «rapporti di copertura esistenti e previsti» (lettera c)
e «altezze massime e minime» (lettera d).
10.3.– A fronte di tale sovrapposizione alle funzioni comunali, assume
rilievo la previsione con cui il legislatore statale, nell’esercizio della
competenza ad esso esclusivamente attribuita dall’art. 117, secondo comma,
lettera p), Cost., ha individuato, «[f]erme restando le funzioni di
programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle
materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione»,
quali funzioni fondamentali dei Comuni «la pianificazione urbanistica ed
edilizia di ambito comunale, nonché la partecipazione alla pianificazione
territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lettera d,
del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia
di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica»,
convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122).
Con tale previsione è stato legislativamente riconosciuto un orientamento
costante della giurisprudenza costituzionale, secondo cui quella attinente
alla pianificazione urbanistica rappresenta una funzione che non può essere
oltre misura compressa dal legislatore regionale, perché «il potere dei
comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del
proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie
di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere» (sentenza
n. 378 del 2000) e la suddetta competenza regionale «non può mai essere
esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni»
(sentenza n. 83 del 1997).
Al tempo stesso, questa Corte ha sempre ribadito che l’autonomia comunale «non
implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore
competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di
esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di
funzioni già assegnate agli enti locali»
(sentenza n. 160 del 2016). Più specificamente, la Corte ha escluso che «il
“sistema della pianificazione” assurga a principio così assoluto e
stringente da impedire alla legge regionale –che è fonte normativa primaria
sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali– di prevedere
interventi in deroga a tali strumenti» (sentenza n. 245 del 2018 e,
analogamente, sentenza n. 46 del 2014).
10.4.– Poste in questi termini le coordinate entro le quali sono chiamate a
coesistere e a dinamicamente integrarsi, nel quadro del principio di
sussidiarietà verticale, l’autonomia comunale e quella regionale, questa
Corte ha di recente stabilito che, laddove si assuma lesa la potestà
pianificatoria comunale, lo scrutinio di legittimità costituzionale si
concentrerà «dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo
perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla
necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi
coinvolti», così da verificare se la sottrazione di potere ai Comuni
costituisca effettivamente «il minimo mezzo utile per perseguire gli
scopi del legislatore regionale» (sentenza n. 179 del 2019).
Tale giudizio di proporzionalità, mirante a verificare l’«esistenza di
esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni
legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali»
(sentenza n. 286 del 1997), consente quindi di appurare «se, per effetto
di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del
territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle
funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della
pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al
principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.» (sentenza n. 119
del 2020).
11.– In questi termini, l’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge reg.
Lombardia n. 18 del 2019, si pone in violazione del combinato disposto
dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla
competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali dei Comuni, e degli
artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., in riferimento al principio di
sussidiarietà verticale.
11.1.– Per quanto, come si è detto, la previsione di incentivi per il
recupero degli immobili dismessi, anche in deroga agli strumenti
urbanistici, possa essere ricondotta a un obiettivo legittimamente
perseguibile dal legislatore regionale in quanto rientrante nella sua
competenza legislativa in materia di governo del territorio, le modalità con
cui questi incentivi sono stati previsti dalla disciplina in esame, e la
loro stessa entità, determinano una compressione della funzione fondamentale
dei Comuni in materia di pianificazione urbanistica che si spinge «oltre
la soglia dell’adeguatezza e della necessità» (sentenza n. 119 del
2020).
L’alterazione dell’equilibrio che deve sussistere tra esercizio delle
competenze regionali e salvaguardia dell’autonomia dei Comuni è innanzi
tutto determinata dalla previsione, contenuta nella disposizione censurata,
di ampliamenti di volumetria riconosciuti a chi intraprenda operazioni di
recupero di immobili abbandonati, stabiliti in misura fissa e in percentuale
significativa, oscillante tra il 20 e il 25 per cento rispetto al manufatto
insediato. Se a ciò si aggiunge la generalizzata esenzione dal reperimento
degli standard urbanistici e l’altrettanto indiscriminata previsione di
deroghe a norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e
sulle distanze (con l’unica eccezione di quelle previste da fonte statale),
si evince agevolmente come i Comuni lombardi vedano gravemente alterati i
termini essenziali di esercizio del loro potere pianificatorio, per il fatto
che risulta loro imposta una disciplina che genera un aumento non
compensato, di portata potenzialmente anche significativa, del carico
urbanistico e, più in generale, della pressione insediativa, che per certi
aspetti potrebbe risultare poco coerente con le finalità perseguite dalla
stessa legge regionale.
Peraltro, ai medesimi Comuni non è attribuita alcuna possibilità di influire
sull’applicazione delle misure incentivanti, sia perché ad essi (ove abbiano
una popolazione superiore a 20.000 abitanti) non è attribuita alcuna “riserva
di tutela” rispetto ad ambiti del proprio territorio ritenuti meritevoli
di una difesa rafforzata del paesaggio, sia perché –ancora prima– la scelta
di intervenire con legge regionale li ha ulteriormente privati di qualsiasi
compensazione procedurale (quale, in ipotesi, si sarebbe potuta avere in
sede di interlocuzione nel corso della procedura di adozione del piano di
governo del territorio, ovvero all’atto della pianificazione regionale), con
l’effetto –costituzionalmente intollerabile– di «estromettere tali Enti
dalle decisioni riguardanti il proprio territorio» (sentenza n. 478 del
2002).
Né, infine, gli esiti ravvisati possono essere attenuati dalla natura
temporanea degli incentivi e delle deroghe introdotte, atteso che nessuna
delle misure in discussione, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa
regionale, è soggetta a un termine di efficacia: esse si prestano, quindi, a
comprimere in modo stabile il potere pianificatorio comunale, con l’unica e
circoscritta eccezione dell’incremento dei diritti edificatori riconosciuto
dal comma 5, ultimo periodo, del citato art. 40-bis ai proprietari degli
immobili in caso di demolizione, applicabile per un periodo massimo di dieci
anni dalla data di individuazione dell’immobile quale dismesso.
Anche da ciò, pertanto, si ricava come la disposizione in esame non faccia
residuare in capo ai Comuni alcun reale spazio di decisione, con l’effetto
di farli illegittimamente scadere a meri esecutori di una scelta
pianificatoria regionale, per questo lesiva dell’autonomia comunale
presidiata dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., oltre che del
principio di sussidiarietà verticale di cui al combinato disposto degli artt.
5 e 118, commi primo e secondo, Cost.
11.2.– Gli argomenti addotti dalla Regione Lombardia e dalla parte privata a
sostegno della legittimità costituzionale del richiamato art. 40-bis non
scalfiscono le conclusioni raggiunte.
11.2.1.– Non colgono nel segno, innanzi tutto, gli argomenti spesi dalla
difesa di MDV_Newco 40 srl per ritenere che la funzione comunale non sarebbe
compromessa in ragione del mantenimento in capo ai Comuni del potere di
individuare gli immobili abbandonati e degradati. I presupposti fissati
dall’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 per tale
individuazione, infatti, rendono l’esercizio della funzione dei Comuni
sostanzialmente vincolata sul punto, perché essa viene ristretta tanto con
riguardo al periodo a partire dal quale gli immobili devono ritenersi
abbandonati (da oltre cinque anni), quanto in relazione ai profili di
criticità che, da soli o congiuntamente, sono idonei a rivelarne lo stato di
abbandono e di degrado.
11.2.2.– La difesa regionale ha invece sostenuto che la disposizione
censurata non intacca il potere dei Comuni di scegliere quali funzioni
insediare sul proprio territorio, ciò che potrebbe salvaguardare la loro
autonomia per il fatto di consentire un’applicazione diversificata delle
misure incentivanti e delle deroghe sul territorio di riferimento.
Tale assunto è innanzi tutto smentito nel momento in cui la disposizione
censurata ha visto retroattivamente estendere la sua portata anche agli
immobili già individuati dai Comuni come dismessi, sottraendosi così a
qualsiasi forma di raccordo con gli atti pianificatori già assunti.
Questa circostanza incide in modo significativo sulla potestà pianificatoria
municipale, perché riconnette a una scelta effettuata dal Comune in un
determinato momento e, quindi, nel quadro delle complessive politiche
pianificatorie da questo perseguite, conseguenze che lo stesso non avrebbe
potuto prevedere al momento di adozione di quelle scelte e che finiscono
potenzialmente per stravolgere l’esercizio del nucleo incomprimibile delle
sue funzioni.
Ciò è del resto dimostrato dalle ricadute che la norma in esame ha prodotto
nel caso che ha dato origine al giudizio a quo, in cui il Comune di
Milano si è dotato di una disciplina sul recupero degli immobili dismessi,
quale quella contenuta nel richiamato art. 11 delle NdA, nel quadro della
più generale scelta pianificatoria consistente nell’adozione del principio
dell’indifferenza funzionale, vale a dire della generale libertà delle
funzioni da insediare sul proprio territorio (art. 8 NdA). Che il medesimo
Comune, in un secondo momento, si veda imposta la scelta di consentire il
recupero degli immobili dismessi con misure incentivanti ampie e stabilite
in modo fisso, senza poterne più modulare la portata sulla base delle
distinte funzioni insediate sul territorio, dimostra quanto dalla scelta
pianificatoria in precedenza adottata scaturiscano conseguenze che esso non
poteva prevedere, di cui non può più modulare l’efficacia e la portata e che
conseguentemente stravolgono l’impianto della sua pianificazione.
11.2.3.– Più in generale, l’imposizione ai Comuni, per di più al di fuori di
qualsiasi procedura di raccordo collaborativo, di una disciplina quale
quella in esame finisce per alterare i termini essenziali di esercizio della
funzione pianificatoria, anche perché obbliga i medesimi Comuni a far
dipendere le loro scelte fondamentali sulle forme di uso e sviluppo del
territorio da una decisione legislativa destinata a incidere in modo assai
significativo sull’aumento dell’edificato e sulla conseguente pressione
insediativa. Ciò contrasta con l’assunto, che questa Corte condivide, per
cui «il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo
all’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio […], ma è
rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti
interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti» (Consiglio di Stato, sezione quarta,
sentenza 09.05.2018, n. 2780).
12.– Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto
dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2019,
nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n.
11 del 2021 (14.12.2019).
Restano assorbite le altre questioni di legittimità costituzionale sollevate
dalle ordinanze di rimessione.
12.1.– La declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione
comporta, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale in via conseguenziale del comma 11-quinquies
dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto
dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021,
che ha stabilito, al ricorrere dei presupposti ivi indicati, l’ultrattività
delle disposizioni originariamente contenute nell’art. 40-bis della legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005, pur a seguito delle modifiche ad esso
apportate dall’art. 1 della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 40-bis della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), introdotto dall’art.
4, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n.
18, recante «Misure di
semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale,
nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e
integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) e ad altre leggi regionali», nel testo
vigente prima dell’entrata in vigore della legge della Regione Lombardia
24.06.2021, n. 11, recante
«Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità.
Modifiche all’art. 40-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per
il governo del territorio)»;
2) dichiara, in via conseguenziale,
ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della
legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1,
lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021
(Corte Costituzionale,
sentenza 28.10.2021 n. 202). |
giugno 2021 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Mutamento
di destinazione d’uso.
Il TAR Brescia osserva
che gli articoli 51 e 52 della legge
regionale della Lombardia n. 12 del 2005
hanno previsto un regime di sostanziale
liberalizzazione delle destinazioni d’uso,
per il quale il passaggio a un diverso tipo
di utilizzazione deve ritenersi sempre
ammissibile, in mancanza di espressi divieti
contenuti nello strumento urbanistico.
La liberalizzazione delle destinazioni d’uso
non assicura peraltro che il passaggio
dall’una all’altra avvenga a titolo
gratuito.
In base alla normativa regionale perché si
possa avere un mutamento di destinazione
d’uso senza costi per il privato sono
necessarie tre condizioni: che il cambio sia
senza opere, che la nuova destinazione d'uso
non alteri il fabbisogno di standard, che
siano decorsi almeno 10 anni
dell'ultimazione dei lavori
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.06.2021 n. 578 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3. Il ricorso assunto al N.R.G. 1286/2014
censura i provvedimenti con i quali
l’amministrazione comunale ha diffidato i
proprietari delle tre indicate unità a
mutarne la destinazione d’uso da produttiva
a direzionale/servizi, allegando che in
virtù della convenzione urbanistica
originaria gli standard sono stati versati
solo nella misura del 20% della s.l.p.,
dovuta per gli immobili a destinazione
produttiva, che la nuova funzionalizzazione
richiede standard nella misura del 100%
della s.l.p. (ai sensi degli articoli 23, 44
e 46 delle Nta del piano delle regole) e che
quindi è dovuto il versamento del
differenziale.
4. Va anzitutto dichiarata l’inammissibilità
del gravame con riferimento al sub 701,
atteso che il proprietario Gi.Sp. non ha proposto impugnativa.
5. Con riferimento ai restanti subalterni il
ricorso è ammissibile limitatamente ai
profili di interesse dei rispettivi
proprietari.
6. L’amministrazione resistente ha precisato
che non è mai stata in contestazione la
possibilità di mutare la destinazione dei
subalterni, risultando il nuovo utilizzo
compatibile con le norme urbanistiche.
7. La nuova destinazione risulta pertanto
legittima, atteso tra l’altro che gli
articoli 51 e 52 della legge regionale della
Lombardia n. 12 del 2005 hanno previsto un
regime di sostanziale liberalizzazione delle
destinazioni d’uso, per il quale il
passaggio a un diverso tipo di utilizzazione
deve ritenersi sempre ammissibile, in
mancanza di espressi divieti contenuti nello
strumento urbanistico.
L’articolo 51, in particolare, prevede al
comma 1 che “Costituisce destinazione
d'uso urbanistica di un'area la funzione o
il complesso di funzioni ammesse dagli
strumenti di pianificazione. Ferma restando,
per i profili edilizi, la destinazione d'uso
prevalente ai sensi dell'articolo 23-ter,
comma 2, del D.P.R. 380/2001, è principale
la destinazione d'uso qualificante l'area; è
complementare o accessoria o compatibile
qualsiasi ulteriore destinazione d'uso che
integri o renda possibile la destinazione
d'uso principale o sia prevista dallo
strumento urbanistico generale a titolo di
pertinenza o custodia. In particolare, sono
sempre considerate tra loro urbanisticamente
compatibili, anche in deroga a eventuali
prescrizioni o limitazioni poste dal PGT, le
destinazioni residenziale, commerciale di
vicinato e artigianale di servizio, nonché
le destinazioni direzionale e per strutture
ricettive fino a 500 mq di superficie lorda.
Le destinazioni principali, complementari,
accessorie o compatibili, come sopra
definite, possono coesistere senza
limitazioni percentuali ed è sempre ammesso
il passaggio dall'una all'altra, nel
rispetto del presente articolo, salvo quelle
eventualmente escluse dal PGT. (…)”.
8. La liberalizzazione delle destinazioni
d’uso non assicura peraltro che il passaggio
dall’una all’altra avvenga a titolo
gratuito. In base alla normativa regionale
perché si possa avere un mutamento di
destinazione d’uso senza costi per il
privato sono necessarie tre condizioni: che
il cambio sia senza opere, che la nuova
destinazione d'uso non alteri il fabbisogno
di standard, che siano decorsi almeno 10
anni dell'ultimazione dei lavori (TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 02.03.2021, n.
206; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 17.06.2015, n. 855).
9. La modifica del fabbisogno di standard e
quindi il carico urbanistico della nuova
destinazione e l’eventuale incremento
rispetto a quella precedente vanno
verificati non già in base a principi
generali, bensì in ragione delle specifiche
previsioni urbanistiche comunali. |
URBANISTICA: Le
scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono il frutto di complesse
valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello politico.
In tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni istituzionali in quanto scelte di merito non
sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da
arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di affidamento
qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, mentre il
sindacato giurisdizionale su tali valutazioni è di carattere estrinseco e
limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità
apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al sindacato
giurisdizionale l’apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo
già appartenente alla sfera del merito.
---------------
L’ampia discrezionalità in materia di pianificazione urbanistica si riflette
anche sull’onere di motivazione, che grava quindi sull’amministrazione in
termini solo generali.
Tale obbligo risulta quindi soddisfatto con l’indicazione dei criteri
principali che sorreggono le scelte effettuate, potendo la motivazione
desumersi anche dai documenti di accompagnamento allo strumento di
pianificazione e, più in generale, dagli atti del procedimento.
Per giustificare il rigetto delle osservazioni presentate dagli interessati
è pertanto sufficiente che le stesse siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste alla base del
piano; d’altro canto le osservazioni costituiscono meri apporti
collaborativi in funzione di interessi generali e non individuali.
---------------
In ordine alla deduzione di eccesso di potere per disparità di trattamento,
tale vizio, “a fronte di scelte discrezionali dell'Amministrazione, è
riscontrabile soltanto in caso di assoluta identità di situazioni di fatto e
di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato,
situazioni la cui prova rigorosa deve essere fornita dall'interessato, con
la precisazione che la legittimità dell'operato della Pubblica
amministrazione non può comunque essere inficiata dall'eventuale
illegittimità compiuta in altra situazione.
---------------
Circa il fatto che l’atto di adozione del PGT non rechi alcuna motivazione a riscontro delle
richieste formulate dal ricorrente a seguito della comunicazione di avvio
del procedimento di redazione dello strumento urbanistico, va detto che la possibilità di
fornire i propri contributi in tale anticipata fase di elaborazione del PGT
non comporta l’obbligo per l’amministrazione di esaminarli né
tanto meno di accoglierli, fermo restando che la partecipazione degli
interessati è poi riconosciuta e codificata nella fase procedimentale vera e
propria.
---------------
In base a quanto previsto
dall’art. 13, commi 7, 9 e 10, l.r. 12/2005, l’approvazione delle controdeduzioni
alle osservazioni e l’approvazione definitiva del PGT avvengono
contestualmente con un’unica deliberazione e non richiedono una duplice
votazione, non prevista da alcuna norma.
---------------
Lo scrutinio delle censure articolate nel gravame richiede,
preliminarmente, di ribadire che secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale “le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono
il frutto di complesse valutazioni tecniche e amministrative, riservate al
livello politico; in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni istituzionali in quanto scelte di merito non
sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da
arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di affidamento
qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, mentre il
sindacato giurisdizionale su tali valutazioni è di carattere estrinseco e
limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità
apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al sindacato
giurisdizionale l’apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo
già appartenente alla sfera del merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.04.2020, n. 2284; 31.12.2019, n. 8917; 12.05.2016, n. 1907)”.
...
È infondata anche la seconda doglianza, che si appunta sul denunciato
difetto di motivazione.
Per consolidata giurisprudenza l’ampia discrezionalità in materia di
pianificazione urbanistica si riflette anche sull’onere di motivazione, che
grava quindi sull’amministrazione in termini solo generali. Tale obbligo
risulta quindi soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che
sorreggono le scelte effettuate, potendo la motivazione desumersi anche dai
documenti di accompagnamento allo strumento di pianificazione e, più in
generale, dagli atti del procedimento.
Per giustificare il rigetto delle
osservazioni presentate dagli interessati è pertanto sufficiente che le
stesse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste alla base del piano; d’altro canto le
osservazioni costituiscono meri apporti collaborativi in funzione di
interessi generali e non individuali (TAR Lombardia, Milano Sez. I, 26.10.2018, n. 2407).
...
Non merita parimenti accoglimento il terzo motivo del gravame, con il quale
gli esponenti deducono l’eccesso di potere per disparità di trattamento; il
vizio denunciato, infatti, “a fronte di scelte discrezionali
dell'Amministrazione, è riscontrabile soltanto in caso di assoluta identità
di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità del
trattamento riservato, situazioni la cui prova rigorosa deve essere fornita
dall'interessato, con la precisazione che la legittimità dell'operato della
Pubblica amministrazione non può comunque essere inficiata dall'eventuale
illegittimità compiuta in altra situazione (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV,
02.03.2020, n. 1499; sez. III, 04.12.2018, n. 6873; id., sez. IV, 27.07.2018, n. 4611; id., sez. VI, 30.10.2017, n. 5016; id., sez. VI,
30.06.2011, n. 3894)” (Cons. Stato sez. IV, 22.03.2021, n. 2418;
TAR Valle d'Aosta, Sez. I, 31.12.2020, n. 69).
Pertanto in assenza
della totale sovrapponibilità delle situazioni in fatto relative alle zone
poste in comparazione, della quale deve dare rigorosa prova il deducente,
difettano i presupposti per denunciare l’illegittimità di una disciplina non
omogenea.
...
Va disatteso anche il quarto motivo, con il quale i ricorrenti lamentano che
l’atto di adozione del PGT non reca alcuna motivazione a riscontro delle
richieste dagli stessi formulate a seguito della comunicazione di avvio del
procedimento di redazione dello strumento urbanistico.
La possibilità di
fornire i propri contributi in tale anticipata fase di elaborazione del PGT
non comporta, infatti, l’obbligo per l’amministrazione di esaminarli né
tanto meno di accoglierli, fermo restando che la partecipazione degli
interessati è poi riconosciuta e codificata nella fase procedimentale vera e
propria.
...
Deve essere, infine, disattesa anche l’ultima doglianza.
Come ribadito da
recente pronuncia di questo TAR, infatti, “In base a quanto previsto
dall’art. 13 commi 7, 9 e 10, l’approvazione delle controdeduzioni alle
osservazioni e l’approvazione definitiva del piano avvengono contestualmente
con un’unica deliberazione e non richiedono una duplice votazione, non
prevista da alcuna norma (in tale senso, cfr. TAR Brescia, sez. I, 24.06.2009 n. 1312)” (Cons.
Stato, Sez. II, 12.04.2021) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.06.2021 n. 563 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2021 |
|
EDILIZIA PRIVATA: F.
Donegani,
Rigenerazione urbana in Lombardia: la parola alla Corte Costituzionale
(15.03.2021 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Premio
volumetrico su immobili dismessi, lo scontro Comune-Regione Lombardia
finisce alla Consulta.
Il Tar rimette la norma alla corte costituzionale. Fermi i progetti di Boeri
per Coima. Gli immobiliaristi di Aspesi: senza incentivi nessuna
rigenerazione urbana sostenibile.
Il Tar Lombardia spedisce alla Consulta la legge regionale sugli edifici
abbandonati che concede un premio edificatorio fino al 25% a chi recupera
immobili dismessi da almeno cinque anni.
La norma, secondo i giudici,
rappresenta una «violazione della potestà pianificatoria» del Comune
e ha il potere di «stravolgere l'assetto del territorio». Intanto,
l'incertezza sulla legittimità degli attuali e consistenti premi volumetrici
mina alcuni progetti di riqualificazione, caso emblematico il ponte-serra a
scavalco su via Melchiorre Gioia concepito dagli studi Stefano Boeri e
Diller Scofidio+Renfro, per conto di Coima, nell'ambito del progetto di
riqualificazione del "Pirellino".
Ma, senza premi concreti, non può essere avviato l'ambizioso processo di
rigenerazione che Milano ha in mente, avvertono gli imprenditori del settore
immobiliare rappresentati da Aspesi. «Il recupero di un sito dismesso è
più costoso di un intervento su terreno verde a causa di bonifiche e
demolizioni da effettuare quasi sempre. Perché, quindi, un operatore come i
nostri possa decidere di realizzarlo occorrono degli incentivi senza i quali
i conti non tornerebbero», sottolinea Federico Filippo Oriana,
presidente dell'Associazione nazionale delle società immobiliari.
La questione di costituzionalità della legge regionale è stata sollevata dal
Comune, parte in causa in tre ricorsi al Tar (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 371
- TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 372 - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 373) presentati da proprietari di
immobili inseriti nell'elenco degli «edifici abbandonati o degradati»
del nuovo Pgt.
Nella lista finiscono gli immobili dismessi da più di un anno
e considerati pericolosi per la sicurezza, la salubrità o l'incolumità
pubblica o, più semplicemente, in contrasto con il decoro e la qualità
urbana. I proprietari che non recuperano o abbattono tali edifici nell'arco
di 18 mesi, subiscono la demolizione in danno da parte del Comune e perdono
la volumetria esistente (possono contare solo sul riconoscimento dell'indice
di edificabilità unico di 0,35 mq/mq). Da qui il ricorso al Tar dei privati
penalizzati dalle regole del nuovo Pgt.
Tra i motivi dei ricorsi spicca il contrasto tra le norme di attuazione del
Pgt (art. 11) e la normativa regionale (art.
40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005,
introdotto dalla lr 18 del 2019) di gran lunga più vantaggiosa per i
proprietari di immobili fatiscenti, che hanno tre anni di tempo per
presentare il titolo edilizio necessario per avviare i lavori e possono
vedersi riconoscere un incremento dei diritti edificatori tra il 20 e il 25
per cento. Al premio si affianca l'esenzione dall'eventuale obbligo di
reperimento degli standard.
Evidente, secondo il Tar, il contrasto tra le regole del Pgt e la legge
regionale così come è palese che la questione di incostituzionalità
sollevata dal Comune non sia infondata. In violazione di alcuni articoli
della Costituzione (n. 5. 97, 114, 117 e 18), la legge regionale «comprime
in maniera eccessiva la potestà pianificatoria comunale», si legge nelle
ordinanze. Inoltre, affermano i giudici, la disciplina regionale sugli
immobili fatiscenti è «ingiustificatamente rigida e uniforme»,
prescinde dalle decisioni comunali e può avere un impatto incisivo sulla
pianificazione locale, tale da poter «stravolgere l'assetto del
territorio o di sue parti».
Il Tar riscontra anche una violazione della normativa statale, tra cui
quella sugli standard (Dm 1444 del 1968): l'art. 40-bis esonera, seppure con
alcune eccezioni, dall'obbligo di individuare aree per servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, «non
garantendo un corretto rapporto tra il carico urbanistico gravante sulla
zona interessata dall'intervento di riqualificazione e le corrispondenti
dotazioni pubbliche».
Contrario, inoltre, ai principi di uguaglianza e imparzialità
dell'amministrazione il riconoscimento di premialità in favore di persone
che hanno causato «l'insorgere di situazioni di degrado e pericolo»,
vantaggi a cui invece non possono aspirare i proprietari più diligenti. La
parola passa ora alla Consulta
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 12.02.2021). |
EDILIZIA PRIVATA: Disciplina
di legge regionale sul recupero degli immobili degradati e compromissione
della potestà pianificatoria comunale: sollevata q.l.c..
Il Tar per la Lombardia sottopone al giudizio della Corte costituzionale la
normativa regionale lombarda sul recupero edilizio degli immobili degradati
e abbandonati (art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, introdotto
dalla legge regionale n. 18 del 2019), censurandone l’irragionevolezza e il
contrasto con gli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett.
p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione.
In particolare, secondo la Sezione rimettente, risulterebbe oltremodo
compressa la potestà pianificatoria dei Comuni (in specie, quelli di grandi
dimensioni), i quali non sarebbero più messi nelle condizioni di approvare
alcun intervento correttivo o derogatorio rispetto a quanto già stabilito
dalle norme della legge regionale, in tal modo venendo loro sottratto il
compito di valorizzare le peculiarità dei singoli territori.
---------------
Urbanistica ed edilizia – Regione Lombardia – Recupero degli immobili
degradati e abbandonati – Compressione della potestà pianificatoria dei
Comuni – Questione rilevante e non manifestamente infondata di
costituzionalità.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lettera a,
della legge regionale n. 18 del 2019), rubricato “Disposizioni relative al
patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione degli artt. 3,
5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto
comma, e 118 della Costituzione, in quanto, nel dettare una disciplina
completa ed esaustiva sul trattamento giuridico da riservare agli immobili
abbandonati e degradati, lascia compiti meramente attuativi ed esecutivi in
capo ai Comuni, comprimendone in maniera eccessiva la potestà pianificatoria
ed impedendo loro una coerente programmazione in ambito urbanistico (1).
---------------
(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, il Tar per la Lombardia ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis della
legge regionale lombarda sul governo del territorio (legge regionale
11.03.2005, n. 12), come introdotto dalla legge regionale n. 18 del 2019,
che detta una disciplina molto analitica sul recupero degli immobili
degradati e abbandonati. Il cuore dei dubbi di costituzionalità attiene
all’eccessiva compressione della potestà pianificatoria dei Comuni, con
particolare riguardo ai Comuni di maggiori dimensioni.
Nel giudizio innescatosi dinnanzi al Tar, il proprietario di un immobile
situato nel Comune di Milano (in zona a destinazione urbanistica
prevalentemente terziariadirezionale) ha impugnato gli atti con i quali
l’edificio è stato ricompreso tra gli “edifici abbandonati e degradati”,
con conseguente sottoposizione al regime previsto dall’art. 11 delle Norme
di attuazione (N.d.A.) del Piano delle Regole (P.d.R.), facente parte del
Piano di Governo del Territorio (PGT).
Uno dei motivi di gravame ha lamentato l’illegittimità sopravvenuta di tali
norme di attuazione, in quanto contrastanti con il regime successivamente
introdotto dall’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005. La difesa
comunale ha, in primo luogo, sostenuto la perfetta compatibilità tra quest’ultima
norma e l’art. 11 delle N.d.A. (operando, cioè, un tentativo di
interpretazione della norma di legge in senso costituzionalmente conforme),
e, in subordine, ne ha eccepito l’illegittimità costituzionale per contrasto
con vari parametri costituzionali.
II. – Il Collegio ritiene di non accogliere l’interpretazione dell’art.
40-bis propugnata dalla difesa comunale (attese le evidenti inconciliabilità
testuali rispetto a quanto previsto dalla preesistente norma di attuazione
comunale, “poiché viene regolamentata, in maniera divergente oltre che
contrastante, la medesima fattispecie, ossia la disciplina da riservare agli
immobili abbandonati e degradati”) e, di conseguenza, ritiene pregiudiziale
alla propria decisione la risoluzione della questione di legittimità
costituzionale sulla norma della legge regionale. Di seguito, il percorso argomentativo seguito dal Tar per la Lombardia:
a) quanto al requisito della rilevanza, esso
deriva dalla sovrapposizione dell’art. 40-bis alla regolamentazione comunale
contenuta nell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R., sicché l’eventuale
declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe l’applicazione
alla fattispecie della norma attuativa comunale; in particolare, secondo il
Tar:
a1) qualora fosse dichiarato
incostituzionale l’art. 40-bis, non potrebbe escludersi che si possa
comunque procedere all’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. comunali in
ragione della fondatezza, anche parziale, dei restanti motivi di ricorso;
a2) tale annullamento
produrrebbe effetti sensibilmente diversi rispetto a quelli che
scaturirebbero dalla permanente vigenza dell’art. 40-bis della legge
regionale n. 12 del 2005, posto che, “in tale ultimo frangente, agli
immobili abbandonati e degradati –compreso quello della ricorrente– si
applicherebbero le regole contenute nella disposizione regionale, mentre, in
caso di declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis, l’annullamento
dell’art. 11 delle N.d.A. determinerebbe l’applicazione agli immobili
fatiscenti dei principi generali afferenti alla materia edilizia ed
urbanistica, riconoscendo ai titolari dei diritti sugli immobili abbandonati
e degradati la facoltà di scegliere se procedere o meno alla loro
riqualificazione e con le tempistiche e le modalità ritenute più opportune
dai predetti soggetti”;
a3) nella prospettiva del
Comune, l’annullamento della norma regolamentare comunale per violazione
della superiore legge regionale, non dichiarata incostituzionale, “non
lascerebbe all’Ente locale alcuno spazio per intervenire con un proprio
regolamento sulla materia, se non per aspetti del tutto marginali e
secondari, vista la completezza e la sostanziale autoapplicabilità della
richiamata previsione regionale”; di contro, un’eventuale declaratoria di
incostituzionalità “lascerebbe intatto il potere comunale di intervenire per
disciplinare ex novo la materia, anche laddove fosse integralmente annullato
da questo Tribunale l’art. 11 delle N.d.A.”, così salvaguardandosi la
potestà pianificatoria comunale;
b) quanto al requisito della non manifesta
infondatezza, il Tar mette a confronto il testo dell’art. 11 delle N.d.A.
con il testo dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005,
evidenziando che quest’ultima disposizione “si rivela sostanzialmente
completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare
agli immobili abbandonati e degradati”: ai Comuni residuano “compiti
meramente attuativi ed esecutivi”, con la sola parziale eccezione per i
Comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti (“i quali, per
motivate ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del
proprio territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione,
l’incremento del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si
può derogare alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di
intervento e sulle distanze”);
c) i conseguenza, appaiono in primo luogo violati
gli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e
sesto comma, e 118 della Costituzione, a causa dell’eccessiva compressione
della potestà pianificatoria dei Comuni di maggiori dimensioni (tra i quali,
in particolare, il Comune di Milano), ai quali non risulta consentito “alcun
intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla
propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori
di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione”; in
particolare:
c1) la disciplina regionale sul
recupero degli immobili degradati e abbandonati “risulta particolarmente
analitica sia nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel
procedimento da seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino
il potere di pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato
del territorio che tale pianificazione mira a realizzare”; tale normativa,
pertanto, non lascia alcuno spazio per tentativi di interpretazione
costituzionalmente orientata (sono richiamate, della Corte costituzionale:
sentenza 10.10.2020, n. 218, punto 2.2 della parte in diritto, in Cassaz. pen., 2021, 204; sentenza 21.07.2016, n. 204, in Dir. pen. e
proc., 2016, 1434, con nota di MENGHINI, in Rass. penit. e criminologica,
2015, 3, 135, con nota di ABATE, in Cass. pen., 2017, 594, con nota di
ABATE, ed in Giur. cost., 2016, 1441, con note di PUGIOTTO e FIORENTIN);
c2) la disciplina regionale,
infatti, ha una portata “ingiustificatamente rigida e uniforme”, in quanto è
destinata ad operare “a prescindere dalle decisioni
comunali” e a “produrre un impatto sulla pianificazione locale molto
incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o
di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a
quanto stabilito nello strumento urbanistico generale”;
c3) al singolo Comune è quindi
impedita “una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in
alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea”, e ciò
anche nell’ipotesi –che ricorre nella fattispecie– in cui un Comune avesse
già individuato gli immobili da recuperare, posto che la legge regionale
riconosce, in via generalizzata, “un indice edificatorio premiale di
rilevante portata (da un minimo del 20% ad un massimo del 25%), accompagnato
dall’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard”, anche
a costo di discostarsi dalle scelte comunali sottese all’individuazione
degli immobili fatiscenti o alla loro non inclusione nel relativo elenco;
c4) in tale contesto, il
sacrificio delle prerogative comunali appare “non proporzionato, con
violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della
Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge regionale, pur meritorio
nelle sue finalità, di favorire il recupero degli immobili abbandonati e
degradati”, posto che viene stravolta la pianificazione territoriale già
adottata dai Comuni, soprattutto in considerazione del mancato bilanciamento
tra l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato (derivante
dall’indice edificatorio premiale predetto) e il contestuale reperimento
degli standard urbanistici e dalla realizzazione delle opere di
urbanizzazione (che, come detto, sempre in prospettiva premiale, non sono
previsti dalla legge) – aspetto, quest’ultimo, sottolinea il Tar, che si
pone anche in contrasto con il d.m. n. 1444 del 1968, che costituisce un
“principio in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma,
della Costituzione), in relazione al livello minimo di standard che devono
essere garantiti sul territorio comunale”;
d) sotto altro profilo, il Collegio rimettente
evidenzia l’irragionevolezza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12
del 2005, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost., “nella parte in cui
non si rapporta ai principi contenuti in altre norme della stessa legge
regionale n. 12 del 2005”, in specie al principio di riduzione del consumo
di suolo (che è richiamato dagli artt. 1, comma 3-bis, e 19, comma 2, lett.
b-bis, della legge regionale del 2005, nonché dalla legge regionale n. 31
del 2014, recante “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e la
riqualificazione del suolo degradato”); in proposito, il Collegio, nel
citare alcuni passaggi della sentenza della
Corte costituzionale del 16.07.2019, n. 179 (oggetto della
News US n. 93 del 27.08.2019, cui si
rinvia per ogni utile approfondimento, nonché in Giur. cost., 2019, 2074,
con nota di FALLETTA, ed in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 843, con nota di
PAGLIAROLI), osserva che:
d1) la riduzione del consumo di
suolo “rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della
pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo
territoriale sostenibile”;
d2) proprio il mancato
bilanciamento tra l’attività di riqualificazione e recupero di immobili
abbandonati e degradati e gli obiettivi di limitazione del consumo del suolo
libero fa emergere, nel caso di specie, l’irragionevolezza e la
contraddittorietà della norma regionale, caratterizzata da elevata rigidità;
e) sotto ulteriore profilo, il Tar rimettente
censura anche la lesione della “funzione amministrativa comunale in ambito
urbanistico”, avuto riguardo alla puntuale e specifica natura della norma
regionale “che non lascia alcuno spazio di intervento significativo
all’attività pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione
fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della
Costituzione”; difatti:
e1) la previsione di premi
volumetrici in misura fissa e prestabilita, accompagnata da ulteriori
importanti deroghe alla disciplina urbanistico-edilizia (quali l’esenzione
dall’obbligo di conferimento dello standard e dal rispetto delle norme
quantitative, morfologiche e sulle tipologie di intervento e delle distanze
previste dallo strumento urbanistico locale), esclude qualsiasi autonoma
scelta del Comune in sede di pianificazione generale ed altera i rapporti
tra il carico urbanistico e le dotazioni pubbliche e private;
e2) simili considerazioni
trovano riscontro nella più recente giurisprudenza costituzionale, secondo
cui “nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di
sintesi è stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per
cui «sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117,
secondo comma, lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione
urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla
pianificazione territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando
le funzioni di programmazione e di coordinamento delle Regioni, loro
spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della
Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della
Costituzione» (art. 14, comma 27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78 […],
come sostituito dall’art. 19, comma 1, lett. a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 […], convertito, con modificazioni, nella legge
07.08.2012, n. 135). Il ‘sistema della pianificazione’, che assegna in modo
preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la
valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed
edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e
stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in
deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)”
(sentenza 23.06.2020, n. 119, oggetto della
News US n. 83 del 24.07.2020, cui si rinvia per ampi riferimenti di giurisprudenza, nonché in Giur.
cost., 2020, 1323);
e3) l’intervento del
legislatore regionale deve pertanto perseguire “esigenze generali che
possano ragionevolmente giustificare disposizioni limitative delle funzioni
già assegnate agli Enti locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito nell’art. 118 della Costituzione”;
e4) nella specie, invece,
“nessuna ‘riserva di tutela’ è stata riconosciuta al Comune, consentendogli
di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa
derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il ricorso ad
una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli strumenti di
pianificazione incidenti sul governo del territorio”, diversamente, quindi,
dal modus procedendi che lo stesso legislatore regionale lombardo ha
correttamente seguito in altri recenti occasioni (sono qui citate le leggi
regionali sul piano casa, la n. 12 del 2009 e la n. 4 del 2012, nonché gli
artt. 63 ss. della stessa legge regionale n. 12 del 2005 in materia di
recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti): emerge pertanto –sottolinea il Collegio– che, “in alcuni frangenti, lo stesso legislatore
regionale lombardo si è dimostrato rispettoso delle prerogative pianificatorie comunali, pur non rinunciando a disciplinare la materia del
governo del territorio nell’esercizio delle proprie attribuzioni”;
e5) non può, pertanto, nella
specie, ritenersi superato “il test di proporzionalità con riguardo
all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia
comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale
ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale” (cfr.
Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2019, cit., punto 12.7 della parte
in diritto);
f) ancora, la norma regionale sospettata di
illegittimità costituzionale –laddove prevede il premio di edificabilità–
sembra violare anche il principio espresso dall’art. 3-bis del d.P.R. n. 380
del 2001 (testo unico dell’edilizia), secondo il quale la riqualificazione
di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di compensazione
incidenti sull’area interessata, senza tuttavia aumento della superficie
coperta: al riguardo, il Tar rimettente precisa che “deve ricomprendersi
difatti tra i principi statali in materia di governo del territorio la
previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un bene non può
spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro bene, di
almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo di suolo,
peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale”;
g) infine, viene sollevato pure il contrasto “con
i principi di uguaglianza e imparzialità dell’Amministrazione discendenti
dagli artt. 3 e 97 della Costituzione”, dal momento che vengono riconosciute
“delle premialità per la riqualificazione di immobili abbandonati e
degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno provveduto a
mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di situazioni di
degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che hanno fatto
fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di proprietà, ma
che proprio per questo non possono beneficiare di alcun vantaggio in caso di
intervento sul proprio immobile”; ne deriva, secondo il Tar, un effetto
discriminatorio e irragionevole di incentivazione di situazioni di abbandono
e di degrado, “da cui discende la possibilità di ottenere premi volumetrici
e norme urbanistiche ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle
ordinarie”.
III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
h) con la richiamata sentenza n. 179 del 2019,
cit., la Corte costituzionale –nel pronunciarsi, ex professo, proprio sul
principio di autonomia dei Comuni nella pianificazione urbanistica– ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4, della legge
della Regione Lombardia n. 31 del 2014, nella parte in cui non consentiva ai
Comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi
edificatori nel documento di piano vigente; ciò, per violazione del
combinato disposto tra l’art. 117, secondo comma, lett. p), Cost.,
relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali,
e gli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., con riguardo al principio
di sussidiarietà verticale, in quanto la disposizione impugnata comprime
l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, paralizzandola per un
periodo temporale, che è tradizionalmente rimessa all'autonomia dei Comuni e
rientra in quel nucleo di potestà amministrative intimamente connesso al
riconoscimento del principio dell’autonomia comunale; in particolare,
secondo tale pronuncia (par. n. 12 della parte in diritto):
h1) la funzione di
pianificazione urbanistica è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia
dei Comuni fin dalla legge n. 2359 del 1865 (recante nome “Sulle
espropriazioni per causa di utilità pubblica”), senza che questo presupposto
di fondo sia stato poi travolto dalla successiva e complessa evoluzione che
ha condotto allo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario, nonché “a
una più ampia concezione di urbanistica e quindi alla consapevolezza della
necessità di una pianificazione sovracomunale”, tanto che il legislatore
nazionale ha qualificato, attuando il nuovo Titolo V della Costituzione,
come funzioni fondamentali dei Comuni proprio “la pianificazione urbanistica
ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione
alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale” (art. 14, comma
27, lettera d, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con
modificazioni, in legge n. 122 del 2010, n. 122, come sostituito dall’art.
19, comma 1, lettera a, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, in legge n. 135 del 2012);
h2) il legislatore statale “ha
quindi sottratto allo specifico potere regionale di allocazione ai sensi
dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione comunale,
stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello
dell’ente più vicino al cittadino, in cui storicamente essa si è radicata
come funzione propria, e l’ha riconosciuta come parte integrante della
dotazione tipica e caratterizzante dell’ente locale. Ha così stabilito un
regime giuridico comune sottratto, per questo aspetto e salvo quanto si dirà
in seguito, alle potenzialità di differenziazione insite nella potestà
allocativa delle Regioni nelle materie di loro competenza”;
h3) quanto precede non esclude
che la legge regionale possa intervenire a disciplinare la funzione di
pianificazione urbanistica, “anche in relazione agli ambiti territoriali di
riferimento, e financo a conformarla in nome della verifica e della
protezione di concorrenti interessi generali collegati a una valutazione più
ampia delle esigenze diffuse sul territorio” (cfr. sentenza 27.07.2000,
n. 378, in Urb. e appalti, 2000, 1183, con nota di MANFREDI);
h4) anche dopo l’approvazione
della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, l’autonomia
dei Comuni “non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che
il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale
a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la
limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali” (sentenza 07.07.2016, n. 160, in Giur. cost., 2016, 1312);
h5) su questo piano, è
richiesto “uno scrutinio particolarmente rigoroso laddove la normativa
regionale non si limiti a conformare, mediante previsioni normative alle
quali i Comuni sono tenuti a uniformarsi, le previsioni urbanistiche
nell’esercizio della competenza concorrente in tema di governo del
territorio, quanto piuttosto comprima l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, come nel caso di specie, paralizzandola per un periodo
temporale”;
h6) ne risulta un quadro in cui
“il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non [è] stato
risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della
Costituzione”, sicché “il giudizio di costituzionalità non ricade tanto, in
via astratta, sulla legittimità dell’intervento del legislatore regionale,
quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in ordine alla «verifica
dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare
le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli
enti locali»” (con richiamo alla sentenza 30.07.1997, n. 286, in Giur.
cost., 1997, 2588, con note di DELLO SBARBA e KUSTERMANN, in Le Regioni,
1998, 155, con nota di IMMORDINO, ed in Riv. amm., 1997, 1109, con nota di
RAGO);
h7) viene quindi in rilievo “il
variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha riconosciuto specifica
valenza costituzionale l’affermazione del principio di sussidiarietà
verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa Corte a valutare,
nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge regionale
toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali
interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni
procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone”, dovendo
pertanto il giudizio di proporzionalità “svolgersi, dapprima, in astratto
sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi
in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto
bilanciamento degli interessi coinvolti”;
i) le medesime argomentazioni sono state riprese
e approfondite, più di recente, dalla sentenza della stessa Corte
costituzionale n. 119 del 2020, cit. (anch’essa menzionata dall’ordinanza
qui in epigrafe), secondo cui “Nelle delicate verifiche di funzionamento del
principio di sussidiarietà verticale tra l’autonomia comunale e quella
regionale, il giudizio di proporzionalità deve traguardare i singoli assetti
normativi, nel loro peculiare e mutevole equilibrio”, nel caso di specie
concludendo per la salvezza della norma regionale oggetto di scrutinio,
“poiché gli interventi in deroga che la norma stessa consente, da un lato,
soddisfano interessi pubblici di dimensione sovracomunale e, dall’altro, per
i già segnalati limiti quantitativi, qualitativi e temporali, non comprimono
l’autonomia comunale oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità”;
j) sulle funzioni fondamentali degli Enti locali,
e su una loro eventuale compressione, anche nella materia urbanistica, si
veda inoltre, nella giurisprudenza costituzionale:
j1) sentenza 27.12.2018,
n. 245 (in Giur. cost., 2018, 2758), secondo cui “L’art. 2, comma 4, del
testo unico dell’edilizia, se riconosce ai Comuni la facoltà di disciplinare
l’attività edilizia, non configura (né potrebbe) in capo agli stessi una
riserva esclusiva di regolamentazione in grado di spogliare il legislatore
statale e quello regionale del legittimo esercizio delle loro concorrenti
competenze legislative in materia di governo del territorio, competenze non
a caso richiamate dallo stesso art. 2 TUE”;
j2) sentenza 13.03.2014, n.
46 (in Giur. cost., 2014, 1134), secondo cui “anche riconoscendo che il
«sistema della pianificazione» […] assurga a «principio dell’ordinamento
giuridico della Repubblica» e ad espressione degli «interessi
nazionali», limitando perciò l’esplicazione della competenza legislativa
regionale di cui discute, è dirimente il rilievo che il principio in
questione non potrebbe ritenersi così assoluto e stringente da impedire alla
legge regionale –che è fonte normativa primaria, sovraordinata rispetto
agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga
quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti, come
quelli di cui si discute”;
j3) sentenza 26.11.2002,
n. 478 (in Urb. e appalti, 2003, 289, con nota di DE PAULI, ed in Riv. giur.
ambiente, 2003, 515, con nota di MANFREDI), secondo cui la legge nazionale,
regionale o delle Province autonome può modificare le caratteristiche o
l’estensione dei poteri urbanistici dei Comuni, “ovvero subordinarli a
preminenti interessi pubblici, alla condizione di non annullarli o
comprimerli radicalmente, garantendo adeguate forme di partecipazione dei
Comuni interessati ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia (fra le
molte, si vedano le sentenze n. 378/2000, n. 357/1998, n. 286/1997, n.
83/1997 e n. 61/1994)”, escludendo, comunque, che dall’autonomia in campo
urbanistico possa derivare una “esclusività delle funzioni comunali”: “se il
Comune ha diritto di partecipare, in modo effettivo e congruo, nel
procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici regionali che
abbiano effetti sull’assetto del proprio territorio […], occorre tuttavia
evitare che questa partecipazione possa creare situazioni di ‘stallo decisionale’ (sentenze n. 83 del 1997 e n. 357 del 1988) che esporrebbero a
gravi rischi un interesse generale tanto rilevante come la tutela ambientale
e culturale”;
k) nella giurisprudenza amministrativa,
sull’ampiezza del potere di pianificazione urbanistica comunale, sugli
interessi pubblici ad esso sottesi e sulla conseguente estensione del
sindacato del giudice amministrativo, cfr. di recente:
k1) Cons. Stato, sezione VI,
sentenza 03.08.2020, n. 4898 (in Riv. giur. edilizia, 2020, I, 1364),
secondo cui “Il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, è un istituto di carattere eccezionale
rispetto all’ordinario titolo edilizio e rappresenta l’espressione di un
potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di
natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa
delibera del Consiglio comunale. In tale procedimento il Consiglio comunale
è chiamato ad operare una comparazione tra l’interesse pubblico al rispetto
della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l’interesse
costruttivo e, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di
interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle
previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell’ampia
discrezionalità tecnica di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla
quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei
ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall'evidente
travisamento dei fatti”;
k2) Cons. Stato, sez. II,
sentenza 28.02.2020, n. 1461, secondo cui “L’esercizio della funzione pianificatoria si caratterizza per l’ampio margine di discrezionalità
attribuito all’amministrazione, con possibilità di censurare le scelte
effettuate solo quando queste si presentino come manifestamente illogiche o
contraddittorie”;
k3) Tar per la Lombardia,
sezione II, sentenza 09.01.2020, n. 63 (in Foro amm., 2020, 68), secondo
cui “Il principio di omogeneità della zona (criterio ordinariamente
invocabile nella pianificazione generale) non costituisce un limite
all'attività pianificatoria del Comune, il quale resta libero di imprimere
alle varie parti del territorio la destinazione urbanistica che ritiene più
confacente ai bisogni della collettività. Il modello di zonizzazione del
territorio ha assunto forme flessibili nella prassi applicativa, sino a
pervenire, nell'ambito della stessa zona omogenea, alla microzonizzazione o
alla previsione di sottozone distinte da ulteriori peculiarità strutturali o
funzionali, sicché il processo di conformazione del territorio non esclude
che a livello di pianificazione generale possano essere previsti differenti
regimi urbanistici all'interno della stessa zona omogenea. Il principio di
tipicità degli strumenti urbanistici, che riflette il limite di legalità
dell'azione amministrativa, non esclude infatti che il pianificatore
comunale, stante la progressiva espansione degli interessi affidati al
governo di prossimità, introduca un sistema di lettura del territorio
diverso o ulteriore rispetto al modello per zone, purché al pari di questo
sia iscritto nel medesimo referente normativo, nazionale e regionale, e ad
esso si conformi. Se così non fosse, infatti, l'azione amministrativa
sarebbe non discrezionale, ma del tutto arbitraria e il nuovo modello di
conformazione del territorio risulterebbe sostanzialmente abrogativo del
sistema delineato dalla legge n. 1150 del 1942, il cui nucleo essenziale
inderogabile, tanto da costituire principio fondamentale per la legislazione
regionale concorrente, esige che siano identificate previamente le categorie
generali e astratte ove iscrivere le porzioni di territorio, sulla base di
descrittori anch'essi previamente definiti, in funzione degli obiettivi che
l'azione pianificatrice si prefigge. Allora sarà del tutto irrilevante che
la conformazione del territorio, come detto funzionale alla dislocazione dei
servizi di interesse generale, sia concepita per zone, contesti, ambiti,
comparti, zone miste o microzone, purché —qualunque essa sia— corrisponda
a categorie prefissate ex ante, tali cioè da costituire il parametro di
legittimità della successiva azione amministrativa”;
k4) Cons. Stato 2017, sezione
IV, sentenza 03.04.2017, n. 1508 (in Foro amm., 2017, 828), secondo cui
“La pianificazione attuativa, di cui è manifestazione il P.E.E.P. previsto
dalla legge 18.04.1962, n. 167, costituisce, al pari del piano
regolatore generale, espressione della potestà pianificatoria, seppure
declinata in ottica più specifica e, per così dire, operativa: la
costitutiva finalità attuativa, propria di tale programmazione di dettaglio,
impone peraltro all'Amministrazione la contestuale ponderazione di
molteplici e potenzialmente contrastanti interessi anche non strettamente
urbanistici ed è, pertanto, innervata da valutazioni eminentemente
discrezionali in ordine non solo al quomodo, ma pure al quando; siffatto
spazio ampio di discrezionalità da un lato non consente di predicare, in
capo al privato, una pretesa giuridicamente tutelata e coercibile
all'emanazione hic et nunc di un piano attuativo da parte del Comune,
dall'altro circoscrive significativamente la capacità penetrativa del
sindacato del giudice amministrativo nei casi in cui l'ente locale abbia
esternato i motivi sottesi alla scelta di non procedere, qui ed ora,
all'adozione della pianificazione di dettaglio; più in particolare, in
assenza di profili di macroscopica illogicità, di eclatante
irragionevolezza, di palese travisamento dei fatti, nella specie certo non
ricorrenti, il giudice non ha elementi su cui fondare il giudizio di
legittimità della scelta di non procedere, in un certo momento storico,
all'attuazione concreta ed operativa delle previsioni di massima contenute
nella pianificazione urbanistica di carattere generale: tale scelta,
infatti, è esito, funzione ed espressione di un complessivo bilanciamento di
diversificati, contestuali e spesso confliggenti interessi e, come tale, è
manifestazione del merito della funzione amministrativa”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 371 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alla
Corte costituzionale il recupero degli immobili degradati e abbandonati in
Lombardia.
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Edilizia – Lombardia - Recupero immobili degradati e abbandonati - Art.
40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 – Violazione artt. 3, 5, 97, 114,
secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118
Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, per
violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma,
lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., la questione di legittimità
costituzionale dell’art.
40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4,
comma 1, lett. a), l.reg. Lombardia 26.11.2019, n. 18), recante
“Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, nella
parte in cui ha introdotto una disciplina urbanistico-edilizia in ordine al
recupero degli immobili fatiscenti ingiustificatamente rigida e uniforme,
operante a prescindere dalle decisioni comunali e in grado di produrre un
impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a
stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in
maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento
urbanistico generale (1).
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(1) In termini v. anche Tar Milano, sez. II, ord., 10.02.2021,
n. 372 e
n. 373.
L’art. 40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 si rivela sostanzialmente
completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare
agli immobili abbandonati e degradati, residuando in capo ai Comuni compiti
meramente attuativi ed esecutivi, con una parziale eccezione per i Comuni
aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, i quali, per motivate
ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio
territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento
del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare
alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle
distanze.
L’applicazione della disposizione regionale oggetto di scrutinio comprime in
maniera eccessiva –con violazione degli artt. 5, 97, 114, secondo comma,
117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost.– la potestà
pianificatoria comunale, in particolare dei Comuni che hanno più di 20.000
abitanti (come il Comune di Milano), non consentendo a siffatti Enti alcun
intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla
propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori
di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione.
La normativa regionale risulta particolarmente analitica sia
nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da
seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di
pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio
che tale pianificazione mira a realizzare. La formulazione letterale della
previsione e la puntuale regolamentazione dettata comportano, dunque, il
fallimento in radice di ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente
conforme atteso che la normativa non lascia spazi per poter “adeguare”
in via interpretativa il dettato di legge alla superiori previsioni
costituzionali (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 218 del 10.10.2020,
punto 2.2 del Diritto, che richiama le sentenze n. 204 e n. 95 del 2016).
Infatti, il legislatore regionale ha imposto, a regime, una disciplina
urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti
ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle
decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione
locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del
territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto
dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale.
A ben vedere, pur essendo rimessa ordinariamente al Consiglio comunale
l’individuazione degli immobili abbandonati e degradati, è comunque
consentito al proprietario di un immobile versante nelle predette
condizioni, indipendentemente dall’inserimento dello stesso nell’elenco
formato dal Comune, di certificare con perizia asseverata giurata, oltre
alla cessazione dell’attività, anche la sussistenza dei presupposti per
beneficiare del regime di favore di cui all’art. 40-bis.
Il Comune quindi non ha la facoltà di selezionare, discrezionalmente, gli
immobili da recuperare, in quanto l’applicazione della norma regionale, in
presenza dei richiesti presupposti fattuali, ossia di immobili abbandonati e
degradati, può avvenire anche su impulso del proprietario del manufatto.
L’assoluta incertezza in ordine all’impatto sul territorio di una tale
previsione, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, impedisce
al Comune una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in
alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea.
Tuttavia pure nel caso in cui il Comune abbia già individuato gli immobili
da recuperare –come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso– si
deve segnalare che il riconoscimento generalizzato e automatico di un indice
edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un
massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di
reperimento degli standard, assume ugualmente un rilievo significativo sia
in quanto la norma regionale si applica anche agli immobili già individuati
come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore,
sia perché gli interventi di recupero vengono ritenuti ininfluenti ai fini
della quantificazione del carico urbanistico, senza alcuna considerazione
per ciò che ne consegue.
L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili già individuati come
abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore –oltre
che a quelli segnalati dai privati interessati– rappresenta una violazione
della potestà pianificatoria comunale poiché impone, in via non temporanea,
un regime urbanistico-edilizio che prescinde –o addirittura si discosta–
dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o
alla loro non inclusione nell’elenco.
Venendo al caso di specie, il Comune di Milano ha ricompreso l’immobile
della ricorrente nell’elenco di quelli abbandonati e degradati (all. 3 del
Comune) con l’obiettivo di consentirne il recupero a condizioni –indicate
nell’art. 11 delle N.d.A.– e con un impatto sensibilmente diversi rispetto a
quelli previsti nell’art. 40-bis. La legge regionale si sovrappone,
tuttavia, alla decisione comunale perseguendo obiettivi ulteriori e, in
parte, confliggenti con quelli dell’Ente territoriale.
La lesione della potestà pianificatoria comunale appare evidente e
soprattutto il sacrificio delle prerogative comunali così determinatosi
risulta non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di
cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge
regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli
immobili abbandonati e degradati. L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli
immobili fatiscenti individuati prima della sua introduzione –come pure a
quelli segnalati direttamente dai privati– stravolge la pianificazione
territoriale del Comune, il quale aveva elaborato e introdotto un regime
speciale per il recupero dei citati immobili, proprio tenendo in
considerazione l’impatto degli interventi di riqualificazione sul tessuto
urbano esistente.
Difatti, un conto è riqualificare un immobile, conservandone la medesima
consistenza (oppure demolirlo, consentendo il recupero della sola superficie
lorda esistente: art. 11 delle N.d.A.), un altro conto è riconoscere a
titolo di beneficio un indice edificatorio aggiuntivo, oscillante tra il 20%
e il 25%, cui si accompagna l’esenzione dall’eventuale obbligo di
reperimento degli standard. Tale ultima disciplina determina un
considerevole impatto sull’assetto pianificatorio in relazione a molteplici
aspetti: l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato non risulta
bilanciato dal contestuale reperimento degli standard urbanistici e dalla
realizzazione delle opere di urbanizzazione, cui consegue altresì il mancato
rispetto dell’indice edificatorio comunale e delle prescrizioni regionali
sulla riduzione del consumo di suolo.
L’art. 40-bis, comma 5, esonera, seppure con alcune eccezioni, dall’obbligo
di individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale, non garantendo un corretto rapporto tra il carico
urbanistico gravante sulla zona interessata dall’intervento di
riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche, disattendendo in
tal modo i principi che presiedono ad una corretta attività pianificatoria.
Ciò risulta in violazione anche della normativa statale (D.M. n. 1444 del
1968) che si pone quale principio in materia di governo del territorio (art.
117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di
standard che devono essere garantiti sul territorio comunale.
La norma appare altresì irragionevole –con violazione dell’art. 3 della
Costituzione, sotto altro profilo– nella parte in cui non si rapporta ai
principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del
2005 (in specie quelli riferiti alla riduzione del consumo di suolo: cfr.
art. 1, comma 3-bis, e art. 19, comma 2, lett. b-bis) e della legge
regionale n. 31 del 2014 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di
suolo e la riqualificazione del suolo degradato”), poiché la riduzione
del consumo di suolo rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante
della pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di
sviluppo territoriale sostenibile (proprio con riferimento alla Regione
Lombardia, cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto
12.1 del Diritto); sebbene l’attività di riqualificazione e recupero di
immobili abbandonati e degradati rientri nell’attività di rigenerazione
urbana, la stessa non può porsi come indifferente rispetto agli obiettivi di
limitazione del consumo del suolo libero, che altrimenti risulterebbero del
tutto recessivi rispetto a quelli di recupero del patrimonio edilizio
esistente dismesso e non utilizzabile. Il mancato bilanciamento e
contemperamento tra i due obiettivi rende irragionevole e contraddittoria la
normativa regionale sulla riqualificazione degli immobili degradati dismessi.
La Corte costituzionale ha già avuto modo di evidenziare, con riguardo
all’art. 5, comma 4, della citata legge regionale n. 31 del 2014
(contenente, in origine, un divieto di ius variandi in relazione ai
contenuti edificatori del documento di piano per un tempo indefinito), una
intrinseca contraddittorietà nella “rigidità insita nella norma censurata
(…) tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente
locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze
urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo
stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi
interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale
e quindi coerenti con queste” (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del
16.07.2019, punto 12.6 del Diritto).
Inoltre viene lesa anche la funzione amministrativa comunale in ambito
urbanistico, in quanto l’art. 40-bis, quale norma che opera a regime,
contiene una disciplina puntuale e specifica con riguardo agli interventi di
recupero del patrimonio edilizio dismesso presenti nel territorio comunale,
che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività
pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai
sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione; difatti,
la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita,
accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina
urbanistica-edilizia, quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello
standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche, sulle
tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento
urbanistico locale, non soltanto impedisce al Comune qualsiasi possibilità
di autonoma scelta in sede di pianificazione generale, ma è potenzialmente
idonea a stravolgerla in ampi settori, alterando i rapporti tra il carico
urbanistico e le dotazioni pubbliche e private.
Ciò assume un maggiore rilievo in un Comune, qual è Milano, in cui è stato
introdotto il principio dell’indifferenza funzionale, ossia una libertà di
scelta delle funzioni da insediare in tutti i tessuti urbani senza alcuna
esclusione e senza una distinzione ed un rapporto percentuale predefinito.
Tali considerazioni trovano riscontro anche nella recente giurisprudenza
della Corte costituzionale, che ha ricordato come ‘nell’attuazione del
nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal
legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni
fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera
p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di
ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di
livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e
di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui
all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni
esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma
27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia
di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito,
con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122, come sostituito dall’art.
19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante
«Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza
dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle
imprese del settore bancario», convertito, con modificazioni, nella legge
07.08.2012, n. 135). Il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo
preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la
valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed
edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e stringente da
impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli
strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga [che
tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente
circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)’ (Corte
costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Quindi, sebbene non possa escludersi a priori e in via astratta la
legittimità dell’intervento del legislatore regionale, è necessario che
quest’ultimo persegua esigenze generali che possano ragionevolmente
giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti
locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito
nell’art. 118 della Costituzione: ‘si deve verificare nell’ambito della
funzione pianificatoria riconosciuta come funzione fondamentale dei Comuni,
«quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa
residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione,
quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale
la dispone», inteso che «[i]l giudizio di proporzionalità deve perciò
svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito
dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità,
alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti»
(sentenza n. 179 del 2019). Proprio tale giudizio, così dinamicamente
inteso, consente di verificare se, per effetto di una normativa regionale
rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice,
non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai
Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da
salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico
ricavabile dall’art. 5 Cost.’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del
23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Nella specie, nessuna “riserva di tutela” è stata riconosciuta al
Comune, consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo,
all’applicazione della normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure
è stato previsto il ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al
coordinamento degli strumenti di pianificazione incidenti sul governo del
territorio.
In tal senso appare pertinente il riferimento al precedente della Corte
costituzionale sulla legge regionale del Veneto relativa al Piano casa, in
cui si è affermato “che, nel consentire interventi in deroga agli
strumenti urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale
veneto, in attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali
in sede di Conferenza unificata il 01.04.2009, ha compiuto una ponderazione
degli interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la limitazione
dell’entità degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune componenti
del patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge regionale
censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto consentendo,
altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre i propri
strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle deroghe
ammesse dalla medesima legge regionale” (Corte costituzionale, sentenza
n. 119 del 23.06.2020, punto 7.2 del Diritto).
Del resto, il modus procedendi da ultimo richiamato è stato seguito
dalla stessa Regione Lombardia, che attraverso l’art. 5, comma 6, della
legge regionale n. 12 del 2009 (Piano casa) –sul punto ripreso dall’art. 3,
comma 4, della legge regionale n. 4 del 2012 (Nuovo Piano casa)– ha previsto
che “entro il termine perentorio del 15.10.2009 i comuni, con motivata
deliberazione, possono individuare parti del proprio territorio nelle quali
le disposizioni indicate nell’articolo 6 non trovano applicazione, in
ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed
urbanistiche delle medesime, compresa l’eventuale salvaguardia delle cortine
edilizie esistenti, nonché fornire prescrizioni circa le modalità di
applicazione della presente legge con riferimento alla necessità di
reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali e a verde”.
L’art. 40-bis sembra porsi in contrasto anche con il principio espresso
dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale la
riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di
compensazione incidenti sull’area interessata, tuttavia senza aumento della
superficie coperta: al contrario l’art. 40-bis della legge regionale prevede
un premio del 20% della superficie lorda, aumentabile fino al 25% al
ricorrere di determinate condizioni.
Sebbene l’art. 103, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, abbia
escluso una diretta applicazione nella Regione Lombardia della disciplina di
dettaglio prevista, tra l’altro, dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001,
comunque è stata fatta salva l’applicazione dei principi contenuti nella
citata disposizione statale, al cui novero certamente appartiene il divieto
di consentire un aumento della superficie coperta in sede di
riqualificazione di un immobile; deve ricomprendersi difatti tra i principi
statali in materia di governo del territorio la previsione secondo la quale
un incentivo per recuperare un bene non può spingersi fino al punto di
compromettere la tutela di un altro bene, di almeno pari rango, qual è
quello legato alla riduzione del consumo di suolo, peraltro fatto proprio
dallo stesso legislatore regionale.
Infine, l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 appare in
contrasto anche con i principi di uguaglianza e imparzialità
dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione,
visto che riconosce delle premialità per la riqualificazione di immobili
abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno
provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di
situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che
hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di
proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun
vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile.
La norma regionale, quindi, incentiva in maniera assolutamente
discriminatoria e irragionevole situazioni di abbandono e di degrado, da cui
discende la possibilità di ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche
ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle ordinarie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 371 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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FATTO
1. Con il ricorso indicato in epigrafe, la società ricorrente ha impugnato
la deliberazione del Consiglio comunale di Milano 14.10.2019, n. 34,
avente ad oggetto “controdeduzioni alle osservazioni e approvazione
definitiva del nuovo Documento di Piano, della variante del Piano dei
Servizi, comprensivo del Piano per le Attrezzature Religiose, e della
variante del Piano delle Regole, costituenti il Piano di Governo del
Territorio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 della L.R. 11.03.2005
n. 12 e s.m.i.”, con specifico riferimento all’art. 11 delle Norme di
attuazione del Piano delle Regole.
La ricorrente è proprietaria di un immobile situato nel Comune di Milano, in
Via ... n. ..., avente destinazione urbanistica
prevalentemente terziaria-direzionale, che è stato ricompreso tra gli
“edifici abbandonati e degradati” dalla Tavola R.10 del Piano delle regole (P.d.R.)
del Piano di governo del territorio (P.G.T.) e assoggettato alla disciplina
dell’art. 11 delle relative Norme di attuazione (N.d.A.).
Assumendo la lesività di tale disposizione, in quanto fortemente limitativa
del diritto di proprietà sia per la previsione di un termine assai
stringente per l’avvio dei lavori di recupero del fabbricato individuato
come abbandonato e degradato, sia per le notevoli ripercussioni in caso di
inadempienza, la ricorrente ne ha chiesto l’annullamento.
Con un primo ordine di censure è stata dedotta la violazione della normativa
sul procedimento amministrativo, poiché la ricorrente non sarebbe stata
coinvolta direttamente nello specifico procedimento culminato con
l’inserimento del complesso immobiliare di sua proprietà tra gli “edifici
abbandonati e degradati”, come imposto invece dallo stesso art. 11 delle
N.d.A. e dall’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, non essendo
surrogabile tale adempimento con la partecipazione avvenuta nel procedimento
di formazione e approvazione dello strumento urbanistico.
Con la seconda censura è stata dedotta la violazione dell’art. 23 della
Costituzione, poiché la disposizione impugnata non avrebbe alcun fondamento
legale, non essendo attribuita al Consiglio comunale alcuna competenza provvedimentale-sanzionatoria in ambito urbanistico-edilizio; difatti,
soltanto il Sindaco potrebbe adottare ordinanze contingibili e urgenti volte
a risolvere “emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere
esclusivamente locale”, con particolare riferimento “all’urgente necessità
di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del
territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del
decoro e della vivibilità urbana”, mentre farebbe capo alla dirigenza,
nell’ambito dell’attività, avente natura gestoria, di vigilanza
urbanistico-edilizia nel territorio comunale, l’adozione degli ordinari
provvedimenti repressivi.
Con la terza doglianza la ricorrente ha dedotto l’illegittima introduzione
di una fattispecie ablatoria non prevista dall’ordinamento, altresì
effettuata in assenza dei presupposti procedurali e sostanziali per poterla
porre in essere (mancato avviso di avvio del procedimento espropriativo,
assenza della previa dichiarazione di pubblica utilità, mancata previsione
di un indennizzo, ecc.).
Con il quarto motivo di ricorso si è dedotto il difetto di istruttoria e di
motivazione, in quanto non sarebbe stata dimostrata la situazione di degrado
dell’immobile di proprietà della ricorrente, né l’insalubrità o il pericolo
per la sicurezza urbana dello stesso, e nemmeno sarebbe rinvenibile negli
atti impugnati una congrua motivazione a supporto della scelta comunale.
Con il quinto motivo la ricorrente ha eccepito l’incongruità, in quanto
eccessivamente ristretto, del termine di diciotto mesi dalla prima
individuazione dell’immobile abbandonato e degradato per avviare i lavori di
recupero dello stesso, unitamente all’illogicità della previsione che
assegna all’Amministrazione comunale il potere di procedere d’ufficio alla
demolizione forzata in caso di mancato inizio dei lavori entro il predetto
termine, oppure di rilasciare, insindacabilmente, il titolo abilitativo per
l’effettuazione di interventi di risanamento conservativo.
Con il sesto motivo di ricorso la ricorrente ha dedotto la violazione
dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, introdotto con la
legge regionale n. 18 del 2019, in quanto l’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R.
si porrebbe in contrasto con tale disposizione regionale (sovraordinata)
sopravvenuta (i) che fissa in tre anni il termine entro cui presentare
richiesta del titolo edilizio per avviare i lavori di ripristino
dell’immobile degradato, (ii) che riconosce un incremento dei diritti
edificatori pari al 20%, con un premio eventuale di un ulteriore 5% al
ricorrere di determinati presupposti, e (iii) che esenta, di regola,
dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature
pubbliche e di interesse pubblico o generale.
Con l’ultimo motivo di ricorso sono state dedotte l’irragionevolezza e la
contraddittorietà del divieto di modificare la destinazione d’uso in
presenza di interventi di conservazione degli edifici esistenti (consentiti
fino al risanamento conservativo), sebbene l’art. 8 delle N.d.A. del Piano
delle Regole stabilisca che “il mutamento di destinazione d’uso senza opere
edilizie è sempre ammesso” e l’art. 51, comma 1, della legge regionale n. 12
del 2005 ammetta in maniera molto ampia la modifica della destinazione d’uso
nell’ambito del tessuto urbanizzato.
Si è costituito in giudizio il Comune di Milano, che ha chiesto il rigetto
del ricorso; con separata memoria, la difesa comunale ha controdedotto alle
censure proposte dalla ricorrente e, in via subordinata, ha eccepito
l’illegittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12
del 2005 per violazione degli artt. 3, 5, 97, 117, secondo comma, lettera
p), 117, primo e terzo comma, 118, primo e secondo comma, della
Costituzione, ritenendo: i) violata la competenza esclusiva statale sulle
funzioni fondamentali dei Comuni; ii) usurpata la funzione pianificatoria
comunale in materia urbanistica; iii) violato l’art. 3-bis del D.P.R. n. 380
del 2001, quale normativa di principio in materia di governo del territorio; iv) lesi i principi di imparzialità e buon andamento dell’azione
amministrativa e di ragionevolezza.
Con l’ordinanza n. 928/2020 è stata fissata l’udienza pubblica per la
trattazione del merito del ricorso.
In prossimità dell’udienza di merito, i difensori delle parti hanno
depositato memorie e documentazione a sostegno delle rispettive posizioni.
All’udienza del 22.01.2021, uditi i difensori delle parti mediante
collegamento da remoto in videoconferenza, ai sensi dell’art. 25 del decreto
legge n. 137 del 2020, convertito in legge n. 176 del 2020, la causa è stata
trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. In via preliminare, deve essere modificato l’ordine di trattazione dei
motivi di ricorso, poiché la sesta censura, in ragione del suo carattere
assorbente, deve essere trattata prioritariamente rispetto alle altre:
infatti, laddove si dovesse giungere alla conclusione che l’art. 40-bis
della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4,
comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18) abbia l’identico
perimetro applicativo dell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R., quest’ultima
disposizione dovrebbe essere annullata, poiché, in ossequio al principio di
gerarchia delle fonti normative, una disposizione di natura regolamentare,
qual è una norma del Piano delle regole (cfr., Consiglio di Stato, V, 16.04.2013, n. 2094; TAR Lombardia, Milano, II, 22.05.2020, n. 914),
non può porsi in contrasto con una prescrizione contenuta in una legge
primaria (regionale, nella specie); l’annullamento del richiamato art. 11
delle N.d.A. comunali, costituendo la “più radicale illegittimità” dedotta
(Consiglio di Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5), soddisferebbe
pienamente l’interesse della ricorrente e renderebbe del tutto superfluo
l’esame delle ulteriori censure contenute nel ricorso.
2. Tuttavia, proprio con riguardo al sesto motivo di ricorso, la difesa
comunale, dapprima, ha sostenuto la tesi della perfetta compatibilità
dell’art. 11 delle N.d.A. con l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del
2005, sulla scorta di un tentativo di interpretazione della disposizione di
legge in senso costituzionalmente conforme, e successivamente, in via
subordinata, ne ha eccepito l’incostituzionalità per contrasto con vari
precetti costituzionali, chiedendo a questo Collegio di rimettere la
questione all’esame della Corte costituzionale.
3. Osserva il Collegio come la tesi svolta in via principale dal Comune non
possa condividersi. Le due regolamentazioni si riferiscono, infatti, alla
medesima fattispecie dettando una disciplina in tema di immobili degradati
ed abbandonati e, in particolare, regole volte ad incentivare il recupero di
tali immobili. Di conseguenza, sussiste una sovrapposizione tra le due
discipline che conferisce alla norma regionale il ruolo di parametro di
legittimità della norma regolamentare dettata dal Comune di Milano.
Inoltre, l’impossibilità di procedere ad una interpretazione dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 in modo da salvaguardare anche il
disposto di cui all’art. 11 delle N.d.A. comunali risulta evidente,
emergendo l’inconciliabilità delle richiamate disposizioni già da un
semplice esame testuale delle stesse, poiché viene regolamentata, in maniera
divergente oltre che contrastante, la medesima fattispecie, ossia la
disciplina da riservare agli immobili abbandonati e degradati; difatti,
(i)
secondo il citato art. 11 delle N.d.A., l’arco temporale per l’avvio dei
lavori di recupero degli immobili “abbandonati e degradati” è di diciotto
mesi dalla loro prima individuazione, a prescindere dal momento in cui si è
ottenuto il titolo abilitativo, mentre il comma 4 dell’art. 40-bis della
legge regionale n. 12 del 2005 fissa in tre anni il termine entro cui
presentare la richiesta di rilascio del titolo edilizio o gli atti
equipollenti (s.c.i.a. o c.i.l.a.) oppure “l’istanza preliminare funzionale
all’ottenimento dei medesimi titoli edilizi” per procedere al recupero;
(ii)
l’art. 11 delle N.d.A. non riconosce alcun incremento dei diritti
edificatori, ma al massimo consente l’integrale conservazione dell’immobile
o della superficie lorda (SL) esistente, mentre l’art. 40-bis, commi 5 e 6,
della legge regionale attribuisce, nella fase di recupero dell’immobile, un
incremento pari al 20% dei diritti edificatori o, se maggiore, della
superficie lorda esistente, cui si può aggiungere un incremento di un
ulteriore 5%;
(iii) l’art. 11 delle N.d.A., in caso di mancato tempestivo
adeguamento o di demolizione d’ufficio, attribuisce l’indice di
edificabilità territoriale unico pari a 0,35 mq/mq, mentre l’art. 40-bis,
commi 8 e 9, della legge regionale riconosce la superficie lorda esistente
fino all’indice di edificabilità previsto dallo strumento urbanistico;
(iv)
l’art. 40-bis, comma 5, della legge regionale prevede l’esenzione, di
regola, dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, mentre nulla è
previsto dall’art. 11 delle N.d.A.
In conseguenza dell’evidenziato contrasto e della correlata recessività
della normativa pianificatoria comunale rispetto a quanto stabilito dalla
legge regionale, deve essere esaminata la questione, eccepita in via
subordinata dalla difesa comunale, di legittimità costituzionale dell’art.
40-bis della legge regionale n. 12 del 2005: l’eventuale declaratoria di
incostituzionalità della norma regionale farebbe salva la disciplina
contenuta nell’art. 11 delle N.d.A., la cui applicabilità alla fattispecie
oggetto di scrutinio imporrebbe l’esame delle restanti censure di ricorso,
su cui indubbiamente permarrebbe l’interesse della ricorrente; in caso
contrario, ossia di mancato accoglimento della questione di
costituzionalità, dovrebbe pronunciarsi l’annullamento dell’art. 11 delle
N.d.A., in ragione della riconducibilità della fattispecie oggetto di
scrutinio allo spettro di applicazione dell’art. 40-bis della legge
regionale n. 12 del 2005.
4. In ossequio al disposto di cui all’art. 23, secondo comma, della legge n.
87 del 1953, è indispensabile procedere alla verifica della rilevanza della
questione di costituzionalità nel presente giudizio e della sua non
manifesta infondatezza.
5. Quanto alla rilevanza della questione, come già evidenziato al precedente
punto 3, si osserva che l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005
ha ad oggetto la disciplina da applicare agli immobili abbandonati e
degradati (nella cui categoria è ricompreso quello della ricorrente) e si
sovrappone, determinandone in astratto l’invalidità, alla regolamentazione
comunale contenuta nell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R. È già stato
sottolineato come la (eventuale) declaratoria di incostituzionalità
dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 determinerebbe
l’applicazione alla fattispecie oggetto di esame dell’art. 11 delle N.d.A.
del P.d.R.; a tal punto lo scrutinio di questo Tribunale si concentrerebbe
sul citato art. 11 e dal suo esito dipenderebbero l’accoglimento o la
reiezione, totali o parziali, del gravame.
La rilevanza della questione di costituzionalità tuttavia trascende le
conseguenze dirette che l’art. 40-bis della legge regionale produce
sull’art. 11 delle N.d.A. Difatti, in seguito all’eventuale declaratoria di
incostituzionalità del citato art. 40-bis, non può escludersi che si possa
comunque procedere all’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. comunali in
ragione della fondatezza, anche parziale, dei restanti motivi di ricorso;
appare nondimeno evidente che un tale annullamento produrrebbe effetti
sensibilmente diversi rispetto a quelli che scaturirebbero dalla permanente
vigenza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
In tale
ultimo frangente, agli immobili abbandonati e degradati –compreso quello
della ricorrente– si applicherebbero le regole contenute nella disposizione
regionale, mentre, in caso di declaratoria di incostituzionalità dell’art.
40-bis, l’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. determinerebbe
l’applicazione agli immobili fatiscenti dei principi generali afferenti alla
materia edilizia ed urbanistica, riconoscendo ai titolari dei diritti sugli
immobili abbandonati e degradati la facoltà di scegliere se procedere o meno
alla loro riqualificazione e con le tempistiche e le modalità ritenute più
opportune dai predetti soggetti.
Anche nella prospettiva comunale, l’ipotesi di annullamento dell’art. 11
delle N.d.A. per violazione dell’art. 40-bis della legge regionale –ove non
dichiarato incostituzionale– non lascerebbe all’Ente locale alcuno spazio
per intervenire con un proprio regolamento sulla materia, se non per aspetti
del tutto marginali e secondari, vista la completezza e la sostanziale autoapplicabilità della richiamata previsione regionale (“Le disposizioni di
cui al presente articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui
sopra, si applicano anche agli immobili non individuati dalla medesima, per
i quali il proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre
alla cessazione dell’attività, documentata anche mediante dichiarazione
sostitutiva dell’atto di notorietà a cura della proprietà o del legale
rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova
documentale e/o fotografica”: comma 1 dell’art. 40-bis); di contro,
l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis della legge
regionale lascerebbe intatto il potere comunale di intervenire per
disciplinare ex novo la materia, anche laddove fosse integralmente annullato
da questo Tribunale l’art. 11 delle N.d.A.; in tal modo verrebbe, comunque,
pienamente salvaguardata la potestà pianificatoria comunale.
Da tanto discende la rilevanza nel presente giudizio della questione di
costituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005,
poiché anche in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale
della citata norma potrebbe determinarsi l’annullamento dell’art. 11 delle
N.d.A. del P.d.R., sebbene con conseguenze molto differenti, per entrambe le
parti del giudizio, rispetto a quelle scaturenti in caso di permanente
vigenza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
6. A questo punto è necessario procedere alla verifica della non manifesta
infondatezza della questione di costituzionalità, che nella specie appare
certamente sussistente.
L’art. 11 delle Norme di attuazione (N.d.A.) del P.d.R. ai primi tre commi
stabilisce che “1. Il recupero di edifici abbandonati e degradati, che
comportano pericolo per la salute e la sicurezza urbana, situazioni di
degrado ambientale e sociale, costituisce attività di pubblica utilità ed
interesse generale, perseguibile secondo le modalità di cui al presente
articolo.
2. Le disposizioni del presente articolo si applicano a tutte le aree e gli
edifici, indipendentemente dalla destinazione funzionale, individuati nella
Tav. R.10, aggiornata con Determina Dirigenziale, con periodicità annuale,
previa comunicazione di avvio del procedimento nei confronti degli
interessati. Si considerano abbandonati gli edifici dismessi da più di 1
anno, che determinano pericolo per la sicurezza o per la salubrità o
l’incolumità pubblica o disagio per il decoro e la qualità urbana o in
presenza di amianto o di altri pericoli chimici per la salute.
L’individuazione degli immobili di cui al presente comma sarà comunicata
periodicamente alla Prefettura e alla Questura.
3. Alla proprietà degli edifici abbandonati e degradati così come
individuati dalla Tav. R.10, fatti salvi eventuali procedimenti in corso ad
esito favorevole, è data facoltà di presentare proposta di piano attuativo o
idoneo titolo abilitativo finalizzato al recupero dell’immobile; i lavori
dovranno essere avviati entro 18 mesi dalla loro prima individuazione. In
alternativa è fatto obbligo di procedere con la demolizione del manufatto:
a. in caso di demolizione dell’edificio esistente su iniziativa della
proprietà è riconosciuta integralmente la SL esistente. I diritti
edificatori saranno annotati nel Registro delle Cessioni dei Diritti
Edificatori, con possibilità di utilizzo in loco o in altre pertinenze
dirette per mezzo di perequazione, secondo la normativa vigente;
b. in caso di mancata demolizione dell’edificio esistente da parte della
proprietà, fatto salvo l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del
comune finalizzati alla demolizione, è riconosciuto l’Indice di
edificabilità Territoriale unico pari a 0,35 mq/mq.
Le relative spese sostenute da parte dell’Amministrazione dovranno essere
rimborsate dalla proprietà o dai titolari di diritti su tali beni. Se non
rimborsate tali spese saranno riscosse coattivamente secondo normativa
vigente.
Di quanto sopra verrà inviata comunicazione alla proprietà, alla prefettura
e alla questura.
In caso di mancata demolizione sono ammessi esclusivamente interventi di
conservazione degli edifici esistenti fino al risanamento conservativo senza
modifica della destinazione d’uso”.
L’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito
dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18)
stabilisce:
“1. I comuni, con deliberazione consiliare, anche sulla base di
segnalazioni motivate e documentate, individuano entro sei mesi dall’entrata
in vigore della legge regionale recante ‘Misure di semplificazione e
incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il
recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e
ad altre leggi regionali’ gli immobili di qualsiasi destinazione d’uso,
dismessi da oltre cinque anni, che causano criticità per uno o più dei
seguenti aspetti: salute, sicurezza idraulica, problemi strutturali che ne
pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado ambientale e
urbanistico-edilizio. La disciplina del presente articolo si applica, anche
senza la deliberazione di cui sopra, agli immobili già individuati dai
comuni come degradati e abbandonati. Le disposizioni di cui al presente
articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui sopra, si applicano
anche agli immobili non individuati dalla medesima, per i quali il
proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre alla
cessazione dell’attività, documentata anche mediante dichiarazione
sostitutiva dell’atto di notorietà a cura della proprietà o del legale
rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova
documentale e/o fotografica. I comuni aventi popolazione inferiore a 20.000
abitanti, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge regionale
recante ‘Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione
urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio
esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n.
12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali’,
mediante deliberazione del consiglio comunale possono individuare gli ambiti
del proprio territorio ai quali non si applicano le disposizioni di cui ai
commi 5 e 10 del presente articolo, in relazione a motivate ragioni di
tutela paesaggistica.
2. I comuni, prima delle deliberazioni di cui al comma 1, da aggiornare
annualmente, notificano ai sensi del codice di procedura civile ai
proprietari degli immobili dismessi e che causano criticità le ragioni
dell’individuazione, di modo che questi, entro 30 giorni dal ricevimento di
detta comunicazione, possano dimostrare, mediante prove documentali,
l’assenza dei presupposti per l’inserimento.
3. Le disposizioni del presente articolo non si applicano in ogni caso:
a) agli immobili eseguiti in assenza di titolo abilitativo o in totale
difformità rispetto allo stesso titolo, a esclusione di quelli per i quali
siano stati rilasciati titoli edilizi in sanatoria;
b) agli immobili situati in aree soggette a vincoli di inedificabilità
assoluta.
4. La richiesta di piano attuativo, la richiesta di permesso di costruire,
la segnalazione certificata di inizio attività, la comunicazione di inizio
lavori asseverata o l’istanza di istruttoria preliminare funzionale
all’ottenimento dei medesimi titoli edilizi devono essere presentati entro
tre anni dalla notifica di cui al comma 2. La deliberazione di cui al comma
1 attesta l’interesse pubblico al recupero dell’immobile individuato, anche
ai fini del perfezionamento dell’eventuale procedimento di deroga ai sensi
dell’articolo 40.
5. Gli interventi sugli immobili di cui al comma 1 usufruiscono di un
incremento del 20 per cento dei diritti edificatori derivanti
dall’applicazione dell’indice di edificabilità massimo previsto o, se
maggiore di quest’ultimo, della superficie lorda esistente e sono inoltre
esentati dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, a eccezione di
quelle aree da reperire all’interno dei comparti edificatori o degli
immobili oggetto del presente articolo, già puntualmente individuate
all’interno degli strumenti urbanistici e da quelle dovute ai sensi della
pianificazione territoriale sovraordinata. A tali interventi non si
applicano gli incrementi dei diritti edificatori di cui all’articolo 11,
comma 5. Nei casi di demolizione l’incremento dei diritti edificatori del 20
per cento si applica per un periodo massimo di dieci anni dalla data di
individuazione dell'immobile quale dismesso.
6. È riconosciuto un ulteriore incremento dell’indice di edificabilità
massimo previsto dal PGT o rispetto alla superficie lorda (SL) esistente del
5 per cento per interventi che assicurino una superficie deimpermeabilizzata
e destinata a verde non inferiore all’incremento di SL realizzato, nonché
per interventi che conseguano una diminuzione dell’impronta al suolo pari ad
almeno il 10 per cento. A tal fine possono essere utilizzate anche le
superfici situate al di fuori del lotto di intervento, nonché quelle
destinate a giardino pensile, cosi come regolamentate dalla norma UNI
11235/2007.
7. Se il proprietario non provvede entro il termine di cui al comma 4, non
può più accedere ai benefici di cui ai commi 5 e 6 e il comune lo invita a
presentare una proposta di riutilizzo, assegnando un termine da definire in
ragione della complessità della situazione riscontrata, e comunque non
inferiore a mesi quattro e non superiore a mesi dodici.
8. Decorso il termine di cui al comma 7 senza presentazione delle richieste
o dei titoli di cui al comma 4, il comune ingiunge al proprietario la
demolizione dell’edificio o degli edifici interessati o, in alternativa, i
necessari interventi di recupero e/o messa in sicurezza degli immobili, da
effettuarsi entro un anno. La demolizione effettuata dalla proprietà
determina il diritto ad un quantitativo di diritti edificatori pari alla
superficie lorda dell'edificio demolito fino all'indice di edificabilità
previsto per l’area. I diritti edificatori generati dalla demolizione
edilizia possono sempre essere perequati e confluiscono nel registro delle
cessioni dei diritti edificatori di cui all'articolo 11, comma 4.
9. Decorso infruttuosamente il termine di cui al comma 8, il comune provvede
in via sostitutiva, con obbligo di rimborso delle relative spese a carico
della proprietà, cui è riconosciuta la SL esistente fino all’indice di
edificabilità previsto dallo strumento urbanistico.
10. Tutti gli interventi di rigenerazione degli immobili di cui al presente
articolo sono realizzati in deroga alle norme quantitative, morfologiche,
sulle tipologie di intervento, sulle distanze previste dagli strumenti
urbanistici comunali vigenti e adottati e ai regolamenti edilizi, fatte
salve le norme statali e quelle sui requisiti igienico-sanitari.
11. Per gli immobili di proprietà degli enti pubblici, si applicano le
disposizioni di cui ai commi 5 e 6 a condizione che, entro tre anni dalla
individuazione di cui al comma 1, gli enti proprietari approvino il progetto
di rigenerazione ovvero avviino le procedure per la messa all’asta,
l’alienazione o il conferimento a un fondo.
11-bis. Gli interventi di cui al presente articolo riguardanti il patrimonio
edilizio soggetto a tutela culturale e paesaggistica sono attivati previo
coinvolgimento del Ministero per i beni e le attività culturali e per il
turismo e nel rispetto delle prescrizioni di tutela previste dal piano
paesaggistico regionale ai sensi del d.lgs. 42/2004” (comma aggiunto
dall’art. 13, comma 1, lett. b), legge reg. 09.06.2020, n. 13).
Tale disposizione regionale si rivela sostanzialmente completa ed esaustiva
con riguardo al trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati
e degradati, residuando in capo ai Comuni compiti meramente attuativi ed
esecutivi, con una parziale eccezione per i Comuni aventi popolazione
inferiore a 20.000 abitanti, i quali, per motivate ragioni di tutela
paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio territorio a cui
non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento del 20% dei
diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare alle norme
quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze.
7. L’applicazione della disposizione regionale oggetto di scrutinio comprime
in maniera eccessiva –con violazione degli artt. 5, 97, 114, secondo comma,
117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione– la potestà pianificatoria comunale, in particolare dei Comuni che hanno
più di 20.000 abitanti (come il Comune di Milano), non consentendo a
siffatti Enti alcun intervento correttivo o derogatorio in grado di
valorizzare, oltre alla propria autonomia pianificatoria, anche le
peculiarità dei singoli territori di cui i Comuni sono la più immediata e
diretta espressione.
La normativa regionale risulta particolarmente analitica sia
nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da
seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di
pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio
che tale pianificazione mira a realizzare. La formulazione letterale della
previsione e la puntuale regolamentazione dettata comportano, dunque, il
fallimento in radice di ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente
conforme atteso che la normativa non lascia spazi per poter “adeguare” in
via interpretativa il dettato di legge alla superiori previsioni
costituzionali (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 218 del 10.10.2020, punto 2.2 del Diritto, che richiama le sentenze n. 204 e n. 95 del
2016).
Infatti, il legislatore regionale ha imposto, a regime, una disciplina
urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti
ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle
decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione
locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del
territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto
dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale.
A ben vedere, pur essendo rimessa ordinariamente al Consiglio comunale
l’individuazione degli immobili abbandonati e degradati, è comunque
consentito al proprietario di un immobile versante nelle predette
condizioni, indipendentemente dall’inserimento dello stesso nell’elenco
formato dal Comune, di certificare con perizia asseverata giurata, oltre
alla cessazione dell’attività, anche la sussistenza dei presupposti per
beneficiare del regime di favore di cui all’art. 40-bis.
Il Comune quindi
non ha la facoltà di selezionare, discrezionalmente, gli immobili da
recuperare, in quanto l’applicazione della norma regionale, in presenza dei
richiesti presupposti fattuali, ossia di immobili abbandonati e degradati,
può avvenire anche su impulso del proprietario del manufatto. L’assoluta
incertezza in ordine all’impatto sul territorio di una tale previsione, sia
da un punto di vista quantitativo che qualitativo, impedisce al Comune una
coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in alcune parti,
anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea.
Tuttavia pure nel caso in cui il Comune abbia già individuato gli immobili
da recuperare –come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso– si
deve segnalare che il riconoscimento generalizzato e automatico di un indice
edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un
massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di
reperimento degli standard, assume ugualmente un rilievo significativo sia
in quanto la norma regionale si applica anche agli immobili già individuati
come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore,
sia perché gli interventi di recupero vengono ritenuti ininfluenti ai fini
della quantificazione del carico urbanistico, senza alcuna considerazione
per ciò che ne consegue.
L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili già individuati come
abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore –oltre
che a quelli segnalati dai privati interessati– rappresenta una violazione
della potestà pianificatoria comunale poiché impone, in via non temporanea,
un regime urbanistico-edilizio che prescinde –o addirittura si discosta–
dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o
alla loro non inclusione nell’elenco.
Venendo al caso di specie, il Comune
di Milano ha ricompreso l’immobile della ricorrente nell’elenco di quelli
abbandonati e degradati (all. 3 del Comune) con l’obiettivo di consentirne
il recupero a condizioni –indicate nell’art. 11 delle N.d.A.– e con un
impatto sensibilmente diversi rispetto a quelli previsti nell’art. 40-bis.
La legge regionale si sovrappone, tuttavia, alla decisione comunale
perseguendo obiettivi ulteriori e, in parte, confliggenti con quelli
dell’Ente territoriale.
8. La lesione della potestà pianificatoria comunale appare evidente e
soprattutto il sacrificio delle prerogative comunali così determinatosi
risulta non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di
cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge
regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli
immobili abbandonati e degradati. L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli
immobili fatiscenti individuati prima della sua introduzione –come pure a
quelli segnalati direttamente dai privati– stravolge la pianificazione
territoriale del Comune, il quale aveva elaborato e introdotto un regime
speciale per il recupero dei citati immobili, proprio tenendo in
considerazione l’impatto degli interventi di riqualificazione sul tessuto
urbano esistente.
Difatti, un conto è riqualificare un immobile,
conservandone la medesima consistenza (oppure demolirlo, consentendo il
recupero della sola superficie lorda esistente: art. 11 delle N.d.A.), un
altro conto è riconoscere a titolo di beneficio un indice edificatorio
aggiuntivo, oscillante tra il 20% e il 25%, cui si accompagna l’esenzione
dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard.
Tale ultima disciplina
determina un considerevole impatto sull’assetto pianificatorio in relazione
a molteplici aspetti: l’aumento del peso insediativo dell’immobile
recuperato non risulta bilanciato dal contestuale reperimento degli standard
urbanistici e dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione, cui
consegue altresì il mancato rispetto dell’indice edificatorio comunale e
delle prescrizioni regionali sulla riduzione del consumo di suolo. L’art. 40-bis, comma 5, esonera, seppure con alcune eccezioni, dall’obbligo di
individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale, non garantendo un corretto rapporto tra il carico
urbanistico gravante sulla zona interessata dall’intervento di
riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche, disattendendo in
tal modo i principi che presiedono ad una corretta attività pianificatoria.
Ciò risulta in violazione anche della normativa statale (D.M. n. 1444 del
1968) che si pone quale principio in materia di governo del territorio (art.
117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di
standard che devono essere garantiti sul territorio comunale.
9. La norma appare altresì irragionevole –con violazione dell’art. 3 della
Costituzione, sotto altro profilo– nella parte in cui non si rapporta ai
principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del
2005 (in specie quelli riferiti alla riduzione del consumo di suolo: cfr.
art. 1, comma 3-bis, e art. 19, comma 2, lett. b-bis) e della legge
regionale n. 31 del 2014 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di
suolo e la riqualificazione del suolo degradato”), poiché la riduzione del
consumo di suolo rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della
pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo
territoriale sostenibile (proprio con riferimento alla Regione Lombardia, cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.1
del Diritto); sebbene l’attività di riqualificazione e recupero di immobili
abbandonati e degradati rientri nell’attività di rigenerazione urbana, la
stessa non può porsi come indifferente rispetto agli obiettivi di
limitazione del consumo del suolo libero, che altrimenti risulterebbero del
tutto recessivi rispetto a quelli di recupero del patrimonio edilizio
esistente dismesso e non utilizzabile. Il mancato bilanciamento e
contemperamento tra i due obiettivi rende irragionevole e contraddittoria la
normativa regionale sulla riqualificazione degli immobili degradati dismessi.
La Corte costituzionale ha già avuto modo di evidenziare, con riguardo
all’art. 5, comma 4, della citata legge regionale n. 31 del 2014
(contenente, in origine, un divieto di ius variandi in relazione ai
contenuti edificatori del documento di piano per un tempo indefinito), una
intrinseca contraddittorietà nella “rigidità insita nella norma censurata
(…) tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente
locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze
urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo
stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi
interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale
e quindi coerenti con queste” (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.6 del Diritto).
10. Inoltre viene lesa anche la funzione amministrativa comunale in ambito
urbanistico, in quanto l’art. 40-bis, quale norma che opera a regime,
contiene una disciplina puntuale e specifica con riguardo agli interventi di
recupero del patrimonio edilizio dismesso presenti nel territorio comunale,
che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività
pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai
sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione; difatti,
la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita,
accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina
urbanistica-edilizia, quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello
standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche, sulle
tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento
urbanistico locale, non soltanto impedisce al Comune qualsiasi possibilità
di autonoma scelta in sede di pianificazione generale, ma è potenzialmente
idonea a stravolgerla in ampi settori, alterando i rapporti tra il carico
urbanistico e le dotazioni pubbliche e private.
Ciò assume un maggiore
rilievo in un Comune, qual è Milano, in cui è stato introdotto il principio
dell’indifferenza funzionale, ossia una libertà di scelta delle funzioni da
insediare in tutti i tessuti urbani senza alcuna esclusione e senza una
distinzione ed un rapporto percentuale predefinito.
Tali considerazioni trovano riscontro anche nella recente giurisprudenza
della Corte costituzionale, che ha ricordato come ‘nell’attuazione del nuovo
Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal
legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni
fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera
p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di
ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di
livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e
di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui
all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni
esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma
27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica»,
convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122, come
sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», convertito,
con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135). Il “sistema della
pianificazione”, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali
più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti
nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge, dunque, a principio così
assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa
primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere
interventi in deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente,
qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n.
46 del 2014)’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020,
punto 7.1 del Diritto).
Quindi, sebbene non possa escludersi a priori e in via astratta la
legittimità dell’intervento del legislatore regionale, è necessario che
quest’ultimo persegua esigenze generali che possano ragionevolmente
giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti
locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito
nell’art. 118 della Costituzione: ‘si deve verificare nell’ambito della
funzione pianificatoria riconosciuta come funzione fondamentale dei Comuni,
«quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa
residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione,
quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale
la dispone», inteso che «[i]l giudizio di proporzionalità deve perciò
svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito
dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità,
alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti»
(sentenza n. 179 del 2019). Proprio tale giudizio, così dinamicamente
inteso, consente di verificare se, per effetto di una normativa regionale
rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice,
non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai
Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da
salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico
ricavabile dall’art. 5 Cost.’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Nella specie, nessuna “riserva di tutela” è stata riconosciuta al Comune,
consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della
normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il
ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli
strumenti di pianificazione incidenti sul governo del territorio.
In tal
senso appare pertinente il riferimento al precedente della Corte
costituzionale sulla legge regionale del Veneto relativa al Piano casa, in
cui si è affermato “che, nel consentire interventi in deroga agli strumenti
urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale veneto, in
attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di
Conferenza unificata il 01.04.2009, ha compiuto una ponderazione degli
interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la limitazione dell’entità
degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune componenti del
patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge regionale
censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto consentendo,
altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre i propri
strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle deroghe
ammesse dalla medesima legge regionale” (Corte costituzionale, sentenza n.
119 del 23.06.2020, punto 7.2 del Diritto).
Del resto, il modus procedendi da ultimo richiamato è stato seguito
dalla stessa Regione Lombardia, che attraverso l’art. 5, comma 6, della
legge regionale n. 12 del 2009 (Piano casa) –sul punto ripreso dall’art. 3,
comma 4, della legge regionale n. 4 del 2012 (Nuovo Piano casa)– ha
previsto che “entro il termine perentorio del 15.10.2009 i comuni, con
motivata deliberazione, possono individuare parti del proprio territorio
nelle quali le disposizioni indicate nell’articolo 6 non trovano
applicazione, in ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed urbanistiche delle medesime, compresa
l’eventuale salvaguardia delle cortine edilizie esistenti, nonché fornire
prescrizioni circa le modalità di applicazione della presente legge con
riferimento alla necessità di reperimento di spazi per parcheggi
pertinenziali e a verde”.
Ugualmente, la salvaguardia delle prerogative pianificatorie comunali è
riscontrabile altresì nella normativa regionale in materia di recupero ai
fini abitativi dei sottotetti esistenti –artt. 63-65 della legge regionale
della Lombardia n. 12 del 2005– dove si prevede la possibilità per il Comune
di escludere dall’applicazione sul proprio territorio del regime ivi
contemplato [art. 65 – “Ambiti di esclusione – “1. Le disposizioni del
presente capo non si applicano negli ambiti territoriali per i quali i
comuni, con motivata deliberazione del Consiglio comunale, ne abbiano
disposta l’esclusione, in applicazione dell’articolo 1, comma 7, della legge
regionale 15.07.1996, n. 15 (Recupero ai fini abitativi dei sottotetti
esistenti).
1-bis. Fermo restando quanto disposto dal comma 1, i comuni, con motivata
deliberazione, possono ulteriormente disporre l’esclusione di parti del
territorio comunale, nonché di determinate tipologie di edifici o di
intervento, dall’applicazione delle disposizioni del presente capo.
1-ter. Con il medesimo provvedimento di cui al comma 1-bis, i comuni
possono, altresì, individuare ambiti territoriali nei quali gli interventi
di recupero ai fini abitativi dei sottotetti, se volti alla realizzazione di
nuove unità immobiliari, sono, in ogni caso, subordinati all’obbligo di
reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali nella misura prevista
dall’articolo 64, comma 3.
1-quater. Le determinazioni assunte nelle deliberazioni comunali di cui ai
commi 1, 1-bis e 1-ter hanno efficacia non inferiore a cinque anni e
comunque fino all’approvazione dei PGT ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e
3. Il piano delle regole individua le parti del territorio comunale nonché
le tipologie di edifici o di intervento escluse dall’applicazione delle
disposizioni del presente capo.
1-quinquies. In sede di redazione del PGT, i volumi di sottotetto recuperati
ai fini abitativi in applicazione della l.r. n. 15/1996, ovvero delle
disposizioni del presente capo, sono computati ai sensi dell’articolo 10,
comma 3, lettera b”].
Dai richiamati esempi emerge come, in alcuni frangenti, lo stesso
legislatore regionale lombardo si è dimostrato rispettoso delle prerogative
pianificatorie comunali, pur non rinunciando a disciplinare la materia del
governo del territorio nell’esercizio delle proprie attribuzioni.
Diversamente, in presenza di prescrizioni di durata indefinita, in carenza
di profili interlocutivi e nell’assolutezza, finanche contraddittoria con
gli obiettivi posti in sede regionale, risultanti dalla disciplina contenuta
nell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, non può ritenersi
superato, “ai sensi del legittimo esercizio del principio di
sussidiarietà verticale, il test di proporzionalità con riguardo
all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia
comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale
ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale” (cfr.
Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.7 del
Diritto).
11. L’art. 40-bis sembra porsi in contrasto anche con il principio espresso
dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale la
riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di
compensazione incidenti sull’area interessata, tuttavia senza aumento della
superficie coperta: al contrario l’art. 40-bis della legge regionale prevede
un premio del 20% della superficie lorda, aumentabile fino al 25% al
ricorrere di determinate condizioni.
Sebbene l’art. 103, comma 1, della
legge regionale n. 12 del 2005, abbia escluso una diretta applicazione nella
Regione Lombardia della disciplina di dettaglio prevista, tra l’altro,
dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, comunque è stata fatta salva
l’applicazione dei principi contenuti nella citata disposizione statale, al
cui novero certamente appartiene il divieto di consentire un aumento della
superficie coperta in sede di riqualificazione di un immobile; deve ricomprendersi difatti tra i principi statali in materia di governo del
territorio la previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un
bene non può spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro
bene, di almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo
di suolo, peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale.
12. Infine, l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 appare in
contrasto anche con i principi di uguaglianza e imparzialità
dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione,
visto che riconosce delle premialità per la riqualificazione di immobili
abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno
provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di
situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che
hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di
proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun
vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile.
La norma regionale,
quindi, incentiva in maniera assolutamente discriminatoria e irragionevole
situazioni di abbandono e di degrado, da cui discende la possibilità di
ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche ed edificatorie più
favorevoli rispetto a quelle ordinarie.
13. In conclusione, il giudizio deve essere sospeso e gli atti vanno
trasmessi alla Corte Costituzionale in quanto risulta rilevante e non
manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 40-bis
della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4,
comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18), recante
“Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per
violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma,
lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione, secondo quanto
specificato in precedenza.
14. Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e sulle spese resta
riservata alla decisione definitiva.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
non definitivamente pronunciando:
a) dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito
dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18), recante “Disposizioni
relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione
degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p),
terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione;
b) dispone la sospensione del presente giudizio;
c) ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale;
d) ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente
ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente della Giunta
Regionale della Lombardia e comunicata al Presidente del Consiglio Regionale
della Lombardia;
e) riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in
rito, in merito e in ordine alle spese
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 371 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2020 |
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dicembre 2020 |
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ESPROPRIAZIONE:
L.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 (art. 9, comma 12) –
Vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione
ad opera della pubblica amministrazione di attrezzature e
servizi previsti dal piano dei servizi – Questione di
legittimità costituzionale in via incidentale – Asserita
violazione dei precetti costituzionali della temporaneità e
della indennizzabilità dei vincoli espropriativi (art. 42
Cost.) e pregiudizio della competenza concorrente in materia
di governo del territorio (art. 117 Cost.) – Illegittimità
costituzionale in parte qua.
Va dichiarata la illegittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della
Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio), secondo periodo, limitatamente alla parte
in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione
per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica
amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal
piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni
decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso,
l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura
dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma
triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La Regione, disciplinando una nuova ipotesi di attuazione
del vincolo espropriativo, ha infatti superato i limiti
imposti alla sua competenza concorrente in materia (art.
117, comma 3, Cost.), con l’introduzione di una nuova
condizione in cui il vincolo preordinato all’esproprio si
consolida, pur in mancanza di un «serio inizio della
procedura espropriativa», condizione ritenuta invece
essenziale dalla giurisprudenza costituzionale e la cui
ricorrenza è stata individuata dal legislatore statale
–esclusivamente al quale spetta la relativa competenza– solo
nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
La disposizione regionale censurata si pone peraltro in
contrasto con l’art. 42 Cost., poiché consente l’esercizio
del potere ablatorio a tempo indeterminato, in ragione di un
provvedimento, quale l’approvazione del piano triennale
delle opere pubbliche, la cui adozione non garantisce la
partecipazione procedimentale degli interessati e che può
essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di
motivazione, né di indennizzo (Corte
Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270 - link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE: Reiterazione
di vincoli espropriativi a tempo indeterminato: la Corte costituzionale ne
ribadisce le ragioni di illegittimità costituzionale.
La Corte costituzionale, in accoglimento di una questione sollevata dal Tar
per la Lombardia–Brescia, dichiara l’illegittimità costituzionale di una
norma di legge regionale (l’art. 9, comma 12, della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005, recante “Legge per il governo del territorio”),
con la quale, in sostanza, si prevedeva la possibilità di reiterare, a tempo
indeterminato, l’efficacia di vincoli preordinati all’esproprio, oltre
quindi il termine quinquennale stabilito dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n.
327 del 2001 (c.d. testo unico delle espropriazioni).
In motivazione, la Corte ribadisce che la proroga, in via legislativa, dei
vincoli espropriativi costituisce un “fenomeno inammissibile dal punto di
vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito
(attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano
aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia
indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non
contenuto in termini di ragionevolezza”.
---------------
Espropriazione per pubblico interesse – Regione Lombardia – Vincolo
preordinato all’esproprio – Reiterazione – Violazione degli artt. 42, terzo
comma, e 117, terzo comma, Cost. – Illegittimità costituzionale in parte
qua.
E’ incostituzionale, per violazione degli artt. 42,
terzo comma, e 117, terzo comma, Cost., l’art. 9, comma 12, secondo periodo,
della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, in quanto, consentendo
la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben
oltre la naturale scadenza quinquennale e –in virtù del richiamo al
programma triennale delle opere pubbliche– per un tempo sostanzialmente
indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento di alcun indennizzo,
realizza un effetto che si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza
costituzionale in materia di espropriazione per pubblica utilità, dando
seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole
punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la
necessità di indennizzare il proprietario (1).
---------------
(1) I. – Con la sentenza in rassegna, la Corte costituzionale
ribadisce la propria costante giurisprudenza in materia di durata del
vincolo espropriativo, confermando che la legge (in questo caso, si trattava
di una norma della legge generale della Regione Lombardia in materia di
governo del territorio) non può prevedere una protrazione indefinita del
vincolo, ben oltre il termine quinquennale individuato dall’art. 9, comma 2,
del t.u. espropriazioni (di cui al d.P.R. n. 327 del 2001), termine che
rappresenta il “punto di equilibrio”, individuato dal legislatore,
oltre il quale non è costituzionalmente tollerabile il sacrificio del
diritto di proprietà privata senza il riconoscimento di un adeguato
indennizzo.
La questione era stata sollevata dal
Tar per la Lombardia–Brescia, sezione II, con ordinanza 14.08.2019, n. 740
(in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 1250, nonché oggetto della
News US n. 109 del 16.10.2019, cui si rinvia per gli ampi
riferimenti di dottrina e di giurisprudenza). Nel giudizio a quo, era
impugnato l’atto contenente la dichiarazione di pubblica utilità, insieme ai
successivi provvedimenti, adottati nell’ambito di una procedura
espropriativa iniziata dal Comune di Agro per la realizzazione di una strada
di collegamento progettata, in parte, su un fondo privato.
Il vincolo preordinato all’esproprio, derivante dall’approvazione del piano
comunale di governo del territorio, avrebbe esaurito la propria durata
quinquennale nel novembre 2017 ma, in applicazione della norma regionale
censurata, esso risultava prorogato sine die per effetto
dell’avvenuto inserimento dell’opera nel programma triennale delle opere
pubbliche, approvato nell’aprile del 2017.
In base alla norma regionale oggetto dei dubbi sollevati dal Tar per la
Lombardia, infatti, i vincoli preordinati all’esproprio, aventi una durata
pari a cinque anni, “decadono qualora, entro tale termine, l'intervento
cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua
realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo
aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne
preveda la realizzazione”.
II. – La Corte costituzionale, dunque, dichiara l’illegittimità
costituzionale di tale norma per violazione degli artt. 42, comma 3, e 117,
comma 3, Cost., concludendo invece per l’inammissibilità (per difetto di
motivazione) della questione in relazione al parametro di cui agli artt.
117, comma 1, Cost., e 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. Questo, in
sintesi, il percorso seguito dalla Corte per giungere –dopo aver superato
alcune questioni di inammissibilità– alla declaratoria di
incostituzionalità:
a) la Corte premette, anzitutto, un’articolata
ricostruzione del quadro normativo statale vigente in subiecta materia,
ripercorrendone le tappe salienti e ricordando quanto segue:
a1) l’espropriazione per motivi
d’interesse generale, governata dall’art. 42, comma 3, Cost., è un
procedimento preordinato all’emanazione di un provvedimento che trasferisce
la proprietà o altro diritto reale su di un bene; le fasi del procedimento,
finalizzate all’emissione del decreto di esproprio, sono scandite dall’art.
8 del t.u. espropriazioni, e sono costituite dalla sottoposizione del bene
al vincolo preordinato all’esproprio, dalla dichiarazione di pubblica
utilità dell’opera che deve essere realizzata e dalla determinazione
dell’indennità di espropriazione;
a2) ai sensi dell’art. 9 del
medesimo testo unico, un bene è sottoposto al vincolo preordinato
all’espropriazione quando diventa efficace, in base alla specifica normativa
statale e regionale di riferimento, l’atto di approvazione del piano
urbanistico generale, ovvero una sua variante, che preveda la realizzazione
di un’opera pubblica o di pubblica utilità; l’effetto del vincolo comporta
che il proprietario del bene, pur restando titolare del diritto sulla cosa,
non può utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che
l’amministrazione non proceda all’espropriazione;
a3) il legislatore, chiamato ad
adeguarsi ai principi enunciati con la sentenza 29.05.1968, n. 55 (in Giur.
cost., 1968), ha stabilito, con l’art. 2 della legge n. 1187 del 1968, una
durata quinquennale del vincolo espropriativo, periodo durante il quale la
necessità di corrispondere un indennizzo è esclusa;
a4) con la sentenza 20.05.1999,
n. 179 (in Foro it., 1999, I, 1705, con nota di BENINI, in Corriere giur.,
1999, 830, con note di CARBONE e GIOIA, in Giorn. dir. amm., 1999, 851, con
nota di MAZZARELLI, in Urb. e appalti, 1999, 712, con nota di LIGUORI, in
Giust. civ., 1999, I, 2597, con nota di STELLA RICHTER, in Appalti
urbanistica edilizia, 1999, 395, con nota di GISONDI, in Riv. amm., 1999,
274, con nota di CACCIAVILLANI, in Giur. it., 1999, 2155, con nota di DE
MARZO, in Le Regioni, 1999, 804, con nota di CIVITARESE MATTEUCCI, in Riv.
it. dir. pubbl. comunitario, 1999, 873, con nota di BONATTI, ed in Guida al
dir., 1999, 22, 133, con nota di RICCIO), la Corte costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt.
7, numeri 2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma,
della legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica
amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la
previsione di un indennizzo;
a5) con l’adozione del testo
unico sulle espropriazioni, di cui al già richiamato d.P.R. n. 327 del 2001,
il legislatore statale si è adeguato alle indicazioni della giurisprudenza
costituzionale, prevedendo la durata quinquennale del vincolo preordinato
all’esproprio (art. 9, comma 2; si tratta del c.d. periodo di franchigia,
durante il quale al proprietario del bene non è dovuto alcun indennizzo),
nonché la decadenza dal vincolo se, entro tale termine, non è dichiarata la
pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3); il vincolo può essere
motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di un
nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4), e
con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39) – ciò, fermo
restando che le stesse garanzie devono sorreggere un’eventuale proroga del
vincolo prima della sua naturale scadenza (in tal senso, Corte cost.,
sentenza 20.07.2007, n. 314, in Foro it., 2009, I, 1711);
a6) la dichiarazione di
pubblica utilità, che deve intervenire entro il termine di efficacia del
vincolo espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni), è l’atto con
il quale vengono individuati in concreto i motivi di interesse generale cui
l’art. 42, comma 3, Cost. subordina l’espropriazione della proprietà privata
nei casi previsti dalla legge (cfr. Corte cost., sentenza 08.05.1995, n.
155, in Foro it., 1995, I, 2389), e segna l’effettivo avvio della procedura
espropriativa, nel necessario rispetto del contraddittorio tra i cittadini
interessati e l’amministrazione;
a7) un “ruolo centrale”,
nella disciplina in esame, è poi svolto dalla c.d. dichiarazione implicita
di pubblica utilità, la quale (a norma dell’art. 12 del d.P.R. n. 327 del
2001) si intende disposta “quando l’autorità espropriante approva a tale
fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità,
ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di
lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano
delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato
il piano di zona”, nonché nei casi in cui la normativa vigente prevede
che equivalga “a dichiarazione di pubblica utilità l’approvazione di uno
strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, la definizione di una
conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di programma,
ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto
avente effetti equivalenti”;
a8) a livello statale, poi, un
ruolo decisivo gioca il programma triennale dei lavori pubblici, attualmente
previsto dall’art. 21 del codice dei contratti pubblici (di cui al d.lgs. n.
50 del 2016) il quale disciplina unitariamente la programmazione, sia per i
lavori pubblici che per i servizi e le forniture, demandando (comma 8) a un
decreto ministeriale, di natura regolamentare, la normazione di dettaglio;
tale programma triennale, ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), del
cod. contratti pubblici, rappresenta il documento, da aggiornare
annualmente, che le amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori
da avviare nel triennio;
a9) l’art. 5, comma 5,
dell’apposito regolamento (di cui al d.m. 16.01.2018, n. 14) stabilisce le
modalità di partecipazione dei privati interessati in relazione alla
definizione del contenuto del programma in questione, prevedendo la
possibilità di presentare osservazioni prima dell’approvazione definitiva
del programma;
b) a livello regionale, e con specifico riguardo
alla disciplina vigente nella Regione Lombardia, la Corte poi ricorda che:
b1) la disciplina sul governo
del territorio, contenuta nella legge regionale n. 12 del 2005, nonché la
disciplina sul procedimento di espropriazione (di cui alla legge della
Regione Lombardia n. 3 del 2009) sono state varate nell’esercizio della
potestà legislativa concorrente, come previsto dallo stesso testo unico
delle espropriazioni (art. 5, comma 1), posto che l’espropriazione
costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi anche nella materia
concorrente del “governo del territorio” nella quale, come più volte
riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, rientra l’urbanistica (cfr.
sentenza 26.06.2020, n. 130, e sentenza 05.12.2019, n. 254, quest’ultima in
Quad. dir. e politica ecclesiastica, 2019, 697, con nota di MARCHEI, in Dir.
pen. globalizzazione, 2020, 33, con nota di PLACANICA, ed in Giur. cost.,
2019, 3131, con nota di GORLANI);
b2) con specifico riferimento
alle prime due fasi della procedura espropriativa (che vengono in rilievo
nella fattispecie di cui al giudizio a quo), la disciplina regionale
lombarda presenta delle differenze rispetto a quella statale, in quanto (per
un verso) fa discendere un “peculiare effetto” dall’inserimento
dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle
opere pubbliche (ossia, la mancata decadenza del vincolo, pur superato il
periodo quinquennale), mentre (per altro verso) l’art. 9 della legge
regionale sul procedimento espropriativo, a determinate condizioni, include
proprio il programma triennale delle opere pubbliche tra gli atti che
comportano la dichiarazione di pubblica utilità;
c) nel solco tracciato dalla sentenza n. 179 del
1999, cit., la Corte ribadisce dunque che “la proroga in via legislativa
dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista
costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito (attraverso
la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano
aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia
indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non
contenuto in termini di ragionevolezza”; di conseguenza, la Corte
enuclea i seguenti vizi della norma regionale censurata:
c1) essa consente la
protrazione dell’efficacia del vincolo “ben oltre la naturale scadenza
quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del
programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della
norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il
riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo”;
c2) tale effetto “si pone in
frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in
precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato
un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei
vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario”;
c3) peraltro, la norma lombarda
“ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse
pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello
cosiddetto di franchigia”, con ciò ulteriormente discostandosi dalla
legge statale di riferimento (cfr. art. 9, comma 4, del d.P.R. n. 327 del
2001);
c4) ancora, la norma lombarda “appare
del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da
riconoscersi al privato interessato”, così contravvenendo ad un’altra
prescrizione già in passato ribadita dalla giurisprudenza costituzionale,
quella cioè di mettere i privati, ancora prima dell’adozione dell’atto
limitativo, “in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela
del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse
pubblico” (viene richiamata la sentenza 30.04.2015, n. 71, in Foro it.,
2015, I, 2629, con nota di R. PARDOLESI, in Urb. e appalti, 2015, 767, con
note di ARTARIA e BARILÀ, in Guida al dir., 2015, 21, 84, con nota di PONTE,
in Resp. civ. e prev., 2015, 1492, con nota di REGA, in Giur. cost., 2015,
998, con nota di MOSCARINI, in Europa e dir. privato, 2015, 951, con nota di
GRISI, ed in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 581, con note di MARI e STRAZZA);
c5) del resto, le forme di
partecipazione che sono previste per l’approvazione del programma triennale
delle opere pubbliche appaiono –precisa la Corte– “di qualità e grado
insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u.
espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per
quelli reiterativi del vincolo espropriativo”, trovando esse la loro
fonte in un atto meramente regolamentare (il già ricordato d.m. n. 14 del
2018), il quale oltretutto le prevede in modalità solo eventuale.
III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
d) nella decisione in rassegna, la Corte afferma
la “trasversalità” della materia delle espropriazioni, in quanto
riconducibile all’urbanistica la quale, a sua volta, è da ricomprendere
nella materia concorrente del governo del territorio; su quest’ultima
affermazione cfr., di recente:
d1) Corte cost., sentenza n.
130 del 2020, cit., secondo cui “la normativa sui centri storici si trovi
al crocevia fra le competenze regionali in materia urbanistica o di governo
del territorio e la tutela dei beni culturali”, con la conseguente
precisazione secondo cui “le Regioni hanno dedicato specifiche discipline
ai centri storici, nell’ambito delle competenze in materia di governo del
territorio o urbanistica, cercando di superare la visione parcellizzata
degli interventi edilizi per privilegiare la considerazione unitaria dei
nuclei storici. In accordo con l’ordinamento statale, le Regioni stesse
affidano a strumenti urbanistici comunali e al lavoro di uffici tecnici
territorialmente competenti l’attuazione delle norme dettate a livello
regionale e statale”;
d2) Corte cost., sentenza n.
254 del 2019, cit., secondo cui “nel regolare, in sede di disciplina del
governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire
esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere
ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di
allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango
costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina
urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature
religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per
il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare
l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare
strutture di questo tipo”, giungendosi così alla seguente conclusione: “In
questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in
materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle
attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione
urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia,
alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento
nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto
urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della
necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse
comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici,
cioè alla dotazione minima di spazi pubblici)”;
e) per l’affermazione secondo cui le garanzie
partecipative devono trovare applicazione nell’ambito del procedimento
espropriativo, cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 2015,
cit., menzionata anche dalla pronuncia in epigrafe, secondo cui:
e1) il principio del “giusto
procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter
esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano adottati
provvedimenti limitativi dei loro diritti) “non può dirsi assistito in
assoluto da garanzia costituzionale” (in tal senso, nella giurisprudenza
della Corte, cfr. già: sentenza 12.07.1995, n. 312, in Cons. Stato, 1995, II,
1197; sentenza 31.05.1995, n. 210, in Cons. Stato, 1995, II, 906; sentenza
24.02.1995, n. 57, in Mass. giur. lav., 1995, 146, con nota di SANTONI, in
Lavoro giur., 1995, 657, con nota di PILATI, in Giorn. dir. amm., 1995, 801,
con nota di MARIANI, in Dir. lav., 1995, II, 132, con nota di PELLACANI, ed
in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 738, con nota di CORSINOVI; sentenza
19.03.1993, n. 103, in Foro it., 1993, I, 2410; ordinanza 10.12.1987, n.
503, in Giur. cost., 1987, I, 3317, con nota di AMODIO; sentenza 20.03.1978,
n. 23, in Giur. it., 1979, I, 209);
e2) ciò, tuttavia, “non
sminuisce certo la portata che tale principio ha assunto nel nostro
ordinamento, specie dopo l’entrata in vigore della legge 07.08.1990, n. 241”;
e3) in materia espropriativa, è
ormai risalente l’affermazione secondo cui i privati interessati devono
essere messi “in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela
del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse
pubblico” (cfr. sentenza 20.07.1990, n. 344, in Giur. cost., 1990, 2158;
sentenza 21.03.1989, n. 143, in Foro it., 1991, I, 1970; sentenza
27.06.1986, n. 151, in Foro it., 1986, I, 2690, con note di COZZUTO QUADRI e
CARAVITA; sentenza 02.03.1962, n. 13, in Giur. cost., 1962);
f) in tema di proroga di vincoli espropriativi
già scaduti, cfr., nella giurisprudenza costituzionale, la sentenza n. 314
del 2007, cit. (menzionata anche dalla decisione in rassegna), con cui è
stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma di legge della
Regione Campania che prorogava, per un triennio, i piani regolatori dei
nuclei e delle aree industriali già scaduti; in tale pronuncia si legge, per
quanto qui di maggiore interesse:
f1) che la reiterazione dei
vincoli espropriativi, pur in linea di principio “consentita in via
amministrativa, e a maggior ragione, per legge”, deve tuttavia essere “puntualmente
motivata con riguardo alla persistente necessità di acquisire la proprietà
privata (da valutare sulla base di una apposita istruttoria procedimentale
da cui emerga la prevalenza dell’interesse pubblico rispetto a quello
privato da sacrificare); e, contemporaneamente, deve prevedere la
corresponsione del giusto indennizzo. In mancanza di tali presupposti vi è
lesione del diritto di proprietà”;
f2) che “La regola dell’indennizzabilità
dei vincoli espropriativi reiterati è ormai un principio consolidato
nell’ordinamento, anche per l’entrata in vigore dell’art. 39 t.u. delle
espropriazioni (d.p.r. 08.06.2001 n. 327). La reiterazione di qualsiasi
vincolo preordinato all’esproprio, o sostanzialmente espropriativo, dunque,
è da intendere implicitamente integrabile con il principio generale dell’indennizzabilità”
(con richiamo alla precedente ordinanza 25.07.2002, n. 397, in Riv. giur.
edilizia, 2002, I, 1207);
g) nella giurisprudenza amministrativa, con
riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento con cui è reiterato
il vincolo espropriativo, cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 24.05.2007, n. 7 (in
Foro it., 2007, III, 350 con nota di TRAVI; in Guida al dir., 2007, 24, 73,
con nota di FORLENZA; in Riv. amm., 2007, 461, con nota di CACCIAVILLANI; in
Corriere merito, 2007, 1092, con nota di VELTRI; in Urb. e appalti, 2007,
1113, con nota di CARBONELLI; in Giorn. dir. amm., 2007, 1174, con nota di
MAZZARELLI; in Resp. e risarcimento, 2007, 7, 95, con nota di PAPPALARDO; in
Quaderni centro documentaz., 2007, 242, con nota di COLLACCHI) secondo cui:
g1) “l'esercizio del potere
di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio decaduto per
decorrenza del termine quinquennale può essere esercitato unicamente sulla
base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che escluda un
contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti”;
g2) “per valutare
l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti di reiterazione di vincoli
preordinati all'esproprio occorre distinguere se questi riguardano o meno
una pluralità di aree, se riguardano solo una parte già incisa da vincoli
decaduti, se, infine, la reiterazione sia disposta (o meno) per la prima
volta sull'area”;
g3) “si ha adeguato supporto
motivazionale dell'atto di reiterazione del vincolo preordinato
all'esproprio qualora l'amministrazione, nell'evidenziare l'attualità
dell'interesse pubblico da soddisfare, abbia a seguito di specifica
istruttoria, tenuto conto delle seguenti circostanze:
1) in caso di reiterazione disposta con riguardo o meno una pluralità di
aree, nell'ambito dell'adozione di una variante generale o comunque
riguardante una consistente parte del territorio comunale, si devono
distinguere le ipotesi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un'area
ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare
i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico) e quelle in
cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una consistente parte
del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento
urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli
preordinati all'esproprio (necessari per l'adeguamento degli standard, a
seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Tale distinzione ha
ragion d'essere perché solo nell'ipotesi in cui vengono reiterati ‘in
blocco’ i vincoli decaduti, già riguardanti una pluralità di aree, la
sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dalla
perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard
(indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l'assenza di un
intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i
destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
2) in caso di reiterazione disposta con riguardo solo ad una parte delle
aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l'altra parte non è
disposta la reiterazione in quanto il vincolo venga impresso su nuovi
terreni. Tale scelta, pur costituendo senz'altro un'anomalia della funzione
pubblica, deve fondarsi, pena il profilarsi di un intento vessatorio nei
confronti dei proprietari delle aree riassoggettate a vincolo, su una
motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico che
giustifichino il vantaggio di chi non è più coinvolto nelle determinazioni
di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo
stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all'esproprio;
3) in caso di reiterazione disposta per la prima volta, può ritenersi
giustificato il richiamo alle originarie valutazioni; di converso, quando il
rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, l'autorità urbanistica deve
procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti,
evidenziano le ragioni, con riferimento al rispetto degli standard, alle
esigenze della spesa, agli specifici accadimenti riguardanti le precedenti
fasi procedimentali, che diano conto dell'attuale sussistenza dell'interesse
pubblico”;
g4) “secondo il quadro
normativo vigente antecedentemente al testo unico sugli espropri approvato
con il d.P.R. n. 327 del 2001, valeva il principio che, in caso di atti di
reiterazione dei vincoli preordinati all'esproprio, imponeva l'obbligo di
un'adeguata motivazione (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4,
d.P.R. cit.), nella quale l'amministrazione doveva indicare la ragione che
l'avevano indotta a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la
precedente scelta si era appuntata, evidenziando, a tal fine, l'attualità
dell'interesse pubblico da soddisfare, ciò in quanto tale specie di
determinazione è destinata ad incidere sulla sfera giuridica di un
proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene
suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di
esproprio”;
g5) la deliberazione
riguardante la reiterazione del vincolo espropriativo non necessita di
copertura finanziaria volta a garantire il pagamento del corrispondente
indennizzo (“la delibera impugnata in primo grado non doveva essere
preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’”);
h) sulla distinzione fra vincoli conformativi e
vincoli espropriativi, in relazione a motivazione e indennizzo, cfr. da
ultimo, nella giurisprudenza amministrativa (cui adde le ulteriori
indicazioni riportate nella News US n. 109 del 16.10.2019, cit.):
h1) Cons. Stato, sezione IV,
sentenza 19.02.2020, n. 1253, secondo cui “l’art. 40 della legge n.
1150/1942, dopo l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n.
55 del 1968, deve intendersi nel senso che gli obblighi di allineamento
rispetto alle previsioni di piano sulle vie di comunicazione non decadono
perché non hanno natura espropriativa”;
h2) Cons. Stato, sezione IV,
sentenza 12.04.2018, n. 2205, in cui si legge quanto segue: “il concetto
di ‘limiti comportanti la totale inutilizzazione’ va enucleato in base alla
insuperata giurisprudenza costituzionale, in materia di cd. espropriazione
di valore (sentenze 20.01.1966 n. 6 e 29.05.1968 n. 55), che indica il
criterio per discernere le ipotesi in cui l'amministrazione esercita sui
beni di proprietà privata un potere conformativo (come tale, non
indennizzabile), da quelle in cui -viceversa- esercita un potere
sostanzialmente ablatorio (come tale, indennizzabile [...])”;
h3) Cons. Stato, sezione IV,
decisione 28.10.2009, n. 6661 (in Giurisdiz. amm., 2009, I, 1399), secondo
cui “In tema di convenzione urbanistica di lottizzazione, quando sia
scaduto un piano di lottizzazione si applicano alla convenzione le
disposizioni dell'art. 17 l. 1150/1942, le quali impongono, in mancanza di
una diversa disciplina di dettaglio, di rispettare gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabilite dallo strumento urbanistico attuativo,
ancorché scaduto; la previsione di «ultrattività» delle disposizioni del
piano scaduto è finalizzata ad evitare l'alterazione dello sviluppo
urbanistico-edilizio così come armonicamente programmato e ad assicurare una
edificazione omogenea”;
i) sulla programmazione triennale dei lavori
pubblici cfr., in dottrina: L. PETRANGELI PAPINI, La programmazione e la
progettazione dei lavori pubblici, in Appalti urbanistica edilizia, 2000,
12, 643 ss.; G. FORMICHELLA, Lavori pubblici. La programmazione dei lavori
pubblici negli Enti locali. I principi, le procedure, gli aspetti positivi e
gli spunti problematici, in Nuova rass., 2001, 1857 ss.; A. MATARAZZO,
Lavori pubblici. Brevi annotazioni operative in tema di programmazione dei
lavori pubblici, in Nuova rass., 2001, 1871 ss.; E. BARUSSO, Le competenze
degli organi dell’Ente Locale, Santarcangelo di Romagna, 2001, 127 ss.; G.
PESCE, Effetti del programma triennale delle opere pubbliche e valutazione
di fattibilità dell'intervento, in Urb. e appalti, 2003, 442 ss.; A. PAGANO,
Programma triennale dei lavori pubblici, Commento a d.m. Infrastrutture e
trasporti 09.06.2005, in Urb. e appalti, 2005, 914; D. GHIANDONI, E. MASINI,
Le principali novità del programma oo.pp. 2019/2021, in Azienditalia, 2018,
10, 1247; P. LEONCINO, La contabilizzazione delle opere pubbliche, in
Azienditalia, 2019, 6, 885; A. GRAZIANO, in Trattato sui contratti pubblici,
diretto da M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, I, Fonti e principi, Ambito,
Programmazione e progettazione, 2019, 1123 ss.; R. DE NICTOLIS, Appalti
pubblici e concessioni, Bologna, 2020, 300 ss.
(Corte Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Illegittimo
l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della L.R. Lombardia n. 12 del 2005 che
consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio
oltre la naturale scadenza quinquennale.
La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9,
comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, secondo periodo,
limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati
all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della
pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei
servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in
vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito,
a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Osserva al riguardo la Corte che:
<<le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 9, comma
12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono fondate, poiché tale disposizione
viola gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost..
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la
proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno
inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine
die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo
determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il
limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e,
quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione
censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9,
comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio
ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione
dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche
nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente
indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato
di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza
costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il
legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la
reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il
proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati
in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione
automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge
regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore
statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del
vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il
legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale
circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che
oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla
legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di
reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per
importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al
livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i
privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti
limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di esporre
le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di
collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71 del
2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del
programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il
codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e
grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal
t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e
per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in
questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14
del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla
legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima
ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire
la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati
interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità>>
(commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Espropriazione
per pubblica utilità - Norme della Regione Lombardia - Piano dei servizi -
Durata quinquennale dei vincoli preordinati all'espropriazione per la
realizzazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi,
decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso - Decadenza dei vincoli
qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia
inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma
triennale delle opere pubbliche.
---------------
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata
di Brescia, con
ordinanza 20.09.2019 n. 827
(r.o. n. 221 del 2019), solleva, in riferimento agli artt. 42 e 117, terzo e
primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del
Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952,
questioni di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio).
...
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata
di Brescia, dubita che l’art. 9, comma 12, della legge della Regione
Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), violi gli
artt. 42 e 117, terzo e primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in
relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a
Parigi il 20.03.1952.
1.1.– Il TAR Lombardia ricorda che la disposizione censurata disciplina i
vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente
ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti
dal piano dei servizi.
Quest’ultimo costituisce una componente del piano di governo del territorio,
previsto dall’art. 7, comma 1, lett. b), della legge reg. Lombardia n. 12
del 2005 quale strumento urbanistico generale della pianificazione di
livello comunale.
La disposizione censurata, dopo aver stabilito nel primo periodo, in cinque
anni, decorrenti dall’entrata in vigore del citato piano dei servizi, la
durata dei vincoli ablativi in questione, prevede, nel secondo periodo (cioè
proprio nella parte della cui legittimità costituzionale il rimettente
dubita), che «[d]etti vincoli decadono qualora, entro tale termine,
l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente
competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere
pubbliche e relativo aggiornamento […]».
Ciò posto, il rimettente espone, in punto di rilevanza, che le società Te.Mo. spa e So.Ag.Be. ss hanno impugnato l’atto
contenente la dichiarazione di pubblica utilità e i successivi
provvedimenti, adottati nell’ambito del procedimento espropriativo
preordinato alla realizzazione di una strada di collegamento, in parte
prevista su un fondo di proprietà della Te.Mo. spa e destinato dalla
So.Ag.Be. ss alla coltivazione di uva per la produzione di
vino pregiato.
La dichiarazione di pubblica utilità, contenuta nella deliberazione del
Consiglio comunale del 15.02.2018, n. 11 (recante l’approvazione del
progetto dell’opera da realizzare), sarebbe stata adottata –riferisce il
rimettente– quando erano già decorsi cinque anni dal momento
dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Quest’ultimo, infatti, troverebbe origine nell’approvazione, in data
21.11.2012, del piano di governo del territorio del Comune di Adro, che
prevedeva l’assoggettamento del fondo in questione a vincolo ablativo fino
al 21.11.2017.
La decadenza del vincolo ablativo sarebbe stata impedita proprio e soltanto
in forza dell’applicazione della disposizione censurata. Tale effetto
sarebbe cioè derivato dall’inserimento dell’intervento, prima della scadenza
quinquennale del vincolo espropriativo, nel programma triennale delle opere
pubbliche –nella specie approvato in data 06.04.2017– inserimento che
avrebbe così legittimato l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera, pur se intervenuta in data 15.02.2018, e dunque oltre il termine
quinquennale decorrente dall’approvazione del piano di governo del
territorio.
Il TAR Lombardia riferisce che, nella medesima data da ultimo indicata, è
stata anche adottata dal Consiglio comunale di Adro una variante urbanistica
(poi approvata con deliberazione del 12.05.2018, n. 23).
Tuttavia, con riferimento all’opera pubblica di cui si tratta, quest’ultima
deliberazione non avrebbe legittimamente reiterato il vincolo preordinato
all’esproprio (ormai già scaduto), in quanto il Comune di Adro, in
applicazione della disposizione censurata, avrebbe semplicemente «preso
atto» dell’inserimento dell’intervento nel programma triennale delle
opere pubbliche e del conseguente «effetto “confermativo”»
dell’efficacia del vincolo.
A giudizio del TAR Lombardia –che attribuisce al provvedimento di variante
urbanistica funzione meramente ricognitiva di un effetto legale già
prodottosi– la sua mancata impugnazione da parte delle società ricorrenti
non avrebbe dunque rilievo, poiché il provvedimento stesso «risulterebbe
inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale declaratoria di
illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta il presupposto».
Infatti, la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, impugnata dalle
ricorrenti, sarebbe comunque intervenuta sulla base di un vincolo
preordinato all’esproprio risalente a più di cinque anni prima, sicché essa
poggerebbe esclusivamente su una sorta di “proroga automatica” del vincolo,
conseguente all’inclusione dell’opera nel programma triennale delle opere
pubbliche ai sensi della disposizione censurata.
Quest’ultima costituirebbe, in definitiva, l’unico ostacolo frapposto
all’annullamento dell’atto.
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo, sulla scorta
della giurisprudenza di questa Corte, ricorda che, trascorso un periodo di
ragionevole durata –oggi fissato in cinque anni dall’art. 9, comma 2, del
decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, recante
«Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità (Testo A)» (d’ora innanzi: t.u.
espropriazioni)– la pubblica amministrazione può reiterare il vincolo solo
motivando adeguatamente in relazione alla persistenza di effettive esigenze
urbanistiche (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni), e comunque
corrispondendo un indennizzo (ai sensi del successivo art. 39 del medesimo
testo unico).
Secondo il Tribunale amministrativo rimettente, dunque, l’esercizio del
potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 Cost., solo se
risulti limitato nel tempo e compensato, in caso di reiterazione del
vincolo, dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Ricorda il giudice a quo, in particolare, che la giurisprudenza
costituzionale (è richiamata la sentenza n. 179 del 1999) ha escluso che il
vincolo possa essere reiterato senza che si proceda, alternativamente,
all’espropriazione (o comunque al «serio inizio dell’attività preordinata
all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi)»,
oppure alla corresponsione di un indennizzo.
Nella ricostruzione del TAR Lombardia, questo «serio inizio» dell’attività espropriativa sarebbe stato individuato dal legislatore statale, unico
competente a tal fine, nel provvedimento che dichiara la pubblica utilità
dell’opera; quindi, in un atto che comunque garantisce la partecipazione del
proprietario del bene.
L’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, avrebbe,
invece, disciplinato una nuova ipotesi di attuazione del vincolo
espropriativo, in mancanza di un serio avvio della procedura espropriativa
e, in particolare, di una tempestiva dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera.
In tal modo, in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., la legge
regionale avrebbe ecceduto la propria competenza concorrente in materia, dal
momento che l’art. 12 t.u. espropriazioni non ricomprenderebbe, tra gli atti
che comportano la dichiarazione di pubblica utilità, l’inserimento
dell’opera pubblica nel programma triennale.
Inoltre, in lesione dell’art. 42 Cost., la disposizione censurata
consentirebbe l’esercizio del potere ablatorio «a tempo indeterminato»,
in ragione di un provvedimento –appunto l’approvazione del piano triennale
delle opere pubbliche– la cui adozione, da un lato, non può essere
qualificata come serio avvio della procedura espropriativa, e, dall’altro,
non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e può
essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di motivazione, né di
indennizzo.
2.– In via preliminare, non può essere accolta la richiesta di una
declaratoria d’inammissibilità delle questioni per sopravvenuto difetto di
rilevanza, avanzata dal Comune di Adro, costituito in giudizio, in
conseguenza della rinuncia al ricorso depositata nel giudizio a quo dalle
società espropriate.
Come stabilito dall’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale, il giudizio incidentale di costituzionalità è
autonomo rispetto al giudizio a quo, nel senso che non risente delle vicende
di fatto, successive all’ordinanza di rimessione e relative al rapporto
dedotto nel processo principale. Per questo, la costante giurisprudenza
costituzionale afferma che la rilevanza della questione deve essere valutata
alla luce delle circostanze sussistenti al momento del provvedimento di
rimessione, senza che assumano rilievo eventi sopravvenuti (sentenze n. 244
e n. 85 del 2020), quand’anche costituiti dall’estinzione del giudizio
principale per effetto di rinuncia da parte dei ricorrenti (ordinanza n. 96
del 2018).
3.– Deve essere, inoltre, circoscritto il thema decidendum.
Il giudice a quo, in dispositivo, indirizza le proprie censure
sull’intero comma 12 dell’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La motivazione dell’ordinanza di rimessione, tuttavia, consente agevolmente
di delimitare l’oggetto delle censure al solo secondo periodo del comma in
esame, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati
all’espropriazione decadono qualora, entro cinque anni dall’approvazione del
piano dei servizi che prevede l’intervento, quest’ultimo non sia inserito, a
cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
4.– Sempre in via preliminare, va rigettata l’eccezione d’inammissibilità
per difetto di rilevanza, originariamente avanzata dalla difesa del Comune
di Adro, secondo cui l’adozione della variante allo strumento urbanistico,
in quanto idonea a reiterare il vincolo preordinato all’esproprio,
renderebbe irrilevanti le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
Nel caso in esame, non risulta implausibile il ragionamento del rimettente,
secondo il quale il Comune di Adro non sarebbe stato obbligato a reiterare
il vincolo –nonostante la scadenza del quinquennio dalla originaria
apposizione– proprio in virtù della norma censurata, che avrebbe determinato
una “proroga” ex lege del vincolo, a seguito dell’inserimento
dell’opera nel programma triennale, per la durata di quest’ultimo e dei suoi
eventuali aggiornamenti annuali.
Infatti, da questo punto di vista, il provvedimento di variante urbanistica,
quantomeno in relazione all’opera di cui si tratta, potrebbe considerarsi
meramente ricognitivo e, come tale, prima ancora che “atipico” (come
ritenuto dal rimettente), addirittura superfluo.
Non si versa, pertanto, in una di quelle ipotesi di manifesta implausibilità
della motivazione sulla rilevanza, che impediscono, secondo costante
giurisprudenza costituzionale, l’esame del merito (da ultimo, sentenze n.
218 del 2020 e n. 208 del 2019).
5.– Neppure può essere accolta l’eccezione d’inammissibilità delle censure
di violazione dell’art. 117 Cost., per non avere il rimettente indicato «quale
comma e/o lettera sarebbero stati violati».
In primo luogo, il giudice a quo, almeno in un passaggio dell’ordinanza di rimessione, individua espressamente il terzo comma dell’art. 117 Cost. quale
parametro evocato.
È, poi, ininfluente che il rimettente non menzioni espressamente la materia
di legislazione concorrente tra quelle indicate nel terzo comma dell’art.
117 Cost., quando la questione, nel contesto della motivazione, risulti
chiaramente enunciata (in senso analogo, da ultimo, sentenza n. 264 del
2020). E dal tenore dell’ordinanza di rimessione si evince con sufficiente
chiarezza che le censure si incentrano sulla violazione della competenza
legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia «governo del
territorio».
6.– Va invece, e ancora preliminarmente, dichiarata l’inammissibilità della
questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Il rimettente non ha, infatti, assolto l’onere di motivazione sulla non
manifesta infondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.
L’ordinanza di rimessione è, invero, volta unicamente a denunciare la
lesione degli artt. 42 e 117, terzo comma, Cost., sotto i profili prima
illustrati, e non indica alcuna ragione a sostegno di uno specifico
contrasto della disposizione censurata con il parametro interposto
sovranazionale.
Tale carenza conduce inevitabilmente all’inammissibilità della specifica
questione in esame (in tal senso, tra le molte, sentenze n. 223 e n. 115 del
2020).
7.– Quanto all’esame del merito delle residue questioni di legittimità
costituzionale, è utile premettere qualche sintetico richiamo alla
disciplina statale e regionale rilevante, nonché alla pertinente
giurisprudenza costituzionale.
8.– Governata dall’art. 42, terzo comma, Cost., l’espropriazione per motivi
d’interesse generale consiste in un procedimento preordinato all’emanazione
di un provvedimento che trasferisce la proprietà o altro diritto reale su di
un bene.
Il legislatore statale ha introdotto a tal fine uno schema procedimentale
articolato nelle fasi indicate dall’art. 8 t.u. espropriazioni, costituite
dalla sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio, dalla
dichiarazione di pubblica utilità dell’opera che deve essere realizzata e
dalla determinazione dell’indennità di espropriazione.
Tali fasi sono finalizzate all’emissione del decreto di esproprio.
Ai sensi del successivo art. 9 del medesimo testo unico, un bene è
sottoposto al vincolo preordinato all’espropriazione quando diventa
efficace, in base alla specifica normativa statale e regionale di
riferimento, l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero
una sua variante, che preveda la realizzazione di un’opera pubblica o di
pubblica utilità.
Una volta apposto il vincolo espropriativo, il proprietario del bene resta
titolare del suo diritto sulla cosa e nel possesso di essa, ma non può
utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che
l’amministrazione non proceda all’espropriazione.
Come ricorda il giudice rimettente, questa Corte, con la sentenza n. 55 del
1968, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i numeri 2), 3) e 4)
dell’art. 7 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), nonché
l’art. 40 della stessa legge, nella parte in cui non prevedevano un
indennizzo per le limitazioni espropriative a tempo indeterminato.
Il legislatore statale, chiamato a sciogliere l’alternativa tra un
indennizzo da corrispondere immediatamente, al momento dell’apposizione del
vincolo di durata indeterminata, e un vincolo senza immediato indennizzo ma
a tempo determinato, ha optato per tale seconda soluzione, con la legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica
17.08.1942, n. 1150), il cui art. 2 ha stabilito la durata quinquennale del
vincolo, periodo durante il quale la necessità di corrispondere un
indennizzo è esclusa.
Con la sentenza n. 179 del 1999, infine, questa Corte ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri
2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma, della
legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica
amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la
previsione di un indennizzo.
Il legislatore statale si è adeguato a queste indicazioni con l’emanazione
del già richiamato t.u. espropriazioni.
In base alle norme dettate da quest’ultimo, il vincolo preordinato
all’esproprio è di durata quinquennale (art. 9, comma 2) –periodo,
cosiddetto di franchigia, durante il quale al proprietario del bene non è
dovuto alcun indennizzo– e decade se, entro tale termine, non è dichiarata
la pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3).
Una volta decaduto e, dunque, divenuto inefficace, il vincolo può solo
essere motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di
un nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4),
e con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39).
Le stesse garanzie devono sorreggere una eventuale proroga del vincolo prima
della sua naturale scadenza (in tal senso, sentenza n. 314 del 2007).
Una volta apposto il vincolo, occorre procedere alla dichiarazione di
pubblica utilità dell’opera, entro il termine di efficacia del vincolo
espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni).
Si tratta dell’atto con il quale vengono individuati in concreto i motivi di
interesse generale cui l’art. 42, terzo comma, Cost. subordina
l’espropriazione della proprietà privata nei casi previsti dalla legge
(sentenza n. 155 del 1995).
Con la dichiarazione di pubblica utilità, la pubblica amministrazione avvia
effettivamente la procedura espropriativa, accertando l’interesse pubblico
dell’opera attraverso l’individuazione specifica di essa e la sua
collocazione nel territorio, nel rispetto del contraddittorio tra i
cittadini interessati e l’amministrazione.
Un ruolo centrale nell’attuale disciplina del procedimento espropriativo è
svolto dalla cosiddetta dichiarazione implicita di pubblica utilità.
Il t.u. espropriazioni, infatti, prevede che l’adozione di taluni atti,
aventi struttura e funzioni proprie, comporti anche la dichiarazione di
pubblica utilità delle opere da essi previste.
In particolare, ai sensi dell’art. 12, comma 1, la dichiarazione di pubblica
utilità si intende disposta «quando l’autorità espropriante approva a tale
fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità,
ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di
lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano
delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato
il piano di zona». Inoltre, e comunque, essa si intende disposta quando la
normativa vigente prevede che equivalga «a dichiarazione di pubblica utilità
l’approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo,
la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un
accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una
autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti».
8.1.– In ambito statale, il programma triennale dei lavori pubblici è
attualmente previsto dall’art. 21 del decreto legislativo 18.04.2016, n.
50 (Codice dei contratti pubblici), il quale disciplina unitariamente la
programmazione, sia per i lavori pubblici che per i servizi e le forniture,
demandando (comma 8) a un decreto ministeriale, di natura regolamentare, la
normazione di dettaglio.
Ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), cod. contratti pubblici, il
programma rappresenta il documento, da aggiornare annualmente, che le
amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori da avviare nel
triennio.
Ai fini della presente decisione, va altresì sottolineato che, in relazione
alla definizione del contenuto del programma in questione, la disciplina
della partecipazione dei privati interessati è contenuta nella fonte
regolamentare prima evocata: l’art. 5, comma 5, del decreto ministeriale
16.01.2018, n. 14 («Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la
redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici,
del programma biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei
relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali»), prevede, infatti, che le
amministrazioni «possono consentire» la presentazione di «eventuali»
osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione del programma sul
profilo informatico del committente e che l’approvazione definitiva del
documento programmatico triennale, con gli eventuali aggiornamenti, avviene
entro i successivi trenta giorni dalla scadenza del termine fissato per tali
«consultazioni», ovvero, comunque, entro sessanta giorni dalla pubblicazione
sul suddetto profilo.
9.– La complessiva disciplina statale sinteticamente richiamata ha trovato
peculiare attuazione nella legislazione della Regione Lombardia.
Come riconosce significativamente lo stesso art. 5, comma 1, t.u.
espropriazioni («[l]e Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà
legislativa concorrente, in ordine alle espropriazioni strumentali alle
materie di propria competenza […]»), l’espropriazione costituisce una
funzione trasversale, che può esplicarsi in varie materie, anche di
competenza concorrente. Tra queste, soprattutto, il «governo del
territorio», per la pacifica attrazione in quest’ultimo dell’urbanistica,
come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti,
sentenze n. 130 del 2020 e n. 254 del 2019).
La Regione Lombardia, nell’esercizio delle proprie competenze legislative,
si è dotata sia di una propria legge per il governo del territorio (legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005), sia di una disciplina in materia di
procedimento di espropriazione, contenuta nella legge della Regione
Lombardia 04.03.2009, n. 3 (Norme regionali in materia di espropriazione per
pubblica utilità).
Con specifico riferimento alla vicenda che ha dato origine al giudizio a
quo, relativo ad una fattispecie in cui sono in questione le prime due fasi
della procedura espropriativa (apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio e dichiarazione di pubblica utilità) assumono rilievo, nella
legislazione della Regione Lombardia, due disposizioni: da un lato, quella
effettivamente censurata, contenuta nella legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, che attribuisce, come s’è visto, peculiare effetto all’inserimento
dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle
opere pubbliche; dall’altro, l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del
2009, il quale, nell’indicare gli atti che comportano la dichiarazione di
pubblica utilità, include –a differenza della appena ricordata disciplina
statale– anche il programma triennale delle opere pubbliche, subordinando
però tale effetto all’accertamento di alcuni requisiti.
In particolare, il comma 2 della previsione da ultimo citata esige,
relativamente a ciascuna opera per la quale il programma triennale intende
produrre l’effetto in parola, che esso contenga: un piano particellare che
individui i beni da espropriare, con allegate le relative planimetrie
catastali; una motivazione circa la necessità di dichiarare la pubblica
utilità in tale fase; la determinazione del valore da attribuire ai beni da
espropriare, in conformità ai criteri applicabili in materia, con
l’indicazione della relativa copertura finanziaria.
Pur riguardando entrambe il programma triennale delle opere pubbliche in
ambito regionale, le due disposizioni hanno differenti obbiettivi: la prima
(oggetto delle censure di legittimità costituzionale) è relativa alla fase
dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio e stabilisce che il
vincolo non decade se l’opera viene inserita nel programma; la seconda,
relativa alla fase successiva del procedimento, include, alle condizioni
viste, il programma in questione tra gli atti la cui approvazione comporta
dichiarazione di pubblica utilità, con scelta, si è detto, innovativa
rispetto alla disciplina statale.
Il giudice a quo non si occupa affatto della seconda disposizione e perciò
non ne definisce il rapporto (di coordinamento, di alternatività, di
esclusione) con la prima, che sospetta di illegittimità costituzionale. Si
deve ritenere, peraltro, che tale pur indubbia lacuna non comporti
l’inammissibilità delle questioni, per incompleta ricostruzione del quadro
normativo di riferimento, oppure per una erronea o incompleta individuazione
della disciplina da censurare. Avendo affermato, nell’ordinanza di
rimessione, che il programma triennale delle opere pubbliche approvato dal
Comune di Adro non costituisce «serio inizio» della procedura
espropriativa (carattere che, invece, è in generale riconosciuto alla
dichiarazione di pubblica utilità di un’opera, e che, in virtù dei requisiti
posti dall’art. 9, comma 2, legge reg. Lombardia n. 3 del 2009, potrebbe
derivare, almeno nelle intenzioni del legislatore regionale,
dall’inserimento nel programma triennale delle opere pubbliche corredate da
quei requisiti), se ne deve dedurre che il rimettente abbia implicitamente
ritenuto non applicabile l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del 2009
alla fattispecie al suo esame.
Trattandosi, dunque, di disposizione non ritenuta pertinente alla
definizione del giudizio, questa Corte può prescindere da qualsiasi
valutazione su di essa, sia in punto di ammissibilità delle questioni, sia,
nel merito, circa la sua riconducibilità alla legittima espressione della
potestà legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia
«governo del territorio».
10.– Tutto ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale
sollevate sull’art. 9, comma 12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono
fondate, poiché tale disposizione viola gli artt. 42, terzo comma, e 117,
terzo comma, Cost.
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la
proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno
inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine
die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo
determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il
limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e,
quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione
censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9,
comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio
ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione
dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche
nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente
indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato
di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza
costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il
legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la
reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il
proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati
in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione
automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge
regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore
statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del
vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il
legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale
circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che
oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla
legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di
reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per
importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al
livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i
privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti
limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di
esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo
di collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71
del 2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del
programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il
codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e
grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal
t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e
per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in
questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14
del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla
legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima
ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire
la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati
interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità.
11.– Per queste complessive ragioni va dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli
preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera
della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano
dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in
vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito,
a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), secondo periodo,
limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati
all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della
pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei
servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in
vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito,
a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 12, legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in
relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a
Parigi il 20.03.1952, dal Tribunale amministrativo regionale per la
Lombardia, sezione staccata di Brescia, con l’ordinanza indicata in epigrafe
(Corte Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione per pubblica utilità - Norme della
Regione Lombardia - Vincoli preordinati
all'espropriazione per la realizzazione di
attrezzature e servizi previsti dal piano dei
servizi - Termine di decadenza quinquennale,
decorrente dalla vigenza del piano - Proroga, in
caso di inserimento dei relativi interventi nel
programma triennale delle opere pubbliche e relativo
aggiornamento - Violazione del diritto di proprietà
e dei principi in materia di governo del territorio
- Illegittimità costituzionale.
●
È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per
violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo
comma, Cost., l'art. 9, comma 12, secondo periodo,
della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
limitatamente alla parte in cui prevede che i
vincoli preordinati all'espropriazione per la
realizzazione, esclusivamente ad opera della
pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi
previsti dal piano dei servizi decadono qualora,
entro cinque anni decorrenti dall'entrata in vigore
del piano stesso, l'intervento cui sono preordinati
non sia inserito, a cura dell'ente competente alla
sua realizzazione, nel programma triennale delle
opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La norma censurata dal TAR Lombardia, sez. staccata
di Brescia, consente la protrazione dell'efficacia
del vincolo preordinato all'esproprio ben oltre la
naturale scadenza quinquennale e, in virtù
dell'inclusione dell'aggiornamento annuale del
programma triennale delle opere pubbliche
nell'ambito applicativo della medesima norma, per un
tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia
previsto il riconoscimento al privato interessato di
alcun indennizzo.
Pertanto, essa è in frontale contrasto con la
giurisprudenza costituzionale formatasi in tema di
vincoli ablativi finalizzati all'espropriazione,
dando seguito alla quale il legislatore statale ha
individuato un ragionevole punto di equilibrio tra
la reiterabilità indefinita dei vincoli e la
necessità di indennizzare il proprietario. Nel
consentire la proroga senza indennizzo del vincolo
preordinato all'esproprio oltre il quinquennio
originario, il legislatore regionale ha omesso di
imporre un preciso onere motivazionale circa
l'interesse pubblico al mantenimento del vincolo per
un periodo che oltrepassa quello c.d. di franchigia:
ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art.
9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di
reiterazione del vincolo.
Ancora, la disposizione censurata appare del tutto
carente quanto al livello di garanzia partecipativa
da riconoscersi al privato interessato, in quanto la
partecipazione al procedimento che sfocia nel
programma triennale delle opere pubbliche -in
relazione al cui contenuto il codice dei contratti
pubblici prevede forme di partecipazione di qualità
e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti
a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in
particolare nell'art. 11) per gli atti appositivi e
per quelli reiterativi del vincolo espropriativo- è
prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m.
n. 14 del 2018), non già dall'art. 21 cod. contratti
pubblici e nemmeno dalla legge regionale.
Inoltre, e soprattutto, l'art. 5, comma 5,
dell'indicato d.m., prevedendo che le
amministrazioni possano consentire la presentazione
di eventuali osservazioni da parte dei privati
interessati, degrada la partecipazione a mera
eventualità
(precedenti citati: sentenze n. 314 del 2007, n. 179
del 1999, n. 155 del 1995 e n. 55 del 1968).
●
L'espropriazione costituisce una funzione
trasversale, che può esplicarsi in varie materie,
anche di competenza concorrente. Tra queste,
soprattutto, il «governo del territorio», per la
pacifica attrazione in quest'ultimo dell'urbanistica
(precedenti citati: sentenze n. 130 del 2020 e n.
254 del 2019).
La proroga in via legislativa dei vincoli
espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di
vista costituzionale, qualora essa si presenti sine
die o all'infinito (attraverso la reiterazione di
proroghe a tempo determinato che si ripetano
aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite
temporale sia indeterminato, cioè non sia certo,
preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in
termini di ragionevolezza
(precedente citato: sentenza n. 179 del 1999).
●
In materia espropriativa, i privati interessati,
prima che l'autorità pubblica adotti provvedimenti
limitativi dei loro diritti, devono essere messi in
condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a
tutela del proprio interesse, sia a titolo di
collaborazione nell'interesse pubblico
(precedente citato: sentenza n. 71 del 2015)
(Corte Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270). |
novembre 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L. Spallino,
Regione Lombardia: nuove proroghe alle convenzioni di lottizzazione
(30.11.2020 - link a www.dirittopa.it). |
URBANISTICA: Contenuto
del documento di piano e del piano delle
regole del PGT.
Il TAR Milano osserva:
«come la giurisprudenza della Sezione
chiarisca come i contenuti del Documento di
Piano attinenti alla disciplina degli ambiti
di trasformazione siano stabiliti
dall’articolo 8, comma 2, lett. e), della
L.r. n. 12 del 2005. La disposizione
prevede, in particolare, che il Documento di
Piano “individua, anche con rappresentazioni
grafiche in scala adeguata, gli ambiti di
trasformazione, definendone gli indici
urbanistico-edilizi in linea di massima, le
vocazioni funzionali e i criteri di
negoziazione, nonché i criteri di
intervento, preordinati alla tutela
ambientale, paesaggistica e
storico-monumentale, ecologica, geologica,
idrogeologica e sismica, laddove in tali
ambiti siano comprese aree qualificate a
tali fini nella documentazione conoscitiva”.
Le previsioni contenute nel Documento di
Piano “non producono effetto diretto perché,
trattandosi di disposizioni di massima, da
sole non sono sufficienti a definire in modo
compiuto le regole di carattere
urbanistico-edilizio che disciplinano gli
ambiti di trasformazione; a tal fine è
necessario l’intervento del piano attuativo
che, attraverso le regole di dettaglio,
dovrà definire in maniera puntuale il quadro
giuridico ad essi applicabile, con norme
aventi carattere prescrittivo”.
La giurisprudenza della Sezione differenzia,
sulla base del quadro normativo vigente, tra
il regime giuridico degli ambiti di
trasformazione e quello del tessuto urbano
consolidato. Per i primi la disciplina
giuridica è dettata “da una duplice fonte:
il documento di piano, che li individua e
detta le prescrizioni di massima che non
hanno però effetto diretto sul loro regime
giuridico; ed i piani attuativi che dettano
invece le prescrizioni di dettaglio aventi
effetti diretti sul loro regime giuridico”.
Conferma, inoltre, l’inidoneità delle
previsioni contenute nel documento di piano
a spiegare effetti diretti trattandosi di
regole di massima che necessitano di
previsioni puntuali rimesse alla
pianificazione attuativa.
Al contrario, “per gli ambiti del tessuto
urbano consolidato”, “l’art. 10, commi 2 e
3, della legge regionale n. 12 del 2005
attribuisce al Piano delle Regole la
definizione delle modalità di intervento e
dei parametri da rispettare negli interventi
di nuova edificazione; va aggiunto, inoltre,
che le indicazioni contenute nel Piano delle
Regole hanno carattere vincolante e
producono effetti diretti sul regime
giuridico dei suoli e non hanno termini di
validità”»
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.11.2020 n. 2182 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
9. Venendo al merito del terzo motivo
(i cui contenuti sono richiamati anche
nell’ottavo e nel nono motivo) il Collegio
osserva, in primo luogo, come la
giurisprudenza della Sezione chiarisca come
i contenuti del Documento di Piano attinenti
alla disciplina degli ambiti di
trasformazione siano stabiliti dall’articolo
8, comma 2, lett. e), della L.r. n. 12 del
2005.
La disposizione prevede, in particolare, che
il Documento di Piano “individua, anche
con rappresentazioni grafiche in scala
adeguata, gli ambiti di trasformazione,
definendone gli indici urbanistico-edilizi
in linea di massima, le vocazioni funzionali
e i criteri di negoziazione, nonché i
criteri di intervento, preordinati alla
tutela ambientale, paesaggistica e
storico-monumentale, ecologica, geologica,
idrogeologica e sismica, laddove in tali
ambiti siano comprese aree qualificate a
tali fini nella documentazione conoscitiva”.
9.1. Le previsioni contenute nel Documento
di Piano “non producono effetto diretto
perché, trattandosi di disposizioni di
massima, da sole non sono sufficienti a
definire in modo compiuto le regole di
carattere urbanistico-edilizio che
disciplinano gli ambiti di trasformazione; a
tal fine è necessario l’intervento del piano
attuativo che, attraverso le regole di
dettaglio, dovrà definire in maniera
puntuale il quadro giuridico ad essi
applicabile, con norme aventi carattere
prescrittivo” (cfr. TAR per la
Lombardia, sede di Milano, Sez. II,
07.11.2019, n. 1022).
9.2. La giurisprudenza della Sezione
differenzia, sulla base del quadro normativo
vigente, tra il regime giuridico degli
ambiti di trasformazione e quello del
tessuto urbano consolidato.
Per i primi la disciplina giuridica è
dettata “da una duplice fonte: il
documento di piano, che li individua e detta
le prescrizioni di massima che non hanno
però effetto diretto sul loro regime
giuridico; ed i piani attuativi che dettano
invece le prescrizioni di dettaglio aventi
effetti diretti sul loro regime giuridico”.
Conferma, inoltre, l’inidoneità delle
previsioni contenute nel documento di piano
a spiegare effetti diretti trattandosi di
regole di massima che necessitano di
previsioni puntuali rimesse alla
pianificazione attuativa (TAR per la
Lombardia – sede di Milano, 05.12.2014, n.
2971; Id., 06.02.2018, n. 347).
Al contrario, “per gli ambiti del tessuto
urbano consolidato”, “l’art. 10, commi 2
e 3, della legge regionale n. 12 del 2005
attribuisce al Piano delle Regole la
definizione delle modalità di intervento e
dei parametri da rispettare negli interventi
di nuova edificazione; va aggiunto, inoltre,
che le indicazioni contenute nel Piano delle
Regole hanno carattere vincolante e
producono effetti diretti sul regime
giuridico dei suoli e non hanno termini di
validità” (TAR per la Lombardia, sede di
Milano, Sez. II, 07.11.2019, n. 1022). |
URBANISTICA: Secondo
la giurisprudenza della Sezione “nessun
argomento favorevole alla ripubblicazione è
desumibile dalla legge regionale n. 12/2005,
la quale all’art. 13 pianamente prevede che
“entro novanta giorni dalla scadenza del
termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli
atti assunti, il Consiglio comunale decide
sulle stesse, apportando agli atti di PGT le
modificazioni conseguenti all’eventuale
accoglimento delle osservazioni” (comma 7) e
che “la deliberazione del Consiglio comunale
di controdeduzione alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali o
regionali di cui ai commi precedenti non è
soggetta a nuova pubblicazione” (comma 9)”.
Dello stesso avviso si mostra il Consiglio
di Stato secondo cui “la modifica del P.R.G.
adottato in accoglimento delle osservazioni
non comporta per il comune l’obbligo di
ripubblicazione del progetto di P.R.G. così
modificato solo se, da un lato, tutte le
modifiche introdotte derivano strettamente
dal contenuto delle osservazioni presentate
dai privati e favorevolmente vagliate
dall’amministrazione e, d’altro lato, se si
tratti di modifiche settoriali ed
esclusivamente incidenti sulla sfera
giuridica dei soggetti che hanno presentato
le corrispondenti osservazioni”.
Lo stesso Consiglio di Stato chiarisce: “in
linea di principio, se la pubblicazione del
progetto di piano regolatore generale
prevista dalle diverse e concordanti leggi
regionali è finalizzata alla presentazione
delle osservazioni da parte dei soggetti
interessati al progetto di piano quale
adottato dal Comune, essa non è richiesta di
regola per le successive fasi del
procedimento, anche se il piano risulti
modificato a seguito dell'accoglimento di
alcune osservazioni o modifiche introdotte
in sede di approvazione regionale, salvo che
si tratti di modifiche tali da stravolgere
il piano e comportare nella sostanza una
nuova adozione”.
Il principio che il Consiglio di Stato
ricava da “tale condivisibile regola
giurisprudenziale” è quello “per cui, salve
(marginali sotto il profilo statistico e
della concreta esperienza giurisprudenziale
[…]) ipotesi di stravolgimento del piano,
l’accoglimento dell’osservazione proposta
dal privato avviene con atto modificativo
che non determina ex se l’obbligo che il
piano faccia “navetta” e necessitino nuovi
incombenti di pubblicizzazione del
medesimo”.
---------------
10. Con il terzo motivo Coop lamenta
l’illegittimità della previsione derogatoria
di cui all’art. 8, co. 7, delle N.t.A. al
P.d.R. nella parte in cui dispone la
possibilità di “passaggio da media a
grande struttura di vendita” per il
tramite di un permesso convenzionato e non
attraverso pianificazione attuativa.
Tale titolo non imporrebbe una analisi di
impatto urbanistico soggetta al confronto
politico ma si sostanzierebbe in un atto
della Dirigenza amministrativa. Inoltre, la
previsione determinerebbe uno stravolgimento
delle previsioni del Piano adottato con
conseguente obbligo di ripubblicazione
(omesso nel caso di specie) e di riedizione
della procedura di V.A.S.
10.1. Le censure sono infondate.
10.2. Osserva il Collegio come il ricorso
allo strumento del permesso di costruire
convenzionato non privi l’Amministrazione di
un penetrante potere di verifica
dell’effettivo impatto urbanistico operando,
comunque, le regole dettate dalla D.G.R.
1193/2013. Tale atto normativo prevede lo
svolgimento di apposita istruttoria con
coinvolgimento dei soggetti coinvolti ed
indizione di una conferenza di servizi per
acquisire i pareri necessari alla verifica
di sostenibilità dell’intervento.
La “sottrazione” alla dialettica
politica non può, inoltre, ritenersi motivo
di illegittimità trattandosi di aspetti di
carattere eminentemente tecnico e, in ogni
caso, di una scelta amministrativa a valle
di una disciplina urbanistica voluta proprio
all’esito del confronto politico che conduce
alla variante.
10.3. Né sussiste l’obbligo di
ripubblicazione non trattandosi di una
opzione che stravolge il piano.
10.3.1. Secondo la giurisprudenza della
Sezione “nessun argomento favorevole alla
ripubblicazione è desumibile dalla legge
regionale n. 12/2005, la quale all’art. 13
pianamente prevede che “entro novanta giorni
dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni, a pena di
inefficacia degli atti assunti, il Consiglio
comunale decide sulle stesse, apportando
agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all’eventuale accoglimento delle
osservazioni” (comma 7) e che “la
deliberazione del Consiglio comunale di
controdeduzione alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali o
regionali di cui ai commi precedenti non è
soggetta a nuova pubblicazione” (comma 9)”
(TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez.
II, 07.06.2017, n. 1281).
Dello stesso avviso si mostra il Consiglio
di Stato secondo cui “la modifica del
P.R.G. adottato in accoglimento delle
osservazioni non comporta per il comune
l’obbligo di ripubblicazione del progetto di
P.R.G. così modificato solo se, da un lato,
tutte le modifiche introdotte derivano
strettamente dal contenuto delle
osservazioni presentate dai privati e
favorevolmente vagliate dall’amministrazione
e, d’altro lato, se si tratti di modifiche
settoriali ed esclusivamente incidenti sulla
sfera giuridica dei soggetti che hanno
presentato le corrispondenti osservazioni”
(Consiglio di Stato, Sez. III, 28.04.2009,
n. 950).
10.3.2. Lo stesso Consiglio di Stato
chiarisce: “in linea di principio, se la
pubblicazione del progetto di piano
regolatore generale prevista dalle diverse e
concordanti leggi regionali è finalizzata
alla presentazione delle osservazioni da
parte dei soggetti interessati al progetto
di piano quale adottato dal Comune, essa non
è richiesta di regola per le successive fasi
del procedimento, anche se il piano risulti
modificato a seguito dell'accoglimento di
alcune osservazioni o modifiche introdotte
in sede di approvazione regionale, salvo che
si tratti di modifiche tali da stravolgere
il piano e comportare nella sostanza una
nuova adozione” (Consiglio di Stato,
Sez. IV, 09.03.2011, n. 1503).
Il principio che il Consiglio di Stato
ricava da “tale condivisibile regola
giurisprudenziale” è quello “per cui,
salve (marginali sotto il profilo statistico
e della concreta esperienza
giurisprudenziale […]) ipotesi di
stravolgimento del piano, l’accoglimento
dell’osservazione proposta dal privato
avviene con atto modificativo che non
determina ex se l’obbligo che il piano
faccia “navetta” e necessitino nuovi
incombenti di pubblicizzazione del medesimo”
(Consiglio di Stato, sez. IV, 13.03.2014, n.
1241).
10.3.3. Il principio affermato dalla
giurisprudenza impone, quindi, di verificare
se le modificazioni apportate costituiscano
uno stravolgimento del piano o, comunque,
determinino un mutamento delle
caratteristiche di fondo e dei criteri
generali da cui muovono le concrete scelte
pianificatorie.
10.3.4. Nel caso di specie, si osserva già
in precedenza come non si tratti di una
scelta derogatoria delle linee portanti del
Piano ma, al contrario, di una opzione che
si inserisce all’interno degli assetti
prescelti dal pianificatore. Non è, quindi,
predicabile un obbligo di ripubblicazione
del Piano.
10.4. Per le stesse ragioni non è
condivisibile il rilievo della ricorrente
secondo cui occorrerebbe rinnovare le
operazioni di V.A.S. Infatti, la decisione
comunale lascia inalterata l’esclusione
della possibilità di introdurre nuove G.S.V.
prevedendo esclusivamente limitate
possibilità nell’ambito di precisi
presupposti e, comunque, in aree già
urbanizzate. Per tale ragione conservano
valenza le risultanze del rapporto
ambientale non essendo compromesse le
esigenze su cui si fonda la scelta
urbanistica generale (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 12.11.2020 n. 2139 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Nella seduta del 07.10.2020, il Consiglio dei
Ministri ha deliberato di impugnare dinanzi alla
Consulta l'art. 28 della L.R. 07.08.2020 n. 18
recante ad oggetto "Assestamento al bilancio
2020–2022 con modifiche di leggi regionali".
Legge della regione Lombardia 07.08.2020 n. 18 “Assestamento
al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi
regionali” presenta alcuni profili di non
conformità alla Carta costituzionale e va pertanto
impugnata per le ragioni che si illustrano.
L’art. 28 della legge in parola interviene sulla
durata della validità dei titoli edilizi,
paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione
disciplinandola riguardo alla proroga dei termini in
modo difforme da quanto previsto dall'articolo 103,
commi 2 e 2-bis, del decreto-legge n. 18/2020,
convertito dalla legge n. 27/2020, nonché
dall’articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge
n. 76/2020, convertito dalla legge n. 120/2020,
senza peraltro prevedere la comunicazione del
soggetto interessato di volersene avvalere e senza
far salva la compatibilità dei titoli abilitativi
con nuovi strumenti urbanistici approvati o
adottati, in violazione dei principi fondamentali
della materia edilizia, rientrante in quella più
generale del «governo del territorio» oggetto
di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma,
Cost..
Si evidenzia preliminarmente che, anche nell'attuale
situazione di emergenza collegata alla diffusione
del virus Covid-19, gli interventi normativi delle
Regioni e delle Province autonome, nello specifico
in materia edilizia, debbano armonizzarsi con il
complesso dei provvedimenti adottati dallo Stato
finalizzati a garantire la salute dei cittadini e al
contempo sostenere il sistema economico e non
possano produrre deroghe alla normativa statale di
settore superando l'ambito di competenza sopra
menzionato.
Ciò posto, va evidenziato che, in considerazione
della situazione emergenziale in atto, il
legislatore nazionale è intervenuto sulla disciplina
dei titoli abilitativi agli interventi edilizi e
sulle convenzioni di lottizzazione, prorogandone la
validità.
In particolare:
1) l'articolo 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 17.03.2020,
18 (recante "Misure di potenziamento del Servizio
sanitario nazionale e di sostegno economico per
famiglie, lavoratori e imprese connesse
all'emergenza epidemiologica da COVID-19"),
convertito, con modificazioni, dalla legge
24.04.2020, n. 27, ha disposto che:
"(omissis)
2. Tutti i certificati, attestati, permessi,
concessioni, autorizzazioni e atti abilitativi
comunque denominati, compresi i termini di inizio e
di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del
testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, in scadenza tra il
31.01.2020 e il 31.07.2020, conservano la loro
validità per i novanta giorni successivi alla
dichiarazione di cessazione dello stato di
emergenza. La disposizione di cui al periodo
precedente si applica anche alle segna/azioni
certificate di inizio attività, alle segnalazioni
certificate di agibilità, nonché alle autorizzazioni
paesaggistiche e alle autorizzazioni ambientali
comunque denominate. Il medesimo termine si applica
anche al ritiro dei titoli abilitativi edilizi
comunque denominati rilasciati fino alla
dichiarazione di cessazione dello stato di
emergenza.
2-bis. Il termine di validità nonché i termini di
inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di
lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge
17.08.1942, n. 1150, ovvero dagli accordi similari
comunque denominati dalla legislazione regionale,
nonché i termini dei relativi piani attuativi e di
qualunque altro atto ad essi propedeutico, in
scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020, sono
prorogati di novanta giorni. La presente
disposizione si applica anche ai diversi termini
delle convenzioni di lottizzazione di cui
all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150,
ovvero degli accordi similari comunque denominati
dalla legislazione regionale nonché dei relativi
piani attuativi che hanno usufruito della proroga di
cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dalla legge 09.08.2013, n. 98";
2) l'articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto legge 16.07.2020, n.
76 (recante "Misure urgenti per la
semplificazione e l'innovazione digitale”)
convertito, con modificazioni, dalla legge
11.09.2020, n. 120, ha previsto che:
"(omissis).
4. Per effetto della comunicazione del soggetto
interessato di volersi avvalere del presente comma,
sono prorogati rispettivamente di un anno e di tre
anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori
di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380, come indicati
nei permessi di costruire rilasciati o comunque
formatisi fino al 31.12.2020, purché i suddetti
termini non siano già decorsi al momento della
comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli
abilitativi non risultino in contrasto, al momento
della comunicazione dell'interessato, con nuovi
strumenti urbanistici approvati o adottati. Le
disposizioni di cui al primo periodo del presente
comma si applicano anche ai permessi di costruire
per i quali l'amministrazione competente abbia già
accordato una proroga ai sensi dell'articolo 15,
comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380. La medesima proroga si applica
alle segnalazioni certificate di inizio attività
presentate entro lo stesso termine ai sensi degli
articoli 22 e 23 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380.
4-bis. Il termine di validità nonché i termini di
inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di
lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge
17.08.1942, n. 1150, dagli accordi similari comunque
denominati dalla legislazione regionale, nonché i
termini dei relativi piani attuativi e di qualunque
altro atto ad essi propedeutico, formatisi al
31.12.2020, sono prorogati di tre anni. La presente
disposizione si applica anche ai diversi termini
delle convenzioni di lottizzazione di cui
all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, o
degli accordi similari comunque denominati dalla
legislazione regionale nonché dei relativi piani
attuativi che hanno usufruito della proroga di cui
all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dalla legge 09.08.2013, n. 98".
Passando all'analisi della legge regionale,
approvata in data 28.07.2020, l'articolo 28 recita:
"1. Anche in
considerazione del permanere di gravi difficoltà per
il settore delle costruzioni, derivanti
dall'emergenza epidemiologica da COVID-19, è
prorogata la validità:
a) di tutti i certificati, attestati, permessi,
concessioni, autorizzazioni e atti o titoli
abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal
31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla
data di relativa scadenza;
b) delle convenzioni di lottizzazione di cui
all'articolo 46 della legge regionale 11.03.2005, n.
12 (Legge per il governo del territorio) e dei
termini da esse stabiliti, nonché di quelli
contenuti in accordi similari, comunque denominati,
previsti dalla legislazione regionale in materia
urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di
entrata in vigore della presente legge, che
conservano validità per tre anni dalla relativa
scadenza.
2. Le scadenze dei termini previsti agli articoli 8-bis, commi i e
2, e 40-bis, comma 1, primo e quarto periodo, della
L.R. 12/2005, nonché del termine di cui all'articolo
8, comma 2, della legge regionale 26.11.2019, n. 18
(Misure di semplificazione e incentivazione per la
rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il
recupero del patrimonio edilizio esistente.
Modifiche e integrazioni alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del
territorio" e ad altre leggi regionali), differite
in applicazione dell'articolo 1, comma 1, della
legge regionale 31.03.2020, n. 4 (Differimento dei
termini stabiliti da leggi e regolamenti regionali e
disposizioni urgenti in materia contabile e di
agriturismi, in considerazione dello stato di
emergenza epidemiologica da COVID-19), sono
prorogate fino al 31.12.2020.
3. L'efficacia delle deliberazioni della Giunta regionale relative
ai criteri di cui agli articoli 11, comma 5, e 43,
comma 2-quinquies, della L.R. 12/2005 è sospesa per
novanta giorni dalla data di pubblicazione nel
Bollettino ufficiale della Regione Lombardia delle
stesse deliberazioni per consentire e agevolare le
valutazioni di competenza dei comuni, ai fini della
relativa applicazione”.
Così delineato il quadro normativo di riferimento,
si rappresenta che è principio pacifico nella
giurisprudenza della Corte Costituzionale quello
secondo cui, nell'ambito della materia concorrente «governo
del territorio», prevista dall'articolo 117,
comma terzo, della Costituzione, i titoli
abilitativi agli interventi edilizi costituiscono
oggetto di una disciplina che assurge a principio
fondamentale (sentenze n. 259 del 2014, n. 139 e n.
102 del 2013 n. 303 del 2003).
Con riguardo alla portata dei «principi
fondamentali» riservati alla legislazione
statale nelle materie di potestà concorrente, la
Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire, tra
l'altro, che «il rapporto tra normativa di
principio e normativa di dettaglio [...] deve essere
inteso nel senso che l'una è volta a prescrivere
criteri ed obiettivi, mentre all'altra spetta
l'individuazione degli strumenti concreti da
utilizzare per raggiungere quegli obiettivi»
(sentenze n. 272 del 2013 e n. 237 del 2009).
La legge regionale in esame, nel regolamentare la
disciplina della validità dei titoli edilizi,
paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione,
lungi dall'adottare una disciplina di dettaglio
rispetto a quella statale, ha introdotto una
normativa sostitutiva dei principi dettati dal
legislatore statale.
Ed invero l'articolo 28 della legge regionale nel
prevedere, al comma 10, lettera a), che la validità
di attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni
e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in
scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, è tre
anni dalla data di relativa scadenza, si pone in
contrasto con la previsione contenuta nell'articolo
103, comma 2, del decreto-legge n. 18 del 2020, che,
individua un meccanismo di proroga automatica dei
titoli in scadenza tra il 31.01.2020 e il
31.07.2020, e fissa il termine finale della stessa
al novantesimo giorno successivo alla dichiarazione
di cessazione dello stato di emergenza.
Peraltro, la medesima disposizione, diversamente sia
dal testo dell'articolo 10, comma 4, del
decreto-legge n. 76 del 2020 vigente alla data di
approvazione della disposizione regionale che dal
testo del medesimo articolo 10, comma 4, del citato
decreto-legge, come modificato dalla legge di
conversione:
- individua un termine di proroga diverso disponendo, per quelli in
scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, la
proroga per tre anni dalla data di relativa
scadenza. Al riguardo, si sottolinea che l'articolo
10, comma 4, del decreto semplificazioni (anche
prima delle modifiche apportate della legge di
conversione), stabilisce la proroga, rispettivamente
di un anno e di tre anni dei termini di inizio e di
ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001,
n. 380, come indicati nei permessi di costruire
rilasciati o comunque formatisi fino al 31.12.2020;
- non ancora l'operatività della proroga alla comunicazione del
soggetto interessato di volersene avvalere;
- non contiene la previsione che fa salva la compatibilità dei i
titoli abilitativi, con nuovi strumenti urbanistici
approvati o adottati.
In relazione alla disciplina delle convenzioni di
lottizzazioni, l'articolo 28, comma 1, lettera b),
della legge regionale, nel prevedere la proroga per
gli atti "stipulati antecedentemente alla data di
entrata in vigore della presente legge, che
conservano validità per tre anni dalla relativa
scadenza", si pone in contrasto:
- con l'articolo 103, comma 2-bis, del decreto-legge c.d. Cura
Italia vigente al momento dell'approvazione e della
successiva pubblicazione della legge regionale, che
stabilisce la proroga per le convenzioni di
lottizzazione e i piani attuativi in scadenza tra il
31.01.2020 e il 31.07.2020;
- con l'articolo 10, comma 4-bis, del decreto-legge c.d.
Semplificazione, che individua il termine di
validità nonché i termini di inizio e fine lavori
previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui
all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150,
dagli accordi similari comunque denominati dalla
legislazione regionale, nonché i termini dei
relativi piani attuativi e di qualunque altro atto
ad essi propedeutico, formatisi al 31.12.2020, sono
prorogati di tre anni.
Alla luce della ricostruzione sopra effettuata, la
legge regionale in esame comporta l'invasione della.
riserva di competenza statale alla formulazione di
principi fondamentali, con tutti i rischi per la
certezza e per l'unitarietà della disciplina che
tale invasione comporta.
Il contrasto tra la disciplina statale e quella
regionale comporta la violazione dei principi
fondamentali della materia edilizia, rientrante in
quella più generale del «governo del territorio»
oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo
comma, Cost., in quanto la disciplina statale dei "titoli
edilizi" costituisce norma di principio (Corte
costituzionale 09.03.2016, 49).
Per le esposte ragioni, si ritiene
quindi di impugnare innanzi alla Corte
costituzionale, ai sensi dell’articolo 127 della
Costituzione, la
legge della Regione Lombardia n. 18
del 2020, limitatamente all’articolo 28, che
interviene sulla durata della validità dei titoli
edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di
lottizzazione, in violazione dei principi
fondamentali della materia edilizia, rientrante in
quella più generale del governo del territorio
oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo
comma, Cost., con riferimento all'articolo 103,
commi 2 e 2-bis, del decreto-legge n. 18/2020,
convertito dalla legge n. 27/2020, nonché
all’articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge
n. 76/2020, convertito dalla legge n. 120/2020
(07.10.2020 - commento tratto da e link a
www.affariregionali.gov.it).
---------------
Si legga, al riguardo:
●
Ricorso per questione di legittimità costituzionale
depositato in cancelleria il 13.10.2020
(del Presidente del Consiglio dei ministri)
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione
Lombardia - Differimento di termini e sospensione
dell’efficacia di atti in materia di governo del
territorio in considerazione dell’emergenza
epidemiologica da COVID-19 - Proroga della validità
di certificati, attestati, permessi, concessioni,
autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque
denominati, e delle convenzioni di lottizzazione.
– Legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18
(Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di
leggi regionali), art. 28. |
agosto 2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Disapplicazione
del DM 1444/1968 ad opera dell’art. 103
della L.R. 12/2005.
L’art. 103, comma 1-bis,
L.R. n. 12/2005, lungi dallo stabilire una
disapplicazione in via generale del D.M. n.
1444/1968, si limita invero a consentire ai
Comuni di redigere i propri Piani di governo
del territorio senza rispettare le
disposizioni dettate dal D.M. n. 1444/1968.
È solo in sede di redazione dei nuovi PGT
sostitutivi dei precedenti PRG che, quindi,
“ai fini dell'adeguamento, ai sensi
dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli
strumenti urbanistici vigenti”, i Comuni
potevano derogare a determinati limiti posti
dal decreto ministeriale.
Questa interpretazione rinviene un autorevole avallo nella
Corte Costituzionale che, con la recente
sentenza n. 13 del 07.02.2020, evidenzia
come si tratti di “una disciplina volta a
regolare la sola fase transitoria di
adeguamento degli strumenti urbanistici
vigenti, modulata secondo precise scansioni
temporali, e non la revisione dei piani di
governo del territorio già approvati”.
Tale disposizione, “pur posteriore alla
«Legge per il governo del territorio» del
2005, si colloca in un orizzonte temporale
definito, legato all’adeguamento degli
strumenti urbanistici vigenti e alla
successiva transizione ai piani di governo
del territorio, che si configurano come i
nuovi strumenti di pianificazione
urbanistica previsti dalla legislazione
regionale”.
In tal senso, depone “l’univoco dettato
letterale, che richiama l’adeguamento,
secondo le cadenze predeterminate dall’art.
26, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12
del 2005, e postula un nesso di
strumentalità della disapplicazione rispetto
all’adeguamento stesso”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.08.2020 n. 1576 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
1. Con il
ricorso in epigrafe, Eu. s.r.l., premesso di
essere una società operante nel settore
immobiliare, ha impugnato il provvedimento
assunto in data 25.06.2019 dal Comune di
Seregno con cui si comunicava, con
riferimento all’immobile sito in via ... 32,
il “diniego definitivo del Permesso di
costruire per l'esecuzione degli interventi
edilizi, sulla scorta delle motivazioni già
espresse nel preavviso di diniego richiamato
in premessa e che restano confermate: 1.
l’altezza massima del nuovo edificio in
progetto derivante da ristrutturazione
edilizia, ex art. 3, lett. d), del DPR
380/2001, supera l’altezza degli edifici
preesistenti e circostanti”.
2. Con il primo motivo, si deduce
l’illegittimità del diniego del permesso di
costruire per violazione dell’art. 103,
comma 1-bis, della L.R. Lombardia n.
12/2005.
2.1. La disposizione in esame prevede che “Ai
fini dell'adeguamento, ai sensi
dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli
strumenti urbanistici vigenti, non si
applicano le disposizioni del decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti
inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza fra i fabbricati e
rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività
collettive, al verde pubblico o a parcheggi
da osservare ai fini della formazione dei
nuovi strumenti urbanistici o della
revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n.
765), fatto salvo, limitatamente agli
interventi di nuova costruzione, il rispetto
della distanza minima tra fabbricati pari a
dieci metri, derogabile tra fabbricati
inseriti all'interno di piani attuativi e di
ambiti con previsioni planivolumetriche
oggetto di convenzionamento unitario”.
L’amministrazione comunale, ritenendo
applicabili alla fattispecie i limiti di
altezza posti dall’art. 8 del D.M. n.
1444/1968 in difetto di una specifica
previsione sul punto nella propria
disciplina urbanistica, avrebbe violato la
norma regionale predetta, che vieterebbe, in
tesi, di fare applicazione del decreto
ministeriale citato.
2.2. La tesi non è condivisibile.
L’art. 103, comma 1-bis, L.R. n. 12/2005,
lungi dallo stabilire una disapplicazione in
via generale del D.M. n. 1444/1968, si
limita invero a consentire ai Comuni di
redigere i propri Piani di governo del
territorio senza rispettare le disposizioni
dettate dal D.M. n. 1444/1968.
È solo in sede di redazione dei nuovi PGT
sostitutivi dei precedenti PRG che, quindi,
“ai fini dell'adeguamento, ai sensi
dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli
strumenti urbanistici vigenti”, i Comuni
potevano derogare a determinati limiti posti
dal decreto ministeriale.
Questa interpretazione, già affermata dalla
Sezione (cfr.
sentenza 22.07.2020 n. 1413, rinviene un autorevole avallo nella
Corte Costituzionale che, con la recente
sentenza n. 13 del 07.02.2020,
evidenzia come si tratti di “una disciplina
volta a regolare la sola fase transitoria di
adeguamento degli strumenti urbanistici
vigenti, modulata secondo precise scansioni
temporali, e non la revisione dei piani di
governo del territorio già approvati”.
Tale
disposizione, “pur posteriore alla «Legge
per il governo del territorio» del 2005, si
colloca in un orizzonte temporale definito,
legato all’adeguamento degli strumenti
urbanistici vigenti e alla successiva
transizione ai piani di governo del
territorio, che si configurano come i nuovi
strumenti di pianificazione urbanistica
previsti dalla legislazione regionale”.
In
tal senso, depone “l’univoco dettato
letterale, che richiama l’adeguamento,
secondo le cadenze predeterminate dall’art.
26, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12
del 2005, e postula un nesso di strumentalità della disapplicazione rispetto
all’adeguamento stesso”.
2.3. Non essendo stata prevista, dunque, nel
PGT di Seregno una deroga alla disposizione
sull’altezza degli edifici, correttamente il
Comune ha fatto applicazione dell’art. 8 del
D.M. 1444/1968, in sede di decisione sulla
specifica richiesta di permesso di
costruire. |
marzo 2020 |
|
URBANISTICA: Compensazione
e perequazione.
Il TAR Milano con
riferimento agli istituti della
compensazione e della perequazione precisa:
«come l’istituto della compensazione, a
differenza di quello della perequazione, non
ha quale precipua finalità quella di
mitigare le disuguaglianze che si producono
con la pianificazione urbanistica ma mira ad
individuare una forma di remunerazione
alternativa a quella pecuniaria per i
proprietari dei suoli destinati
all’espropriazione, consistente
nell’attribuzione di diritti edificatori che
potranno essere trasferiti, anche mediante
cessione onerosa (articolo 11, commi 3 e 4,
della L.r. n. 12 del 2005).
Come osservato dalla Sezione, i modelli
configurati dal legislatore regionale non
hanno carattere stringente ma possono
essere, per determinati aspetti, adattati
dai Comuni al fine di assecondarli alle
specifiche esigenze di pianificazione.
Infatti, “gli istituti della perequazione e
della compensazione urbanistica trovano
fondamento in due pilastri fondamentali del
nostro ordinamento, che travalicano le
previsioni contenute nelle diverse leggi
regionali, e precisamente nella potestà
conformativa del diritto proprietà di cui è
titolare l'Amministrazione nell'esercizio
della propria attività di pianificazione, ai
sensi dell’art. 42, comma primo, Cost., e,
al contempo, nella possibilità di utilizzare
modelli consensuali per il perseguimento di
finalità di interesse pubblico, secondo
quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis,
e 11 della legge n. 241 del 1990.
In ragione di quanto esposto, la Sezione
correttamente ritiene possibili adattamenti
dei modelli previsti dalla legislazione
regionale al fine di soddisfare le esigenze
delle Amministrazioni locali e di realizzare
l’interesse pubblico. Interpretazione che,
come riconosciuto dalla Sezione, “si pone in
linea con i rilievi espressi da una parte
della dottrina” che auspica “l’astensione
dei legislatori regionali dal dettare
normative stringenti in materia […] al fine
di evitare che in tal modo si imbrigliassero
eccessivamente le scelte compiute in sede di
pianificazione” (TAR Lombardia–Milano, Sez.
II, 11.06.2014, n. 1542, che richiama, sul
punto, la delibera di Giunta Regionale n.
VIII/1681 del 29.12.2005, la quale, al punto
2.1.3, chiarisce che, con la previsione di
cui all’articolo 11, il legislatore
individua solo dei modelli di riferimento
“che lasciano comunque grande spazio ad una
vasta gamma di soluzioni soprattutto di tipo
intermedio”)» (nella fattispecie, come
sintetizzato da TAR «i ricorrenti deducono
la violazione della previsione di cui
all’articolo 11, comma 3, della L.r. n. 12
del 2005.
Osservano i ricorrenti come, nel caso di
specie, “aree pubbliche destinate alla
realizzazione di interventi di interesse
pubblico sono trasferite non al Comune ma al
privato”, per il tramite di un piano
attuativo. Si realizza, quindi, la permuta
di un’area privata edificabile, che viene,
in tutto o in parte destinata a interventi
di interesse pubblico mentre l’area, già
comunale, destinata ad interventi di
interesse pubblico viene trasferita al
privato»)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.03.2020 n. 444 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
9. Con il
secondo motivo di ricorso i ricorrenti
deducono la violazione della previsione di
cui all’articolo 11, comma 3, della L.r. n.
12 del 2005. Osservano i ricorrenti come,
nel caso di specie, “aree pubbliche
destinate alla realizzazione di interventi
di interesse pubblico sono trasferite non al
Comune ma al privato”, per il tramite di
un piano attuativo.
Si realizza, quindi, la permuta di un’area
privata edificabile, che viene, in tutto o
in parte destinata a interventi di interesse
pubblico mentre l’area, già comunale,
destinata ad interventi di interesse
pubblico viene trasferita al privato.
9.1. Il motivo è infondato.
9.2. Osserva il Collegio come l’istituto
della compensazione, a differenza di quello
della perequazione, non ha quale precipua
finalità quella di mitigare le
disuguaglianze che si producono con la
pianificazione urbanistica ma mira ad
individuare una forma di remunerazione
alternativa a quella pecuniaria per i
proprietari dei suoli destinati
all’espropriazione, consistente
nell’attribuzione di diritti edificatori che
potranno essere trasferiti, anche mediante
cessione onerosa (articolo 11, commi 3 e 4,
della L.r. n. 12 del 2005).
Come osservato dalla Sezione, i modelli
configurati dal legislatore regionale non
hanno carattere stringente ma possono
essere, per determinati aspetti, adattati
dai Comuni al fine di assecondarli alle
specifiche esigenze di pianificazione (TAR
per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II,
11.06.2014, n. 1542).
Infatti, “gli istituti della perequazione
e della compensazione urbanistica trovano
fondamento in due pilastri fondamentali del
nostro ordinamento, che travalicano le
previsioni contenute nelle diverse leggi
regionali, e precisamente nella potestà
conformativa del diritto proprietà di cui è
titolare l'Amministrazione nell'esercizio
della propria attività di pianificazione, ai
sensi dell’art. 42, comma primo, Cost., e,
al contempo, nella possibilità di utilizzare
modelli consensuali per il perseguimento di
finalità di interesse pubblico, secondo
quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis,
e 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.07.2010 n.
4545; TAR Campania, Salerno, sez. I,
05.07.2002 n. 670, TAR Veneto sez. I,
19.05.2009, n. 1504)” (TAR per la
Lombardia – sede di Milano, Sez. II,
11.06.2014, n. 1542).
9.3. In ragione di quanto esposto, la
Sezione correttamente ritiene possibili
adattamenti dei modelli previsti dalla
legislazione regionale al fine di soddisfare
le esigenze delle Amministrazioni locali e
di realizzare l’interesse pubblico.
Interpretazione che, come riconosciuto dalla
Sezione, “si pone in linea con i rilievi
espressi da una parte della dottrina” che
auspica “l’astensione dei legislatori
regionali dal dettare normative stringenti
in materia […] al fine di evitare che in tal
modo si imbrigliassero eccessivamente le
scelte compiute in sede di pianificazione”
(TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez.
II, 11.06.2014, n. 1542, che richiama, sul
punto, la delibera di Giunta Regionale n.
VIII/1681 del 29.12.2005, la quale, al punto
2.1.3, chiarisce che, con la previsione di
cui all’articolo 11, il legislatore
individua solo dei modelli di riferimento “che
lasciano comunque grande spazio ad una vasta
gamma di soluzioni soprattutto di tipo
intermedio”).
9.4. Del resto, la possibilità di
adattamento del modello di compensazione non
è propriamente contestato da parte dei
ricorrenti che, in memoria conclusiva,
deducono la non operatività del principio
esposto stante il non concreto perseguimento
di un interesse pubblico. Tesi che il
Collegio, tuttavia, non condivide per le
ragioni già in precedenza illustrate che
ritengono configurabile un interesse
pubblico nell’operazione complessivamente
effettuata dall’Amministrazione (cfr.,
retro, punti 8.4 ss. della presente
sentenza). |
febbraio 2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Per
quanto attiene alla nozione di area agricola strategica la
giurisprudenza ha riconosciuto che il concetto di area a vocazione
agricola e il concetto di area agricola strategica non sono
sovrapponibili.
In particolare, è stato detto che “In disparte l’elemento storico
(provenienza dei due concetti da differenti impianti normativi) e testuale
(l’espressa connotazione delimitativa delle aree agricole strategiche),
appare corretta la lettura del TAR che ha evidenziato come anche la Regione
Lombardia avesse individuato diversamente i criteri per la definizione degli
ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico, attraverso
delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, da dove si evince che gli
ambiti strategici non sono tutti quelli destinati all’agricoltura, ma solo
quelle parti di territorio caratterizzate da elementi di particolare
rilievo”.
Tuttavia l’idoneità dei terreni della ricorrente a soddisfare esigenze
agricole risulta motivata dalla Provincia con elementi che sono desunti
proprio dalla delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, come la
valutazione della classe del valore agro-forestale e l'estensione e
continuità territoriale di scala sovracomunale (v. il punto 2 della
deliberazione regionale citata).
A ciò si aggiunge che il carattere strategico dell’area non è legato alle
sole esigenze dell’agricoltura ma anche a quelle silvo-pastorali.
---------------
La società ricorrente, proprietaria nel comune di Agrate Brianza di un’area
a destinazione agricola secondo il PGT vigente, ha impugnato il PTCP della
Provincia di Monza e Brianza in quanto l’ha inserita all’interno delle aree
agricole strategiche individuate dalla tavola 7b e disciplinate dall'art. 6
delle NTA del Piano stesso.
La ricorrente premette che l’area è inserita in un contesto fortemente
urbanizzato e dotato di tutte le infrastrutture di servizio ed è situata
nella zona artigianale/industriale del comune di Agrate Brianza e confina
con importanti aziende locali e con l’ambito di trasformazione (ATp6)
produttivo. Per tali ragioni ha presentato un’osservazione alla Provincia
per ottenere lo stralcio dell’area dagli ambiti agricoli strategici ma la
Provincia l’ha ritenuta inaccoglibile in quanto ”l'inserimento in AAS è
coerente con i criteri per l’individuazione degli ambiti e con
l'impostazione metodologica del procedimento di individuazione effettuato”.
Contro il piano approvato ha quindi sollevato i seguenti motivi di ricorso.
1. Illegittimità per violazione dell'art. 11, comma 4, della legge
regionale n. 12 del 2005 sotto il profilo del mancato rispetto del criteri
regionali per la definizione degli ambiti agricoli strategici. Eccesso di
potere nelle sue diverse figure sintomatiche. Violazione dell'art. 41 della
Costituzione.
Secondo la ricorrente la qualificazione del fondo in oggetto quale area
agricola strategica si porrebbe in contrasto con la deliberazione della
Giunta regionale della Lombardia n. 8059 del 2008 secondo la quale non tutti
gli ambiti agricoli presentano specifiche peculiarità tali da essere
definiti o riconosciuti come ambiti strategici.
Gli ambiti agricoli strategici non avrebbero funzione di salvaguardia dalla
edificazione (come pure le aree agricole classiche sono state a volte
considerate, sebbene con qualche contrasto in dottrina e giurisprudenza) ma
assumerebbero la caratteristica di aree con vocazione economico-produttiva
riguardo agli utilizzi agricoli. Gli elementi necessari per qualificare
un’area agricola strategica sarebbero: a) inclusione tra le zone agricole
del PGT; b) classificazione a "prati permanenti" contenuta nel DUSAF
(banca dati dell'uso e copertura del suolo); c) continuità con altri ambiti
agricoli strategici; d) inclusione nell'area di ricarica diretta degli
acquiferi in base alla tavola 9 del PTCP di Monza come "prati permanenti".
Nessuno degli elementi innanzi considerati dalla provincia di Monza nella
sua attività istruttoria per la formazione del PTCP avrebbe evidenziato
quelle specifiche caratteristiche di "produttività agricola"
necessarie per connotare l'area di cui è causa tra gli ambiti agricoli
strategici.
...
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Per quanto attiene alla nozione di area agricola strategica la
giurisprudenza (Cons. Stato, IV, 01/09/2015 n. 4081; idem Cons. Stato, I,
04.07.2017 n. 1607; TAR Lombardia, Brescia, I, 08/05/2017 n. 614) ha
riconosciuto che il concetto di area a vocazione agricola e il
concetto di area agricola strategica non sono sovrapponibili.
In particolare, è stato detto che “In disparte l’elemento storico
(provenienza dei due concetti da differenti impianti normativi) e testuale
(l’espressa connotazione delimitativa delle aree agricole strategiche),
appare corretta la lettura del TAR che ha evidenziato come anche la Regione
Lombardia avesse individuato diversamente i criteri per la definizione degli
ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico, attraverso
delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, da dove si evince che gli
ambiti strategici non sono tutti quelli destinati all’agricoltura, ma solo
quelle parti di territorio caratterizzate da elementi di particolare rilievo”
(v. Cons. Stato, IV, 01/09/2015 n. 4081).
Tuttavia l’idoneità dei terreni della ricorrente a soddisfare esigenze
agricole risulta motivata dalla Provincia con elementi che sono desunti
proprio dalla delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, come la
valutazione della classe del valore agro-forestale e l'estensione e
continuità territoriale di scala sovracomunale (v. il punto 2 della
deliberazione regionale citata).
A ciò si aggiunge che, a differenza di quanto affermato dalla ricorrente, il
carattere strategico dell’area non è legato alle sole esigenze
dell’agricoltura ma anche a quelle silvo-pastorali. Né d’altro canto la
ricorrente ha contestato i dati provenienti dall’ERSAF, limitandosi
piuttosto ad un più generico motivo di difetto di motivazione (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.02.2020 n. 266 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia,
disapplicazione D.M. 02.04.1968, n. 1444 in
sede di adeguamento degli strumenti
urbanistici.
La Corte Costituzionale: “dichiara
inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 103, comma 1-bis,
della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), sollevate, in riferimento agli
artt. 117, secondo comma, lettera l), e
terzo comma, della Costituzione, dal
Consiglio di Stato, sezione prima, con
l’ordinanza indicata in epigrafe”.
La Corte ricorda che:
“1.1.– La disposizione censurata è stata
aggiunta dall’art. 1, comma 1, lettera xxx),
della legge della Regione Lombardia
14.03.2008, n. 4, recante «Ulteriori
modifiche e integrazioni alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio)», e prevede che, ai
fini dell’adeguamento, «ai sensi
dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli
strumenti urbanistici vigenti, non si
applicano le disposizioni del decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444».
La disciplina in esame salvaguarda, per i
soli interventi di nuova costruzione, «il
rispetto della distanza minima tra
fabbricati pari a dieci metri» e ne consente
la deroga soltanto «tra fabbricati inseriti
all’interno di piani attuativi e di ambiti
con previsioni planivolumetriche oggetto di
convenzionamento unitario», in base alla
previsione introdotta dall’art. 4, comma 1,
lettera k), della legge della Regione
Lombardia 26.11.2019, n. 18, recante «Misure
di semplificazione e incentivazione per la
rigenerazione urbana e territoriale, nonché
per il recupero del patrimonio edilizio
esistente. Modifiche e integrazioni alla
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per
il governo del territorio) e ad altre leggi
regionali».
La distanza minima di dieci metri, nel
rispetto di quanto previsto dagli artt. 873
e 907 del codice civile, è altresì
«derogabile per lo stretto necessario alla
realizzazione di sistemi elevatori a
pertinenza di fabbricati esistenti che non
assolvano al requisito di accessibilità ai
vari livelli di piano» (art. 103, comma
1-ter, della legge regionale n. 12 del 2005,
aggiunto dall’art. 12, comma 1, della legge
della Regione Lombardia 13.03.2012, n. 4,
recante «Norme per la valorizzazione del
patrimonio edilizio esistente e altre
disposizioni in materia urbanistico-edilizia»)”.
Nel giudizio la Regione Lombardia ha
eccepito l’inammissibilità delle questioni
in ragione dell’inadeguata motivazione in
punto di rilevanza: il rimettente non
avrebbe argomentato in alcun modo in ordine
alla necessità di applicare una disposizione
che riguarda specificamente la fase di
adeguamento degli strumenti urbanistici
vigenti.
La Corte Costituzionale accoglie l’eccezione
di inammissibilità sulla base delle seguenti
motivazioni:
“6.1.– La disposizione censurata esclude
l’applicazione delle previsioni del d.m. n.
1444 del 1968 e puntualizza che tale
disapplicazione opera «[a]i fini
dell’adeguamento, ai sensi dell’articolo 26,
commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici
vigenti».
L’art. 26, comma 2, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005 dispone che i
Comuni deliberino l’avvio del procedimento
di adeguamento dei piani regolatori generali
vigenti entro un anno dall’entrata in vigore
della medesima legge, pubblicata sul
Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia
del 16 marzo 2005, n. 11, e destinata a
entrare in vigore, in difetto di previsioni
di segno diverso, il quindicesimo giorno
successivo alla pubblicazione.
I Comuni sono poi obbligati ad approvare
tutti gli atti inerenti ai piani di governo
del territorio in conformità ai princìpi
enunciati dalla nuova «Legge per il governo
del territorio» e secondo il procedimento
che tale legge delinea.
L’art. 26, comma 3, della stessa legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, nella formulazione
originaria, disciplinava i tempi di
adeguamento dello strumento urbanistico
generale, quando fosse stato approvato prima
dell’entrata in vigore «della legge
regionale 15.04.1975, n. 51 (Disciplina
urbanistica del territorio regionale e
misure di salvaguardia per la tutela del
patrimonio naturale e paesistico)» (art. 25,
comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12
del 2005). Era previsto il termine più
celere di sei mesi dall’entrata in vigore
della nuova «Legge per il governo del
territorio» e si stabiliva che,
successivamente, fossero approvati tutti gli
atti di piano di governo del territorio.
Dopo le novità apportate dall’art. 1, comma
1, lettera f), della legge della Regione
Lombardia 10.03.2009, n. 5 (Disposizioni in
materia di territorio e opere pubbliche -
Collegato ordinamentale), l’art. 26, comma
3, della legge regionale n. 12 del 2005 oggi
regola l’avvio del procedimento di
approvazione del piano di governo del
territorio, che deve essere deliberato dai
Comuni entro il 15.09.2009.
6.2.– Il Consiglio di Stato, sin dalle
premesse dell’ordinanza di rimessione,
evidenzia che è stata impugnata la variante
adottata con delibera del Consiglio comunale
di Sondrio 28.11.2014, n. 81, e destinata a
modificare il piano di governo del
territorio, a sua volta approvato con
delibera del Consiglio comunale 06.06.2011,
n. 40.
6.3.– A fronte di una variante risalente al
novembre 2014 e relativa a un piano di
governo del territorio già approvato nel
giugno 2011, il rimettente non illustra le
ragioni che rendono necessaria
l’applicazione di una disciplina volta a
regolare la sola fase transitoria di
adeguamento degli strumenti urbanistici
vigenti, modulata secondo precise scansioni
temporali, e non la revisione dei piani di
governo del territorio già approvati.
La disposizione censurata, pur posteriore
alla «Legge per il governo del territorio»
del 2005, si colloca in un orizzonte
temporale definito, legato all’adeguamento
degli strumenti urbanistici vigenti e alla
successiva transizione ai piani di governo
del territorio, che si configurano come i
nuovi strumenti di pianificazione
urbanistica previsti dalla legislazione
regionale.
In tal senso depone l’univoco dettato
letterale, che richiama l’adeguamento,
secondo le cadenze predeterminate dall’art.
26, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12
del 2005, e postula un nesso di
strumentalità della disapplicazione rispetto
all’adeguamento stesso.
Sull’elemento temporale e sulla correlazione
finalistica con l’adeguamento, che integrano
requisiti imprescindibili della disposizione
sospettata di incostituzionalità, il
rimettente non offre ragguagli di sorta. Il
Consiglio di Stato non dimostra che il
provvedimento impugnato, posteriore alla
fase transitoria di adeguamento, rinviene il
suo fondamento nella disciplina sottoposta
al vaglio di questa Corte e contraddistinta
da presupposti applicativi rigorosi”
(Corte Costituzionale,
sentenza 07.02.2020 n. 13 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com). |
ANNO 2019 |
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dicembre 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Spazi
per le moschee e altri luoghi religiosi: la Lombardia ha limitato
irragionevolmente la libertà di culto.
La libertà religiosa garantita dall’articolo 19 della
Costituzione comprende anche la libertà di culto e, con essa, il diritto di
disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare. Pertanto,
quando disciplina l’uso del territorio, il legislatore deve tener conto
della necessità di dare risposta a questa esigenza e non può comunque
ostacolare l’insediamento di attrezzature religiose.
È quanto ha stabilito la Corte costituzionale, che con la
sentenza 05.12.2019 n. 254 (relatrice Daria de Pretis) ha accolto
le questioni sollevate dal TAR Lombardia e, conseguentemente, ha annullato
due disposizioni in materia di localizzazione dei luoghi di culto introdotte
nella disciplina urbanistica lombarda (l. 12/2005) dalla legge regionale
della Lombardia n. 2 del 2015.
La prima (contenuta nell’articolo
72, secondo comma, legge 12/2005) poneva come condizione per l’apertura
di qualsiasi nuovo luogo di culto l’esistenza del piano per le attrezzature
religiose (PAR). La Corte ha fatto riferimento al carattere assoluto della
norma, che riguardava indistintamente tutte le nuove attrezzature religiose
a prescindere dal loro impatto urbanistico, e al regime differenziato
irragionevolmente riservato alle sole attrezzature religiose e non alle
altre opere di urbanizzazione secondaria.
In base alla seconda disposizione dichiarata incostituzionale (articolo
72, quinto comma, secondo periodo), il PAR poteva essere adottato solo
unitamente al piano di governo del territorio (PGT). Secondo la Corte,
questa necessaria contestualità e il carattere del tutto discrezionale del
potere del Comune di procedere alla formazione del PGT rendevano
assolutamente incerta e aleatoria la possibilità di realizzare nuovi luoghi
di culto.
Le norme censurate finivano così per determinare una forte compressione
della libertà religiosa senza che a ciò corrispondesse alcun reale interesse
di buon governo del territorio (Corte Costituzionale,
comunicato stampa 05.12.2019).
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Nel regolare, in sede di disciplina del governo del
territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire
esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere
ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di
allocazione delle attrezzature religiose; in ragione del peculiare rango
costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina
urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature
religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per
il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare
l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare
strutture di questo tipo.
In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in
materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle
attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione
urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia,
alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento
nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto
urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della
necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse
comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici,
cioè alla dotazione minima di spazi pubblici).
A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi
attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR (piano delle attrezzature
religiose) e che per un verso non consente un equilibrato e armonico
sviluppo del territorio e per altro verso finisce con l’ostacolare
l’apertura di nuovi luoghi di culto.
La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua
variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì
che le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a
essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del
fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una
sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a
sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per
sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an e
il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature
religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio
della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da
ultimo, sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della
libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di
culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo
del territorio.
Ciò posto va dichiarata:
- l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge
della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge
della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi
per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
- l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo
periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato
dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.com).
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Considerato in diritto
1.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del 2018 il Tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia (sentenza
03.08.2018 n. 1939) dubita della legittimità costituzionale dell’art.
72, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), nel testo risultante dalle modifiche
apportate dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione
Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», per contrasto
con gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione.
L’art. 72, comma 1, stabilisce che «[l]e aree che accolgono attrezzature
religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente
individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente
parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla
base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle
confessioni religiose di cui all’articolo 70». Il comma 2 dispone che «[l]’installazione
di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza
il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura
religiosa da confessioni di cui all’articolo 70». Le attrezzature
religiose sono identificate dall’art. 71 della stessa legge reg. Lombardia
n. 12 del 2005.
Secondo il TAR, i citati commi 1 e 2 dell’art. 72, nel prevedere che, in
assenza o comunque al di fuori delle previsioni del piano delle attrezzature
religiose (di seguito, PAR), i comuni non possano consentire l’apertura di
spazi destinati all’esercizio del culto, a prescindere dal contesto e dal
carico urbanistico generato dalla specifica opera, violerebbero:
a) l’art. 19 Cost., in quanto la possibilità di esercitare
collettivamente e in forma pubblica i riti non contrari al buon costume
verrebbe a essere subordinata alla discrezionale pianificazione comunale e,
quindi, al controllo pubblico;
b) l’art. 3 Cost., in quanto le norme censurate eccederebbero lo
scopo di assicurare il corretto inserimento sul territorio delle
attrezzature religiose e assegnerebbero a queste un trattamento
discriminatorio rispetto a quello riservato ad altre attrezzature comunque
destinate alla fruizione pubblica, con conseguente violazione «dei
fondamentali canoni di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione»;
c) l’art. 2 Cost., «stante la centralità del credo religioso
quale espressione della personalità dell’uomo, tutelata nella sua
affermazione individuale e collettiva».
2.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 172 del 2018, lo stesso TAR
Lombardia dubita della legittimità costituzionale del
comma 5, secondo periodo, dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg.
Lombardia n. 2 del 2015, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 19, 97, 114,
secondo comma, 117, secondo comma, lettera m), e sesto comma, e 118, primo
comma, Cost.
La disposizione censurata stabilisce che «[i] comuni che intendono
prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare
il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di
entrata in vigore della legge regionale […]. Decorso detto termine il piano
è approvato unitamente al nuovo PGT».
Secondo il TAR, l’art. 72, comma 5, secondo periodo, in base al quale, una
volta decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge reg.
Lombardia n. 2 del 2015, il PAR è approvato unitamente al nuovo piano per il
governo del territorio (di seguito, PGT), senza «alcun limite alla
discrezionalità del Comune nel decidere quando […] determinarsi a fronte
della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto»,
violerebbe:
a) gli artt. 2, 3 e 19 Cost., per l’irragionevole compressione
della libertà religiosa dei fedeli, sotto il profilo del loro diritto di
trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà, in quanto, a
seguito della inutile decorrenza del termine di diciotto mesi per l’adozione
del PAR, la norma non prevede «alcun intervento sostitutivo», e
demanda all’amministrazione comunale la facoltà di introdurre il piano in
sede di revisione o adozione del PGT «senza alcun ulteriore termine»
e senza «alcuna disposizione “sanzionatoria”»;
b) l’art. 97 Cost., in quanto la mancata previsione di tempi certi
di risposta all’istanza dei fedeli, da un lato, contrasterebbe con il
principio di buon andamento dell’azione amministrativa e, dall’altro lato,
esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno
religioso», con conseguente violazione del principio di imparzialità
dell’azione amministrativa;
c) l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la
predeterminazione della durata massima dei procedimenti atterrebbe ai
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, in base
all’art. 29 della legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi);
d) gli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo
comma, Cost., in quanto, una volta decorsi i diciotto mesi dall’entrata in
vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, «la norma regionale
condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione
complessiva del piano di governo del territorio», con conseguente
ingiustificata compressione dell’autonomia dei comuni.
3.– I due giudizi, riguardando norme sotto più profili connesse e sollevando
questioni in parte sovrapponibili, vanno riuniti per essere definiti con
un’unica pronuncia.
4.– L’intervento dell’associazione As. di Cantù è avvenuto in entrambi i
giudizi oltre il termine previsto dall’art. 4, comma 4, delle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, in quanto
l’atto di intervento è stato depositato il 25.09.2019, ben dopo i venti
giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo
del giudizio, avvenuta il 14.11.2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 159
del 2018 e il 05.12.2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 172 del 2018.
L’intervento è dunque inammissibile in quanto, secondo il costante
orientamento di questa Corte, il termine per l’intervento nei giudizi
dinanzi a essa è perentorio (tra le molte, sentenze n. 106, n. 90 e n. 78
del 2019).
5.– Venendo all’esame delle questioni sollevate nella prima causa (reg. ord.
n. 159 del 2018), occorre innanzitutto precisare il thema decidendum
sottoposto a questa Corte e affrontare i profili processuali.
Il TAR Lombardia censura i primi due commi dell’art. 72 della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005: il comma 2 perché subordina in modo assoluto
l’apertura di luoghi di culto alla previa adozione del PAR; il comma 1
perché, «anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è
realizzabile al di fuori delle aree a ciò specificamente destinate».
A sostegno delle sue censure il giudice a quo sviluppa per le due
disposizioni un’argomentazione unica, articolata in riferimento ai tre
parametri invocati. In realtà, le due norme censurate presentano un
contenuto differenziato e sono in effetti oggetto di distinte doglianze da
parte del TAR, che contesta per un verso la subordinazione dei luoghi di
culto alla previa approvazione del PAR (prevista al comma 2) e per altro
verso il necessario rispetto della zonizzazione operata nel PAR stesso
(prescritto al comma 1). Le censure devono dunque essere distinte anche in
relazione all’oggetto, e non solo in relazione al parametro.
5.1.– Precisato ciò, le questioni relative all’art. 72,
comma 1, sono inammissibili per irrilevanza.
Il TAR censura infatti il carattere vincolante delle previsioni
localizzative del PAR per l’insediamento di qualsivoglia nuova attrezzatura
religiosa, ma, nel caso oggetto del giudizio a quo, il PAR non
risulta adottato, con la conseguenza che al giudizio stesso è estraneo il
tema –anche logicamente, oltre che fattualmente, subordinato al tema della
previa esistenza del PAR– della necessaria conformità alla zonizzazione del
piano e dunque in esso non viene in rilievo la questione di costituzionalità
della norma che la prescrive (art. 72, comma 1).
5.2.– Passando alle questioni proposte con riferimento all’art. 72, comma 2,
occorre esaminare, in primo luogo, l’eccezione di irrilevanza sollevata
dalla Regione, secondo la quale, mentre il TAR censura la sproporzione tra
l’obbligo generalizzato previsto dalla norma, che impone l’esistenza del PAR
come condizione per l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa, e
le ipotesi in cui questa consista per esempio in una piccola sala di
preghiera, il giudizio a quo riguarderebbe invece un luogo di culto
potenzialmente frequentabile da un numero non determinato di fedeli e
destinato a incidere in modo rilevante e permanente sul tessuto urbano.
L’eccezione non è fondata.
Anche senza entrare nel merito del presupposto di fatto dell’eccezione
(cioè, l’asserita rilevante consistenza della dimensione dell’immobile
oggetto del giudizio a quo), si deve osservare che il TAR non censura
l’art. 72, comma 2, solo nella parte in cui si applica ai luoghi di culto di
dimensioni modeste, ma chiede una pronuncia ablativa dell’intera
disposizione. Il riferimento all’applicazione della norma anche alle «modeste
sale di preghiera» è diretto a mettere in evidenza gli effetti
irragionevoli della norma stessa, non a limitare il petitum.
L’effettiva consistenza della struttura oggetto del giudizio a quo
non è dunque significativa ai fini della rilevanza delle questioni.
Complessivamente, la motivazione del TAR sulla rilevanza risulta adeguata.
Il giudice a quo censura l’art. 72, comma 2, cioè esattamente la
norma posta alla base del provvedimento di annullamento d’ufficio, impugnato
nel giudizio a quo. Si sofferma inoltre espressamente sugli effetti
della sopravvenuta legge della Regione Lombardia 25.01.2018, n. 5
(Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni
di legge), che ha abrogato la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015,
argomentando in modo plausibile sulla permanenza della rilevanza delle
questioni.
Si può osservare, infine, che la parte dell’atto di rimessione in cui si
sollevano le questioni di legittimità costituzionale ha una propria
autonomia e delinea in modo chiaro le questioni stesse, mettendone in
evidenza la rilevanza ai fini della decisione del quinto motivo di ricorso
(l’unico non deciso dal rimettente). Non rilevano dunque in questa sede
eventuali profili di non coerenza fra la parte dell’atto di rimessione che
solleva le questioni e altri capi della pronuncia in cui vengono respinti
gli altri motivi di ricorso, in alcuni casi applicando le disposizioni che
il TAR ha poi sottoposto al giudizio di questa Corte.
6.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale
dell’art.
72, comma 2, proposta in relazione agli artt. 2, 3, primo comma, e 19
Cost., è fondata.
È opportuno, innanzitutto, ricordare la cornice costituzionale in cui si
inserisce l’oggetto dei presenti giudizi.
La libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile
(sentenze n. 334 del 1996, n. 195 del 1993 e n. 203 del 1989), tutelato «al
massimo grado» (sentenza n. 52 del 2016) dalla Costituzione. La garanzia
costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di
laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è «da intendersi,
secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato
(sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995,
n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza
religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima
espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità»
(sentenza n. 67 del 2017).
Della libertà di religione il libero esercizio del culto è un aspetto
essenziale, che lo stesso art. 19 Cost. garantisce specificamente disponendo
che «[t]utti hanno diritto di professare liberamente la propria fede
religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e
di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di
riti contrari al buon costume». L’esercizio pubblico e comunitario del
culto, come questa Corte ha più volte precisato, va dunque tutelato, e va
assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere
dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro
condizione di minoranza (sentenze n. 63 del 2016, n. 195 del 1993 e n. 59
del 1958).
La libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi
adeguati per poterla concretamente esercitare (sentenza n. 67 del 2017) e
comporta perciò più precisamente un duplice dovere a carico delle autorità
pubbliche cui spetta di regolare e gestire l’uso del territorio
(essenzialmente le regioni e i comuni): in positivo –in applicazione del
citato principio di laicità– esso implica che le amministrazioni competenti
prevedano e mettano a disposizione spazi pubblici per le attività religiose;
in negativo, impone che non si frappongano ostacoli ingiustificati
all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le
confessioni nell’accesso agli spazi pubblici (sentenze n. 63 del 2016, n.
346 del 2002 e n. 195 del 1993).
Naturalmente, nel destinare spazi pubblici alle sedi di attività di culto
delle diverse confessioni, regioni e comuni devono tener conto della loro
presenza nel territorio di riferimento, dal momento che, in questo contesto,
il divieto di discriminazione «non vuol dire […] che a tutte le
confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli
spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità
limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si
dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare
adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o
dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e
alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione» (sentenza n. 63
del 2016).
6.1.– Il quadro costituzionale descritto ha trovato attuazione nella
normativa, sia statale che di molte regioni, che garantisce la previsione di
adeguati spazi per i luoghi di culto per l’esercizio della libertà
religiosa.
Quanto alla disciplina statale, è sufficiente ricordare che, in base
all’art. 3 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti
massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17
della legge 06.08.1967, n. 765), i luoghi di culto rientrano tra le «attrezzature
di interesse comune» che devono essere previste dagli strumenti
urbanistici al fine di soddisfare gli standard fissati dallo stesso decreto.
Inoltre, l’art. 16, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia), ha confermato che gli oneri di
urbanizzazione secondaria riguardano anche «chiese e altri edifici
religiosi».
A livello regionale, negli anni Ottanta e Novanta molte regioni hanno
dettato norme dirette a riservare alle attrezzature religiose un trattamento
differenziato rispetto alle altre opere di urbanizzazione secondaria, al
fine di agevolarne la realizzazione, in particolare con la previsione di
contributi finanziari (regionali e comunali) e con l’innalzamento della
dotazione minima richiesta dalla disciplina statale (così, fra le altre:
legge della Regione Liguria 24.01.1985, n. 4, recante «Disciplina
urbanistica dei servizi religiosi»; legge della Regione Piemonte 07.03.1989,
n. 15, recante «Individuazione negli strumenti urbanistici generali di
aree destinate ad attrezzature religiose. Utilizzo da parte dei Comuni del
fondo derivante dagli oneri di urbanizzazione»; legge della Regione
Campania 05.03.1990, n. 9, recante «Riserva di standard urbanistici per
attrezzature religiose»).
6.2.– In questo filone si inseriva anche la legge della Regione Lombardia
09.05.1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di
attrezzature destinate a servizi religiosi), che riservava alle attrezzature
religiose il 25% della dotazione complessiva di attrezzature per interesse
comune e prevedeva, fra l’altro, che in ciascun comune almeno l’8% delle
somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria fosse destinato alla
loro realizzazione e manutenzione. Poiché tuttavia tali contributi erano
riservati alla Chiesa cattolica e alle altre confessioni religiose dotate di
intesa, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la
disposizione che li prevedeva, nella parte in cui prescriveva il requisito
dell’intesa (sentenza n. 346 del 2002).
La successiva legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio), disciplinava poi, agli artt. da 70 a 73, la
realizzazione di attrezzature religiose, stabilendo che esse sarebbero state
regolate, insieme alle altre attrezzature di interesse pubblico, dal piano
dei servizi. Tale normativa è stata oggetto, a partire dal 2006, di varie
modifiche, che hanno progressivamente sottoposto l’apertura di luoghi di
culto a controlli e limiti sempre più penetranti.
La prima modifica è stata apportata con la legge della Regione Lombardia
14.07.2006, n. 12 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005,
n. 12 «legge per il governo del territorio»), che ha assoggettato a
permesso edilizio i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche senza
opere, «finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati
a centri sociali» (art. 52, comma 3-bis, aggiunto alla legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005).
Una nuova restrizione è stata introdotta dalla legge regionale 14.03.2008,
n. 4, recante «Ulteriori modifiche e integrazioni alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)», che,
aggiungendo il comma 4-bis nell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, ha limitato le zone in cui potevano essere realizzate le attrezzature
religiose fino all’approvazione del piano dei servizi.
La successiva legge regionale 21.02.2011, n. 3 (Interventi normativi per
l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di
disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2011), ha poi allargato
la nozione di attrezzature religiose, comprendendovi «gli immobili
destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi
forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da
ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione
religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali»
(art. 71, comma 1, lettera c-bis, aggiunta alla legge reg. Lombardia n. 12
del 2005).
È infine intervenuta la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, oggetto del
presente giudizio, che ha dettato una complessa disciplina in materia di
attrezzature religiose, modificando l’art. 70 e sostituendo l’art. 72 della
legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La disciplina del 2015 è stata impugnata, in alcune sue parti, dal Governo,
e questa Corte ha deciso il ricorso con la sentenza n. 63 del 2016, fra
l’altro dichiarando costituzionalmente illegittimi l’art. 70, commi 2-bis
(nella parte in cui fissava alcuni requisiti solo per le confessioni non
cattoliche senza intesa) e 2-quater (che istituiva la consulta regionale), e
l’art. 72, comma 4, primo periodo (che prevedeva i pareri relativi ai
profili di sicurezza pubblica, nel corso del procedimento di formazione del
PAR), e comma 7, lettera e) (che richiedeva un impianto di videosorveglianza
negli edifici di culto), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La sentenza n. 63 del 2016 non si è pronunciata nel merito sulle norme qui
in esame, poiché i commi 1 e 2 dell’art. 72 non erano stati impugnati dal
Governo e l’art. 72, comma 5, è stato oggetto di una pronuncia di manifesta
inammissibilità.
6.3.– Così illustrato il contesto di riferimento, si possono ora esaminare
le questioni sollevate dal giudice rimettente.
La disposizione censurata (art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n.
12 del 2005, introdotto dalla legge reg. Lombardia n. 2 del 2015) subordina
l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR (atto
separato facente parte del piano dei servizi), che rappresenta a sua volta
una novità introdotta dalla stessa legge reg. Lombardia n. 2 del 2015.
Occupandosi della potestà legislativa regionale in tema di edilizia di
culto, questa Corte ne ha già chiarito finalità e limiti, affermando che «[l]a
legislazione regionale in materia di edilizia di culto “trova la sua ragione
e giustificazione –propria della materia urbanistica– nell’esigenza di
assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella
realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia
accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” (sentenza n. 195
del 1993)» (sentenza n. 63 del 2016). In questo contesto «la Regione
è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono
sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la
programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di
tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che
siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del
territorio affidate alle sue cure» (sentenza n. 67 del 2017).
Nell’esercizio delle sue competenze, tuttavia, il legislatore regionale «non
può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione»,
non essendogli consentito in particolare di introdurre «all’interno di
una legge sul governo del territorio […] disposizioni che ostacolino o
compromettano la libertà di religione» (sentenza n. 63 del 2016).
In sintesi dunque, nel regolare, in sede di disciplina del governo del
territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire
esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere
ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di
allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango
costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina
urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature
religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per
il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare
l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare
strutture di questo tipo.
In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in
materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle
attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione
urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia,
alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento
nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto
urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della
necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse
comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici,
cioè alla dotazione minima di spazi pubblici).
A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi
attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR. Questa Corte non può non
rilevare infatti che tale soluzione legislativa per un verso non consente un
equilibrato e armonico sviluppo del territorio e per altro verso finisce con
l’ostacolare l’apertura di nuovi luoghi di culto.
A questo riguardo viene in evidenza innanzitutto il carattere assoluto della
previsione, che riguarda indistintamente (ed esclusivamente) tutte le nuove
attrezzature religiose, a prescindere dal loro carattere pubblico o privato,
dalla loro dimensione, dalla specifica funzione cui sono adibite, dalla loro
attitudine a ospitare un numero più o meno consistente di fedeli, e dunque
dal loro impatto urbanistico, che può essere molto variabile e
potenzialmente irrilevante. L’effetto di tale assolutezza è che anche
attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica, solo per il fatto di
avere destinazione religiosa (si pensi a una piccola sala di preghiera
privata di una comunità religiosa), devono essere preventivamente
localizzate nel PAR, e che, per esempio, i membri di un’associazione avente
finalità religiosa non possono riunirsi nella sede privata dell’associazione
per svolgere l’attività di culto, senza una specifica previsione del PAR. Al
contrario, qualsiasi altra attività associativa, purché non religiosa, può
essere svolta senz’altro nella sede sua propria, liberamente localizzabile
sul territorio comunale nel solo rispetto delle generali previsioni
urbanistiche. In questa prospettiva, la potenziale irrilevanza urbanistica
di una parte almeno delle strutture investite dalla previsione contestata
rende evidente l’esistenza di un obiettivo ostacolo all’insediamento di
nuove strutture religiose.
Va sottolineato inoltre il regime differenziato che, a dispetto dello
specifico riconoscimento costituzionale –sopra ricordato– del diritto di
disporre di un luogo di esercizio del culto, colpisce solo le attrezzature
religiose e non le altre opere di urbanizzazione secondaria, quali per
esempio scuole, ospedali, palestre, centri culturali. Si tratta in tutti i
casi di impianti di interesse generale a servizio degli insediamenti
abitativi che, in maniera non diversa dalle attrezzature religiose, possono
presentare maggiore o minore impatto urbanistico in ragione delle loro
dimensioni, della funzione e dei potenziali utenti. Il fatto che il
legislatore regionale subordini solo le attrezzature religiose al vincolo di
una specifica e preventiva pianificazione indica che la finalità perseguita
è solo apparentemente di tipo urbanistico-edilizio, e che l’obiettivo della
disciplina è invece in realtà quello di limitare e controllare
l’insediamento di (nuovi) luoghi di culto. E ciò qualsiasi sia la loro
consistenza, dalla semplice sala di preghiera per pochi fedeli al grande
tempio, chiesa, sinagoga o moschea che sia.
In conclusione, la compressione della libertà di culto che
la norma censurata determina, senza che sussista alcuna ragionevole
giustificazione dal punto di vista del perseguimento delle finalità
urbanistiche che le sono proprie, si risolve nella violazione degli artt. 2,
3, primo comma, e 19 Cost.
7.– Passando a esaminare la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, occorre soffermarsi in primo luogo sulle eccezioni di inammissibilità
sollevate dalla Regione Lombardia.
7.1.– Secondo la Regione Lombardia, la questione è irrilevante innanzitutto
perché l’atto impugnato davanti al giudice rimettente non farebbe
riferimento alla previsione censurata (art. 72, comma 5), che non troverebbe
dunque applicazione nel giudizio a quo.
Sebbene sia vero che l’atto impugnato non menziona l’art. 72, comma 5, e che
esso si pronuncia su un’osservazione presentata nel procedimento di
approvazione del PGT, l’eccezione di irrilevanza non è fondata. Il TAR
infatti non si limita a contestare la discrezionalità delle scelte
urbanistiche affidate ai comuni in relazione al quando deliberare sulle
istanze di individuazione di un luogo di culto, ma precisa espressamente
che, nel caso di specie, viene in rilievo il secondo periodo dell’art. 72,
comma 5, e la necessità, in esso prevista, che il PAR venga approvato «unitamente
al nuovo PGT», con la conseguenza che resterebbero incerti e aleatori i
tempi di risposta sull’istanza degli interessati, dato che, secondo il TAR,
«l’Amministrazione non ha alcun obbligo di avviare il procedimento di
revisione del PGT, per individuare le aree destinate a luogo di culto».
E, in effetti, il baricentro delle questioni sollevate è proprio quello
della necessaria approvazione del PAR contestualmente al nuovo PGT.
Ciò precisato, la motivazione offerta dal rimettente sulla rilevanza delle
questioni investe due distinti profili.
Innanzitutto, è valorizzato il fatto che nel primo dei motivi aggiunti la
ricorrente in due punti lamenta l’illegittimità del diniego perché, nella
sua parte finale, la delibera impugnata afferma che «ogni determinazione
in tal senso sarà oggetto di successiva ed ulteriore verifica in sede di
futuro aggiornamento del PGT», come prescritto proprio all’art. 72,
comma 5, secondo periodo. In secondo luogo, dopo aver affermato che l’art.
72, comma 5, vigente dal 2015, trova applicazione nel procedimento oggetto
del giudizio a quo (iniziato con un’osservazione al PGT presentata
nel 2011), il TAR osserva che, in base all’art. 72, comma 5, secondo
periodo, «senza l’avvio del nuovo Piano del Governo del Territorio rimane
senza tutela la posizione dell’Associazione: in tal senso è quindi
innegabile la rilevanza della questione nel caso di specie».
Secondo il rimettente, pertanto, da un lato la legittimità dell’art. 72,
comma 5, secondo periodo, condiziona la legittimità del rinvio, operato dal
provvedimento impugnato, al futuro aggiornamento del PGT, dall’altro la
questione è comunque rilevante perché il Comune non avrebbe potuto
accogliere l’istanza senza avviare il procedimento per il nuovo PGT, a causa
del vincolo discendente dall’art. 72, comma 5, secondo periodo.
La motivazione fornita sulla rilevanza è dunque sufficiente e plausibile.
7.2.– La seconda eccezione di inammissibilità è sviluppata dalla Regione
Lombardia nella memoria depositata il 30.09.2019, nella quale lamenta che, «non
motivando sugli ulteriori profili di ricorso, nonostante la loro priorità
logico-giuridica, di fatto il Giudice a quo svincola la proposizione del
dubbio di costituzionalità dal nesso di pregiudizialità».
In realtà il TAR rimettente afferma espressamente, basandosi sull’ordine dei
motivi aggiunti fissato dalla stessa ricorrente, che la seconda censura può
essere esaminata solo dopo aver deciso sulla prima, e poi argomenta (come
appena visto) sulla rilevanza della questione di costituzionalità relativa
all’art. 72, comma 5, ai fini della decisione del primo dei motivi aggiunti.
È comunque il caso di ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa
Corte, non è sindacabile l’ordine di esame delle questioni seguito dal
rimettente, qualora esso si sviluppi in modo non implausibile (ad esempio,
sentenze n. 120 del 2019 e n. 125 del 2018).
Nemmeno questa eccezione, dunque, è fondata.
8.– Nel merito, anche la questione di legittimità
costituzionale relativa all’art.
72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 Cost., è fondata.
Come visto, la norma censurata stabilisce che, decorso il termine di
diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del
2015, il PAR «è approvato unitamente al nuovo PGT», il che significa
che –come del resto precisato, con riferimento alla previsione in esame,
anche nella circolare n. 3 del 20.02.2017, recante gli indirizzi per
l’applicazione della suddetta legge regionale– il PAR non può essere
approvato «separatamente da un nuovo strumento di pianificazione
urbanistica (PGT o variante generale)».
Seguendo un modello diffuso nella legislazione urbanistica regionale più
recente, anche il legislatore regionale lombardo ha previsto un piano
urbanistico comunale, denominato PGT, che si articola in tre atti: documento
di piano, piano dei servizi e piano delle regole (art. 7 della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005). Il documento di piano ha un contenuto
ricognitivo-conoscitivo e determina gli obiettivi e le politiche di sviluppo
del territorio. Esso ha validità quinquennale ed è sempre modificabile (art.
8 della citata legge regionale). Il piano dei servizi serve ad assicurare
una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico e generale, non ha termini di validità ed è sempre modificabile
(art. 9 della stessa legge regionale). Infine, il piano delle regole ha i
diversi contenuti indicati nell’art. 10 della legge regionale in questione,
e anch’esso non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 10,
comma 6). Il complesso procedimento di approvazione degli atti costituenti
il PGT è regolato dall’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005; la
stessa disciplina si applica «anche alle varianti agli atti costituenti
il PGT» (art. 13, comma 13).
La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua
variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì
che le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a
essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del
fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una
sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a
sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per
sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an
e il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature
religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio
della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da
ultimo, sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della
libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di
culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo
del territorio. Secondo le regole generali, infatti, la realizzazione di un
impianto di interesse pubblico che richieda la modifica delle previsioni di
piano si può tradurre in una semplice variante parziale. E comunque,
quand’anche la previsione del nuovo impianto possa richiedere una
riconsiderazione dell’intero ambito interessato, la valutazione in concreto
dell’impatto della nuova struttura sul contesto circostante spetterebbe in
via esclusiva al comune. La previsione ad opera della legge regionale della
necessaria e inderogabile approvazione del PAR unitamente all’approvazione
del piano che investe l’intero territorio comunale (il PGT o la sua variante
generale) è dunque ingiustificata e irragionevole, e tanto più lo è in
quanto riguarda l’installazione di attrezzature religiose, alle quali, come
visto, in ragione della loro strumentalità alla garanzia di un diritto
costituzionalmente tutelato, dovrebbe piuttosto essere riservato un
trattamento di speciale considerazione.
È significativo che per gli altri impianti di interesse pubblico la legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005 non solo non esiga la variante generale del
PGT ma non richieda neppure sempre la procedura di variante parziale, visto
che «[l]a realizzazione di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico
o generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi,
non comporta l’applicazione della procedura di variante al piano stesso ed
e` autorizzata previa deliberazione motivata del consiglio comunale»
(art. 9, comma 15, della citata legge regionale).
Anche nel caso dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, si deve concludere
che la disposizione censurata determina una limitazione
dell’insediamento di nuove attrezzature religiose non giustificata da reali
esigenze di buon governo del territorio e che essa, dunque, comprimendo in
modo irragionevole la libertà di culto, viola gli artt. 2, 3 e 19 Cost.
9.– A seguito dell’accoglimento delle censure esaminate, le questioni
riferite all’art. 97, all’art. 117, secondo comma, lettera m), e agli artt.
5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost. restano
assorbite.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili gli interventi spiegati dall’Associazione
culturale As. di Cantù nei giudizi indicati in epigrafe;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art.
72, comma 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), come modificato dall’art. 1, comma 1,
lettera c), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche
alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)
- Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art.
72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia
n. 2 del 2015;
4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 72, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg.
Lombardia n. 2 del 2015, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale
per la Lombardia, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione,
con l’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018
(Corte Costituzionale,
sentenza 05.12.2019 n. 254). |
settembre 2019 |
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ESPROPRIAZIONE: Alla
Corte costituzionale la legge lombarda che prevede il potere ablatorio sia
esercitabile a tempo indeterminato in ragione dell’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche.
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Espropriazione per pubblica utilità – Lombardia – Potere ablatorio è
esercitabile a tempo indeterminato – In ragione dell’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche – Art. 9, comma 12, l. reg. n. 12 del 2005 –
Violazione artt. 42 e 117 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005, per violazione degli artt.
42 e 117 Cost., nella parte in cui prevede che il potere ablatorio è
esercitabile a tempo indeterminato, in ragione dell’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella
oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la
partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato
all’infinito senza bisogno né di motivazione né di indennizzo (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che il legislatore lombardo ha derogato al
principio fondamentale affermato nella sentenza della Corte costituzionale
n. 179 del 1999, secondo cui, alla scadenza del termine di efficacia
quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio esso decade a meno che
non ricorra una delle seguenti condizioni: a) il vincolo sia reiterato
seguendo l’apposito procedimento a tal fine previsto dalla legge, con le
conseguenti garanzie in termini di partecipazione al procedimento e di
indennizzo del danno conseguente; b) la sua decadenza sia preclusa
dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio
inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”.
Tale condizione è stata ravvisata dalla stessa sentenza in parola
nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal legislatore del testo
unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che dichiara la pubblica
utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che comunque garantisce la
partecipazione in chiave collaborativa al proprietario/espropriando e che
rappresenta il primo atto di un procedimento (quello espropriativo)
puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo l’esercizio del potere
espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più breve termine
espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba intervenire entro
cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto efficace il
provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato emerge chiaramente come, nel corso del
tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere ablatorio può essere
ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e oggi anche all’art. 1
del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento che si è chiarito come
il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta europea dei diritti
dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà legislativa dello Stato e a
maggior ragione delle Regioni, la cui violazione genera questioni di
legittimità costituzionale attratte nella competenza della Corte
Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e in quanto
risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un equo
indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta, a parere del Collegio,
aver disatteso i limiti imposti alla propria competenza legislativa,
violando l’art. 117 Cost., per aver, nell’esercizio di una competenza
legislativa concorrente, eluso i principi fondamentali della materia,
desumibili anche dall’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal
legislatore statale nel T.U. delle espropriazioni, sulla scorta della
giurisprudenza costituzionale che li ha estrapolati dall’art. 42 Cost..
Più precisamente, la Regione Lombardia ha violato i limiti posti dall’art.
117 Cost., perché, esorbitando dalla propria competenza concorrente in
materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il vincolo preordinato
all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si andranno a meglio
evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio della procedura
espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla Corte
Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore
nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa
intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di
pubblica utilità.
Il Tar ritiene, dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti
della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione”
del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 Cost. che, riserva al
legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui adozione equivale
al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte Costituzionale ha
indicato come condizione necessaria per ritenere rispettato il principio
della temporaneità del potere espropriativo esercitabile su determinati
beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi, nella fattispecie in
esame, in contrasto con l’art. 42 Cost., da una corretta interpretazione del
quale discende, come già anticipato, che il potere espropriativo può essere
esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e, come
evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale n. 575 del 1989, a
condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel
tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il
proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della
proprietà.
Ne discende che il vincolo preordinato all’esproprio, imposto mediante un
apposito procedimento che garantisca la partecipazione dell’interessato,
deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del periodo di efficacia
deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità, la quale, a sua
volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che garantisce la
partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del decreto di
esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione e comunque
non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al
comma 12 dell’art. 9, l.reg. Lombarda n. 12 del 2005, invece, il
potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo indeterminato, in
ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano triennale delle opere
pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo
in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale
degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né
di motivazione, né di indennizzo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 14.08.2019 n. 740 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it - si legga
anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 20.09.2019 n. 827).
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SENTENZA
1. Le società ricorrenti hanno impugnato l’atto recante la dichiarazione
di pubblica utilità e i successivi provvedimenti adottati nell’ambito del
procedimento espropriativo preordinato alla realizzazione della nuova strada
di collegamento tra la via Cattaneo e la via per Torbiato nel Comune di Adro,
la cui localizzazione è stata in parte prevista sulla proprietà della
società Te.Mo., destinata dalla società Be. alla coltivazione dell’uva per
la produzione di vino con denominazione “Franciacorta DOCG”.
Più precisamente, con il ricorso introduttivo, le società ricorrenti hanno
censurato la legittimità della dichiarazione di pubblica utilità, mentre con
il primo ricorso per motivi aggiunti hanno impugnato la successiva
deliberazione di approvazione di alcune modifiche progettuali e con il
secondo il decreto di esproprio.
Al fine di ottenere l’annullamento di detti provvedimenti, le ricorrenti
hanno formulato una pluralità di censure, con le quali sono stati dedotti
vizi procedurali (censure 1, 4 e 5 del ricorso introduttivo, 1, 2 e 3 del
primo ricorso per motivi aggiunti e 2 del secondo ricorso per motivi
aggiunti), oltre che la violazione dei principi posti a tutela del suolo
agricolo e l’eccesso di potere connesso alla scelta di realizzare un’opera
che, separata dalla più ampia opera di cui era originariamente parte (la
circonvallazione dell’abitato), avrebbe una pubblica utilità limitata,
recessiva rispetto alla conservazione della pregiata coltura in atto, nonché
l’illegittimità costituzionale della norma in ragione della quale è stata
ravvisata, nel 2018, la conformità urbanistica dell’opera prevista nel PGT
del 2012.
2. Con sentenza non definitiva n. 736/2019, questo Tribunale ha ritenuto che
le doglianze suddette fossero in parte inammissibili e in parte infondate,
con la sola esclusione della censura n. 2 del ricorso introduttivo,
riproposta anche nel primo ricorso per motivi aggiunti (e, in termini di
invalidità derivata, anche nel secondo ricorso per motivi aggiunti), avente
ad oggetto l’efficacia del presupposto essenziale del procedimento
espropriativo, rappresentato dal vincolo preordinato all’esproprio:
efficacia disciplinata dall’art.
9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005,
sospettato di illegittimità costituzionale per contrasto con gli art. 3, 42,
comma 2, e 117, comma 3, della Costituzione.
3. Ad avviso del Collegio sussistono i presupposti per
sollevare la questione avanti alla Corte Costituzionale.
3.1. Sulla rilevanza della questione di costituzionalità.
Come noto, l’art. 23 della legge n. 87 del 1953 prevede che il giudice debba
sospendere il giudizio in corso e trasmettere gli atti alla Corte
Costituzionale quando il giudizio non possa essere risolto indipendentemente
dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale.
Tale condizione risulta ricorrere nella fattispecie, posto che, respinte
tutte le altre censure, il ricorso revoca in dubbio la legittimità
costituzionale della disposizione applicata nella fattispecie al fine di
sostenere la efficacia del vincolo preordinato all’esproprio sulla scorta
del quale è stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera in questione,
così adottando il provvedimento che ha degradato il diritto di proprietà
rendendolo aggredibile con la procedura espropriativa.
Se il dubbio sollevato da parte ricorrente fosse fondato, dunque, il vincolo
espropriativo dovrebbe essere ritenuto decaduto, al momento dell’adozione
della dichiarazione di pubblica utilità, che, per ciò stesso, dovrebbe
essere dichiarata illegittima, perché priva del presupposto fondante
l’esercizio del potere ablatorio (cfr. la
lettera a) dell’art. 8 del DPR 327/2001, la quale afferma che il decreto
di esproprio può essere emanato qualora “l’opera da realizzare sia
prevista nello strumento urbanistico generale o in un atto di natura ed
efficacia equivalente e sul bene da espropriare sia stato apposto in vincolo
preordinato all’esproprio”).
Infatti, nel caso in esame, il vincolo preordinato all’esproprio è divenuto
efficace nel momento in cui ha acquistato efficacia il PGT del Comune di
Adro approvato nel 2012 e cioè il giorno 21.11.2012. Il primo comma dell’art.
9 del DPR 327/2001 prevede espressamente che “Un bene è
sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diventa efficace
l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua
variante, che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica
utilità”.
I successivi commi stabiliscono che “2. Il vincolo preordinato
all’esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere
emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera. 3. Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità
dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e trova applicazione
la disciplina dettata dall’articolo 9 del testo unico in materia edilizia
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380. 4.
Il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere
motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti al
comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard.”.
In base alla disposizione ora citata il vincolo sarebbe, dunque, venuto meno
il 21.11.2017, mentre la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera è
intervenuta solo il 15.02.2018.
Secondo la tesi del Comune, però, la sussistenza della necessaria conformità
urbanistica dell’opera rispetto allo strumento urbanistico sarebbe
garantita, nella fattispecie, come espressamente attestato nella
deliberazione del Consiglio comunale che ha approvato il progetto e
dichiarato la pubblica utilità, dalla vigenza dell’art.
9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005, il quale recita: “I
vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente
ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti
dal piano dei servizi hanno la durata di cinque anni, decorrenti
dall’entrata in vigore del piano stesso. Detti vincoli decadono qualora,
entro tale termine, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a
cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato
approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione.”.
Poiché, nella fattispecie, il piano triennale delle opere pubbliche
2017-2019 è stato approvato, prevedendo la realizzazione anche del
collegamento tra le via Cattaneo e per Torbiato, in data 06.04.2017 (con
deliberazione del consiglio comunale n. 12 del 2017) e, dunque, prima della
scadenza del quinquennio di efficacia del vincolo espropriativo, quest’ultimo
è stato dichiaratamente assunto quale presupposto della procedura
espropriativa avversata: circostanza, questa, rilevante ai fini
dell’ammissibilità sia della doglianza stessa, che della questione di
legittimità costituzionale.
Infatti, è pur vero che, lo stesso giorno in cui è stata dichiarata la
pubblica utilità, è stata anche adottata (con la deliberazione precedente,
recante il numero 10 del 2018) una variante urbanistica, poi approvata solo
con deliberazione del consiglio comunale n. 23 del 12.05.2018, con cui il
Comune di Adro ha preso atto della “conferma” dell’efficacia del
vincolo preordinato all’esproprio in ragione dell’inclusione dell’opera nel
Programma triennale delle opere pubbliche. Tale deliberazione ha un duplice
contenuto: da un lato reitera i vincoli preordinati all’esproprio
relativi ad alcune opere pubbliche per cui erano decaduti, dall’altro,
per una pluralità di opere pubbliche, tra cui il collegamento tra le vie
Cattaneo e per Torbiato in parola, dà atto dell’inserimento delle stesse nel
Programma triennale delle opere pubbliche e del conseguente effetto “confermativo”
dell’efficacia del vincolo, derivante dall’art.
9, comma 12, della LR 12/2005.
In tale seconda parte, il provvedimento risulta essere del tutto atipico
(dal momento che l’effetto della norma richiamata è automatico) e, dunque,
al più, sostanzialmente ricognitivo. L’assenza di contenuto dispositivo,
innovativo dell’ordinamento, congiuntamente con la considerazione del fatto
che la statuizione contenuta in tale atipica variante urbanistica è divenuta
efficace ben dopo la dichiarazione di pubblica utilità, rende,
contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, irrilevante la sua mancata
impugnazione. Non appare, infatti, revocabile in dubbio il fatto che, nella
fattispecie, la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta sulla base
di un vincolo preordinato all’esproprio divenuto efficace più di cinque anni
prima dell’approvazione del progetto, la cui efficacia risulta prorogata
automaticamente per effetto dell’inclusione dell’opera nel Programma delle
opere pubbliche triennale, a prescindere da ogni motivazione circa
l’interesse pubblico alla reiterazione, da ogni garanzia partecipativa per
il proprietario e dalla corresponsione di un adeguato indennizzo (così come,
invece, previsto dall’art.
39 del T.U. DPR 327/2001), così come puntualmente rappresentato
nella stessa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
A nulla rileva che di tale effetto si sia preso atto in un provvedimento
successivo alla dichiarazione di pubblica utilità stessa, privo di capacità
innovativa circa l’efficacia del vincolo, il quale, per ciò stesso,
risulterebbe inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale
declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta
il presupposto.
Considerato, dunque, che, data la sua formulazione, la disposizione non
risulta suscettibile di un’interpretazione costituzionalmente orientata,
rispettosa dei precetti costituzionali, così come enunciati nel ricordato
articolo 9 del DPR 327/2001, il Collegio ravvisa la necessità, ai
fini della risoluzione della controversia, di accertare se nell’approvare l’art.
9 della L.R della Lombardia n. 12/2005, la Regione abbia violato i
principi fondamentali della materia espropriativa e, dunque, non solo l’art.
42 della Costituzione, ma anche l’art. 1 del Primo protocollo della CEDU,
nonché i limiti della potestà legislativa regionale di cui all’art. 117
della Costituzione.
Solo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale
consentirebbe, infatti, al Collegio di annullare i provvedimenti impugnati.
3.2. Sulla non manifesta infondatezza della questione.
Ritiene il Collegio che l’art.
9, comma 12, della legge regionale lombarda n. 12/2005 violi gli
art. 117 e 42 della Costituzione, per le ragioni che si andranno ad
esplicitare.
Con
sentenza n. 575 del 1989, la Corte Costituzionale, pur rigettando
la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla
violazione dell’articolo 42 della Costituzione, affermò che
l’indeterminatezza temporale del vincolo espropriativo (da non confondersi
con il ben diverso vincolo conformativo) desse luogo a una situazione di
incompatibilità con la garanzia della proprietà privata e, di fatto, a
un’espropriazione di valore, con conseguente necessità della previsione di
un indennizzo.
Più precisamente, il giudice delle leggi, ha affermato che “è
propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare
illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come
ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata
in relazione alle effettive esigenze urbanistiche. Tale possibilità,
tuttavia, darebbe luogo ad un sistema non conforme ai principi affermati
nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo venga protratto
a tempo indeterminato senza la previsione di indennizzo. Come si evince
dalla stessa sentenza e come e stato ribadito più di recente (sent. n. 82
del 1982), i due requisiti della temporaneità e della indennizzabilità sono
difatti tra loro alternativi, per cui l'indeterminatezza temporale dei
vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli indefinitamente nel
tempo anche se con diversa destinazione o con altri mezzi, é
costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà
non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà
secondo i principi affermati nelle sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968.”
Sulla scorta di tale pronuncia, il legislatore, nel modificare l’articolo 2
della legge 19.11.1968, n. 1187, stabilì la durata quinquennale del vincolo
preordinato all’esproprio, subordinandone la reiterazione alla
rappresentazione di una debita motivazione fondata sulla presenza di un
elemento di novità che la giustificasse.
A seguito del dubbio di costituzionalità anche in relazione a tale
disposizione (sollevato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con
ordinanza n. 20/1996), con
sentenza n. 179 del 20.05.1999, il giudice delle leggi dichiarò
l’incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4,
e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, primo comma,
della legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17.08.1942, n. 1150) “nella parte in cui
consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti,
preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità senza la
previsione di indennizzo”.
In altri termini, si legge ancora nella sentenza “una
volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da
ogni indennizzo), il vincolo urbanistico (avente le anzidette
caratteristiche), se permane a seguito di reiterazione, non può essere
dissociato, in via alternativa all’espropriazione (o al serio inizio
dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione
dei piani attuativi) dalla previsione di un indennizzo”.
Tempestivamente il legislatore del 2001 fece propri tali principi e
introdusse, nel testo unico delle espropriazioni approvato con DPR 327/2001:
a) la previsione della durata quinquennale del vincolo preordinato
all’esproprio;
b) la possibilità della reiterazione del vincolo seguendo un
procedimento che prevede la garanzia partecipativa per i proprietari
interessati e si conclude con un provvedimento motivato che deve tenere
conto, in particolar modo, delle esigenze di soddisfacimento degli standard;
c) l’obbligo della corresponsione, nel caso di reiterazione, di un
indennizzo, ancorché, come chiarito con sentenza dell’Adunanza plenaria n.
7/2007, per la legittimità della reiterazione non sia necessaria la puntuale
definizione dell’indennizzo da parte dell’Amministrazione, subordinata alla
prova, da parte del proprietario inciso, dell’effettivo danno subìto e alla
sua esatta quantificazione.
Venendo alla previsione regionale sospetta di incostituzionalità, il
legislatore lombardo ha, a parere del Collegio, derogato al principio
fondamentale affermato nella
sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1999, secondo cui,
alla scadenza del termine di efficacia quinquennale del vincolo preordinato
all’esproprio esso decade a meno che non ricorra una delle seguenti
condizioni:
A. il vincolo sia reiterato seguendo l’apposito procedimento a tal
fine previsto dalla legge, con le conseguenti garanzie in termini di
partecipazione al procedimento e di indennizzo del danno conseguente;
B. la sua decadenza sia preclusa dall’intervenire, prima della
scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività
preordinata all’espropriazione”. Tale condizione è stata ravvisata dalla
stessa sentenza in parola nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal
legislatore del testo unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che
dichiara la pubblica utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che
comunque garantisce la partecipazione in chiave collaborativa al
proprietario/espropriando e che rappresenta il primo atto di un procedimento
(quello espropriativo) puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo
l’esercizio del potere espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più
breve termine espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba
intervenire entro cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto
efficace il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato emerge chiaramente
come, nel corso del tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere
ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e
oggi anche all’art. 1 del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento
che si è chiarito come il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta
europea dei diritti dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà
legislativa dello Stato e a maggior ragione delle Regioni, la cui violazione
genera questioni di legittimità costituzionale attratte nella competenza
della Corte Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e
in quanto risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un
equo indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta,
a parere del Collegio, aver disatteso i limiti imposti alla
propria competenza legislativa, violando l’art. 117 della Costituzione, per
aver, nell’esercizio di una competenza legislativa concorrente, eluso i
principi fondamentali della materia, desumibili anche dall’art. 1 del
Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal legislatore statale nel T.U.
delle espropriazioni, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che
li ha estrapolati dall’art. 42 della Costituzione.
Più precisamente, la Regione Lombardia ha violato i limiti
posti dall’art. 117 della Costituzione, perché, esorbitando dalla propria
competenza concorrente in materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il
vincolo preordinato all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si
andranno a meglio evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio
della procedura espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla
Corte Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore
nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa
intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di
pubblica utilità.
Il Collegio ritiene,
dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti
della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione”
del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 della Costituzione
che, riserva al legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui
adozione equivale al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte
Costituzionale ha indicato come condizione necessaria per ritenere
rispettato il principio della temporaneità del potere espropriativo
esercitabile su determinati beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi,
nella fattispecie in esame, in contrasto con l’art. 42
della Costituzione, da una corretta interpretazione del quale discende,
come già anticipato, che il potere espropriativo può essere
esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e,
come evidenziato nella
sentenza della Corte Costituzionale n. 575/1989 già ricordata, a
condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel
tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il
proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della
proprietà.
Ne discende che il vincolo preordinato all’esproprio,
imposto mediante un apposito procedimento che garantisca la partecipazione
dell’interessato, deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del
periodo di efficacia deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità,
la quale, a sua volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che
garantisce la partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del
decreto di esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione
e comunque non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al
comma 12 dell’art. 9 della Legge regionale lombarda n. 12/2005,
invece, il potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo
indeterminato, in ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano
triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella
oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la
partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato
all’infinito senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo.
L’art. 21 del codice degli appalti, infatti, disciplina l’approvazione del
piano triennale delle opere pubbliche senza particolari formalità che
garantiscano la partecipazione al procedimento dei soggetti interessati
dalla realizzazione delle opere in esso inserite, anche in considerazione
della sua funzione prettamente programmatica, strettamente connessa alla
programmazione finanziaria e di bilancio e alla sua natura organizzativa
dell’attività dell’ente, individuando le opere da eseguirsi con priorità.
Tant’è che anche a seguito dell’entrata in vigore del D.M. 16.01.2018, n.
14, recante il regolamento relativo alle procedure e schemi tipo per la
redazione e la pubblicazione del piano triennale dei lavori pubblici, pur
essendo ribadita la necessità della pubblicazione del piano, la garanzia
partecipativa risulta essere minima, dal momento che l’art. 5 prevede che
l’amministrazione “possa” consentire la presentazione delle
osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione, facendo ricorso a un
subprocedimento che la norma definisce come “consultazioni”, che,
quindi, è eventuale, rimesso alla scelta dell’ente e può concludersi senza
che sul Comune gravi un preciso onere motivazionale, nel caso in cui le
prospettazioni del privato vengano disattese.
Inoltre, nessuna disposizione normativa limita la possibilità di riproporre,
negli aggiornamenti annuali, il mantenimento delle previsioni di
realizzazione della stessa opera, che, dunque, potrebbe essere procrastinata
all’infinito, di fatto svuotando completamente di contenuto il diritto di
proprietà e, così, espropriando il suo titolare, cui è preclusa ogni
utilizzazione che non sia quella per la coltivazione agricola, pur in
assenza di alcun indennizzo.
In questo modo si finisce per eludere sia il principio
della temporaneità del potere espropriativo, sia quello dell’indennizzabilità
in caso di un potere che si consolidi nel tempo pur non essendo intervenuta
l’espropriazione, espressamente indicati come alternativi dal giudice delle
leggi nelle sentenze già più volte ricordate.
L’inserimento nel piano triennale delle opere pubbliche, infatti:
- se da un lato non può essere qualificato come un serio
inizio della procedura espropriativa, in quanto non offre alcuna garanzia
circa il fatto che l’opera sia effettivamente realizzata, non comportando
alcun impegno di spesa e non essendo previsto alcun termine di efficacia
entro cui i lavori debbono essere conclusi;
- dall’altro, viola anche il fondamentale presupposto,
introdotto dal legislatore in recepimento del principio individuato dalla
Corte Costituzionale nella citata
sentenza n. 179/1999 e
trasfuso nel primo comma dell’art.
39 del T.U. DPR 327/2001, secondo cui “nel caso di
reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo
sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità,
commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto.”.
4. In conclusione questo Tribunale ritiene che l’art.
9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005 sia
costituzionalmente illegittimo laddove ricollega all’inserimento dell’opera
pubblica nella programmazione triennale prevista dalla normativa in materia
di lavori pubblici, l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo
preordinato all’esproprio.
5. Ciò premesso, questo Tribunale solleva la questione di
legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005,
nella parte in cui, in violazione dei limiti alla propria competenza
legislativa concorrente definiti dall’art. 117 Cost. e comunque dei principi
fondamentali relativi ai limiti del potere espropriativo discendenti
dall’art. 42 Cost., attribuisce all’inserimento della previsione della
realizzazione di un’opera pubblica nella programmazione triennale di cui
all’art. 21 del d.lgs. 50/2016 l’effetto preclusivo della decadenza del
vincolo quinquennale preordinato all’esproprio per la sua esecuzione,
secondo i profili e per le ragioni sopra indicate,
con sospensione del giudizio fino alla pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana della decisione della Corte
Costituzionale sulle questioni indicate, ai sensi e per gli effetti di cui
agli artt. 79 ed 80 del c.p.a. e art. 295 c.p.c..
Riserva al definitivo la decisione nel merito e sulle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di
Brescia (Sezione Seconda), ritenuta la rilevanza e la non
manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005,
per violazione degli artt. 42 e 117 della Costituzione, dispone la
sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 14.08.2019 n. 740 - link a www.giustizia-amministrartiva.it
- si legga anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
ordinanza 20.09.2019 n. 827). |
ANNO 2018 |
|
dicembre 2018 |
|
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 del 06.12.2018, "Legge di
revisione normativa e di semplificazione 2018" (L.R.
04.12.2018 n. 17).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
Titolo I –
Ambito istituzionale
●
Art. 6 - Proroga dei termini per l’aggiornamento dell’individuazione e
classificazione dei piccoli comuni e della classificazione del territorio
montano della Lombardia
Titolo
III – Ambito territoriale
●
Art. 19 - Modifica dell’articolo 5 della l.r. 10/2009
1. All’articolo 5 della legge regionale 29.06.2009, n. 10
(Disposizioni in materia di ambiente e servizi di interesse economico
generale – collegato ordinamentale) sono apportate le seguenti modifiche:
...
● Art. 20 - Modifiche
alla l.r. 4/2016
1. Alla legge regionale 15.03.2016, n. 4 (Revisione della
normativa regionale in materia di difesa del suolo, di prevenzione e
mitigazione del rischio idrogeologico e di gestione dei corsi d'acqua) sono
apportate le seguenti modifiche: ...
● Art. 22 - Disposizioni
in materia di valutazione di impatto ambientale. Modifica degli articoli 3,
6, 11 e inserimento del nuovo articolo 5-bis della l.r. 5/2010
1. Alla legge regionale 02.02.2010, n. 5 (Norme in materia
di valutazione di impatto ambientale) sono apportate le seguenti modifiche:
...
● Art. 25 - Adeguamento
dei regolamenti edilizi comunali
● Art. 26 - Modifica alla
l.r. 31/2014
1. Alla legge regionale 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per
la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo
degradato) è apportata la seguente modifica: ...
●
Art. 27 - Modifica alla l.r. 12/2005
1. Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio) è apportata la seguente modifica: ... |
ottobre 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Ancora alla Corte costituzionale la
legge della Regione Lombardia sulle aree che accolgono
attrezzature religiose.
---------------
Religione – Edifici di culto – Lombardia – Edifici di
culto – Art. 72, l.reg. n. 12 del 2005 – Discrezionalità del
Comune – Violazione artt. 2, 3, 5, 19, 114, 117, commi 2,
lett. m), e 6, terzo periodo, e 118 Cost. – Rilevanza e non
manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della l.r.
della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo
risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1,
lett. c), l.reg. Lombardia 03.02.2015, n. 2, per contrasto
con gli artt. 2, 3, 5, 19, 114, 117, commi 2, lett. m), e 6,
terzo periodo, e 118 Cost. nella parte in cui, avuto
riguardo alla tutela costituzionale riservata alla libertà
religiosa, non detta alcun limite alla discrezionalità del
Comune nel decidere quando (comma 5) e in che senso (commi 1
e 2) determinarsi a fronte della richiesta di individuazione
di edifici o aree da destinare al culto (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar di aver già rimesso la questione di
legittimità costituzionale limitatamente a commi 1 e 2
dell’art. 72, l.reg. n. 12 del 2005 con
sentenza della sez. II 03.08.2018, n. 1939.
Ritiene infatti il Tar che la domanda di spazi da dedicare
all’esercizio di tale libertà debba trovare una risposta -in un senso positivo o in senso negativo- in tempi certi,
ed entro un termine ragionevole, avuto riguardo sia ai tempi
connessi alla valutazione di impatto sul tessuto
urbanistico, a volte indiscutibilmente complessa, sia avuto
riguardo alla particolare importanza del bene della vita al
quale aspirano i fedeli interessati.
Al riguardo, il Tar ha richiamato la
sentenza della Corte
cost. 24.03.2016, n. 63, secondo cui “Non è, invece,
consentito al legislatore regionale, all’interno di una
legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni
che ostacolino o compromettano la libertà di religione.”. La
richiamata condizione di attesa a tempo indeterminato e di
incertezza rileva quale ostacolo all’esplicazione del
diritto di libertà religiosa.
Ne consegue una non giustificata compressione dei diritti di
cui all’art. 19 Cost., e più in generale un ostacolo non
giustificato all’esplicazione dei diritti inviolabili della
persona, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in
violazione dell’art. 2 Cost..
Il fatto che tale compressione della posizione soggettiva
degli interessati non appaia giustificata pare altresì
contrastare con il criterio della ragionevolezza del quale è
espressione l’art. 3 Cost..
In sintesi la norma contrasta con i principi costituzionali
richiamati, laddove prevede un termine –di 18 mesi– per
l’adozione del piano delle attrezzature religiose, decorso
il quale non viene previsto alcun intervento sostitutivo, ma
viene demandato all’Amministrazione Comunale la facoltà di
introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT,
senza alcun ulteriore termine.
In tal modo viene vanificato il diritto alla libertà
religiosa, sotto il profilo del diritto di trovare spazi da
dedicare all’esercizio di tale libertà.
La norma pare violare altresì l’art. 97 Cost. e dell’art.
117, comma 2, lett. m), il fatto che l’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 rinvii a tempo indeterminato
la risposta a un’esigenza riguardante l’esercizio di un
diritto fondamentale della persona.
La mancata previsione, da parte della norma regionale, di
tempi certi di risposta alle istanze dei fedeli interessati
sembra infatti in contrasto con il principio di buon
andamento che deve presiedere l’attività della Pubblica
Amministrazione.
A bene vedere, la mancata di previsione di tempi certi da
parte dell’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del
2005 pare inoltre esprimere uno sfavore dell’Amministrazione
nei confronti del fenomeno religioso, il che contrasta con
il principio di imparzialità dell’azione amministrativa di
cui al menzionato art. 97 Cost..
Sotto connesso profilo, nella prospettiva dell’art. 117,
comma 2, lett. m), Cost. appare violato il livello minimo
delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Al riguardo, osserva il Tar che, ai sensi dell’art. 29, l.
n. 241 del 1990 attiene ai livelli essenziali delle
prestazioni di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.
l’aspetto riguardante la predeterminazione della durata
massima dei procedimenti.
Ovviamente, va da sé che una norma che si esprima in termini
di sfavore verso il fenomeno religioso contrasta anche con
gli artt. 2. 3 e 19 Cost., ai quali si è già fatto
riferimento.
In sintesi il quadro normativo che, una volta decorso il
primo termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della l.
reg. Lombardia n. 12 del 2005, non ha previsto ulteriori
termini per imporre l’adozione del piano della attrezzature
religiose, si pone in contrasto con la disciplina in materia
di procedimento amministrativo e di certezza dei termini di
conclusione del procedimento, quindi con i principi
costituzionali dell’art. 97 Cost. e dell’art. 117, comma 2,
lett. m) Cost.
Sotto un ulteriore profilo, ritiene il Tar che l’art. 72,
comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 contrasti con
l’art. 5 Cost., con l’art. 114, comma 2, Cost., con l’art.
117, comma 6, terzo periodo, Cost., con l’art. 118, comma 1,
Cost..
Ad avviso del Tar la norma regionale condiziona l’adozione
del Piano delle attrezzature religiose alla revisione
complessiva del piano di governo del territorio.
Infatti, solo nei primi diciotto mesi dall’entrata in vigore
della norma le Amministrazioni potevano predisporre il Piano
delle attrezzature religiose senza mettere mano all’intera
disciplina del governo del territorio.
Da che è maturata la scadenza dei diciotto mesi, la legge
regionale non lo permette più.
In altri termini, l’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n.
12 del 2005 impedisce ai Comuni di dotarsi di un Piano delle
attrezzature religiose senza contestualmente revisionare
l’intera disciplina del governo del territorio.
Ad avviso del Tar viene in rilievo una ingiustificata
compressione delle prerogative del Comuni da parte della
Regione. Infatti, non si comprende quale ragione possa
giustificare il sostanziale divieto gravante sui Comuni
lombardi di adottare il Piano delle attrezzature religiose
in un momento distinto rispetto alla revisione generale del
Piano di governo del territorio. Da un primo punto di vista,
la norma sembra integrare una violazione dell’art. 5 Cost.,
atteso che essa frustra l’autonomia dei Comuni, quali
autonomie locali. Sotto connesso profilo, appaiono violati
l’art. 114, comma 2, Cost. e l’art. 117, comma 6, terzo
periodo, Cost..
In particolare, nella prospettiva dell’art. 114, comma 2,
Cost. appare violato sotto un profilo generale l’autonomia
riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e
delle funzioni di loro competenza.
Nella più particolare prospettiva dell’art. 117, comma 6,
terzo periodo Cost. appare violata l’autonomia degli Enti
Locali sotto il profilo della potestà regolamentare in
ordine alle funzioni attribuite ai Comuni.
Come anticipato, la limitazione imposta dalla Regione
all’autonomia dei Comuni non appare giustificata.
Da questo punto di vista sembra venire in rilievo la
violazione del principio di sussidiarietà verticale di cui
all’art. 118, comma 1, Cost..
In sintesi la disposizione regionale, laddove fa divieto ai
Comuni di adottare il piano delle attrezzature religiose
dopo il termine dei 18 mesi, ma necessariamente solo
contestualmente alla revisione del PGT, viola il principio
di autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio
dei poteri e delle funzioni di loro competenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.10.2018 n. 2227 -commento tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
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FATTO
L’Associazione Co.Is. (da ora anche solo
Associazione), è un’associazione costituita nel 2004 e
raccoglie circa trecento persone di religione islamica,
residenti prevalentemente a Sesto Calende e nei comuni
limitrofi.
Già nel luglio 2011, nel corso della formazione del PGT,
l’Associazione ha chiesto al Comune di prevedere nel proprio
strumento urbanistico un’area per il culto islamico.
Il provvedimento di rigetto è stato impugnato con ricorso (r.g.
n. 364/2012), accolto con sentenza n. 2485 del 08.11.2013.
Tuttavia, a fronte dell’inerzia del Comune, L’Associazione
si vedeva costretta a notificare ricorso per ottemperanza,
accolto con sentenza n. 146 del 15.01.2015.
L’Amministrazione avviava quindi un procedimento in
ottemperanza alla sentenza del Tar; tuttavia, con nota del
22.02.2015, l’Amministrazione comunicava di aver sospeso il
procedimento, a seguito della L.R. n. 2 del 03.02.2015.
L’Associazione notificava un nuovo giudizio di ottemperanza,
sull’assunto che la nuova legge regionale non potesse
costituire ostacolo all’esecuzione delle precedenti
statuizioni giurisdizionali. Il ricorso di ottemperanza
veniva accolto con sentenza n. 943/2015: il Tar riteneva
infatti che la L.R. 2/2015, ancorché sopravvenuta, dovesse
trovare applicazione e incidesse sul dovere di esecuzione
del Comune.
Al fine di non fare decorrere il termine di 18 mesi per
l’approvazione dei piani comunali delle attrezzature
religiose, l’Associazione notificava in data 26.07.2016 un
atto di diffida.
L’Amministrazione avviava il procedimento al fine della
valutazione delle osservazioni pervenute e dopo la
comunicazione ex art 10-bis, notificava il rigetto della
domanda, rilevando l’assenza dei requisiti di ente di
confessione religiosa, come richiesti dalla L. 1159/1929.
Il diniego veniva impugnato con il presente ricorso,
notificato in data 20.12.2016 e depositato il 22.12.2016,
per i seguenti motivi:
1) illegittimità del provvedimento 25.10.2016
n. 24471 per eccesso di potere e violazione di legge, in
relazione all’art. 70, c. 2-ter, L.R. 12/2005; violazione della L. 1159/1929; in
subordine illegittimità derivata per violazione degli art. 2
e 19 Cost.: secondo l’Amministrazione l’Associazione non
avrebbe i poteri di rappresentanza propri degli enti delle
altre confessioni religiose e non costituirebbe ente di
confessione religiosa. Sostiene la ricorrente che la L.
1159/1929 non è applicabile al caso in esame, né può
rappresentare una condizione per limitare l’esercizio del
diritto di culto, dal momento che la libertà religiosa è un
diritto costituzionale. Seguendo l’interpretazione
dell’Amministrazione la L.R. risulterebbe in contrasto con
gli artt. 2, 8 e 19 Cost., perché si escluderebbe qualsiasi
insediamento di edifici di culto islamico nel territorio
regionale;
2) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 in relazione
ai vincolo da osservare nell’esecuzione delle sentenze del
Tar Lombardia sez. II n. 2485/2013 e n. 146/2015, difetto di
motivazione: l’Amministrazione sostiene che l’Associazione
ricorrente non sarebbe “ente di confessione religiosa”. Già
nelle pregresse sentenze l’Associazione è stata ritenuta
come rappresentativa di una comunità di residenti dotata di
legittimazione al ricorso;
3) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 per
violazione degli artt. 3 e 8 Cost. e dell’art 70 L.R.
12/2005: il provvedimento richiede la necessità della
sottoscrizione di una convenzione con il Comune.
L’Associazione è sempre stata disponibile a detta
sottoscrizione; in ogni caso si tratta di una condizione in
contrasto con i principi costituzionali perché viene
introdotta una discriminazione fondata sulla confessione
religiosa;
4) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 per
violazione dell’art 10 L. 241/1990: nel provvedimento una
ragione di rigetto è indicata nella circostanza che
l’associazione non costituirebbe ente di confessione
religiosa, motivo non rappresentato nel preavviso di
rigetto.
Si è costituito in giudizio il Comune di Sesto Calende,
chiedendo il rigetto del ricorso.
Con ordinanza cautelare n. 117 del 20.01.2017 gli effetti
del diniego sono stati sospesi, disponendo il riesame,
rilevando profili di fondatezza del ricorso, in quanto “la
mancanza del riconoscimento ai sensi della legge n. 1159 del
1929 non appare legittimamente invocabile quale causa di
esclusione dalla possibilità di ottenere, da parte di una
confessione religiosa, l’assegnazione di aree da destinare
all’esercizio del culto, considerato che tale possibilità
deve essere garantita a tutte le confessioni, e non soltanto
a quelle riconosciute (cfr. Corte cost. n. 63 del 2016, n.
193 del 1995 e n. 59 del 1958);
- appare pure censurabile l’affermazione secondo la quale
l’Associazione ricorrente, al di là della mancanza di
riconoscimento ai sensi della legge n. 1159 del 1929, non
costituirebbe “ente di confessione religiosa”, in quanto, a
fronte della finalità religiosa dell’organizzazione e della
dichiarata volontà di disporre di un luogo per l’esercizio
del culto, non sembra consentito al Comune richiedere né il
possesso di specifici requisiti da parte del soggetto
istante (attesa la declaratoria di illegittimità
costituzionale che ha colpito la parte del comma 2-bis
dell’articolo 70 della legge regionale n. 12 del 2005, ove
tali requisiti erano stabiliti), né la prova che tale
soggetto costituisca articolazione di una confessione
organizzata o benefici di un riconoscimento formale della
rappresentatività di un certo credo religioso, poiché la
libertà di culto è garantita anche a “confessioni religiose
strutturate come semplici comunità di fedeli che non abbiano
organizzazioni regolate da speciali statuti” (Corte cost. n.
193 del 1995);
- conseguentemente, in una lettura costituzionalmente orientata
della disciplina regionale, la qualificazione del soggetto
richiedente, da parte del Comune, come “ente di confessione
religiosa” non sembra potersi basare che sull’idoneità in
concreto di tale soggetto a rappresentare un’esigenza di
culto riscontrabile a livello locale;
- in tale prospettiva, la valutazione che il Comune è chiamato a
compiere, ai fini all’individuazione di luoghi da destinare
all’esercizio del culto, dovrà perciò risultare attinente,
secondo l’insegnamento della Corte costituzionale,
“all’entità della presenza sul territorio dell’una o
dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e
incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella
popolazione” (Corte cost. n. 63 del 2016); dati, questi, da
ponderare in considerazione delle utilità limitate (nel caso
di specie: utilizzazione del territorio ed eventuale consumo
di suolo) oggetto di assegnazione (cfr. ancora la sentenza
da ultimo richiamata);”.
Il Comune ha quindi adottato la delibera consiliare del 20.09.2017 n. 39, sempre respingendo la domanda, per una
pluralità di motivi. In particolare sostiene il Comune che:
- l’Associazione non avrebbe i requisiti richiesti dalla legge,
perché la disciplina sui luoghi di culto non va applicata in
funzione della percentuale rispetto alla popolazione totale,
ma quando si riscontra la presenza di un gruppo di fedeli e
l’esigenza per essi di disporre di un culto;
- le aree non sono dotate di parcheggi e in ogni caso non ci sono
immobili comunali idonei a questo scopo;
- l’Associazione si è trasferita come sede in altro comune.
Con motivi aggiunti depositati in data 22.11.2017 è stata
impugnata la delibera n. 39/2017, per i seguenti motivi:
1) Violazione dell’art 19 Cost. e dell’art 70, comma 2-bis, L.R.
12/2005; violazione dei principi affermati dal Tar Lombardia
nella sentenza 24585/2013: l’Amministrazione non può, in
presenza di una comunità religiosa, differire ogni
determinazione in ordine alla individuazione di un’area di
culto. La presenza di una comunità islamica è ragione
sufficiente per accogliere la richiesta;
2) Violazione dell’art. 70, comma 2, della L.R. 12/2005 per carenza di
istruttoria e difetto di motivazione: il comune afferma:
a) che l’associazione non avrebbe le
caratteristiche di consistenza e di incidenza sociale; per
consentire l’individuazione di un’area di culto;
b) le aree non sono dotate di parcheggi e non ci
sono immobili comunali idonei;
c) l’associazione si è trasferita come sede fuori
dal Comune resistente;
d) nel 2008 l’Amministrazione ha negato che vi
fossero elementi per riconoscere una consistente presenza
sul territorio dell’associazione.
La ricorrente contesta la fondatezza delle motivazioni del
rigetto della domanda, in quanto l’Associazione ha come
iscritti i nuclei familiari, per cui gli aderenti sono
maggiori rispetto a quelli considerati. Inoltre la
disciplina sui luoghi di culto non va applicata in funzione
della percentuale rispetto alla popolazione totale, ma
quando si riscontra la presenza di un gruppo di fedeli e
l’esigenza per essi di disporre di un culto.
L’affermazione circa l’inidoneità delle aree è in contrasto
con il diritto costituzionale alla libertà religiosa.
Irrilevante la circostanza che l’associazione abbia cambiato
sede e che già nel 2008 l’Amministrazione avesse negato che
sussistessero elementi idonei a confermare la consistente
presenza dell’associazione sul territorio.
Anche rispetto ai motivi aggiunti si è costituto il Comune,
affermando che non vi sarebbe alcun obbligo di trovare
un’area, ma solo di valutare l’idoneità dell’area.
Ha altresì sollevato l’eccezione di inammissibilità del
ricorso, in quanto generico.
All’udienza del 30.05.2018 il ricorso è stato trattenuto in
decisione.
DIRITTO
1) Con il ricorso principale l'Associazione ha impugnato,
chiedendone la sospensione cautelare, il provvedimento prot.
24471 di data 25.10.2016 a mezzo del quale il Comune di
Sesto Calende aveva respinto l'istanza tesa
all'individuazione di un luogo di culto del territorio
comunale da dedicare al culto islamico.
A seguito dell'accoglimento dell'istanza cautelare con
l'ordinanza della Sezione n. 112/2017 e del rigetto
dell'appello avverso la stessa decisone con l'ordinanza del
Consiglio di Stato n. 1884/2017, il Comune si rideterminava
a mezzo della deliberazione consiliare n. 39 di data
20.09.2017, con la quale respingeva nuovamente l'istanza
dell'Associazione.
Ritiene il Collegio che tale decisione di riesame della
originaria istanza dell'Associazione abbia natura di
provvedimento di secondo grado rispetto a quello di data
25.10.2016.
Di conseguenza, la deliberazione consiliare n. 39 di data
20.09.2017 ha definitivamente privato di efficacia il
provvedimento di data 25.10.2016, impugnato –quando ancora
era efficace– a mezzo del ricorso principale.
In tale situazione, il ricorso principale va dichiarato
improcedibile.
2) Con il ricorso per motivi aggiunti l'Associazione
chiede l'annullamento della deliberazione consiliare n. 39
di data 20.09.2017.
Al riguardo, va rigettata l’eccezione di inammissibilità
opposta dalla difesa Comunale, secondo cui i motivi aggiunti
avrebbero contenuto generico e non indicherebbero i profili
di ritenuta illegittimità del provvedimento impugnato.
Osserva infatti il Collegio che, nel primo motivo aggiunto,
riguardante l’impianto generale della deliberazione
consiliare n. 39/2017, emergono nitidamente le doglianze
circa il difetto di motivazione e circa il cattivo esercizio
della discrezionalità nella pianificazione urbanistica.
Il secondo motivo aggiunto contesta invece
analiticamente i singoli punti della motivazione del
provvedimento impugnato.
3) Passando al merito della controversia, rileva il Collegio
che la deliberazione consiliare n. 39 di data 20.09.2017
costituisce il provvedimento finale del procedimento
apertosi a seguito dell'istanza dell'Associazione tesa
all'individuazione nel PGT del Comune di Sesto Calende di un
luogo del territorio comunale di culto da dedicare al culto
islamico, sulla base della sentenza della Sezione n.
2485/2013, passata in giudicato.
Nel giudizio riguardante l'ottemperanza della sentenza
appena citata, la Sezione aveva precisato che al
procedimento andavano applicate le norme introdotte dalla
L.R. Lombardia n. 2/2015 a modifica della L.R. n. 12/2005
rubricata “Legge per il governo del territorio”
(sentenza n. 943/2016).
Il procedimento era quindi retto dall'applicazione dell'art.
72 della L.R. Lombardia n. 12/2005, nella versione
risultante dalle modifiche introdotte dalla menzionata L.R.
n. 2/2015.
L'Associazione, a mezzo del terzo motivo del ricorso
principale, ha eccepito l'illegittimità costituzionale di
tale art. 72 sopra citato nella parte in cui condiziona
l'esercizio del culto alla discrezionalità riservata al
Comune nell'individuare o meno nello strumento urbanistico
luoghi destinati a servizi religiosi.
L'eccezione è da intendersi estesa anche al provvedimento
impugnato con i motivi aggiunti.
Infatti, il ricorso per motivi aggiunti non ha mutato i
termini della controversia così come perimetrati nel ricorso
principale.
3.1 Ciò premesso, anche il Collegio dubita della legittimità
costituzionale dell'art. 72 della L.R. Lombardia n. 12/2005
nella misura in cui tale norma, avuto riguardo alla tutela
costituzionale riservata alla libertà religiosa, non detta
alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere
quando (comma 5) e in che senso (commi 1 e 2) determinarsi a
fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree
da destinare al culto.
La Sezione ha già rimesso la questione di legittimità
costituzionale limitatamente a commi 1 e 2 del menzionato
art. 72 della L.R. n. 12/2005 a mezzo della sentenza non
definitiva n. 1939/2018, alla quale infra il Collegio farà
ampio riferimento.
Sotto questo profilo, il Collegio reputa opportuno
sospendere il giudizio ai sensi dell'art. 79 c.p.a. in
attesa della decisione della Corte Costituzionale.
Sotto il profilo della questione di legittimità
costituzionale dell'art. 72, comma 5, ritiene invece il
Collegio di dovere sottoporre gli atti alla Corte
Costituzionale, per un ulteriore profilo di
incostituzionalità della norma regionale, non sollevato
nella precedente decisione di rinvio.
4) Prima di affrontare compiutamente i temi della rilevanza
e della non manifesta infondatezza della questione di
costituzionalità, pare al Collegio opportuno richiamare la
ricostruzione del quadro normativo che viene in rilievo,
operata a mezzo della menzionata
sentenza della Sezione n.
1939/2018:
“9.1 La legge regionale della Lombardia
11.03.2005, n. 12 (“Legge per il governo del territorio”)
reca, nella Parte II (“Gestione del territorio”), un Titolo
IV dedicato alle “Attività edilizie specifiche”. Nell’ambito
di questo Titolo, il Capo III – composto dagli articoli
70-73 della legge – detta “Norme per la realizzazione di
edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi
religiosi”.
Le previsioni contenute nel suddetto Capo stabiliscono,
anzitutto, che le “attrezzature di interesse comune per
servizi religiosi”, come definite all’articolo 71, comma
1, della legge regionale, “costituiscono opere di
urbanizzazione secondaria ad ogni effetto” (così il
comma 2 dello stesso articolo 71, tuttora vigente).
Quanto alla localizzazione sul territorio di tali
attrezzature, l’articolo 71, comma 1, stabiliva, nel suo
tenore originario, prima delle modifiche apportate dalla
legge regionale 03.02.2015, n. 2, che il Piano dei Servizi
–che è uno degli atti di cui si compone il Piano di Governo
del Territorio– dovesse specificamente individuare,
dimensionare e disciplinare “le aree che accolgono
attrezzature religiose, o che sono destinate alle
attrezzature stesse”, e ciò “sulla base delle
esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti
delle confessioni religiose di cui all’articolo 70”.
Tali ultimi soggetti erano individuabili, in particolare,
negli “enti istituzionalmente competenti in materia di culto
della Chiesa Cattolica” (articolo 70, comma 1) e negli “enti
delle altre confessioni religiose come tali qualificate in
base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una
presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del
comune (…), ed i cui statuti esprimano il carattere
religioso delle loro finalità istituzionali e previa
stipulazione di convenzione tra il comune e le confessioni
interessate” (articolo 70, comma 2).
Era, inoltre, stabilito che, indipendentemente dalla
dotazione di attrezzature religiose esistenti, “nelle
aree in cui siano previsti nuovi insediamenti residenziali,
il piano dei servizi, e relative varianti, assicura nuove
aree per attrezzature religiose, tenendo conto delle
esigenze rappresentate dagli enti delle confessioni
religiose di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma
2).
Apposite previsioni erano pure dettate per la realizzazione
di attrezzature religiose di interesse sovracomunale
(articolo 71, comma 3).
Quanto alla ripartizione delle attrezzature tra gli enti
interessati, questa doveva essere operata “in base alla
consistenza ed incidenza sociale delle rispettive confessioni”
(articolo 71, comma 4).
Era, inoltre, stabilito che, fino all’approvazione del Piano
dei Servizi, la realizzazione di nuove attrezzature per i
servizi religiosi fosse “ammessa unicamente su aree
classificate a standard nei vigenti strumenti urbanistici
generali e specificamente destinate ad attrezzature per
interesse comune” (così il comma 4-bis dell’articolo 71,
introdotto dall’articolo 1, comma 1, lett. hhh), della legge
regionale 14.03.2008, n. 4).
Infine, l’articolo 73 dettava (e detta tuttora) disposizioni
relative alle modalità di finanziamento della realizzazione
di attrezzature religiose da parte di ciascun comune.
9.2 La suddetta disciplina ha subito incisive modifiche a
seguito dell’entrata in vigore della legge regionale
03.02.2015, n. 2; modifiche che –si anticipa sin d’ora– sono
state in parte colpite da una dichiarazione di
incostituzionalità, per effetto della sentenza della Corte
costituzionale n. 63 del 2016.
9.2.1 La nuova legge ha, anzitutto, innovato in modo
significativo la disciplina dettata dall’articolo 70, in
tema di individuazione degli enti delle confessioni
religiose deputati a realizzare attrezzature religiose sul
territorio comunale. Tali soggetti sono stati, infatti,
individuati, oltre che negli enti della Chiesa cattolica,
anche negli “enti delle altre confessioni religiose con
le quali lo Stato ha già approvato con legge la relativa
intesa ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della
Costituzione” (nuovo articolo 70, comma 2) e negli enti
delle ulteriori confessioni religiose, non firmatarie di
intesa, in presenza di determinati requisiti specifici
(articolo 70, comma 2-bis).
Per gli enti diversi da quelli della Chiesa cattolica è
stato, peraltro, previsto che l’applicazione delle
previsioni in materia di attrezzature di interesse religioso
sia subordinata alla stipulazione di “una convenzione a
fini urbanistici con il comune interessato” (articolo
70, comma 2-ter).
E’ stata, ancora, prevista l’istituzione di una Consulta
regionale, nominata con provvedimento della Giunta
regionale, deputata al “rilascio di parere preventivo e
obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti” per
l’accreditamento presso i Comuni degli enti di confessioni
religiose che non abbiano stipulato intese con lo Stato, al
fine della realizzazione di attrezzature religiose (articolo
70, comma 2-quater).
9.2.2 E’ stata, inoltre, radicalmente modificata la
disciplina relativa alla localizzazione delle attrezzature
religiose, contenuta all’articolo 72.
Sotto questo profilo, si è stabilito, anzitutto, che “Le
aree che accolgono attrezzature religiose o che sono
destinate alle attrezzature stesse sono specificamente
individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto
separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono
dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze
locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle
confessioni religiose di cui all’articolo 70” (articolo
72, comma 1).
Il Piano delle attrezzature religiose è “sottoposto
alla medesima procedura di approvazione dei piani componenti
il PGT” (articolo 72, comma 3) e deve prevedere una
serie di contenuti specifici (articolo 72, comma 7),
consistenti in prescrizioni di dotazioni di servizi (lett.
a), b) e d), del comma 7), caratteristiche costruttive delle
attrezzature religiose (lett. e), f) e g) del comma 7) e
apposite distanze tra le strutture da destinare alle diverse
confessioni religiose, sulla base delle distanze minime
stabilite dalla Giunta regionale (lett. c) del comma 7).
E’, poi, stabilito che “L’installazione di nuove
attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma
1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna
nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui
all’articolo 70” (articolo 72, comma 2). E, in questa
prospettiva, la legge regionale dispone pure che “I comuni
che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono
tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature
religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in
vigore della legge regionale recante “Modifiche alla
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio) – Principi per la pianificazione delle
attrezzature per servizi religiosi“.”, ossia la stessa
legge n. 2 del 2015; “Decorso detto termine il piano è
approvato unitamente al nuovo PGT” (articolo 72, comma
5).
9.3 Le previsioni in materia di attrezzature religiose
introdotte dalla legge regionale n. 2 del 2015 sono state in
parte dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, con
la sentenza n. 63 del 2016, in esito al giudizio in via
d’azione promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri
contro la predetta legge.
Più in dettaglio, la Corte ha dichiarato fondate, per
violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma,
lettera c), della Costituzione, le questioni di legittimità
costituzionale aventi ad oggetto:
– l’articolo 70, comma 2-bis, ove erano stabiliti i requisiti che
gli enti delle confessioni religiose che non hanno stipulato
un’intesa con lo Stato avrebbero dovuto possedere al fine di
accedere alla possibilità di realizzare attrezzature
religiose;
– l’articolo 70, comma 2-quater, che sottoponeva al vaglio di
un’apposita Consulta regionale lo scrutinio in ordine al
possesso di tali requisiti.
La Corte ha, inoltre, riscontrato la fondatezza delle
questioni con le quali si prospettava la violazione della
competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e
sicurezza, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera
h), della Costituzione ad opera delle previsioni contenute:
– all’articolo 72, comma 4, primo periodo, della legge regionale,
ove si prevedeva che, nel corso del procedimento per la
predisposizione del Piano delle attrezzature religiose,
venissero acquisiti “i pareri di organizzazioni, comitati
di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze
dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e
prefettura al fine di valutare possibili profili di
sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi
statali”;
– all’articolo 72, comma 7, lett. e), ove si prescriveva che il
Piano dovesse prevedere, per le attrezzature religiose, “la
realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno
all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne
monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici
della polizia locale o forze dell’ordine”.
9.4 L’intervento della Corte non ha, invece, toccato –in
quanto non sottoposta allo scrutinio di legittimità
costituzionale– l’architettura del sistema prefigurato dalla
legge regionale n. 2 del 2015 al fine dell’insediamento sul
territorio delle attrezzature religiose e, in particolare,
la necessaria subordinazione della realizzazione di tali
attrezzature all’approvazione di un apposito Piano.
La Corte ha, infatti, espressamente evidenziato che non
formava oggetto del giudizio “l’art. 72, comma 1, della
stessa legge regionale n. 12 del 2005, il quale ricollega
alla valutazione delle «esigenze locali», previo esame delle
diverse istanze confessionali, la programmazione urbanistica
delle attrezzature religiose”.
Per quanto qui rileva, la Corte ha, inoltre, dichiarato
manifestamente inammissibile, per inconferenza del parametro
evocato –ossia l’articolo 117, secondo comma, lett. l),
della Costituzione– la questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della legge
regionale n. 12 del 2005, ove si stabilisce che i Comuni che
intendano prevedere nuove attrezzature religiose debbano
approvare il relativo Piano entro diciotto mesi dall’entrata
in vigore della legge e che, in mancanza, si provveda
unitamente al nuovo Piano di Governo del Territorio.”
La ricostruzione normativa deve essere completata in
considerazione dell’avvenuta abrogazione della L.R.
Lombardia n. 2/2015 a mezzo della L.R. n. 5/2018, recante “Razionalizzazione
dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di
legge.”
Sulla portata della L.R. Lombardia n. 5/2018 ritiene il
Collegio di confermare il proprio orientamento espresso
nella più volte menzionata
sentenza della Sezione n.
1939/2018:
“Sempre in punto di rilevanza, il Collegio
deve prendere in considerazione la portata della legge
regionale 25.01.2018, n. 5, recante “Razionalizzazione
dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di
legge.”, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della
Regione Lombardia del 29.01.2018, Supplemento n. 5.
La suddetta legge reca, all’articolo 2 –dedicato alla “Abrogazione
di leggi”– la previsione secondo la quale “A
decorrere dall’entrata in vigore della presente legge sono o
restano abrogate: …b)le seguenti leggi o disposizioni
operanti modifiche alla legislazione regionale… 69) L.R.
03.02.2015, n. 2 (Modifiche alla legge regionale 11.03.2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per
la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi);”.
E’ stata, dunque, disposta l’abrogazione della legge
regionale n. 2 del 2015, che –come più volte ripetuto– ha
novellato la legge regionale n. 12 del 2005, dettando la
disciplina applicata dal provvedimento impugnato nel
presente giudizio.
Occorre, dunque, domandarsi se tale previsione possa
influire sulla rilevanza delle questioni di legittimità
costituzionale che si intendono rimettere alla Corte
costituzionale.
21.1 Il Collegio rileva, anzitutto, che il provvedimento
impugnato nel presente giudizio è precedente alla legge
regionale n. 5 del 2018, per cui la sua legittimità va
valutata in base al quadro normativo vigente al tempo della
sua adozione.
Conseguentemente, la norma regionale abrogatrice
sopravvenuta non potrebbe comunque far venire meno la
rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale
relative al testo della legge n. 12 del 2005, nella
formulazione in vigore quando è stato rilasciato il permesso
di costruire annullato, e anche al tempo della
determinazione di autotutela qui censurata.
21.2 In ogni caso, è pure da escludere che la legge
regionale n. 5 del 2018 abbia modificato l’articolo 72 della
legge regionale n. 12 del 2005, il quale è da ritenere a
tutt’oggi vigente nel tenore risultante dalle modificazioni
apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015.
L’operazione disposta dal legislatore regionale è stata,
infatti, di mero riordino legislativo, come risulta
chiaramente dall’articolo 1 della legge regionale n. 5 del
2018, ove, nell’indicare le finalità dell’intervento
normativo, si enuncia che “La presente legge opera
interventi di manutenzione e razionalizzazione tecnica
dell’ordinamento regionale attraverso interventi abrogativi
di leggi o di disposizioni di legge. Per tutte le
disposizioni oggetto di abrogazione sono fatti salvi gli
effetti secondo quanto previsto dall’articolo 4.”.
Il richiamato articolo 4 stabilisce, a sua volta, che “Sono
fatti salvi gli effetti prodotti o comunque derivanti dalle
leggi e dalle disposizioni abrogate dalla presente legge,
comprese le modifiche apportate ad altre leggi. Restano
pertanto confermate, in particolare, le autorizzazioni, le
variazioni, i rifinanziamenti e ogni altro effetto
giuridico, economico o finanziario prodotto o comunque
derivante dalle disposizioni in materia di bilancio, nonché
le variazioni testuali apportate alla legislazione vigente
dalle leggi abrogate dalla presente legge, ove non superate
da integrazioni, modificazioni o abrogazioni disposte da
leggi intervenute successivamente. Trova inoltre
applicazione, per le leggi di cui all’articolo 3, anche
quanto previsto dall’articolo 24, comma 2, della L.R.
29/2006”.
Il legislatore regionale ha, cioè, inteso eliminare le leggi
enumerate –tra le quali la legge n. 2 del 2015– intese
esclusivamente quali atti fonte, ossia quali “veicoli”
delle modificazioni apportate ad altre leggi; “veicoli”
che hanno sostanzialmente esaurito i loro effetti con
l’introduzione stessa delle novelle. Le leggi modificate non
sono state, invece, toccate dall’intervento di riordino, il
quale non ha inteso apportare alcuna variazione sostanziale
al corpus legislativo regionale.”
5) Alla luce della ricostruzione normativa e della
precedente decisione, viene sollevato in questo giudizio
l’ulteriore profilo di incostituzionalità dell’art. 72 L.R.
Lombardia n. 12/2005, in quanto questione rilevante al fine
della definizione dei motivi aggiunti.
Infatti, entrambe le censure proposte con i motivi aggiunti
riguardano la violazione dell’art. 70, comma 2-bis, della
L.R. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “le disposizioni
del presente capo si applicano altresì agli enti delle altre
confessioni religiose”. Al riguardo, viene in rilievo il
“Capo III”, intitolato “Norme per la realizzazione
di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi
religiosi” della Parte II, Titolo IV, della Legge
regionale in argomento.
Lamentando la violazione di tale norma, l’Associazione
ricorrente si duole quindi del modo in cui il Comune ha
applicato le norme del Capo III, tra le quali è compreso
l’art. 72, che, come detto nella precedente decisione, si
deve ritenere in vigore.
In particolare, con il primo motivo aggiunto, l'Associazione
lamenta che “l’Amministrazione comunale non può
legittimamente negare la sussistenza dei presupposti ad una
individuazione di area di culto da assegnare a fedeli della
religione islamica, né tanto meno [il che particolarmente
rileva ai fini della questione di legittimità costituzionale
– n.d.r.] può legittimamente differire ogni determinazione
in tal senso ad una successiva ed ulteriore verifica in sede
di futuro aggiornamento del PGT”.
L’Associazione ricorrente ha avuto cura di precisare che la
censura di cui al primo motivo aggiunto “ha carattere
assorbente” rispetto a quella contenuta nel motivo
successivo, a mezzo del quale la ricorrente lamenta che il
Comune avrebbe errato: (a) nell’esprimere il giudizio di
significatività della presenza di una comunità islamica sul
proprio territorio; (b) nel qualificare l’istanza
dell’Associazione come tesa a fruire di un immobile
comunale; (c) nell’affermare che l’Associazione avrebbe
ormai trovato sede in un Comune contermine; (d) nel dare
rilevanza che già nell’anno 2008 il Comune medesimo non
aveva ravvisato in capo all’Associazione una consistenza e
una incidenza sociale apprezzabili sul territorio.
Ritiene quindi il Collegio di poter affrontare la seconda
censura dei motivi aggiunti solo dopo avere deciso sulla
prima censura.
Sennonché, come detto, la decisione sulla prima censura
passa necessariamente attraverso l’applicazione dell’art.
72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005, secondo cui
-lo si ripete- “I comuni che intendono prevedere nuove
attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare
il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi
dalla data di entrata in vigore della legge regionale
recante "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi".
Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al
nuovo PGT.”.
Al riguardo, osserva il Collegio che il termine di diciotto
mesi menzionato al primo periodo ha iniziato a decorrere dal
06.02.2015, giorno successivo alla data di pubblicazione
della Legge sul Bollettino Ufficiale della Regione
Lombardia, ed è spirato il 06.08.2016.
Nel caso di specie, il Comune di Sesto Calende ha adottato
il provvedimento impugnato in data 20.09.2017, con la
conseguenza che viene in rilievo l’applicazione del secondo
periodo dell’art. 72, comma 5, a mente del quale la
previsione di nuove attrezzature religiose sul territorio
comunale presuppone la previa redazione di un apposito
piano, che i Comuni lombardi possono adottare in uno con il
nuovo PGT.
Senza l’avvio del nuovo Piano del Governo del Territorio
rimane sena tutela la posizione dell’Associazione: in tal
senso è quindi innegabile la rilevanza della questione nel
caso di specie.
6) Il Collegio sospetta l’art. 72, comma 5, della L.R.
Lombardia n. 12/2005 di illegittimità costituzionale per le
seguenti ragioni.
6.1. Sotto un primo profilo, al Collegio pare che l’art. 72,
comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 contrasti con
l’art. 2 Cost., con l’art. 3 Cost., e con l’art. 19 Cost..
Al riguardo, con la sentenza n. 1939/2018 la Sezione ha già
avuto modo di osservare che la programmazione urbanistica
comunale interviene con cadenze periodiche pluriennali, non
fissate a priori.
Di conseguenza, atteso il tenore letterale dell’art. 72,
comma 5, della L.R. n. 12/2005, i fedeli di una confessione
che intendono trovare una sede per esercitare il proprio
culto devono attendere per un tempo indeterminato la
decisione del Comune di individuare o meno un’area da
destinare ad attrezzatura religiosa: infatti se decorre
inutilmente il termine dei 18 mesi (come nel caso in esame),
l’Amministrazione non ha alcun obbligo di avviare il
procedimento di revisione del PGT, per individuare le aree
destinate a luogo di culto.
Al decorso dei 18 mesi non è infatti prevista alcuna
disposizione “sanzionatoria”, quale la sostituzione
commissariale per l’adozione del piano de quo.
Ora, resta fuori discussione il potere del Comune di
decidere, all’esito di un istruttoria adeguata, se
accogliere o respingere la domanda degli interessati.
Tuttavia, la perdurante situazione di attesa e di incertezza
nella quale, in ragione di quanto disposto dall’art. 72,
comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005, versano i fedeli,
i quali aspirano a che il Comune individui un luogo per il
culto da essi professato, non è compatibile con il rango
costituzionale del diritto di libertà religiosa.
Ritiene infatti il Collegio che la domanda di spazi da
dedicare all’esercizio di tale libertà debba trovare una
risposta -in un senso positivo o in senso negativo- in tempi
certi, ed entro un termine ragionevole, avuto riguardo sia
ai tempi connessi alla valutazione di impatto sul tessuto
urbanistico, a volte indiscutibilmente complessa, sia avuto
riguardo alla particolare importanza del bene della vita al
quale aspirano i fedeli interessati.
Al riguardo, il Collegio ritiene utile e opportuno fare
riferimento a quanto affermato dalla Corte Costituzionale
24.03.2016 n. 63, secondo cui “Non è, invece, consentito
al legislatore regionale, all’interno di una legge sul
governo del territorio, introdurre disposizioni che
ostacolino o compromettano la libertà di religione.”
Infatti, ad avviso del Collegio, la richiamata condizione di
attesa a tempo indeterminato e di incertezza rileva quale
ostacolo all’esplicazione del diritto di libertà religiosa.
Ne consegue una non giustificata compressione dei diritti di
cui all’art. 19 Cost., e più in generale un ostacolo non
giustificato all’esplicazione dei diritti inviolabili della
persona, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in
violazione dell’art. 2 Cost..
Il fatto che tale compressione della posizione soggettiva
degli interessati non appaia giustificata pare altresì
contrastare con il criterio della ragionevolezza del quale è
espressione l’art. 3 Cost..
In sintesi la norma contrasta con i principi costituzionali
richiamati, laddove prevede un termine –di 18 mesi– per
l’adozione del piano delle attrezzature religiose, decorso
il quale non viene previsto alcun intervento sostitutivo, ma
viene demandato all’Amministrazione Comunale la facoltà di
introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT,
senza alcun ulteriore termine.
In tal modo viene vanificato il diritto alla libertà
religiosa, sotto il profilo del diritto di trovare spazi da
dedicare all’esercizio di tale libertà.
6.2 La norma pare violare altresì l’art. 97 Cost. e
dell’art. 117, comma 2, lett. m), il fatto che l’art. 72,
comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 rinvii a tempo
indeterminato la risposta a un’esigenza riguardante
l’esercizio di un diritto fondamentale della persona.
La mancata previsione, da parte della norma regionale, di
tempi certi di risposta alle istanze dei fedeli interessati
sembra infatti in contrasto con il principio di buon
andamento che deve presiedere l’attività della Pubblica
Amministrazione.
A bene vedere, la mancata di previsione di tempi certi da
parte dell’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005
pare inoltre esprimere uno sfavore dell’Amministrazione nei
confronti del fenomeno religioso, il che contrasta con il
principio di imparzialità dell’azione amministrativa di cui
al menzionato art. 97 Cost..
Sotto connesso profilo, nella prospettiva dell’art. 117,
comma 2, lett. m), Cost. appare violato il livello minimo
delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Al riguardo, osserva il Collegio che, ai sensi dell’art. 29
della L. n. 241/1990 attiene ai livelli essenziali delle
prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera
m), della Costituzione l’aspetto riguardante la
predeterminazione della durata massima dei procedimenti.
Ovviamente, va da sé che una norma che si esprima in termini
di sfavore verso il fenomeno religioso contrasta anche con
gli artt. 2. 3 e 19 Cost., ai quali si è già fatto
riferimento.
In sintesi il quadro normativo che, una volta decorso il
primo termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della L.R.
12/2010, non ha previsto ulteriori termini per imporre
l’adozione del piano della attrezzatture religiose, si pone
in contrasto con la disciplina in materia di procedimento
amministrativo e di certezza dei termini di conclusione del
procedimento, quindi con i principi costituzionali dell’art
97 Cost. e dell’art. 117 comma 2 lett. m) Cost.
6.3. Sotto un ulteriore profilo, ritiene il Collegio che
l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005
contrasti con l’art. 5 Cost., con l’art. 114, comma 2, Cost.,
con l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost., con l’art.
118, comma 1, Cost..
Ad avviso del Collegio, la norma regionale condiziona
l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla
revisione complessiva del piano di governo del territorio.
Infatti, solo nei primi diciotto mesi dall’entrata in vigore
della norma le Amministrazioni potevano predisporre il Piano
delle attrezzature religiose senza mettere mano all’intera
disciplina del governo del territorio.
Da che è maturata la scadenza dei diciotto mesi, la legge
regionale non lo permette più.
In altri termini, l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia
n. 12/2005 impedisce ai Comuni di dotarsi di un Piano delle
attrezzature religiose senza contestualmente revisionare
l’intera disciplina del governo del territorio.
Ad avviso del Collegio, viene in rilievo una ingiustificata
compressione delle prerogative del Comuni da parte della
Regione.
Infatti, non si comprende quale ragione possa giustificare
il sostanziale divieto gravante sui Comuni lombardi di
adottare il Piano delle attrezzature religiose in un momento
distinto rispetto alla revisione generale del Piano di
governo del territorio.
Da un primo punto di vista, la norma sembra integrare una
violazione dell’art. 5 Cost., atteso che essa frustra
l’autonomia dei Comuni, quali autonomie locali.
Sotto connesso profilo, appaiono violati l’art. 114, comma 2,
Cost. e l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost..
In particolare, nella prospettiva dell’art. 114, comma 2,
Cost. appare violato sotto un profilo generale l’autonomia
riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e
delle funzioni di loro competenza.
Nella più particolare prospettiva dell’art. 117, comma 6,
terzo periodo, Cost. appare violata l’autonomia degli Enti
Locali sotto il profilo della potestà regolamentare in
ordine alle funzioni attribuite ai Comuni.
Come anticipato, la limitazione imposta dalla Regione
all’autonomia dei Comuni non appare giustificata.
Da questo punto di vista sembra venire in rilievo la
violazione del principio di sussidiarietà verticale di cui
all’art. 118, comma 1, Cost..
In sintesi la disposizione regionale, laddove fa divieto ai
Comuni di adottare il piano delle attrezzature religiose
dopo il termine dei 18 mesi, ma necessariamente solo
contestualmente alla revisione del PGT, viola il principio
di autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio
dei poteri e delle funzioni di loro competenza.
7) In conclusione, il ricorso principale va dichiarato
improcedibile.
Rispetto ai motivi aggiunti, va rimessa
alla Corte Costituzionale la questione di legittimità
dell’art. 72, comma 5, della L.R. n. 12/2005
in relazione all’art. 2 Cost., all’art. 3 Cost., all’art. 5
Cost., all’art. 19 Cost., all’art. 114 Cost., all’art. 117,
comma 2, lett. m), Cost., all’art. 117, comma 6, terzo
periodo, Cost. e all’art. 118 Cost..
Va di conseguenza disposta la sospensione del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
non definitivamente pronunciando sul ricorso principale e su
quello per motivi aggiunti:
- dichiara improcedibile il ricorso principale;
- rimette alla Corte Costituzionale le questioni
di legittimità costituzionale illustrate in motivazione,
relative all’articolo 72, comma 5, della legge regionale
della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante
dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett.
c), della legge regionale 03.02.2015 n. 2,
per contrasto con l’art. 2 Cost., con l’art. 3 Cost., con
l’art. 5 Cost., con l’art. 19 Cost., con l’art. 114 Cost.,
con l’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., con l’art. 117
comma 6 terzo periodo Cost. e con l’art. 118 Cost.;
- dispone, la sospensione del giudizio sino all’esito della
decisione della Corte Costituzionale sulla questione rimessa
tramite il presente provvedimento e sino alla decisione
sulla questione di legittimità Costituzionale sollevata dal
Tribunale a mezzo della sentenza non definitiva n.
1939/2018;
- riserva alla sentenza definitiva la pronuncia in ordine ai motivi
aggiunti, nonché in ordine alla complessiva regolazione
delle spese del giudizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.10.2018 n. 2227 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2018 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la legge della Regione Lombardia
sulle aree che accolgono attrezzature religiose.
---------------
Religione – Edifici di culto – Lombardia - Apertura di
alcuna attrezzatura religiosa – Art, 72, comma 1 e 2, l.reg. n. 12 del 2005 – Necessità del Piano delle attrezzature
religiose – Violazione artt. 2, 3 e 19 Cost. – Rilevanza e
non manifesta infondatezza.
E’ rimessa alla Corte
costituzionale, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 Cost.,
la questione di legittimità costituzionale relativa all’art.
72, commi 1 e 2, l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel
testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1,
comma 1, lett. c), l.reg. 03.02.2015, n. 2, nella parte in
cui stabilisce che –in assenza o comunque al di fuori delle
previsioni del Piano delle attrezzature religiose– non sia
consentita l’apertura di alcuna attrezzatura religiosa, a
prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato
dalla specifica opera (1).
---------------
(1) In particolare, il
comma 1 dell’art. 72, l.reg. Lombardia
11.03.2005, n. 12 stabilisce che “Le aree che accolgono
attrezzature religiose o che sono destinate alle
attrezzature stesse sono specificamente individuate nel
piano delle attrezzature religiose, atto separato facente
parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e
disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le
istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di
cui all'art. 70”. Il successivo comma 2 aggiunge, poi,
che “L'installazione di nuove attrezzature religiose
presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto
piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura
religiosa da confessioni di cui all'art. 70”.
Dalla lettura di tali previsioni, ad avviso del Tar,
discende che:
- la realizzazione di ogni e qualsivoglia attrezzatura religiosa
deve trovare necessariamente previsione in un apposito Piano
comunale, costituente un atto separato facente parte del
Piano dei Servizi (art. 72, comma 1), che a sua volta è
l’atto, componente il Piano di Governo del Territorio,
deputato ad “assicurare una dotazione globale di aree per
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale,
le eventuali aree per l'edilizia residenziale pubblica e da
dotazione a verde, i corridoi ecologici e il sistema del
verde di connessione tra territorio rurale e quello
edificato, nonché tra le opere viabilistiche e le aree
urbanizzate ed una loro razionale distribuzione sul
territorio comunale, a supporto delle funzioni insediate e
previste”, in base a quanto previsto dall’art. 9 della
stessa l. reg. n. 12 del 2005;
- in assenza del suddetto Piano, nessuna “attrezzatura religiosa” è
realizzabile (art. 72, comma 1) e, anche dopo l’approvazione
del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di fuori
delle aree a ciò specificamente destinate (comma 1),
indipendentemente dalla circostanza che si tratti: di
edifici di culto o di altre attrezzature religiose, secondo
l’ampia definizione di cui all’art. 71, comma 1, della legge
regionale; di attrezzature necessarie per assicurare la
dotazione di standard di urbanizzazione secondaria di
insediamenti esistenti o da realizzare, ovvero di luoghi di
culto che privati cittadini chiedano liberamente di poter
realizzare, al fine di professare collettivamente la propria
religione; di strutture di grandi dimensioni, destinate a
determinare un largo afflusso di fedeli, ovvero di semplici
sale di culto, dedicate a una frequentazione limitata a
poche decine di persone; di edifici realizzati a iniziativa
pubblica o con contributi pubblici, ovvero a iniziativa del
tutto privata.
Secondo il Tar tali previsioni sono di dubbia legittimità
costituzionale in quanto preordinano una completa e assoluta
programmazione pubblica della realizzazione di “attrezzature
religiose”, in funzione delle “esigenze locali”
–rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune– a
prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere,
e persino della loro destinazione alla fruizione da parte di
un pubblico più o meno esteso, introducendo così un
controllo pubblico totale, esorbitante rispetto alle
esigenze proprie della disciplina urbanistica, in ordine
all’apertura di qualsivoglia spazio destinato all’esercizio
del culto (o anche di semplici attività culturali a
connotazione religiosa).
A giudizio del Tar l’equivoco di fondo da cui muove
l’impostazione seguita dal legislatore regionale è che le “attrezzature
religiose”, delle quali gli edifici di culto sono una
species, debbano essere trattate solo ed esclusivamente
quali opere di urbanizzazione secondaria (art. 71, comma 2),
da inserirsi nel contesto urbano mediante un apposito Piano
comunale che ne stabilisce sia la localizzazione che il
dimensionamento (art. 72, commi 1 e 2). E ciò prescindendo
dalle caratteristiche del singolo intervento, dalla
circostanza che tali attrezzature siano o non siano
strettamente necessarie ad assicurare la dotazione di
standard urbanistici funzionale a un dato insediamento
residenziale, e persino dalla destinazione di tali opere a
una più o meno estesa fruizione pubblica.
Tale impostazione, tuttavia, finisce per determinare
l’accentramento in capo all’Amministrazione locale della
scelta in ordine a tempi, luoghi e distribuzione tra le
varie confessioni religiose dei luoghi di culto che si
prevede di aprire sul territorio, senza consentire, al di
fuori di tale rigida predeterminazione, avocata alla mano
pubblica, neppure la realizzazione, a iniziativa privata e
in aree comunque idonee dal punto di vista urbanistico, di
modeste sale di preghiera.
In altri termini, il presupposto su cui si fonda l’intera
architettura della disciplina regionale lombarda in materia
di edifici di culto consiste nell’individuazione di una
corrispondenza biunivoca tra le “attrezzature religiose
di interesse comune”, di cui all’art. 71, comma 1,
costituenti opere di urbanizzazione secondaria, e le “attrezzature
religiose” di cui all’art. 72, di modo che tutte tali
attrezzature sono trattate allo stesso modo, ossia quali
opere di urbanizzazione secondaria soggette alla necessaria
previa programmazione comunale.
E ciò a prescindere dalla circostanza che il loro
inserimento nel territorio debba essere effettivamente
preordinato dall’Amministrazione, al fine di assicurare la
proporzionata dotazione di standard di urbanizzazione
secondaria a servizio di insediamenti residenziali, ovvero
che si tratti di libere iniziative di enti religiosi,
comunità di fedeli o gruppi di cittadini, al solo scopo di
assicurare ai fedeli che intendano praticare un dato culto
di disporre di un luogo idoneo a praticarlo collettivamente (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.08.2018 n. 1939 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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1. L’Associazione Culturale Ma. ha impugnato
la determinazione del Responsabile del
Servizio lavori pubblici, territorio e
ambiente del Comune di Castano Primo con la
quale è stato annullato il permesso di
costruire n. 17/2015, rilasciato alla stessa
Associazione il 15.01.2016.
Ha, inoltre, censurato il rapporto della
Polizia locale di Castano Primo del
09.11.2016, richiamato nel provvedimento di
annullamento.
2. L’Associazione ricorrente è diretta, in
base all’atto costitutivo e dallo statuto, a
perseguire i seguenti scopi:
“a)
mantenere e valorizzare le tradizioni
culturali e religiose dei Paesi d’origine
dei Musulmani residenti nel territorio del
Castanese, rafforzare il legame di
fratellanza umana con i cittadini locali
attraverso lo scambio culturale, la
collaborazione sociale, la vicinanza civile
all’interno di un quadro di rispetto e di
integrazione, in accordo con i valori della
Repubblica Italiana e nel pieno rispetto
delle leggi e dei regolamenti vigenti.
b) far rivivere gli insegnamenti del Profeta
(Sunna) e la Rivelazione Divina (Corano).
c) promuovere una condotta morale che porti
alla pratica del bene.
d) organizzare e facilitare viaggi di studio
e di pellegrinaggio (Mecca-Medina).
e) organizzare e facilitare le procedure di
sepoltura dei Musulmani anche presso il
paese d’origine.
f) organizzare corsi e manifestazioni o
eventi per la promozione della cultura
musulmana e le lingue e tradizioni del paese
di origine degli associati”.
Secondo quanto risulta agli atti del
giudizio, con istanza depositata il
09.01.2013, l’Associazione ha chiesto al
Comune di Castano Primo un “Parere
preventivo all’esercizio dell’attività di
culto” presso gli “immobili siti in
Castano Primo, Via ... n. 1”.
Nell’istanza si evidenziava, tra l’altro,
che il complesso immobiliare era costituito
“da n. 2 fabbricati a uso residenziale,
n. 2 fabbricati a uso deposito, n. 1
fabbricato a uso autorimessa oltre ad area
di pertinenza” e che tale complesso –che
in caso di parere positivo sarebbe stato
ristrutturato– ricadeva in zona urbanistica
B 3.1 “residenziale di completamento
edilizio del tessuto urbano consolidato”.
L’istanza è stata riscontrata dal Comune con
la nota del 22.03.2013, con la quale è stato
reso parere favorevole all’utilizzazione
richiesta dall’Associazione, in
considerazione della localizzazione degli
immobili nella zona urbanistica B 3.1 “dove
la destinazione principale è quella
residenziale e le attrezzature culturali,
che rientrano nella fattispecie dei “servizi
alla persona” compatibili con la residenza,
sono quindi ammissibili”.
Il Comune precisava, inoltre, che “Per
poter utilizzare in tal senso gli immobili
prescelti, è necessario pertanto inoltrare
richiesta di idoneo titolo abilitativo
tendente al mutamento della destinazione
d’uso, adottando tutte le specifiche
prescrizioni impartite dalla normativa
vigente. Nella redazione dell’istanza, dovrà
essere posta particolare attenzione al
reperimento dei Posti Auto interni al lotto,
nelle quantità previste all’art. 12 della
N.T.A. del Piano delle Regole, inerenti la
nuova destinazione d’uso (servizi alla
persona). Dovranno essere inoltre computati
e successivamente versati i contributi
relativi agli Oneri di Urbanizzazione dovuti
in relazione alla trasformazione dell’uso da
“residenziale” a “servizi alla persona
compatibili”, secondo le vigenti tariffe”.
Stante il parere preventivo favorevole del
Comune, l’Associazione ha quindi dato corso,
il 28.10.2013, all’acquisto del complesso
immobiliare di Via ... n. 1.
L’Associazione ha poi ottenuto, il
24.07.2015, l’autorizzazione paesaggistica “per
la realizzazione di ampliamento edificio
esistente con cambio di destinazione d’uso
da residenza a servizio alla persona”, e
ha quindi domandato, il 20.08.2015, il
permesso di costruire, che è stato
effettivamente rilasciato il 15.01.2016.
A ciò è seguita, il 05.07.2016, la
presentazione della comunicazione di inizio
dei lavori.
E’ poi avvenuto che il Comune ha manifestato
dubbi all’Associazione in ordine
all’effettiva possibilità di destinare il
complesso immobiliare di Via ... n. 1
all’esercizio del culto. Si sono, quindi,
tenuti una serie di incontri con i
rappresentanti dell’Associazione, la quale
ha stabilito spontaneamente, in questa fase,
di sospendere i lavori dal 13.10.2016,
dandone comunicazione all’Amministrazione.
Gli approfondimenti svolti hanno, infine,
condotto il Comune all’adozione del
provvedimento del 13.03.2017, impugnato nel
presente giudizio, con il quale è stato
disposto l’annullamento d’ufficio del
permesso di costruire n. 17/2015 del
15.01.2016.
3. Le motivazioni della determinazione
assunta dall’Amministrazione, illustrate nel
corpo dell’atto, evidenziano, in
particolare, che:
- il Comune ha appurato che l’intervento edilizio è preordinato
alla realizzazione di un’attrezzatura
religiosa, ai sensi dell’articolo 71 della
legge regionale 11.03.2005, n. 12, come si
evince: dalle finalità dell’Associazione
Culturale Ma.; dagli elementi
architettonici, quali la nicchia orientata a
Sud-Est (ossia in direzione della Mecca);
dalla distribuzione interna dei locali, che
sono formati da una sala principale al piano
terra e da un blocco di servizi igienici al
piano interrato, questi ultimi servizi
chiaramente preordinati alle pratiche
propedeutiche alle funzioni religiose del
rito musulmano (si tratterebbe, in altri
termini, delle vasche per le abluzioni
rituali); dalle stesse dichiarazioni rese
dall’Associazione nel procedimento di
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica,
dalle quali risulta chiaramente la volontà
di attuare la destinazione a luogo di culto;
- la realizzazione di un tale intervento edilizio, diretto allo
svolgimento non occasionale anche di
attività di culto, ricade nella categoria
urbanistica prevista dall’articolo 71, comma
1, lett. b) e c-bis), della legge regionale
n. 12 del 2005; categoria per la cui
attuazione è richiesta la preventiva
approvazione del Piano delle attrezzature
religiose di cui all’articolo 72, comma 1,
della medesima legge regionale;
- allo stato, il Comune di Castano Primo non è dotato di tale
Piano, per cui il permesso di costruire è
stato rilasciato “in assenza di un iter
procedurale atto a garantire la trasparenza
degli atti assunti attraverso meccanismi di
partecipazione e consultazione della
cittadinanza”;
- “la situazione viabilistica dell’area di cui sopra, come
emerge nel rapporto della Polizia locale del
09.11.2016, n. prot. 2269, non è
idonea, né allo stato e neppure anche con le
misure indicate nel rapporto stesso, a
sopportare il carico di traffico e di
posteggio indotto dall’affluenza di persone
in relazione alla pratica del culto”;
- l’annullamento del titolo edilizio “non risponde ad un mero
ripristino della legalità formale violata,
bensì ad un concreto interesse pubblico
diretto ad impedire l’esercizio di
un’attività di culto, per sua natura aperta
ad un numero indeterminato di destinatari,
in un’area inidonea per le sue ridotte
dimensioni, inserita in una zona altamente
residenziale, inadatta per le condizioni
viabilistiche di contorno e per la carenza
di parcheggio”;
- i lavori sono stati sospesi dall’Associazione e “anche per
tale ragione non può dirsi consolidato alcun
affidamento in favore dell’Associazione Ma.,
consapevole dei profili di illegittimità del
permesso di costruire esposti nel corso di
incontri con i rappresentanti
dell’Amministrazione comunale”.
4. Nel censurare il provvedimento comunale,
la ricorrente ha allegato i seguenti
motivi:
I) violazione dell’articolo 72, comma 8, della legge regionale n.
12 del 2005 e dell’articolo 11 delle
disposizioni sulla legge in generale, nonché
eccesso di potere per travisamento dei fatti
e difetto di istruttoria e di motivazione;
ciò in quanto il complesso immobiliare della
ricorrente rientrerebbe tra le “attrezzature
religiose esistenti” al 06.02.2015,
ossia alla data in cui è entrata in vigore
la legge regionale 03.02.2015, n. 2, che ha
modificato la legge regionale n. 12 del
2005, introducendo il Piano delle
attrezzature religiose; conseguentemente, la
realizzazione dell’intervento oggetto del
permesso di costruire non sarebbe
subordinato all’approvazione dell’apposito
Piano, ma beneficerebbe dell’esenzione dalla
nuova disciplina, secondo quanto ora
disposto dall’articolo 72, comma 8, della
legge regionale n. 12 del 2005; in
particolare, la natura di attrezzatura
religiosa esistente deriverebbe dal fatto
che l’Associazione Culturale Ma. sarebbe
presente sul territorio di Castano Primo sin
dal 2007 e avrebbe trasferito la propria
sede nel complesso di Via Friuli n. 1 dal
28.10.2013;
...
IV) difetto di motivazione, violazione dei principi di
proporzionalità e di non aggravamento,
nonché contraddittorietà manifesta; ciò in
quanto la legge regionale dovrebbe essere
interpretata nel senso che la previa
approvazione del Piano delle attrezzature
religiose dovrebbe essere richiesta soltanto
per la realizzazione di strutture di grandi
dimensioni, ma non anche per quelle di
modesta entità, quale quella oggetto del
permesso di costruire rilasciato in favore
della ricorrente; il provvedimento di
annullamento del permesso di costruire,
subordinando la realizzazione della
destinazione richiesta al Piano delle
attrezzature religiose, si porrebbe in
contraddizione con le determinazioni
precedentemente assunte dal Comune, con il
principio costituzionale di buon andamento
dell’amministrazione e con il divieto di
aggravamento del procedimento
amministrativo; peraltro, la ricorrente
avrebbe anche inutilmente rappresentato al
Comune la propria disponibilità a
incrementare le aree da destinare a
parcheggio all’interno del lotto di
proprietà; il provvedimento di annullamento
sarebbe, perciò, immotivato, irragionevole e
sproporzionato rispetto all’interesse
pubblico al ripristino della legalità
violata;
V) incostituzionalità dell’articolo 72, comma 5,
della legge regionale n. 12 del 2005 e
contrasto della disposizione regionale con
la normativa europea; ciò in quanto il
predetto comma 5, come sostituito
dall’articolo 1 della legge regionale n. 2
del 2015, stabilirebbe la mera facoltà
discrezionale dei Comuni, e non l’obbligo,
di prevedere la realizzazione di edifici di
culto attraverso l’apposito Piano delle
attrezzature religiose; risulterebbero,
quindi, violati gli articoli 2, 3, 8, 19, 20
e 117 della Costituzione, nonché con
l’articolo 118, primo comma, della
Costituzione; sarebbe violata anche la
direttiva 2000/43/CE del 29.06.2000, che
attua il principio della parità di
trattamento fra le persone,
indipendentemente dalla razza e dall’origine
etnica, comprendendo tra le libertà
fondamentali il diritto alla libertà di
associazione e il diritto all’accesso ai
beni e ai servizi: in quest’ultimo ambito
rientrerebbe l’edilizia religiosa, in quanto
preordinata alla fornitura di un servizio;
...
5. Si è costituito il Comune di Castano
Primo, insistendo per il rigetto del
ricorso.
6. In esito alla camera di consiglio fissata
per la trattazione cautelare della causa, la
Sezione ha emesso l’ordinanza n. 780 del
20.06.2017, con la quale ha disposto la
fissazione dell’udienza pubblica, ritenendo
che il ricorso ponesse questioni di
particolare complessità, da vagliare in sede
di merito, anche in considerazione della
possibilità di ravvisare profili di dubbio
sulla compatibilità costituzionale delle
previsioni dell’articolo 72 della legge
regionale n. 12 del 2005, laddove
dall’applicazione delle relative
disposizioni deriva il divieto
incondizionato di aprire nuovi luoghi di
culto in assenza dell’apposito Piano delle
attrezzature religiose approvato dal Comune.
7. All’udienza pubblica fissata la causa è
stata, infine, trattenuta in decisione.
8. Il Collegio anticipa sin
d’ora di ritenere che tutti i motivi di
ricorso siano infondati, a eccezione del
quinto, la cui soluzione impone di
sollevare innanzi alla Corte costituzionale
la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge
regionale 11.03.2005, n. 12, nel testo
risultante dalle modifiche apportate
dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della
legge regionale 03.02.2015, n. 2, sotto i
profili e per le ragioni che si
illustreranno più oltre.
9. La trattazione del ricorso richiede,
peraltro, una breve premessa ricostruttiva
della cornice normativa entro la quale si
inquadra la presente controversia.
9.1 La legge regionale della Lombardia
11.03.2005, n. 12 (“Legge per il governo
del territorio”) reca, nella Parte II (“Gestione
del territorio”), un Titolo IV dedicato
alle “Attività edilizie specifiche”.
Nell’ambito di questo Titolo, il Capo III
–composto dagli articoli 70-73 della legge–
detta “Norme per la realizzazione di
edifici di culto e di attrezzature destinate
a servizi religiosi”.
Le previsioni contenute nel suddetto Capo
stabiliscono, anzitutto, che le “attrezzature
di interesse comune per servizi religiosi”,
come definite all’articolo 71, comma 1,
della legge regionale, “costituiscono
opere di urbanizzazione secondaria ad ogni
effetto” (così il comma 2 dello stesso
articolo 71, tuttora vigente).
Quanto alla localizzazione sul territorio di
tali attrezzature, l’articolo 71, comma 1,
stabiliva, nel suo tenore originario, prima
delle modifiche apportate dalla legge
regionale 03.02.2015, n. 2, che il Piano dei
Servizi –che è uno degli atti di cui si
compone il Piano di Governo del Territorio–
dovesse specificamente individuare,
dimensionare e disciplinare “le aree che
accolgono attrezzature religiose, o che sono
destinate alle attrezzature stesse”, e
ciò “sulla base delle esigenze locali,
valutate le istanze avanzate dagli enti
delle confessioni religiose di cui
all’articolo 70”.
Tali ultimi soggetti erano individuabili, in
particolare, negli “enti
istituzionalmente competenti in materia di
culto della Chiesa Cattolica” (articolo
70, comma 1) e negli “enti delle altre
confessioni religiose come tali qualificate
in base a criteri desumibili
dall’ordinamento ed aventi una presenza
diffusa, organizzata e stabile nell’ambito
del comune (...), ed i cui statuti esprimano
il carattere religioso delle loro finalità
istituzionali e previa stipulazione di
convenzione tra il comune e le confessioni
interessate” (articolo 70, comma 2).
Era, inoltre, stabilito che,
indipendentemente dalla dotazione di
attrezzature religiose esistenti, “nelle
aree in cui siano previsti nuovi
insediamenti residenziali, il piano dei
servizi, e relative varianti, assicura nuove
aree per attrezzature religiose, tenendo
conto delle esigenze rappresentate dagli
enti delle confessioni religiose di cui
all’articolo 70” (articolo 72, comma 2).
Apposite previsioni erano pure dettate per
la realizzazione di attrezzature religiose
di interesse sovracomunale (articolo 71,
comma 3).
Quanto alla ripartizione delle attrezzature
tra gli enti interessati, questa doveva
essere operata “in base alla consistenza
ed incidenza sociale delle rispettive
confessioni” (articolo 71, comma 4).
Era, inoltre, stabilito che, fino
all’approvazione del Piano dei Servizi, la
realizzazione di nuove attrezzature per i
servizi religiosi fosse “ammessa
unicamente su aree classificate a standard
nei vigenti strumenti urbanistici generali e
specificamente destinate ad attrezzature per
interesse comune” (così il comma 4-bis
dell’articolo 71, introdotto dall’articolo
1, comma 1, lett. hhh), della legge
regionale 14.03.2008, n. 4).
Infine, l’articolo 73 dettava (e detta
tuttora) disposizioni relative alle modalità
di finanziamento della realizzazione di
attrezzature religiose da parte di ciascun
comune.
9.2 La suddetta disciplina ha subito
incisive modifiche a seguito dell’entrata in
vigore della legge regionale 03.02.2015, n.
2; modifiche che –si anticipa sin d’ora–
sono state in parte colpite da una
dichiarazione di incostituzionalità, per
effetto della sentenza della Corte
costituzionale n. 63 del 2016.
9.2.1 La nuova legge ha, anzitutto, innovato
in modo significativo la disciplina dettata
dall’articolo 70, in tema di individuazione
degli enti delle confessioni religiose
deputati a realizzare attrezzature religiose
sul territorio comunale. Tali soggetti sono
stati, infatti, individuati, oltre che negli
enti della Chiesa cattolica, anche negli “enti
delle altre confessioni religiose con le
quali lo Stato ha già approvato con legge la
relativa intesa ai sensi dell'articolo 8,
terzo comma, della Costituzione” (nuovo
articolo 70, comma 2) e negli enti delle
ulteriori confessioni religiose, non
firmatarie di intesa, in presenza di
determinati requisiti specifici (articolo
70, comma 2-bis).
Per gli enti diversi da quelli della Chiesa
cattolica è stato, peraltro, previsto che
l’applicazione delle previsioni in materia
di attrezzature di interesse religioso sia
subordinata alla stipulazione di “una
convenzione a fini urbanistici con il comune
interessato” (articolo 70, comma 2-ter).
E’ stata, ancora, prevista l’istituzione di
una Consulta regionale, nominata con
provvedimento della Giunta regionale,
deputata al “rilascio di parere
preventivo e obbligatorio sulla sussistenza
dei requisiti” per l’accreditamento
presso i Comuni degli enti di confessioni
religiose che non abbiano stipulato intese
con lo Stato, al fine della realizzazione di
attrezzature religiose (articolo 70, comma
2-quater).
9.2.2 E’ stata, inoltre, radicalmente
modificata la disciplina relativa alla
localizzazione delle attrezzature religiose,
contenuta all’articolo 72.
Sotto questo profilo, si è stabilito,
anzitutto, che “Le aree che accolgono
attrezzature religiose o che sono destinate
alle attrezzature stesse sono specificamente
individuate nel piano delle attrezzature
religiose, atto separato facente parte del
piano dei servizi, dove vengono dimensionate
e disciplinate sulla base delle esigenze
locali, valutate le istanze avanzate dagli
enti delle confessioni religiose di cui
all'articolo 70” (articolo 72, comma 1).
Il Piano delle attrezzature religiose è “sottoposto
alla medesima procedura di approvazione dei
piani componenti il PGT” (articolo 72,
comma 3) e deve prevedere una serie di
contenuti specifici (articolo 72, comma 7),
consistenti in prescrizioni di dotazioni di
servizi (lett. a), b) e d), del comma 7),
caratteristiche costruttive delle
attrezzature religiose (lett. e), f) e g)
del comma 7) e apposite distanze tra le
strutture da destinare alle diverse
confessioni religiose, sulla base delle
distanze minime stabilite dalla Giunta
regionale (lett. c) del comma 7).
E’, poi, stabilito che “L'installazione
di nuove attrezzature religiose presuppone
il piano di cui al comma 1; senza il
suddetto piano non può essere installata
nessuna nuova attrezzatura religiosa da
confessioni di cui all'articolo 70”
(articolo 72, comma 2). E, in questa
prospettiva, la legge regionale dispone pure
che “I comuni che intendono prevedere
nuove attrezzature religiose sono tenuti ad
adottare e approvare il piano delle
attrezzature religiose entro diciotto mesi
dalla data di entrata in vigore della legge
regionale recante "Modifiche alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per
servizi religiosi".”, ossia la stessa legge
n. 2 del 2015; “Decorso detto termine il
piano è approvato unitamente al nuovo PGT”
(articolo 72, comma 5).
9.3 Le previsioni in materia di attrezzature
religiose introdotte dalla legge regionale
n. 2 del 2015 sono state in parte dichiarate
illegittime dalla Corte costituzionale, con
la sentenza n. 63 del 2016, in esito al
giudizio in via d’azione promosso dal
Presidente del Consiglio dei Ministri contro
la predetta legge.
Più in dettaglio, la Corte ha dichiarato
fondate, per violazione degli artt. 3, 8, 19
e 117, secondo comma, lettera c), della
Costituzione, le questioni di legittimità
costituzionale aventi ad oggetto:
- l’articolo 70, comma 2-bis, ove erano stabiliti i requisiti che
gli enti delle confessioni religiose che non
hanno stipulato un’intesa con lo Stato
avrebbero dovuto possedere al fine di
accedere alla possibilità di realizzare
attrezzature religiose;
- l’articolo 70, comma 2-quater, che sottoponeva al vaglio di
un’apposita Consulta regionale lo scrutinio
in ordine al possesso di tali requisiti.
La Corte ha, inoltre, riscontrato la
fondatezza delle questioni con le quali si
prospettava la violazione della competenza
esclusiva statale in materia di ordine
pubblico e sicurezza, di cui all’articolo
117, secondo comma, lettera h), della
Costituzione ad opera delle previsioni
contenute:
- all’articolo 72, comma 4, primo periodo, della legge regionale,
ove si prevedeva che, nel corso del
procedimento per la predisposizione del
Piano delle attrezzature religiose,
venissero acquisiti “i pareri di
organizzazioni, comitati di cittadini,
esponenti e rappresentanti delle forze
dell’ordine oltre agli uffici provinciali di
questura e prefettura al fine di valutare
possibili profili di sicurezza pubblica,
fatta salva l’autonomia degli organi statali”;
- all’articolo 72, comma 7, lett. e), ove si prescriveva che il
Piano dovesse prevedere, per le attrezzature
religiose, “la realizzazione di un
impianto di videosorveglianza esterno
all’edificio, con onere a carico dei
richiedenti, che ne monitori ogni punto di
ingresso, collegato con gli uffici della
polizia locale o forze dell’ordine”.
9.4 L’intervento della Corte non ha, invece,
toccato –in quanto non sottoposta allo
scrutinio di legittimità costituzionale–
l’architettura del sistema prefigurato dalla
legge regionale n. 2 del 2015 al fine
dell’insediamento sul territorio delle
attrezzature religiose e, in particolare, la
necessaria subordinazione della
realizzazione di tali attrezzature
all’approvazione di un apposito Piano.
La Corte ha, infatti, espressamente
evidenziato che non formava oggetto del
giudizio “l’art. 72, comma 1, della
stessa legge regionale n. 12 del 2005, il
quale ricollega alla valutazione delle
«esigenze locali», previo esame delle
diverse istanze confessionali, la
programmazione urbanistica delle
attrezzature religiose”.
Per quanto qui rileva, la Corte ha, inoltre,
dichiarato manifestamente inammissibile, per
inconferenza del parametro evocato –ossia
l’articolo 117, secondo comma, lett. l),
della Costituzione– la questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 72,
comma 5, della legge regionale n. 12 del
2005, ove si stabilisce che i Comuni che
intendano prevedere nuove attrezzature
religiose debbano approvare il relativo
Piano entro diciotto mesi dall’entrata in
vigore della legge e che, in mancanza, si
provveda unitamente al nuovo Piano di
Governo del Territorio.
10. Premessa questa ricostruzione del quadro
giuridico di riferimento, può passarsi
all’esame delle questioni prospettate con il
ricorso.
11. Come detto, il Comune di Castano Primo
ha annullato in autotutela il permesso di
costruire rilasciato in favore
dell’Associazione Culturale Ma.,
riscontrando che le opere assentite
consistevano nella realizzazione di un
edificio destinato al culto e che il titolo
edilizio era stato emesso, tuttavia, senza
procedere preventivamente all’approvazione
dell’apposito Piano delle attrezzature
religiose, prescritto dall’articolo 72 della
legge regionale n. 12 del 2005, come
modificato dalla legge regionale n. 2 del
2015.
12. Con il primo motivo, la
ricorrente ha contestato la sussistenza
stessa del predetto profilo di illegittimità
del permesso di costruire. In particolare,
l’Associazione ha richiamato l’articolo 72,
comma 8, della legge regionale n. 12 del
2005, ove si stabilisce che “Le
disposizioni del presente articolo non si
applicano alle attrezzature religiose
esistenti alla entrata in vigore della legge
recante "Modifiche alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio) - Principi per la pianificazione
delle attrezzature per servizi religiosi".”,
ossia la legge n. 2 del 2015, entrata in
vigore il 06.02.2015.
12.1 Secondo la ricorrente, la destinazione
ad attrezzature religiose dell’edificio di
Via ... n. 1 sarebbe stata attuata
precedentemente all’entrata in vigore della
legge ora richiamata, poiché l’Associazione
sarebbe presente sul territorio di Castano
Primo sin dal 2007 e avrebbe trasferito la
propria sede nel complesso di Via ...i n. 1
dal 28.10.2013. Inoltre, la destinazione dei
locali a sede dell’Associazione, fin da
epoca precedente all’intervento di
ristrutturazione, risulterebbe anche dalle
tavole allegate alla domanda di rilascio del
permesso di costruire, sulle quali nulla
l’Amministrazione avrebbe obiettato.
Conseguentemente, tale destinazione, in
quanto preesistente, rientrerebbe tra quelle
escluse dall’ambito di applicazione della
legge regionale sopravvenuta.
12.2 Al riguardo, deve tuttavia osservarsi
che, nel fare salve le “attrezzature
religiose esistenti”, l’articolo 72,
comma 8, della legge regionale n. 12 del
2005 non può aver avuto riguardo se non alle
strutture giuridicamente esistenti con la
predetta destinazione, e non anche agli
immobili destinati ad attività di culto in
via di mero fatto e senza un apposito
titolo.
E ciò tanto più tenuto conto che, sin da
prima della novella del 2015, la legge
regionale n. 12 del 2005 reca un’apposita
previsione secondo la quale “I mutamenti
di destinazione d'uso di immobili, anche non
comportanti la realizzazione di opere
edilizie, finalizzati alla creazione di
luoghi di culto e luoghi destinati a centri
sociali, sono assoggettati a permesso di
costruire” (così l’articolo 52, comma
3-bis, aggiunto dall’articolo 1, comma 1,
lett. m) della legge regionale 14.07.2006,
n. 12).
12.3 Nel caso oggetto del presente giudizio,
è incontroverso che la modifica della
destinazione del complesso immobiliare di
Via ... n. 1 sia avvenuta giuridicamente
solo a seguito del permesso di costruire n.
17/2015 del 15.01.2016. Ne deriva che, a
prescindere dall’eventuale utilizzazione di
fatto dei fabbricati, tale destinazione non
può essere ritenuta preesistente al
06.02.2015.
12.4 Da ciò il rigetto della censura.
...
14. Vanno quindi esaminate, per ragioni di
ordine logico, le censure prospettate nella
prima parte del quarto motivo di
impugnazione, laddove l’Associazione
ricorrente contesta ancora, sotto altro
profilo, la sussistenza del vizio di
legittimità del permesso di costruire
riscontrato dal Comune.
14.1 La ricorrente sostiene, in particolare,
che l’articolo 72 della legge regionale n.
12 del 2005 andrebbe interpretato nel senso
che la previa approvazione del Piano delle
attrezzature religiose sarebbe richiesta
solo per le strutture di grandi dimensioni,
ma non anche per quelle di modesta entità,
quale la sede dell’Associazione Culturale
Ma..
14.2 L’interpretazione proposta dalla
ricorrente non può, tuttavia, essere
accolta, in quanto si pone in contrasto con
il chiaro e inequivocabile tenore della
legge.
L’articolo 72, infatti, si
riferisce alle “attrezzature religiose”,
senza alcuna specificazione ulteriore, e il
comma 2 del predetto articolo afferma
espressamente –come sopra detto– che
l’installazione di nuove attrezzature
religiose “presuppone” l’apposito
Piano e che “senza il suddetto piano non
può essere installata nessuna nuova
attrezzature religiosa da confessioni di cui
all’articolo 70”.
La lettera della legge non lascia dubbi,
perciò, in ordine alla concreta portata
delle sue previsioni, le quali sono
inequivocabilmente dirette a stabilire un
divieto rivolto indiscriminatamente nei
confronti di qualsivoglia “attrezzatura
religiosa”, che si tratti di un luogo di
culto destinato ad attirare grandi flussi di
fedeli o di una modesta sala di preghiera.
14.3 In questo senso, le censure di
violazione dei principi di proporzionalità,
di non aggravamento del procedimento
amministrativo e di buon andamento
dell’Amministrazione non colgono nel segno,
poiché il provvedimento assunto dal Comune
risulta fondato sull’unica interpretazione
consentita della legge regionale.
Tali considerazioni assumono invece rilievo,
come meglio si dirà nel prosieguo, al fine
di corroborare i dubbi che il Collegio nutre
in ordine alla legittimità costituzionale
delle disposizioni contenute all’articolo 72
della legge regionale n. 12 del 2005, nei
sensi di cui si dirà più oltre.
15. Alla luce delle censure sin qui
scrutinate, il provvedimento di autotutela
assunto dal Comune risulta, dunque,
correttamente fondato sul presupposto
dell’illegittimità del permesso di costruire
n. 17/2015, poiché è effettivamente
riscontrabile un contrasto del titolo
edilizio con le previsioni di legge
regionale più volte richiamate.
...
18. Fin qui, tutti i motivi di ricorso
trattati, a giudizio del Collegio, non
meritano accoglimento.
Rimane, tuttavia, da
scrutinare il quinto motivo, con il
quale l’Associazione ricorrente lamenta
l’illegittimità costituzionale dell’articolo
72 della legge regionale n. 12 del 2005,
nonché il contrasto della stessa previsione
con la direttiva 2000/43/CE del 29.06.2000
(“Direttiva del Consiglio che attua il
principio della parità di trattamento fra le
persone indipendentemente dalla razza e
dall'origine etnica”).
18.1 Al riguardo, deve anzitutto escludersi
che possa ravvisarsi un profilo di
incompatibilità della disciplina normativa
con la direttiva ora richiamata.
In disparte ogni altra considerazione, deve
infatti osservarsi che il campo di
applicazione della direttiva è limitato agli
ambiti indicati all’articolo 3.
Secondo la ricorrente, l’edilizia religiosa
sarebbe preordinata alla fornitura di un “servizio”.
Con tale affermazione, la parte
implicitamente richiama la fattispecie di
cui al comma 1, lett. h), del suddetto
articolo 3, ove si afferma che la direttiva
si applica “all'accesso a beni e servizi
che sono a disposizione del pubblico e alla
loro fornitura, incluso l'alloggio”.
Il riferimento, tuttavia, non è da ritenere
pertinente, atteso che lo stesso articolo 3
reca disposizioni operanti “Nei limiti
dei poteri conferiti alla Comunità”, e
quindi trova applicazione con riferimento
alla sola dimensione del mercato unico
europeo; dimensione che non presenta alcuna
attinenza con l’esercizio delle libertà
religiose. In questa prospettiva, il termine
“servizi”, contenuto nella locuzione
sopra riportata, va perciò inteso in senso
strettamente economico e non può,
conseguentemente, includere l’edilizia
religiosa, né comunque le condizioni per
l’esercizio di un culto.
Ne deriva che non si pone neppure il
problema di verificare l’effettiva
compatibilità della disciplina di legge
regionale con la direttiva, questione
peraltro dedotta dalla ricorrente in termini
del tutto generici e apodittici.
18.2 Il Collegio ritiene, invece, di dover
condividere i dubbi sulla legittimità
costituzionale dell’articolo 72 della legge
regionale n. 12 del 2005, nei sensi e nei
limiti che si esporranno di seguito, e di
dover quindi rimettere la soluzione delle
relative questioni alla Corte
costituzionale.
18.3 Va, conseguentemente, rinviata
all’esito del giudizio della Corte anche la
domanda di risarcimento del danno, pure
proposta dall’Associazione ricorrente.
19. Il Collegio dubita, in
particolare, della compatibilità
dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge
regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12,
nel testo risultante dalle modifiche
apportate dall’articolo 1, comma 1, lett.
c), della legge regionale 03.02.2015, n. 2,
con gli articoli 2, 3 e 19 della
Costituzione.
20. In punto di rilevanza delle questioni di
legittimità costituzionale, il Collegio
evidenzia che sono stati trattati e ritenuti
non meritevoli di accoglimento tutti i
motivi di impugnazione proposti dalla parte,
a eccezione del tema della legittimità
costituzionale delle previsioni di legge
regionale applicate dal Comune.
Conseguentemente, la decisione della causa
dipende esclusivamente dalla soluzione della
questione attinente alla legittimità
costituzionale delle previsioni
dell’articolo 72 della legge regionale n. 12
del 2005, sulla cui base è stato assunto il
provvedimento di autotutela censurato nel
presente giudizio.
Il suddetto motivo di censura è rilevante,
atteso che le ragioni di interesse pubblico
all’annullamento, che –come sopra
illustrato– il Comune ha indicato nel
provvedimento impugnato non sono da sole
sufficienti a sorreggere l’eliminazione del
permesso di costruire già rilasciato in
favore della ricorrente. L’esercizio del
potere di autotutela richiede, infatti, ai
sensi dell’articolo 21-nonies della legge n.
241 del 1990, anzitutto l’illegittimità del
provvedimento annullato. E, come detto,
l’accertamento di tale profilo riposa
esclusivamente nella soluzione delle
questioni di legittimità costituzionale
prospettate nei confronti della legge
regionale.
Da tali questioni dipende, perciò, l’esito
del giudizio.
21. Sempre in punto di rilevanza, il
Collegio deve prendere in considerazione la
portata della legge regionale 25.01.2018, n.
5, recante “Razionalizzazione
dell’ordinamento regionale. Abrogazione di
disposizioni di legge.”, pubblicata nel
Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia
del 29.01.2018, Supplemento n. 5.
La suddetta legge reca, all’articolo 2
–dedicato alla “Abrogazione di leggi”–
la previsione secondo la quale “A
decorrere dall’entrata in vigore della
presente legge sono o restano abrogate:
...b) le seguenti leggi o disposizioni
operanti modifiche alla legislazione
regionale... 69) L.R. 03.02.2015, n. 2
(Modifiche alla legge regionale 11.03.2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio)
- Principi per la pianificazione delle
attrezzature per servizi religiosi);”.
E’ stata, dunque, disposta l’abrogazione
della legge regionale n. 2 del 2015, che
–come più volte ripetuto– ha novellato la
legge regionale n. 12 del 2005, dettando la
disciplina applicata dal provvedimento
impugnato nel presente giudizio.
Occorre, dunque, domandarsi se tale
previsione possa influire sulla rilevanza
delle questioni di legittimità
costituzionale che si intendono rimettere
alla Corte costituzionale.
21.1 Il Collegio rileva, anzitutto, che il
provvedimento impugnato nel presente
giudizio è precedente alla legge regionale
n. 5 del 2018, per cui la sua legittimità va
valutata in base al quadro normativo vigente
al tempo della sua adozione.
Conseguentemente, la norma regionale
abrogatrice sopravvenuta non potrebbe
comunque far venire meno la rilevanza delle
questioni di legittimità costituzionale
relative al testo della legge n. 12 del
2005, nella formulazione in vigore quando è
stato rilasciato il permesso di costruire
annullato, e anche al tempo della
determinazione di autotutela qui censurata.
21.2 In ogni caso, è pure da escludere che
la legge regionale n. 5 del 2018 abbia
modificato l’articolo 72 della legge
regionale n. 12 del 2005, il quale è da
ritenere a tutt’oggi vigente nel tenore
risultante dalle modificazioni apportate
dalla legge regionale n. 2 del 2015.
L’operazione disposta dal legislatore
regionale è stata, infatti, di mero riordino
legislativo, come risulta chiaramente
dall’articolo 1 della legge regionale n. 5
del 2018, ove, nell’indicare le finalità
dell’intervento normativo, si enuncia che “La
presente legge opera interventi di
manutenzione e razionalizzazione tecnica
dell'ordinamento regionale attraverso
interventi abrogativi di leggi o di
disposizioni di legge. Per tutte le
disposizioni oggetto di abrogazione sono
fatti salvi gli effetti secondo quanto
previsto dall'articolo 4.”.
Il richiamato articolo 4 stabilisce, a sua
volta, che “Sono fatti salvi gli effetti
prodotti o comunque derivanti dalle leggi e
dalle disposizioni abrogate dalla presente
legge, comprese le modifiche apportate ad
altre leggi. Restano pertanto confermate, in
particolare, le autorizzazioni, le
variazioni, i rifinanziamenti e ogni altro
effetto giuridico, economico o finanziario
prodotto o comunque derivante dalle
disposizioni in materia di bilancio, nonché
le variazioni testuali apportate alla
legislazione vigente dalle leggi abrogate
dalla presente legge, ove non superate da
integrazioni, modificazioni o abrogazioni
disposte da leggi intervenute
successivamente. Trova inoltre applicazione,
per le leggi di cui all'articolo 3, anche
quanto previsto dall'articolo 24, comma 2,
della L.R. 29/2006”.
Il legislatore regionale ha, cioè, inteso
eliminare le leggi enumerate –tra le quali
la legge n. 2 del 2015– intese
esclusivamente quali atti fonte, ossia quali
“veicoli” delle modificazioni
apportate ad altre leggi; “veicoli”
che hanno sostanzialmente esaurito i loro
effetti con l’introduzione stessa delle
novelle. Le leggi modificate non sono state,
invece, toccate dall’intervento di riordino,
il quale non ha inteso apportare alcuna
variazione sostanziale al corpus legislativo
regionale.
21.3 Deve, perciò, confermarsi la rilevanza
delle questioni di legittimità
costituzionale che si passa a esporre.
22. Come detto, il Collegio dubita della
legittimità costituzionale dell’articolo 72,
commi 1 e 2, della legge regionale n. 12 del
2015, come modificata dalla legge regionale
n. 2 del 2015.
22.1 In particolare,
il comma 1
dell’articolo 72 stabilisce che “Le aree
che accolgono attrezzature religiose o che
sono destinate alle attrezzature stesse sono
specificamente individuate nel piano delle
attrezzature religiose, atto separato
facente parte del piano dei servizi, dove
vengono dimensionate e disciplinate sulla
base delle esigenze locali, valutate le
istanze avanzate dagli enti delle
confessioni religiose di cui all'articolo 70”.
Il successivo comma 2 aggiunge, poi, che “L'installazione
di nuove attrezzature religiose presuppone
il piano di cui al comma 1; senza il
suddetto piano non può essere installata
nessuna nuova attrezzatura religiosa da
confessioni di cui all'articolo 70”.
22.2
Dalla lettura di tali previsioni,
discende che:
- la realizzazione di ogni e qualsivoglia attrezzatura religiosa
deve trovare necessariamente previsione in
un apposito Piano comunale, costituente un
atto separato facente parte del Piano dei
Servizi (articolo 72, comma 1), che a sua
volta è l’atto, componente il Piano di
Governo del Territorio, deputato ad
“assicurare una dotazione globale di aree
per attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico e generale, le eventuali aree per
l'edilizia residenziale pubblica e da
dotazione a verde, i corridoi ecologici e il
sistema del verde di connessione tra
territorio rurale e quello edificato, nonché
tra le opere viabilistiche e le aree
urbanizzate ed una loro razionale
distribuzione sul territorio comunale, a
supporto delle funzioni insediate e
previste”, in base a quanto previsto
dall’articolo 9 della stessa legge regionale
n. 12 del 2005;
- in assenza del suddetto Piano, nessuna “attrezzatura religiosa”
è realizzabile (articolo 72, comma 1) e,
anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna
attrezzatura è realizzabile al di fuori
delle aree a ciò specificamente destinate
(comma 1), indipendentemente dalla
circostanza che si tratti: di edifici di
culto o di altre attrezzature religiose,
secondo l’ampia definizione di cui
all’articolo 71, comma 1, della legge
regionale; di attrezzature necessarie per
assicurare la dotazione di standard di
urbanizzazione secondaria di insediamenti
esistenti o da realizzare, ovvero di luoghi
di culto che privati cittadini chiedano
liberamente di poter realizzare, al fine di
professare collettivamente la propria
religione; di strutture di grandi
dimensioni, destinate a determinare un largo
afflusso di fedeli, ovvero di semplici sale
di culto, dedicate a una frequentazione
limitata a poche decine di persone; di
edifici realizzati a iniziativa pubblica o
con contributi pubblici, ovvero a iniziativa
del tutto privata.
22.3 Secondo l’avviso del Collegio,
le
suddette previsioni sono di dubbia
legittimità costituzionale, come meglio si
dirà nel prosieguo, in quanto preordinano
una completa e assoluta programmazione
pubblica della realizzazione di “attrezzature
religiose”, in funzione delle “esigenze
locali” –rimesse all’apprezzamento
discrezionale del Comune– a prescindere
dalle caratteristiche in concreto di tali
opere, e persino della loro destinazione
alla fruizione da parte di un pubblico più o
meno esteso, introducendo così un controllo
pubblico totale, esorbitante rispetto alle
esigenze proprie della disciplina
urbanistica, in ordine all’apertura di
qualsivoglia spazio destinato all’esercizio
del culto (o anche di semplici attività
culturali a connotazione religiosa).
22.4 Va, invece, evidenziato che non è
specificamente rilevante nel presente
giudizio l’eventuale illegittimità
costituzionale del comma 5 dello stesso
articolo 72, ove si stabilisce che “I
comuni che intendono prevedere nuove
attrezzature religiose sono tenuti ad
adottare e approvare il piano delle
attrezzature religiose entro diciotto mesi
dalla data di entrata in vigore della legge
regionale recante "Modifiche alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per
servizi religiosi". Decorso detto termine il
piano è approvato unitamente al nuovo PGT”.
La suddetta disposizione potrebbe apparire
di dubbia legittimità costituzionale,
laddove indica come meramente facoltativa
l’adozione del Piano delle attrezzature
religiose entro il termine di diciotto mesi
dall’entrata in vigore della legge regionale
n. 2 del 2015, stabilendo che, superato tale
termine, all’approvazione del Piano si
provveda soltanto in occasione della nuova
pianificazione comunale.
Nella presente controversia si fa questione,
tuttavia, dell’annullamento in autotutela di
un permesso di costruire rilasciato prima
del decorso del termine di diciotto mesi
dall’entrata in vigore della legge regionale
n. 2 del 2015, ossia in un momento in cui il
Comune di Castano Primo sarebbe stato ancora
in termini per sospendere l’iter di rilascio
del titolo edilizio e adottare il Piano
deputato all’inserimento sul territorio di
nuove attrezzature religiose. Non è perciò
idonea a influire sull’esito del giudizio la
specifica questione attinente
all’obbligatorietà o facoltatività del
suddetto piano e alle conseguenze della sua
mancata adozione entro il predetto termine
di diciotto mesi.
Anche laddove il Piano fosse stato
obbligatorio, infatti, il Comune sarebbe
stato in tempo per adottarlo e, quindi, il
permesso di costruire rilasciato prima dei
diciotto mesi sarebbe comunque illegittimo.
23. Così perimetrato l’ambito delle
questioni rilevanti, in relazione alla
portata delle disposizioni regionali che si
sottopongono allo scrutinio della Corte
costituzionale, deve passarsi a illustrare
compiutamente le ragioni per le quali si
ritengono tali questioni non manifestamente
infondate.
23.1 A giudizio del Collegio, l’equivoco di
fondo da cui muove l’impostazione seguita
dal legislatore regionale è che le “attrezzature
religiose”, delle quali gli edifici di
culto sono una species, debbano
essere trattate solo ed esclusivamente quali
opere di urbanizzazione secondaria (articolo
71, comma 2), da inserirsi nel contesto
urbano mediante un apposito Piano comunale
che ne stabilisce sia la localizzazione che
il dimensionamento (articolo 72, commi 1 e
2). E ciò prescindendo dalle caratteristiche
del singolo intervento, dalla circostanza
che tali attrezzature siano o non siano
strettamente necessarie ad assicurare la
dotazione di standard urbanistici funzionale
a un dato insediamento residenziale, e
persino dalla destinazione di tali opere a
una più o meno estesa fruizione pubblica.
23.2 Che sia così, e che nessun’altra
interpretazione della legge regionale sia
consentita, in base alla lettera e alla
ratio delle previsioni di legge, si
evince chiaramente dalla circostanza che
l’articolo 71, comma 1, riferendosi alle
“attrezzature religiose di interesse
comune”, include tra tali attrezzature tutti
gli edifici aventi una determinata
destinazione urbanistica –edifici di culto,
abitazioni di ministri di culto, attività di
formazione religiosa, sedi di associazioni
culturali connotate da finalità religiose– a
prescindere dalle caratteristiche in
concreto di tali opere e dalla loro
specifica preordinazione al fine di
assicurare la richiesta dotazione di opere
di urbanizzazione secondaria in favore di un
dato insediamento.
E tale necessaria lettura della legge
regionale è ulteriormente comprovata dalla
circostanza che tale previsione si salda con
quella dell’articolo 72, comma 2, laddove,
nell’introdurre il nuovo Piano delle
attrezzature religiose, si stabilisce che “nessuna
nuova attrezzatura religiosa” possa
essere installata in assenza del Piano.
Infine, l’interpretazione ora evidenziata,
oltre a essere l’unica compatibile con la
lettera e con la ratio della legge
regionale, è anche quella accolta nella
prassi amministrativa, fondata sulla
circolare regionale 20.02.2017, n. 3 (“Indirizzi
per l’applicazione della legge regionale
03.02.2015, n. 2 «Modifiche alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (legge per il
governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per
servizi religiosi»”, pubblicata sul BURL,
Supplemento ordinario, 22.02.2017, n. 8).
23.3 Tale impostazione, tuttavia, finisce
per determinare l’accentramento in capo
all’Amministrazione locale della scelta in
ordine a tempi, luoghi e distribuzione tra
le varie confessioni religiose dei luoghi di
culto che si prevede di aprire sul
territorio, senza consentire, al di fuori di
tale rigida predeterminazione, avocata alla
mano pubblica, neppure la realizzazione, a
iniziativa privata e in aree comunque idonee
dal punto di vista urbanistico, di modeste
sale di preghiera.
In altri termini, il presupposto su cui si
fonda l’intera architettura della disciplina
regionale lombarda in materia di edifici di
culto consiste nell’individuazione di una
corrispondenza biunivoca tra le
“attrezzature religiose di interesse
comune”, di cui all’articolo 71, comma 1,
costituenti opere di urbanizzazione
secondaria, e le “attrezzature religiose” di
cui all’articolo 72, di modo che tutte tali
attrezzature sono trattate allo stesso modo,
ossia quali opere di urbanizzazione
secondaria soggette alla necessaria previa
programmazione comunale. E ciò a prescindere
dalla circostanza che il loro inserimento
nel territorio debba essere effettivamente
preordinato dall’Amministrazione, al fine di
assicurare la proporzionata dotazione di
standard di urbanizzazione secondaria a
servizio di insediamenti residenziali,
ovvero che si tratti di libere iniziative di
enti religiosi, comunità di fedeli o gruppi
di cittadini, al solo scopo di assicurare ai
fedeli che intendano praticare un dato culto
di disporre di un luogo idoneo a praticarlo
collettivamente.
24.
Il Collegio è dell’avviso che tale
impostazione collida anzitutto con
l’articolo 19 della Costituzione.
24.1 Secondo l’insegnamento della Corte
costituzionale, “Con l'art. 19 il
legislatore costituente riconosce a tutti il
diritto di professare la propria fede
religiosa, in qualsiasi forma, individuale o
associata, di farne propaganda e di
esercitare in privato o in pubblico il
culto, col solo e ben comprensibile, limite
che il culto non si estrinsechi in riti
contrari al buon costume. La formula di tale
articolo non potrebbe, in tutti i suoi
termini, essere più ampia, nel senso di
comprendere tutte le manifestazioni del
culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto
forma e condizione essenziale del suo
pubblico esercizio, l'apertura di templi ed
oratori e la nomina dei relativi ministri.”
(sentenza n. 59 del 1958).
Proprio con riferimento alla legge regionale
della Lombardia n. 12 del 2005, come
modificata dalla legge regionale n. 2 del
2015, la Corte ha poi ribadito il proprio
costante insegnamento, evidenziando che “Il
libero esercizio del culto è un aspetto
essenziale della libertà di religione” e
che “L’apertura di luoghi di culto, in
quanto forma e condizione essenziale per il
pubblico esercizio dello stesso, ricade
nella tutela garantita dall’art. 19 Cost.,
il quale riconosce a tutti il diritto di
professare la propria fede religiosa, in
qualsiasi forma, individuale o associata, di
farne propaganda e di esercitare in privato
o in pubblico il culto, con il solo limite
dei riti contrari al buon costume.”
(sentenza n. 63 del 2016).
24.2 Ciò posto, non si intende ovviamente
negare –né si dubita– che la Regione,
nell’esercizio della propria potestà
legislativa in materia di “governo del
territorio”, attribuitale dall’articolo 117,
terzo comma, della Costituzione, possa
dettare una disciplina legislativa
specificamente dedicata all’inserimento
urbanistico delle attrezzature religiose e
degli edifici di culto. Questo aspetto è
stato affermato dalla Corte, tra l’altro,
nella richiamata sentenza n. 63 del 2016.
La Corte ha, tuttavia, rimarcato che la
legislazione regionale in materia di
edilizia del culto “trova la sua ragione
e giustificazione –propria della materia
urbanistica– nell’esigenza di assicurare uno
sviluppo equilibrato ed armonico dei centri
abitativi e nella realizzazione dei servizi
di interesse pubblico nella loro più ampia
accezione, che comprende perciò anche i
servizi religiosi” (sentenza n. 195 del
1993, richiamata dalla sentenza n. 63 del
2016) e che “Non è, invece, consentito al
legislatore regionale, all’interno di una
legge sul governo del territorio, introdurre
disposizioni che ostacolino o compromettano
la libertà di religione” (sentenza n. 63
del 2016).
24.3 Come detto, l’articolo 72, commi 1, 2 e
5 della legge regionale n. 12 del 2005
istituiscono un sistema nel quale le
attrezzature religiose di qualsivoglia
natura, inclusi i luoghi di culto, devono
essere necessariamente realizzati nelle aree
e negli immobili stabiliti dal Comune, al
quale spetta, per questa via, ogni
discrezionalità in ordine all’apertura di
luoghi di culto, pubblici o privati, sul
proprio territorio.
Deve, inoltre, ricordarsi che, in base al
comma 1 dell’articolo 72, il dimensionamento
e la disciplina di tali attrezzature sono
stabilite dal Comune “sulla base delle
esigenze locali”. Locuzione, questa, su cui
anche la Corte ha richiamato l’attenzione,
nella sentenza n. 63 del 2016, pur
evidenziando che la previsione del comma 1
dell’articolo 72 non era stata sottoposta al
suo sindacato.
24.3.1 Ora, l’impostazione seguita dal
legislatore regionale non porrebbe dubbi di
compatibilità con l’articolo 19 della
Costituzione, ad avviso del Collegio, se il
Piano delle attrezzature religiose
intervenisse al solo scopo di censire le
attrezzature esistenti aperte al pubblico,
verificare il fabbisogno di ulteriori
attrezzature, e provvedere conseguentemente.
In questi termini, la previsione sarebbe
effettivamente ragionevole e funzionale allo
scopo di assicurare l’adeguata dotazione di
edifici di culto a servizio degli
insediamenti residenziali, che è compito
propriamente rientrante tra quelli demandati
al Piano dei Servizi. In questa prospettiva,
sarebbe anche ragionevole il dimensionamento
delle attrezzature religiose in base alle
esigenze riscontrate localmente. La stessa
Corte costituzionale ha, infatti, affermato
che, “come è naturale allorché si
distribuiscano utilità limitate, quali le
sovvenzioni pubbliche o la facoltà di
consumare suolo”, nella ponderazione rimessa
al Comune “si dovranno valutare tutti i
pertinenti interessi pubblici e si dovrà
dare adeguato rilievo all’entità della
presenza sul territorio dell’una o
dell’altra confessione, alla rispettiva
consistenza e incidenza sociale e alle
esigenze di culto riscontrate nella
popolazione” (sentenza n. 63 del 2016).
24.3.2 La disciplina regionale, tuttavia, si
spinge oltre tale obiettivo, stabilendo che
–in assenza o comunque al di fuori delle
previsioni del Piano delle attrezzature
religiose– non sia consentita l’apertura di
alcuna attrezzatura religiosa, a prescindere
dal contesto e dal carico urbanistico
generato dalla specifica opera.
Per questa via, si determina un ostacolo di
fatto al libero esercizio del culto, poiché
la possibilità di esercitare collettivamente
e in forma pubblica i riti non contrari al
buon costume –garantita dalla Costituzione–
viene a essere subordinata alla
pianificazione comunale e, quindi, al
controllo pubblico.
Ciò, secondo l’avviso del Collegio,
determina un’indebita limitazione della
libertà di religione, perché:
- è fisiologico che la programmazione comunale intervenga
necessariamente con cadenze periodiche
pluriennali (quelle tipiche della
pianificazione); circostanza, questa, che di
per sé determina un differimento nella
possibilità di soddisfare le esigenze di
culto della collettività;
- come detto, il Piano dei Servizi è deputato a operare il
dimensionamento delle attrezzature
religiose, in base alla situazione del
contesto, e non garantisce la previsione di
luoghi di culto per tutti gli enti di
confessioni religiose o per le singole
comunità di fedeli.
Tuttavia, la libertà di esercizio collettivo
del culto, assicurata dall’articolo 19 della
Costituzione, non può risentire in termini
così stringenti della programmazione
urbanistica, né è assicurata soltanto ai
culti dotati di una determinata
rappresentatività in ambito locale. Al
contrario, la Costituzione garantisce
l’esercizio pubblico del culto, con il solo
limite del rispetto del buon costume, anche
una comunità composta da pochi fedeli (come
nel caso oggetto del presente giudizio, ove
si fa questione della sede di
un’Associazione religiosa cui aderiscono
circa sessanta famiglie).
25. Né potrebbe ritenersi che le limitazioni
all’apertura di luoghi di culto stabilite
dalla legge regionale siano sorrette
adeguatamente dallo scopo di assicurare il
corretto inserimento sul territorio delle
attrezzature religiose.
A giudizio del Collegio, le previsioni
normative sopra richiamate appaiono,
infatti, eccedenti rispetto allo scopo, in
modo tale da far emergere anche la
violazione dei fondamentali canoni di
ragionevolezza, proporzionalità e non
discriminazione posti dall’articolo 3 della
Costituzione.
25.1 Deve, infatti, tenersi presente che il
comma 7 dell’articolo 72 ha stabilito quali
caratteristiche costruttive debbano avere le
attrezzature religiose e quali dotazioni
aggiuntive di parcheggi debbano essere
assicurate, in proporzione alle dimensioni
della struttura (v. lett. d).
A ciò deve aggiungersi che, in linea di
principio, gli edifici religiosi sono
funzionali all’insediamento abitativo e,
quindi, dovrebbero essere in linea di
massima realizzabili negli ambiti urbani ove
è previsto l’insediamento della funzione
residenziale, o in ambiti prossimi, ferma
restando la potestà del Comune di stabilire
limitazioni, anche in funzione delle
dimensioni della struttura, tenuto conto del
contesto locale, nei suoi diversi aspetti
(viabilità, parcheggi, e via dicendo).
Tutte le previsioni costruttive e di
inserimento urbanistico delle attrezzature
religiose ben possono, tuttavia –sulla base
delle indicazioni contenute nella legge
regionale– trovare adeguata previsione
nelle ordinarie prescrizioni degli strumenti
urbanistici. E ciò tenuto conto anche della
circostanza che l’apertura di un edificio di
culto, da un punto di vista di assetto del
territorio, appare non differire
sensibilmente dalla realizzazione di altri
luoghi di aggregazione sociale, quali
palestre, case di cura, scuole, centri
culturali non aventi finalità religiose, e
simili. Per tali diverse strutture non è,
tuttavia, stabilita un’analoga rigida
programmazione comunale.
In termini più espliciti, si evidenzia che
la natura di “opere di urbanizzazione
secondaria” è comune –ad esempio– alle
scuole. Anche per le scuole la relativa
dotazione minima deve essere prevista nel
Piano dei Servizi. Ciò, tuttavia, non
preclude ai privati la possibilità di aprire
liberamente ulteriori scuole e istituti
d’istruzione privati, nell’esercizio della
libertà costituzionale di insegnamento,
purché nel rispetto di tutte le previsioni
di piano atte ad assicurare il corretto
inserimento di tali strutture nel contesto
urbanistico. Non è, invece, previsto che i
privati debbano attendere, a tal fine,
l’approvazione di un apposito Piano, volto a
dimensionare, canalizzare e predeterminare
completamente e rigidamente la
localizzazione delle scuole e, per questa
via, il contenuto dell’intera offerta
scolastica sul territorio comunale, persino
laddove si tratti dell’apertura di un corso
limitato a poche decine o a qualche
centinaio di iscritti.
Il differente trattamento riservato, sotto
questo profilo, alle attrezzature religiose
appare, perciò, del tutto ingiustificato e
discriminatorio, rispetto a quello riservato
ad altre attrezzature comunque destinate
alla fruizione pubblica, potenzialmente
idonee a generare un impatto analogo, o
persino maggiore, nel contesto urbanistico.
E tale trattamento è tanto più sperequato,
ove si consideri che la legge regionale n.
12 del 2005 è informata, in linea di
massima, al principio del favor verso il
libero insediamento delle destinazioni d’uso
compatibili con la destinazione di zona,
salve le esclusioni stabilite dallo
strumento urbanistico (cfr. articoli 51 e
10, comma 3, lett. f), della legge regionale
n. 12 del 2005).
25.2 In definitiva, secondo l’avviso del
Collegio,
l’avocazione al Comune
dell’integrale programmazione della
localizzazione e del dimensionamento delle
attrezzature religiose finisce per eccedere
gli scopi propri della disciplina
dell’assetto del territorio comunale,
producendo, di fatto, effetti simili
all’autorizzazione governativa all’apertura
dei luoghi di culto, prevista dall'articolo
1 del regio decreto 28.02.1930, n. 289, già
dichiarato costituzionalmente illegittimo
dalla Corte costituzionale con la sentenza
n. 59 del 1958.
26.
La violazione degli articoli 3 e 19
della Costituzione, sotto i profili ora
detti, ridonda anche nella lesione dei
diritti inviolabili della persona, tutelati
dall’articolo 2 della Costituzione (v. Corte cost., sentenza n. 195 del 1993), stante la
centralità del credo religioso quale
espressione della personalità dell’uomo,
tutelata nella sua affermazione individuale
e collettiva.
27. Per tutte le ragioni esposte,
questo
Tribunale ritiene rilevanti e non
manifestamente infondate le questioni di
legittimità costituzionale sopra illustrate.
Va, conseguentemente, disposta la
sospensione del giudizio e la rimessione
delle predette questioni alla Corte
costituzionale, ai sensi dell’articolo 23
della legge 11.03.1953, n. 87.
Deve essere rinviata, infine, all’esito
della pronuncia della Corte anche la
trattazione della domanda di risarcimento
del danno, come sopra detto, nonché la
decisione in ordine alle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo
Regionale per la Lombardia (Sezione
Seconda), non definitivamente pronunciando
sul ricorso, come in epigrafe proposto:
- respinge in parte il ricorso, limitatamente a quanto indicato in
motivazione;
- rimette alla Corte costituzionale le questioni
di legittimità costituzionale illustrate in
motivazione, relative all’articolo 72, commi
1 e 2, della legge regionale della Lombardia
11.03.2005, n. 12, nel testo risultante
dalle modifiche apportate dall’articolo 1,
comma 1, lett. c), della legge regionale
03.02.2015, n. 2, per contrasto con gli
articoli 2, 3 e 19 della Costituzione;
- dispone, conseguentemente, la sospensione del giudizio;
- riserva alla sentenza definitiva ogni pronuncia in ordine agli
ulteriori profili, nonché in ordine alla
regolazione delle spese del giudizio. |
gennaio 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
E' rilevante e non manifestamente infondata la
questione, che si rimette alla Corte costituzionale, di
legittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis,
della l.r. della Lombardia n. 12/2005 che recita:
"1-bis.
Ai fini dell’adeguamento, ai
sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti
urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell’art.
17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo,
limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il
rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci
metri, derogabile all’interno di piani attuativi.".
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dal signor Ni.Ca., nato a Treviso il ... e
residente a Sondrio, per l’annullamento della deliberazione
del Consiglio comunale di Sondrio 28.11.2014 n. 81,
d’approvazione di variante del piano di governo del
territorio.
...
Premesso:
Il Comune di Sondrio, già dotato del piano di governo del
territorio approvato con deliberazione del Consiglio
comunale 06.06.2011 n. 40, con deliberazione della giunta
comunale del 29.09.2013 ha attivato un procedimento di
variante del medesimo piano, comunicandolo alla
cittadinanza. In merito sono state avanzate proposte da
parte di alcuni cittadini.
L’ente territoriale ha introdotto, inoltre, modifiche alle
norme tecniche d’attuazione, alcune delle quali su
suggerimento dell’ufficio tecnico comunale.
Fra le modifiche della normativa, in particolare, una
riguarda la disciplina delle distanze tra fabbricati “Distanza
minima tra edifici”, come dettata dall’art. 3 – “Definizioni
urbanistiche ed edilizie”, dell’elaborato “Definizioni
e disposizioni generali del Piano di Governo del Territorio".
Nella formulazione originaria, essa stabiliva che “Nelle
aree comprese in ambiti di trasformazione e nelle aree
comprese in ambiti del territorio consolidate {Piano delle
Regole) la distanza minima tra edifici deve essere pari
all’altezza dell'edificio più alto e comunque non inferiore
a m 10, fatta eccezione per gli edifici nelle aree comprese
in ambiti del territorio urbanizzato di antica formazione
per i quali la distanza minima tra edifici non può essere
inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati
preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni
aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico,
artistico o ambientale”.
A seguito della variante approvata, il testo della
disposizione è stato così riformulato: “Nelle
aree comprese in ambiti di trasformazione e in ambiti del
territorio consolidate {Piano delle Regole) la distanza
minima tra edifici deve essere non inferiore a m 10, fatta
eccezione per gli edifici compresi nei tessuti edificati di
antica formazione (Taf) per i quali la distanza minima tra
edifici non può essere inferiore a quella intercorrente tra
i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto
di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale. Limitatamente alle aree
comprese in ambiti di trasformazione, la distanza minima
deve inoltre essere pari o superiore all’altezza
dell’edificio più alto”.
Per effetto della variazione è stata
sottratta all’applicazione della disciplina più restrittiva
(quella che impone una distanza minima pari all’altezza
dell’edificio più alto), le aree di nuova edificazione
comprese all’interno di un ambito territoriale che, secondo
la disciplina dettata dalla legge regionale della Lombardia
11.05.2005 n. 12 viene definito “il tessuto urbano
consolidato”.
In particolare, la riformulata disposizione è riferita agli
ambiti territoriali previsti e disciplinati dagli articoli
18 e 19 delle norme di attuazione del piano delle regole.
Con l’art. 18 vengono definiti alcuni ambiti di espansione
edificatoria che, pur compresi nel perimetro territoriale
disegnato al fine d’individuare il cosiddetto “tessuto
urbano consolidato”, e definiti “tessuti di
completamento”, costituiscono vere e proprie aree di
espansione edificatoria, dato che ai sensi del comma 1 del
predetto art. 18 “Gli ambiti cosi classificati sono
rappresentati da parti prevalentemente non edificate,
intercluse all’interno del tessuto consolidate di fondovalle
o di versante o ai suoi margini.. La loro individuazione sul
territorio consente di affermare che si tratta di ambiti
privi di edificazione, da assoggettare per la prima volta a
processo urbanizzativo ed edificatorio.
Tale risulta la condizione dell’ambito n. 15, adiacente alla
proprietà del ricorrente, individuato dall'art. l9, quale
ambito assoggettato a piano attuativo obbligatorio. Tale
ambito conferma una previsione già presente nel previgente
piano regolatore generale approvato negli anni ‘90, laddove
era individuata come zona “RT n. 17”, assoggettata a
piano attuativo obbligatorio, coinvolgente il medesimo
ambito territoriale, assolutamente privo di edificazione e
destinato a nuovi insediamenti residenziali, ubicato ai
margini estremi dell'aggregato urbano edificato, lungo la
strada che introduce alla Valmalenco, caratterizzata da una
elevata acclività.
Il citato ambito, individuato nel piano generale del
territorio come ambito n. 15 nell’art. 19, conferma la
delimitazione dello stesso ambito territoriale individuato
nel precedente piano regolatore generale come “RT n. 17”,
mai coinvolto in precedenza in processi di urbanizzazione di
edificazione, atteso che è stata assoggettata in entrambi
gli strumenti urbanistici a piano attuativo, com’è
prescritto per tutte le zone che, secondo il decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444, devono essere qualificate
come zone di espansione.
L’Amministrazione, nella scelta di denominazioni e sigle
delle zone territoriali omogenee differenti da quelle
dettate nel D.M. n. 1444/1968 (prima RT ora ambito TAC), ad
avviso del ricorrente sarebbero state sottratte alla
disciplina che detto decreto ha fissato, specialmente per
quanto riguarda il regime delle distanze tra fabbricati, che
assumono valenza integrativa del codice civile,
asseritamente non derogabili dalle norme locali con
conseguente richiesta di disapplicazione delle disposizioni
di strumenti urbanistici che fissino una distanza tra
fabbricati inferiore a quella prevista nel citato DM.
Tutti gli ambiti “Tc” individuati dall’art. 19 del piano
generale del territorio sono assoggettati o a piano
urbanistico attuativo o a permesso di costruire
convenzionato obbligatorio, in considerazione proprio della
circostanza che si tratta di ambiti non edificati, da
assoggettare per la prima volta ad un processo di
urbanizzazione che richiede la preventiva pianificazione di
dettaglio, o almeno, ove si tratti di un ambito di più
limitata estensione, ad un permesso di costruire corredato
da una convenzione obbligatoria, mediante la quale garantire
gli stessi effetti del piano attuativo.
A conferma, il ricorrente richiama la circostanza che su 20
ambiti “Tc” individuati e disciplinati dall'art. 19 del
piano generale del territorio ben 11 sono soggetti al piano
attuativo obbligatorio. Fra essi vi è il n. 15, confinante
con la sua proprietà, sulla quale insiste un edificio a
destinazione residenziale (individuato in catasto al foglio
31, mappale 319, del Comune di Sondrio), a fronte del quale
è in corso di realizzazione un complesso residenziale avente
altezza largamente superiore a m 10, che non rispetterebbe
la distanza pari all’altezza dell’edificio più alto, come
prescritto per le zone omogenee C (parti del territorio
destinate a nuovi complessi insediativi che risultino
inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non
raggiunga i limiti di superficie e densità delle zone,
totalmente edificate) dall’art. 9, 1° comma, del DM n.
1444/1968.
Il ricorrente evidenzia, poi, che nelle stesse “Norme di
Attuazione del Piano delle Regole a1 Capo 2 (articoli 14,
15, 16, 17)” vengono disciplinate le altre porzioni del
tessuto urbano consolidato che presentano già una condizione
di parziale o compiuta edificazione, per i quali vengono
ammessi interventi diretti o perfino piani attuativi
all’interno dei quali viene consentita una distanza tra gli
edifici minore di quella minima di legge, evidentemente in
applicazione di quanto disposto dall’ultimo comma dell'art.
9 del DM 1444/1968.
Tale circostanza fa emergere la presenza, all’interno del
tessuto urbano consolidato, di ambiti territoriali molto
diversificati fra loro, alcuni dei quali aventi le
caratteristiche delle zone di completamento, altri quelle
delle zone di espansione.
2. Il ricorrente lamenta che la profonda diversità di
condizione oggettiva renda ingiustificata e illegittima la
sottrazione al più incisivo regime delle distanze tra
fabbricati fissato dall’art. 9 del DM n. 1444/1968 proprio
per le zone di nuova edificazione ed urbanizzazione.
Di conseguenza egli impugna la variante del piano generale
del territorio di Sondrio, segnatamente la parte mediante la
quale ha modificato la disposizione dell’art. 3 relativa
alla distanza tra fabbricati riducendo la misura della
distanza tra immobili fronteggianti alla sola misura di ml.
10,00 ed escludendo dall’applicazione della maggiore
distanza pari all’altezza dell’edificio più alto i nuovi
insediamenti previsti nelle cosiddette “zone TAC”, e
confermando tale disposizione solo per i nuovi insediamenti
in ambiti di trasformazione, senza tener conto del fatto
che, invece, per situazioni del genere doveva essere
mantenuta la formulazione originaria conforme a1 dispositivo
dell'art. 9 del DM n. 1444/1968, data l’identità di
condizioni oggettive di ambiti non edificati da
assoggettare, per la prima volta, ad un processo di nuova
urbanizzazione soggetto a preventiva approvazione di piano
attuativo.
A fondamento del ricorso il ricorrente deduce i seguenti
motivi di violazione di legge ed eccesso di potere.
1. Violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, in quanto è
stato espunto dall’ordinamento urbanistico locale l’obbligo
del rispetto della distanza minima pari all’edificio più
alto, in relazione ad interventi di nuova edificazione, in
asserite “Zone di espansione edificatoria aventi le
condizioni oggettive delle Zone C”.
2. Difetto di motivazione e contraddittorietà, perché
l’originaria formulazione del PGT in materia di distanze
dettava una disposizione univoca, in conformità alla
disciplina prevista dal richiamato art. 9 del D.M. n.
1444/1968, avente valenza vincolante in sede di
pianificazione. La decisione di modificare la norma generale
sarebbe quindi arbitraria, oltre che carente di adeguata
motivazione.
3. Difetto di motivazione, contraddittorietà, deviazione
dalla funzione. Il ricorrente sostiene che il 29.09.2013,
pur in presenza di un PGT approvato (deliberazione del
Consiglio comunale n. 40/2011), la giunta comunale ha
assunto la determinazione di avviare il procedimento di
revisione del PGT con l’esplicita affermazione di aggiornare
il piano senza alterarne l’impostazione complessiva
originaria e al solo fine di correggere errori materiali
riscontrati in fase applicativa. Quindi, la rilevante
modifica sul regime delle distanze contestata avrebbe il
carattere di norma elusiva di tassativi limiti di legge e
foriera di ulteriori situazioni di contrasto con il vigente
quadro giuridico di riferimento.
Considerato:
3. L’art. 2-bis del decreto del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001 n. 380 stabilisce che “…le regioni
e le province autonome di Trento e di Bolzano possono
prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni
derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici
02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli
spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli
produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al
verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o
revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un
assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali”.
La Regione Lombardia, con le modifiche introdotte alla legge
urbanistica regionale 11.05.2005 n. 12 con la legge
regionale 14.03.2008 n. 4, ha recepito tali indicazioni
stabilendo, ai fini dell’adeguamento degli strumenti
urbanistici, l’inapplicabilità del citato D.M. n. 1444/1968
fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova
costruzione, il rispetto della distanza minima di dieci
metri, derogabile all’interno dei piani attuativi.
L’art. 9 del D.M. 02.04.n. 1444/1968 dispone che “Le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue:
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di
edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del
fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una
sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si
fronteggino per uno sviluppo superiore a m 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano
interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con
esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di
singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere
alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- m 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
- m 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra m 7 e m 15;
- ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15”.
L’art. 1-bis della legge regione Lombardia 11.03.2005, n.
12, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), L.R.
14.03.2008, n. 4, prevede che “Ai fini dell'adeguamento,
ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti
urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del
decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444 (Limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i
fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, fatto
salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione,
il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a
dieci metri, derogabile all'interno di piani attuativi”.
Il successivo comma 1-ter dispone che “Ferme restando le
distanze minime di cui agli articoli 873 e 907 del codice
civile, fuori dai centri storici e dai nuclei di antica
formazione la distanza minima tra pareti finestrate, di cui
al comma 1-bis, è derogabile per lo stretto necessario alla
realizzazione di sistemi elevatori a pertinenza di
fabbricati esistenti che non assolvano al requisito di
accessibilità ai vari livelli di piano”.
4. In materia di distanza tra fabbricati,
per costante giurisprudenza
(da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3093;
08.05.2017 n. 2086; 29.02.2016 n. 856; Corte Cass. civ.,
sez. II, 14.11.2016 n. 23136), la
disposizione contenuta nell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve
sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile
poiché si tratta di norma imperativa la quale predetermina,
in via generale ed astratta, le distanze tra le costruzioni,
in considerazione delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e di sicurezza.
Tali distanze sono coerenti con il
perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile.
Occorre osservare, poi, che
la disposizione dell’art. 9, n.
2 del D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”,
intendendosi per tali gli edifici (o parti o sopraelevazioni
di essi: Consiglio di Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522)
“costruiti per la prima volta” e non già edifici
preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non
avrebbe senso prescrivere distanze diverse. Tale
affermazione trova riscontro in una pluralità di
considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che,
ai sensi dell’art.
41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, avente per oggetto “Disciplina
dell’attività urbanistica e suoi scopi” nella
formulazione in vigore dal 30.06.2003, i limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i
fabbricati nonché i rapporti massimi tra spazi destinati
agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici
o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi”, sono imposti ai fini della formazione di nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria
per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già
per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato
da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non
sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione
urbanistica).
Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso
art. 9 del D.M. n. 1444/1968 per le zone “A”, nel
contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede
che le distanze “non possono essere inferiori a quelle
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimine in tema di distanze (con
l’introduzione del limite inderogabile di 10 m), nella ‘ratio’
dell’indicato art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A
ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova
(ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione
di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della
disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza,
sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B
totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte,
a voler applicare il limite inderogabile di
distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un
altro preesistente si otterrebbe che, da un lato, l’immobile
considerato non potrebbe essere demolito e ricostruito, se
non “arretrando” rispetto all’allineamento
preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e
realizzandosi, quindi, un improprio “effetto
espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato,
esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di
cui all’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968,
allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un
solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno
strumento urbanistico attuativo con dettaglio piano
volumetrico.
Anzi,
la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9,
u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici
attuativi conferma quanto innanzi affermato e cioè che le
norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444/1968 si
riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non
già ad interventi specifici sull’esistente.
In conclusione, in tema di distanze fra
costruzioni, l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, “poiché
emanato su specifica delega contenuta nell'art. 41-quinquies
della legge urbanistica fondamentale 17.08.1942, n. 1150, ha
efficacia di legge dello Stato sicché le sue disposizioni in
tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza
tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni
dei regolamenti edilizi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica”
(Cass. civ. sez. II, 12.02.2016, n. 2848).
5. Le disposizioni legislative riguardanti
i titoli abilitativi per gli interventi edilizi sono state,
da tempo, ricondotte dalla Corte costituzionale nell’ambito
della normativa di principio in materia di governo del
territorio (Corte
costituzionale, sent. 23.11.2011, n. 309; 01.10.2003, n.
303).
In merito è stato chiarito che “sono
principi fondamentali della materia le disposizioni che
definiscono le categorie di interventi, perché è in
conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei
titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli
oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali.
L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è
costruito sulla definizione degli interventi, con
particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di
ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di
ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e
le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e
degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo,
manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria),
dall'altro.
La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi
spetta, dunque, allo Stato”.
Con specifico riferimento al riparto di competenze in tema
di distanze legali, la medesima Corte ha affermato che “la
disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra
nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene
alla competenza legislativa statale; alle Regioni è
consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime
stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la
deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra
gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento
civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il
governo del territorio− che ne detta anche le modalità di
esercizio"
(Corte costituzionale, sentenze 03.11.2016 n. 231;
23.01.2013 n. 6; 21.05.2014 n. 134; ordinanza 19.05.2011 n.
173).
Si è affermato di conseguenza che “nella
delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale
in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia
di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio è stato
rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, ritenuto più volte dotato di “efficacia precettiva e
inderogabile”
(Corte costituzionale, sent. 10.05.2012, n. 114; ordinanza
19.05.2011, n. 173).
Con rifermento ad eventuali deroghe, la
Corte ha ritenuto che tale disposto ammette distanze
inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale “nel
caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
In definitiva, le deroghe all’ordinamento
civile delle distanze tra edifici sono consentite se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio.
Le richiamate conclusioni sono state ribadite anche a
seguito dell’emanazione dell’art. 30, comma 1, 0a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98 − e
dell’art. 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380 del 2001.
Ad avviso del giudice costituzionale,
invero, la disposizione ha recepito l’orientamento della
Corte “inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi
fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le
province autonome, delle distanze legali stabilite dal D.M.
n. 1444/1968 e dell'ammissibilità di deroghe solo a
condizione che esse siano inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio”
(sentenze 20.07.2016 n. 175 e 21.09.2016 n. 178).
6. L’art. 103, comma 1-bis, della legge
della Regione Lombardia n. 12/2005, non affidando
l’operatività dei suoi precetti a “strumenti urbanistici”
e non essendo funzionale ad un “assetto complessivo ed
unitario di determinate zone del territorio”, riferisce
la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento,
quindi anche su singoli edifici, con la conseguenza che essa
risulta assunta al di fuori dell’ambito della competenza
regionale concorrente in materia di “governo del
territorio”, in violazione del limite “dell’ordinamento
civile” assegnato alla competenza legislativa esclusiva
dello Stato.
Sotto i delineati profili la Sezione è
dell’avviso che la questione di legittimità costituzionale
di cui al comma 1-bis dell’articolo 103 della legge
regionale della Lombardia 2005 n. 12, (comma aggiunto
dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), della legge regionale
Lombardia 14.03.2008, n. 4), non sia manifestamente
infondata.
Non può dubitarsi, poi, della sua rilevanza atteso che, come
emerge dall’esposizione fin qui svolta, la sua applicazione
è decisiva ai fini della decisione della controversia in
esame.
Dev’essere disposta, conseguentemente, la rimessione degli
atti alla Corte costituzionale per la decisione della
predetta questione di legittimità costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede consultiva (Sezione prima),
visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 della legge
costituzionale 09.02.1948 n. 1, 23 della legge 11.03.1953,
n. 87 e l’art. 1, delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale 07.10.2008:
a) dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione, che rimette alla Corte
costituzionale, di legittimità costituzionale dell’articolo
103, comma 1-bis, della legge regionale della Lombardia n.
12/2005, nei sensi indicati in motivazione;
b) dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale e sospende il presente procedimento (Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 22.01.2018 n. 199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2017 |
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maggio 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di un
intervento di ristrutturazione edilizia attuato mediante
sostituzione dell’opera preesistente lo stesso soggiace, ai
sensi dell'art.
44 della l.r. Lombardia n. 12/2005, alla
corresponsione per intero degli oneri di urbanizzazione.
I commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della
l.r. 11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri di
calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento
alle ristrutturazioni edilizie “non
comportanti demolizione e ricostruzione”. Ne deriva, a
contrario, che gli interventi di ricostruzione preceduti da
demolizione totale o parziale siano assoggettati al
contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo
comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12
del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge
regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “i
comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione
e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione
edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al
cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alle d.i.a.
oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in
ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente
presupposto che gli interventi in questione siano, in linea
di principio, soggetti all’integrale assolvimento della
quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di
urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per
i Comuni di ridurre la misura della relativa quota di
contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli
interventi di ricostruzione previa demolizione
dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella,
all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
In senso contrario non può assumersi come legittimo un
calcolo degli oneri di urbanizzazione limitato al solo
incremento di superficie traslata dai piani inferiori tenuto
conto dell’avvenuta integrale demolizione dei piani
interessati (quinto, sesto e settimo) e della loro
ricostruzione con altra forma.
Ne è quindi derivata la realizzazione di un organismo
edilizio, per quella parte, del tutto nuovo, avente non solo
un diverso aspetto esteriore, ma anche caratteristiche
completamente diverse di fruibilità interna, derivanti dalla
nuove modalità costruttive e dalla superficie aggiunta.
L’opera, per quella parte, va quindi considerata
unitariamente, e non può invece ritenersi qualificabile come
un mero incremento di superficie attraverso un sistema di
traslazione di s.l.p..
---------------
1. Il ricorso introduttivo non è meritevole di accoglimento.
2. La società ricorrente contesta la rideterminazione degli
oneri di urbanizzazione effettuata dal Comune di Milano
attraverso la nota P.G. n. 580848/2015 del 29.10.2015, in
quanto a suo giudizio l’intervento di traslazione di
superficie dai piani inferiori a quelli superiori (quinto,
sesto e settimo piano), dando luogo ad una parziale
ristrutturazione con demolizione e successiva ricostruzione,
avrebbe potuto determinare l’applicazione della correlata
tariffa soltanto alla parte di superficie che si è aggiunta
a quella originaria e non anche alla superficie
preesistente, da assoggettare alla tariffa prevista per gli
interventi di sola ristrutturazione.
Di conseguenza, la somma individuata dagli Uffici comunali a
titolo di conguaglio non sarebbe dovuta nella sua
integralità, ma soltanto in parte (nella misura di €
127.273,45 piuttosto che di € 281.814,96).
2.1. La prospettazione fornita dalla parte ricorrente non
può essere condivisa.
In punto di fatto va evidenziato che dalla documentazione
versata in giudizio emerge come l’intervento edilizio
relativo ai piani quinto, sesto e settimo dell’immobile
abbia avuto quale presupposto la demolizione (della
preesistente struttura) fino al terzo piano e la
realizzazione dei solai dal quarto piano e oltre in
struttura metallica (cfr. Relazione struttura ultimata
edificio, in parte ripresa dal Certificato di collaudo
statico: all. 10 e 11 del Comune): quindi può convenirsi con
la difesa comunale laddove assume che la parte ricorrente
abbia eseguito una ristrutturazione di tipo pesante tramite
demolizione e (non fedele) ricostruzione dei piani quinto,
sesto e settimo.
Di conseguenza, il predetto intervento deve essere
assoggettato all’integrale corresponsione degli oneri di
urbanizzazione, come già sostenuto da questa Sezione in una
fattispecie similare.
Infatti, i commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della legge
regionale 11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri
di calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con
riferimento alle ristrutturazioni edilizie “non
comportanti demolizione e ricostruzione”. Ne deriva, a
contrario, che gli interventi di ricostruzione preceduti da
demolizione totale o parziale siano assoggettati al
contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni
(cfr.
Consiglio di Stato, IV, 22.05.2012, n. 2969,
che conferma la
sentenza 18.05.2010, n. 1566 di questa Sezione).
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo
comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12
del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge
regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “i
comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione
e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione
edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al
cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alle d.i.a.
oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in
ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente
presupposto che gli interventi in questione siano, in linea
di principio, soggetti all’integrale assolvimento della
quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di
urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per
i Comuni di ridurre la misura della relativa quota di
contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli
interventi di ricostruzione previa demolizione
dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella,
all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
In senso contrario non può assumersi come legittimo un
calcolo degli oneri di urbanizzazione limitato al solo
incremento di superficie traslata dai piani inferiori tenuto
conto dell’avvenuta integrale demolizione dei piani
interessati (quinto, sesto e settimo) e della loro
ricostruzione con altra forma.
Ne è quindi derivata la realizzazione di un organismo
edilizio, per quella parte, del tutto nuovo, avente non solo
un diverso aspetto esteriore, ma anche caratteristiche
completamente diverse di fruibilità interna, derivanti dalla
nuove modalità costruttive e dalla superficie aggiunta.
L’opera, per quella parte, va quindi considerata
unitariamente, e non può invece ritenersi qualificabile come
un mero incremento di superficie attraverso un sistema di
traslazione di s.l.p..
Deve perciò concludersi nel senso che, nel caso di specie,
si sia in presenza di un intervento di ristrutturazione
edilizia attuato mediante sostituzione dell’opera
preesistente, con conseguente soggezione, ai sensi del
richiamato articolo 44 della legge regionale n. 12 del 2005,
alla corresponsione per intero degli oneri di urbanizzazione
(cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 23.03.2015,
n. 780) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.05.2017 n. 1218 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2016 |
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ottobre 2016 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Corte Costituzionale: è illegittima la L.R.
Lombardia 7/2012 "salva" ristrutturazioni edilizie
ante 30.11.2011 senza rispetto della sagoma.
Con
sentenza 21.11.2011 n. 309, la Corte
Costituzionale dichiarò l'incostituzionalità:
• dell’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo,
della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n.
12 (Legge per il governo del territorio), nella
parte in cui escludeva l’applicabilità del limite
della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante
demolizione e ricostruzione; dell’art. 103 della
legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella
parte in cui disapplica l’art. 3 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia)
(testo A);
• dell’art. 22 della legge della Regione Lombardia
05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per
l’attuazione della programmazione regionale e di
modifica ed integrazione di disposizioni legislative
– Collegato ordinamentale 2010),
confermando la fondatezza della eccezione di
illegittimità costituzionale sollevata dal TAR
Lombardia con l'ordinanza n. 5122 del 07.09.2010,
ossia che
non c'é spazio per una definizione di
ristrutturazione edilizia diversa da quella indicata
dal legislatore nazionale nell'articolo 3 del DPR
380/2011.
Al fine dichiarato di tutelare il legittimo
affidamento dei soggetti interessati, nel 2012 la
Regione Lombardia intervenne sulla legge n. 12 del
2005
disponendo la salvezza dei permessi di costruire
rilasciati alla data del 30.11.2011 nonché le
denunce di inizio attività esecutive alla medesima
data (Art. 17. "Disciplina dei titoli
edilizi di cui all'articolo 27, comma 1, lettera d),
della l. r. 12/2005 a seguito della sentenza della
Corte Costituzionale n. 309/2011", L.R.
08.04.2012, n. 7, Misure per la crescita, lo
sviluppo e l'occupazione).
Adito dalla proprietaria di un immobile, sito nel
territorio del Comune di Paderno Dugnano, confinante
con un’area nella quale il Comune ebbe ad
autorizzare, con permesso di costruire, un
intervento di ristrutturazione mediante demolizione
dell’edificio esistente e ricostruzione con sagoma
diversa, con ordinanza del 05.11.2015 il TAR
Lombardia sollevò la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17, comma 1, della L.R.
7/2012, in riferimento al Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, nel testo anteriore alle modifiche
apportate dall’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013,
n. 69.
Con
sentenza 20.10.2016 n. 224, la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 17, comma 1, della L.R.
7/2012.
Stigmatizzando la norma lombarda, i giudici
costituzionali hanno condiviso la fondatezza della
questione di illegittimità costituzionale della
normativa lombarda sottolineando:
• che la Corte ha già stigmatizzato (ex plurimis,
sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni
con cui il legislatore, statale o regionale,
interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia
di illegittimità costituzionale, per conservare o
ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della
norma dichiarata illegittima;
• tale è il caso della disposizione impugnata,
emanata al dichiarato «fine di tutelare il
legittimo affidamento dei soggetti interessati»
in relazione agli «interventi di ristrutturazione
edilizia oggetto della
sentenza n. 309 del 2011»;
• essa, come risulta esplicitamente dal suo tenore
letterale, mira a convalidare e a confermare
nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in
diretta applicazione della precedente normativa
regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima
dalla citata pronuncia di questa Corte, i cui
effetti la disposizione regionale vorrebbe
parzialmente neutralizzare;
• a nulla rilevano, ovviamente, i mutamenti
successivamente intervenuti nella legislazione
statale, che hanno rimosso il divieto di alterazione
della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie, su cui
si fondavano le dichiarazioni di illegittimità
costituzionale contenute nella
sentenza n. 309 del 2011: come già
precedentemente osservato, la questione e la norma
che ne costituisce oggetto concernono situazioni
anteriori a tale innovazione della legislazione
statale e non sono da essa interessate.
Per questi motivi la disposizione impugnata è stata
ritenuta costituzionalmente illegittima per
violazione dell’art. 136 Cost., mentre resta
assorbito ogni altro motivo di censura (23.10.2016
- commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della
legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7.
---------------
Art. 17, c. 1, l.r. Lombardia n. 7/2012 – Interventi di
ristrutturazione edilizia oggetto della sent. Corte Cost. n.
309/2011 – Conservazione degli effetti della norma
dichiarata illegittima – Illegittimità costituzionale.
L’art. 17, comma 1, della legge della
Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita,
lo sviluppo e l’occupazione), nel prevedere, in relazione
agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della
sent. Corte Cost. n. 309 del 2011, che i permessi di
costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (data di
pubblicazione della sentenza citata), nonché le denunce di
inizio attività esecutive alla medesima data, siano
considerati titoli validi ed efficaci fino al momento della
dichiarazione di fine lavori, al fine di tutelare il
legittimo affidamento dei soggetti interessati, interviene
per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità
costituzionale, conservando o ripristinando gli effetti
della norma dichiarata illegittima.
Essa, infatti, mira a convalidare e a confermare
nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in diretta
applicazione della precedente normativa regionale,
dichiarata costituzionalmente illegittima dalla citata
sentenza n. 309 del 2011, i cui effetti la disposizione
regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare.
La disposizione regionale deve pertanto essere dichiarata
costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136
Cost. (massima
tratta da www.ambientediritto.it).
---------------
Considerato in diritto
1.– Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con ordinanza
05.11.2015 (r.o. n. 21 del 2016 -
sentenza 05.11.2015 n. 2342), solleva questioni
di costituzionalità dell’art. 17, comma 1, della
legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7
(Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione), il
quale, in relazione agli «interventi di ristrutturazione
edilizia oggetto della
sentenza n. 309 del 2011», «al fine di
tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati»,
prescrive che i permessi di costruire rilasciati alla data
del 30.11.2011 (data di pubblicazione della sentenza
citata), nonché le denunce di inizio attività esecutive alla
medesima data, siano considerati titoli validi ed efficaci
fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a
condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti
protocollata entro il 30.04.2012.
Ad avviso del rimettente, tale disposizione violerebbe
l’art. 136 della Costituzione e l’art. 1 della legge
costituzionale 09.02.1948, n. 1 (Norme sui giudizi di
legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza
della Corte costituzionale), in quanto limiterebbe gli
effetti per il passato della
sentenza di questa Corte n. 309 del 2011,
escludendo che la perdita di efficacia delle disposizioni,
dichiarate costituzionalmente illegittime da tale sentenza,
rilevi per i titoli edilizi rilasciati in base alle stesse
disposizioni prima della pubblicazione della sentenza (a
condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti
protocollata entro il 30.04.2012).
Sarebbe altresì violato l’art. 117, comma terzo, Cost., in
relazione all’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia – testo A) – nella versione anteriore alle
modifiche di cui all’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013,
n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98 – in quanto
verrebbero affermate la validità e l’efficacia di titoli
edilizi riferiti a interventi di ristrutturazione di edifici
mediante demolizione e ricostruzione con sagoma diversa, in
violazione del principio fondamentale della legislazione
statale, che la
sentenza n. 309 del 2011 ha desunto dall’art. 3,
comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2011, nel testo
allora vigente, secondo il quale rientravano nella
definizione di ristrutturazione edilizia solo gli interventi
di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e
di sagoma rispetto all’edificio preesistente.
In subordine, qualora il censurato
art. 17, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 7 del 2012
fosse interpretato nel senso (non di affermare la validità e
l’efficacia dei titoli edilizi ivi considerati, bensì più
limitatamente) di paralizzare in via generale e astratta il
potere di autotutela dell’amministrazione in relazione ad
atti basati sulle disposizioni legislative dichiarate
costituzionalmente illegittime dalla
sentenza n. 309 del 2011, sarebbe violato l’art.
97 Cost.: così intesa, la norma regionale sacrificherebbe
aprioristicamente la legalità e il buon andamento della
pubblica amministrazione, impedendo una comparazione in
concreto, in sede di autotutela, tra gli interessi generali
e quelli privati coinvolti in ciascuna fattispecie.
2.1.– Preliminarmente, considerato che il rimettente
ripropone questioni già sollevate dinanzi a questa Corte, in
relazione alle quali è stata disposta la restituzione degli
atti (ordinanza n. 35 del 2015), occorre verificare se il
giudice abbia assolto all’onere di riesaminare la rilevanza
e i termini delle stesse questioni, alla luce delle novità
normative, in termini non implausibili (ex plurimis,
sentenze n. 162 e n. 46 del 2014, n. 321 del 2011).
La verifica ha esito positivo. Il giudice ha esaminato
l’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla legge n.
98 del 2013, ne ha argomentato il carattere innovativo ed ha
escluso la sua applicabilità ai fatti di causa, in
particolare perché i provvedimenti impugnati sono anteriori
alla nuova normativa. Così facendo, il giudice ha fatto
plausibile applicazione del principio secondo cui «lo ius
superveniens non può venire in evidenza nel giudizio di
costituzionalità sollevato dai giudici amministrativi
poiché, secondo il principio tempus regit actum, la
valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va
condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di diritto
esistente al momento della sua adozione”» (sentenza n.
49 del 2016; si veda anche sentenza n. 30 del 2016).
2.2.– Neppure osta all’ammissibilità la circostanza che il
TAR abbia fatto ampio riferimento alla propria precedente
ordinanza di rimessione, integralmente riportata nella
nuova, con l’aggiunta di considerazioni, sia pure
sintetiche, sul carattere innovativo e non retroattivo dello
ius superveniens.
Il giudice rimettente deve fornire, nell’atto di
promovimento, un’esauriente ed autonoma motivazione, mentre
il mero recepimento di argomenti sviluppati dalle parti o
rinvenuti nella giurisprudenza, anche costituzionale, non
basta di per sé a chiarire «le ragioni per le quali
“quel” giudice reputi che la norma applicabile in “quel”
processo risulti in contrasto con il dettato costituzionale»
(sentenza n. 22 del 2015). Ciò non impedisce che il
rimettente riferisca il contenuto di pronunce della Corte
costituzionale o di altri atti del procedimento a quo,
purché corroborato da proprie considerazioni con le quali
illustri, in relazione al giudizio principale, le ragioni
dei dubbi di legittimità costituzionale prospettate a questa
Corte (sentenze n. 51 e n. 10 del 2015).
3.–
Nel merito, la questione sollevata in
riferimento all’art. 136 Cost. e all’art. 1 della l. cost.
n. 1 del 1948 è fondata.
Questa Corte ha già stigmatizzato (ex plurimis,
sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni con cui
il legislatore, statale o regionale, interviene per mitigare
gli effetti di una pronuncia di illegittimità
costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in
parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima.
Tale è il caso della disposizione impugnata, emanata al
dichiarato «fine di tutelare il legittimo affidamento dei
soggetti interessati» in relazione agli «interventi
di ristrutturazione edilizia oggetto della
sentenza n. 309 del 2011». Essa, come risulta
esplicitamente dal suo tenore letterale, mira a convalidare
e a confermare nell’efficacia gli atti amministrativi emessi
in diretta applicazione della precedente normativa
regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla
citata pronuncia di questa Corte, i cui effetti la
disposizione regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare.
A nulla rilevano, ovviamente, i mutamenti successivamente
intervenuti nella legislazione statale, che hanno rimosso il
divieto di alterazione della sagoma nelle ristrutturazioni
edilizie, su cui si fondavano le dichiarazioni di
illegittimità costituzionale contenute nella
sentenza n. 309 del 2011: come già
precedentemente osservato, l’odierna questione e la norma
che ne costituisce oggetto concernono situazioni anteriori a
tale innovazione della legislazione statale e non sono da
essa interessate.
Per questi motivi la disposizione impugnata
deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per
violazione dell’art. 136 Cost., mentre resta assorbito ogni
altro motivo di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia
18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita, lo sviluppo e
l’occupazione)
(Corte Costituzionale,
sentenza 20.10.2016 n. 224). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Corte costituzionale ritorna sulle conseguenze della
violazione del c.d. giudicato costituzionale.
---------------
Corte costituzionale - Giudicato costituzionale –
Mantenimento in vigore di norme dichiarate incostituzionali
– Incostituzionalità.
E' incostituzionale, per violazione
dell'art. 136 Cost., la norma statale o regionale che
interviene al fine di mitigare gli effetti di una pronuncia
di incostituzionalità, per conservare o ripristinare, in
tutto o in parte, quanto previsto dalla norma dichiarata
illegittima (fattispecie relativa all'art. 17, comma 1,
l.reg. Lombardia 18.04.2012, n. 7 che -in relazione agli
interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della
sentenza della Corte costituzionale n. 309 del 2011-
prescrive che i titoli edilizi rilasciati alla data di
pubblicazione della sentenza stessa siano considerati titoli
validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di
fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio
lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012) (1).
---------------
(1)
Con una sentenza tanto snella quanto decisa, la Consulta
accoglie una questione di costituzionalità sollevata dal Tar
Milano (Sez. II,
sentenza 05.11.2015 n. 2342)
e con l’occasione ribadisce le regole fondamentali in tema
di giudicato costituzionale, in specie rispetto ai limiti
per il legislatore (nella specie regionale) che tenti di
ridare vita a norme già cadute sotto la censura di
incostituzionalità della stessa Corte.
La peculiarità della decisione deriva dal fatto che la norma
regionale oggetto di censura costituisce una riedizione di
una precedente disposizione già oggetto di declaratoria di
illegittimità costituzionale su rimessione del medesimo
giudice amministrativo.
Infatti, con
sentenza 23.11.2011, n. 309 (in Giur. cost. 2011,
6, 4311 con nota Gorlani, sempre su ordinanza di rimessione
del Tar per la Lombardia), la Corte aveva già dichiarato
costituzionalmente illegittime una serie di norme regionali,
fra cui l'art. 22, l.reg. Lombardia 05.02.2010, n. 7; in
particolare tale ultima disposizione –a propria volta
recante interpretazione autentica di altra precedente legge
regionale del 2005– nello stabilire che la ricostruzione
dell'edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma, è
stata reputata in contrasto con il riparto di competenza di
cui all’art. 117, comma 3, Cost., in materia di governo del
territorio, in quanto in contrasto con il principio
fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lett. d),
d.P.R. n. 380 del 2001 t.u. edilizia, che definisce gli "interventi
di ristrutturazione edilizia".
Il legislatore regionale, pur dinanzi a tale annullamento,
ha adottato la norma oggetto della sentenza in commento, in
base alla quale sono dichiarati “validi ed efficaci”
i titoli edilizi riguardanti gli interventi edilizi oggetto
della succitata
sentenza n. 309 del 2011, e cioè gli interventi
di ristrutturazione consistenti nella demolizione e
ricostruzione senza vincolo di sagoma, a condizione che:
a) il titolo sia stato rilasciato prima del 30.11.2011;
b) la comunicazione di inizio lavori sia stata protocollata prima
del 30.04.2012.
La Consulta -oltre a censurare l’ultra vigenza di titoli
adottati sulla base di una legge dichiarata
incostituzionale, per questa via ribadendo la competenza
legislativa statale in materia di definizione e
classificazione degli interventi edilizi (Corte cost.
09.03.2016, n. 49, in Rivista Giuridica dell'Edilizia 2016,
1-2, I, 8 con nota di STRAZZA, secondo cui: <<Nell’ambito
della materia concorrente “governo del territorio”, prevista
dall’art. 117, comma 3, cost., i titoli abilitativi agli
interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina
che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve
ritenersi valida anche per la d.i.a. e per la s.c.i.a. che,
seppure con la loro indubbia specificità, si inseriscono in
una fattispecie il cui effetto è pur sempre quello di
legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi>>)-
conferma la palese illegittimità costituzionale della norma,
richiamando i propri precedenti applicativi dell’art. 136
Cost..
In particolare, la Corte ribadisce (da ultimo
16.07.2015 n. 169, in Giustizia civile, 2015, 27
luglio con nota di DI MARZIO) l’inammissibilità di
disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale,
intervenga al fine di mitigare gli effetti di una pronuncia
di illegittimità costituzionale, per conservare o
ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma
dichiarata illegittima.
Più in generale, sul c.d. giudicato costituzionale merita di
essere altresì richiamata la più risalente giurisprudenza
costituzionale secondo la quale, perché vi sia violazione
del giudicato costituzionale, è necessario che una norma
ripristini o preservi l'efficacia di una norma già
dichiarata incostituzionale. In particolare il rigore del
citato precetto costituzionale impone al legislatore di “accettare
la immediata cessazione dell'efficacia giuridica della norma
illegittima”, anziché “prolungarne la vita” sino
all'entrata in vigore di una nuova disciplina del settore e
che «le decisioni di accoglimento hanno per destinatario
il legislatore stesso, al quale è quindi precluso non solo
il disporre che la norma dichiarata incostituzionale
conservi la propria efficacia, bensì il perseguire e
raggiungere, “anche se indirettamente”, esiti corrispondenti
a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione»
(19.07.1983, n. 223, in Foro it. 1983, I, 2057).
Per più recenti pronunce in materia di violazione del
giudicato costituzionale e sue conseguenze sulla
legislazione residua v. Corte cost. 23.04.2013, n. 72, in
Foro it., 2014, I, 2273, ivi gli ulteriori riferimenti di
dottrina e giurisprudenza; Cass. pen., sez. un., 28.07.2015,
n. 33040, Jazouli, id., 2015, II, 694, con nota di LO FORTE
(Corte
Costituzionale,
sentenza 20.10.2016 n. 224
- commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Illegittima
la sanatoria lombarda. Ristrutturazioni. La Consulta
boccia la legge sulle sagome anteriori al 2013.
Il giudice delle leggi rimprovera
la Regione Lombardia, pretendendo il rispetto delle
proprie pronunce:
con la
sentenza 20.10.2016 n. 224 la Consulta dichiara
illegittima la legge regionale 7/2012, in materia di
ristrutturazione edilizia. La materia del contendere
sono le costruzioni realizzate tra il 2011 ed il
2012, ma vi sono tuttavia importanti affermazioni
sul potere di autotutela, che in edilizia trova
spazio quando si chiede di intervenire su
provvedimenti taciti (Scia).
La Corte costituzionale si è occupata del concetto
di “sagoma” delle costruzioni: secondo la
Regione (Lr 12/2005, articolo 27) le
ristrutturazioni (demolizione e ricostruzione)
potevano avvenire anche con diversa sagoma, ad
esempio con disegno speculare o torrini e
piattaforme non presenti nel fabbricato demolito,
cosa esclusa dalla sentenza 309/2011 della Consulta
perché prevale il Testo unico statale dell’edilizia
(380/2001). Secondo la Corte, la Regione ha
competenza sul territorio, non sul paesaggio, al
quale appartiene il concetto di sagoma.
Nel 2013, il Dl 69 ha rimediato, consentendo
ristrutturazioni anche senza il rispetto della
sagoma preesistente. Per titoli edilizi con sagome
alterate rilasciati prima del Dl, la Lombardia ha
varato una sostanziale sanatoria (Lr 7/2012), sulla
quale la Consulta ritiene sia stato aggirato il
proprio orientamento del 2011.
Se il giudice delle leggi censura una norma, questa
perde efficacia fin dall’origine (articolo 136 della
Costituzione e 30 della legge 87/1953) e quindi si
intende annullata retroattivamente. Solo in rari
casi le sentenze della Consulta non hanno un effetto
integralmente demolitorio, come avvenuto con la
10/2015 sull’Ires. In questo caso, il contrasto col
legislatore lombardo avrà conseguenze limitate: si
discute di pochi manufatti e in particolare di un
edificio a Besozzo (9mila abitanti in provincia di
Varese), demolito e ricostruito con diversa sagoma,
generando il ricorso di un vicino proprietario.
L’edificio, secondo il principio espresso dalla
Consulta, non può considerarsi sanato dalla legge
statale 63/2013 (che ammette oggi ristrutturazioni
con diversa sagoma), ma probabilmente potrebbe
fruire di una sanzione relativamente modesta.
Infatti, pur essendo stato edificato con un titolo
illegittimo, potrebbe comunque essere ricostruito
con le stesse caratteristiche. Al vicino litigioso
spetta solo il risarcimento del danno per il periodo
in cui ha subìto il disagio di un fabbricato con
sagoma irregolare.
Più delicato il passaggio in cui la Corte si occupa
dell’interesse pubblico a reprimere abusi che
successivamente siano considerati irrilevanti. Il
principio della legge più favorevole è codificato
(articolo 2 del Codice penale) per le sanzioni
penali. Ma di fatto trova spazio anche nelle vicende
amministrative, sotto forma di ragionevole
motivazione sull’opportunità di ripristinare una
situazione superata da leggi sopravvenute (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ANNO 2015 |
|
novembre 2015 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi degli art. 71, comma 1, c-bis) e 72 L.R. n.
12/2005 Lombardia, l’installazione di attrezzature
per servizi religiosi in immobili destinati a sede
di associazioni le cui finalità siano da ricondurre
alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano
dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza
della condizione rappresentata dall’accesso
indiscriminato a tutti i fedeli interessati.
Inoltre, che nel caso di specie il mutamento della
destinazione d’uso (da negozio a luogo destinato al
culto) è avvenuto in assenza del pur necessario
titolo edilizio.
---------------
... per la riforma dell'ordinanza
31.07.2015 n. 1506
del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA, resa
tra le parti, concernente ripristino originale
destinazione d'uso a negozio nei locali di via
Tremana 11, Bergamo;
...
- Considerato che ai sensi degli art. 71, comma 1,
c-bis) e 72 L.R. n. 12/2005 Lombardia,
l’installazione di attrezzature per servizi
religiosi in immobili destinati a sede di
associazioni le cui finalità siano da ricondurre
alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano
dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza
della condizione rappresentata dall’accesso
indiscriminato a tutti i fedeli interessati;
- ritenuto, inoltre, che nel caso di specie il
mutamento della destinazione d’uso (da negozio a
luogo destinato al culto) è avvenuto in assenza del
pur necessario titolo edilizio;
- ritenuto, pertanto, che l’appello proposto dal
Comune meriti accoglimento, con conseguente rigetto
dell’istanza cautelare proposta in primo grado;
- ritenuto che sussistono i presupposti per
compensare le spese della fase cautelare;
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta)
Accoglie l'appello (Ricorso numero: 8729/2015) e,
per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata,
respinge l'istanza cautelare proposta in primo
grado.
Ordina che a cura della segreteria la presente
ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita
fissazione dell'udienza di merito ai sensi dell'art.
55, comma 10, cod. proc. amm.
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
ordinanza 25.11.2015 n. 5254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
base all’art. 136 della Costituzione “quando la Corte
dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di
legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di
avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione
della decisione”.
---------------
L’intervenuta dichiarazione di incostituzionalità ha
effetti erga omnes e retroattivi che si dispiegano su tutti
i rapporti giuridici, salvo il limite invalicabile del
giudicato, e salvo altresì il limite derivante da situazioni
giuridiche comunque divenute irrevocabili: la dichiarazione
di illegittimità colpisce dunque la norma fin dalla sua
origine, eliminandola dall'ordinamento, ricalcandosi così un
fenomeno analogo a quello che si verifica in caso di
annullamento degli atti giuridici.
In applicazione dell’art. 136 della Costituzione,
la
dichiarazione di illegittimità costituzionale delle
disposizioni di cui all’art. 27, primo comma, lett. d) della
l.r. 11.03.2005 n. 12 ed all’art. 22 della l.r. 05.02.2010 n. 7, pronunciata con sentenza n. 309/2011,
dovrebbe dunque valere anche per il passato.
---------------
Con l’art. 17, comma primo, della l.r. n.
7/2012, il legislatore lombardo ha dettato una disposizione
che appare in contrasto con gli illustrati principi,
stabilendo che “In relazione agli interventi di
ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte
Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, (…) i permessi di
costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…) devono
considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della
dichiarazione di fine lavori …”; e stabilendo quindi, nella
sostanza, che, in base a questa norma, la dichiarazione di
incostituzionalità non rileva per i titoli edilizi
rilasciati in epoca anteriore alla pubblicazione della
su indicata sentenza.
Con la disposizione in esame, si è dunque prevista
un’ipostesi di sanatoria legislativa diretta ad emendare i
titoli rilasciati prima della pubblicazione della sentenza
n. 309/2011 dal vizio derivante dell’essere tali atti
applicativi di disposizioni dichiarate incostituzionali.
Sembra pertanto sussistere il contrasto con i citati
artt. 136 della Costituzione e 1 della legge costituzionale
09.02.1948 n. 1.
Si deve invero osservare che la Regione, con la
succitata disposizione, ha compresso il potere di autotutela
riservato alle autorità comunali, impedendo loro di
intervenire sui titoli edilizi già rilasciati per rendere
conforme l’attività di trasformazione del territorio alle
disposizioni normative vigenti nell’ordinamento.
Tale compressione si pone in antitesi con i principi di
legalità buon andamento della pubblica amministrazione
sanciti dalla suddetta norma costituzionale,
in
quanto sacrifica in maniera aprioristica i suddetti valori
senza richiedere una preventiva concreta comparazione degli
interessi coinvolti nel procedimento di autotutela;
comparazione invece normalmente richiesta per giustificare
il mantenimento in essere di provvedimenti non conformi a
legge.
Esempio emblematico di questo ultroneo sacrifico
potrebbe essere dato proprio dal caso in esame, nel quale
l’autorità amministrativa ha ritenuto di non potere
esercitare il proprio potere di autotutela nonostante la
fase esecutiva dell’attività edilizia assentita fosse ferma
alla fase iniziale e, dunque, non ancora cristallizzato in
capo al privato quell’affidamento che, in astratto,
giustifica il mantenimento in essere di un titolo
illegittimo.
In conclusione, ritiene questo Giudice rilevante e non manifestatamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n.
7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della
Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948
n. 1, nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo, e
97 della stessa Costituzione.”.
---------------
...
per l'annullamento:
- del provvedimento del Comune di Paderno Dugnano, Settore
Pianificazione del Territorio, prot. 25093 del 15.05.2012 a mezzo del quale è stata confermata “la validità del
permesso di costruire n. 11/10, proprietario sig. Fl.As., alla luce di quanto previsto dalla l.r. n. 7/2012,
art. 17, comma 1”;
- di ogni altro atto preordinato,
presupposto, consequenziale e/o comunque connesso, ivi
compreso il suddetto permesso di costruire n. 11/10
rilasciato al sig. Fl.As..
...
FATTO e DIRITTO
I – In ordine alla vicenda di cui in epigrafe giova, per
ogni profilo, riportare integralmente l’intero contenuto
della ordinanza di questa Sezione II (ordinanza
20.06.2013 n. 1588
– R.O.C.C. 260), con cui, al tempo, venne rimessa alla Corte
Costituzionale la questione di costituzionalità (o meno)
relativa al 1° c. dell’art. 17 della l.r. della Lombardia n.
7 del 18.04.2012:
“1. La sig.ra Ro.Ce., odierna ricorrente, è
proprietaria di un immobile situato sul territorio del
Comune di Paderno Dugnano.
2. L’immobile confina con un’area di proprietà del sig.
Fl.As. il quale, in data 09.11.2010, ha
ottenuto dal predetto Comune il rilascio di un permesso di
costruire per procedere alla ristrutturazione di un edificio
ivi insistente.
3. La ricorrente, in data 07.03.2012, ha rivolto
all’Amministrazione istanza di autotutela riguardante il
suddetto titolo edilizio.
4. Il Comune di Paderno Dugnano, con atto del 15.05.2012, ha respinto l’istanza confermando la validità del
permesso di costruire rilasciato.
5. Avverso tale atto ed avverso il citato permesso di
costruire è diretto il ricorso in esame.
6. Si sono costituiti in giudizio, per resistere al gravame,
il Comune di Paderno Dugnano ed il controinteressato, sig.
Fl.As..
7. La Sezione, con ordinanza n. 1188 del 24.08.2012, ha
accolto l’istanza cautelare.
8. In prossimità dell’udienza di discussione del merito, le
parti costituite hanno depositato memorie, insistendo nelle
loro conclusioni.
9. Tenutasi la pubblica udienza in data 03.04.2013, la
causa è stata trattenuta in decisione.
10. Come anticipato, con il ricorso in esame, viene
impugnato il provvedimento con il quale il Comune di Paderno
Dugnano ha respinto l’istanza di annullamento in autotutela
di un permesso di costruire rilasciato per la realizzazione
di un intervento di ristrutturazione di un edificio ubicato
su di un’area attigua a quella di proprietà della
ricorrente. Viene altresì impugnato il permesso di
costruire, a suo tempo rilasciato al controinteressato.
11. L’intervento oggetto del titolo edilizio avrebbe
consentito la demolizione e la ricostruzione dell’edificio
con sagoma diversa rispetto a quella originaria.
12. Secondo la parte ricorrente l’illegittimità del titolo
edilizio dipenderebbe proprio da quest’ultimo elemento, non
essendo ammissibili, a suo dire, interventi classificati
come ristrutturazione che comportino la demolizione e la
ricostruzione di manufatti senza il rispetto della sagoma
originaria.
13. Nell’istanza di autotutela, peraltro, l’interessata ha
invocato la sentenza della Corte Costituzionale 21.11.2011 n. 309, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità
costituzionale delle disposizioni contenute nell’art. 27,
comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della
Regione Lombardia n. 12/2005, come interpretato dall’art. 22
della legge della Regione Lombardia n. 7/ 2010, il quale
definisce ristrutturazione edilizia gli interventi di
demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma.
In particolare, tali disposizioni sono state ritenute dalla
Corte in contrasto con il principio fondamentale stabilito
dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, il
quale esclude che possa parlarsi di ristrutturazione nel
caso in cui la ricostruzione dell’immobile sia effettuata
senza il vincolo di sagoma, con conseguente violazione
dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
14. Con il provvedimento di rigetto dell’istanza,
l’Amministrazione intimata ha rilevato che, nonostante
l’intervento della Corte Costituzionale, l’annullamento del
permesso di costruire a suo tempo rilasciato al
controinteressato non poteva essere disposto; e ciò in
ragione del sopravvenuto art. 17, primo comma, della l.r. n.
7/2012, in forza del quale i titoli edilizi riguardanti gli
interventi oggetto della suindicata pronuncia, rilasciati
prima del 30.11.2011 e per i quali sia stata
protocollata comunicazione di inizio lavori prima del 30.04.2012, debbono ritenersi comunque validi.
15. L’interessata, nel proprio ricorso, sostiene che la
norma regionale da ultimo citata sia, e debba essere
dichiarata, incostituzionale per contrasto con l’art. 136
Cost. e per contrasto con il principio di retroattività
delle sentenze emanate dalla Corte Costituzionale.
16. Prima di affrontare i profili di costituzionalità, dai
quali dipende, per come sarà spiegato, l’esito del giudizio,
è tuttavia necessario ricostruire il quadro normativo e
giurisprudenziale di riferimento.
17. In base alla definizione data dall’art. 27, primo comma,
lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12, sono ricompresi fra
gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quegli
interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione
parziale o totale dell’edificio nel rispetto della
volumetria preesistente.
18. La norma, a differenza dell’art. 3, primo comma, lett.
d), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, non richiede
espressamente che la ricostruzione debba avvenire nel
rispetto della sagoma originaria.
19. La giurisprudenza di questo Tribunale aveva proposto
(cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 16.01.2009 n. 153)
una interpretazione armonizzatrice delle due disposizioni,
stabilendo che anche per la normativa regionale il rispetto
della sagoma fosse requisito imprescindibile ai fini della
definizione di ristrutturazione edilizia; e che la mancata
esplicita previsione in tal senso da parte della
legislazione regionale dovesse considerarsi lacuna colmabile
attraverso l’applicazione della norma statale.
20. Questa giurisprudenza è stata però sconfessata dall’art.
22 della l.r. 05.02.2010 n. 7 (recante “Interpretazione
autentica dell’articolo 27, comma 1, lett. d), della legge
regionale 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del
territorio»), il quale ha espressamente previsto che, per la
legislazione lombarda, ai fini della definizione di
ristrutturazione edilizia, la ricostruzione dell’edificio è
da intendersi senza vincolo di sagoma.
21. Come già anticipato, queste disposizioni sono state
censurate dalla Corte Costituzionale, la quale, partendo dal
presupposto che l’edilizia costituisce materia di
legislazione concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3,
Cost., con sentenza 21-23.11.2011, n. 309, ha
affermato che le disposizioni recate dalla normativa statale
in materia di definizione e classificazione degli interventi
edilizi costituiscono norme di principio; e che quindi la
legislazione regionale non può discostarsi da esse senza
scontare il contrasto con la predetta norma costituzionale.
22. Applicando le statuizioni contenute nella sentenza della
Corte Costituzionale il ricorso potrebbe essere, quindi,
accolto, giacché con esso l’interessata lamenta proprio che
il Comune, in applicazione della normativa regionale
dichiarata incostituzionale, abbia assentito un intervento
di ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e
ricostruzione di un edificio senza il rispetto della sagoma
originaria.
23. Nel suddetto quadro legislativo si è tuttavia inserito
l’art. 17, comma 1, della l.r. 18.04.2012 n. 7, in base
al quale “In relazione agli interventi di ristrutturazione
edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale
del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare il
legittimo affidamento dei soggetti interessati, i permessi
di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…)
devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al
momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che
la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro
il 30.04.2012”.
24. Questa norma, come si vede, dichiara testualmente
“validi ed efficaci” i titoli edilizi riguardanti gli
interventi oggetto della succitata sentenza n. 309/2011, e
cioè gli interventi di ristrutturazione consistenti nella
demolizione e ricostruzione senza vincolo di sagoma, a
condizione: 1) che il titolo sia stato rilasciato prima del
30.11.2011; 2) che la comunicazione di inizio lavori
sia stata protocollata prima del 30.04.2012.
25. Il Collegio si è interrogato, innanzitutto,
sull’interpretazione da dare alla norma, per stabilire se di
essa si potesse dare una lettura costituzionalmente
orientata, tale da escludere la rilevanza della sollevata
questione ed evitare un rinvio il cui esito appariva
altrimenti scontato.
26. Si sarebbe potuto, infatti, ritenere che, con tale
disposizione, il legislatore lombardo avesse semplicemente
inteso affermare la persistente efficacia, sino a rimozione
giurisdizionale o amministrativa, dei titoli rilasciati; e
ciò nonostante l’intervento della Corte Costituzionale sulle
norme cui essi danno applicazione.
27. Letta così la norma non avrebbe affermato nulla di più
di quanto la dottrina pacificamente sostiene in ordine agli
effetti delle sentenze della Corte, che nonostante l’effetto
retroattivo delle sue pronunce non travolge né i rapporti
conclusi e le situazioni ormai consolidate né, ex se, i
provvedimenti adottati dall’amministrazione in base alla
norma dichiarata incostituzionale. L’effetto delle sentenze
della Corte che rimuovono le norme incostituzionali implica
infatti che, in tutte le situazioni in cui i provvedimenti
emessi (legittimamente) prima della caducazione della norma
sottostante continuino a produrre effetti (non inerendo a un
rapporto concluso), l’amministrazione ha il dovere di
intervenire in autotutela e di rimuoverli, poiché il
principio di affidamento, che pure è un valore
costituzionalmente garantito, cessa di essere tale nello
stesso momento in cui esso non poggia più su atti legittimi.
28. Se alla norma in questione si fosse data questo
significato, per vero assai riduttivo, sterilizzandola da
ogni volontà di intervenire per sanare tutti gli abusi
commessi prima e dopo la pronuncia della Corte, la
conclusione avrebbe potuto essere nel senso che, avendo
l’amministrazione intimata richiamato tale norma indicandola
espressamente come l’ostacolo all’esercizio del potere di
autotutela, il Collegio avrebbe definito il giudizio
annullando il provvedimento impugnato per il vizio (ove
dedotto) di violazione e/o erronea applicazione di detta
norma.
29. Questo esito non è invece possibile, con tutto quanto ne
consegue ai fini della rilevanza della questione di
costituzionalità che si verrà esponendo, perché
l’interpretazione costituzionalmente aderente in precedenza
profilata si scontra, a giudizio del Tribunale,, con due
argomenti ineludibili quanto dirimenti.
30. Il primo è di carattere letterale: come visto, l’art. 17
cit. non si limita a predicare l’efficacia dei titoli
rilasciati ma anche la loro validità (la norma afferma
testualmente che i permessi di costruire debbono intendersi
“validi ed efficaci”) sottendendo quindi che essi sono
intangibili per l’amministrazione che intendesse intervenire
in autotutela..
31. Il secondo argomento si basa su criteri logici di
interpretazione, ed in particolare sul principio secondo il
quale occorre dare alla legge, se possibile, un significato
utile. In proposito si osserva che, ove la previsione, come
già sopra rilevato, si limitasse a rimarcare la persistente
efficacia dei titoli rilasciati, la stessa dovrebbe
considerarsi del tutto inutile posto che, già per costante
insegnamento giurisprudenziale, la dichiarazione di
incostituzionalità di una legge non travolge automaticamente
il provvedimento che ne dà applicazione (cfr. Consiglio di
Stato, ad plen., 08.04.1983 n. 8).
32. Va peraltro osservato che questa interpretazione
limitativa non è stata minimamente seguita
dall’Amministrazione intimata, la quale ha ritenuto che
l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, lungi dal
limitarsi a confermare l’efficacia del titolo in concreto
rilasciato, avesse effetto paralizzante sull’esercizio dei
propri poteri di autotutela e per questa sola ragione ha
respinto l’istanza della ricorrente.
33. Occorre quindi, perché altro non resta, esaminare la
seconda opzione ermeneutica.
34. Orbene, se per dare un diverso senso alla norma, si deve
ritenere, come ha fatto il Comune di Paderno Dugnano, che la
stessa sia volta ad evitare l’annullamento dei titoli ormai
rilasciati, allora è chiaro che, indipendentemente dalle
modalità con tale effetto si realizza, il suo significato e
la sua efficacia deve intendersi nel senso della volontà del
legislatore regionale di sanare il titolo edilizio
rilasciato in spregio alla (o per meglio dire privando di
efficacia la) declaratoria di incostituzionalità contenuta
nella sentenza n. 309/2011.
35. Così argomentando altro non può ritenersi se non che il
legislatore regionale, con l’art. 17, comma primo, della
l.r. n. 7/2012, abbia voluto sanare ex post, in via
legislativa, i provvedimenti divenuti illegittimi a seguito
della suddetta pronuncia di incostituzionalità, impedendo
quindi, non solo all’amministrazione ma anche al giudice, di
pronunciarne l’annullamento.
36. Tale interpretazione, peraltro è anche la più aderente
al dato letterale della norma atteso che, come già rilevato,
la stessa afferma testualmente che i titoli rilasciati prima
della sentenza della Corte (sia pure a determinate
condizioni) debbono considerarsi “validi”.
37. Seguendo questa impostazione si potrebbe prospettare
anche una lettura della norma, utile ai soli fini della
prospettazione della non manifesta rilevanza della questione
di costituzionalità, per cui la volontà del legislatore
regionale non fosse tanto quella di introdurre un’ipotesi di
sanatoria ex lege, quanto quella di intervenire
surrettiziamente sul potere di autotutela riservato
all’autorità amministrativa, formulando una valutazione
astratta di prevalenza dell’interesse del privato al
mantenimento in essere dell’atto rilasciato su quello
pubblico volto al ripristino della legalità violata.
38. La disposizione in esame inciderebbe, in questo caso,
con effetti paralizzanti, solo sul potere di autotutela. Ma
l’effetto paralizzante non sarebbe provocato dalla sanatoria
dell’atto illegittimo (che conserverebbe la propria
illegittimità e sarebbe per ciò annullabile in sede
giurisdizionale) ma dalla suindicata astratta valutazione di
prevalenza dell’interesse privato su quello pubblico volto
all’annullamento; il che si dedurrebbe dando significativo
rilievo all’inciso “al fine di tutelare il legittimo
affidamento dei soggetti interessati”, contenuto nell’art.
17, comma primo, della l.r. n. 7/2012.
39. Illustrato in tal modo il quadro normativo e
giurisprudenziale di riferimento, il Collegio deve osservare
come, seguendo la seconda delle opzioni ermeneutiche sopra
proposte (come detto la prima non regge, se non alle
condizioni forzate sopra descritte), la questione di
legittimità costituzionale del suddetto art. 17, comma
primo, della l.r. n. 7/2012 sia, all’evidenza, rilevante e
non manifestamente infondata.
40. Prima di procedere oltre occorre, però, un’ulteriore
precisazione. Poiché come già detto, il Collegio ritiene che
l’interpretazione più aderente al dato letterale e, dunque,
più plausibile dell’art. 17 sia quella che attribuisce ad
esso (direttamente o indirettamente) effetti sananti, le
argomentazioni che verranno sviluppate nel prosieguo
muoveranno dal presupposto ovvio che si segua questa
interpretazione. In alcuni specifici passaggi si darà
peraltro conto delle questioni che si pongono qualora si
ritenga che la disposizione abbia solo effetto paralizzante
del potere di autotutela.
41. Ciò premesso, per ciò che concerne il profilo della
rilevanza si osserva quanto segue.
42. Come anticipato, con l’atto di archiviazione del
procedimento di autotutela qui impugnato, il Comune di
Paderno Dugnano ha consentito la realizzazione di una
ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e
ricostruzione di un edificio senza il rispetto del vincolo
di sagoma.
43. Applicando la normativa in vigore prima
dell’introduzione dell’art. 17 cit., come risultante a
seguito della pronuncia di incostituzionalità, il ricorso
sarebbe stato, quindi, accolto.
44. Applicando invece quest’ultima disposizione il ricorso
dovrebbe essere respinto posto che, nel caso concreto, il
permesso di costruire qui avversato è stato rilasciato in
data 09.04.2011 (dunque prima del 30.11.2011), ed
essendo la relativa comunicazione di inizio lavori stata
protocollata in data 14.07.2011 (dunque prima del 30.04.2012). Da qui la rilevanza della questione di
legittimità costituzionale ad essa afferente.
45. Prima di procedere oltre il Collegio ritiene, nondimeno,
opportuno formulare due ulteriori considerazioni.
46. La prima riguarda l’inciso “fino al momento della
dichiarazione di fine lavori”, contenuto nel ridetto art.
17, comma 1, della legge n. 7/2012.
47. Tale inciso, anche se interpretato nel senso (per la
verità poco comprensibile) che la validità e l’efficacia del
provvedimento vengano meno una volta ultimati i lavori, non
è decisivo ai fini della soluzione della presente
controversia, posto che nel caso concreto la comunicazione
di fine lavori, al momento di rilascio degli atti impugnati,
non era ancora intervenuta. L’effetto sanante (o
paralizzante sul potere di autotutela) della disposizione è
dunque ancora operante; con la conseguenza che, in
applicazione di essa, questo giudice dovrebbe comunque
disporre il rigetto del ricorso.
48. La seconda considerazione si ricollega alle eccezioni di
tardività ed inammissibilità sollevate dalle parti
resistenti.
49. Queste sostengono invero che il ricorso, nella parte in
cui si rivolge avverso il permesso di costruire, sarebbe
irricevibile per tardività della notifica; e che lo stesso
ricorso, nella parte in cui si rivolge avverso l’atto di
rifiuto dell’esercizio del potere di autotutela, sarebbe
inammissibile in quanto diretto contro un atto meramente
confermativo del precedente titolo edilizio.
50. Tale eccezione potrebbe considerarsi decisiva ai fini
della rilevanza della questione posto che:
a) secondo una
consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo, le
pronunce della Corte Costituzionale che colpiscono le norme
applicate dalla pubblica amministrazione nell’esercizio dei
propri poteri autoritativi non incidono sui rapporti
esauriti;
b) devono considerarsi esauriti i rapporti
regolati da provvedimenti divenuti inoppugnabili per
decorrenza dei termini di impugnazione giurisdizionale (cfr.
Consiglio di Stato, ad. plen n. 8/1983 cit.);
c) e che
quindi il rigetto del presente ricorso potrebbe essere
disposto anche a prescindere dall’applicazione della norma
contenuta nell’art. 17, comma 1, della l.r. n. 7/2012, ove
si ritenesse che il rapporto fra p.a. e controinteressato
sia, nel caso concreto, definitivamente disciplinato dal
permesso di costruire n. 11/2010, ormai divenuto
inoppugnabile e, dunque, immune alle statuizioni contenute
nella sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011.
51. Ritiene tuttavia il Collegio che la regolazione del
rapporto fra p.a. e controinteressato, nel caso concreto,
non si sia cristallizzata nel succitato permesso di
costruire; e ciò in quanto il Comune, a seguito dell’istanza
della ricorrente, ha avviato un procedimento di annullamento
in autotutela del titolo edilizio rilasciato, culminato con
l’adozione del provvedimento di archiviazione, anch’esso
avversato in questa sede.
52. Attraverso il nuovo procedimento l’autorità
amministrativa ha quindi rinnovato l’istruttoria, nel corso
della quale sono stati valutati elementi in precedenza non
presi in considerazione, ed in particolare sono state per la
prima volta affrontate proprio le questioni di legittimità
connesse alla compatibilità costituzionale delle
disposizioni regionali che ascrivono alla categoria della
ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e
ricostruzione senza il vincolo di sagoma.
53. Il Comune, invero, invece di rilevare l’inutilità del
riesame, stante l’ininfluenza della sentenza della Corte
Costituzionale sul permesso di costruire rilasciato e ormai
divenuto inoppugnabile, ha delibato la questione giungendo
alla conclusione di non annullare l’atto in ragione del
sopravvenuto dettato legislativo (significativo in proposito
è l’atto di avviso di avvio del procedimento inoltrato al
controinteressato, nella parte in cui il Comune manifesta
esplicitamente l’intenzione di stabilire se sussistano i
presupposti per esercitare il potere di autotutela in
ragione dell’intervenuta sentenza di incostituzionalità
delle disposizioni che disciplinavano l’intervento).
54. Ne consegue che, in esito al suddetto procedimento, è
stato adottato un provvedimento che non può considerarsi
meramente confermativo del precedente permesso di costruire:
tale atto, difatti, pur confermando, attraverso
l’archiviazione del procedimento, il contenuto dispositivo
del precedente, fa ciò muovendo da nuove valutazioni ed in
applicazione di una normativa, l’art. 17, comma 1, della
l.r. n. 7/2012 , che all’epoca di adozione del primo
provvedimento non era neppure in vigore e che ha consentito
di ritenere la validità di un provvedimento altrimenti
suscettibile di di declaratoria di illegittimità.
55. Il provvedimento di archiviazione del procedimento di
autotutela va dunque qualificato come atto di natura
sostanziale con cui, mediante la formulazione di nuove
valutazioni espresse in seno ad una rinnovata istruttoria,
si è affermata la validità del permesso di costruire a suo
tempo rilasciato e si è, di conseguenza, confermato il suo
contenuto dispositivo.
56. In tale contesto non può negarsi la sussistenza di una
sopravvenuta manifestazione di volontà dell’Ente che si
aggiunge a quella originaria e che concorre con la prima nel
determinare la regolazione del rapporto intercorrente con il
controinteressato destinatario del titolo edilizio. Come
detto, l’atto in parola non può pertanto considerarsi
meramente confermativo del precedente.
57. Il rinnovato esercizio del potere ha dunque riaperto i
termini di impugnazione. Ne discende che, ai fini che qui
rilevano, il rapporto fra p.a. e controinteressato non può
dirsi esaurito (il provvedimento di archiviazione del
procedimento di autotutela è stato infatti ritualmente
impugnato); e che, quindi, il rigetto o l’accoglimento del
ricorso stesso non possono che dipendere dall’applicazione
del ridetto art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012.
58. Tutto il ragionamento sin qui svolto, si fonda, come
anticipato, sul presupposto che si segua l’interpretazione
dell’art. 17 preferita dal Collegio; tuttavia anche qualora
si ritenga che la suddetta norma abbia effetti meramente
paralizzanti sul potere di autotutela le conclusioni non
muterebbero.
59. Va invero osservato che, secondo la giurisprudenza,
l’intervenuta inoppugnabilità del provvedimento non
impedisce alla pubblica amministrazione di annullare l’atto
illegittimo per sopravvenuta dichiarazione di
incostituzionalità della norma applicata nell’esercizio del
potere: l’inoppugnabilità determina dunque l’esaurimento del
rapporto solo nei confronti del privato, interessato ad
ottenere l’annullamento del provvedimento in sede
giurisdizionale, ma non nei confronti della pubblica
amministrazione che, una volta intervenuta la sentenza
dichiarativa dell’illegittimità costituzionale, può sempre
esercitare i propri poteri di autotutela non soggetti a
limiti temporali di decadenza (cfr. Consiglio di Stato, sez.
VI, 09.06.2003 n. 3458; TAR Calabria Catanzaro, sez. II,
17.11.2007 n. 1721).
60. In proposito va peraltro soggiunto che, in base ad
un’opinione dottrinale, il potere di annullamento in
autotutela di un titolo edilizio non potrebbe più
esercitarsi quando i lavori siano ultimati, giacché in tal
caso il rapporto dovrebbe considerarsi esaurito. Tale
principio tuttavia non opera nel caso di specie posto che,
come anticipato, all’epoca di emanazione dell’atto di
archiviazione del procedimento di autotutela, i lavori non
erano ancora stati ultimati.
61. Da tutto ciò consegue che, anche se si volesse ritenere
che, nella fattispecie concreta, il predetto atto di
archiviazione del procedimento non abbia valenza di atto
sostanziale di conferma di validità del permesso di
costruire rilasciato (come sopra si è sostenuto), ma abbia
valenza di atto di rifiuto dell’esercizio del potere di
autotutela, anche in questo caso la questione di legittimità
costituzionale conserverebbe rilevanza, posto che tale
rifiuto è stato opposto alla ricorrente esclusivamente in
applicazione della disposizione di cui all’art. 17, comma
primo, della l.r. n. 7/2012, al quale dunque anche questo
giudice dovrebbe dare applicazione per rigettare il ricorso.
62. Va pertanto ribadita la rilevanza della questione di
legittimità costituzionale riguardante la suddetta norma.
63. Può ora passarsi all’esame del profilo inerente la non
manifesta infondatezza, in ordine al quale si svolgono le
seguenti considerazioni.
64. Ritiene innanzitutto il Collegio che l’art. 17, comma
primo, della l.r. n. 7/2012 possa essere in contrasto con
l’art. 136, comma primo, Cost. e con l’art. 1 della legge
costituzionale 09.02.1948 n. 1.
65. In base all’art. 136 della Costituzione “quando la Corte
dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di
legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di
avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione
della decisione”.
66. Analoga disposizione è contenuta nell’art. 30, comma 3,
della legge 11.03.1953 n. 87.
67. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha
insegnato che, nonostante la loro non chiarissima
formulazione, la disposizioni suindicate debbono
interpretarsi, avuto anche riguardo al disposto dell’art. 1
della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, nel senso
che l’intervenuta dichiarazione di incostituzionalità ha
effetti erga omnes e retroattivi che si dispiegano su tutti
i rapporti giuridici, salvo il limite invalicabile del
giudicato, e salvo altresì il limite derivante da situazioni
giuridiche comunque divenute irrevocabili: la dichiarazione
di illegittimità colpisce dunque la norma fin dalla sua
origine, eliminandola dall'ordinamento, ricalcandosi così un
fenomeno analogo a quello che si verifica in caso di
annullamento degli atti giuridici (cfr. Corte Costituzionale
sent. 25.03.1970 n. 49; id. sent. 15.12.1966 n.
127).
68. In applicazione dell’art. 136 della Costituzione,
la
dichiarazione di illegittimità costituzionale delle
disposizioni di cui all’art. 27, primo comma, lett. d) della
l.r. 11.03.2005 n. 12 ed all’art. 22 della l.r. 05.02.2010 n. 7, pronunciata con sentenza n. 309/2011,
dovrebbe dunque valere anche per il passato.
69. Sennonché, come visto, con l’art. 17, comma primo, della
l.r. n. 7/2012, il legislatore lombardo ha dettato una
disposizione che appare in contrasto con gli illustrati
principi, stabilendo che “In relazione agli interventi di
ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte
Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, (…) i permessi
di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…)
devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al
momento della dichiarazione di fine lavori …”; e stabilendo
quindi, nella sostanza, che, in base a questa norma, la
dichiarazione di incostituzionalità non rileva per i titoli
edilizi rilasciati in epoca anteriore alla pubblicazione
della suindicata sentenza.
70. Con la disposizione in esame, si è dunque prevista
un’ipostesi di sanatoria legislativa diretta ad emendare i
titoli rilasciati prima della pubblicazione della sentenza
n. 309/2011 dal vizio derivante dell’essere tali atti
applicativi di disposizioni dichiarate incostituzionali.
71. Sembra pertanto sussistere il contrasto con i citati
artt. 136 della Costituzione e 1 della legge costituzionale
09.02.1948 n. 1.
72. Il Collegio ritiene inoltre che possa anche profilarsi
il contrasto con l’art. 117, comma terzo, della
Costituzione.
73. Difatti, nel sancire la validità dei permessi di
costruire rilasciati anteriormente al 30.11.2011,
l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012 interviene,
nella sostanza, ancora una volta sulla disciplina inerente
la definizione e classificazione degli interventi edilizi
(materia, come detto, ritenuta dalla Corte riconducibile a
quelle di legislazione concorrente), ribadendo la
possibilità di ascrivere alla categoria delle
ristrutturazioni interventi consistenti nella demolizione e
ricostruzione di edifici senza vincolo di sagoma, e ciò
perlomeno con riferimento agli interventi i cui titoli
autorizzativi siano stati rilasciati entro la predetta data.
74. Sembra pertanto che la normativa denunciata sia in
contrasto con la normativa statale di principio contenuta
nell’art. 3, comma primo, lett. d), del d.P.R. 06.06.2001
n. 380 (che, come detto, impone invece il rispetto del
limite di sagoma), e ripeta per ciò il vizio di violazione
dell’art. 117, comma terzo, Cost. già rilevato con la
sentenza n. 309/2011.
75. Da ultimo il Collegio osserva che, ove si ritenesse che
l’art. 17, comma 1, della l.r. n. 7/2012, abbia valenza non
già di norma sanante ma di norma meramente paralizzante il
potere di autotutela (come sopra precisato) possa, in tal
caso, profilarsi un evidente contrasto con l’art. 97 della
Costituzione.
76. Si deve invero osservare che la Regione, con la
succitata disposizione, ha compresso il potere di autotutela
riservato alle autorità comunali, impedendo loro di
intervenire sui titoli edilizi già rilasciati per rendere
conforme l’attività di trasformazione del territorio alle
disposizioni normative vigenti nell’ordinamento.
77. Tale compressione si pone in antitesi con i principi di
legalità buon andamento della pubblica amministrazione
sanciti dalla suddetta norma costituzionale (cfr. ex multis
Consiglio di Stato sez. IV, 26.02.2013 n. 1186),
in
quanto sacrifica in maniera aprioristica i suddetti valori
senza richiedere una preventiva concreta comparazione degli
interessi coinvolti nel procedimento di autotutela;
comparazione invece normalmente richiesta per giustificare
il mantenimento in essere di provvedimenti non conformi a
legge.
Esempio emblematico di questo ultroneo sacrifico
potrebbe essere dato proprio dal caso in esame, nel quale
l’autorità amministrativa ha ritenuto di non potere
esercitare il proprio potere di autotutela nonostante la
fase esecutiva dell’attività edilizia assentita fosse ferma
alla fase iniziale e, dunque, non ancora cristallizzato in
capo al privato quell’affidamento che, in astratto,
giustifica il mantenimento in essere di un titolo
illegittimo.
78. In conclusione, ritiene questo Giudice rilevante e non manifestatamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n.
7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della
Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948
n. 1, nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo, e
97 della stessa Costituzione.”.
II – In esito a quanto sopra, come integralmente riportato,
veniva adottata dalla Corte Costituzionale l’Ordinanza n. 35
del 12.03.2015 con la quale sono stati rinviati i relativi
atti a questo remittente Giudice al fine di scrutare le
attualità della rilevanza della detta questione alla stregua
dell’intervento del legislatore statale che, con il DL n. 69
del 21.06.2013 (e.c. 98/13) –tramite il contenuto dell’art.
30–, ha tolto di mezzo l’obbligo, già disposto dall’art. 3,
1° c., del dpr 380 del 2001, del rispetto, nell’attività
edilizia connesse alla cd. ristrutturazione, della sagoma
strutturale in essere precedentemente.
II.1 – Sicché ed in necessaria sintesi, la sagoma
preesistente –ovviamente nell’ambito della suddetta
attività specifica di trasformazione materiale
dell’esistente– non rileva ora, come per il passato, quale
elemento che, se non rispettato, finiva coll’allocare l’opus
“rifatto” tra le nuove costruzioni; ciò secondo
giurisprudenza costante e del tutto consolidata.
II.2 – In buona sostanza il detto rinvio a questo Giudice è
il risultato di tale intervento normativo statale che, nello
specifico, altrimenti così finisce col ridefinire solo
sostantivi di specie analoghi a quelli di cui all’art. 27,
1° c., lett. d), della l.r. n. 12 del 2005.
III – Rileva così, per altro aspetto, il fatto che tale
ultima articolata normativa regionale sia stata annullata,
nella parte in cui il legislatore regionale stesso non aveva
previsto, al tempo ed in modo esplicito, l’obbligo del
rispetto delle sagome preesistenti nelle cd.
ristrutturazioni: tutto ciò rafforzando poi con
interpretazione autentica tramite l’art. 22 della l.r. n. 7
del 2010. In tale modo tuttavia provocando il rinvio
inerente di questo Giudice alla Corte Costituzionale che ha
poi preso posizione con la detta sentenza n. 309 del 2011.
La quale ultima ha sancito come incostituzionale la citata
norma regionale di cui all’art. 27, 1° c., lett. d, della L.
Lombardia n. 12 del 2005.
IV – Nel prosieguo il medesimo legislatore regionale ha,
tuttavia, approvato la l.r. citata sub I del 2012, la quale
ha determinato, nel corso della presente causa, il diverso
rinvio alla Corte ut supra delinato ancora sub 1 (l.r. n. 7
del 2012 art. 17).
V – Da quanto illustrato e riportato ne consegue la
necessità di scrutare se vi sia ancora rilevanza della
inerente questione, proprio alla luce degli apporti
normativi statali di cui al citato DL n. 69 del 2013.
VI – A tale ultimo specifico riguardo si osserva che il
contenuto statuitivo di cui all’art. 30 del d.l. n. 69 del
2003 (entrata in vigore il 22.06.2013), non ha portata
retroattiva intanto in quanto da luogo ad una diversa
composizione funzionale del concetto di ristrutturazione si
ampliarne, in modo del tutto nuovo, il contenuto materiale.
Parimenti si può escludere che tale norma statale proprio
per evidenti ragioni lessicali, assuma le caratteristiche di
interpretazione autentica. Del resto basta rifarsi alla
sentenza della Corte Costituzionale n. 209 del 2011.
VI – I – Inoltre la giurisprudenza amministrativa ha sempre
escluso che le attività di ristrutturazione edilizia
potessero legittimamente dar luogo ad una struttura
materiale del tutto non conforme a quella sagoma edilizia in
essere prima dell’intervento materiale finale.
VI – II – Inoltre questo stesso Giudice ha più volte escluso
che la detta nuova normativa statale del 2013, sopra
menzionata, fosse veicolo di interpretazione autentica
dell’art. 3, 1° c., del dpr 380 del 2001 (sentenza n. 617 del
2015 e n. 720 del 2015). La ratio legis di tale ultimo
intervento statale è poi ben noto ed è anche dovuto a
circostanze particolari di profilo economico e sociale:
quand’anche per necessità di semplificazione.
VII – Da tutto ciò consegue la persistente attualità della
rilevanza della questione al tempo veicolata con l’ordinanza
n. 1588 del 2013.
VII – I – D’altro canto non è possibile per questo Giudice
conferire ex se alla sentenza della Corte n. 309 del 2011
una portata tale da determinare la disapplicazione della
norma di cui all’art. 17 della l.r. n. 7 del 2012 che, nella
sostanza, finisce con lo sterilizzare ratione temporis la
portata di tale medesima sentenza della Corte.
VIII – Le ragioni della attualità della rilevanza di specie,
vanno così ritrovate e rinvenute in quelle stesse sopra
delineate con l’ordinanza n. 1588 del 2013. Analogo
riferimento può declinarsi con riguardo alla già scrutata
manifestata infondatezza. Del resto l’ostacolo normativo è,
anche ad oggi, insormontabile.
IX – E solo il caso di ricordare che tutte le eccezioni
postulate come ostacolo ad una trattazione di merito
specifico, sono state già superate e disattese.
X – E da tutto ciò ancora la sospensione del presente
giudizio con ritrasmissione degli atti relativi alla On.
Corte Costituzionale.
P.Q.M.
I Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Seconda) dichiara ancora rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n.
7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della
Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1,
nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo e 97
della stessa Costituzione.
Dispone la sospensione del presente giudizio.
Ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale.
Ordine che, a cura della Segretaria della Sezione, la
presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al
Presidente della Giunta Regionale della Lombardia e
comunicata al Presidente del Consiglio Regionale della
Lombardia
(TAR Lombardia, Sez. II,
sentenza 05.11.2015 n. 2342
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2015 |
|
EDILIZIA PRIVATA: La
destinazione ad attività di culto di un locale, la
quale impone il rispetto delle pertinenti previsioni
urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in cui al
locale stesso sia permesso l’accesso indiscriminato
a tutti i fedeli interessati.
Questo appare non essere il caso, poiché da un lato
gli agenti di Polizia Locale non hanno rilevato sul
posto alcun afflusso di persone, dall’altro lato,
come dichiarato alla camera di consiglio dal
responsabile della comunità, al momento l’accesso al
locale è riservato ai soci dell’associazione e, come
da contratto allegato 3 alla citata relazione, la
destinazione al culto è configurata come futura ed
eventuale, subordinata all’ottenimento degli assensi
amministrativi necessari.
Pertanto il fumus del ricorso sussiste, nel senso
che allo stato non può impedirsi che gli associati
all’ente ricorrente, nominativamente individuati,
accedano alla struttura per professarvi il culto
religioso da loro scelto, con esclusione del
pubblico accesso.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensiva, del
provvedimento 24.02.2015 prot. n. U0036176,
notificato alla ricorrente in data 06.03.2015, con
la quale il Dirigente del servizio interventi
edilizi e gestione del territorio del Comune di
Bergamo ha ordinato, fra gli altri, al legale
rappresentante della Missione della Chiesa di
Scientology delle Orobie di ripristinare nei locali
siti in Bergamo, alla via Tremana civico 11 la
originaria destinazione di uso a negozio;
...
Rilevato:
- che l’associazione ricorrente, di carattere
religioso, insorge contro il provvedimento di cui
meglio in epigrafe, con il quale si è vista imporre
lo sgombero dai locali in questione, sul presupposto
che negli stessi si svolga attività di culto (doc. 1
ricorrente, copia ordinanza);
- che tale apprezzamento si fonda su un sopralluogo
effettuato in data 27.01.205, il cui tenore è
ricostruibile dalla conseguente relazione di
servizio del 05.02.2015, prodotta dal Comune il
24.07.2015;
- che la destinazione ad attività di culto di un
locale, la quale impone il rispetto delle pertinenti
previsioni urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in
cui al locale stesso sia permesso l’accesso
indiscriminato a tutti i fedeli interessati, così
come ritenuto, fra le molte, dalla sentenza della
Sezione 29.05.2013 n. 522, ove ulteriori rimandi;
- che questo appare non essere il caso, poiché da un
lato gli agenti operanti (v. rel. citata) non hanno
rilevato sul posto alcun afflusso di persone,
dall’altro lato, come dichiarato alla camera di
consiglio 04.06.2015 dal responsabile della
comunità, al momento l’accesso al locale è riservato
ai soci dell’associazione e, come da contratto
allegato 3 alla citata relazione, la destinazione al
culto è configurata come futura ed eventuale,
subordinata all’ottenimento degli assensi
amministrativi necessari;
- che pertanto il fumus del ricorso sussiste,
nel senso che allo stato non può impedirsi che gli
associati all’ente ricorrente, nominativamente
individuati, accedano alla struttura per professarvi
il culto religioso da loro scelto, con esclusione
del pubblico accesso;
- che le spese di fase seguono la soccombenza e si
liquidano come da dispositivo;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione
Prima)
accoglie la suindicata istanza cautelare e per
l’effetto sospende il provvedimento 24.02.2015 prot.
n. U0036176 del Dirigente del servizio interventi
edilizi e gestione del territorio del Comune di
Bergamo. Spese di fase compensate. Fissa per la
trattazione del merito la pubblica udienza del
19.10.2016 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
ordinanza 31.07.2015 n. 1506 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
TAR Lombardia-Brescia scavalca la L.R. 12/2005 Lombardia in materia di
edifici di culto senza attendere che il comune si doti
(preliminarmente)
del piano delle attrezzature
religiose, atto separato facente parte del piano dei
servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base
delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli
enti delle confessioni religiose di cui all'articolo
70.
---------------
Per quanto riguarda la rilevanza della
nuova legislazione regionale sulle attrezzature religiose,
si ritiene che il caso in esame, essendo riferito a un
intervento già favorevolmente valutato in sede di variante
al PGT, ricada nella deroga prevista dall’art.
72, comma 8, della LR 12/2005 (“attrezzature religiose
esistenti”).
Più precisamente, poiché si tratta di una situazione in
itinere, devono essere salvaguardate le aspettative dei
privati che si sono ormai consolidate per effetto della
pianificazione vigente.
Non è quindi necessario attendere l’approvazione dello
specifico piano riferito alle attrezzature religiose, perché
la zonizzazione già consente l’inserimento di un luogo di
culto. Su questo presupposto, gli aspetti dell’intervento
edilizio collegati alle opere di urbanizzazione e alle
distanze minime possono essere definiti attraverso
l’elaborazione delle norme tecniche del piano attuativo.
Il Comune deve invece dotarsi dei criteri che compongono la
restante parte della disciplina prevista dall’art. 72, comma
7, della LR 12/2005 (parcheggi, sevizi igienici,
accessibilità, congruità architettonica e dimensionale degli
edifici).
Per l’elaborazione di questi criteri (che non richiedono
necessariamente la modifica del PGT, trattandosi di
prescrizioni di dettaglio) il termine ragionevole è
individuato in 120 giorni dal deposito della presente
ordinanza. In ogni caso, scaduto il termine, l’esame dello
schema preliminare dovrà essere ripreso anche per la parte
relativa alle attrezzature religiose.
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
del provvedimento del responsabile della Direzione
Pianificazione Urbanistica del 25.03.2015, con il quale è
stata sospesa l’istruttoria sullo schema di piano attuativo
NE21, riguardante aree situate in via Campi Spini;
...
Considerato a un sommario esame:
1. Il Comune di Bergamo, con provvedimento del responsabile
della Direzione Pianificazione Urbanistica del 25.03.2015,
ha sospeso l’istruttoria sullo schema preliminare di piano
attuativo NE21, riguardante aree situate in via Campi Spini.
2. Lo schema prevede, in conformità alla variante al PGT
approvata nel 2014, due corpi di fabbrica, uno a ovest con
destinazioni d’uso terziarie e commerciali, e uno a est con
destinazione a servizi religiosi (la società ricorrente,
soggetto promotore del piano attuativo, ha stipulato il
21.05.2014 un preliminare di vendita con l’Associazione dei
Testimoni di Geova di Bergamo).
3. Il motivo della sospensione dell’istruttoria è indicato
nella nuova formulazione dell’art.
72 della LR 11.03.2005 n. 12, che consente la
realizzazione di attrezzature religiose solo sulla base di
un apposito piano (commi 1 e 2) approvato con la stessa
procedura dei piani inseriti nel PGT (comma 3). Il piano
deve contenere (comma 7) una disciplina puntuale delle
infrastrutture di servizio e degli altri requisiti
urbanistico-edilizi necessari per l’ottimale inserimento
delle attrezzature religiose.
4. Sulla vicenda così sintetizzata si possono formulare le
seguenti considerazioni:
(a) lo schema preliminare di piano attuativo prevede due
edificazioni distinte sia fisicamente sia sotto il profilo
della destinazione d’uso. La decisione del Comune di
sospendere l’istruttoria si basa sulla nuova disciplina
delle attrezzature religiose, che interessa solo una parte
del lotto. Per il principio di proporzionalità appare quindi
necessario consentire la prosecuzione dell’istruttoria
almeno con riguardo alle destinazioni d’uso terziarie e
commerciali, se questo corrisponde a un interesse economico
del soggetto promotore;
(b) in questa prospettiva deve essere affrontato anche il
problema delle opere di urbanizzazione non scindibili, nel
senso che deve essere data la possibilità al soggetto
promotore di elaborare un programma di lavori adeguatamente
graduato nel tempo;
(c) per quanto riguarda la rilevanza della nuova
legislazione regionale sulle attrezzature religiose, si
ritiene che il caso in esame, essendo riferito a un
intervento già favorevolmente valutato in sede di variante
al PGT, ricada nella deroga prevista dall’art.
72, comma 8, della LR 12/2005 (“attrezzature
religiose esistenti”);
(d) più precisamente, poiché si tratta di una situazione in
itinere, devono essere salvaguardate le aspettative dei
privati che si sono ormai consolidate per effetto della
pianificazione vigente;
(e) non è quindi necessario attendere l’approvazione dello
specifico piano riferito alle attrezzature religiose, perché
la zonizzazione già consente l’inserimento di un luogo di
culto. Su questo presupposto, gli aspetti dell’intervento
edilizio collegati alle opere di urbanizzazione e alle
distanze minime possono essere definiti attraverso
l’elaborazione delle norme tecniche del piano attuativo.
Il Comune deve invece dotarsi dei criteri che compongono la
restante parte della disciplina prevista dall’art.
72, comma 7, della LR 12/2005 (parcheggi, sevizi
igienici, accessibilità, congruità architettonica e
dimensionale degli edifici);
(f) per l’elaborazione di questi criteri (che non richiedono
necessariamente la modifica del PGT, trattandosi di
prescrizioni di dettaglio) il termine ragionevole è
individuato in 120 giorni dal deposito della presente
ordinanza. In ogni caso, scaduto il termine, l’esame dello
schema preliminare dovrà essere ripreso anche per la parte
relativa alle attrezzature religiose.
5. Sussistono pertanto le condizioni per adottare una misura
cautelare propulsiva con il contenuto sopra esposto.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
(a) accoglie la domanda cautelare, come precisato in
motivazione;
(b) fissa la trattazione del merito all'udienza pubblica del
21.09.2016;
(c) compensa le spese della fase cautelare
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
ordinanza 29.07.2015 n. 1443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L'articolo 13, comma 11,
della legge regionale n. 12/2005 dispone espressamente che
“Gli atti di PGT acquistano efficacia con la pubblicazione
dell'avviso della loro approvazione definitiva sul
Bollettino Ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura
del comune”. Da tale data, quindi, il piano determina la
modificazione permanente della situazione giuridica dei
suoli e, perciò, produce diretti effetti nella sfera
giuridica dei proprietari dei terreni.
Di conseguenza, è da tale data che decorre anche il termine
per l’impugnazione.
Conclusione, questa, che è in linea con quanto affermato
dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto che è dal momento
in cui sono espletate le modalità di pubblicazione previste
dalla legge che decorre il termine per la proposizione del
ricorso avverso lo strumento urbanistico.
---------------
L’entrata in vigore di un nuovo strumento urbanistico
determina di per sé una modificazione permanente della
situazione giuridica dei suoli e, quindi, dispiega
immediatamente un’efficacia lesiva nei confronti dei
relativi proprietari.
Conseguentemente, laddove il piano abbia ridotto la capacità
edificatoria del suolo, il proprietario è immediatamente
leso da tale determinazione, e ha quindi l’onere di
impugnarla entro l’ordinario termine di decadenza,
decorrente dal termine di entrata in vigore dello strumento
urbanistico.
La circostanza che il singolo proprietario possa, in quel
momento storico, essere già in possesso di un titolo
edificatorio che gli permette di realizzare quanto previsto
dal precedente strumento urbanistico, non differisce da
quella del proprietario che abbia già costruito o che, nel
momento dell’entrata in vigore del piano, non abbia la
possibilità o l’intenzione di costruire: si tratta, in tutti
tali casi, di situazioni di mero fatto, che non incidono
sulla oggettiva immediata lesività dello strumento
urbanistico. Quest’ultimo è, invero, destinato a
condizionare permanentemente le successive utilizzazioni
dell’area e, quindi, incide in ogni caso sulle prerogative
del proprietario, anche laddove un titolo edilizio sia già
stato rilasciato o l’edificazione sia già stata completata
in base al precedente strumento.
D’altro canto, ammettere che la parte in possesso di un
titolo edificatorio possa impugnare il piano solo allorché,
non essendo in grado di ultimare i lavori nel termine, si
sia vista costretta ad avvalersi della proroga, equivale a
differire i termini di decadenza per l’impugnazione dello
strumento urbanistico da parte dei proprietari dei suoli
–termini stabiliti per legge con fini di certezza giuridica–
facendoli dipendere da una circostanza di mero fatto (la
mancata ultimazione dei lavori nel termine), peraltro
totalmente dipendente dal comportamento del soggetto
interessato.
---------------
La consolidata giurisprudenza della Sezione ha da tempo
affermato, con orientamento che il Collegio pienamente
condivide, che i termini per l’approvazione del PGT
stabiliti dall’articolo 13, commi 7 e 7-bis, della legge
regionale n. 12 del 2005 hanno carattere ordinatorio e non
perentorio e, conseguentemente, il superamento di tali
scadenze non determina il venir meno degli atti della
procedura pianificatoria già compiuti (ndr: deliberazione di
adozione).
---------------
Secondo costante giurisprudenza, la semplice modifica in
peius, rispetto al precedente strumento urbanistico, delle
aspettative edificatorie di un fondo non determina, di per
sé, l’onere per l’amministrazione di fornire alcuna
particolare motivazione. E ciò salvo che ricorra una delle
peculiari situazioni in relazione alle quali la
giurisprudenza ha ritenuto che sussista un’aspettativa
qualificata, tale da rendere necessaria una più intensa e
specifica motivazione.
Nessuna di tali situazioni è, però ravvisabile nel caso di
specie, posto che –anche laddove fosse comprovata la
presenza di un lotto intercluso, che è un dato meramente
affermato dalla parte– tale circostanza potrebbe rilevare,
al più, unicamente laddove il nuovo strumento urbanistico
avesse introdotto la modificazione in zona agricola della
destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo.
2. Con il secondo motivo il Fallimento ricorrente allega una
pluralità di censure contro il Piano di Governo del
Territorio del Comune di Milano.
2.1 La parte afferma che il proprio interesse a ricorrere
contro lo strumento urbanistico sarebbe sorto unicamente a
seguito dell’esito negativo della comunicazione di proroga
del titolo edilizio. Il piano sarebbe invero divenuto lesivo
soltanto una volta che ha prodotto il concreto risultato di
impedire il completamento dell’intervento già avviato.
Per questa ragione, il Fallimento chiede espressamente che –sulla base delle censure allegate nel ricorso– sia
dichiarata in ogni caso l’inefficacia dell’intera procedura
di pianificazione. E ciò al fine di ottenere, in esito alla
riedizione del potere, la possibilità di fare salva la
realizzazione dell’intervento oggetto della denuncia di
inizio di attività del 14.05.2010, che era stato
progettato sfruttando la capacità edificatoria attribuita
all’area dal Piano Regolatore Generale previgente.
2.2 La difesa comunale eccepisce l’irricevibilità delle
censure, in quanto proposte dopo la scadenza del termine per
l’impugnazione del PGT, termine che dovrebbe decorrere
necessariamente dalla data di pubblicazione dell’avviso di
deposito sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia,
avvenuta il 22.11.2012.
2.3 L’eccezione comunale merita condivisione.
E invero, l’articolo 13, comma 11, della legge regionale n.
12 del 2005 dispone espressamente che “Gli atti di PGT
acquistano efficacia con la pubblicazione dell'avviso della
loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della
Regione, da effettuarsi a cura del comune”. Da tale data,
quindi, il piano determina la modificazione permanente della
situazione giuridica dei suoli e, perciò, produce diretti
effetti nella sfera giuridica dei proprietari dei terreni.
Di conseguenza, è da tale data che decorre anche il termine
per l’impugnazione.
Conclusione, questa, che è in linea con quanto affermato
dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto che è dal momento
in cui sono espletate le modalità di pubblicazione previste
dalla legge che decorre il termine per la proposizione del
ricorso avverso lo strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez.
IV, 19.07.2004, n. 5225; Id. 08.07.2003, n. 4040;
Id., 23.11.2002, n. 6436).
Secondo la tesi della parte ricorrente, lo strumento
urbanistico non sarebbe stato lesivo al momento dell’entrata
in vigore, in quanto la Società, poi fallita, era in
possesso a quella data di un titolo edificatorio efficace e
non caducato dalla sopravvenienza del nuovo piano.
Al riguardo, deve tuttavia obiettarsi che la lesività del
provvedimento amministrativo, e il conseguente interesse a
invocare avverso di esso la tutela giurisdizionale, devono
essere valutati in termini oggettivi, ossia tenendo conto
dell’idoneità dell’atto a incidere sulla situazione
giuridica del soggetto, e della correlata possibilità che
l’intervento del giudice assicuri alla parte un risultato
utile, in termini di eliminazione dell’effetto lesivo
oggettivamente verificatosi.
Ora, l’entrata in vigore di un nuovo strumento urbanistico
determina di per sé una modificazione permanente della
situazione giuridica dei suoli e, quindi, dispiega
immediatamente un’efficacia lesiva nei confronti dei
relativi proprietari.
Conseguentemente, laddove il piano abbia ridotto la capacità
edificatoria del suolo, il proprietario è immediatamente
leso da tale determinazione, e ha quindi l’onere di
impugnarla entro l’ordinario termine di decadenza,
decorrente dal termine di entrata in vigore dello strumento
urbanistico.
La circostanza che il singolo proprietario possa, in quel
momento storico, essere già in possesso di un titolo
edificatorio che gli permette di realizzare quanto previsto
dal precedente strumento urbanistico, non differisce da
quella del proprietario che abbia già costruito o che, nel
momento dell’entrata in vigore del piano, non abbia la
possibilità o l’intenzione di costruire: si tratta, in tutti
tali casi, di situazioni di mero fatto, che non incidono
sulla oggettiva immediata lesività dello strumento
urbanistico. Quest’ultimo è, invero, destinato a
condizionare permanentemente le successive utilizzazioni
dell’area e, quindi, incide in ogni caso sulle prerogative
del proprietario, anche laddove un titolo edilizio sia già
stato rilasciato o l’edificazione sia già stata completata
in base al precedente strumento.
D’altro canto, ammettere che la parte in possesso di un
titolo edificatorio possa impugnare il piano solo allorché,
non essendo in grado di ultimare i lavori nel termine, si
sia vista costretta ad avvalersi della proroga, equivale a
differire i termini di decadenza per l’impugnazione dello
strumento urbanistico da parte dei proprietari dei suoli –termini stabiliti per legge con fini di certezza giuridica–
facendoli dipendere da una circostanza di mero fatto (la
mancata ultimazione dei lavori nel termine), peraltro
totalmente dipendente dal comportamento del soggetto
interessato.
Ciò che, ancora una volta, si pone in contrasto con i
principi.
3. Pur tuttavia, anche a voler ammettere che –seguendo la
tesi della parte ricorrente– l’interesse a impugnare il
piano sia sorto solo e unicamente a seguito
dell’impossibilità di ottenere la proroga del titolo
edificatorio, le censure proposte non potrebbero ugualmente
trovare accoglimento, per le ragioni che di seguito si
espongono.
3.1 Quanto alla censura sopra indicata al punto II – (i), la
consolidata giurisprudenza della Sezione ha da tempo
affermato, con orientamento che il Collegio pienamente
condivide, che i termini per l’approvazione del PGT
stabiliti dall’articolo 13, commi 7 e 7-bis, della legge
regionale n. 12 del 2005 hanno carattere ordinatorio e non
perentorio e, conseguentemente, il superamento di tali
scadenze non determina il venir meno degli atti della
procedura pianificatoria già compiuti (TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 24.04.2015, n. 1032; Id., 19.11.2014, n. 2765; Id., 11.01.2013, n. 86; Id., 20.12.2010, n. 7614; Id., 10.12.2010, n. 7508).
3.2 Una volta escluso che la scadenza del termine per
l’approvazione del PGT possa determinare il venir meno anche
della precedente delibera di adozione, deve conseguentemente
concludersi che l’eventuale accoglimento delle censure
indicate al punto II – (ii), (iii) e (iv) non determinerebbe
l’effetto ipotizzato dalla parte ricorrente, ossia la
caducazione dell’intera procedura pianificatoria.
Si tratta, infatti, di censure dirette nei confronti degli
atti dell’iter di formazione del PGT compiuti dopo la prima
approvazione (cui, come sopra detto, è seguita la revoca
della delibera di approvazione e la ripetizione dei passaggi
procedimentali successivi alla presentazione delle
osservazioni, fino a pervenire a una seconda approvazione).
L’accoglimento delle doglianze articolate comporterebbe,
quindi, la necessità di riportare la procedura
pianificatoria allo stadio della prima approvazione o
dell’adozione. Ciò, però, non consentirebbe alla parte di
ottenere il risultato utile cui essa dichiara di aspirare e
in relazione al quale prospetta il proprio interesse a
ricorrere, ossia la caducazione dell’intero iter, al fine di
fare salva la realizzazione dell’intervento oggetto della
denuncia di attività del 2010, basata sulla capacità
edificatoria attribuita all’area dal precedente Piano
Regolatore Generale.
In questi termini, le censure sono, quindi, da ritenere in
ogni caso inammissibili per difetto di interesse.
3.3 Analoga sorte riguarda la prima delle censure di cui al
punto II – (v), con la quale si lamenta il difetto di
specifica motivazione della scelta peggiorativa compiuta,
con riferimento (anche) all’area della parte ricorrente, in
occasione della seconda approvazione del PGT: pure in questo
caso l’eventuale accoglimento della censura non
determinerebbe il venir meno dell’intera procedura
pianificatoria e, quindi, non potrebbe soddisfare
l’interesse della parte ricorrente, come da essa stessa
prospettato.
Quanto alla seconda censura prospettata nel motivo II – (v),
la parte afferma che l’area di sua proprietà sarebbe un
lotto intercluso e, quindi –sia in occasione della prima
approvazione del PGT, che in occasione della seconda
approvazione– sarebbe stata necessaria una particolare
motivazione al fine di ridurre la relativa capacità
edificatoria.
La doglianza è infondata.
Basta, al riguardo, tenere presente che, secondo costante
giurisprudenza, la semplice modifica in peius, rispetto al
precedente strumento urbanistico, delle aspettative
edificatorie di un fondo non determina, di per sé, l’onere
per l’amministrazione di fornire alcuna particolare
motivazione (Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2015 n. 3142;
Id. 15.05.2012, n. 2759; Id., 13.07.2011, n. 4242;
Id., 12.05.2011, n. 2683; Id., 24.02.2011, n.
1222; Id., 12.03.2009, n. 1477). E ciò salvo che ricorra
una delle peculiari situazioni in relazione alle quali la
giurisprudenza ha ritenuto che sussista un’aspettativa
qualificata, tale da rendere necessaria una più intensa e
specifica motivazione.
Nessuna di tali situazioni è, però ravvisabile nel caso di
specie, posto che –anche laddove fosse comprovata la
presenza di un lotto intercluso, che è un dato meramente
affermato dalla parte– tale circostanza potrebbe rilevare,
al più, unicamente laddove il nuovo strumento urbanistico
avesse introdotto la modificazione in zona agricola della
destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo (v. TAR Lombardia, Milano, 22.07.2014, n. 1972).
Nel caso di specie, non è però allegato che il PGT abbia
introdotto alcuna previsione specifica per l’area della
parte ricorrente, né che abbia azzerato la capacità
edificatoria del fondo, risultando che sia stata unicamente
prevista una riduzione della capacità edificatoria.
Scelta, questa, che evidentemente non richiedeva in sé
alcuna specifica motivazione, oltre a quella evincibile dai
criteri generali di impostazione del piano.
3.4 In definitiva, tutte le censure articolate dalla
ricorrente contro il PGT sono irricevibili e, comunque,
anche inammissibili o infondate nel merito
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.07.2015 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2015 |
|
URBANISTICA:
PGT: il termine di 90 gg. inerisce la controdeduzione delle
osservazioni e non l'approvazione, sicché solo nel primo
caso l'eventuale inosservanza del termine comporta
l'inefficacia dell'intero procedimento.
L’articolo 13 della legge regionale n. 12 del 2005 dispone,
al comma 7, che “Entro novanta giorni dalla scadenza del
termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di
inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide
sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni.
Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all'adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo.”.
Al riguardo, deve confermarsi l’adesione all’orientamento
già espresso dall’univoca giurisprudenza della Sezione, la
quale ha già avuto modo di affermare, in più occasioni, che
della disposizione dell’articolo 13, comma 7, della legge
regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga disposizione
contenuta all’articolo 14, comma 4, della medesima legge,
debba darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Per questa via, si è ritenuto di dover escludere che
l’inosservanza dei termini normativamente prescritti possa
determinare automaticamente l’inefficacia dell’intero
procedimento sino ad allora svolto.
In particolare, si è affermato che una soluzione che
sanzionasse con la perdita di efficacia degli atti la mera
violazione del termine condurrebbe inevitabilmente “(...) ad
esiti contrastanti con il principio di buon andamento
dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.”.
E invero, accogliendo la tesi suddetta “(...) l’attività
amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel
nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di
rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con
il principio di economicità oltre che con la ratio
acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di
celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il
termine previsto dall’art. 13, c. 7, della legge regionale n.
12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia
dell’atto di adozione del piano di governo del territorio,
in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera
procedura amministrativa.”.
Per converso, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha
aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato
che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo dell’articolo, il quale
–come detto– prevede che “entro novanta giorni dalla
scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale
accoglimento delle osservazioni”. Ciò –secondo
l’orientamento richiamato– “consente di riferire la sanzione
della inefficacia alla inosservanza non del termine di
novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma
di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione,
ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle
osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le
conseguenti modificazioni.”. Conseguentemente,
“l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la
loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle
osservazioni presentate dagli interessati”.
Tale lettura, oltre ad essere consentita dal tenore
letterale della previsione normativa, è altresì in linea con
il principio generale per il quale i termini per la
conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola
non perentori, soprattutto allorché si tratti di procedure
complesse, con la partecipazione di una pluralità di
soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli
interessi, pubblici o privati, coinvolti.
1.4 Nel merito, il motivo è tuttavia infondato.
1.4.1 Rileva il Collegio che l’articolo 13 della legge
regionale n. 12 del 2005 dispone, al comma 7, che “Entro
novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle
stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni.
Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all'adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo.”.
Il successivo comma 7-bis –introdotto dall'articolo 1, comma
1, lett. a) della legge regionale 03.10.2007, n. 24 e poi
modificato nell’attuale tenore dall’articolo 3, comma 9,
lett. a) della legge regionale 22.02.2010, n. 11–
stabilisce, inoltre, che “Il termine di cui al comma 7 è
di centocinquanta giorni qualora, nella fase del
procedimento di approvazione del PGT successiva all’adozione
dello stesso, venga pubblicato il decreto di indizione dei
comizi elettorali per il rinnovo dell’amministrazione
comunale.”.
Le suddette disposizioni stabiliscono, quindi, un termine
entro il quale deve pervenirsi alla conclusione del
procedimento di formazione del PGT, con evidente ratio
acceleratoria dell’iter dello strumento urbanistico.
Al riguardo, deve confermarsi l’adesione all’orientamento
già espresso dall’univoca giurisprudenza della Sezione, la
quale ha già avuto modo di affermare, in più occasioni, che
della disposizione dell’articolo 13, comma 7, della legge
regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga disposizione
contenuta all’articolo 14, comma 4, della medesima legge,
debba darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Per questa via, si è ritenuto di dover escludere che
l’inosservanza dei termini normativamente prescritti possa
determinare automaticamente l’inefficacia dell’intero
procedimento sino ad allora svolto (TAR Lombardia, Milano,
Sez. II, 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010,
n. 7614; 10.12.2010, n. 7508).
In particolare, si è affermato che una soluzione che
sanzionasse con la perdita di efficacia degli atti la mera
violazione del termine condurrebbe inevitabilmente “(...)
ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento
dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.”.
E invero, accogliendo la tesi suddetta “(...) l’attività
amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel
nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di
rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con
il principio di economicità oltre che con la ratio
acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di
celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il
termine previsto dall’art. 13, c. 7 della legge regionale n.
12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia
dell’atto di adozione del piano di governo del territorio,
in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera
procedura amministrativa.” (così la richiamata pronuncia
della Sezione n. 7508 del 2010).
Per converso, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha
aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato
che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo dell’articolo, il quale
–come detto– prevede che “entro novanta giorni dalla
scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale
accoglimento delle osservazioni”. Ciò –secondo
l’orientamento richiamato– “consente di riferire la
sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine
di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma,
ma di quanto stabilito nella seconda parte della
disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere
sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le
conseguenti modificazioni.”. Conseguentemente, “l’inefficacia
degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione
non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni
presentate dagli interessati” (così ancora la sentenza
n. 7508 del 2010).
1.4.2 Tale lettura, oltre ad essere consentita dal tenore
letterale della previsione normativa, è altresì in linea con
il principio generale per il quale i termini per la
conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola
non perentori, soprattutto allorché si tratti di procedure
complesse, con la partecipazione di una pluralità di
soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli
interessi, pubblici o privati, coinvolti (TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 14.11.2012, n. 2750).
Sotto altro profilo, non può neppure accedersi alla tesi
della ricorrente, secondo la quale la natura ordinatoria del
termine sarebbe esclusa dalla circostanza che il comma 7-bis
del medesimo articolo 13 abbia previsto una fattispecie
nella quale il termine è elevato a centocinquanta giorni. Ad
avviso della ricorrente, non sarebbe logico prevedere una
maggiore durata di un termine che non sia perentorio.
La tesi, come detto, non convince, in quanto la fissazione
del termine, benché ordinatorio, svolge pur sempre una
funzione di accelerazione dei procedimenti e individua quali
siano le modalità per il corretto operare
dell’Amministrazione. Conseguentemente, non può ritenersi
priva di rilevanza l’elevazione del termine nella
fattispecie di cui al comma 7-bis, posto che –al contrario–
sarebbe irragionevole fissare un termine, benché non
perentorio, che non possa essere ragionevolmente osservato.
1.4.3 Deve, quindi, concludersi nel senso che della
disposizione di legge regionale debba farsi necessariamente
un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a
garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza,
proporzionalità e buon andamento della pubblica
amministrazione (articoli 3 e 97 della Costituzione), nonché
ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga
ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale
(articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale
stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera
di adozione del piano, fissando unicamente i termini di
efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro
di durata pluriennale (articolo 12 del d.P.R. n. 380 del
2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal
tenore letterale della previsione normativa, deve
privilegiarsi quella, sopra illustrata, che attribuisce al
termine per l’approvazione finale del piano natura
ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in
correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni
pervenute.
1.5 Deve, poi, evidenziarsi che la giurisprudenza della
Sezione ha altresì preso in considerazione, ai fini della
valutazione del rispetto del termine, la circostanza che
alla data della sua scadenza fosse in corso la fase
decisoria finale del PGT, ritenendo in tal caso legittimo e
rispettoso della previsione normativa l’operato del Comune
(v. le richiamate sentenze n. 2765 del 2014 e n. 7614 del
2010).
Ciò è quanto avvenuto anche nel caso di specie, poiché
l’avvio della fase di approvazione (20.02.2012) ricade entro
i novanta giorni dalla data in cui la delibera di revoca
della precedente approvazione è divenuta esecutiva
(07.12.2011), né risulta che la rinnovata fase
procedimentale di approvazione sia stata successivamente
interrotta.
Aderendo all’orientamento giurisprudenziale sopra
richiamato, deve quindi concludersi nel senso che il termine
sia stato, nella specie, osservato, senza che a tal fine
occorra interrogarsi in merito all’applicabilità del più
lungo termine previsto dal comma 7-bis dell’articolo 13 (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.04.2015 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA:
I commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della l.r.
11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri di calcolo
degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento alle
ristrutturazioni edilizie “non comportanti
demolizione e ricostruzione”.
Ne deriva, a contrario, che gli
interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale
o parziale siano assoggettati al contributo concessorio
previsto per le nuove costruzioni.
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo
comma 10-bis dell’articolo 44 della l.r. n. 12/2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della l.r. 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “I
comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione
e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione
edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al
cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione si fonda infatti sull’evidente
presupposto che gli interventi in questione siano, in linea
di principio, soggetti all’integrale assolvimento della
quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di
urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per
i comuni di ridurre la misura della relativa quota di
contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli
interventi di ricostruzione previa demolizione
dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella,
all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
---------------
6.2 Ciò posto, quanto alla determinazione dell’entità
dell’intervento, deve condividersi quanto rappresentato
dalla difesa comunale, la quale correttamente evidenzia come
i commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della legge regionale
11.03.2005, n. 11 abbiano previsto speciali criteri di
calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento
alle ristrutturazioni edilizie “non comportanti
demolizione e ricostruzione”.
Ne deriva, a contrario, che –come già chiarito dalla
giurisprudenza formatasi sulle disposizioni richiamate– gli
interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale
o parziale siano assoggettati al contributo concessorio
previsto per le nuove costruzioni (v. Cons. Stato, Sez. IV,
22.05.2012, n. 2969, che conferma la sentenza di questa
Sezione del 18.05.2010, n. 1566).
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo
comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12
del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge
regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “I
comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione
e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione
edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al
cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alla d.i.a.
oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in
ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente
presupposto che gli interventi in questione siano, in linea
di principio, soggetti all’integrale assolvimento della
quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di
urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per
i comuni di ridurre la misura della relativa quota di
contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli
interventi di ricostruzione previa demolizione
dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella,
all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.03.2015 n. 780 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2015 |
|
URBANISTICA:
Lo strumento della perequazione, che trova
fondamento legislativo a livello locale nell’art. 11 della
LR 12/2005, consente alle amministrazioni comunali di
ottenere vantaggi superiori a quelli della tradizionale
zonizzazione.
Due opportunità sono di particolare rilievo: (i)
intercettare parte della rendita prodotta dalla zonizzazione
a favore dei proprietari di aree edificabili; (ii)
conformare in dettaglio la trasformazione della proprietà
privata, indirizzandola verso obiettivi di utilità sociale.
Si tratta in entrambi i casi di risultati legittimi, ma solo
a condizione che siano rispettati i principi della
pianificazione e siano evitate soluzioni eccessivamente
penalizzanti per i proprietari.
La premessa imprescindibile è che non tutte le aree sono
uguali, né possono essere rese uguali con provvedimenti
amministrativi (l’art. 8 comma 2-e della LR 12/2005 collega
l’individuazione degli ambiti di trasformazione al rispetto
delle vocazioni funzionali del territorio). È vero che i
diritti edificatori non ineriscono alla proprietà e sono
invece attribuiti dalla pianificazione, ma la loro base
naturale risiede nelle caratteristiche fisiche e
topografiche dei terreni, che li rendono più o meno adatti
all’edificazione.
Una volta riconosciuta la base naturale dei diritti
edificatori, è anche evidente che la sottrazione di una
parte del valore economico di tali diritti non può superare
limiti ragionevoli. In effetti, se il privato per poter
realizzare una qualsiasi costruzione (ossia per non essere
costretto a lasciare inedificato il terreno) deve
monetizzare, al prezzo stabilito dal Comune, i diritti
edificatori mancanti, questa situazione è assimilabile
all’alternativa tra pagare o non pagare una tassa sulla
costruzione.
Trattandosi di un peso economico che si aggiunge al vero e
proprio contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria, contributo sul costo di costruzione),
è necessario evitare che la somma di questi oneri abbia
esiti confiscatori o determini di fatto un vincolo di
inedificabilità.
Anche l’altro aspetto della perequazione, ossia la creazione
di diritti edificatori utili esclusivamente a fini
commerciali, in quanto non sfruttabili direttamente sul
terreno che li genera, è sottoposto a limiti logici e
normativi. In generale, si osserva che la perequazione non è
uno strumento finalizzato a moltiplicare le rendite private.
Il vero obiettivo è la redistribuzione a tutta la
collettività dei vantaggi derivanti a pochi proprietari
dall’attribuzione di diritti edificatori: questo implica che
sia l’amministrazione a incamerare l’eventuale differenza
tra il “giusto diritto edificatorio” e il valore della
costruzione, per riversarlo poi sul territorio sotto forma
di servizi e infrastrutture.
Le indicazioni offerte dalla normativa sono interpretabili
in questo senso. L’art. 11, comma 1, della LR 12/2005
prevede l’attribuzione di identici diritti edificatori nelle
aree di trasformazione inserite in piani attuativi e in atti
di programmazione negoziata.
In effetti, le posizioni dei proprietari coinvolti in questi
interventi edilizi sono equivalenti, e dunque è ragionevole
che tutti possano beneficiare nella stessa misura dei
diritti edificatori, anche se le costruzioni vengono
concentrate solo in un punto specifico.
Con una previsione più ampia e innovativa, il comma 2
dell’art. 11 della LR 12/2005 consente che a tutte le aree
del territorio comunale, ad eccezione di quelle agricole e
di quelle non soggette a trasformazione urbanistica, siano
attribuiti identici diritti edificatori, inferiori
all’indice minimo fondiario.
Questo è il presupposto del vero e proprio mercato dei
diritti edificatori, di cui i comuni devono tenere un
registro pubblico e aggiornato. Essendo per definizione
normativa un bene scarso, i diritti edificatori possono
essere vantaggiosamente scambiati tra i privati, fino a
raggiungere la soglia minima che permette l’edificazione. È
però evidente che questo meccanismo enfatizza la rendita dei
proprietari non interessati a costruire, e impone
l’intervento calmieratore dell’amministrazione attraverso la
monetizzazione dei diritti edificatori mancanti.
A questo punto, è anche evidente che la perequazione aumenta
i costi delle costruzioni senza svolgere una funzione di
contenimento dell’utilizzo del territorio. Da qui possono
derivare effetti discriminatori, in quanto i proprietari più
forti economicamente potranno permettersi di pagare un
extracosto anche elevato, mentre gli altri dovranno
rinunciare a edificare. È quindi necessario che il prezzo
della monetizzazione sia attentamente ponderato, tenendo
conto dell’evoluzione del mercato immobiliare.
La costituzione di una rendita nella forma di diritti
edificatori è meno problematica quando corrisponda
chiaramente a un interesse pubblico, in particolare quando
sia effettuata a compensazione della cessione gratuita di
aree al Comune, come previsto dall’art. 11, comma 3, della
LR 12/2005. Analogamente, la concessione di diritti
edificatori è ammissibile come indennizzo per le aree che
siano sottoposte a un vincolo sostanzialmente espropriativo.
In questi casi si presenta il problema opposto a quello
antispeculativo visto sopra, ossia è necessario che questi
diritti siano effettivamente commerciabili in modo
vantaggioso per i proprietari, in quanto devono compensare
una perdita patrimoniale effettiva. A tale fine sono utili
gli incentivi per i proprietari che acquistano da altri
privati, rendendo meno conveniente l’alternativa della
monetizzazione.
Vi sono poi gli incentivi legati alla tipologia
dell’edificazione. Alcuni sono considerati ammissibili
direttamente dall’art. 11, comma 5, della LR 12/2005 in
relazione a obiettivi di interesse pubblico
(riqualificazione urbana; edilizia residenziale pubblica;
risparmio energetico; edilizia interamente biocompatibile).
L’autonomia dei comuni può individuare ulteriori obiettivi.
Si osserva in proposito che più ci si allontana dagli
aspetti costruttivi per puntare a finalità di altra natura
(nuovi insediamenti produttivi; disponibilità di alloggi di
edilizia convenzionata, a canone moderato o a canone
sociale) più è necessario che vi sia un attento
bilanciamento tra i diritti edificatori di base, ossia
quelli generati dal terreno interessato dall’intervento, e i
diritti edificatori reperibili tramite le incentivazioni.
Le condizioni per ottenere gli incentivi determinano infatti
un incremento dei costi di costruzione e incidono sulla
redditività dell’investimento. Può quindi determinarsi un
effetto discriminatorio basato nuovamente sulla capacità
economica di chi costruisce.
Sui limiti della perequazione
17. Lo strumento della perequazione, che trova fondamento
legislativo a livello locale nell’art. 11 della LR 12/2005,
consente alle amministrazioni comunali di ottenere vantaggi
superiori a quelli della tradizionale zonizzazione.
Due
opportunità sono di particolare rilievo: (i) intercettare
parte della rendita prodotta dalla zonizzazione a favore dei
proprietari di aree edificabili; (ii) conformare in
dettaglio la trasformazione della proprietà privata,
indirizzandola verso obiettivi di utilità sociale.
18. Si tratta in entrambi i casi di risultati legittimi, ma
solo a condizione che siano rispettati i principi della
pianificazione e siano evitate soluzioni eccessivamente
penalizzanti per i proprietari.
19. La premessa imprescindibile è che non tutte le aree sono
uguali, né possono essere rese uguali con provvedimenti
amministrativi (l’art. 8, comma 2-e, della LR 12/2005 collega
l’individuazione degli ambiti di trasformazione al rispetto
delle vocazioni funzionali del territorio). È vero che i
diritti edificatori non ineriscono alla proprietà e sono
invece attribuiti dalla pianificazione, ma la loro base
naturale risiede nelle caratteristiche fisiche e
topografiche dei terreni, che li rendono più o meno adatti
all’edificazione.
Una volta riconosciuta la base naturale
dei diritti edificatori, è anche evidente che la sottrazione
di una parte del valore economico di tali diritti non può
superare limiti ragionevoli. In effetti, se il privato per
poter realizzare una qualsiasi costruzione (ossia per non
essere costretto a lasciare inedificato il terreno) deve
monetizzare, al prezzo stabilito dal Comune, i diritti
edificatori mancanti, questa situazione è assimilabile
all’alternativa tra pagare o non pagare una tassa sulla
costruzione.
Trattandosi di un peso economico che si
aggiunge al vero e proprio contributo di costruzione (oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria, contributo sul
costo di costruzione), è necessario evitare che la somma di
questi oneri abbia esiti confiscatori o determini di fatto
un vincolo di inedificabilità.
20. Anche l’altro aspetto della perequazione, ossia la
creazione di diritti edificatori utili esclusivamente a fini
commerciali, in quanto non sfruttabili direttamente sul
terreno che li genera, è sottoposto a limiti logici e
normativi. In generale, si osserva che la perequazione non è
uno strumento finalizzato a moltiplicare le rendite private.
Il vero obiettivo è la redistribuzione a tutta la
collettività dei vantaggi derivanti a pochi proprietari
dall’attribuzione di diritti edificatori: questo implica che
sia l’amministrazione a incamerare l’eventuale differenza
tra il “giusto diritto edificatorio” e il valore della
costruzione, per riversarlo poi sul territorio sotto forma
di servizi e infrastrutture.
21. Le indicazioni offerte dalla normativa sono
interpretabili in questo senso. L’art. 11, comma 1, della LR
12/2005 prevede l’attribuzione di identici diritti
edificatori nelle aree di trasformazione inserite in piani
attuativi e in atti di programmazione negoziata.
In effetti,
le posizioni dei proprietari coinvolti in questi interventi
edilizi sono equivalenti, e dunque è ragionevole che tutti
possano beneficiare nella stessa misura dei diritti
edificatori, anche se le costruzioni vengono concentrate
solo in un punto specifico.
22. Con una previsione più ampia e innovativa, il comma 2
dell’art. 11 della LR 12/2005 consente che a tutte le aree
del territorio comunale, ad eccezione di quelle agricole e
di quelle non soggette a trasformazione urbanistica, siano
attribuiti identici diritti edificatori, inferiori
all’indice minimo fondiario.
Questo è il presupposto del
vero e proprio mercato dei diritti edificatori, di cui i
comuni devono tenere un registro pubblico e aggiornato.
Essendo per definizione normativa un bene scarso, i diritti
edificatori possono essere vantaggiosamente scambiati tra i
privati, fino a raggiungere la soglia minima che permette
l’edificazione. È però evidente che questo meccanismo
enfatizza la rendita dei proprietari non interessati a
costruire, e impone l’intervento calmieratore
dell’amministrazione attraverso la monetizzazione dei
diritti edificatori mancanti.
A questo punto, è anche
evidente che la perequazione aumenta i costi delle
costruzioni senza svolgere una funzione di contenimento
dell’utilizzo del territorio. Da qui possono derivare
effetti discriminatori, in quanto i proprietari più forti
economicamente potranno permettersi di pagare un extracosto
anche elevato, mentre gli altri dovranno rinunciare a
edificare. È quindi necessario che il prezzo della
monetizzazione sia attentamente ponderato, tenendo conto
dell’evoluzione del mercato immobiliare.
23. La costituzione di una rendita nella forma di diritti
edificatori è meno problematica quando corrisponda
chiaramente a un interesse pubblico, in particolare quando
sia effettuata a compensazione della cessione gratuita di
aree al Comune, come previsto dall’art. 11, comma 3, della LR
12/2005. Analogamente, la concessione di diritti edificatori
è ammissibile come indennizzo per le aree che siano
sottoposte a un vincolo sostanzialmente espropriativo.
In
questi casi si presenta il problema opposto a quello
antispeculativo visto sopra, ossia è necessario che questi
diritti siano effettivamente commerciabili in modo
vantaggioso per i proprietari, in quanto devono compensare
una perdita patrimoniale effettiva. A tale fine sono utili
gli incentivi per i proprietari che acquistano da altri
privati, rendendo meno conveniente l’alternativa della
monetizzazione.
24. Vi sono poi gli incentivi legati alla tipologia
dell’edificazione. Alcuni sono considerati ammissibili
direttamente dall’art. 11, comma 5, della LR 12/2005 in
relazione a obiettivi di interesse pubblico
(riqualificazione urbana; edilizia residenziale pubblica;
risparmio energetico; edilizia interamente biocompatibile).
L’autonomia dei comuni può individuare ulteriori obiettivi.
Si osserva in proposito che più ci si allontana dagli
aspetti costruttivi per puntare a finalità di altra natura
(nuovi insediamenti produttivi; disponibilità di alloggi di
edilizia convenzionata, a canone moderato o a canone
sociale) più è necessario che vi sia un attento
bilanciamento tra i diritti edificatori di base, ossia
quelli generati dal terreno interessato dall’intervento, e i
diritti edificatori reperibili tramite le incentivazioni.
Le
condizioni per ottenere gli incentivi determinano infatti un
incremento dei costi di costruzione e incidono sulla
redditività dell’investimento. Può quindi determinarsi un
effetto discriminatorio basato nuovamente sulla capacità
economica di chi costruisce.
Conclusioni
25. Tornando al caso in esame, inquadrato economicamente
come si è visto sopra, si ritiene che le modalità con cui il
PGT ha attuato la perequazione presentino le seguenti
criticità:
(a) vi è un intervallo eccessivo tra i diritti edificatori
generati dall’area interessata dall’intervento e quelli da
acquistare, monetizzare, o reperire mediante gli incentivi.
Non è possibile stabilire, in mancanza di puntuali
indicazioni normative, una ripartizione esatta, ma si può
ritenere che almeno la metà dei diritti edificatori
necessari per intraprendere una costruzione (indice di
densità minimo) debba appartenere alla prima categoria. In
questo modo il peso degli incentivi è relativizzato, e viene
salvaguardata la libertà di scelta dei privati circa le
caratteristiche della costruzione;
(b) con il prezzo iniziale della monetizzazione, e la
conseguente necessità di utilizzare tutti gli incentivi,
erano praticabili solo l’attività edificatoria dotata dei
più elevati standard costruttivi (quindi più costosa) e
quella finalizzata all’edilizia sociale (non facilmente
gestibile da un privato o da un normale impresa di
costruzioni).
In corso di causa è intervenuta la riduzione
del prezzo della monetizzazione, ma rimane la necessità di
un’indagine più precisa sulla situazione del mercato
immobiliare e di un’analisi più dettagliata dei reali costi
di costruzione (in particolare, delle voci che presentano
rigidità, come lavoro e materiali);
(c) la disciplina del PGT non tiene adeguatamente conto
della distinzione tra l’indice di densità minimo e quello
massimo. Per raggiungere il primo, i diritti edificatori
generati dall’area interessata dall’intervento non possono
essere inferiori, come si è visto, alla metà del totale.
Nello specifico, per contro, come si è detto, i diritti
edificatori generati dall’area in questione sono stati
fissati in 0,25 mq/mq e l’indice minimo di densità in 0,80
mq/mq, determinando un differenziale di diritti edificatori
da colmare, per ogni mq edificato, pari a 0,55 mq/mq
[0,80-0,25], che è alla base di quell’effetto distorsivo che
la ricorrente giustamente censura;
(d) è invece in relazione al secondo indice di densità
(quello massimo) che, una volta corretto il primo nel senso
sopra chiarito, possono trovare maggiore spazio le politiche
incentivanti del Comune, le quali, operando su questo
segmento della capacità edificatoria, sono in grado di
svolgere un’appropriata funzione premiale senza effetti
inibitori o distorsivi.
26. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il
conseguente annullamento delle norme del PGT relative alla
perequazione. L’effetto conformativo di questa pronuncia
comporta l’obbligo per il Comune di riesaminare la
disciplina in questione mediante un nuovo pronunciamento del
consiglio comunale, nel rispetto delle indicazioni sopra
esposte.
Per tale adempimento è fissato il termine di 90
giorni dal deposito della presente sentenza
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.01.2015 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2014 |
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ottobre 2014 |
|
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
73, comma 1, della l.r. 12.2005 stabilisce a tal fine che
“in ciascun comune, almeno l'8 per cento delle somme
riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria è ogni anno
accantonato in apposito fondo, risultante in modo specifico
nel bilancio di previsione, destinato alla realizzazione
delle attrezzature indicate all'articolo 71, nonché per
interventi manutentivi, di restauro e ristrutturazione
edilizia, ampliamento e dotazione di impianti, ovvero
all'acquisto delle aree necessarie”.
Sicché, la concessione del
finanziamento pubblico, nei limiti delle risorse accantonate
nel bilancio dell’ente, sia subordinato ad uno specifico
provvedimento amministrativo che ne accerti l’ammissibilità
alla luce dei parametri indicati dalla legge.
A tal fine l’amministrazione comunale è tenuta, oltre che a
verificare riconducibilità degli interventi richiesti con
quelli normativamente previsti e la loro compatibilità con
gli strumenti urbanistici in essere, anche a valutare,
nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa,
l’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera
in ragione della consistenza ed incidenza sociale nel comune
delle rispettive confessioni religiose.
Né il comune risulta obbligato a finanziare totalmente il
programma presentato, potendo il finanziamento essere
concesso solo in parte.
In assenza di siffatta valutazione, destinata a trovare
espressione in un provvedimento formale dei competenti
organi comunali adeguatamente motivato con riguardo agli
interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda, non
appare configurabile in capo ai potenziali beneficiari alcun
diritto soggettivo a conseguire direttamente il
finanziamento nella misura dell’accantonamento previsto
dalla legge.
--------------
Con la nota sopra citata, il Commissario straordinario del
comune di Sedriano (MI), espone quanto segue.
La legge regionale 11.03.2005, n. 12 impone ai comuni di
accantonare ogni anno almeno l'8 per cento delle somme
riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria in un in
apposito fondo diretto alla realizzazione di attrezzature di
interesse comune destinate a servizi religiosi da
effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti
in materia di culto della chiesa cattolica (o delle altre
confessioni religiose aventi una presenza diffusa,
organizzata e stabile nell'ambito del comune) che ne
facciano richiesta, presentando entro il 30 giugno di ogni
anno un programma di massima, anche pluriennale, degli
interventi da effettuare.
La stessa legge regionale stabilisce, inoltre, che il
comune, entro Il successivo 30 novembre, dopo aver
verificato che gli interventi previsti nei programmi
presentati rientrano tra quelli finanziabili, ripartisce i
predetti contributi, finanziando in tutto o in parte i
programmi a tal fine presentati.
Richiamati i predetti riferimenti normativi si rappresenta
che il comune non ha mai proceduto all'accantonamento in
bilancio della quota prevista dalla legge, né ha mai
impegnato tale somma, ma, a fronte delle ripetute richieste
di finanziamento presentate dalla locale parrocchia, ha
impegnato e, successivamente, liquidato una quota decisa
sulla base della disponibilità di bilancio del momento, a
prescindere sia dall'importo del contributo che doveva
essere accantonato e sia dal programma di massima che la
parrocchia stessa, tramite il proprio rappresentante legale,
aveva fatto pervenire al comune, unitamente alle fatture che
rendicontavano l'avvenuta realizzazione dei lavori.
Si è quindi è venuta a creare una situazione tale che, in
alcuni anni, l'importo corrisposto dal comune risulta
inferiore, in altri, superiore a quanto dovuto in base alla
legge regionale sopra richiamata.
Tutto ciò premesso e allegata la documentazione relativa al
caso di specie, si formulano i seguenti quesiti.
- se il comune debba riconoscere il finanziamento di tali
contributi pari ad euro 281.457,81 debito fuori bilancio ai
sensi dell'art. 194 del TUEL;
- se il comune possa compensare le somme dovute al culto
religioso con l'eccedenza corrisposta in più nel corso degli
anni pari ad euro 39.449,76.
...
L’esame del merito della questione, nei limiti sopra
riferiti, richiede di chiarire gli obblighi incombenti sul
Comune per effetto delle disposizioni contenute nella legge
regionale 11.03.2005, n. 12 dirette a promuovere, la
realizzazione di attrezzature di interesse comune destinate
a servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti
istituzionalmente competenti in materia di culto della
Chiesa Cattolica e delle altre confessioni religiose aventi
una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del
comune.
L’art. 73, primo comma, della predetta legge regionale
stabilisce a tal fine che “in ciascun comune, almeno l'8 per
cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione
secondaria è ogni anno accantonato in apposito fondo,
risultante in modo specifico nel bilancio di previsione,
destinato alla realizzazione delle attrezzature indicate
all'articolo 71, nonché per interventi manutentivi, di
restauro e ristrutturazione edilizia, ampliamento e
dotazione di impianti, ovvero all'acquisto delle aree
necessarie”.
Lo stesso art. 73 precisa quindi che “i contributi sono
corrisposti agli enti delle confessioni religiose di cui
all'articolo 70 che ne facciano richiesta. A tal fine le
autorità religiose competenti, secondo l'ordinamento proprio
di ciascuna confessione, presentano al comune entro il 30
giugno di ogni anno un programma di massima, anche
pluriennale, degli interventi da effettuare, dando priorità
alle opere di restauro e di risanamento conservativo del
proprio patrimonio architettonico esistente, corredato dalle
relative previsioni di spesa. Entro il successivo 30
novembre, il comune, dopo aver verificato che gli interventi
previsti nei programmi presentati rientrino tra quelli di
cui all'articolo 71, comma 1, ripartisce i predetti
contributi tra gli enti di cui all'articolo 70 che ne
abbiano fatto istanza, tenuto conto della consistenza ed
incidenza sociale nel comune delle rispettive confessioni
religiose, finanziando in tutto o in parte i programmi a tal
fine presentati. Tali contributi, da corrispondere entro
trenta giorni dall'esecutività della deliberazione di
approvazione del bilancio annuale di previsione, sono
utilizzati entro tre anni dalla loro assegnazione e la
relativa spesa documentata con relazione che gli enti
assegnatari trasmettono al comune entro sei mesi dalla
conclusione dei lavori”.
Dal quadro normativo definito dalle disposizioni sopra
richiamate emerge chiaramente che la concessione del
finanziamento pubblico, nei limiti delle risorse accantonate
nel bilancio dell’ente, sia subordinato ad uno specifico
provvedimento amministrativo che ne accerti l’ammissibilità
alla luce dei parametri indicati dalla legge.
A tal fine l’amministrazione comunale è tenuta, oltre che a
verificare riconducibilità degli interventi richiesti con
quelli normativamente previsti e la loro compatibilità con
gli strumenti urbanistici in essere, anche a valutare,
nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa,
l’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera
in ragione della consistenza ed incidenza sociale nel comune
delle rispettive confessioni religiose.
Né il comune risulta obbligato a finanziare totalmente il
programma presentato, potendo il finanziamento essere
concesso solo in parte.
In assenza di siffatta valutazione, destinata a trovare
espressione in un provvedimento formale dei competenti
organi comunali adeguatamente motivato con riguardo agli
interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda, non
appare configurabile in capo ai potenziali beneficiari alcun
diritto soggettivo a conseguire direttamente il
finanziamento nella misura dell’accantonamento previsto
dalla legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 17.10.2014 n. 263). |
gennaio 2014 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 6 del
05.02.2014, "Disposizioni per l’iscrizione all’albo dei
commissari ad acta di cui all’art. 31 della legge regionale
11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»,
disciplinato con d.g.r. n. 6/41493 del 19.02.1999
«Attuazione dell’art. 14, secondo comma, della legge
regionale 23.06.1997, n. 23. Definizione di criteri e
modalità per la formazione, la gestione e l’articolazione
dell’albo dei commissari ad acta ai fini dell’esercizio dei
poteri sostitutivi regionali in materia edilizio-urbanistica
e paesistico-ambientale»" (deliberazione
G.R. 24.01.2014 n. 1273). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: Il
parere di compatibilità del PGT con il PTCP, di cui alla LR
12/2005, non costituisce una manifestazione della generale
potestà di pianificazione riconosciuta dal Testo Unico degli
enti locali (D.Lgs. 267/2000), all’organo consiliare, quanto
piuttosto una valutazione di carattere tecnico, non
riservata pertanto al Consiglio.
---------------
Va ricordato l’indirizzo giurisprudenziale che riconosce
alle Amministrazioni ampia discrezionalità in sede di
approvazione degli strumenti urbanistici generali, senza
contare che le osservazioni dei privati a questi ultimi
costituiscono un mero apporto collaborativo.
La giurisprudenza amministrativa, infatti, è
ormai giunta alla conclusione che il parere di compatibilità
del PGT con il PTCP, di cui alla LR 12/2005, non costituisce
una manifestazione della generale potestà di pianificazione
riconosciuta dal Testo Unico degli enti locali (D.Lgs.
267/2000), all’organo consiliare, quanto piuttosto una
valutazione di carattere tecnico, non riservata pertanto al
Consiglio (si vedano, sul punto, le sentenze del TAR
Lombardia, sez. II, n. 4303/2009, n. 1221/2010, n. 7512 del
10.12.2010 e n. 7614/2010, costituenti precedenti specifici
ai quali si rinvia).
Il precedente di segno opposto di questa Sezione II, citato
dalla ricorrente (sentenza n. 5292/2007), risulta ormai
superato dalle più recenti decisioni di cui sopra, senza
contare che la sentenza n. 5292/2007 è stata annullata senza
rinvio dal Consiglio di Stato con sentenza della sezione IV,
28.05.2009, n. 3337.
---------------
Nella
controdeduzione all’osservazione n. 14 della società
istante, l’Amministrazione ha avuto cura di specificare che
l’ambito di trasformazione commerciale “E” è stato
individuato sulla base di una precedente proposta di piano
attuativo in variante al PRG presentata dalla società stessa
(cfr. su tale proposta, il doc. 4 ed il doc. 12 del Comune),
mentre non appariva rispondente alle esigenze della
collettività la soppressione dell’area a verde, peraltro già
non edificabile anche in base al previgente PRG.
Si tratta di motivazioni non illogiche né arbitrarie, che
escludono l’illegittimità della decisione di pianificazione
del Comune, anche tenendo conto dell’indirizzo
giurisprudenziale che riconosce alle Amministrazioni ampia
discrezionalità in sede di approvazione degli strumenti
urbanistici generali, senza contare che le osservazioni dei
privati a questi ultimi costituiscono un mero apporto
collaborativo (cfr. fra le tante, la fondamentale sentenza
del Consiglio di Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710,
richiamata e confermata dalla successiva sentenza della
stessa Sezione IV, 28.11.2012, n. 6040; Consiglio di Stato,
sez. IV, 28.12.2012, n. 6703 e 21.12.2012, n. 6656; oltre
che, fra le decisioni di primo grado, TAR Toscana, sez. I,
20.11.2013, n. 1593; TAR Lombardia, Milano, sez. II,
04.12.2013, n. 2696, 26.02.2013, n. 532 e 08.02.2012, n. 437;
TAR Emilia Romagna, Parma, 29.01.2013, n. 26; TRGA Trentino
Alto Adige, Bolzano, 17.07.2012, n. 255)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
24.01.2014 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L.R. Lombardia 12/2005: la scadenza del termine per
l'approvazione dei PGT non comporta la decadenza dei titoli
edilizi non avviati.
Il TAR Lombardia-Milano interpreta
l'articolo 25, c. 1, della legge regionale n. 12/2005
nell'ottica del principio di ragionevolezza, affermando che
il decorso del termine per l'approvazione (allora il
31.12.2012, oggi il 30.06.2014) dei P.G.T. imponga non la
decadenza (art. 15 T.U.E.D.), bensì la sospensione dei
titoli edilizi privi di inizio lavori.
Con la
sentenza 24.07.2013 n. 1943 e la
sentenza 03.01.2014 n. 2 il TAR Lombardia-Milano, Sez.
II, interviene sulla questione dell'efficacia della
disposizione contenuta nel comma 1 dell'articolo 25 della
L.R. 12/2005 secondo cui "1. Gli strumenti urbanistici
comunali vigenti conservano efficacia fino all’approvazione
del PGT e comunque non oltre la data del 30.06.2014 [...]".
Tutto ruota, ovviamente, sulla nozione di "perdita di
efficacia" che, se tradizionalmente definita come
l'idoneità di un atto a produrre effetti giuridici (Virga,
1997), non significa di per sé decadenza, istituto che
produce l'estinzione di un rapporto, non di un atto
(Santaniello, 1962), ma unicamente incapacità dell'atto di
produrre effetti.
In una accezione letterale l'espressione ^perdita di
efficacia^ significa la mera sospensione degli effetti
dello strumento urbanistico in essere, che rimarrebbe
vigente in attesa del nuovo. Le conseguenze pratiche di una
simile opzione, conforme al testo di legge e alla teoria
generale del diritto, corrispondono alla paralisi dello
strumento urbanistico.
In una interpretazione logica, che operi avendo presente lo
scopo che il legislatore sembra essersi prefisso con la
norma, la medesima espressione potrebbe tuttavia valere a
configurare la perdita di efficacia come sinonimo di
decadenza. In tal senso si esprimeva la D.G. Territorio in
un verbale della Commissione consiliare Territorio del
29.07.2010.
La rara dottrina che ha commentato l'articolo 25 o non si è
espressa (G. Inzaghi, 2005) o ha sostenuto la tesi della
applicabilità dell'art. 9 del TUED (G. Leo, 2005).
In questo scenario si calano le decisioni del TAR Lombardia,
ad avviso del quale la disposizione in questione impone non
la decadenza, bensì la sospensione dei titoli edilizi
rilasciati ma privi di inizio lavori. Il decorso del termine
indicato dall'articolo 25 per l'approvazione non equivale,
afferma il TAR, a fattispecie ostativa ex 15 D.P.R.
380/2001, a norma del quale: "4. Il permesso decade con
l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche,
salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati
entro il termine di tre anni dalla data di inizio.".
Si tratta, si afferma: "di un’interpretazione del dettato
legislativo regionale rispettosa del canone di
ragionevolezza che –ex art. 3 della Costituzione– deve
sempre accompagnare l’esercizio della funzione legislativa,
anche da parte delle Regioni (sulla rilevanza della
“ragionevolezza”, quale parametro costituzionale, si veda,
fra le decisioni più recenti: Corte Costituzionale,
27.06.2013, n. 160).".
A sostegno della tesi cita il TAR la
circolare 19.06.2013, n. 14 (pubblicata sul BURL
21.06.2013, n. 25), con cui la Regione Lombardia ha
stabilito che possono essere riattivate le istanze di
intervento presentate entro il 31.12.2012 ma non definite
per effetto della pregressa disciplina restrittiva, sicché
le novità della LR 1/2013 finiscono per avere un effetto
sostanzialmente retroattivo (ex tunc).
Giova in ultimo ricordare che la questione interpretativa
dei menzionati commi dell’art. 25 della LR 12/2005 ha perso
parzialmente rilevanza, visto che la stessa Regione
Lombardia, con legge regionale 04.06.2013, n. 1, ha
espressamente abrogato i commi in questione (cfr. l’art. 2,
comma 2°, della legge), fissando un nuovo termine per
l’approvazione del PGT per i Comuni rimasti ancora inerti,
al 30.06.2014.
Poiché, tuttavia, il dettato del comma 1 è rimasto il
medesimo ("Gli strumenti urbanistici comunali vigenti
conservano efficacia ..."), la soluzione offerta dal TAR
è utile per la nuova scadenza
(tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it). |
ANNO 2013 |
|
dicembre 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2013,
"Direzione generale Territorio,urbanistica e difesa del
suolo - Esame e valutazione delle domande di iscrizione
all’albo dei commissari ad acta ai fini
dell’esercizio dei poteri sostitutivi regionali in materia
edilizio-urbanistica e paesistico-ambientale, istituito con
legge regionale 11.03.2005, n. 12" (decreto
A.R. 23.12.2013 n. 12733). |
URBANISTICA:
La delibera di approvazione del PGT va
annullata nella parte in cui omette di apprezzare,
attraverso una corretta e completa istruttoria,
quali e quante realtà sociali espressione di
religioni non cattoliche, in ispecie islamiche,
esistano nel Comune, di valutare le loro istanze in
termini di servizi religiosi e di decidere
motivatamente se e in che misura esse possano essere
soddisfatte nel Piano dei servizi.
Il Piano dei servizi, che ai sensi dell’art. 7
della l.r. 12/2005 è una delle articolazioni del PGT, ai
sensi del successivo art. 9, comma 4, “valuta prioritariamente
l'insieme delle attrezzature al servizio delle funzioni
insediate nel territorio comunale… e, in caso di accertata
insufficienza o inadeguatezza delle attrezzature stesse,
quantifica i costi per il loro adeguamento e individua le
modalità di intervento. Analogamente il piano indica… le
necessità di sviluppo e integrazione dei servizi esistenti,
ne quantifica i costi e ne prefigura le modalità di
attuazione..”.
Ai sensi degli artt. 71 e 72 della stessa l.
12/2005, fanno poi parte dei “servizi” che il relativo Piano
deve considerare anche le “attrezzature di interesse comune
destinate a servizi religiosi”, da pianificare “valutate le
istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di
cui all’articolo 70”.
Quest’ultima norma, infine, considera confessioni
religiose le cui istanze vanno valutate non solo la Chiesa
cattolica, ma anche tutte le altre “confessioni religiose
come tali qualificate in base a criteri desumibili
dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata
e stabile nell’ambito del comune ove siano effettuati gli
interventi disciplinati dal presente capo, ed i cui statuti
esprimano il carattere religioso delle loro finalità
istituzionali”. E’ poi del tutto manifesto che tali
caratteri si riconoscono in una religione diffusa a livello
mondiale come l’Islam.
La stessa norma richiama anche una “previa convenzione”
fra le associazioni ed il Comune interessato, richiamo che
però va interpretato in senso conforme alle norme che nel
nostro ordinamento garantiscono la libertà di culto, ovvero
l’art. 19 Cost., l’art. 9 della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo, esecutiva in Italia per la l. 04.08.1955 n. 848 e l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, o Carta di Nizza, 07.12.2000, che
come è noto ha ora il medesimo valore giuridico dei Trattati
europei, ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
In tali termini, la stipula di una convenzione deve
ritenersi richiesta per realizzare opere con “contributi e
provvidenze” pubblici, non già semplicemente per essere
presi in considerazione come realtà sociale ai fini della
programmazione dei servizi religiosi, perché a pensarla
altrimenti ogni Comune potrebbe scegliere in modo
discrezionale di promuovere o avversare una qualche
confessione religiosa rispetto ad altre.
Ciò posto, e a prescindere dalla generica possibilità,
allegata dal Comune, di realizzare altrimenti i servizi
religiosi in base alle norme comuni sulla modifica della
destinazione d’uso di immobili esistenti, possibilità
secondo logica dipendente dalle norme di zona, è accertato
quanto l’associazione afferma, ovvero che (v. doc. 12
ricorrente, copia catalogo servizi esistenti; doc. 11
ricorrente, copia relazione generale al PGT, p. 92 § 10) nel
redigere il Piano dei servizi sono stati considerati
soltanto i servizi religiosi collegati alla Chiesa
cattolica. Per conto, la presenza in Brescia di comunità di
cittadini di religione musulmana è dato notorio a livello
locale e nazionale.
La delibera di approvazione del PGT va pertanto
annullata nella parte in cui omette di apprezzare,
attraverso una corretta e completa istruttoria, quali e
quante realtà sociali espressione di religioni non
cattoliche, in ispecie islamiche, esistano nel Comune, di
valutare le loro istanze in termini di servizi religiosi e
di decidere motivatamente se e in che misura esse possano
essere soddisfatte nel Piano dei servizi
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.12.2013 n. 1176 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Va ricordato il
tenore dell’art. 13, comma 7, della l.r. 12/2005:
“Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per
la presentazione delle osservazioni, a pena di
inefficacia degli atti assunti, il Consiglio
comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale
accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a
pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede
all’adeguamento del documento di piano adottato, nel
caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del
proprio piano territoriale, o con i limiti di cui
all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le
definitive determinazioni qualora le osservazioni
provinciali riguardino previsioni di carattere
orientativo.”
L’effettivo significato della norma è controverso in
giurisprudenza: si rinvia, in quanto necessario,
alla sentenza TAR Lombardia Milano 7508/2010 di cui
si è detto, che mette in dubbio l’effettiva portata
del termine “inefficacia”.
Salva e impregiudicata la relativa questione, è però
certo che la procedura è regolarmente conclusa
allorquando la delibera di approvazione delle
controdeduzioni e di approvazione del piano
intervenga entro i prescritti novanta giorni “dalla
scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni”, che a sua volta, ai sensi del comma 4
dello stesso art. 13, è di trenta giorni dal
deposito.
... per l’annullamento, previa sospensione, della
deliberazione 19.03.2012 n. 57, pubblicata sul BURL il
24.10.2012, con la quale il Consiglio comunale di Brescia ha
approvato in via definitiva le controdeduzioni al Piano di
governo del territorio – PGT e il PGT stesso, nella parte in
cui ha disposto sull’area denominata unità di intervento L 2
1 “Pietra Curva” di proprietà della ricorrente, non
consentendo di realizzarvi una grande struttura di vendita;
...
- con il secondo motivo, corrispondente alla censura seconda
alle pp. 29-30, deduce violazione dell’art. 13, comma 7,
della l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12, per esser stato a suo
dire superato il termine di 90 giorni accordato, sempre a
suo dire a pena di decadenza di tutti gli atti, dalla norma
suddetta per controdedurre alle osservazioni e approvare il
PGT adottato;
...
Il secondo motivo di impugnazione è invece infondato in
fatto.
Per chiarezza, va ricordato il tenore dell’art. 13, comma 7,
della l.r. 12/2005: “Entro novanta giorni dalla scadenza
del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena
di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale
decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le
modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle
osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli
atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di
piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato
elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del
proprio piano territoriale, o con i limiti di cui
all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo.”
L’effettivo significato della norma, così come ricordato
anche dal Comune resistente e riportato in premesse, è
controverso in giurisprudenza: si rinvia, in quanto
necessario, alla sentenza TAR Lombardia Milano 7508/2010 di
cui si è detto, che mette in dubbio l’effettiva portata del
termine “inefficacia”. Salva e impregiudicata la
relativa questione, è però certo che la procedura è
regolarmente conclusa allorquando la delibera di
approvazione delle controdeduzioni e di approvazione del
piano intervenga entro i prescritti novanta giorni “dalla
scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni”,
che a sua volta, ai sensi del comma 4 dello stesso
art. 13, è di trenta giorni dal deposito (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.12.2013 n. 1168 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 52 del 27.12.2013, "Disposizioni
per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria
regionale, ai sensi dell’art. 9-ter della legge regionale
31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure della
programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della
Regione) - Collegato 2014" (L.R.
24.12.2013 n. 19).
---------------
Di particolare interesse, si leggano:
●
Art. 1 -
(Disposizioni per la pianificazione dei comuni di nuova
istituzione. Modifica alla l.r. 12/2005)
●
Art. 3 -
(Misure di razionalizzazione della spesa per le comunità
montane)
●
Art. 15 -
(Disposizioni transitorie e finali) |
URBANISTICA:
Il comma 7 dell’art. 13 l.r. 12/2005 dispone che
"Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle
stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni.
Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti,
provvede all’adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15,
comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni
qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di
carattere orientativo”.
La norma in questione, alla lettera, prevede una sanzione di
inefficacia degli “atti” assunti per adottare il PGT ove le
relative osservazioni non vengano decise entro un termine.
Ad avviso del Collegio, però, l’interpretazione di detta
norma -controversa in giurisprudenza anche in rapporto ai
veri e propri atti di adozione, vedasi TAR Lombardia Milano
sez. II 10.12.2010 n. 7508- non va estesa agli atti
istruttori, per i quali una inefficacia non è a priori
configurabile, trattandosi di atti endoprocedimentali, che
di efficacia mancano per natura e potrebbero se mai essere
colpiti, a somiglianza degli atti istruttori penali, da una
inutilizzabilità, che però non è nella legge.
Il primo motivo del primo ricorso
per motivi aggiunti va respinto.
La ricorrente invoca il
comma 7 dell’art. 13 l.r. 12/2005, per cui “Entro novanta
giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale
accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena
d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento
del documento di piano adottato, nel caso in cui la
provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le
previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con
i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere
le definitive determinazioni qualora le osservazioni
provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
La norma in questione, alla lettera, prevede una sanzione
di inefficacia degli “atti” assunti per adottare il PGT ove
le relative osservazioni non vengano decise entro un
termine.
Ad avviso del Collegio, però, l’interpretazione di
detta norma -controversa in giurisprudenza anche in rapporto
ai veri e propri atti di adozione, vedasi TAR Lombardia
Milano sez. II 10.12.2010 n. 7508, citata anche dal
Comune (memoria 02.11.2013 p. 18)- non va estesa agli
atti istruttori, per i quali una inefficacia non è a priori
configurabile, trattandosi di atti endoprocedimentali, che
di efficacia mancano per natura e potrebbero se mai essere
colpiti, a somiglianza degli atti istruttori penali, da una
inutilizzabilità, che però non è nella legge.
Nulla vietava
quindi che il Comune riadattasse il Piano con la precedente
istruttoria (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.12.2013 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2013 |
|
URBANISTICA:
La giurisprudenza interpreta la locuzione
legislativa “procedure in corso alla data del 31.03.2010”
(ex art. 26, comma 3-ter, l.r. 12/2005) ritenendo
sufficiente l’avvio, a tale data, del procedimento di
approvazione del piano, senza richiedere che sia
intervenuta, alla ridetta data, la deliberazione del
Consiglio comunale di adozione del piano, che dovrà essere
successivamente approvato.
Tale interpretazione, oltre che avvalorata da
un’interpretazione sistematica della richiamata normativa
regionale, appare coerente con i principi generali sul
procedimento amministrativo, di cui alla legge n. 241/1990,
principi certamente applicabili alle procedure comunali di
variante urbanistica (cfr. art. 29 della legge 241/1990).
L’art. 26 della legge regionale n. 12/2005, al co.
3-ter (introdotto dall’art. 21, comma 1, lett. b), della
legge regionale 7/2010), prevede che:
“Fatta comunque salva la conclusione, anche agli effetti di
variante urbanistica, delle procedure in corso alla data del
31.03.2010, per i comuni che alla medesima data non hanno
adottato il PGT non trovano applicazione le disposizioni di
cui all’articolo 25, comma 1,...” (norma che, come noto,
permette a determinate condizioni l’approvazione di piani
attuativi in variante al PRG).
La giurisprudenza interpreta la locuzione legislativa
“procedure in corso alla data del 31.03.2010” ritenendo
sufficiente l’avvio, a tale data, del procedimento di
approvazione del piano, senza richiedere che sia
intervenuta, alla ridetta data, la deliberazione del
Consiglio comunale di adozione del piano, che dovrà essere
successivamente approvato (cfr., in tal senso, TAR
Lombardia, Milano, II, 26.07.2011 n. 1992, che valorizza la
previsione di cui all’art. 14 della l.r. n. 12/2005 -il
quale prevede, per i piani attuativi di iniziativa privata,
che l’istruttoria sia condotta dai competenti uffici
comunali, i quali, in caso di esito positivo, propongono
l’adozione del piano all’organo politico competente– onde
inferirne che, la deliberazione di adozione da parte del
Consiglio comunale non può che intervenire al termine della
positiva istruttoria condotta dagli uffici, giacché, in caso
contrario, la proposta di piano di iniziativa privata non
sarebbe posta all’attenzione dell’organo consiliare).
Tale interpretazione, oltre che avvalorata da
un’interpretazione sistematica della richiamata normativa
regionale, appare coerente con i principi generali sul
procedimento amministrativo, di cui alla legge n. 241/1990,
principi certamente applicabili alle procedure comunali di
variante urbanistica (cfr. art. 29 della legge 241/1990)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.10.2013 n. 2336 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
settembre 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA: La
l.r. lombarda n. 93/1980, nel disciplinare in modo puntuale
i limiti dell'utilizzazione edilizia delle zone agricole,
con l'individuazione tipologica degli interventi ammessi, la
loro necessaria connotazione funzionale all'esercizio delle
attività agricole, l'enucleazione di restrittivi indici
fondiari ed edilizi, il collegamento imprescindibile con
ineludibili requisiti soggettivi è ispirata ad una
trasparente ratio tesa a evitare e minimizzare il c.d.
consumo di suolo.
In tale prospettiva, mentre deve evidentemente escludersi
che gli strumenti urbanistici possano modificare in senso
ampliativo i predetti limiti e parametri, non può viceversa
sostenersi che, sia pure con specifica e congrua
motivazione, essi non possano, invece, introdurre
limitazioni più penetranti, col limite ovvio di non poter
precludere l'utilizzazione agricola, la conservazione dei
manufatti esistenti, la loro ristrutturazione a fini e usi
produttivi.
La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo di
chiarire che "Nella regione Lombardia l'art. 2 l.r.
07.06.1980 n. 93, nel prevedere la normativa applicabile nei
territori dei comuni per le zone agricole E, non ha precluso
all'autorità urbanistica l'esercizio del più pieno potere di
pianificazione del territorio anche in funzione di
salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici, con la
conseguenza che le disposizioni da esso introdotte si
applicano in via sussidiaria ove manchino specifiche
prescrizioni dello strumento urbanistico, e non rendono
illegittime le scelte inerenti alla assoluta inedificabilità
e immodificabilità delle aree agricole, ovvero quelle che
subordinano l'identificazione delle possibili modifiche
all'adozione di un piano attuativo, volto alla razionale
gestione del territorio posto all'interno dell'istituendo
parco".
L'art. 4 della legge, nello stabilire che "Le disposizioni
di cui agli artt. 2 e 3 della presente legge sono
immediatamente prevalenti sulle norme e sulle previsioni
degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e di
igiene comunali che risultino in contrasto con esse",
intende soltanto evidenziare che diverse e/o più favorevoli
prescrizioni, condizioni, indici e parametri eventualmente
previsti negli strumenti urbanistici e nei regolamenti
comunali sono sostituiti in via diretta e automatica, previa
doverosa disapplicazione, da quelli contemplati direttamente
dalla legge regionale, che ha contenuti immediatamente
precettivi e non richiede, quindi, l'avvio di alcuna
procedura di recepimento mediante variante urbanistica.
---------------
La legge regionale lombarda n. 12/2005, a differenza della
legge regionale n. 93/1980, ha espressamente indicato e
previsto che gli strumenti urbanistici comunali debbano
recepire le prescrizioni ivi recate relative alle aree
destinate all'agricoltura, dovendo assicurare la
"conformità" della normativa d'uso, valorizzazione e
salvaguardia di livello comunale con i requisiti,
condizioni, limiti e parametri direttamente individuati
dagli artt. 59 e 60.
Il giudice amministrativo lombardo
muove, in effetti, da una erronea interpretazione dell'art.
4 della l.r. n. 93/1980 e più in generale sul rapporto tra
le previsioni della predetta legge regionale e i poteri
pianificatori comunali in assenza di strumenti di
pianificazione intermedia con valenza anche paesistico-ambientale.
La legge regionale 07.06.1980, n. 93, nel disciplinare in
modo puntuale i limiti dell'utilizzazione edilizia delle
zone agricole, con l'individuazione tipologica degli
interventi ammessi, la loro necessaria connotazione
funzionale all'esercizio delle attività agricole,
l'enucleazione di restrittivi indici fondiari ed edilizi, il
collegamento imprescindibile con ineludibili requisiti
soggettivi (riconosciuto pienamente legittimo dalla nota
sentenza della Corte Costituzionale, 16.05.1995, n. 167)
è ispirata ad una trasparente ratio tesa a evitare e
minimizzare il c.d. consumo di suolo.
In tale prospettiva, mentre deve evidentemente escludersi
che gli strumenti urbanistici possano modificare in senso
ampliativo i predetti limiti e parametri, non può viceversa
sostenersi che, sia pure con specifica e congrua
motivazione, essi non possano, invece, introdurre
limitazioni più penetranti, col limite ovvio di non poter
precludere l'utilizzazione agricola, la conservazione dei
manufatti esistenti, la loro ristrutturazione a fini e usi
produttivi.
La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo di
chiarire che "Nella regione Lombardia l'art. 2 l.r.
07.06.1980 n. 93, nel prevedere la normativa applicabile nei
territori dei comuni per le zone agricole E, non ha precluso
all'autorità urbanistica l'esercizio del più pieno potere di
pianificazione del territorio anche in funzione di
salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici, con la
conseguenza che le disposizioni da esso introdotte si
applicano in via sussidiaria ove manchino specifiche
prescrizioni dello strumento urbanistico, e non rendono
illegittime le scelte inerenti alla assoluta inedificabilità
e immodificabilità delle aree agricole, ovvero quelle che
subordinano l'identificazione delle possibili modifiche
all'adozione di un piano attuativo, volto alla razionale
gestione del territorio posto all'interno dell'istituendo
parco" (Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.2007, n. 860).
L'art. 4 della legge, nello stabilire che "Le disposizioni
di cui agli artt. 2 e 3 della presente legge sono
immediatamente prevalenti sulle norme e sulle previsioni
degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e di
igiene comunali che risultino in contrasto con esse",
intende soltanto evidenziare che diverse e/o più favorevoli
prescrizioni, condizioni, indici e parametri eventualmente
previsti negli strumenti urbanistici e nei regolamenti
comunali sono sostituiti in via diretta e automatica, previa
doverosa disapplicazione, da quelli contemplati direttamente
dalla legge regionale, che ha contenuti immediatamente
precettivi e non richiede, quindi, l'avvio di alcuna
procedura di recepimento mediante variante urbanistica.
In tale chiave interpretativa si comprende anche la
previsione contenuta nell'art. 2, comma 7, della legge, a
tenore della quale "Le disposizioni di cui al comma 2°, 3°,
4°, 5° e 6° del presente articolo si applicano fino
all'approvazione del piano territoriale comprensoriale di
cui alla sezione II, titolo II, della legge regionale 15.04.1975, n. 51", che ha inteso evidentemente demandare
l'individuazione di una più articolata e specifica
disciplina dell'utilizzazione delle zone agricole allo
strumento di pianificazione intermedio di livello
comprensoriale, al quale rimane affidata la funzione di
dettare una normativa rapportata agli ambiti territoriali di
riferimento, e quindi in grado di valutare e valorizzare le
loro precipue caratteristiche.
In altri termini, se il piano territoriale comprensoriale
(strumento rimasto inattuato, come pure riconosciuto dal
giudice amministrativo lombardo, salvo che per la provincia
di Lodi) avrebbe potuto introdurre nuovi, diversi, anche più
ampliativi, limiti e parametri, non per questo ai comuni era
precluso, nell'esercizio del potere di pianificazione,
l'enucleazione di limiti e parametri più restrittivi, e ciò
anche in vista di esigenze di tutela lato sensu ambientale e
paesistica.
Non può infatti obliterarsi che l'art. 18, comma 1, n. 1)
della stessa della legge regionale 15.04.1975, n. 51
(recante "Disciplina urbanistica del territorio regionale e
misure di salvaguardia del patrimonio naturale e
paesistico") demandava ai piani regolatori comunali, tra
l'altro, di individuare "le aree agricole, di riserva
naturale e di tutela dei beni paesaggistici", e che nella
diversa forma del territorio possono essere e sono
normalmente compresenti in una stessa area valenze
produttive e connotazioni naturalistiche, ambientali e
paesistiche.
Né ai fini della corretta interpretazione dell'art. 4 della
l.r. n. 93/1980 può soccorrere, al contrario di quanto
opinato dal giudice amministrativo bresciano, la
disposizione dell'art. 61 della l.r. 11.03.2005, n. 12
(recante "Legge per il governo del territorio"), ossia la
successiva legge urbanistica regionale, poiché la
inderogabilità delle previsioni e prescrizioni di cui agli
artt. 59 e 60 della medesima ivi si ricollega alla
vincolante e specifica indicazione di cui al precedente art.
10, comma 4, lettera a), n. 1), secondo cui "Il piano delle
regole: a) per le aree destinate all'agricoltura: 1) detta
la disciplina d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia, in
conformità con quanto previsto dal titolo terzo della parte
seconda".
In altri termini, la legge regionale n. 12/2005, a
differenza della legge regionale n. 93/1980, ha
espressamente indicato e previsto che gli strumenti
urbanistici comunali debbano recepire le prescrizioni ivi
recate relative alle aree destinate all'agricoltura, dovendo
assicurare la "conformità" della normativa d'uso,
valorizzazione e salvaguardia di livello comunale con i
requisiti, condizioni, limiti e parametri direttamente
individuati dagli artt. 59 e 60
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.09.2013 n. 4848 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2013 |
|
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Approvazione P.G.T. e misure di salvaguardia
(Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio,
Urbanistica e Difesa del suolo,
risposta e-mail del 12.07.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2013, "Testo
coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il
governo del territorio»". |
giugno 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 21.06.2013, "Indirizzi
per l’applicazione delle norme transitorie per la
pianificazione comunale (l.r. 1/2013)"
(circolare
regionale 19.06.2013 n. 14). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 23 del 05.06.2013,
"Disposizioni transitorie per la pianificazione
comunale. Modifiche alla legge regionale 11.03.2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio)" (L.R.
04.06.2013 n. 1). |
maggio 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Disposizioni transitorie per la pianificazione comunale.
Modifiche alla legge regionale 11.03.2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio)
(LCR
n. 1 approvata nella seduta del 28.05.2013
in attesa di pubblicazione sul BURL - tratto
da www.consiglio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lombardia, proroga PGT: 31.12.2013 per l'adozione e
30.06.2014 per l'approvazione definitiva.
Termine ultimo fissato al 31.12.2013 per l'adozione e al
30.06.2014 per l'approvazione definitiva dei Piani di
Governo del Territorio (PGT) nei Comuni che sono in ritardo
sul varo del provvedimento urbanistico. E’ quanto ha deciso
oggi il Consiglio regionale con 62 voti a favore e 9
contrari, approvando la legge che introduce anche sanzioni e
penalizzazioni per quei Comuni che alle scadenze indicate
dovessero risultare ancora inadempienti: a favore si sono
espressi i gruppi PdL, Lega Nord, Maroni Presidente,
Fratelli d’Italia, Pensionati, PD e Patto Civico Ambrosoli,
contrari i soli rappresentanti del Movimento 5 Stelle.
“La tempestività dimostrata in Commissione -ha commentato
il relatore del provvedimento e presidente della Commissione
Alessandro Sala (Maroni Presidente)- ci ha consentito oggi
di licenziare un provvedimento importante e necessario,
senza il quale i Comuni ancora inadempienti si troverebbero
in una situazione di blocco totale legata a qualsiasi
attività edilizia, con grave danno per i cittadini, per le
imprese, per tutto il settore edilizio e per il relativo
indotto, peraltro in un periodo di gravissima crisi
economica e occupazionale. La nostra gente –ha concluso
Alessandro Sala– vuole dalla politica tempi sempre più
stretti per risolvere i problemi. Possiamo ben dire che la
Commissione e questo Consiglio sono stati e sono oggi dalla
parte del cittadino, e hanno messo al bando le lungaggini”.
Nello specifico, in caso di mancata adozione del PGT entro
il 31.12.2013, i Comuni inadempienti saranno esclusi
dall’accesso al patto di stabilità territoriale per l’anno
2014 e il mancato rispetto di tale scadenza costituirà un
indicatore negativo nell’indice di virtuosità. In caso di
mancata approvazione del PGT entro il termine del
30.06.2014, la Giunta regionale, previa diffida ad adempiere
entro 60 giorni, nominerà un commissario ad acta il
quale disporrà degli uffici tecnici comunali e regionali di
supporto nonché dei poteri idonei a completare la procedura
di approvazione del piano.
Nei Comuni che entro il 30.06.2014 non avranno approvato il
PGT, dal 01.07.2014 e fino all’approvazione del PGT, sono
ammessi unicamente i seguenti interventi:
a) nelle zone omogenee A, B, C e D individuate dal
previgente PRG, interventi sugli edifici esistenti nelle
sole tipologie di cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b)
c)
b) nelle zone omogenee E e F individuate dal previgente PRG,
gli interventi che erano consentiti dal PRG o da altro
strumento urbanistico;
c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati
e convenzionati entro il 30.06.2014, con convenzione non
scaduta.
Via libera a due emendamenti similari presentati
rispettivamente dal capogruppo del PdL Mauro Parolini e dal
capogruppo della Lega Nord Massimiliano Romeo che
consentono, ai soli Comuni che avevano già approvato il
documento di piano entro il 2009, di poter apportare
modifiche allo stesso documento di piano fino al 31.12.2014.
Un emendamento dell’assessore Viviana Beccalossi, approvato
all’unanimità, prevede speciali deroghe per i Comuni
terremotati. Pur preservando il regime di controlli e tutele
alle varianti urbanistiche, saranno dimezzati i tempi per
l’autorizzazione delle opere, al fine di garantire la
partenza degli interventi di ricostruzione in modo più
rapido e snello.
I Comuni che alla data di entrata in vigore della legge non
hanno approvato il PGT non possono in ogni caso dar corso o
seguito a procedure di variante al vigente PRG. È sempre
ammessa l’approvazione di accordi di programma e dei
programmi integrati di intervento nonché dei progetti di
variante di cui allo sportello unico per le attività
produttive.
Via libera infine anche a un ordine del giorno presentato
dal capogruppo del Patto Civico Ambrosoli Lucia Castellano e
dal Consigliere del PD Jacopo Scandella che chiede alla
Giunta regionale di introdurre nuovi strumenti per
incentivare la pianificazione d’area vasta che interessi in
particolar modo i piccoli Comuni.
Apprezzamento e soddisfazione per l’approvazione del
provvedimento è stata espressa dai Consiglieri Mauro
Parolini del PdL, Roberto Anelli della Lega Nord, Riccardo
De Corato di Fratelli d’Italia, Alessandro Alfieri del PD e
Paolo Micheli del Patto Civico Ambrosoli, mentre il voto
contrario del Movimento 5 Stelle è stato annunciato da
Gianmarco Corbetta.
In Lombardia su 1544 Comuni sono 1007 quelli che hanno
approvato definitivamente il PGT: 213 hanno solo avviato il
piano e 324 lo hanno adottato. Mancano all'appello anche
città capoluogo di provincia come Lecco e Varese, dove il
PGT è stato solo avviato, e Como e Pavia, dove manca ancora
l'approvazione definitiva (28.05.2013 - link a
www.lombardiaquotidiano.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Pgt, sblocco 3000 cantieri, investimenti per 500 milioni.
"Con il Progetto di legge approvato oggi Regione
Lombardia dispone di uno strumento di pianificazione con
molti pregi: diamo tempo a tutti i Comuni di dotarsi entro
giugno 2014 del loro Piano di governo del territorio e,
fatto non irrilevante nel momento di crisi che stiamo
vivendo, facciamo ripartire un settore fondamentale come
quello edilizio, avviando 3.000 cantieri".
Questo il commento dell'assessore regionale al Territorio,
Urbanistica e Difesa del suolo dopo il via libera da parte
del Consiglio regionale al Progetto di legge 28, che
contiene le modifiche alla Legge 12 (Legge per il Governo
del Territorio), con lo scopo di regolare la situazione dei
circa 500 Comuni lombardi che ancora non hanno concluso
l'iter del proprio Pgt. Con le nuove norme, i Comuni
interessati dovranno approvarlo definitivamente entro il
30.06.2014.
GESTIONE EQUILIBRATA E SOSTENIBILE
- "Le nuove regole -ha continuato l'assessore-
garantiscono al territorio lombardo una gestione equilibrata
e sostenibile. Allo stesso tempo, si torna a permettere di
investire a chi vuole farlo, dagli imprenditori edili ai
cittadini, che vogliono ristrutturare casa. Le stime parlano
di un valore di 500 milioni di euro pronti ad essere spesi
facendo ripartire i lavori".
ATTENZIONE A PICCOLI COMUNI
- Tra i provvedimenti previsti ha particolare rilevanza
quello pensato soprattutto per i Comuni più piccoli, in
difficoltà con la predisposizione del proprio Pgt per
carenza di strutture e competenze. A richiesta del sindaco,
infatti, Regione Lombardia metterà a disposizione i propri
tecnici, per supportare il Comune a chiudere la pratica.
EMENDAMENTO PER MANTOVA
- Un emendamento molto atteso in provincia di Mantova,
invece, prevede speciali deroghe ai Comuni terremotati. Pur
preservando il regime di controlli e tutele alle varianti
urbanistiche, saranno dimezzati i tempi per l'autorizzazione
delle opere, al fine di garantire la partenza degli
interventi di ricostruzione in modo più rapido e snello.
I DATI PER PROVINCIA
- Di seguito la suddivisione per provincia dei Comuni
sprovvisti di Pgt, i cantieri bloccati e il relativo valore
economico (dati Ance - Associazione nazionale costruttori
edili aggiornati al 01.03.2013):
Milano: 38 - 278 - 50.726.410 euro
Bergamo: 82 - 351 - 51.597.930 euro
Brescia: 45 - 313 - 42.586.606 euro
Como: 77 - 497 - 72.541.488 euro
Cremona: 13 - 34 - 3.490.894 euro
Lecco: 35 - 240 - 33.235.379 euro
Lodi: 21 - 56 - 6.573.495 euro
Mantova:17 - 92 - 8.929.792 euro
Monza: 14 - 171 - 35.940.973 euro
Pavia: 62 - 177 - 19.738.969 euro
Sondrio:41 - 236 - 30.274.536 euro
Varese: 67 - 689 - 108.306.882 euro (28.05.2013 -
link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: applicazione art. 43, comma 2-bis e seguenti
della l.r. 12/2005 (Regione Lombardia - Direzione
Generale Agricoltura - Sviluppo di Sistemi Forestali,
Agricoltura di Montagna, Uso e Tutela del Suolo Agricolo,
nota 16.05.2013 n. 34319 di prot.).
---------------
... con la presente si forniscono chiarimenti
interpretativi in ordine all’applicazione della
maggiorazione del contributo di costruzione nel caso di
rilascio di titoli abilitativi relativi all’attuazione di
piani di lottizzazioni, piani di intervento integrato o
altre iniziative comunali, alla base dei quali vi sia una
convenzione con l’operatore privato approvata
dall’amministrazione comunale in data antecedente il
12.04.2009 (data di entrata in vigore della norma, ovvero
tre mesi dal 12/01/2009 data di pubblicazione sul B.U.R.L.
della d.g.r. n. 8757/2008). (... continua). |
aprile 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lombardia -
PGT, la Giunta propone come scadenza il 30.06.2014.
La Giunta regionale ha approvato la proposta di Progetto di
legge che riguarda i Comuni della Lombardia che si trovano
nella situazione di aver solo avviato (218) o adottato (337)
il Piano di governo del territorio (Pgt).
Il documento, presentato dall'assessore al Territorio,
Urbanistica e Difesa del suolo Viviana Beccalossi, prevede
che questi Comuni regolarizzino la loro situazione e indica
nella data del 30.06.2014 il termine ultimativo per
concludere le procedure.
Il Progetto di legge prevede altresì che, qualora lo
ritengano necessario, i Comuni possano contare sul sostegno
e la collaborazione dei tecnici della Regione o della loro
Provincia per redigere il Pgt.
SUPPORTO TECNICO
- Il Progetto di legge sarà differenziato secondo il 'grado'
di avanzamento dell'iter del PGT dei Comuni. L'iter prevede,
infatti, una prima fase di avviamento, l'approvazione e
l'adozione. Terminati questi passaggi, il Piano di governo
del territorio, che riguarda i 1.544 Comuni lombardi, può
considerarsi effettivo.
UNIFORMITÀ DI METODO
- "A tale proposito -ha sottolineato l'assessore
Beccalossi- ho ritenuto importante e doveroso incontrare
subito e personalmente gli assessori provinciali che si
occupano di questa materia, per condividere un percorso, che
abbia nella concretezza il motivo portante del nostro
lavoro. Così come mi sono confrontata con l'Anci,
l'Associazione nazionale Comuni italiani e con l'Ance,
l'Associazione nazionale Costruttori edili, che hanno
valutato positivamente il modo di procedere. Il nostro
obiettivo principale è di regolarizzare la situazione
complessiva e dotare tutti i Comuni di uno strumento di
pianificazione moderno e omogeneo".
Ora il provvedimento passa al vaglio del Consiglio
regionale, che dovrà valutarlo e approvarlo definitivamente.
NUOVA LINFA ALL'ECONOMIA
- "Questa proposta -ha concluso l'assessore Beccalossi-,
in un periodo di grave crisi come quello che stiamo vivendo,
ha anche una valenza economica. Infatti nei Comuni
interessati sarà possibile porre in essere una serie di
interventi fino a oggi bloccati, che daranno una boccata
d'ossigeno ai settori produttivi di competenza e al relativo
indotto che gli stessi potranno generare sui singoli
territori" (... continua)
(16.04.2013 - link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: PROPOSTA DI PROGETTO DI LEGGE "MODIFICHE ALLA
L.R. 12/2005 - 'LEGGE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO'" (deliberazione
di G.R. 16.04.2013 n. 34 - tratto da
www.anci.lombardia.it). |
marzo 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA: L'art.
25 della L.R. 12/2005, come modificato da ultimo dalla L.R.
21/2012, non sembra imporre un’automatica decadenza dei
titoli edilizi ai sensi dell’art. 15, comma 4, del DPR
380/2001, quanto piuttosto una loro sospensione, in attesa
della definitiva approvazione del Piano di Governo del
Territorio (PGT).
... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento prot. 2647/13 del 14.01.2013;
- di ogni atto preordinato, conseguente e comunque connesso,
con particolare riguardo all'ordine di sospensione dei
lavori n. 396/13 del 21.01.2013, nonché ove occorra ai
verbali della Polizia Locale di Como del 01.01.2013 e
dell'11.01.2013;
...
Considerato che:
- dal momento del rilascio del permesso di costruire,
l’esponente non è rimasta inerte, provvedendo alla notifica
preliminare di inizio cantiere di cui all’art. 99 del D.Lgs.
81/2008, alla stipulazione del contratto d’appalto ed alla
progettazione (cfr. i documenti dal n. 10 al n. 18 della
ricorrente), sicché deve escludersi l’assenza di un idoneo
intento costruttivo in capo alla ricorrente, visto anche il
periodo di ferie natalizie successivo al rilascio del
titolo;
- l’art. 25 della legge regionale 12/2005, come modificato
da ultimo dalla legge regionale 21/2012, non sembra imporre
un’automatica decadenza dei titoli edilizi ai sensi
dell’art. 15, comma 4, del DPR 380/2001, quanto piuttosto
una loro sospensione, in attesa della definitiva
approvazione del Piano di Governo del Territorio (PGT);
- sono apprezzabili anche i profili del periculum in mora,
visto che si tratta dell’unico intervento edilizio della
società ricorrente, che sarebbe irrimediabilmente
pregiudicata dall’esecuzione del provvedimento (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 25.03.2013 n. 363 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
In merito alla suddetta ordinanza si legga un primo
commento dell'Avv. Lorenzo Spallino:
Collegato Ordinamentale 2013 e titoli edilizi rilasciati
ante 31.12.2012
(27.03.2013 - link a http://studiospallino.blogspot.it). |
febbraio 2013 |
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URBANISTICA:
Lombardia,
MONITORAGGIO DEI COMUNI CHE NON HANNO APPROVATO IL PGT ENTRO
IL 31.12.2012 (link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
U. Grella,
Alcune volte il “sonno
urbanistico” provoca incubi (a proposito della
recente L.R. lombarda n. 21/2012 in materia di P.G.T.) (01.02.2013). |
gennaio 2013 |
|
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
L.R. n. 21 del 24.12.2012 – Decadenza
PRG – Applicazione delle misure di salvaguardia
(Fondazione de Iure Publico, Centro Studi Giuridici sulla
Pubblica Amministrazione - tratto da www.deiurepublico.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Lombardia,
Nuove disposizioni urbanistiche introdotte nella l.r. n. 12
del 2005 dalla l.r. n. 21 del 2012.
In materia di disciplina urbanistico-edilizia nei Comuni
privi di PGT il legislatore regionale è intervenuto nelle
scorse settimane dettando alcune disposizioni integrative
dell'art. 25 della
l.r. n. 12 del 2005; più precisamente, l'art. 4 della
l.r. n. 21 del 24.12.2012 (pubblicata sul BURL,
Supplemento n. 52 del 28.12.2012) ha inserito nel citato
art. 25 della l.r. n. 12 del 2005 i commi 1-ter, 1-quater e
1-quinquies.
Con la sola eccezione dei Comuni terremotati e in dissesto
finanziario dichiarato, è confermata la
perdita di efficacia dei previgenti PRG alla data prevista
dal comma 1 del predetto art. 25, ovvero il 31.12.2012;
sotto questo profilo, la soluzione inizialmente proposta
dalla Giunta regionale, che intendeva diversificare tra
Comuni che alla stessa data avessero adottato il PGT e
Comuni che invece non l'avessero adottato, non è stata alla
fine condivisa dal Consiglio regionale.
La scelta del legislatore regionale è stata piuttosto quella
di precisare, per tutti i Comuni divenuti privi di
strumentazione urbanistica, gli interventi possibili fino
all'approvazione del PGT; queste
disposizioni (nuovo comma 1-quater) sono evidentemente
sostitutive della disciplina generale statale stabilita per
i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, dettata
dall'art. 9 del d.p.r. n. 380 del 2001 che, infatti, al
comma 1 fa espressamente "salvi i più restrittivi limiti
fissati dalle leggi regionali".
Si precisa che la declaratoria degli interventi ammessi
(lett. a - b - c del comma 1-quater) ha
carattere esaustivo,
come attestato dall'uso dell'avverbio "unicamente";
pertanto, sono da considerare precluse
iniziative edificatorie diverse che non siano riconducibili
agli interventi espressamente contemplati dalla norma; in
particolare, non sono attivabili iniziative in variante al
(non più vigente) PRG, come gli accordi di programma, i
programmi integrati di intervento e i SUAP ex art. 97 della
l.r. n. 12 del 2005, come pure gli interventi ex lege
in deroga a specifiche previsioni di PRG (ad es. sottotetti,
parcheggi pertinenziali, riconversione di coperture in
cemento amianto, edifici ed impianti pubblici o di interesse
pubblico).
Si rammenta che gli interventi in deroga previsti dalla
disciplina a valenza temporanea del cosiddetto piano casa
regionale (art. 3, 4, 5 e 6 della
l.r. n. 4 del 2012) sono espressamente esclusi dal nuovo
comma 1-quinquies dell'art. 25 della l.r. n. 12 del 2005,
aggiunto dalla l.r. n. 21 del 2012.
Per quanto riguarda i cambi di destinazione
d'uso, connessi o non a opere edilizie, sono da considerare
in ogni caso preclusi, non potendo evidentemente essere
verificata la conformità "alle previsioni urbanistiche
comunali", richiesta dall'art. 52 della l.r. n. 12 del
2005.
Ovviamente, a seguito dell'adozione del PGT, intervenuta sia
entro il 31.12.2012 sia successivamente, gli interventi
ammessi secondo il nuovo comma 1-quater dell'art. 25 della
l.r. n. 12 del 2005 devono essere altresì verificati con le
previsioni adottate, operanti in regime di salvaguardia ex
art. 13, comma 12, della stessa l.r. n. 12 del 2005.
Si precisa che nei casi in cui alla data del 31.12.2012
risulti intervenuta l'approvazione definitiva del PGT ma non
ancora la relativa pubblicazione sul BURL che ne determina
l'efficacia ex art. 13, comma 11, della l.r. n. 12 del 2005,
nelle more di quest'ultimo adempimento e dunque anche oltre
la predetta data, non viene meno l'efficacia dei PRG; a tale
conclusione si deve addivenire sia in ragione del disposto
per il quale le salvaguardie del PGT trovano applicazione
per l'appunto fino alla "pubblicazione dell'avviso di
approvazione degli atti di PGT" (cfr. art. 13, comma 12,
della l.r. n. 12 del 2005), sia perché la sopra richiamata
disciplina restrittiva di cui al comma 1-quater, che il
legislatore regionale ha inteso dettare a fronte della
sopravvenuta inefficacia del PRG, è stata dallo stesso
legislatore espressamente riferita ai "Comuni che entro
il 31.12.2012 non hanno approvato il PGT".
Per quanto riguarda le procedure edilizie in corso alla data
del 31.12.2012, il nuovo comma 1-quinquies dell'art. 25 fa
espressamente "salve le istanze di permesso di costruire
e le denunce di inizio attività presentate entro il
31.12.2012" relativamente agli interventi in deroga
consentiti dal cosiddetto piano casa regionale (art. 3, 4, 5
e 6 della l.r. n. 4 del 2012). Non essendosi il legislatore
regionale espresso nei medesimi termini relativamente ad
altre iniziative edificatorie parimenti in corso di
definizione, tutti gli interventi non
riconducibili alla declaratoria di cui al comma 1-quater
(lett. a - b - c) sono da considerare preclusi a far tempo
dal 01.01.2013, compresi quelli oggetto di istanze di
permesso di costruire non definite con l'avvenuto rilascio
del titolo entro il 31.12.2012, ovvero di denunce di inizio
attività presentate successivamente al 01.12.2012.
Milano, il 16.01.2013 - Direzione Generale Territorio
e Urbanistica (link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
"Servizi religiosi" e normativa urbanistica.
Con
sentenza 04.01.2013 n. 21 il TAR Lombardia-Milano, Sez.
II, si pronuncia sull’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005, che
ammette la realizzazione di “nuove attrezzature per i
servizi religiosi” esclusivamente nelle aree
classificate a standard fino all’approvazione del piano dei
servizi, giudicando indimostrato, nel caso di specie, che
una richiesta di permesso di costruire per cambio di
destinazione d’uso avanzata da un’associazione di diritto
privato per la realizzazione di un centro culturale possa
rientrare in tale definizione ed essere sottoposta a tale
disciplina.
L’Unione Comunità islamica valtellinese è un’associazione
che ha come scopo statutario “la realizzazione di
iniziative utili sia a promuovere la conoscenza dell’Islam
in Italia che a rendere più autenticamente islamica la vita
delle famiglie musulmane in Italia”.
Proprietaria di un immobile a Sondrio, presenta in Comune
una richiesta di permesso di costruire per cambio di
destinazione d’uso “per l’adeguamento degli spazi
attualmente destinati a palestra per la realizzazione di un
centro culturale con relativi servizi”.
Il Comune, con preavviso di rigetto ex art. 10-bis l.
241/1990, rappresenta la mancanza del parere di conformità
alla normativa antincendio (ex art. 2 d.p.r. 37/1998),
assimilando l’attività dell’associazione a quella dei “locali
di spettacolo e trattenimento in genere con capienza
superiore a 100 posti” (n. 83 dell’allegato al d.m.
16.02.1982).
Successivamente, il Comune comunica il diniego definitivo di
permesso di costruire, fondato essenzialmente su ragioni di
natura urbanistica, asserendo il contrasto del progetto con
le previsioni di PRG relative alla zona B1 e la violazione
dell’art. 72, co. 4-bis, della l.r. 12/2005.
Tuttavia, sostiene il TAR, non è stato
dimostrato che la destinazione richiesta dall’Associazione
sia riconducibile alle “nuove attrezzature per i servizi
religiosi” di cui all’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005
e, di conseguenza, non è possibile stabilire la
compatibilità della destinazione richiesta con quelle
ammesse nella zona di ubicazione dell’immobile da parte
della pianificazione comunale.
In particolare, il giudice amministrativo rileva e censura
la discrasia tra preavviso di diniego e diniego definitivo:
quest’ultimo, come detto, fa riferimento a questioni
urbanistiche di cui il preavviso di diniego non fa menzione,
con ciò integrando una violazione dell’art. 10-bis l.
241/1990.
Scopo precipuo del preavviso di diniego, ove correttamente
effettuato, è quello di garantire un apporto in funzione
collaborativa da parte dell’interessato nel procedimento
amministrativo. Nella vicenda in esame, invece,
l’amministrazione (“in modo parziale e incompleto”)
ha omesso di riferire in via preliminare sulle possibili
problematiche di carattere urbanistico, pregiudicando così
l’apporto collaborativo dell’Unione Comunità islamica
valtellinese.
Un apporto del richiedente sarebbe stato sicuramente
auspicabile e avrebbe potuto fare maggior chiarezza sulla
natura dell’Unione, in funzione della corretta
individuazione della normativa applicabile.
L’Associazione ricorrente, infatti, in quanto associazione
di diritto privato non qualificabile come confessione
religiosa, nega che, ai fini urbanistici, la sua attività e
le sue strutture possano rientrare nel novero dei “servizi
religiosi” ex art. 72, co. 4-bis. Tuttavia, nella
richiesta di permesso di costruire, essa stessa si definisce
a volte come “associazione culturale”, altre volte
come “luogo di culto”.
Similmente il Comune, che a fini urbanistici considera
l’associazione islamica alla stregua dei “servizi
religiosi”, sotto il profilo della normativa antincendio
assimila l’attività dell’Unione a quella dei “locali di
spettacolo e trattenimento in genere”.
Il TAR accoglie pertanto il ricorso e annulla il diniego di
permesso di costruire; sulla richiesta presentata
dall’Unione islamica l’amministrazione “dovrà
ripronunciarsi mediante riesercizio del potere previo il
concreto coinvolgimento in sede procedimentale
dell’Associazione”.
Resta così assorbito il motivo con cui la ricorrente
chiedeva di sollevare questione di legittimità
costituzionale dell’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005 in
riferimento agli artt. 17–20 Cost. (libertà di riunione, di
associazione, libertà religiosa) (link a http://studiospallino.blogspot.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L.
Spallino,
L.R. Lombardia 12/2005: le modifiche del collegato
ordinamentale 2013
(link a www.studiospallino.it). |
ANNO 2012 |
|
dicembre 2012 |
|
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 28.12.2012, "Interventi
normativi per l’attuazione della programmazione regionale e
di modifica e integrazione di disposizioni legislative -
Collegato ordinamentale 2013"
(L.R.
24.12.2012 n. 21).
---------------
Di interesse l'art. 4 ("Modifiche alla l.r. n. 12/2005")
che introduce dopo l'art. 25, comma 1-bis, l.r. n. 12 del
2005 ("Legge per il governo del territorio") tre nuovi
commi, che declinano la disciplina transitoria necessaria
per il completamento del processo di totale rinnovamento
della strumentazione urbanistica comunale, pur
senza modificare il termine di validità dei
vecchi piani regolatori generali, fissato al 31.12.2012
dall'art. 25, comma 1, della l.r. n. 12 del 2005. |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
Lombardia -
Pgt, Giovannelli: dal Consiglio la deroga per il sisma.
"Solamente per 7 Comuni colpiti dal terremoto lo scorso
maggio (Borgoforte, Gonzaga, Pegognaga, Poggio Rusco, Rodigo,
Serravalle a Po e Suzzara, tutti in provincia di Mantova) e
per quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il
31.12.2012, rimane in vigore il Piano regolatore generale (Prg)
fino al 31.12.2013. Per tutti gli altri che, come questi,
non hanno approvato il Piano di governo del territorio (Pgt)
è confermata l'inefficacia, dal 01.01.2013, dei vecchi Prg".
Lo precisa l'assessore al Territorio e Urbanistica Nazzareno
Giovannelli, chiarendo che questo è ciò che il Consiglio
regionale ha approvato (martedì 19 dicembre), modificando
l'emendamento avanzato dall'Assessorato.
I Comuni che non avevano ancora adottato il Pgt ieri, 20
dicembre, erano ancora 388; mentre quelli che lo hanno
adottato, ma non approvato (e che lo potrebbero quindi
approvare entro i primi mesi dell'anno) erano 248.
COSA SUCCEDE AI COMUNI SENZA PGT -
Il testo definisce anche gli interventi che i Comuni,
sprovvisti di strumenti urbanistici, possono approvare.
- Nelle zone A-B-C-D (come individuate dai previgenti Prg),
vale a dire sostanzialmente nei centri storici, nei centri
urbanizzati consolidati, nelle zone a espansione e nelle
aree produttive e commerciali, possono essere autorizzati
esclusivamente interventi sull'esistente. Quindi di
manutenzione ordinaria, straordinaria e di
restauro/risanamento conservativo (no ristrutturazione, no
nuova costruzione);
- nelle zone E-F, cioè quelle agricole e quelle destinate a
servizi, gli interventi consentiti sono quelli previsti dal
previgente Prg e da altri strumenti attuativi già
consolidati (ad esempio, Piani particolareggiati e Piani di
recupero);
- gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati
entro la data di entrata in vigore della nuova Legge e la
cui convenzione, stipulata entro il medesimo termine, sia in
corso di validità.
Inoltre, rimane preclusa la possibilità di qualsiasi
procedura di variante urbanistica e, per i Comuni che non
avevano adottato il Pgt entro il 30.09.2011, di dar corso
all'approvazione di piani attuativi del Prg.
IL PIANO CASA REGIONALE -
Infine la norma stabilisce che nei Comuni che, al prossimo
31 dicembre, non avranno ancora approvato il Pgt, dal
01.01.2013 e fino all'approvazione del Pgt, non sono
attivabili gli interventi in deroga previsti dal cosiddetto
'Piano casa regionale' (l.r. 4/2012), fatte salve le
istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio
attività presentate entro il 31.12.2012.
Anche questa disposizione, per i Comuni terremotati e in
dissesto finanziario, troverà applicazione dal 01.01.2014 (21.12.2012
- link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Modifiche
alla legge regionale n. 12 del 2005 per i Piani di Governo
del Territorio dei Comuni.
Il Consiglio regionale nella seduta del 19.12.2012 ha
approvato la legge regionale "Interventi normativi per
l'attuazione della programmazione regionale e di modifica e
integrazione di disposizione legislative - Collegato
ordinamentale 2013" (Legge
Consiglio Regionale 19.12.2012 n. 057).
In particolare, l'art. 4 ("Modifiche alla l.r. n. 12/2005")
introduce dopo l'art. 25, comma 1-bis, l.r. n. 12 del 2005
("Legge per il governo del territorio") tre nuovi
commi, che declinano la disciplina transitoria necessaria
per il completamento del processo di totale rinnovamento
della strumentazione urbanistica comunale, pur
senza modificare il termine di validità dei vecchi
piani regolatori generali, fissato al 31.12.2012
dall'art. 25, comma 1, della l.r. n. 12 del 2005.
Solamente i Comuni terremotati e quelli dichiarati in
dissesto finanziario entro il 31.12.2012, con una
disposizione di favor (comma 1-ter), potranno continuare ad
attuare le previsioni del vigente PRG fino al 31.12.2013. La
norma, nel contempo, chiarisce la disciplina da applicarsi
qualora i suddetti Comuni non adottino il PGT entro il
31.12.2013. Per tutti gli altri Comuni, resta quindi
confermato quanto già previsto ad oggi e cioè l'inefficacia,
a far tempo dal 01.01.2013, dei vecchi PRG.
La norma (comma 1-quater), in ossequio a quanto stabilito
dall'art. 9, comma 1, del d.p.r. n. 380 del 2001, che
riconosce in capo alle Regioni la possibilità di prevedere
norme più restrittive rispetto a quella generale statale
stabilita per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici,
definisce quindi puntualmente gli interventi assentibili
nelle more dell'approvazione del PGT, che sono:
►
nelle zone A-B-C-D, come individuate dal previgente PRG,
esclusivamente interventi sull'esistente: manutenzione
ordinaria, manutenzione straordinaria e restauro/risanamento
conservativo (no ristrutturazione, no nuova costruzione);
►
nelle zone E-F, come individuate dal previgente PRG, gli
interventi consentiti dal previgente PRG e da altri
strumenti attuativi già consolidati (ad esempio, Piani
Particolareggiati e Piani di Recupero);
►
gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati
entro la data di entrata in vigore del collegato stesso e la
cui convenzione, stipulata entro il medesimo termine, sia in
corso di validità.
Inoltre, rimane preclusa la possibilità di qualsiasi
procedura di variante urbanistica e, per i Comuni che non
hanno adottato il PGT entro il 30.09.2011, di dar corso
all'approvazione di piani attuativi del PRG.
Infine la norma (comma 1-quinquies), statuisce che nei
Comuni che alla data del 31.12.2012 non hanno approvato il
PGT, dal 01.01.2013 e fino all'approvazione del PGT, non
sono attivabili gli interventi in deroga previsti dal c.d. "piano
casa regionale" (artt. 3-4-5-6, l.r. n. 4 del 2012),
fatte salve le istanze di permesso di costruire e le denunce
di inizio attività presentate entro il 31.12.2012; questa
disposizione, per i Comuni terremotati e in dissesto
finanziario, troverà applicazione dal 01.01.2014.
Milano, 21.12.2012
L'Assessore al Territorio e Urbanistica, Nazzareno
Giovannelli
Il Direttore Vicario, Gian Angelo Bravo (link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Lombardia,
Nuova modalità di versamento al Fondo Aree Verdi.
Si segnala alle Amministrazioni interessate, che i
versamenti al Fondo Aree Verdi (ex art. 43 legge 12/2005)
dovranno avvenire unicamente a mezzo di contabilità
speciale, presso la tesoreria Provinciale dello Stato -
Sezione di Milano - Codice Ente (beneficiario): 30268.
Ulteriori istruzioni sulla compilazione del versamento sono
riportate nelle pagine di questo sito dedicate al
Fondo Aree Verdi.
Per un rapido accesso
clicca qui.
(20.12.2012 - link a www.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: L.
Spallino,
Legge Regione Lombardia n. 12/2005: la commissione licenzia
una mini modifica all'articolo 25.
Nella saga delle proposte di modifiche all'articolo 25 della
legge regionale n. 12/2005 della Lombardia, si inserisce
l’emendamento approvato nella giornata del 13 dicembre in
Commissione Bilancio. Il testo è ben lontano dal progetto di
legge 26.10.2012 della Giunta regionale, il cui articolo 8
prevedeva che nei Comuni in cui è stato adottato il PGT
entro il 31.12.2012, si continuino -fino al 31.07.2013- ad
attuare le previsioni dei Piani regolatori urbanistici
generali (PRUG). Il Consiglio regionale si terrà mercoledì
19 dicembre.
L'emendamento all'articolo 25 della L.R., a firma del gruppo
della Lega Nord, dispone che alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) sono
apportate le seguenti modifiche: ...
(link a http://studiospallino.blogspot.it). |
novembre 2012 |
|
URBANISTICA:
Interventi normativi per l’attuazione della
programmazione regionale e di modifica e integrazione di
disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2013
(Progetto
di Legge 28.11.2012 n. 0199).
---------------
L'ultimo regalo della Giunta Formigoni in materia di P.G.T.,
dapprima proposto con
dgr 26.10.2012 n. 4300 e confluito nel
PdL n. 0195/2012, è stato stralciato dall'originario PdL
in Commissione Bilancio e riproposto col suddetto nuovo PdL
n. 0199/2012.
Nel caso di specie, il nuovo articolo (che qui interessa) è
il n. 4 che di seguito si ripropone:
Art. 4 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)
1.
Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) sono apportate le seguenti modifiche:
a) dopo l’articolo 25 è aggiunto il seguente:
“Art. 25-bis (Disposizioni transitorie a far tempo dal 1°
gennaio 2013)
1. In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1,
primo periodo, i comuni terremotati inclusi nell’elenco di
cui al decreto del Ministero dell’economia e delle finanze
01.06.2012 e successive modificazioni e integrazioni, nonché
quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il
31.12.2012 continuano ad attuare le previsioni del vigente
PRG fino al 31.12.2013, fermo restando quanto disposto
dall’articolo 26, comma 3-quater. In caso di mancata
adozione del PGT entro il 31.12.2013, si applicano le
disposizioni di cui ai commi 4 e 5.
2.
In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo
periodo, nei comuni che entro il 31.12.2012 hanno adottato
il PGT si attuano le previsioni del vigente PRG, fermo
restando quanto disposto dagli articoli 13, comma 12, e 26,
comma 3-quater. Dal 1° gennaio 2013 i medesimi comuni non
possono in ogni caso dar corso a procedure di variante al
vigente PRG comunque denominate.
3.
In caso di mancata approvazione del PGT entro il 31.07.2013
da parte dei comuni di cui al comma 2, primo periodo, si
applicano le disposizioni previste ai commi 4 e 5.
4.
Nei comuni che entro il 31.12.2012 non hanno adottato il PGT,
dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, fermo
restando quanto disposto dall’articolo 13, comma 12, sono
ammessi unicamente i seguenti interventi:
a) nelle zone omogenee B, C e D individuate dal previgente PRG,
interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di
cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) e c);
b) nelle zone omogenee A, E e F individuate dal previgente PRG, gli
interventi che erano consentiti dal PRG o da altro strumento
urbanistico comunque denominato;
c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati e
convenzionati entro il 31.12.2012, con convenzione non
scaduta.
5.
Ai comuni di cui al comma 4, dal 1° gennaio 2013 e fino
all’approvazione del PGT, non è consentito applicare le
disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5 e 6 della legge
regionale 13.03.2012, n. 4 (Norme per la valorizzazione del
patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in
materia urbanistico-edilizia); sono fatte salve le istanze
di permesso di costruire e le denunce di inizio attività
presentate entro il 31.12.2012.”. |
URBANISTICA:
G. Vitella,
Brevi osservazioni alla deliberazione di Giunta Regionale n.
IX/4300, seduta 26.10.2012 (26.11.2012 -
tratto da www.ordinearchitettivarese.it). |
ottobre 2012 |
|
URBANISTICA:
Oggetto: PROPOSTA DI PROGETTO DI LEGGE "LEGGE FINANZIARIA
2013” (della Lombardia) (deliberazione
G.R. 26.10.2012 n. 4300).
---------------
Ecco l'ultimo regalo
della Giunta Formigoni in materia di P.G.T.. Di particolare
interesse l'art. 8 il quale così recita:
Art. 8 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)
1. Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio) sono apportate le seguenti
modifiche:
a) dopo l’articolo 25 é aggiunto il seguente articolo:
“Art. 25-bis (Disposizioni transitorie a far tempo dal 1°
gennaio 2013)
1.
In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo
periodo, i comuni terremotati inclusi nell’elenco di cui al
decreto del Ministero dell’economia e delle finanze
01.06.2012 e successive modificazioni e integrazioni, nonché
quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il
31.12.2012 continuano ad attuare le previsioni del vigente
PRG fino al 31.12.2013, fermo restando quanto disposto
dall’articolo 26, comma 3-quater. In caso di mancata
adozione del PGT entro il 31.12.2013, si applicano le
disposizioni di cui ai commi 4 e 5.
2.
In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo
periodo, nei comuni che entro il 31.12.2012 hanno adottato
il PGT si attuano le previsioni del vigente PRG, fermo
restando quanto disposto dagli articoli 13, comma 12, e 26,
comma 3-quater. Dal 1° gennaio 2013 i medesimi comuni non
possono in ogni caso dar corso a procedure di variante al
vigente PRG comunque denominate.
3.
In caso di mancata approvazione del PGT entro il 31.07.2013
da parte dei comuni di cui al comma 2, primo periodo, si
applicano le disposizioni previste ai commi 4 e 5.
4.
Nei comuni che entro il 31.12.2012 non hanno adottato il PGT,
dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, fermo
restando quanto disposto dall’articolo 13, comma 12, sono
ammessi unicamente i seguenti interventi:
a) nelle zone omogenee B, C e D individuate dal previgente PRG,
interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di
cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) e c);
b) nelle zone omogenee A, E e F individuate dal previgente PRG, gli
interventi che erano consentiti dal PRG o da altro strumento
urbanistico comunque denominato;
c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati e
convenzionati entro il 31.12.2012, con convenzione non
scaduta.
5.
Ai comuni di cui al comma 4, dal 1° gennaio 2013 e fino
all’approvazione del PGT, non è consentito applicare le
disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5 e 6 della legge
regionale 13.03.2012, n. 4 (Norme per la valorizzazione del
patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in
materia urbanistico-edilizia); sono fatte salve le istanze
di permesso di costruire e le denunce di inizio attività
presentate entro il 31.12.2012.". |
EDILIZIA
PRIVATA:
No al confinamento di kebab, money transfer e
phone center.
No alla localizzazione di Kebab, money
transfer e centri di telefonia fissa solo in specifiche zone
urbane del territorio comunale. In quanto sono in contrasto
con i principi di concorrenza e con la disciplina nazionale
della liberalizzazione. L'ingresso di nuovi operatori non
deve incontrare ostacoli di tipo normativo o amministrativo,
diretti a predeterminare rigidamente limiti quantitativi
alle possibilità di entrata nel mercato.
Questo è quanto espresso dall'Autorità garante della
concorrenza e del mercato all'interno del
bollettino settimanale 17.09.2012 n. 35 – in ordine agli
effetti distorsivi della concorrenza derivanti dalle
disposizioni che regolano l'insediamento delle attività di «Kebap
e simili, compresi gli esercizi ove vi è asporto e
consumazione in loco di alimenti e bevande, centri di
telefonia internazionale e simili, centri di trasferimento
del denaro». Sotto osservazioni sono quattro delibere
comunali degli anni 2009 e 2010 aventi ad oggetto la «Definizione
di programma di localizzazione di particolari attività
suscettibili di determinare situazioni di disagio sociale,
viabilistico e di quiete pubblica ai fini del loro
insediamento sul territorio di...».
Le richiamate deliberazioni introducono il divieto di
insediamento delle attività sopra indicate in tutto il
territorio comunale, ad eccezione di alcuni ambiti
identificati, nei quali eventuali richieste di insediamento
saranno valutate nell'ambito di una apposita procedura
negoziale volta ad individuare «se la zona urbanistica
può accogliere l'insediamento richiesto; le particolari
prescrizioni a tutela della collettività insediata nella
zona; gli eventuali standard qualitativi dettati dalla
particolare attività in relazione alla situazione
viabilistica ed urbana consolidata nella zona d'insediamento».
Le delibere, prevedendo un divieto di insediamento di
esercizi di vendita di kebab, di telefonia in sede fissa e
trasferimento del denaro e simili, ovvero limitandolo a
specifiche zone, introducono un elemento di rigidità del
sistema tale da tradursi, nei diversi mercati interessati,
in una programmazione quantitativa dell'offerta, in
contrasto con le esigenze di salvaguardia della concorrenza
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2012). |
agosto 2012 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Fondazione De Iure Publico,
IL TRASFERIMENTO DEI DIRITTI EDIFICATORI DOPO LE MODIFICHE
ALL’ ART. 2643 DEL CODICE CIVILE (ART. 5, COMMA 3, L.N.
106/2011) - LA “VEXATA QUAESTIO” DELLA NATURA
GIURIDICA DI TALI DIRITTI (Geometra Orobico n. 4/2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fondazione De Iure Publico,
IL TRASFERIMENTO DEI DIRITTI EDIFICATORI: PROFILI FISCALI
(Geometra Orobico n. 4/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: W.
Fumagalli,
ALLE VOLTE SI RI-CICLANO ANCHE LE LEGGI - CHE FATICA TENTARE
DI SALVARE LE RISTRUTTURAZIONI FUORI SAGOMA! - Dopo aver
rotto le uova il Consiglio Regionale lombardo ha cercato di
riaggiustarle, ma è un’impresa disperata
(AL n. 7-8/2012). |
luglio 2012 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Il
TAR Milano, che in un primo momento (con
ordinanza 11.05.2012 n. 664) aveva
dichiarato che "non appare irrilevante né
manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 17,
comma 1°, della l.r. n. 7/2012", ci
ripensa e non invia gli atti alla Consulta.
Nel caso in cui il
Comune rilasci il titolo edilizio in
applicazione di norme solo successivamente
dichiarate incostituzionali, è da escludere
che la declaratoria di incostituzionalità di
una norma di legge renda di per sé nulli i
provvedimenti amministrativi adottati in
base ad essa.
Ai fini dell’esatta
comprensione e decisione del primo mezzo di
ricorso, occorre prendere le mosse dalla
sentenza della Corte Costituzionale
23.11.2011, n. 309 (cfr. doc. 8 dei
ricorrenti), con la quale è stata dichiarata
l’illegittimità costituzionale di taluni
articoli della legge della Regione Lombardia
n. 12/2005 sul governo del territorio e
segnatamente degli articoli 27, comma 1,
lettera d), ultimo periodo e dell’art. 103,
oltre che dell’art. 22 della legge regionale
7/2010, laddove gli stessi annoveravano nel
concetto di “ristrutturazione edilizia”, gli
interventi di demolizione e ricostruzione
degli edifici, senza rispetto del limite
della sagoma.
In altri termini, le norme dichiarate
incostituzionali consentivano, almeno in
Lombardia, di qualificare come
“ristrutturazione edilizia” anche le ipotesi
di demolizione e ricostruzione di edifici,
senza rispettare la sagoma dello stabile
preesistente poi demolito.
La Corte ha ritenuto che le definizioni
delle categorie degli interventi edilizi,
contenute nella legge statale ed in
particolare nell’art. 3 del DPR 380/2001
(Testo Unico sull’edilizia), costituiscono
principi fondamentali della legislazione
statale in materia di “governo del
territorio” (materia riservata dall’art.
117, comma 3°, della Costituzione, alla
potestà legislativa concorrente
Stato-Regioni), che devono pertanto essere
rispettati da parte delle Regioni
nell’esercizio della loro funzione
legislativa.
La sentenza della Corte Costituzionale n.
309/2011 ha immediatamente posto il problema
della sua applicazione ai rapporti giuridici
pendenti al momento della sua pubblicazione
(23.11.2011), posto che, per espressa
disposizione dell’art. 136 della
Costituzione, le norme dichiarate
incostituzionali cessano <<di avere
efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione>>.
Con riguardo agli effetti delle sentenze
della Corte Costituzionale sui titoli
edilizi o –meglio– sui rapporti giuridici
nascenti dai titoli stessi (permesso di
costruire, oppure DIA o SCIA, anche se
questi ultimi non costituiscono
provvedimenti amministrativi), è opinione
diffusa, anche in dottrina, che le sentenze
come quella di cui è causa possano esplicare
effetti anche su titoli già rilasciati,
purché l’attività edilizia sia ancora in
corso e non siano ultimati i lavori
assentiti, trattandosi di rapporti giuridici
pendenti e non ancora esauriti o definiti
(giacché solo in tale ultima ipotesi le
sentenze del Giudice delle leggi non
potrebbero trovare applicazione).
In Lombardia, il legislatore regionale ha
ritenuto di dettare una specifica disciplina
sulla sorte dei titoli edilizi, a seguito
della sentenza della Corte Costituzionale n.
309/2011, attraverso l’art. 17 della legge
regionale 18.04.2012, n. 7 (sul Bollettino
Ufficiale della Regione Lombardia
20.04.2012).
Ai sensi del comma 1° del citato art. 17,
<<In relazione agli interventi di
ristrutturazione edilizia oggetto della
sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare
il legittimo affidamento dei soggetti
interessati, i permessi di costruire
rilasciati alla data del 30.11.2011
nonché le denunce di inizio attività
esecutive alla medesima data devono
considerarsi titoli validi ed efficaci fino
al momento della dichiarazione di fine
lavori, a condizione che la comunicazione di
inizio lavori risulti protocollata entro il
30.04.2012>>.
Nella presente fattispecie, la domanda di
permesso di costruire indica espressamente
che l’intervento è di ristrutturazione
avverrà con modifica della sagoma (cfr. doc.
4 dei ricorrenti), ed il titolo edilizio è
stato rilasciato il 21.11.2011, vale a dire
due giorni prima del deposito della sentenza
n. 309/2011.
Ciò premesso, si rimarca come nel primo
mezzo di gravame si denuncia l’illegittimità
del titolo edilizio, in quanto con lo stesso
viene consentita una ristrutturazione senza
limite di sagoma, in contrasto con la citata
sentenza della Corte Costituzionale.
La difesa del controinteressato, dal canto
suo, ha invocato a proprio favore l’art. 17,
comma 1°, della legge regionale 7/2012,
ritenuto applicabile al caso di specie,
visto che il permesso di cui è causa è stato
rilasciato prima del 30.11.2011.
Gli esponenti, di conseguenza, sia nella
discussione orale all’udienza in camera di
consiglio sia nelle successive memorie
difensive, hanno chiesto al Tribunale di
sollevare questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17 succitato, per
violazione dell’art. 136 della Costituzione,
avendo la norma regionale del 2012 di fatto
prorogato gli effetti di una serie di norme
dichiarate invece incostituzionali.
Il Collegio, nella propria ordinanza
cautelare n. 664/2012, aveva ritenuto,
seppure al termine di una cognizione
sommaria, che la questione di
costituzionalità dell’art. 17, comma 1°,
fosse sia rilevante sia non manifestamente
infondata, pur riservandosi un necessario
approfondimento in sede di merito.
Orbene, tale approfondimento, assolutamente
indispensabile vista la complessità della
questione, induce ora il Tribunale alla
conclusione che la questione di
costituzionalità sia però priva, nel caso di
specie, del necessario requisito della
rilevanza (si ricordi che, ai sensi
dell’art. 23 della legge 11.03.1953, n. 87,
la questione è rilevante <<qualora il
giudizio non possa essere definito
indipendentemente dalla risoluzione della
questione di legittimità costituzionale>>).
Infatti, il permesso di costruire di cui è
causa (cfr. doc. 1 dei ricorrenti), è stato
rilasciato il 21.11.2011, prima (anche se di
due soli giorni, ma ciò non rileva), del
deposito della sentenza della Corte
Costituzionale n. 309 del 23.11.2011, quindi
in vigenza della disciplina regionale poi
dichiarata incostituzionale.
Il Comune di Sondrio, in altri termini, non
ha dato certamente applicazione all’art. 17,
comma 1°, né al momento del rilascio del
titolo edilizio (non essendo allora ancora
intervenuta la pronuncia della Corte), né
successivamente, non risultando che
l’Amministrazione, d’ufficio o su istanza di
soggetti terzi, abbia mai adottato
provvedimenti di esecuzione del citato art.
17 (come sarebbe avvenuto, ad esempio, se il
Comune, a fronte di una diffida di soggetti
interessati, si fosse rifiutato di inibire
l’intervento edilizio richiamando la norma
dell’art. 17).
La questione di costituzionalità, pertanto,
seppure appare al Collegio non
manifestamente infondata (non essendo
possibile per il legislatore ordinario
assicurare una sorta di ulteriore vigenza di
norme dichiarate incostituzionali; cfr. fra
le tante, Corte Costituzionale, sentenze n.
350/2010 e n. 223/1983), non può però
reputarsi rilevante, visto che la
valutazione della legittimità di un permesso
di costruire rilasciato prima della sentenza
della Corte, può –almeno nel caso di specie– prescindere dalla norma dell’art. 17 della
LR 7/2012.
In conclusione, il primo mezzo di ricorso
deve respingersi, avendo il Comune
rilasciato il titolo in applicazione di
norme solo successivamente dichiarate
incostituzionali e dovendosi escludere che
la declaratoria di incostituzionalità di una
norma di legge renda di per sé nulli i
provvedimenti amministrativi adottati in
base ad essa (così la giurisprudenza
amministrativa, a partire dalla nota
decisione dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, 08.04.1963, n. 8),
potendo semmai essere esercitato il potere
di autotutela amministrativa da parte del
Comune di Sondrio sul permesso di costruire
di cui è causa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
27.07.2012 n.
2147 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L. Spallino,
Lombardia, Esiti della mancata approvazione dei PGT al
31.12.2012 (14.11.2011 aggiornato il
17.07.2012 - link a www.studiospallino.it). |
maggio 2012 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: P.
Mantegazza, Impianto generale della l.r.
4/2012 e rapporti con la legislazione
urbanistica ed edilizia nazionale -
Intervento a L.R. 13.03.2012, n. 4 - Norme
per la valorizzazione del patrimonio
edilizio esistente e altre disposizioni in
materia urbanistico–edilizia / Nuove
questioni e quadro d'insieme del nuovo Piano
Casa della Regione Lombardia.
● LEGGE REGIONALE 13.03.2012 N. 4 -
Parte prima “Legge
sulla casa” (art. 1 – 6);
● LEGGE REGIONALE 13.3.2012 N. 4 -
Parte seconda “Modifiche
alla L.R. 11.03.2005 n. 12” (Legge per il
Governo del Territorio) (30.05.2012 -
tratto da
www.cameramministrativacomo.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L. Spallino, Quadro degli interventi
derogatori eccezionali della l.r. 4/2012 - Nuove questioni e quadro d’insieme del
nuovo Piano Casa della Regione Lombardia.
●
Quadro degli
interventi derogatori eccezionali della l.r.
4/2012 (30.05.2012 - tratto da
www.cameramministrativacomo.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA:
La valutazione di compatibilità del PGT al PTCP non
si configura affatto né come atto di indirizzo, né
come espressione di un potere di controllo politico,
ma tende alla mera attuazione degli obiettivi della
pianificazione provinciale ed è, pertanto,
riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
La valutazione di compatibilità
del P.G.T. rispetto al P.T.C.P. non può essere
intesa come limitata ad un mero riscontro della
conformità estrinseca del piano comunale alle
previsioni ad efficacia prescrittiva e prevalente
del piano provinciale.
Inteso in tal modo, infatti, non soltanto il
rapporto di collaborazione istituzionale fra i due
enti verrebbe del tutto svilito, ma neppure si
comprenderebbe il senso della previsione contenuta
nel comma di apertura dell’art. 18 della legge
regionale n. 12/2005.
Detta prescrizione, infatti, pone in luce la
portata, teleologicamente orientata, della
valutazione che fa capo alla Provincia, nel senso di
valorizzare l’accertamento dell’idoneità dell’atto
comunale al raggiungimento degli obiettivi del piano
di coordinamento.
Non va trascurato, poi, quanto già sostenuto da
questo Tribunale, proprio facendo leva sul
presupposto che sia istituzionalmente demandata alla
provincia la tutela dei valori paesaggistici,
cosicché non appare illegittimo:<<… che tale potere
si esprima mediante raccomandazioni affinché il
Comune riveda le proprie previsioni: e ciò perché
tali raccomandazioni, indicazioni o inviti, ispirati
alla tutela dei valori ambientali, ben si rapportano
a quella funzione (ed efficacia) di orientamento,
indirizzo e coordinamento che l’art. 2, quarto
comma, della legge regionale citata attribuisce
espressamente al piano territoriale regionale ed ai
piani territoriali di coordinamento provinciali>>.
---------------
Il Consiglio di Stato ha statuito che la lettera b)
dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si
riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente
che comunque coinvolga i piani o programmi dallo
stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi
nell’ambito del procedimento di formazione di quei
piani e programmi (o delle relative varianti e
deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione,
ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere
circa la compatibilità con il proprio piano o
programma di attività poste in essere da altri
soggetti (è il caso del parere di conformità al
P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita
non appartenga alla competenza consiliare)”.
Tale conclusione è perfettamente applicabile anche
al caso in esame, in cui la Provincia è chiamata ad
esprimere una “valutazione di compatibilità” tra due
strumenti urbanistici di diverso livello, al fine di
verificare, dal riscontro tra le previsioni dell’uno
e dell’altro, se quello sottordinato (PGT) rispetti
le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro che non implica alcuna di
quelle scelte di indirizzo che radicano la
competenza del consiglio provinciale, ex art. 42,
primo comma, t.u.e.l., che definisce il consiglio
come “organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo”.
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la
valutazione di compatibilità in questione sarebbe
riservata al consiglio provinciale.
---------------
L’art. 13, quinto comma, della legge regionale n.
12/2005 dispone che: “qualora il comune abbia
presentato anche proposta di modifica o integrazione
degli atti di pianificazione provinciale, le
determinazioni in merito sono assunte con
deliberazione di giunta provinciale”.
Si desume da ciò che la competenza della giunta
provinciale si prospetti nel solo caso in cui
occorra delibare se la proposta di modifica sia o
meno assentibile ai fini della sospensione ovvero
del proseguimento della procedura di approvazione
del PGT, secondo una delle opzioni previste dallo
stesso comma, ferma restando comunque la competenza
del consiglio provinciale per la “definitiva
approvazione…. della modifica dell’atto di
pianificazione provinciale”.
L’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.),
d’altro canto, demanda alla giunta gli atti che non
sono riservati al consiglio e che non rientrano
nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni
dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u.
assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione degli
atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi
espressamente dalla legge o dallo statuto tra le
funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo
dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma)
“l’attuazione degli obiettivi e dei programmi
definiti con gli atti di indirizzo adottati” dagli
organi di governo.
Ai dirigenti competono, tra l’altro (art. 107,
secondo comma, lettera f), “i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui
rilascio presupponga accertamenti e valutazioni,
anche di natura discrezionale, nel rispetto di
criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti,
da atti generali di indirizzo, ivi comprese le
autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché
(lettera h) “le attestazioni, certificazioni,
comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni,
legalizzazioni ed ogni altro atto costituente
manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità
in questione mira esclusivamente a verificare,
attraverso la comparazione del contenuto dei due
piani, il rispetto del P.T.C.P. da parte del piano
comunale di governo del territorio e non implica
profili di discrezionalità, se si eccettuano quelli
insiti nella valutazione della idoneità dell’atto al
conseguimento degli obiettivi del piano (arg. ex
art. 18 co. I cit.), se ne trae la conferma che essa
non si configura affatto né come atto di indirizzo,
né come espressione di un potere di controllo
politico, ma tenda alla mera attuazione degli
obiettivi della pianificazione provinciale, e sia,
pertanto, riconducibile alle attribuzioni
dirigenziali.
Con
il primo motivo, la Società lamenta, in sintesi,
la violazione di legge e l’eccesso di potere poiché,
ai sensi degli artt. 13, co. V, e 18, co. II, della
legge regionale Lombardia n. 12/2005, la Provincia
avrebbe dovuto valutare esclusivamente la
compatibilità del P.G.T con le previsioni
prescrittive e vincolanti del proprio P.T.C.P., onde
salvaguardare l’autonomia comunale in ambito
pianificatorio. Si comprende, così, prosegue
l’istante, l’illegittimità dell’operato provinciale,
per avere violato l’ambito dei poteri pianificatori
riservato al Comune, atteso che nessuna delle
previsioni prescrittive del P.T.C.P. di Como
riguarderebbe l’ambito di proprietà della Società.
Sul punto, la difesa comunale contro-deduce
affermando che la Provincia, in sede di valutazione
di compatibilità del P.G.T. col P.T.C.P., non
dovrebbe affatto limitarsi al mero riscontro formale
delle previsioni di cui all’art. 18, co. II cit.,
ma, in forza del co. I della stessa norma, dovrebbe
valutare la compatibilità dell’intera struttura del
piano urbanistico comunale con i principi ispiratori
del P.T.C.P.
A supporto di tale tesi, il Comune cita il
precedente giurisprudenziale di questo TAR n.
4301/2009.
Anche la Provincia di Como svolge analoghe difese,
contro-deducendo ai motivi nn. 1, 2 e 10 (ritenuti
connessi) con cui viene attaccato l’operato
provinciale.
Così, a proposito della valutazione, di spettanza
provinciale, di conformità al P.T.C.P., viene
richiamata la sentenza del C.d.S. n. 24/2011, nonché
l’art. 11 delle N.T.A. del P.T.C.P. il quale,
nell’indicare le componenti essenziali della rete
ecologica, menziona anche quelle zone che, pur non
essendo cartograficamente comprese nella rete
ecologica, rivestono la medesima valenza ambientale,
assicurando una funzione di cuscinetto in vista e in
aderenza ai principi dello sviluppo sostenibile.
Senza trascurare, poi, prosegue la Provincia, che il
comparto de quo sarebbe interessato da
un’area seppur marginale di pertinenza idraulica.
Da ultimo, la Provincia ribadisce come l’art. 18
della cit. legge reg. preveda che le valutazioni di
compatibilità rispetto al P.T.C.P. concernano
l’accertamento dell’idoneità dell’atto scrutinato ad
assicurare il conseguimento degli obiettivi fissati
dal piano, salvaguardando i limiti di sostenibilità
ivi previsti. In tal senso, andrebbe valorizzata la
previsione dell’art. 1 delle N.T.A. del P.T.C.P. di
Como, che contemplerebbe fra gli obiettivi
strategici proprio la tutela dell’ambiente e la
valorizzazione degli ecosistemi, l’assetto
idrogeologico e la difesa del suolo. Ed è in tale
contesto, conclude la Provincia, che si
collocherebbe la valutazione operata con la
deliberazione impugnata in ordine all’area
dell’esponente, i cui caratteri specifici ne
giustificherebbero l’inserimento nel novero degli <<ambiti
boschivi della rete ecologica locale>>,
disciplinati dall’art. 41 del Piano delle Regole del
P.G.T. del Comune.
Il motivo è infondato.
Al riguardo il Collegio ritiene, in primo luogo, di
dover chiarire che la valutazione di compatibilità
del P.G.T. rispetto al P.T.C.P. non può essere
intesa, come vorrebbe parte ricorrente, come
limitata ad un mero riscontro della conformità
estrinseca del piano comunale alle previsioni ad
efficacia prescrittiva e prevalente del piano
provinciale.
Inteso in tal modo, infatti, non soltanto il
rapporto di collaborazione istituzionale fra i due
enti verrebbe del tutto svilito, ma neppure si
comprenderebbe il senso della previsione contenuta
nel comma di apertura dell’art. 18 della legge
regionale n. 12/2005.
Detta prescrizione, infatti, pone in luce la
portata, teleologicamente orientata, della
valutazione che fa capo alla Provincia, nel senso di
valorizzare l’accertamento dell’idoneità dell’atto
comunale al raggiungimento degli obiettivi del piano
di coordinamento.
Non va trascurato, poi, quanto già sostenuto da
questo Tribunale, proprio facendo leva sul
presupposto che sia istituzionalmente demandata alla
provincia la tutela dei valori paesaggistici,
cosicché non appare illegittimo:<<… che tale
potere si esprima mediante raccomandazioni affinché
il Comune riveda le proprie previsioni: e ciò perché
tali raccomandazioni, indicazioni o inviti, ispirati
alla tutela dei valori ambientali, ben si rapportano
a quella funzione (ed efficacia) di orientamento,
indirizzo e coordinamento che l’art. 2, quarto
comma, della legge regionale citata attribuisce
espressamente al piano territoriale regionale ed ai
piani territoriali di coordinamento provinciali>>
(cfr. TAR Lombardia, Milano, II, n. 4301 del
06.07.2009).
---------------
Con il
quinto motivo si deduce il vizio di incompetenza
del parere di compatibilità provinciale, in quanto
adottato dal dirigente, anziché dagli organi
politici.
In particolare, secondo l’istante qui si tratterebbe
di un giudizio sugli strumenti urbanistici comunali,
che fuoriesce dall’ambito prescrittivo del PTCP e,
dunque, di una valutazione ampiamente discrezionale,
che esulerebbe dalla competenza gestionale per
radicarsi in quella degli organi di governo,
deputati al controllo politico amministrativo.
Il motivo è infondato.
Il Collegio ritiene qui opportuno richiamare un
precedente in cui, in una vicenda analoga, il
Consiglio di Stato ha statuito (sentenza 28.05.2009
n. 3333, Sez. IV) che la lettera b) dell’art. 42,
secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a
qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque
coinvolga i piani o programmi dallo stesso
approvati, ma soltanto ai pareri espressi
nell’ambito del procedimento di formazione di quei
piani e programmi (o delle relative varianti e
deroghe)”, sicché “restano fuori dalla
previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è
chiamato a rendere circa la compatibilità con il
proprio piano o programma di attività poste in
essere da altri soggetti (è il caso del parere di
conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che
non si dubita non appartenga alla competenza
consiliare)”.
Tale conclusione è perfettamente applicabile anche
al caso in esame, in cui la Provincia è chiamata ad
esprimere una “valutazione di compatibilità”
tra due strumenti urbanistici di diverso livello, al
fine di verificare, dal riscontro tra le previsioni
dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT)
rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro che non implica alcuna di
quelle scelte di indirizzo che radicano la
competenza del consiglio provinciale, ex art. 42,
primo comma, t.u.e.l., che definisce il consiglio
come “organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo” (cfr. in terminis,
TAR Lombardia, Milano, II, 28.07.2009 n. 4468).
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la
valutazione di compatibilità in questione sarebbe
riservata al consiglio provinciale.
Si tratta ora, una volta esclusa -per le ragioni
esposte al punto che precede- una riserva di
competenza al consiglio provinciale, di esaminare la
censura della Società secondo cui la competenza in
materia apparterrebbe alla giunta provinciale,
anch’essa “organo di governo dell’ente” (art.
36 t.u.e.l.).
Al riguardo, va osservato che, la cit. sentenza n.
3333/2009 del Consiglio di Stato, menzionata da
parte ricorrente, non ha affermato (positivamente e
definitivamente) la competenza della giunta
provinciale, ma si è limitata ad escludere la
riserva di competenza al consiglio, in una
fattispecie in cui la valutazione di compatibilità
-rispetto al sopraordinato PTCP- di un P.I.I.
(programma integrato di intervento), adottato da
altro comune in variante al PRG, era stata
effettuata dalla giunta provinciale con
provvedimento impugnato per incompetenza.
Non si può, dunque, trarre argomento, sic et
simpliciter, dalla sentenza citata per desumerne
tout court la competenza della giunta e
l’incompetenza del dirigente.
In verità, ritiene il Collegio che al quesito di cui
sopra (se cioè nella vicenda in esame sia stato
invaso un ambito di attribuzioni riservato alla
giunta provinciale) debba darsi risposta negativa,
richiamando quanto già sostenuto da questo stesso
Tribunale proprio nella cit. sentenza n. 4468/2009.
All’uopo, va considerato che l’art. 13, quinto
comma, della legge regionale n. 12/2005 dispone che:
“qualora il comune abbia presentato anche
proposta di modifica o integrazione degli atti di
pianificazione provinciale, le determinazioni in
merito sono assunte con deliberazione di giunta
provinciale”. Si desume da ciò che la competenza
della giunta provinciale si prospetti nel solo caso
in cui occorra delibare se la proposta di modifica
sia o meno assentibile ai fini della sospensione
ovvero del proseguimento della procedura di
approvazione del PGT, secondo una delle opzioni
previste dallo stesso comma, ferma restando comunque
la competenza del consiglio provinciale per la “definitiva
approvazione…. della modifica dell’atto di
pianificazione provinciale”.
L’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.),
d’altro canto, demanda alla giunta gli atti che non
sono riservati al consiglio e che non rientrano
nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni
dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u.
assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione
degli atti e provvedimenti amministrativi che
impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non
ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto
tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo
dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma)
“l’attuazione degli obiettivi e dei programmi
definiti con gli atti di indirizzo adottati”
dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono, tra l’altro (art. 107,
secondo comma, lettera f), “i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui
rilascio presupponga accertamenti e valutazioni,
anche di natura discrezionale, nel rispetto di
criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti,
da atti generali di indirizzo, ivi comprese le
autorizzazioni e le concessioni edilizie”;
nonché (lettera h) “le attestazioni,
certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali,
autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto
costituente manifestazione di giudizio e di
conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità
in questione mira esclusivamente a verificare,
attraverso la comparazione del contenuto dei due
piani, il rispetto del P.T.C.P. da parte del piano
comunale di governo del territorio e non implica
profili di discrezionalità, se si eccettuano quelli
insiti nella valutazione della idoneità dell’atto al
conseguimento degli obiettivi del piano (arg. ex
art. 18 co. I cit.), se ne trae la conferma che essa
non si configura affatto né come atto di indirizzo,
né come espressione di un potere di controllo
politico, ma tenda alla mera attuazione degli
obiettivi della pianificazione provinciale, e sia,
pertanto, riconducibile alle attribuzioni
dirigenziali.
In conclusione, quindi, le censure della ricorrente
in punto di competenza sono prive di fondamento
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La fattispecie in esame, attinente alla sola
qualificazione del contributo, deve essere invece riguardata
alla luce del’art.
44 della citata l.r. n. 12 del 2005
che, stabilite le modalità di calcolo degli oneri di
urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione
non comportanti demolizione e ricostruzione”, prevede la
disciplina per gli interventi di ristrutturazione,
disponendo che “gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono
quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione,
ridotti della metà.”
Deve quindi condividersi l’interpretazione data dal giudice
di prime cure che ha notato come ciò comporti che gli
interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale
o parziale siano assoggettati al contributo concessorio
previsto per le nuove costruzioni.
---------------
... per la riforma della
sentenza 18.05.2010 n. 1566 del TAR
Lombardia-Milano, Sez. II;
...
4. - Con il terzo motivo di ricorso, viene infine
censurata la ritenuta correttezza della qualificazione
dell’intervento, come operata dall’amministrazione e
condivisa dal TAR, con la quale le opere sono state ritenute
di nuova costruzione e non di mera modificazione
dell’esistente, tramite ristrutturazione edilizia.
Al contrario, l’appellante, ricostruita la serie di
interventi realizzati, a decorrere da quelli autorizzati con
DIA n. 72 del 03.12.2003 fino a raggiungere quelli indicati
nella settima denuncia, rubricata al n. 68 del 21.12.2007,
rimarca la natura di ristrutturazione edilizia del complesso
edilizio, come emergente anche solo dalla descrizione delle
opere contenute nei detti atti e dagli allegati grafici.
4.1. - La censura non può essere condivisa.
Occorre in via preliminare evidenziare come il TAR abbia
incidentalmente, ma espressamente, sottolineato la natura
particolarmente favorevole della disciplina contenuta nella
legislazione regionale dove si dispone, da un lato,
che “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione
edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto
della volumetria preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica” (art. 27, comma 1, legge regionale
11.03.2005 n. 12) e, dall’altro, che “la
ricostruzione dell’edificio è da intendersi senza vincolo di
sagoma” (art. 22 legge regionale 05.02.2010 n. 7).
Tuttavia, correttamente il giudice di prime cure ha
riscontrato come tale profilo disciplinare attenga ad un
fatto distinto, ossia l’ammissibilità degli interventi
edilizi in relazione alla loro classificazione (vicenda che,
qualora fosse stata sottoposta alla Sezione, avrebbe dovuto
essere esaminata alla luce della sentenza della Corte
costituzionale 23.11.2011 n. 309, che ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 27, comma 1,
lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione
Lombardia 11.03.2005, n. 12, nella parte in cui esclude
l'applicabilità del limite della sagoma alle
ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e
ricostruzione; dell'art. 103 della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui disapplica
l'art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; e dell'art. 22 della
legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7).
La fattispecie in esame, attinente alla sola qualificazione
del contributo, deve essere invece riguardata alla luce del’art.
44 della citata legge regionale n. 12 del 2005
che, stabilite le modalità di calcolo degli oneri di
urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione
non comportanti demolizione e ricostruzione”, prevede la
disciplina per gli interventi di ristrutturazione,
disponendo che “gli oneri di urbanizzazione, se dovuti,
sono quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione,
ridotti della metà.”
Deve quindi condividersi l’interpretazione data dal giudice
di prime cure che ha notato come ciò comporti che gli
interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale
o parziale siano assoggettati al contributo concessorio
previsto per le nuove costruzioni.
Poiché gli interventi in esame, e principalmente quelli
indicati nelle due DIA rubricate rispettivamente al n.
41/2004 ed al n. 17/2005, sono effettivamente riconducibili
all’ambito disciplinare indicato, in quanto si trattava,
rispettivamente, della parziale demolizione del fabbricato
esistente con costruzione di palazzine uffici in aderenza e
nella parziale demolizione e innalzamento del fabbricato
esistente (d.i.a. 17/2005), appare del tutto legittima la
pretesa del Comune, che ha assoggettato l’intervento al
contributo previsto per le nuove costruzioni.
Peraltro, dopo l’intervento della citata sentenza della
Corte costituzionale, applicabile alla vicenda in questione
nei limiti del non intervenuto esaurimento della lite, non
appare più attuale neppure il distinguo operato dal TAR, in
relazione ai diversi momenti di presentazione delle denunce
di inizio di attività, rendendo così ancora più marcata la
legittimità dell’operato del Comune.
5. - L’appello appare, quindi in conclusione, del tutto
infondato, facendo così venir meno la fondatezza della
pretesa risarcitoria avanzata, stante la legittimità
dell’azione amministrativa e quindi il venir meno di un
evento lesivo contrario al diritto.
6. - L’appello va quindi respinto. Sussistono peraltro
motivi per compensare integralmente tra le parti le spese
processuali, determinati dalla parziale novità della
questione decisa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.05.2012 n. 2969 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non appare irrilevante né manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale dell’art.
17, comma 1°, della legge regionale n. 7/2012.
- considerato che, ad un primo sommario esame, non
appare irrilevante né manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
17, comma 1°, della legge regionale n. 7/2012, salvo
comunque l’approfondimento in sede di merito;
- ritenuto ancora di dover sospendere il
provvedimento impugnato, per evitare che la
definitiva realizzazione dell’opera possa
pregiudicare irrimediabilmente le pretese
dei ricorrenti,
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia (Sezione Seconda) accoglie e per
l'effetto:
a) sospende il provvedimento impugnato;
b) fissa per la trattazione di merito del ricorso
l'udienza pubblica del 12.07.2012
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 11.05.2012 n. 664 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 19 del
10.05.2012, "Testo
coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12
«Legge per il governo del territorio»". |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
Ristrutturazione edilizia senza vincolo di
sagoma: la Regione Lombardia interviene sul
passato
(07.05.2012 - link a http://studiospallino.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 18 del
02.05.2012, "Aggiornamento dell’elenco
degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche loro attribuite
dall’art. 80 della legge regionale
11.03.2005, n. 12" (decreto
D.G. 18.04.2012 n. 3410). |
aprile 2012 |
|
URBANISTICA:
L. Spallino,
Approvazione dei PGT in Lombardia: nessuna
proroga (17.04.2012 - link a http://studiospallino.blogspot.it). |
marzo 2012 |
|
URBANISTICA:
"Presa d'atto della comunicazione
dell'Assessore Belotti avente ad oggetto:
"PIANI DI GOVERNO DEL TERRITORIO -
AGGIORNAMENTO E INDICAZIONI" (deliberazione
G.R. 29.03.2012 n. 3211). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del
16.03.2012, "Norme per la
valorizzazione del patrimonio edilizio
esistente e altre disposizioni in materia
urbanistico-edilizia" (L.R.
13.03.2012 n. 4).
---------------
Al riguardo, si leggano anche i seguenti
commenti:
●
La legge sulla casa e sull'edilizia
approvata a maggioranza;
●
I punti chiave della legge. |
febbraio 2012 |
|
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittimo il permesso di costruire
rilasciato in zona agricola per la
costruzione di residenze dei figli
dell'imprenditore agricolo.
Con il
secondo motivo aggiunto, il WWF rileva che
il permesso di costruire è stato rilasciato
in assenza dei presupposti richiesti
dall’art. 59 della L.R. n. 12/2005 per gli
interventi in area agricola, che consente di
costruire solo abitazioni da destinare alla
residenza dell’imprenditore agricolo e dei
dipendenti, mentre le tre abitazioni
assentite sono destinate alla residenza dei
tre figli, i quali non costituiscono la
forza lavoro dell’azienda, ma partecipano
solo saltuariamente all’attività agricola.
La doglianza risulta fondata.
La legislazione regionale lombarda in tema
di governo del territorio (L.R. 11.3.2005 n.
12), agli artt. 59, 60, 61 e 62, disciplina
le modalità di edificazione in ambito
agricolo. Con tali norme, riprendendo
sostanzialmente i contenuti dell’
antecedente L. R. 07.06.1980 n. 93, in materia
di edificazione nelle zone agricole, si
persegue lo scopo di valorizzare e
recuperare il patrimonio agricolo, limitare
l'utilizzazione edilizia dei territori
agricoli, assicurando il soddisfacimento
delle esigenze degli imprenditori e dei
lavoratori agricoli.
La giurisprudenza formatasi sulla L.R. n. 93
del 1980 aveva rilevato che tale disciplina
non autorizzava il rilascio di concessioni
ad altri che all'imprenditore agricolo,
previo accertamento di effettiva esistenza e
funzionamento dell'azienda agricola (art.
3); il che significa che sono ammessi
soltanto opere o interventi attinenti
all'agricoltura, mentre restano interdette
le trasformazioni del territorio che non
siano funzionali all'attività agricola (cfr.
TAR Milano, Sez. 2, 25.01.1995 n. 90,
TAR Brescia 04.10.1993 n. 798).
Ora l’art. 59 della L.R. 11.3.2005 n. 12, al
c.1, dispone che in zona classificata
agricola “sono ammesse esclusivamente le
opere realizzate in funzione della
conduzione del fondo e destinate alle
residenze dell'imprenditore agricolo e dei
dipendenti dell'azienda, nonché alle
attrezzature e infrastrutture produttive
necessarie per lo svolgimento delle attività
di cui all'articolo 2135 del codice civile
quali stalle, silos, serre, magazzini,
locali per la lavorazione e la conservazione
e vendita dei prodotti agricoli secondo i
criteri e le modalità previsti dall'articolo
60”.
Il secondo comma soggiunge che “La
costruzione di nuovi edifici residenziali di
cui al comma 1 è ammessa qualora le esigenze
abitative non possano essere soddisfatte
attraverso interventi sul patrimonio
edilizio esistente”.
Può dunque affermarsi che la disciplina
legislativa consente l’edificazione in zona
agricola solo al ricorrere dei restrittivi e
tassativi (“esclusivamente”)
requisiti indicati
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.02.2012 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Regione Lombardia,
Progetto di legge “MISURE PER LA CRESCITA,
LO SVILUPPO E L’OCCUPAZIONE”.
---------------
La Giunta Regionale della Lombardia, venerdì
10.02.2012, ha approvato il Progetto di
Legge n. 0146 "MISURE PER LA CRESCITA, LO
SVILUPPO E L'OCCUPAZIONE".
Ora il
progetto di legge inizierà l’iter nella
commissione competente prima di
approdare in Consiglio Regionale.
Di particolare interesse risultano essere i
seguenti articoli:
● Art. 16 - (Modifiche all’articolo 10
della l.r. 21/2008 in tema di sale
cinematografiche);
● Art. 17 - (Disciplina dei titoli edilizi
di cui all’articolo 27, comma 1, lettera d),
della l. r. 11.03.2005, n. 12 "Legge per il
governo del territorio" a seguito della
sentenza della Corte Costituzionale n.
309/2011);
● Art. 18 - (Disposizioni in materia di
semplificazione urbanistico-edilizia);
● Art. 21 - (Istituzione del fondo per la
prevenzione del rischio idrogeologico);
● Art. 22 - (Modifiche agli articoli 29 e 30
della l.r. 26/2003 “Disciplina dei servizi
locali di interesse economico generale.
Norme in materia di gestione dei rifiuti, di
energia, di utilizzo del sottosuolo e di
risorse idriche”. Programma energetico
ambientale regionale (PEAR) e obiettivi in
materia di fonti rinnovabili “FER”);
● Art. 23 - (Inserimento dell’articolo 9-bis
nella l.r. 24/2006. Disposizioni in materia
di efficienza energetica in edilizia);
● Art. 24 - (Modifiche al Titolo III della
l.r. 26/2003 - Infrastrutture per la
distribuzione di energia elettrica);
● Art. 26 - (Sostituzione dell’articolo 31
della l.r. 7/2010. Competenze regionali in
materia di oli minerali);
● Art. 27 - (Modifiche all’articolo 10 della
l.r. 11.12.2006, n. 24 "Norme per la
prevenzione e la riduzione delle emissioni
in atmosfera a tutela della salute e
dell'ambiente". Sistemi geotermici a bassa
entalpia a circuito aperto con prelievo di
acqua dal sottosuolo);
● Art. 28 - (Inserimento dell’articolo
21-bis nella l.r. 26/2003. Incentivi per la
bonifica di siti contaminati);
● Art. 29 - (Inserimento dell’articolo 8-bis
nella l.r. 24/2006. Misure di
semplificazione per le autorizzazioni alle
emissioni in atmosfera);
● Art. 31 - (Modifiche all’articolo 11 della
l.r. 24/2006. Impianti a biomassa);
● TITOLO V - Interventi per il governo del
sottosuolo e per la diffusione sul
territorio regionale della banda ultra-larga
(artt. 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43,
44);
● Art. 55 - (Appalti per favorire l’accesso
alle micro, piccole e medie imprese). |
gennaio 2012 |
|
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 3 del
19.01.2012, "Deliberazione di Giunta
regionale 30.11.2011 n. IX/2616
“Aggiornamento dei ‘Criteri ed indirizzi per
la definizione della componente geologica,
idrogeologica e sismica del piano di governo
del territorio, in attuazione dell’art. 57,
comma 1, della l.r. 11.03.2005, n. 12’,
approvati con d.g.r. 22.12.2005, n. 8/1566 e
successivamente modificati con d.g.r.
28.05.2008, n. 8/7374”, pubblicata sul BURL
n. 50 Serie ordinaria del 15.12.2012" (Errata
Corrige ed integrale ripubblicazione). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 2 del
13.01.2012, "Criteri e procedure per
l’esercizio delle funzioni amministrative in
materia di beni paesaggistici in attuazione
della legge regionale 11.03.2005, n. 12 -
Contestuale revoca della d.g.r. 2121/2006" (deliberazione
G.R. 22.12.2011 n. 2727).
---------------
Nuovi criteri regionali per il paesaggio.
Da oggi in vigore i nuovi criteri e
procedure per l’esercizio delle funzioni
paesaggistiche approvati con la DGR n. IX/2727
del 22.12.2011.
Con la pubblicazione sul BURL n. 2 del
13.01.2012 del provvedimento regionale
entrano in vigore, sostituendo quelli
approvati nel 2006, i nuovi criteri
regionali che costituiscono il riferimento
per tutti gli Enti locali lombardi dettando
criteri, indirizzi e procedure per il
miglior esercizio delle competenze
paesaggistiche.
Le principali novità sono costituite dalla
complessiva maggior chiarezza espositiva,
dall’illustrazione del percorso metodologico
che tiene conto delle disposizioni del Piano
Paesaggistico Regionale approvato nel 2010,
dall’indicazione di criteri paesaggistici
per alcune specifiche categorie di opere ed
interventi, dalla chiara declinazione
dell’attribuzione delle competenze
paesaggistiche agli Enti locali, dalla
rappresentazione, anche tramite l’utilizzo
di diagrammi di flusso, delle fasi del
percorso amministrativo per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, sia per
la procedura “ordinaria” che per quella
“semplificata”.
Infine costituiscono parte integrante del
provvedimento regionale le appendici al
documento che riportano la modulistica e la
documentazione per la presentazione dei
progetti (appendice A) e le schede degli
elementi costituivi del paesaggio (appendice
B).
Nelle prossime settimane i funzionari della
Struttura Paesaggio saranno impegnati, con
il supporto decisivo delle Sedi territoriali
regionali, nella divulgazione dei contenuti
di questo significativo provvedimento della
Giunta regionale.
Per maggiori informazioni:
struttura_paesaggio@regione.lombardia.it
luisa_pedrazzini@regione.lombardia.it
sergio_cavalli@regione.lombardia.it
angelo_guasconi@regione.lombardia.it
francesco_solano@regione.lombardia.it
(13.01.2012 - link a
www.regione.lombardia.it). |
ANNO 2011 |
|
dicembre 2011 |
|
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 52 del
29.12.2011, "Approvazione delle
disposizioni attuative per la presentazione
delle domande per l’accesso al Fondo Aree
Verdi secondo procedure a sportello, in
attuazione della d.g.r. 11297/2010 (l.r.
12/2005, art. 43, c. 2-bis e segg.)"
(decreto
D.G. 22.12.2011 n. 12754). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 del
15.12.2011, "Aggiornamento dei “Criteri
ed indirizzi per la definizione della
componente geologica, idrogeologica e
sismica del piano di governo del territorio,
in attuazione dell’art. 57, comma 1, della
l.r. 11.03.2005, n. 12”, approvati con
d.g.r. 22.12.2005, n. 8/1566 e
successivamente modificati con d.g.r.
28.05.2008, n. 8/7374" (deliberazione
G.R. 30.11.2011 n. 2616). |
novembre 2011 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Corte
Costituzionale n. 309/2011: nessuna
demolizione e ricostruzione senza rispetto
della sagoma.
Nella seduta del 20.01.2010 della
Commissione V ^Territorio^ della Lombardia
il dott. Umberto Sala, alto funzionario
regionale, ebbe a dichiarare che "da
circa un anno sono intervenute sentenze dal
TAR di Milano e di Brescia che hanno
evidenziato un contrasto" la normativa
nazionale e quella lombarda in tema di
ristrutturazione, sull’assunto che la legge
dello Stato porrebbe -in punto ricostruzione
con vincolo di sagoma- una norma di
principio che le regioni non potrebbero
derogare. "Sarebbe auspicabile che il
TAR, pur continuando ad eccepire, rimettesse
la questione alla Corte Costituzionale",
concludeva il dirigente.
Il dott. Sala é stato accontentato. Non solo
-come noto- il TAR ha rimesso alla Corte la
questione nel settembre 2010, ma con
sentenza 23.11.2011 n. 309
questa ha dichiarato l'incostituzionalità:
1. dell’art. 27, comma
1, lettera d), ultimo periodo, della legge
della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), nella
parte in cui esclude l’applicabilità del
limite della sagoma alle ristrutturazioni
edilizie mediante demolizione e
ricostruzione;
2. dell’art. 103 della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui
disapplica l’art. 3 del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia
edilizia) (testo A);
3. dell’art. 22 della legge della Regione
Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi
normativi per l’attuazione della
programmazione regionale e di modifica ed
integrazione di disposizioni legislative –
Collegato ordinamentale 2010),
confermando la fondatezza della eccezione di
illegittimità costituzionale sollevata dal
TAR Lombardia con l'ordinanza n. 5122 del
7.9.2010 (sul punto, v.
Ristrutturazione edilizia: e alla fine il
TAR ha rimesso alla Corte Costituzionale il
rito lombardo), ossia che non c'é
spazio per una definizione di
ristrutturazione edilizia diversa da quella
indicata dal legislatore nazionale
nell'articolo 3 del DPR 380/2011.
Sugli esiti della decisione della Corte sui
titoli rilasciati, v. La ristrutturazione
edilizia in Lombardia alla luce della l.r.
7/2010 di interpretazione autentica
dell'art. 27 l.r. 12/2005 pubblicato il
30.06.2010 all'indirizzo
www.studiospallino.it/interventi/ristrutturazione.htm
(link a http://studiospallino.blogspot.com).
< > < > < > < > < > < > < > < >
Sono da ricondursi nell’ambito della
normativa di principio in materia di governo
del territorio le disposizioni legislative
riguardanti i titoli abilitativi per gli
interventi edilizi: a fortiori
sono principi fondamentali della materia le
disposizioni che definiscono le categorie di
interventi, perché è in conformità a queste
ultime che è disciplinato il regime dei
titoli abilitativi, con riguardo al
procedimento e agli oneri, nonché agli abusi
e alle relative sanzioni, anche penali.
L’intero corpus normativo statale in ambito
edilizio è costruito sulla definizione degli
interventi, con particolare riferimento alla
distinzione tra le ipotesi di
ristrutturazione urbanistica, di nuova
costruzione e di ristrutturazione edilizia
cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi
di ristrutturazione edilizia cosiddetta
leggera e degli altri interventi (restauro e
risanamento conservativo, manutenzione
straordinaria e manutenzione ordinaria),
dall’altro. La definizione delle diverse
categorie di interventi edilizi spetta,
dunque, allo Stato.
---------------
In base alla normativa statale di principio,
quindi, un intervento di demolizione e
ricostruzione che non rispetti la sagoma
dell’edificio preesistente –intesa
quest’ultima come la conformazione
planivolumetrica della costruzione e il suo
perimetro considerato in senso verticale e
orizzontale– configura un intervento di
nuova costruzione e non di ristrutturazione
edilizia.
---------------
La linea di distinzione tra le ipotesi di
nuova costruzione e quelle degli altri
interventi edilizi non può non essere
dettata in modo uniforme sull’intero
territorio nazionale, la cui «morfologia»
identifica il paesaggio, considerato questo
come «la rappresentazione materiale e
visibile della Patria, coi suoi caratteri
fisici particolari, con le sue montagne, le
sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi,
le sue rive, con gli aspetti molteplici e
vari del suo suolo, quali si sono formati e
son pervenuti a noi attraverso la lenta
successione dei secoli».
Sul territorio, infatti, «vengono a trovarsi
di fronte» –tra gli altri– «due tipi di
interessi pubblici diversi: quello alla
conservazione del paesaggio, affidato allo
Stato, e quello alla fruizione del
territorio, affidato anche alle Regioni».
Fermo restando che la tutela del paesaggio e
quella del territorio sono necessariamente
distinte, rientra nella competenza
legislativa statale stabilire la linea di
distinzione tra le ipotesi di nuova
costruzione e quelle degli altri interventi
edilizi.
Se il legislatore regionale potesse definire
a propria discrezione tale linea, la
conseguente difformità normativa che si
avrebbe tra le varie Regioni produrrebbe
rilevanti ricadute sul «paesaggio […] della
Nazione» (art. 9 Cost.), inteso come
«aspetto del territorio, per i contenuti
ambientali e culturali che contiene, che è
di per sé un valore costituzionale», e sulla
sua tutela.
---------------
L’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo
periodo, della legge della Regione Lombardia
n. 12 del 2005, come interpretato dall’art.
22 della legge della Regione Lombardia n. 7
del 2010, nel definire come ristrutturazione
edilizia interventi di demolizione e
ricostruzione senza il vincolo della sagoma,
è in contrasto con il principio fondamentale
stabilito dall’art. 3, comma 1, lettera d),
del d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente
violazione dell’art. 117, terzo comma,
Cost., in materia di governo del territorio.
Parimenti lesivo dell’art. 117, terzo comma,
Cost., è l’art. 103 della legge della
Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella
parte in cui, qualificando come «disciplina
di dettaglio» numerose disposizioni
legislative statali, prevede la
disapplicazione della legislazione di
principio in materia di governo del
territorio dettata dall’art. 3 del d.P.R. n.
380 del 2001 con riguardo alla definizione
delle categorie di interventi edilizi.
... nel giudizio di legittimità
costituzionale degli artt. 27, comma 1,
lettera d), ultimo periodo, e 103 della
legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n.
12 (Legge per il governo del territorio) e
dell’art. 22 della legge della Regione
Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi
normativi per l’attuazione della
programmazione regionale e di modifica ed
integrazione di disposizioni legislative –
Collegato ordinamentale 2010), promosso dal
Tribunale amministrativo regionale per la
Lombardia, Sez. II, nel procedimento
vertente tra C. B. ed altro e il Comune di
Besozzo con ordinanza del 07.09.2010,
iscritta al n. 364 del registro ordinanze
2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 49, prima serie
speciale, dell’anno 2010.
...
2.
– La
questione è fondata.
2.1.
– Questa Corte ha già ricondotto
nell’ambito della normativa di principio in
materia di governo del territorio le
disposizioni legislative riguardanti i
titoli abilitativi per gli interventi
edilizi (sentenza n. 303 del 2003, punto
11.2 del Considerato in diritto): a fortiori
sono principi fondamentali della materia le
disposizioni che definiscono le categorie di
interventi, perché è in conformità a queste
ultime che è disciplinato il regime dei
titoli abilitativi, con riguardo al
procedimento e agli oneri, nonché agli abusi
e alle relative sanzioni, anche penali.
L’intero corpus normativo statale in ambito
edilizio è costruito sulla definizione degli
interventi, con particolare riferimento alla
distinzione tra le ipotesi di
ristrutturazione urbanistica, di nuova
costruzione e di ristrutturazione edilizia
cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi
di ristrutturazione edilizia cosiddetta
leggera e degli altri interventi (restauro e
risanamento conservativo, manutenzione
straordinaria e manutenzione ordinaria),
dall’altro. La definizione delle diverse
categorie di interventi edilizi spetta,
dunque, allo Stato.
2.2.
– Tali categorie sono individuate
dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001,
collocato nel titolo I della parte I del
testo unico, intitolato «Disposizioni
generali». In particolare, la lettera d)
del comma 1 di detto articolo include, nella
definizione di «ristrutturazione edilizia»,
gli interventi di demolizione e
ricostruzione con identità di volumetria e
di sagoma rispetto all’edificio
preesistente; la successiva lettera e)
classifica come interventi di «nuova
costruzione» quelli di «trasformazione
edilizia e urbanistica del territorio non
rientranti nelle categorie definite alle
lettere precedenti».
In base alla
normativa statale di principio, quindi, un
intervento di demolizione e ricostruzione
che non rispetti la sagoma dell’edificio
preesistente –intesa quest’ultima come la
conformazione planivolumetrica della
costruzione e il suo perimetro considerato
in senso verticale e orizzontale– configura
un intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione edilizia.
A conferma di ciò non sta solo il dato
letterale dell’art. 3, comma 1, lettera d),
del d.P.R. n. 380 del 2001 –che fa
riferimento alla «stessa volumetria e
sagoma» dell’edificio preesistente e
ammette «le sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica»–
ma vi è anche la successiva legislazione
statale in materia edilizia. L’art. 5, commi
9 e ss., del decreto-legge 13.05.2011, n. 70
(Semestre Europeo – Prime disposizioni
urgenti per l’economia), convertito, con
modificazioni, nella legge 12.07.2011, n.
106, infatti, nel regolare interventi di
demolizione e ricostruzione con ampliamenti
di volumetria e adeguamenti di sagoma, non
ha qualificato tali interventi come
ristrutturazione edilizia, né ha modificato
la disciplina dettata al riguardo dall’art.
3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
2.3.
– La linea di distinzione tra le
ipotesi di nuova costruzione e quelle degli
altri interventi edilizi, d’altronde, non
può non essere dettata in modo uniforme
sull’intero territorio nazionale, la cui
«morfologia» identifica il paesaggio,
considerato questo come «la rappresentazione
materiale e visibile della Patria, coi suoi
caratteri fisici particolari, con le sue
montagne, le sue foreste, le sue pianure, i
suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti
molteplici e vari del suo suolo, quali si
sono formati e son pervenuti a noi
attraverso la lenta successione dei secoli»
(Relazione illustrativa della legge 11.06.1922, n. 778 «Per la tutela delle
bellezze naturali e degli immobili di
particolare interesse storico», Atti
parlamentari, Legislatura XXV, Senato del
Regno, Tornata del 25.09.1920).
Sul territorio, infatti, «vengono a
trovarsi di fronte» –tra gli altri– «due
tipi di interessi pubblici diversi: quello
alla conservazione del paesaggio, affidato
allo Stato, e quello alla fruizione del
territorio, affidato anche alle Regioni»
(sentenza n. 367 del 2007, punto 7.1 del
Considerato in diritto). Fermo restando che
la tutela del paesaggio e quella del
territorio sono necessariamente distinte,
rientra nella competenza legislativa statale
stabilire la linea di distinzione tra le
ipotesi di nuova costruzione e quelle degli
altri interventi edilizi.
Se il legislatore
regionale potesse definire a propria
discrezione tale linea, la conseguente
difformità normativa che si avrebbe tra le
varie Regioni produrrebbe rilevanti ricadute
sul «paesaggio […] della Nazione»
(art. 9 Cost.), inteso come «aspetto del
territorio, per i contenuti ambientali e
culturali che contiene, che è di per sé un
valore costituzionale» (sentenza n. 367
del 2007), e sulla sua tutela.
2.4.
– In conclusione, l’art. 27, comma 1,
lettera d), ultimo periodo, della legge
della Regione Lombardia n. 12 del 2005, come
interpretato dall’art. 22 della legge della
Regione Lombardia n. 7 del 2010, nel
definire come ristrutturazione edilizia
interventi di demolizione e ricostruzione
senza il vincolo della sagoma, è in
contrasto con il principio fondamentale
stabilito dall’art. 3, comma 1, lettera d),
del d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente
violazione dell’art. 117, terzo comma,
Cost., in materia di governo del territorio.
Parimenti lesivo dell’art. 117, terzo comma,
Cost., è l’art. 103 della legge della
Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella
parte in cui, qualificando come «disciplina
di dettaglio» numerose disposizioni
legislative statali, prevede la
disapplicazione della legislazione di
principio in materia di governo del
territorio dettata dall’art. 3 del d.P.R. n.
380 del 2001 con riguardo alla definizione
delle categorie di interventi edilizi.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo
periodo, della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), nella parte in cui esclude
l’applicabilità del limite della sagoma alle
ristrutturazioni edilizie mediante
demolizione e ricostruzione;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 103 della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui
disapplica l’art. 3 del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia
edilizia) (testo A);
3) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 22 della legge della Regione
Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi
normativi per l’attuazione della
programmazione regionale e di modifica ed
integrazione di disposizioni legislative –
Collegato ordinamentale 2010)
(Corte Costituzionale,
sentenza 23.11.2011 n. 309). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La
finalità perseguita dal legislatore lombardo
con la l.r. 93/1980 –confermata negli
articoli da 59 a 62 della vigente legge
regionale 12/2005– è quella di mantenere e
conservare le zone agricole o a destinazione
agricola della Regione, attraverso la
limitazione degli usi residenziali, ammessi
soltanto se a servizio dell’impresa
agricola, per impedire la definitiva ed
irrimediabile perdita delle porzioni
territoriali a vocazione rurale.
Tale scopo è reso evidente dal particolare
procedimento previsto per gli interventi
edificatori in zona agricola (ora
disciplinato dall’art. 60 della LR 12/2005),
caratterizzato dalla presentazione al Comune
di un impegno al mantenimento della
destinazione, da trascriversi nei pubblici
registri e costituente un vero e proprio
vincolo sull’immobile.
Tale vincolo non può venire meno se non in
caso di variazione urbanistica dell’area
interessata (così l’art. 60 della LR 12/2005
ma anche la pregressa LR 93/1980), essendo
pertanto indifferenti, sul regime del
vincolo, le eventuali vicende personali
dell’imprenditore agricolo o dei suoi aventi
causa.
---------------
Il vincolo di asservimento della residenza a
servizio dell’impresa agricola non è nella
disponibilità di chi pone in essere l’atto
di impegno, né sussiste decadenza del
vincolo per cessazione dell’attività
agricola o vendita dell’immobile; il vincolo
appare necessario per la piena salvaguardia
del patrimonio agricolo della Regione; gli
strumenti urbanistici possono ovviamente
disporre un motivato cambio d’uso ma la
signora ..., che ha realizzato di fatto tale
mutamento in violazione dello strumento
urbanistico, non ha alcuna pretesa tutelata
a che il Comune, attraverso il PGT, adegui
la situazione di diritto a quella di fatto
illecitamente realizzata.
---------------
Non appare né illogico né arbitrario che
l’Amministrazione, nel confermare la
vocazione agricola dell’area dell’esponente,
abbia escluso di utilizzare lo strumento
urbanistico quale improprio mezzo per
realizzare una sorta di surrettizia
sanatoria, che avrebbe finito così di fatto
per eliminare l’abuso posto in essere
dall’esponente.
E’ del resto escluso dallo stesso art. 36,
citato dalla ricorrente, che la sola
conformità dell’opera abusiva allo strumento
urbanistico sopravvenuto consenta la
sanatoria dell’abuso, essendo invece
necessaria anche la conformità allo
strumento vigente al momento di esecuzione
dell’opera (c.d. doppia conformità).
La finalità perseguita dal legislatore
lombardo con la l.r. 93/1980 –confermata
negli articoli da 59 a 62 della vigente
legge regionale 12/2005– è quella di
mantenere e conservare le zone agricole o a
destinazione agricola della Regione,
attraverso la limitazione degli usi
residenziali, ammessi soltanto se a servizio
dell’impresa agricola, per impedire la
definitiva ed irrimediabile perdita delle
porzioni territoriali a vocazione rurale (su
tale finalità, si veda TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 07.07.2011, n. 1843, oltre
all’importante ordinanza della Corte
Costituzionale n. 167/1995, di declaratoria
della manifesta infondatezza della questione
di legittimità costituzionale degli articoli
2 e 3 della legge regionale 93/1980).
Tale scopo è reso evidente dal particolare
procedimento previsto per gli interventi
edificatori in zona agricola (ora
disciplinato dall’art. 60 della LR 12/2005),
caratterizzato dalla presentazione al Comune
di un impegno al mantenimento della
destinazione, da trascriversi nei pubblici
registri e costituente un vero e proprio
vincolo sull’immobile.
Tale vincolo non può venire meno se non in
caso di variazione urbanistica dell’area
interessata (così l’art. 60 della LR 12/2005
ma anche la pregressa LR 93/1980), essendo
pertanto indifferenti, sul regime del
vincolo, le eventuali vicende personali
dell’imprenditore agricolo o dei suoi aventi
causa.
D’altronde, se così non fosse, la disciplina
regionale sulla conservazione e sul
mantenimento delle aree agricole sarebbe
facilmente elusa, ad esempio attraverso la
cessione dell’immobile dall’imprenditore
agricolo ad un soggetto privo di tale
qualità, oppure mediante la cessazione
dell’attività di impresa agricola.
Non può pertanto configurarsi,
contrariamente a quanto sostenuto
dall’esponente, una sostanziale
assimilazione fra la ordinaria destinazione
abitativa e la residenza a servizio
dell’impresa agricola.
Sul punto preme ancora ribadire –e si
perdoni l’ovvietà– che non è certamente
vietata in senso assoluto la trasformazione
di una zona da agricola a residenziale; nel
caso di specie tuttavia, l’esponente
giustifica la propria pretesa
all’accoglimento della sua osservazione al
PGT, sulla base dell’intervenuto mutamento
di destinazione realizzato in via di fatto,
dopo l’acquisto dell’immobile.
Non pare certo al Collegio che la signora
... possa reputarsi titolata ad esigere un
simile cambio d’uso, visto anche
l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa, che riconosce ai Comuni
ampia discrezionalità nelle scelte
urbanistiche –nel caso di specie si è
trattato di confermare la destinazione
agricola già esistente– scelte che
richiedono una specifica motivazione solo in
caso di affidamento qualificato del privato,
rientrando in tale ultima ipotesi le
situazioni di chi ha ottenuto un giudicato
di annullamento di una precedente
destinazione di zona ovvero di un diniego di
titolo edilizio oppure ancora del
silenzio-rifiuto formatosi su una domanda
edilizia (si veda, sul punto, la ancora
fondamentale decisione del Consiglio di
Stato, Adunanza Plenaria, 08.01.1986, n. 1).
Alle situazioni sopra indicate, viene
inoltre equiparata la condizione del privato
che ha stipulato accordi vincolanti con la
Pubblica Amministrazione, quale ad esempio
una convenzione di lottizzazione (cfr. sul
punto, fra le tante, TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 24.02.2010, n. 452).
La posizione dell’esponente non rientra in
nessuna di quelle sopra indicate, sicché la
stessa non appare titolare di una
particolare o qualificata posizione di
affidamento nei confronti del Comune.
---------------
Il vincolo di
asservimento della residenza a servizio
dell’impresa agricola non è nella
disponibilità di chi pone in essere l’atto
di impegno, né sussiste decadenza del
vincolo per cessazione dell’attività
agricola o vendita dell’immobile; il vincolo
appare necessario per la piena salvaguardia
del patrimonio agricolo della Regione; gli
strumenti urbanistici possono ovviamente
disporre un motivato cambio d’uso ma la
signora ..., che ha realizzato di fatto tale
mutamento in violazione dello strumento
urbanistico, non ha alcuna pretesa tutelata
a che il Comune, attraverso il PGT, adegui
la situazione di diritto a quella di fatto
illecitamente realizzata.
---------------
Nel sesto
ed ultimo motivo del gravame principale,
viene denunciata la presunta violazione da
parte del Comune dell’art. 36 del DPR
380/2001, in quanto, a detta dell’esponente,
lo strumento urbanistico comunale potrebbe
anche sanare un abuso edilizio.
Il mezzo non può però trovare accoglimento,
in quanto –con specifico riferimento alla
presente fattispecie– non appare né illogico
né arbitrario che l’Amministrazione, nel
confermare la vocazione agricola dell’area
dell’esponente, abbia escluso di utilizzare
lo strumento urbanistico quale improprio
mezzo per realizzare una sorta di
surrettizia sanatoria, che avrebbe finito
così di fatto per eliminare l’abuso posto in
essere dall’esponente.
E’ del resto escluso dallo stesso art. 36,
citato dalla ricorrente, che la sola
conformità dell’opera abusiva allo strumento
urbanistico sopravvenuto consenta la
sanatoria dell’abuso, essendo invece
necessaria anche la conformità allo
strumento vigente al momento di esecuzione
dell’opera (c.d. doppia conformità).
Infine, in merito alla nota del legale del
Comune dell’08.08.2001 (doc. 1 della
ricorrente in data 01.09.2011), la stessa
non avalla in alcun modo il comportamento
dell’esponente, visto che il difensore
dell’Amministrazione indica chiaramente a
quest’ultima come appaia insuperabile il
vincolo pattizio gravante sulla costruzione
della ricorrente (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.11.2011 n. 2823 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2011 |
|
URBANISTICA: L.
Spallino,
Lombardia, Esiti della mancata approvazione
dei PGT al 31.12.2012
(link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA: EDIFICI
DI CULTO – SEDI DI ASSOCIAZIONI CULTURALI
ISLAMICHE – PREVALENZA DELL’ATTIVITA’ DI
PREGHIERA – DETERMINA MUTAMENTO DELLA
DESTINAZIONE D’USO – NECESSITA’ DI PERMESSO
DI COSTRUIRE - SUSSISTE.
In tema di edilizia cultuale, qualora un
immobile non risulti utilizzato in via
esclusiva quale luogo di culto, ma come sede
di un’Associazione culturale islamica (nella
specie ubicata in un negozio), in linea di
principio non sarebbe possibile affermare la
sussistenza di un’incompatibilità
edilizio-urbanistica della destinazione
d’uso dell’immobile medesimo, salvo che le
circostanze di fatto non inducano a ritenere
che l’attività ivi prevalentemente svolta
sia quella della preghiera congregazionale,
espressamente prevista dallo Statuto
dell’Associazione culturale, e quest’ultima
non sia in grado di provare il prevalente
svolgimento di attività diverse da quelle
proprie della preghiera.
LEGGE URBANISTICA DELLA LOMBARDIA – EDIFICI
DI CULTO – NECESSITA’ DI PERMESSO DI
COSTRUIRE ANCHE PER MUTAMENTI DI
DESTINAZIONE D’USO SENZA OPERE –
INCOSTITUZIONALITA’ PER DISCRIMINAZIONE –
NON SUSSISTE.
L’art. 52, comma 3-bis della L.R. della
Lombardia 11.03.2005 n. 12, che dispone la
necessità del rilascio del permesso di
costruire per i “mutamenti di destinazione
d’uso di immobili, anche non comportanti la
realizzazione di opere edilizie, finalizzati
alla creazione di luoghi di culto e luoghi
destinati a centri sociali”, non si presta a
dubbi di costituzionalità o di
discriminazione, poiché esso, trovando
applicazione in relazione all’intera
categoria delle “attrezzature di interesse
comune per servizi religiosi … gli immobili
(comunque) destinati a sedi di associazioni,
società o comunità di persone in qualsiasi
forma costituite, le cui finalità statutarie
o aggregative siano da ricondurre alla
religione, all’esercizio del culto o alla
professione religiosa quali sale di
preghiera, scuole di religione o centri
culturali”, si propone di controllare i
mutamenti di destinazione d’uso
suscettibili, per l’afflusso di persone o di
utenti, di creare centri di aggregazione con
riflessi di rilevante impatto urbanistico.
---------------
La sentenza resa in primo grado va riformata
e –per l’effetto– il ricorso ivi proposto va
respinto.
Il Collegio ribadisce in tal senso che, come
evidenziato anche nella recente ordinanza
cautelare n. 2008 dd. 10.05.2011, se un
immobile non risulta sia utilizzato in via
esclusiva quale luogo di culto (diritto,
questo, il cui esercizio è comunque
garantito anche ai non cittadini a’ sensi e
nei limiti dell’art. 19 Cost.), in linea di
principio non è possibile affermare la
sussistenza di un’incompatibilità
edilizio-urbanistica della destinazione
d’uso dell’immobile medesimo, il quale
peraltro consterebbe sia a tutt’oggi nella
specie adibito a “negozio”, anche se
poi divenuto sede dell’Associazione
Culturale Da’awa.
L’esame dello statuto di tale Associazione e
delle circostanze di fatto documentate sino
alla predetta data del 23.07.2011 convincono
tuttavia il Collegio della circostanza che,
a differenza del caso definito in sede
cautelare da questa stessa Sezione mediante
l’anzidetta ordinanza n. 2008 del 2001,
nella fattispecie non risulta materialmente
comprovato lo svolgimento da parte della
Associazione medesima di attività diverse da
quelle proprie della preghiera, nondimeno
reputata in via del tutto apodittica dal TAR
come accessoria e marginale nel contesto
degli scopi statutari perseguiti da Da’awa.
In effetti, nell’estrema genericità dei pur
commendevoli scopi di carattere generale
enunciati dallo statuto di Da’awa (“rafforzare
il legame di fratellanza umana tra comunità
e i cittadini locali attraverso lo scambio
culturale, la collaborazione sociale, la
vicinanza civile all’interno di un quadro di
rispetto e di integrazione”; “essere
un elemento di una area di convivenza e di
pace, promuovendo una condotta morale che
porti alla pratica del bene”; “far
rivivere gli insegnamenti del Profeta -
Sunna e la rivelazione Divina - Corano”),
la specifica attività di “organizzare
preghiere individuali e collettive”
assume all’evidenza un carattere non
occasionale ma del tutto preminente: e ciò
inderogabilmente impone, pertanto,
l’applicazione nella specie dell’art. 52,
comma 3-bis della L.R. 11.03.2005 n. 12 come
introdotto dall’art. 1 della L.R. 14.07.2006
n. 12, laddove si dispone la necessità del
rilascio del permesso di costruire per i “mutamenti
di destinazione d’uso di immobili, anche non
comportanti la realizzazione di opere
edilizie, finalizzati alla creazione di
luoghi di culto e luoghi destinati a centri
sociali”.
Né va sottaciuto che l’art. 70 e ss. della
medesima L.R. 12 del 2005 reca una specifica
disciplina urbanistica per i luoghi di culto
e che, medio tempore, lo ius superveniens
contenuto nell’art. 71, comma 1, lett.
c–bis, della L.R. 11.03.2005 n. 12, così
come inserito dall’art. 12 della L.R.
21.02.2011 n. 3, ha comunque ricondotto
nella categoria delle “attrezzature di
interesse comune per servizi religiosi … gli
immobili (comunque) destinati a sedi di
associazioni, società o comunità di persone
in qualsiasi forma costituite, le cui
finalità statutarie o aggregative siano da
ricondurre alla religione, all’esercizio del
culto o alla professione religiosa quali
sale di preghiera, scuole di religione o
centri culturali”.
In tale contesto, pertanto, la
trasformazione –inoppugnabilmente avvenuta
nella specie– del preesistente “negozio”
in luogo preminentemente adibito a culto non
poteva che richiedere, anche a prescindere
dalla concomitantemente contestata
realizzazione al piano seminterrato di un
tavolato interno, il rilascio del titolo
edilizio abilitante al mutamento della
destinazione d’uso dei relativi locali.
Né la disciplina contenuta nel testé citato
art. 52, comma 3-bis, della L.R. 12 del 2005
come introdotto dall’art. 1 della L.R. 12
del 2006 può reputarsi incostituzionale
secondo la prospettazione svolta in tal
senso dagli appellati.
Secondo questi ultimi, infatti, tale
disciplina violerebbe:
- l’art. 2 Cost. (riconoscimento
costituzionale dei diritti inviolabili
dell’uomo sia come singolo sia nelle
formazioni sociali; tra i diritti
inviolabili dell’uomo vi è il diritto alla
preghiera religiosa ed al culto);
- l’art. 3 Cost. (violazione del principio
d’eguaglianza e ragionevolezza in quanto
sarebbe chiara la discriminazione che la
Regione Lombardia pone a coloro che vogliano
destinare i locali, anche senza opere, a
luogo di culto -necessità di operare con
permesso di costruire- rispetto a tutti gli
altri cittadini che vogliano effettuare un
mutamento di destinazione d'uso d’altro
genere -il permesso di costruire non
necessita- è sufficiente la denuncia
d’inizio attività, o la semplice
comunicazione);
- l’art. 8 Cost. (libertà di tutte le
confessioni religiose davanti alla legge);
- l’art. 9 Cost. (promozione dello sviluppo
della cultura);
- gli artt. 18 e 19 Cost. (a mezzo della
contestata disciplina regionale si
inciderebbe e si annullerebbe il diritto di
associarsi liberamente ed il diritto di
professare liberamente la propria fede
religiosa al fine di farne propaganda -anche
a mezzo di associazioni culturali- ed anche
per esercitare in pubblico ed in privato il
proprio culto);
- l’art. 20 Cost. (si violerebbe il divieto
costituzionale di non porre speciali
limitazioni legislative per ogni forma
d’attività dell’associazione con fine di
culto);
- e, da ultimo, l’art. 21 Cost. (si
inciderebbe e si annullerebbe il diritto di
manifestare liberamente il proprio pensiero
costituito anche dall’esercizio del culto.
Il Collegio a tale ultimo riguardo evidenzia
che lo stesso giudice di primo grado ha
convenuto che l’art. 52, comma 3-bis della
L.R. 12 del 2005 per la sua collocazione e
la sua ratio è palesemente volto al
controllo di mutamenti di destinazione d’uso
suscettibili, per l’afflusso di persone o di
utenti, di creare centri di aggregazione
(chiese, moschee, centri sociali, ecc.)
aventi come destinazione principale o
esclusiva l’esercizio del culto religioso o
altre attività con riflessi di rilevante
impatto urbanistico, le quali richiedono la
verifica delle dotazioni di attrezzature
pubbliche rapportate a dette destinazioni:
se non altro agli effetti dell’altrettanto
necessario e conseguente rilascio del
certificato di agibilità (cfr. art. 23 e ss.
del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n.
380) dell’immobile destinato al nuovo uso,
nonché della parimenti necessaria e
conseguente pratica di prevenzione incensi
di cui al D.P.R. 12.01.1998 n. 37 di
competenza dei Vigili del Fuoco.
Pertanto non sussiste, nel contesto del
medesimo comma 3-bis, alcuna discriminazione
di carattere politico-culturale e religioso,
anche per il fatto che la disciplina
sopradescritta è uniformemente applicata ad
ogni luogo di culto, anche cattolico, nonché
ad ogni centro sociale, di qualsivoglia
tendenza socio-politica, al fine di
salvaguardare l’incolumità di tutti coloro
che frequentano tali luoghi di riunione (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 27.10.2011 n. 5778 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto:
Comunicazione di eseguita attività (c.e.a.)
ex art. 41, comma 2, L.R. n. 12/2005 ed
esame impatto paesistico dei progetti
(Regione
Lombardia, Giunta Regionale, Direzione
Generale Sistemi Verdi e Paesaggio, Progetti
Integrati Paesaggio, Paesaggio,
nota 20.10.2011 n. 21568 di prot.). |
settembre 2011 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comunicazione di eseguita
attività (c.e.a.) ex art. 41, comma 2, L.R.
n. 12/2005 ed esame impatto paesistico dei
progetti (Regione Lombardia, Giunta
Regionale, Direzione Generale Sistemi Verdi
e Paesaggio, Progetti Integrati Paesaggio,
Paesaggio,
nota
26.09.2011 n. 19762 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
disposizione di cui all'art. 52, comma
3-bis, L.R. 12/2005 della Lombardia vuole
evitare che -attraverso la liberalizzazione
dei cambi di destinazione d'uso stabilita
dall'art. 51 della LR 12/2005- siano
realizzate innovazioni di grande impatto sul
tessuto urbano senza un preventivo esame da
parte dell'amministrazione.
Anche in presenza non di un luogo
espressamente destinato all’esercizio del
culto islamico, ma solo di un luogo di
raduno di immigrati di religione islamica
con finalità meramente culturali e non
cultuali comunque trova applicazione
(configurandosi alternativamente l’ipotesi
del “centro sociale”, inteso come luogo di
aggregazione di una cospicua entità di
soggetti aventi interessi comuni) la
suddetta norma regionale che richiede il
rilascio di specifico titolo edilizio, nella
specie non richiesto.
La L.R.
11.03.2005 n. 12, al comma 3-bis dell’art.
52 (recante la rubrica ”Mutamenti di
destinazione d'uso con e senza opere
edilizie”) espressamente dispone che: “I
mutamenti di destinazione d’uso di immobili,
anche non comportanti la realizzazione di
opere edilizie, finalizzati alla creazione
di luoghi di culto e luoghi destinati a
centri sociali, sono assoggettati a permesso
di costruire”.
La Sezione (cfr. la sentenza 14.09.2010 n.
3522 ) ha già avuto modo di rilevare che
tale disposizione vuole evitare che
-attraverso la liberalizzazione dei cambi di
destinazione d'uso stabilita dall'art. 51
della LR 12/2005- siano realizzate
innovazioni di grande impatto sul tessuto
urbano senza un preventivo esame da parte
dell'amministrazione.
Va rilevato che quand’anche dovesse
accedersi alla tesi di parte ricorrente,
-secondo cui nella fattispecie non si
sarebbe in presenza di un luogo
espressamente destinato all’esercizio del
culto islamico, ma solo di un luogo di
raduno di immigrati di religione islamica
con finalità meramente culturali e non
cultuali- ciò non di meno comunque trova
applicazione (configurandosi
alternativamente l’ipotesi del “centro
sociale”, inteso come luogo di
aggregazione di una cospicua entità di
soggetti aventi interessi comuni) la
suddetta norma regionale che richiede il
rilascio di specifico titolo edilizio, nella
specie non richiesto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 22.09.2011 n. 1320 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: 1. Art. 11, L.R.
n. 12/2005 - Perequazione urbanistica -
Riduzione delle volumetrie realizzabili
rispetto alla disciplina urbanistica
previgente - Possibilità.
2. Art. 11, L.R.
n. 12/2005 - Perequazione urbanistica -
Previsione del meccanismo perequativo solo
per alcuni ambiti di trasformazione -
Possibilità.
1. La norma di cui all'art. 11, comma 2,
L.R. n. 12/2005, nel disporre che la P.A. -ove attribuisca alle aree del territorio
comunale un identico indice di edificabilità
territoriale, inferiore a quello minimo
fondiario, differenziato per parti del
territorio comunale- disciplini il rapporto
con la volumetria degli edifici esistenti,
in relazione ai vari tipi di intervento
previsti, non pone affatto un obbligo di
conservare la volumetria esistente: infatti,
l'art. 11 prevede, espressamente, la
conferma delle volumetrie degli edifici
esistenti solo "se mantenuti".
La P.A.,
dunque, specie laddove -come nel caso di
specie- muti la destinazione delle aree,
ben può ridurre le volumetrie realizzabili
rispetto a quanto previsto dalla disciplina
urbanistica previgente.
2. E' legittima la decisione della P.A. di
non estendere il meccanismo perequativo
all'intero territorio comunale e prevederlo
solo per alcuni ambiti di trasformazione:
infatti, l'art. 11, L.R. n. 12/2005 -nel
disporre che la P.A. possa attribuire un
identico indice di edificabilità
territoriale, inferiore a quello minimo
fondiario, differenziato per parti del
territorio comunale a tutte le aree del
territorio comunale, con eccezione delle
aree destinate all'agricoltura e di quelle
non soggette a trasformazione urbanistica-
attribuisce una facoltà alla P.A., facoltà
che non deve essere necessariamente
esercitata sull'intero territorio comunale
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
16.09.2011 n.
2233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2011 |
|
URBANISTICA: Art. 25, L.R. n.
12/2005 - Varianti urbanistiche -
Approvazione - Applicabilità della procedura
ex art. 2, L.R. n. 23/1997 - Piani attuativi
in variante - Approvazione - Applicabilità
della procedura ex art. 3, L.R. n. 23/1997 -
Sussiste.
L'art. 25, L.R. n. 12/2005 consente alle
Amministrazioni locali di approvare varianti
urbanistiche con la procedura di cui
all'art. 2 della LR 23/1997 e piani
attuativi in variante con la diversa
procedura di cui al successivo art. 3 della
stessa legge
(tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.07.2011 n.
1841 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2011 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Zona
agricola - Opere realizzate in funzione
della conduzione del fondo - Edificabilità -
E' mera possibilità.
La L.R.
n. 12/2005 prevedendo, all'art. 59, che
nelle aree destinate all'agricoltura dal
piano delle regole sono ammesse
esclusivamente le opere realizzate in
funzione della conduzione del fondo e
destinate alle residenze dell'imprenditore
agricolo e dei dipendenti dell'azienda,
nonché alle attrezzature e infrastrutture
produttive necessarie per lo svolgimento
delle attività di cui all'art. 2135 c.c.,
pone un limite alla tipologia di costruzioni
che possono essere realizzate in zona
agricola proprio a tutela di queste aree, ma
non prevede affatto che debba essere sempre
e comunque prevista la possibilità di
realizzare tali costruzioni
(tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.06.2011 n.
1468 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 del
07.06.2011, "Modalità per il sostegno
finanziario degli enti locali e degli enti
gestori delle aree regionali protette per
l’esercizio delle funzioni paesaggistiche
loro attribuite (art. 79, comma 1, lett. b),
l.r. 12/2005)"
(deliberazione G.R.
31.05.2011 n. 1802). |
maggio 2011 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del
06.05.2011 "Testo
coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12
«Legge per il governo del territorio»". |
aprile 2011 |
|
URBANISTICA:
GIORNATA DI STUDIO 08.04.2011 a Como: I
nuovi strumenti della programmazione
urbanistica, perequazioni, compensazioni e
diritti edificatori (gli
atti del convegno) (link a
www.notaicomolecco.it). |
marzo 2011 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Quesiti inerenti le possibilità di intervento in
aree con destinazione agricola di cui agli artt. 59-62 della
L.R. n. 12/2005. Richiesta parere circa la corretta
interpretazione applicativa della norma (Regione
Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica,
Programmazione e Pianificazione Territoriale,
nota 30.03.2011 n. 9064 di prot.). |
febbraio 2011 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, Corso di specializzazione
sull'applicazione della L.R. n. 12/2005: 5^
lezione (parte B) - Titoli abilitativi
(Geometra Orobico n. 1/2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 8 del 25.02.2011,
"Interventi normativi per l’attuazione
della programmazione regionale e di modifica
e integrazione di disposizioni legislative –
Collegato ordinamentale 2011"
(L.R.
21.02.2011 n. 3).
---------------
La presente legge
modifica/integra numerose
normative regionali in materia, tra l'altro,
di:
- B.U.R.L. (cfr. art. 3);
- cementi armati (cfr. art. 9);
- opere pubbliche di interesse regionale
(cfr. art. 10);
- legge regionale n. 12/2005 (cfr. art. 12);
- rifiuti (cfr. art. 15);
- inquinamento acustico (cfr. art. 16);
- emissioni in atmosfera (cfr. art. 17).
---------------
Collegato ordinamentale 2011 Regione
Lombardia: nuove modifiche alla legge
12/2005.
Nella seduta del 15.02.2001 il Consiglio
Regionale della Lombardia ha approvato il
cd. "Collegato ordinamentale 2011". Come si
legge nel comunicato stampa regionale,
Tra le novità previste, una nuova proroga ai
Comuni fino al 31.12.2012 per dotarsi
definitivamente del piano di governo del
territorio (PGT) e il via libera alle
deroghe eccezionali ai limiti
sull’inquinamento acustico oggi previste nel
caso essi dovessero mettere a repentaglio lo
svolgimento di eventi di rilievo
internazionali, come ad esempio i grandi
concerti.
Il “Collegato” equipara inoltre i
Centri culturali a carattere religioso agli
edifici di culto, prevedendo per la loro
realizzazione uno specifico percorso di
programmazione nei piani regolatori. Via
libera anche alla norma che dà la
possibilità ai Comuni di negare
l’autorizzazione ad aprire attività
commerciali nei centri storici se in
contrasto con il “decoro pubblico” e
le “tradizioni locali”.
Il “Collegato” recepisce inoltre la
direttiva europea Bolkestein sul commercio e
introduce norme di semplificazione
burocratica nell’edilizia e per lo
svolgimento di alcune attività, come ad
esempio la certificazione energetica, un
settore in espansione e al quale potranno
accedere adesso ai corsi formativi anche i
cittadini non iscritti a un albo.
Ancora una volta, dunque, l'ennesima
applicazione di quel vizio di tecnica
legislativa secondo cui con unica
disposizione si apportano importanti
modifiche a legislazioni del tutto diverse
tra loro, senza nessuna attenzione ai
complessi processi di implementazione della
normativa vigente, verso cui la stessa
Regione dichiara di voler prestare la
massima attenzione (v. Analisi
dell'attuazione delle leggi e valutazione
degli effetti delle politiche regionali sul
sito del Consiglio regionale).
Il collegato ordinamentale meriterebbe
un'analisi a sé. In ogni caso, le modifiche
relative alla legge n. 12 del 2005 sono
contenute nell'articolo 12, tra le quali
vanno segnalate:
- le modifiche dell'articolo 4 (Valutazione
ambientale dei piani), anche attraverso l'introdzione
del comma 3-bis, finalizzato a superare le
note perplessità relative alle procedure di
VAS e alla nomina dei relativi responsabili;
- la modifica dell'articolo 25 (Norma
transitoria), dove la data del 31.03.2010
per l'approvazione dei PGT é differita al
31.12.2012;
- la modifica dell'articolo 26 (Adeguamento
dei piani), cui dopo il comma 3-ter
dell’articolo 26 é aggiunto il comma
3-quater, secondo cui "I comuni che alla
data del 30.09.2011 non hanno adottato il
PGT non possono dar corso all’approvazione
di piani attuativi del vigente PRG comunque
denominati, fatta salva l’approvazione dei
piani già adottati alla medesima data”;
- l'introduzione dell'articolo 32-bis
(Adempimenti del comune), a norma del quale
"Nell’ambito delle procedure di cui ai
capi II e III, il comune, dietro
corresponsione dei diritti amministrativi e
delle spese dovuti, è tenuto a corredare
d’ufficio le domande di permesso di
costruire o le denunce di inizio attività di
tutti i certificati il cui rilascio è di sua
competenza”;
- la sostituzione del secondo comma
dell'articolo 41 (Interventi realizzabili
mediante denuncia di inizio attività), il
cui nuovo testo recita “2. Nel caso di
interventi assentiti in forza di permesso di
costruire o di denuncia di inizio attività,
è data facoltà all’interessato di presentare
comunicazione di eseguita attività
sottoscritta da tecnico abilitato, per
varianti che non incidano sugli indici
urbanistici e sulle volumetrie, che non
modifichino la destinazione d’uso e la
categoria edilizia, non alterino la sagoma
dell’edificio e non violino le eventuali
prescrizioni contenute nel permesso di
costruire. Ai fini dell’attività di
vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai
fini del rilascio del certificato di
agibilità, tali comunicazioni costituiscono
parte integrante del procedimento relativo
al titolo abilitativo dell’intervento
principale e possono essere presentate al
comune sino alla dichiarazione di
ultimazione dei lavori.”;
- l'integrazione dell'articolo 71, in
materia di edifici di culto, cui dopo la
lettera c) del comma 1 è aggiunta la
disposizione c bis): "gli immobili
destinati a sedi di associazioni, società o
comunità di persone in qualsiasi forma
costituite, le cui finalità statutarie o
aggregative siano da ricondurre alla
religione, all’esercizio del culto o alla
professione religiosa quali sale di
preghiera, scuole di religione o centri
culturali”;
- la riscrittura del comma 1 dell’articolo
86, in materia di interventi sostitutivi in
caso di inerzia o di ritardi nel rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, il cui
nuovo testo dispone: "1. Qualora
l’autorizzazione paesaggistica non venga
rilasciata o negata dagli enti competenti
nei termini di legge, l’interessato può
richiederla in via sostitutiva, ai sensi
dell’articolo 146, comma 10, del d.lgs.
42/2004. Nel caso di richiesta alla Regione,
il Presidente della Giunta regionale o
l’assessore competente, se delegato,
provvede entro sessanta giorni dal
ricevimento della stessa, anche mediante un
commissario ad acta, scelto tra i soggetti
iscritti all’albo di cui all’articolo 31.”
(link a http://studiospallino.blogspot.com). |
URBANISTICA:
Pgt, termini prorogati fino a fine 2012.
Belotti: ultima chiamata.
Il Consiglio regionale ha accolto la
richiesta dell'assessore al Territorio e
Urbanistica della Regione Lombardia Daniele
Belotti di prorogare i termini per
l'approvazione dei Pgt (Piani di Governo del
Territorio).
Grazie alle modifiche recepite, attraverso
il collegato, alla legge n. 12 del 2005
(Legge per il governo del territorio), i
quasi 1100 Comuni che ancora non hanno
approvato il Pgt, avranno tempo fino al
31.12.2012 per mettersi in regola.
Allo stesso tempo, al fine di incentivare la
sollecita approvazione del nuovo strumento
urbanistico, si è stabilito che quei Comuni
che, entro il 30.09.2011, non abbiano
adottato il Pgt non potranno dare corso
all'approvazione di piani attuativi del
vigente Prg (Piano Regolatore Generale).
"La legge regionale 12 -commenta
l'assessore Belotti- ha completamente
innovato il modo di approcciarsi alla
pianificazione territoriale, ponendo al
centro del provvedimento la tutela del
territorio, al fine di poterlo consegnare
alla generazioni future quanto più integro
possibile". Alle amministrazioni
comunali è affidata la responsabilità di
tradurre in azioni concrete i principi e gli
indirizzi dettati da Regione Lombardia, ecco
il motivo per cui l'approvazione dei Piani
di Governo del Territorio da parte dei
Comuni è da ritenersi un atto di
responsabilità assolutamente indifferibile e
urgente.
La nuova e ampia proroga concessa alle
amministrazioni comunali per l'approvazione
dei Pgt ha il fine di escludere qualsiasi
alibi o giustificazione alla loro mancata
approvazione, ritenendo in tal modo
improponibile la concessione di ulteriori
proroghe.
La nuova legge regionale n. 12, così come
modificata all'atto dell'approvazione del
Collegato Ordinamentale, entrerà in vigore
nei prossimi giorni, dopo la pubblicazione
sul Bollettino Ufficiale della Regione (Burl)
(Milano, 24.02.2011 - link a
www.regione.lombardia.it). |
URBANISTICA:
Regione Lombardia - Art. 104 l.r.
Lombardia n. 12/2005 - Adeguamento dei
p.r.g. vigenti alla nuova disciplina -
Disciplina transitoria - Varianti -
Trasmissione alla provincia competente -
Verifica della compatibilità con il piano
territoriale di coordinamento.
L’art. 104, comma 1, lett. cc), della legge
reg. Lombardia 2005 n. 12 ha disposto
l’abrogazione espressa, tra l’altro,
dell'art. 3, commi da 2 a 40, della legge
regionale 05.01.2000, n. 1 “salvo per
quanto previsto agli articoli 25, comma 1 e
92, commi 7 e 8, della presente legge”
(cfr. Tar Lombardia Milano, sez. III,
22.12.2009, n. 5962).
A sua volta l’art. 25, comma 1, della legge
reg. 2005 n. 12 detta una disciplina
transitoria, individuando, tra l’altro,
quali procedure di variante urbanistica i
Comuni possono utilizzare fino
all’adeguamento dei piani regolatori
generali vigenti alla nuova disciplina
normativa introdotta in materia di governo
del territorio.
Dal coordinamento tra le due norme citate
deriva che, qualora l’amministrazione
comunale approvi -nel periodo transitorio
individuato dall’art. 25, comma 1, della
legge reg. 2005 n. 12,- una delle varianti
previste dall’art. 2, comma 2, della legge
reg. 23.06.1997, n. 23, devono trovare
applicazione le previsioni dell'art. 3,
commi da 2 a 40, della legge reg.
05.01.2000, n. 1.
Pertanto, in questi casi deve essere
applicato anche il comma 18 dell’art. 3
della legge reg. 2000 n. 1, ove si prevede
che il comune debba trasmettere la variante
adottata alla Provincia competente, al fine
di consentire la verificazione della
compatibilità della nuova disciplina
urbanistica con il piano territoriale di
coordinamento (TAR Lombardia-Milano, Sez.
III,
sentenza 18.02.2011 n. 499 - link
a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comuni chiedono l'accreditamento per il
monitoraggio Fondo Aree Verdi.
I Comuni chiedono l'accreditamento per
accedere al nuovo sistema informatizzato
messo a disposizione delle amministrazioni
per il monitoraggio del "Fondo Aree Verdi"
(di cui all'art. 43 della Legge regionale n.
12/2005). Ecco i primi 10:
Arese -
Barzanò -
Bottanuco -
Sala Comacina -
Concesio -
Grassobbio -
Onore -
Sotto il Monte Giovanni XXIII -
Triuggio -
Urgnano.
Dal 10.01.2011 è attivo il sistema
alimentato tramite le maggiorazioni dei
contributi di costruzione applicate agli
interventi di nuova costruzione che
sottraggono superfici agricole nello stato
di fatto.
La trasmissione delle informazioni e il
versamento dei proventi delle maggiorazioni
riscosse avviene attraverso il sistema di
monitoraggio informatico (front office)
accessibile seguendo le indicazioni
pubblicate sul sito della Direzione generale
Sistemi Verdi e Paesaggio.
Le amministrazioni comunali potranno,
successivamente, attraverso una procedura a
domanda, richiedere a Regione Lombardia il
prelievo delle risorse dal Fondo da
destinare a interventi forestali a rilevanza
ecologica e di incremento della naturalità.
Le risorse del Fondo potranno essere
utilizzate, in particolare, per promuovere
progetti di:
- costruzione di sistemi verdi e della rete
ecologica;
- valorizzazione e incremento della
naturalità nelle aree protette;
- valorizzazione del patrimonio forestale e
del sistema rurale-paesistico-ambientale;
- rinaturalizzazione e incremento della
dotazione del verde in ambito urbano, con
attenzione al recupero delle aree degradate
e alla connessione tra territorio rurale ed
edificato (Milano, 17.02.2011 - link a
www.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA - AMBIENTE-ECOLOGIA -
URBANISTICA:
Lombardia, Consiglio approva
Collegato Ordinamentale 2011.
Il Consiglio regionale ha approvato oggi con
40 voti favorevoli e 29 contrari il “Collegato
Ordinamentale”, una legge che modifica o
integra le disposizioni legislative
regionali.
Tra le novità previste, una nuova proroga ai
Comuni fino al 31.12.2012 per dotarsi
definitivamente del piano di governo del
territorio (PGT) e il via libera alle
deroghe eccezionali ai limiti
sull’inquinamento acustico oggi previste nel
caso essi dovessero mettere a repentaglio lo
svolgimento di eventi di rilievo
internazionali, come ad esempio i grandi
concerti.
Il “Collegato” equipara inoltre i
Centri culturali a carattere religioso agli
edifici di culto, prevedendo per la loro
realizzazione uno specifico percorso di
programmazione nei piani regolatori.
Via libera anche alla norma che dà la
possibilità ai Comuni di negare
l’autorizzazione ad aprire attività
commerciali nei centri storici se in
contrasto con il “decoro pubblico” e
le “tradizioni locali”.
Il “Collegato” recepisce inoltre la
direttiva europea Bolkestein sul commercio e
introduce norme di semplificazione
burocratica nell’edilizia e per lo
svolgimento di alcune attività, come ad
esempio la certificazione energetica, un
settore in espansione e al quale potranno
accedere adesso ai corsi formativi anche i
cittadini non iscritti a un albo. ... (comunicato
15.02.2011 - link a
www.consiglio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Mutamento di
destinazione d'uso - Divieto di introdurre
limiti quantitativi alla presenza di
destinazioni complementari a fianco di
quelle principali - Illegittimità.
2. Mutamento di
destinazione d'uso - Incremento di valore
degli immobili - Stima dell'Agenzia del
Territorio - E' atto endoprocedimentale -
Conseguenze - Onere di impugnabilità della
stima - Non sussiste.
1.
In materia di disciplina dei mutamenti delle
destinazioni d'uso degli immobili, ai sensi
dell'art. 1, comma 2, L.R. 1/2001 -norma oggi abrogata, ma sostanzialmente
confluita nell'art. 51, comma 1, lett. d), L.R. 12/2005- da un lato, è consentito ai
comuni di escludere in toto determinate
destinazioni: dall'altro, tuttavia, tale
norma non può essere intesa come divieto di
introdurre limiti quantitativi alla presenza
di destinazioni complementari a fianco di
quella o quelle identificate come
principali.
2. In materia di rilevazioni di incremento
di valore degli immobili nel passaggio da
una destinazione d'uso ad un'altra, la stima
dell'Agenzia del Territorio costituisce atto
interno, non direttamente lesivo, e pertanto
impugnabile solo unitamente al provvedimento
che irroga la sanzione: ciò esclude la
configurabilità dell'Agenzia del Territorio
come contraddittore necessario (cfr. TAR
Milano, sent. n. 1546/2010) (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.02.2011 n.
468 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
TAR Milano: mutamento di
destinazione d'uso, rimangono le
percentuali.
Il TAR di Milano ha
affermato che, pur nel regime della L.R.
12/2005, lo strumento urbanistico può
prevedere limitazioni percentuali alle
destinazioni d'uso ammissibili nelle diverse
zone. Ciò alla luce di un'interpretazione
estensiva dell'ultimo inciso contenuto
nell'art. 51 primo comma della L.R. 12/2005:
"salve quelle escluse dal PGT" significa che
lo strumento urbanistico può derogare al
principio per cui le destinazioni d'uso
ammissibili (principali, complementari e
accessorie), coesistono senza limitazioni
percentuali.
L’art. 51 della legge regionale n. 12/2005
dispone (secondo e terzo comma): “I
comuni indicano nel PGT in quali casi i
mutamenti di destinazione d’uso di aree e di
edifici, attuati con opere edilizie,
comportino un aumento ovvero una variazione
del fabbisogno di aree per servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale di cui all’articolo 9.
Per i mutamenti di destinazione d’uso non
comportanti la realizzazione di opere
edilizie, le indicazioni del comma 2
riguardano esclusivamente i casi in cui le
aree o gli edifici siano adibiti a sede di
esercizi commerciali non costituenti
esercizi di vicinato ai sensi dell’articolo
4, comma 1, lettera d), del decreto
legislativo 31.03.1998, n. 114”.
Queste disposizioni -peraltro rivolte ai
futuri PGT- riguardano i mutamenti di
destinazione d’uso ammessi, non quelli
esclusi dallo strumento urbanistico. Esse
riproducono infatti l’art. 1, comma 3, della
previgente l.r. n. 1 del 2001, che in
termini pressoché identici recitava: “I
comuni indicano, altresì, attraverso lo
strumento urbanistico generale, in quali
casi i mutamenti di destinazione d'uso di
aree e di edifici, ammissibili ai sensi del
comma 2, attuati con opere edilizie,
comportino un aumento ovvero una variazione
del fabbisogno di standard; per quanto
riguarda i mutamenti di destinazione d'uso
ammissibili, non comportanti la
realizzazione di opere edilizie, le suddette
indicazioni riguarderanno esclusivamente i
casi in cui le aree o gli edifici vengano
adibiti a sede di esercizi commerciali non
costituenti esercizi di vicinato ai sensi
dell'articolo 4, comma 1, lettera d), del
d.lgs. 31.03.1998, n. 114”.
Quanto all’art. 54 della legge regionale, il
fatto che i mutamenti di destinazione che
non determinino carenza di aree per servizi
e attrezzature di interesse generale non
costituiscano variazione essenziale, non
esclude la sanzionabilità dei mutamenti di
destinazione che si pongano in contrasto con
lo strumento urbanistico (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.02.2011 n. 468 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Monitoraggio per il Fondo Aree
Verdi - Adempimenti comunali (Regione
Lombardia, Direzione Generale Sistemi Verdi
e Paesaggio,
nota 07.02.2011 n. 2462 di prot.). |
gennaio 2011 |
|
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 4 del
26.01.2011, "Approvazione della Circolare
«L’applicazione della valutazione ambientale
di piani e programmi - VAS nel contesto
comunale»"
(decreto
D.S. 14.12.2010 n. 13071). |
URBANISTICA:
Oggetto: VAS - Sentenza Consiglio di
Stato
(Regione Lombardia, Assessore a Territorio e
Urbanistica,
nota 24.01.2011 n. 1798 di prot.). |
URBANISTICA:
Anche per impugnare la VAS é necessario
dimostrare l'interesse ad agire.
Con sentenza n. 133/2011
il Consiglio di Stato, sezione IV,
depositata in Cancelleria il 12.01.2011, ha
riformato in toto la sentenza n. 1526/2010
del TAR Lombardia in punto VAS.
In via preliminare -e al di là delle
questioni di merito- pare importante
segnalare che il Consiglio di Stato ha
accolto la tesi degli appellanti secondo i
quali il ricorrente in primo grado non
avrebbe in alcun modo chiarito quale
interesse specifico e qualificato assistesse
le doglianze, il cui accoglimento ha
determinato un generico effetto caducante
del P.G.T. nel suo complesso.
Al contrario, il TAR aveva ritenuto
sussistente in capo all’istante un interesse
di natura “strumentale”, avente a
oggetto le determinazioni future, ed
eventualmente più favorevoli ai suoli in sua
proprietà, che l’Amministrazione avrebbe
dovuto assumere in sede di rielaborazione
dello strumento urbanistico. Il punto
fondamentale -sul quale peraltro ci si era
già appuntati- è quindi quello secondo cui
neppure la VAS sfugge al criterio generale
dell'interesse ad agire, in difetto del
quale (o comunque della dimostrazione della
lesività del provvedimento) l'impugnazione é
inammissibile. Afferma il C.S.:
"potrà anche condividersi in via di
principio il rilievo per cui “laddove la VAS
si concluda con un giudizio positivo (o
positivo condizionato) il soggetto che
subisca determinazioni lesive della sua
sfera giuridica discendenti
dall’accettazione (piena o condizionata)
delle proposte pianificatorie sottoposte a
VAS, ben potrà censurare anche queste
determinazioni preliminari condizionanti,
poiché è per effetto di questo giudizio di
sostenibilità complessiva di queste scelte
che le stesse possono tramutarsi in atti
pianificatori negativi” (pagg. 68-69);
tuttavia, proprio per evitare di pervenire a
una legitimatio generalis del tipo di quella
sopra indicata, occorre che le
“determinazioni lesive” fondanti l’interesse
a ricorrere siano effettivamente
“condizionate”, ossia causalmente
riconducibili in modo decisivo, alle
preliminari conclusioni raggiunte in sede di
V.A.S., e pertanto l’istante avrebbe dovuto
precisare come e perché tali conclusioni
nella specie abbiano svolto un tale ruolo
decisivo sulle opzioni relative ai suoli in
sua proprietà, ciò che non ha fatto.".
La decisione del Consiglio di Stato
riallinea la giurisprudenza in materia. Si
vedano, infatti:
- TAR Campania Napoli, sez. II, 20.04.2010,
n. 2043, dove si afferma che considerate le
indicate finalità della VAS non si deve
ritenere che possa vantare un interesse
giuridicamente rilevante a contestare
l'eventuale carenza della VAS nel
procedimento di approvazione della variante
urbanistica impugnata, colui il quale
ricorre per ottenere una destinazione non
più agricola del fondo di sua proprietà;
- Consiglio di Stato, sez. V, 26.02.2010, n.
1134: in quel caso il provvedimento di VIA
impugnato era stato censurato con specifico
riferimento all'assenza di idonea
istruttoria con riferimento all'impatto
conseguente alla realizzazione dell'impianto
autorizzato con riguardo ai fondi e alle
attività dei ricorrenti: ma ciò non aveva
esonerato il Consiglio di Stato dal
verificare approfonditamente quale fosse la
situazione di stabile e significativo
collegamento dei ricorrenti rispetto
all'area interessata dall'impianto e in che
misura la VIA avesse, o meno, valutato
l'incidenza dell'impianto sulle realtà
esistenti (link a http://studiospallino.blogspot.com). |
URBANISTICA: Lombardia,
VAS del PGT: il Consiglio di Stato annulla
la sentenza del TAR Milano che,
precedentemente, aveva annullato il PGT del
Comune di Cermenate (CO).
---------------
Le conclusioni raggiunte dal primo giudice,
secondo cui l’autorità competente alla
V.A.S. deve essere necessariamente
individuata in una pubblica amministrazione
diversa da quella avente qualità di “autorità
procedente”, non trova supporto nella
vigente normativa comunitaria e nazionale.
In nessuna definizione del Testo Unico
ambientale (D.Lgs. n. 152/2006) si trova
affermato in maniera esplicita che debba
necessariamente trattarsi di amministrazioni
diverse o separate (e che, pertanto, sia
precluso individuare l’autorità
competente in diverso organo o
articolazione della stessa
amministrazione procedente).
Non risulta in linea con le richiamate
disposizioni nazionali la scelta di
individuare l’autorità competente alla
V.A.S. ex post, in relazione al singolo e
specifico procedimento di pianificazione,
come avvenuto nel caso di specie (laddove
–come già rilevato– la predetta autorità è
stata individuata contestualmente alla
comunicazione di avvio del procedimento
stesso).
La Sezione osserva che il presupposto su cui
si basano le conclusioni raggiunte dal primo
giudice, secondo cui l’autorità competente
alla V.A.S. deve essere necessariamente
individuata in una pubblica amministrazione
diversa da quella avente qualità di “autorità
procedente”, non trova supporto nella
vigente normativa comunitaria e nazionale.
Al riguardo, giova richiamare le definizioni
oggi contenute nel citato d.lgs. nr. 152 del
2006, il cui art. 5, per quanto qui
interessa, definisce:
- la “autorità competente”
come “la pubblica amministrazione cui
compete l’adozione del provvedimento di
verifica di assoggettabilità, l’elaborazione
del parere motivato, nel caso di valutazione
di piani e programmi, e l’adozione dei
provvedimenti conclusivi in materia di VIA,
nel caso di progetti ovvero il rilascio
dell'autorizzazione integrata ambientale,
nel caso di impianti” (lettera p);
- la “autorità procedente”
come “la pubblica amministrazione che
elabora il piano, programma soggetto alle
disposizioni del presente decreto, ovvero
nel caso in cui il soggetto che predispone
il piano, programma sia un diverso soggetto
pubblico o privato, la pubblica
amministrazione che recepisce, adotta o
approva il piano, programma”.
Orbene, se dalle riferite definizioni
risulta chiaro che entrambe le autorità
de quibus sono sempre “amministrazioni”
pubbliche, in nessuna definizione del Testo
Unico ambientale si trova affermato in
maniera esplicita che debba necessariamente
trattarsi di amministrazioni diverse o
separate (e che, pertanto, sia precluso
individuare l’autorità competente in diverso
organo o articolazione della stessa
amministrazione procedente).
---------------
La Sezione non condivide l’approccio
ermeneutico di fondo della parte odierna
appellata, che desume la necessaria “separatezza”
tra le due autorità dal fatto che la V.A.S.
costituirebbe un momento di controllo
sull’attività di pianificazione svolta
dall’autorità competente, con il corollario
dell’impossibilità di una identità o
immedesimazione tra controllore e
controllato.
Siffatta ricostruzione, invero, è smentita
dall’intero impianto normativo in
subiecta materia, il quale invece
evidenzia –come già accennato– che le due
autorità, seppur poste in rapporto
dialettico in quanto chiamate a tutelare
interessi diversi, operano “in
collaborazione” tra di loro in vista del
risultato finale della formazione di un
piano o programma attento ai valori della
sostenibilità e compatibilità ambientale:
ciò si ricava, testualmente, dal già citato
art. 11, d.lgs. nr. 152 del 2006, che
secondo l’opinione preferibile costruisce la
V.A.S. non già come un procedimento o
subprocedimento autonomo rispetto alla
procedura di pianificazione, ma come un
passaggio endoprocedimentale di esso,
concretantesi nell’espressione di un “parere”
che riflette la verifica di sostenibilità
ambientale della pianificazione medesima.
---------------
Con riferimento all’individuazione delle
autorità competenti in materia di
valutazioni ambientali, e con richiamo
all’assetto normativo sul riparto di
attribuzioni tra Stato e Regioni vigente
all’epoca dell’adozione dei provvedimenti
per cui è causa, vengono in rilievo:
- il comma 6 dell’art. 6 del d.lgs. nr. 152
del 2006, secondo cui l’autorità
competente per la V.A.S. e la V.I.A. va
individuata “secondo le disposizioni
delle leggi regionali o delle province
autonome”;
- il successivo comma 7 del medesimo
articolo, che del pari demanda a leggi e
regolamenti regionali la determinazione
delle “competenze” degli altri enti
locali, ivi compresi i Comuni.
Dal complesso di tali disposizioni, ad
avviso della Sezione, se da un lato emerge
l’intento del legislatore nazionale di
lasciare alle Regioni una certa libertà di
manovra quanto alla delegabilità delle
competenze agli enti locali e alle modalità
della loro regolamentazione, tuttavia appare
evidente la volontà di assicurare che la
fissazione delle “competenze” sia
compiuta a priori, con atti che individuino
in via generale e astratta i soggetti,
uffici o organi cui viene attribuita la
veste di “autorità competente”.
Ne discende che non risulta in linea con le
richiamate disposizioni nazionali la scelta
di individuare l’autorità competente alla
V.A.S. ex post, in relazione al
singolo e specifico procedimento di
pianificazione, come avvenuto nel caso di
specie (laddove –come già rilevato– la
predetta autorità è stata individuata
contestualmente alla comunicazione di avvio
del procedimento stesso)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.01.2011 n. 133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
§ § § § § § § § § § § § § § § §
NOTA DI COMMENTO: la sentenza del
Consiglio di Stato ha risolto,
definitivamente, gli interrogativi che
attanagliavano gli Enti Locali lombardi?? Si
può procedere ad adottare e/o approvare il
P.G.T. in tutta tranquillità??
I termini del caso
di specie.
Il comune di Cermenate (CO) si è visto
impugnare -tra l'altro- da parte di un
cittadino:
- le deliberazioni consiliari di
controdeduzioni alle osservazioni ed
approvazione del nuovo Piano di Governo del
Territorio (P.G.T.);
- la delibera di Giunta Comunale recante
avvio del procedimento di valutazione
ambientale strategica per la formazione del
P.G.T..
Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con
sentenza 15.05.2010 n. 1526 ha
accolto il ricorso annullando, tra l'altro,
le deliberazioni sopra menzionate.
Nel merito, il TAR [annullando altresì la
deliberazione G.R. 27.12.2007 n. 6420,
limitatamente all'art. 3.2. dell'Allegato 1
(modello generale), relativa alla procedura
per la Valutazione Ambientale di Piani e
Programmi (denominata anche Valutazione
Ambientale Strategica o VAS] ha statuito
quanto segue:
"In tema di VAS l'autorità procedente,
nella scelta dell'autorità competente, deve
individuare soggetti pubblici che offrano
idonee garanzie non solo di competenza
tecnica e di specializzazione in materia di
tutela ambientale, ma altresì garanzie di
imparzialità e di indipendenza rispetto
all'autorità procedente, allo scopo di
assolvere la funzione di valutazione
ambientale nella maniera più obiettiva
possibile, senza condizionamenti -anche
indiretti- da parte dell'autorità
procedente: infatti, qualora l'autorità
procedente individuasse l'autorità
competente esclusivamente fra soggetti
collocati al proprio interno, il ruolo di
verifica ambientale perderebbe ogni
efficacia, risolvendosi in un semplice
passaggio burocratico interno, con il
rischio di vanificare la finalità della
disciplina sulla VAS.".
La suddetta pronuncia è stata appellata
dinanzi al Consiglio di Stato il quale con
sentenza 12.01.2011 n. 133 ha
riformato la stessa accogliendo gli appelli
della Regione Lombardia e del Comune di
Cermenate.
Nello specifico, il CdS ha statuito quanto
segue:
-- "La Sezione osserva che il presupposto
su cui si basano le conclusioni raggiunte
dal primo giudice, secondo cui l’autorità
competente alla V.A.S. deve essere
necessariamente individuata in una pubblica
amministrazione diversa da quella avente
qualità di “autorità procedente”, non
trova supporto nella vigente normativa
comunitaria e nazionale.
Al riguardo, giova richiamare le definizioni
oggi contenute nel citato d.lgs. nr. 152 del
2006, il cui art. 5, per quanto qui
interessa, definisce:
- la “autorità competente” come “la
pubblica amministrazione cui compete
l’adozione del provvedimento di verifica di
assoggettabilità, l’elaborazione del parere
motivato, nel caso di valutazione di piani e
programmi, e l’adozione dei provvedimenti
conclusivi in materia di VIA, nel caso di
progetti ovvero il rilascio
dell'autorizzazione integrata ambientale,
nel caso di impianti” (lettera p);
- la “autorità procedente” come “la
pubblica amministrazione che elabora il
piano, programma soggetto alle disposizioni
del presente decreto, ovvero nel caso in cui
il soggetto che predispone il piano,
programma sia un diverso soggetto pubblico o
privato, la pubblica amministrazione che
recepisce, adotta o approva il piano,
programma”.
Orbene, se dalle riferite definizioni
risulta chiaro che entrambe le autorità de
quibus sono sempre “amministrazioni”
pubbliche, in nessuna definizione del Testo
Unico ambientale si trova affermato in
maniera esplicita che debba necessariamente
trattarsi di amministrazioni diverse o
separate (e che, pertanto, sia precluso
individuare l’autorità competente in diverso
organo o articolazione della stessa
amministrazione procedente).";
-- "La Sezione non condivide l’approccio
ermeneutico di fondo della parte odierna
appellata, che desume la necessaria
“separatezza” tra le due autorità dal fatto
che la V.A.S. costituirebbe un momento di
controllo sull’attività di pianificazione
svolta dall’autorità competente, con il
corollario dell’impossibilità di una
identità o immedesimazione tra controllore e
controllato.
Siffatta ricostruzione, invero, è smentita
dall’intero impianto normativo in subiecta
materia, il quale invece evidenzia –come già
accennato– che le due autorità, seppur poste
in rapporto dialettico in quanto chiamate a
tutelare interessi diversi, operano “in
collaborazione” tra di loro in vista del
risultato finale della formazione di un
piano o programma attento ai valori della
sostenibilità e compatibilità ambientale:
ciò si ricava, testualmente, dal già citato
art. 11, d.lgs. nr. 152 del 2006, che
secondo l’opinione preferibile costruisce la
V.A.S. non già come un procedimento o
subprocedimento autonomo rispetto alla
procedura di pianificazione, ma come un
passaggio endoprocedimentale di esso,
concretantesi nell’espressione di un
“parere” che riflette la verifica di
sostenibilità ambientale della
pianificazione medesima.";
-- "Con riferimento all’individuazione
delle autorità competenti in materia di
valutazioni ambientali, e con richiamo
all’assetto normativo sul riparto di
attribuzioni tra Stato e Regioni vigente
all’epoca dell’adozione dei provvedimenti
per cui è causa, vengono in rilievo:
- il comma 6 dell’art. 6 del d.lgs. nr. 152
del 2006, secondo cui l’autorità competente
per la V.A.S. e la V.I.A. va individuata
“secondo le disposizioni delle leggi
regionali o delle province autonome”;
- il successivo comma 7 del medesimo
articolo, che del pari demanda a leggi e
regolamenti regionali la determinazione
delle “competenze” degli altri enti locali,
ivi compresi i Comuni.
Dal complesso di tali disposizioni, ad
avviso della Sezione, se da un lato emerge
l’intento del legislatore nazionale di
lasciare alle Regioni una certa libertà di
manovra quanto alla delegabilità delle
competenze agli enti locali e alle modalità
della loro regolamentazione, tuttavia appare
evidente la volontà di assicurare che la
fissazione delle “competenze” sia compiuta a
priori, con atti che individuino in via
generale e astratta i soggetti, uffici o
organi cui viene attribuita la veste di
“autorità competente”.
Ne discende che non risulta in linea con le
richiamate disposizioni nazionali la scelta
di individuare l’autorità competente alla
V.A.S. ex post, in relazione al singolo e
specifico procedimento di pianificazione,
come avvenuto nel caso di specie (laddove
–come già rilevato– la predetta autorità è
stata individuata contestualmente alla
comunicazione di avvio del procedimento
stesso).".
Per quanto sopra esposto, si può dedurre che
il Comune di Cermenate s'è visto "salvare"
il proprio P.G.T. ancorché il Consiglio di
Stato abbia rilevato che "non risulta in
linea con le richiamate disposizioni
nazionali la scelta di individuare
l’autorità competente alla V.A.S. ex post,
in relazione al singolo e specifico
procedimento di pianificazione, come
avvenuto nel caso di specie (laddove –come
già rilevato– la predetta autorità è stata
individuata contestualmente alla
comunicazione di avvio del procedimento
stesso).
Il tema, per vero, è incidentalmente evocato
negli scritti difensivi della parte odierna
appellata, ancorché attraverso la formula
non del tutto perspicua della “abrogazione”
implicita delle disposizioni regionali in
subiecta materia che si sarebbe realizzata
con l’entrata in vigore del d.lgs. nr. 152
del 2006; tuttavia, la già più volte
rilevata carenza di ogni interesse a
sollevare censure sul punto esonera da ogni
approfondimento in proposito.".
I termini della
questione non dibattuti in sede
giurisdizionale.
Risulta verosimile che la stragrande
maggioranza dei comuni lombardi (in disparte
quelli di grandi dimensioni laddove sono
presenti i dirigenti) abbiano operato
uniformemente nell'individuazione delle due
figure in ambito di VAS del PGT ovverosia:
- l'autorità procedente è stata
individuata nel Sindaco;
- l'autorità competente per la VAS è
stata individuata nel responsabile
dell'Ufficio Tecnico.
Al riguardo, giova qui ricordare cosa
dispone in merito la normativa regionale la
quale, da ultimo, risulta essere la
deliberazione
G.R. 10.11.2010 n. 761 (pressoché
confermativa della precedente normativa, per
quanto qui interessa) laddove nell'ALLEGATO
1 è stabilito quanto segue:
"3.1-ter Autorità
procedente
È la pubblica amministrazione che elabora il
P/P ovvero, nel caso in cui il soggetto che
predispone il P/P sia un diverso soggetto
pubblico o privato, la pubblica
amministrazione che recepisce, adotta o
approva il piano/programma.
E’ la pubblica amministrazione cui compete
l'elaborazione della dichiarazione di
sintesi.
Tale autorità è individuata all’interno
dell’ente tra coloro che hanno
responsabilità nel procedimento di P/P.
3.2 Autorità competente per
la VAS
È la pubblica amministrazione cui compete
l'adozione del provvedimento di verifica di
assoggettabilità e l'elaborazione del parere
motivato.
L’autorità competente per la VAS è
individuata all’interno dell’ente con atto
formale dalla pubblica amministrazione che
procede alla formazione del P/P, nel
rispetto dei principi generali stabiliti dai
d.lgs. 16.01.2008, n. 4 e 18.08.2000, n.
267.
Essa deve possedere i seguenti requisiti:
a) separazione rispetto all’autorità
procedente;
b) adeguato grado di autonomia nel rispetto
dei principi generali stabiliti dal d.lgs.
18.08.2000, n. 267, fatto salvo quanto
previsto dall'articolo 29, comma 4, legge n.
448/2001;
c) competenze in materia di tutela,
protezione e valorizzazione ambientale e di
sviluppo sostenibile.".
Ebbene, in merito alla individuazione delle
due figure come sopra indicate, la Regione
Lombardia -con
nota 01.07.2010 n. 15812 di prot.
in risposta ad un quesito comunale
relativamente alla sentenza del TAR Milano
de qua- ha inequivocabilmente
rilevato che:
"1.
dall'analisi della documentazione pubblicata
sul sito web del Comune e nella scheda del
sito regionale SIVAS
(www.cartografia.regione.lombardia.it/sivas),
si riscontrano alcune irregolarità
nell'individuazione delle Autorità in quanto
l'individuazione del Sindaco quale autorità
procedente non è in ogni caso corretta,
essendo data tale possibilità solo ai Comuni
con meno di 5.000 abitanti (come previsto
dal comma 23 dell'art. 53 della legge
23.12.2000, n. 388 modificato dal comma 4
dell'art. 29 della legge 28.12.2001, n. 448,
previa assunzione delle disposizioni
regolamentari ed organizzative): dovrebbe
invece essere individuata all'interno
dell'ente tra coloro che hanno
responsabilità nel procedimento di PGT (ad
es. il Responsabile Unico del Procedimento);
2.
inoltre, l'Autorità competente per la VAS
deve possedere i requisiti richiamati nel
punto 3.2 dell'allegato 1a (ndr: della
DGR
30.12.2009 n. 10971) e il dirigente del
Settore Urbanistica ed Edilizia Privata del
Comune di ..., nominato Autorità competente
per la VAS, sembra avere competenze in
materia di pianificazione e urbanistica
piuttosto che in materia di tutela,
protezione e valorizzazione ambientale e di
sviluppo sostenibile;
3.
si suggerisce, pertanto, di individuare
all'interno dell'Ente le due Autorità con
nuova deliberazione di Giunta Comunale, ai
sensi della
DGR n. 10971 del 30.12.2009;
tali Autorità dovranno accompagnare il loro
primo pronunciamento con un'esplicita
determinazione di convalida delle attività
precedentemente svolte nell'ambito della
procedura di VAS e potranno proseguire nella
stessa. ...".
Non solo, da ultimo la Regione Lombardia ha
altresì licenziato il
decreto D.S. 14.12.2010 n. 13071
avente per oggetto «APPROVAZIONE DELLA
CIRCOLARE "L'APPLICAZIONE DELLA VALUTAZIONE
AMBIENTALE DI PIANI E PROGRAMMI - VAS NEL
CONTESTO COMUNALE"» ove al punto 5.
INDIVIDUAZIONE AUTORITA'
PROCEDENTE/COMPETENTE PER LA VAS
conferma sostanzialmente quanto già
anticipato con la nota suddetta di risposta
al quesito comunale.
Ciò premesso, è chiaro come il Consiglio di
Stato non sia intervenuto su questa
questione, poiché non sollevata in sede di
ricorso giurisdizionale. Ora, nel caso di
specie qualche comune ha provveduto a
convalidare gli atti già assunti siccome
proposto -al precedente punto 3.- da parte
della Regione Lombardia ma molti altri,
forse la maggioranza, nulla ad oggi hanno
fatto al riguardo.
A
questo punto è lecito porsi una
DOMANDA: i comuni che, dopo la sentenza
del CdS sopra citata, continuano
imperterriti nell'iter burocratico di
adozione e/o approvazione del P.G.T. senza
aver correttamente (e legittimamente)
individuato preliminarmente sia l'autorità
procedente sia l'autorità competente
per la VAS siccome disposto dalla dGR e
confermato dalla nota regionale sopra
menzionate possono dormire sonni
tranquilli??
E' reale -o meno- il rischio che un
cittadino qualsiasi, che si veda penalizzato
sull'edificabilità dei propri terreni in
sede di P.G.T. e -quindi- abbia un interesse
reale e concreto a ricorrere, impugni lo
stesso dinanzi al TAR eccependo -tra
l'altro- l'illegittima individuazione delle
due figure come sopra argomentato col
risultato di ottenere l'annullamento
dell'intero PGT per vizio procedurale??
13.01.2011 - LA SEGRETERIA PTPL |
URBANISTICA:
VAS - Autorità competente -
Amministrazione diversa o separata
dall’autorità procedente - Necessità -
Esclusione - Art. 5 d.lgs. n. 152/2006 -
Modifiche ex d.lgs. n. 128/2010 -
Distinzione tra parere motivato a
conclusione della fase di VAS e
provvedimento di VIA.
L’autorità competente alla V.A.S. non deve
essere necessariamente individuata in una
pubblica amministrazione diversa da quella
avente qualità di “autorità procedente”;
se dalle definizioni di cui all’art. 5 del
d.lgs. n. 152/2006 risulta infatti chiaro
che entrambe le autorità de quibus
sono sempre “amministrazioni”
pubbliche, in nessuna definizione del Testo
Unico ambientale si trova affermato in
maniera esplicita che debba necessariamente
trattarsi di amministrazioni diverse o
separate (e che, pertanto, sia precluso
individuare l’autorità competente in diverso
organo o articolazione della stessa
amministrazione procedente).
Tale conclusione appare confortata dalle
modifiche apportate al d.lgs. nr. 152 del
2006 dal recentissimo decreto legislativo
29.06.2010, nr. 128, laddove già a livello
definitorio si distingue tra il “parere
motivato” che conclude la fase di V.A.S.
(art. 5, comma 1, lettera m-ter) e il “provvedimento”
di V.I.A. (art. 5, comma 1, lettera p): a
conferma che solo nel secondo caso, e non
nel primo, si è in presenza di una sequenza
procedimentale logicamente e ontologicamente
autonoma.
VAS - Art. 11 d.lgs. n.
152/2006 - VAS - Natura - Passaggio
endoprocedimentale della procedura di
pianificazione.
L’art. 11, d.lgs. nr. 152 del 2006
costruisce la V.A.S. non già come un
procedimento o subprocedimento autonomo
rispetto alla procedura di pianificazione,
ma come un passaggio endoprocedimentale di
esso, concretantesi nell’espressione di un “parere”
che riflette la verifica di sostenibilità
ambientale della pianificazione medesima
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.01.2011 n. 133 - link
a www.ambientediritto.it). |
ANNO 2010 |
|
dicembre 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia,
Corso di specializzazione sull'applicazione
della L.R. n. 12/2005:
5^ lezione (parte A) - Titoli abilitativi
(Geometra Orobico n. 6/2010). |
URBANISTICA:
Novità per la pubblicazione dei PGT
dall’01.01.2011.
Dall’01.01.2011 il Bollettino Ufficiale di
Regione Lombardia (BURL) sarà disponibile
esclusivamente in formato digitale, pertanto
a partire da questa data si modificano le
procedure per la pubblicazione del PGT sul
BURL.
In particolare:
1- per poter pubblicare l’avviso di
approvazione definitiva del PGT sul BURL il
comune deve aver ottenuto preventivamente un
nulla osta alla pubblicazione;
2- il nulla osta, volto al controllo della
completezza e della correttezza della
fornitura digitale del PGT, viene rilasciato
dalla DG Territorio e Urbanistica o dalla
Provincia competente, previo accordo con
Regione Lombardia, entro 15 giorni dalla
data di registrazione;
3- una volta ricevuto il nulla osta alla
pubblicazione il Comune inoltra l’avviso da
pubblicare utilizzando il sito web
www.bollettino.regione.lombardia.it;
4- l’applicativo di gestione infine
provvederà a dare comunicazione formale via
e-mail con gli estremi di pubblicazione.
Regione Lombardia comunicherà attraverso il
web quali sono le Province con le quali ha
provveduto alla stipula dei suddetti
accordi.
Il PGT deve essere inviato alla DG
Territorio e Urbanistica o alla Provincia
competente in formato digitale secondo le
indicazioni e con le modalità descritte
sulle pagine web della DG Territorio e
urbanistica dedicate al PGT .
Al momento dell’invio dei PGT alle autorità
competenti per il rilascio dei pareri di
compatibilità con PTCP e PTR è consigliabile
l’utilizzo dello stesso formato onde evitare
richieste di integrazioni e conseguenti
rallentamenti della procedura.
Per ogni informazione sulla presentazione
dei PGT consultare la pagina
www.pgt.regione.lombardia.it (Milano
24.12.2010 - link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
URBANISTICA:
1. Disciplina
urbanistica del territorio - Obbligo di
puntuale motivazione - Non sussiste.
1. Art. 11, c. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 - Perequazione
compensativa - Può essere prevista
unicamente con riferimento ad aree esterne
ai piani attuativi.
1. Non sussiste la necessità di una puntuale
motivazione delle scelte urbanistiche che
l'amministrazione compie per la disciplina
del territorio, oltre quella che si può
evincere dai criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti
nell'impostazione del piano, essendo
sufficiente l'espresso riferimento alla
relazione di accompagnamento al progetto di
modificazione del piano regolatore.
2. La perequazione compensativa di cui
all'art. 11, c. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005
può essere prevista unicamente con
riferimento ad aree esterne ai piani
attuative, mentre per quelle disciplinate da
piani attuativi o atti di programmazione
negoziata con valenza territoriale, il
Comune può prevedere il meccanismo
perequativo disciplinato al comma 1 del
medesimo articolo.
Si tratta, comunque, di
una facoltà, rimessa alla scelta
discrezionale dell'amministrazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.12.2010 n.
7674 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie inserzioni e
concorsi n. 51 del 22.12.2010, "D.G.
Territorio e Urbanistica – Comunicato
congiunto Direzione Generale Territorio e
Urbanistica e Direzione Centrale Affari
Istituzionali e Legislativo – Rettifica e
integrazione del comunicato 26.05.2008, n.
107 «Modalità di pubblicazione dell’avviso
di approvazione dei Piani di Governo del
Territorio», pubblicato nel BURL n. 23 Serie
Ordinaria del 03.06.2008" (comunicato
regionale 20.12.2010 n. 141). |
URBANISTICA:
1. Piano Integrato d'Intervento - Artt.
87 e 88 L.R. n. 12/2005 - Finalità - Discrezionalità -
Legittimità.
2. P.I.I. - Approvazione oltre il termine - Art. 14 L.R. n.
12/2005 - Inefficacia degli atti - Interpretazione - Artt. 2
e 2-bis L. n. 241/1990 - Non sussiste.
3. P.I.I. - Parere di compatibilità con il P.T.C.P. -
Incompetenza della Giunta Provinciale - Art. 42 d.lgs. n.
267/2000 - Valutazione tecnica - Non sussiste.
1.
Nel caso in cui il P.I.I. impugnato persegua delle chiare
finalità di riorganizzazione dell'ambito urbano al fine di
una riqualificazione urbana ed ambientale di aree produttive
dismesse od obsolete sussistono i presupposti normativi di
cui agli artt. 87 e 88 L.R. n. 12/2005, e visto che la
scelta di approvare un P.I.I. risulta essere, nel rispetto
degli ampi margini di legge, rimessa alla discrezionalità
dell'Amministrazione, in mancanza di manifesta illogicità ed
irrazionalità dell'azione amministrativa si deve ritenere
che lo stessa sia legittima.
2.
L'art. 14 L.R. n. 12/2005, secondo cui il P.I.I. deve essere
approvato entro il termine di sessanta giorni dalla scadenza
del termine delle osservazioni a pena dell'inefficacia degli
atti assunti, deve essere interpretato in maniera da
armonizzarlo con la legislazione statale concorrente e
vincolante (per il legislatore regionale) in materia di
governo del territorio ed in particolare con gli artt. 2 e
2-bis L. n. 241/1990 norme vincolanti per il legislatore
regionale e per le Amministrazioni che impongono la
conclusione del procedimento con un provvedimento espresso
nonostante la scadenza del termine di sessanta giorni
previsto dalla legge regionale (risultando peraltro
aberrante che oltre tale termine l'Amministrazione non abbia
altra scelta se non quella di abbandonare il procedimento o
di rinnovarlo ex novo), salva l'eventuale responsabilità
dell'Amministrazione o del dirigente incaricato del
procedimento per il ritardo.
Conseguentemente l'inefficacia degli atti deve essere
ricondotta, tenuta anche in considerazione la ratio
della norma, alle sole ipotesi in cui l'Amministrazione
comunale rimanga totalmente e colpevolmente inattiva per
sessanta giorni dalla scadenza del termine per presentare le
osservazioni oppure qualora il piano sia approvato senza
alcuna decisione sulle osservazioni medesime.
3.
Il parere provinciale di compatibilità del P.C.T.P. con il
P.G.T. comunale o i suoi piani attuativi, anche in variante,
non costituisce una manifestazione della generale potestà di
pianificazione riconosciuta nel Testo Unico degli Enti
Locali all'organo consigliare, quanto piuttosto una
valutazione di ordine tecnico, non riservata al Consiglio,
risultando conseguentemente competente la Giunta Provinciale
ad adottare il parere di compatibilità del P.I.I. con il
P.T.C.P. impugnato (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.12.2010 n. 7614 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: Il
parere di compatibilità di cui all’art. 13 della legge
regionale n. 12/2005 non costituisce un atto di
pianificazione generale, riservato alla competenza
dell’organo consiliare ai sensi del citato D.Lgs. 267/2000,
ma una mera valutazione sul rapporto fra gli atti di
pianificazione comunale (PGT) e provinciale (PTCP), di
natura essenzialmente tecnica e non certo espressione della
generale potestà di pianificazione territoriale,
riconosciuta dalla legge soltanto al Consiglio.
In ordine al ricorso 2887/2007, occorre dapprima esaminare
lo specifico motivo (vale a dire il n. 7, vedesi pag. 19
dell’atto introduttivo), rivolto contro il provvedimento
provinciale di compatibilità della pianificazione comunale
con il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP).
Secondo l’esponente, la delibera di Giunta sarebbe viziata
da incompetenza, in quanto il parere di compatibilità con il
PTCP del piano comunale sarebbe riservato al Consiglio
Provinciale, quale organo competente ai sensi dell’art. 42,
comma 2, lett. b), del D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli
enti locali).
La censura è infondata, visto che il parere di compatibilità
di cui all’art. 13 della legge regionale n. 12/2005 non
costituisce un atto di pianificazione generale, riservato
alla competenza dell’organo consiliare ai sensi del citato
D.Lgs. 267/2000, ma una mera valutazione sul rapporto fra
gli atti di pianificazione comunale (PGT) e provinciale (PTCP),
di natura essenzialmente tecnica e non certo espressione
della generale potestà di pianificazione territoriale,
riconosciuta dalla legge soltanto al Consiglio.
Alla conclusione sopra indicata, è ormai giunta la
giurisprudenza amministrativa ed in tale senso è orientata
anche la scrivente Sezione (si vedano le sentenze del TAR
Lombardia, sez. II, n. 4303/2009 e n. 1221/2010, costituenti
precedenti specifici ai quali si rinvia).
In conclusione, lo specifico mezzo di gravame rivolto contro
la deliberazione provinciale deve essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2010 n. 7512 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sul termine ordinatorio e non perentorio dei 90 gg. entro
cui bisogna approvare il PGT a pena di inefficacia degli
atti assunti.
Il comma 7 dell’art. 13 L.R. n. 12/2005 dispone che “entro
novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle
stesse, apportando agli atti di p.g.t. le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni.
Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all'adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la Provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo”.
Il Collegio ritiene di non potere accedere ad una
interpretazione letterale della previsione di cui al comma
7.
Una soluzione che individui la ratio dell’art. 13
nell’esigenza di dettare una rigida tempistica
procedimentale a fini acceleratori correlando alla mera
violazione del termine previsto dal comma 7 l’inefficacia
degli atti del p.g.t., non è percorribile, in quanto conduce
ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento
dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.
Difatti, qualora si ritenesse che all’inutile scadenza del
termine entro il quale il Consiglio Comunale deve decidere
sulle osservazioni consegua la perdita di efficacia del
provvedimento di adozione del p.g.t., invero, l’attività
amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel
nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di
rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con
il principio di economicità oltre che con la ratio
acceleratoria sottesa alla norma.
Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto
vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della
legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita
di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del
territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare
l’intera procedura amministrativa. Proprio il palese
contrasto con i principi costituzionali già richiamati
esclude la condivisibilità dell’interpretazione ora
esaminata.
Questa interpretazione della norma non può, dunque, essere
accolta, in quanto in netto contrasto con i principi
costituzionali.
Il Collegio ritiene tuttavia che sia, comunque, possibile
accedere ad una lettura della legge regionale in senso
conforme alla Costituzione.
La norma così dispone: “entro novanta giorni dalla scadenza
del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena
di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale
decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le
modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle
osservazioni”.
La previsione dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo dell’articolo e ciò
consente di riferire la sanzione della inefficacia alla
inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto
nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella
seconda parte della disposizione, ossia alla violazione
dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare
agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.
Pertanto, l’inefficacia integra una sanzione dettata non a
tutela di adempimenti formali, come il mero rispetto della
tempistica procedimentale, ma di esigenze sostanziali,
emergenti nell’ipotesi in cui il piano di governo del
territorio sia approvato in assenza di una decisione sulle
osservazioni o non recepisca le osservazioni accolte.
Ecco, allora, che l’inefficacia degli atti assunti si
verifica solo quando la loro adozione non sia stata
preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate
dagli interessati.
Questa lettura sostanzialistica può essere riferita anche
alle altre ipotesi in cui la legge regionale prevede la
sanzione dell’inefficacia degli atti assunti.
Così, seguendo questa linea interpretativa, la seconda parte
del comma 7 –secondo cui il Consiglio Comunale
“contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all’adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo”– punisce non
la mera inosservanza del termine previsto nella prima parte
dell’articolo ma la violazione dell’obbligo di adeguare il
documento di piano alle incompatibilità ravvisate dalla
Provincia con il proprio p.t.c.p..
Ugualmente, il comma 4 -secondo cui “entro novanta giorni
dall’adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a pena di
inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un
periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della
presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”-
sanziona non tanto il mancato rispetto del termine per il
deposito quanto una violazione sostanziale, consistente nel
non lasciare gli atti del p.g.t. a disposizione degli
interessati, per un periodo di trenta giorni, al fine di
presentare le osservazioni.
In conclusione, dunque, la violazione del termine di novanta
giorni previsto dall’art. 13, c. 7, che si è verificata nel
caso di specie, non comporta alcuna conseguenza, dovendo lo
stesso ritenersi meramente ordinatorio.
--------------
E' legittimo il pgt dimensionato sulla base di un previsione
decennale anziché quinquennale.
Invero, la norma richiamata (art. 8, c. 4, l. Regione
Lombardia n. 12/2005) -nel prevedere che “il documento di
piano ha validità quinquennale ed è sempre modificabile”- si
riferisce unicamente al documento di piano e non all’intero
pgt e non impedisce quindi che quest’ultimo abbia un
orizzonte temporale più ampio, fermo restando l’obbligo per
il Comune di provvedere all’approvazione di un nuovo
documento di piano allo scadere del quinquennio.
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 13, c. 7, l. Regione Lombardia n.
12/2005: l’amministrazione non avrebbe rispettato, nella
decisione sulle osservazioni, il termine, ivi previsto, -di
novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni- che scadeva il 20.01.2007,
in quanto, oltre alla delibera del 19.01.2007,
sarebbero state assunte due ulteriori delibere, il 22
gennaio ed il 24 gennaio dello stesso anno. La ricorrente
deduce, inoltre, l’incongruenza e lo sviamento di potere per
avere la p.a. approvato in data 19.01.2007 quanto esaminato
e determinato in data successiva.
Nonostante il Comune non abbia effettivamente rispettato il
termine previsto dalla legge regionale, la censura non può
trovare accoglimento.
L’art. 13, c. 7, l. Regione Lombardia n. 12/2005 dispone che
“entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia
degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle
stesse, apportando agli atti di p.g.t.. le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”.
Nel caso di specie, gli atti del p.g.t. sono stati
depositati presso la segreteria comunale sino al 22.09.2006,
mentre il 22.10.2006 scadeva il termine per la
presentazione delle osservazioni.
Il 20.01.2007 era, quindi, il termine ultimo entro il quale
l’amministrazione comunale avrebbe dovuto decidere sulle
osservazioni presentate.
Il Consiglio Comunale ha, invece, ultimato la decisione
sulle osservazioni il 24.01.2007, e, pertanto, oltre la
scadenza del termine previsto dalla legge regionale.
Il Collegio non condivide quanto prospettato
dall’amministrazione comunale, laddove sostiene che, siccome
la seduta del 19 gennaio sarebbe proseguita, senza nuove
convocazioni, il 22 ed il 24 gennaio, le controdeduzioni
alle osservazioni ed il p.g.t. sarebbero stati approvati con
un processo deliberativo unitario che porta legittimamente
la data dell’unica convocazione, ossia, il 19.01.2007.
La delibera n. 3 del 19.01.2007 dà atto che il Consiglio, il
19 gennaio, ha esaminato le osservazioni dalla n. 1 al n.
48, si è poi aggiornato il 22 gennaio e, in tale data, ha
esaminato le osservazioni dalla n. 49 alla n. 106.
Infine, nella seduta del 24 gennaio, il Consiglio ha
esaminato le osservazioni dalla n. 107 alla n. 148.
La data del 19.01.2007, indicata sulla delibera, è, dunque,
palesemente erronea: l’amministrazione avrebbe difatti
dovuto datare tale atto 24.01.2007, poiché solo in tale
giorno il procedimento decisionale ha avuto termine, non
potendo, certamente, avere deliberato il 19.01.2007 ciò che
invece è stato deciso il 24 gennaio.
Prima di esaminare quali conseguenze derivino da tale
violazione, occorre delineare la disciplina del procedimento
di formazione del piano di governo del territorio, dettata
dall’art. 13 della l. Regione Lombardia n. 12/2005.
Il Consiglio Comunale adotta il piano di governo del
territorio dopo aver pubblicato l’avviso di avvio del
procedimento e dopo aver acquisito suggerimenti e proposte
da parte degli interessati ed i pareri delle parti
economiche e sociali.
Successivamente, il comma 4 prevede che “entro novanta
giorni dall'adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a
pena di inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale
per un periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della
presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”.
Contemporaneamente, gli atti del p.g.t. sono trasmessi alla
Provincia, la quale valuta la compatibilità del documento di
piano con il proprio piano territoriale di coordinamento
-entro il termine di centoventi giorni dal ricevimento della
relativa documentazione, decorsi inutilmente i quali la
valutazione si intende espressa favorevolmente- ed il
documento di piano è trasmesso anche all'a.s.l. e all'a.r.p.a.,
che, entro i termini per la presentazione delle osservazioni
di cui al comma 4, possono formulare osservazioni,
rispettivamente per gli aspetti di tutela igienico-sanitaria
ed ambientale, sulla prevista utilizzazione del suolo e
sulla localizzazione degli insediamenti produttivi.
Il comma 7 dell’art. 13 dispone, poi, che “entro novanta
giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di p.g.t. le modificazioni conseguenti all'eventuale
accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di
inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del
documento di piano adottato, nel caso in cui la Provincia
abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le
previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di
coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma
5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora
le osservazioni provinciali riguardino previsioni di
carattere orientativo”.
Infine, gli atti del p.g.t., definitivamente approvati, sono
depositati presso la segreteria comunale ed inviati per
conoscenza alla Provincia ed alla Giunta regionale ed
acquistano efficacia con la pubblicazione dell’avviso della
loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della
Regione, da effettuarsi a cura del Comune.
Il Collegio ritiene di non potere accedere ad una
interpretazione letterale della previsione di cui al comma
7.
Una soluzione che individui la ratio dell’art. 13
nell’esigenza di dettare una rigida tempistica
procedimentale a fini acceleratori correlando alla mera
violazione del termine previsto dal comma 7 l’inefficacia
degli atti del p.g.t., non è percorribile, in quanto conduce
ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento
dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.
Difatti, qualora si ritenesse che all’inutile scadenza del
termine entro il quale il Consiglio Comunale deve decidere
sulle osservazioni consegua la perdita di efficacia del
provvedimento di adozione del p.g.t., invero, l’attività
amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel
nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di
rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con
il principio di economicità oltre che con la ratio
acceleratoria sottesa alla norma.
Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto
vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della
legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita
di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del
territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare
l’intera procedura amministrativa. Proprio il palese
contrasto con i principi costituzionali già richiamati
esclude la condivisibilità dell’interpretazione ora
esaminata.
Questa interpretazione della norma non può, dunque, essere
accolta, in quanto in netto contrasto con i principi
costituzionali.
Il Collegio ritiene tuttavia che sia, comunque, possibile
accedere ad una lettura della legge regionale in senso
conforme alla Costituzione.
La norma così dispone: “entro novanta giorni dalla
scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale
accoglimento delle osservazioni”.
La previsione dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo dell’articolo e ciò
consente di riferire la sanzione della inefficacia alla
inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto
nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella
seconda parte della disposizione, ossia alla violazione
dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare
agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.
Pertanto, l’inefficacia integra una sanzione dettata non a
tutela di adempimenti formali, come il mero rispetto della
tempistica procedimentale, ma di esigenze sostanziali,
emergenti nell’ipotesi in cui il piano di governo del
territorio sia approvato in assenza di una decisione sulle
osservazioni o non recepisca le osservazioni accolte.
Ecco, allora, che l’inefficacia degli atti assunti si
verifica solo quando la loro adozione non sia stata
preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate
dagli interessati.
Questa lettura sostanzialistica può essere riferita anche
alle altre ipotesi in cui la legge regionale prevede la
sanzione dell’inefficacia degli atti assunti.
Così, seguendo questa linea interpretativa, la seconda parte
del comma 7 –secondo cui il Consiglio Comunale
“contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all’adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo”– punisce non
la mera inosservanza del termine previsto nella prima parte
dell’articolo ma la violazione dell’obbligo di adeguare il
documento di piano alle incompatibilità ravvisate dalla
Provincia con il proprio p.t.c.p.
Ugualmente, il comma 4 -secondo cui “entro novanta giorni
dall’adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a pena di
inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un
periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della
presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”-
sanziona non tanto il mancato rispetto del termine per il
deposito quanto una violazione sostanziale, consistente nel
non lasciare gli atti del p.g.t. a disposizione degli
interessati, per un periodo di trenta giorni, al fine di
presentare le osservazioni.
In conclusione, dunque, la violazione del termine di novanta
giorni previsto dall’art. 13, c. 7, che si è verificata nel
caso di specie, non comporta alcuna conseguenza, dovendo lo
stesso ritenersi meramente ordinatorio.
Con il secondo
motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la violazione
dell’art. 8, c. 4, l. Regione Lombardia n. 12/2005 in quanto
il p.g.t. sarebbe stato dimensionato sulla base di un
previsione decennale anziché quinquennale, in contrasto
anche con quanto segnalato dall’a.r.p.a. nel parere del
23.10.2006.
La censura è infondata atteso che la norma richiamata -nel
prevedere che “il documento di piano ha validità
quinquennale ed è sempre modificabile”- si riferisce
unicamente al documento di piano e non all’intero p.g.t. e
non impedisce quindi che quest’ultimo abbia un orizzonte
temporale più ampio, fermo restando l’obbligo per il Comune
di provvedere all’approvazione di un nuovo documento di
piano allo scadere del quinquennio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2010 n. 7508
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. PGT - Osservazioni dei privati -
Termine ultimo per la decisione del Comune sulle
osservazioni - Art. 13, comma 7, L.R. 12/2005 -
Interpretazione letterale - Inammissibilità.
2. PGT - Osservazioni dei privati - Termine ultimo per la
decisione del Comune sulle osservazioni - Art. 13, comma 7,
L.R. 12/2005 - Inefficacia degli atti assunti fuori termine
- Presupposti - Solo in caso di adozione atti non preceduta
dalla decisione sulle osservazioni presentate dagli
interessati.
3. PGT - Osservazioni dei privati - Termine ultimo per la
decisione del Comune sulle osservazioni - Art. 13, comma 7,
L.R. 12/2005 - Natura ordinatoria.
4. Scelte della P.A. in sede di PRG e sue varianti generali
- Ampia discrezionalità - Sindacato del giudice
amministrativo - Solo nei limiti di errori di fatto o di
abnormi illogicità.
5. PGT - Destinazione a zona agricola - Utilizzo per
coltivazione - Non necessita - Finalità di tutela ambientale
- Legittimità.
1.
Non è ammissibile un'interpretazione letterale della
previsione di cui all'art. 13, comma 7, L.R. 12/2005, poiché
individuando la ratio dell'art. 13 nell'esigenza di
dettare una rigida tempistica procedimentale a fini
acceleratori, correlando alla mera violazione del termine
previsto dal comma 7 l'inefficacia degli atti del p.g.t., si
otterrebbero esiti contrastanti con il principio di buon
andamento dell'azione amministrativa, posto dall'art. 97
Cost.; in particolare, qualora si ritenesse che all'inutile
scadenza del termine entro il quale il Consiglio Comunale
deve decidere sulle osservazioni consegua la perdita di
efficacia del provvedimento di adozione del p.g.t., allora
l'attività amministrativa precedentemente esercitata
verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per
l'amministrazione di rinnovare l'intero procedimento, il
tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che
con la stessa ratio acceleratoria sottesa alla norma.
2.
L'inefficacia prevista ex art. 13, comma 7, L.R. 12/2005
integra una sanzione dettata non a tutela di adempimenti
formali, come il mero rispetto della tempistica
procedimentale, bensì di esigenze sostanziali, emergenti
nell'ipotesi in cui il piano di governo del territorio sia
approvato in assenza di una decisione sulle osservazioni o
non recepisca le osservazioni accolte, con la conseguenza
che l'inefficacia degli atti assunti dal Comune si verifica
solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla
decisione delle osservazioni presentate dagli interessati.
3.
In materia di PGT, la mera violazione del termine di novanta
giorni previsto dall'art. 13, comma 7, L.R. 12/2005, in caso
di adozione di atti di pianificazione del territorio
preceduta dalla decisione del Comune sulle osservazioni
presentate dagli interessati, non comporta conseguenza
alcuna, dovendo detto termine ritenersi meramente
ordinatorio.
4.
Le scelte effettuate dalla P.A. in sede di
adozione-approvazione degli atti di pianificazione del
territorio costituiscono apprezzamento di merito o,
comunque, espressione di ampia potestà discrezionale,
sottratto al sindacato di legittimità salvo che tali scelte
non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2571/2007; TAR Milano, sent.
n. 1093/2010, n. 1277/2006).
5.
La destinazione di un'area a zona agricola a ragione può
essere disposta a salvaguardia del paesaggio o dell'ambiente
e non presuppone necessariamente che l'area stessa venga
utilizzata ad uso agricolo (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
5478/2008; TAR Trento, sent. n. 41/2010; TAR Pescara, sent.
n. 33/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2010 n. 7508 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Circolare Valutazione Ambientale
Strategica - VAS nel contesto comunale.
In data 10.11.2010 la Giunta regionale con
atto n. 9/761, ha approvato la “Determinazione
della procedura di Valutazione ambientale di
piani e programmi – VAS (art. 4, l.r. n.
12/2005; d.c.r. n. 351/2007) – Recepimento
delle disposizioni di cui al d.lgs.
29.06.2010, n. 128, con modifica ed
integrazione delle dd.g.r. 27.12.2008, n.
8/6420 e 30.12.2009, n. 8/10971“,
pubblicata sul BURL n. 47, 2° SS del
25.11.2010.
Al fine di assicurare il necessario supporto
operativo ai Comuni impegnati nella
predisposizione dei PGT è stata predisposta
ed approvata con
decreto
D.S. 14.12.2010 n. 13071 la
circolare “L’applicazione
della Valutazione ambientale di piani e
programmi – VAS nel contesto comunale”,
che fornisce risposte concrete ai quesiti
formulati agli uffici comunali.
Sul sito web regionale alla sezione VAS e
sul sito sivas alla sezione normativa
regionale, oltre alla circolare sopra citata
è altresì disponibile il testo coordinato
della deliberazione sulla Valutazione
ambientale – VAS, comprendente tutti gli
allegati e modelli approvati (comunicato
10.12.2010 - link a
www.regione.lombardia.it). |
novembre 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 48 del
29.11.2010, "D.d.g. 15.11.2010 n. 11517 –
Approvazione delle «Disposizioni tecniche
per il monitoraggio del Fondo Aree Verdi di
cui al punto 4 dell’allegato 1 alla d.g.r.
8757/2008 e note esplicative delle Linee
guida approvate con dd.g.r. 8757/2008 e
11297/2010» – Pubblicato nel BURL n. 47
Se.O. del 22.11.2010" (Errata
corrige n. 48/01-Se.O. 2010 -
link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 47 del
25.11.2010, "Determinazione della
procedura di Valutazione ambientale di piani
e programmi – VAS (art. 4, l.r. n. 12/2005;
d.c.r. n. 351/2007) – Recepimento delle
disposizioni di cui al d.lgs. 29.06.2010, n.
128, con modifica ed integrazione delle
dd.g.r. 27.12.2008, n. 6420 e 30.12.2009, n.
10971"
(deliberazione
G.R. 10.11.2010 n. 761 - link a www.infopoint.it).
---------------
N.B.: per caso, la
Regione Lombardia rivisita la disciplina
della VAS prima che si pronunzi il Consiglio
di Stato, il prossimo 07.12.2010, in merito
alla sentenza TAR Lombardia-Milano che ha
bocciato il PGT del Comune di Cermenate?? |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Zona agricola -
Possibilità per Comune e Provincia di
dettare disciplina differenziata - Sussiste.
2. Zona agricola -
Indici edificatori - Possibilità di
fissazione di limiti inferiori - Sussiste.
1. In materia di edificazione nelle zone
agricole, la vigente L.R. 12/2005 sul
governo del territorio consente al Comune di
dettare una disciplina differenziata per le
zone agricole, dal momento che essa demanda
agli strumenti urbanistici comunali ed in
particolare al piano delle regole, la
definizione, per le aree destinate
all'agricoltura, della relativa disciplina
"d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia"
(cfr. TAR Brescia, sent. n. 1/2009);
analogo potere conformativo sulle aree
agricole è attribuito alla Provincia,
attraverso il piano territoriale di
coordinamento provinciale (PTCP), dall'art.
15, comma 4, della L.R. 12/2005.
2. In ordine agli indici edificatori, ex
art. 59, comma 3, L.R. 12/2005, è previsto
soltanto un limite massimo di densità
fondiaria, con conseguente possibilità di
fissazione di limiti inferiori, nell'ambito
della potestà di pianificazione urbanistica
(cfr. TAR Brescia, sent. n. 1/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.11.2010 n.
7305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del
22.11.2010, "Approvazione delle
«Disposizioni tecniche per il monitoraggio
del Fondo Aree Verdi di cui al punto 4
dell’allegato 1 alla d.g.r. 8757/2008 e note
esplicative delle Linee guida approvate con
d.g.r. 8757/2008 e 11297/2010»" (decreto
D.G. 15.11.2010 n. 11514 - link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, Modalità per il monitoraggio del
Fondo Aree Verdi ex L.R. 12/2005.
Sono state approvate con decreto del
Direttore Generale n. 11517 del 15.11.2010
(vedi allegato) le disposizioni tecniche per
il monitoraggio del Fondo Aree Verdi.
Il decreto verrà pubblicato sul Burl Serie
Ordinaria n. 47 del 22.11.2010.
Con questo atto vengono fornite le modalità
e le specifiche tecniche secondo cui
ciascuna Amministrazione comunale
trasmetterà le informazioni necessarie per
il monitoraggio di cui al paragrafo 4 della
D.G.R. 2008/8757. Vengono inoltre comunicate
indicazioni utili per l’operatività dei
disposti normativi di cui all’art. 43, commi
2-bis, 2-bis1 e 2-bis2, della Legge
regionale n. 12/2005 e dei successivi
provvedimenti attuativi (D.G.R. 8757/2008 e
D.G.R. 11297/2010).
Il monitoraggio del Fondo verrà effettuato
attraverso un sistema informativo (front
office) attivato entro il 10.01.2011.
Nelle more dell’avvio del sistema di
monitoraggio informatico tutti i Comuni
trasmettono a Regione Lombardia, Direzione
Generale Sistemi Verdi e Paesaggio, le
informazioni necessarie al monitoraggio
secondo le modalità contenute al paragrafo
6. Versamenti e modalità di monitoraggio
nelle more dell’esercizio del front
office dell’Allegato A al d.D.G n. 11517
del 15.11.2010.
Le informazioni richieste riguardano ciascun
titolo abilitativo che da luogo alle
maggiorazioni previste dalla norma e ciascun
progetto di intervento forestale di
rilevanza ecologica e di incremento della
naturalità attuato attraverso l’utilizzo
delle suddette maggiorazioni.
In allegato puoi scaricare i seguenti file:
-
Decreto del Direttore Generale 15.11.2010 n.
11517/2010;
-
TABELLA MONITOR TITOLI ABILITATIVI;
-
TABELLA MONITOR PROGETTI.
Per informazioni:
Struttura Sistemi Verdi Integrati
Agostino Marino, tel. 02.6765.8027
Aurelio Camolese, tel. 02.6765.5089
Franceso Monzani, tel. 02.6765.8000 (link a
www.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di
Costruire - D.I.A. in variante - Art. 41 L.R. n. 12/2005 - Interpretazione.
L'art. 41 L.R. n. 12/2005 deve essere
interpretata nel senso che la facoltà di
presentare D.I.A. senza interruzione dei
lavori per le varianti minori non esclude
comunque, nel rispetto del principio generale
sull'alternatività tra D.I.A. e permesso di
costruire di cui all'art. 41, c. 1, L.R. n.
12/2005, la facoltà per il titolare di
permesso di costruire di presentare D.I.A.
anche per varianti sostanziali, con la
precisazione però che, non trattandosi
dell'ipotesi di cui al comma 2 dello stesso
articolo, per tali D.I.A. non è possibile la
presentazione dopo l'ultimazione dei lavori,
ma prima degli stessi, secondo il regime per
così dire ordinario della denuncia di inizio
attività (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 09.11.2010 n.
7236 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
1. Art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005 - Mutamenti di
destinazione d'uso - Attività con riflessi
di rilevante impatto urbanistico - Necessità
di verificare le dotazioni di attrezzature
pubbliche rapportate a dette destinazioni -
Sussiste - Associazione culturale con fine
religioso - Applicabilità dell'art. 52,
comma 3-bis, L.R. n. 12/2005 - Non sussiste,
se il fine religioso è accessorio e
marginale nel contesto degli scopi
statutari.
2. Art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005 - Mutamenti di
destinazione d'uso - Rilevanza ai fini
urbanistici dell'uso di fatto dell'immobile
- Non sussiste.
1. L'art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005,
per la sua collocazione e la sua ratio, è
palesemente volto al controllo di mutamenti
di destinazione d'uso suscettibili, per
l'afflusso di persone o di utenti, di creare
centri di aggregazione (chiese, moschee,
centri sociali, ecc.) aventi come
destinazione principale o esclusiva
l'esercizio del culto religioso o altre
attività con riflessi di rilevante impatto
urbanistico, che richiedono la verifica
delle dotazioni di attrezzature pubbliche
rapportate a dette destinazioni.
La norma
non pare quindi applicabile nel caso in cui
l'immobile venga utilizzato da
un'associazione culturale in cui il fine
religioso rivesta carattere di accessorietà
e di marginalità nel contesto degli scopi
statutari.
2.
Non rileva di norma ai fini urbanistici
l'uso di fatto dell'immobile in relazione
alle molteplici attività umane che il
titolare è libero di esplicare (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 25.10.2010 n.
7050 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cambio di destinazione d'uso -
Mancanza di conformità urbanistica.
E' respinto il ricorso per l'accertamento
del silenzio formatosi sull'istanza con la
quale è stata chiesta l'approvazione del
cambio di destinazione d'uso di alcune unità
immobiliari.
Sulla base dei chiarimenti
forniti dal comune su una questione simile
si ritiene che la mancanza di conformità
urbanistica non può essere superata
semplicemente richiamando la
liberalizzazione dei cambi di destinazione
d'uso prevista in via generale dall'art. 51,
comma 1, della l.r. n. 12/2005 (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 22.10.2010 n.
4109 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41
dell'11.10.2010, "Approvazione
dell'aggiornamento dell'elenco, e
pubblicazione dell'elenco completo, degli
enti locali idonei all'esercizio delle
funzioni paesaggistiche loro attribuite
dall'art. 80 della l.r. 11.03.2005, n. 12"
(decreto
D.G. 24.09.2010 n. 9051 - link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Istituzione delle commissioni regionali
per i beni paesaggistici in attuazione del
comma 1 dell'art. 78 della L.R. 11.03.2005,
n. 12 "Legge per il Governo del Territorio"
(deliberazione G.R.
06.10.2010 n. 572). |
settembre 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di opere manutentive, per
allestire un "centro per la pace",
occasionalmente utilizzato per le preghiere
islamiche, non realizza un luogo di culto,
soggetto ai rigidi dettami della normativa
regionale lombarda.
Con il provvedimento impugnato, il Comune di
Macherio ha ordinato la demolizione di opere
realizzate senza titolo edilizio
-consistenti principalmente nella
realizzazione di impianti elettrici,
igienico sanitari, disimpegni, tramezzature
in cartongesso, controsofittature,
pavimentazione, nel rivestimento di pilastri
con pannelli in cartongesso e nella posa di
altoparlanti– in quanto finalizzate alla
realizzazione di un edificio completamente
diverso dal preesistente e destinato a luogo
di culto e per attività religiose, in
contrasto con gli artt. 71 e 72 della l.
Regione Lombardia n. 12/2005.
Ai sensi di quest’ultima disposizione “fino
all’approvazione del piano dei servizi, la
realizzazione di nuove attrezzature per i
servizi religiosi è ammessa unicamente su
aree classificate a standard nei vigenti
strumenti urbanistici generali e
specificamente destinate ad attrezzature per
interesse comune”; la legge regionale
definisce “attrezzature di interesse
comune per servizi religiosi”:
“a) gli immobili destinati al culto anche
se articolati in più edifici compresa l’area
destinata a sagrato;
b) gli immobili destinati all’abitazione dei
ministri del culto, del personale di
servizio, nonché quelli destinati ad
attività di formazione religiosa;
c) nell’esercizio del ministero pastorale,
gli immobili adibiti ad attività educative,
culturali, sociali, ricreative e di ristoro
compresi gli immobili e le attrezzature
fisse destinate alle attività di oratorio e
similari che non abbiano fini di lucro”.
Di per sé le opere realizzate non rivelano,
in alcun modo, una destinazione del
fabbricato ad “attrezzatura di interesse
comune per servizi religiosi”, ai sensi
dell’art. 71, l. Regione Lombardia n.
12/2005. Il fabbricato non può, difatti,
essere qualificato, per effetto di tali
interventi, quale immobile destinato al
culto, all’abitazione dei ministri del culto
o del personale di servizio, ovvero ad
attività di formazione religiosa.
La fattispecie non rientra neppure
nell’ipotesi di cui all’art. 71, c. 1, lett.
c, della l. Regione Lombardia n. 12/2005: in
essa sono, difatti, ricompresi “gli
immobili adibiti ad attività educative,
culturali, sociali, ricreative e di ristoro
compresi gli immobili e le attrezzature
fisse destinate alle attività di oratorio e
similari che non abbiano fini di lucro”
unicamente se tali attività vengano svolte “nell’esercizio
del ministero pastorale”. Il rifacimento
di coperture di pavimentazione, il
ripristino di intonaci, la sistemazione di
pilastri in cartongesso, l’imbiancatura dei
locali, la realizzazione di impianti
igienico–sanitari ed elettrici non palesano,
di per sé, in alcun modo, la realizzazione
di un luogo di culto né l’esercizio
nell’immobile un’attività connessa al
ministero pastorale, attività che,
oltretutto, non rientra tra quelle indicate
nello statuto dell’associazione “Centro
Culturale Pace”.
La stessa difesa dell’amministrazione
comunale ammette che l’immobile non è una
moschea ma “un luogo di riunione ed
assistenza riservato alla comunità religiosa
islamica”: il fatto che i servizi prestati
dall’associazione siano rivolti ad una
comunità appartenente ad una determinata
confessione religiosa, ma dichiaratamente
erogati al solo scopo di promuoverne
l’integrazione e l’inserimento nella
società, non rivela affatto una destinazione
dei locali in cui essa ha la propria sede a
luogo di culto o comunque ad attività
connesse all’esercizio del ministero
pastorale, come richiede l’art. 71 della l.
Regione Lombardia n. 12/2005.
Parimenti, la circostanza che vi possa
essere stato, in passato, un uso di fatto
dell’immobile anche quale luogo di culto e
di preghiera, non è, di per sé, indicativa
di una modificazione della funzione
originaria dell’immobile.
La modifica della destinazione d'uso -nel
caso di specie ad “attrezzatura di
interesse comune per servizi religiosi”-
deve, invero, trovare una corrispondenza
nella natura e nella tipologia di opere
realizzate e non può essere inferita
dall’uso di fatto che possa, in precedenza,
essere stato posto in essere (cfr. Tar
Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.09.2010 n. 6416 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mutamento di destinazione d'uso -
Creazione di luoghi di culto o centri
sociali - Presupposti - Usi di fatto -
Irrilevanza - Fattispecie.
La volontà di attuare una particolare
destinazione d'uso -nel caso di specie ad
"attrezzatura di interesse comune per
servizi religiosi"- deve trovare una
corrispondenza nella natura e nella
tipologia di opere realizzate e non può
essere inferita dall'uso di fatto che possa,
in precedenza, essere stato posto in essere,
tanto più quando l'istanza di sanatoria non
faccia riferimento alcuno ad una
destinazione di tipo religioso (cfr. TAR,
Milano, sent. n. 4665/2009) -nel caso di
specie il TAR ha annullato il diniego di
rigetto di sanatoria del Comune ritenendo
che le opere oggetto della domanda
consistessero, principalmente, nel
rifacimento della pavimentazione, nel
ripristino degli intonaci, nel rivestimento
dei pilastri con cartongesso, nella
imbiancatura dei locali, nella realizzazione
di impianti igienico-sanitari ed elettrici
e non rivelassero, in alcun modo, la volontà
dell'associazione ricorrente di attuare una
destinazione del fabbricato ad "attrezzatura
di interesse comune per servizi religiosi",
ai sensi dell'art. 71, l. Regione Lombardia
n. 12/2005 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenze 23.09.2010 nn.
6415 e
6416 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di pertinenza - Regione
Lombardia - Art. 27, c. 1, lett. e-6 L.r.
12/2005 - Volume della pertinenza - Limite
del 20% rispetto all’edificio principale -
Mediazione degli strumenti urbanistici
comunali.
Sul piano urbanistico le pertinenze sono una
categoria di interventi individuata non
attraverso la nozione civilistica di cui
all’art. 817 c.c. ma in ragione della
modesta rilevanza economica e del limitato
peso per il territorio (v. CS Sez. IV
13.01.2010 n. 41; TAR Brescia Sez. I
13.10.2008 n. 1259).
Nella Regione Lombardia, l’art. 27, comma 1,
lett. e-6, della LR 12/2005 esclude che si
possa definire pertinenza una costruzione il
cui volume sia superiore al 20% del volume
dell'edificio principale. Al di sotto di
questa soglia le costruzioni collegate ad
altri edifici non sono comunque
automaticamente qualificabili come
pertinenze.
La predetta norma regionale (come la
corrispondente norma statale) richiede
infatti che la qualificazione delle
pertinenze sia mediata dagli strumenti
urbanistici comunali e dai regolamenti
edilizi.
Dunque la deroga alle regole stabilite per
le nuove costruzioni è ammissibile solo
quando la disciplina comunale contenga un
criterio idoneo a differenziare le
pertinenze dal resto dell’attività
edificatoria (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 22.09.2010 n. 3555 -
link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: Lombardia,
sulla localizzazione dei luoghi di culto di
diversa confessione religiosa e sul cambio
della destinazione d'uso, anche senza opere,
per ricavare un luogo di culto.
In sede di elaborazione degli strumenti
urbanistici i comuni, qualora ricevano
richieste di localizzazione di luoghi di
culto, possono legittimamente porsi soltanto
il problema dell’effettiva esigenza di
queste infrastrutture in relazione al numero
di soggetti interessati (anche su scala
sovracomunale se per le ridotte distanze o
per altri motivi risulti verosimile che il
bacino potenziale è più ampio del territorio
comunale: v. art. 72, comma 3, della LR
12/2005).
Una volta accertata l’esigenza di un luogo
di culto la localizzazione deve essere
necessariamente conforme alla proposta
presentata, qualora i promotori del progetto
abbiano la disponibilità degli immobili, in
quanto una diversa soluzione, coinvolgendo
diritti di terzi, equivarrebbe di fatto a un
diniego arbitrario.
Un diniego legittimo deve basarsi invece
sull’inidoneità del sito proposto, secondo
le normali valutazioni urbanistiche. In
questa fase la convenzione con i promotori
del progetto non è necessaria, almeno in via
generale, in quanto riguarda, come si è
visto sopra al punto 14, le concrete
modalità di realizzazione o sistemazione
dell’edificio.
Niente impedisce naturalmente che già nel
corso della stesura degli strumenti
urbanistici si raggiungano intese per
rimuovere eventuali ostacoli o per creare le
condizioni per l’inserimento del luogo di
culto nella programmazione urbanistica.
E' necessario esaminare le censure che si
riferiscono specificamente al cambio di
destinazione d’uso finalizzato alla
realizzazione di un luogo di culto.
Si tratta delle censure contenute nel sesto
e nel settimo motivo di ricorso, che
richiedono una valutazione congiunta. Gli
argomenti proposti non sono condivisibili
per le ragioni esposte qui di seguito:
(a)
innanzitutto non sono ravvisabili profili di
illegittimità costituzionale nell’art. 52,
comma 3-bis, della LR 12/2005, che impone
l’obbligo del permesso di costruire solo per
i cambi di destinazione d’uso relativi ad
alcuni edifici particolari (luoghi di culto,
centri sociali).
La norma vuole evitare che attraverso la
liberalizzazione dei cambi di destinazione
d’uso stabilita dall’art. 51 della LR
12/2005 siano realizzate innovazioni di
grande impatto sul tessuto urbano senza un
preventivo esame da parte
dell’amministrazione.
L’obiettivo è ragionevole, e non appare
discriminatorio proprio per l’indubbia
rilevanza sociale di questo tipo di edifici,
che rende preferibile il controllo
preventivo all’eventuale remissione in
pristino;
(b)
è corretto quanto afferma la ricorrente
circa la prevalenza delle qualificazioni del
DPR 380/2001 (disciplina nazionale omogenea
con riflessi penali) quando si tratta di
applicare le misure repressive degli abusi
edilizi.
Il fatto che l’art. 52 comma 3-bis della LR
12/2005 richieda il permesso di costruire
anche per i cambi di destinazione d’uso
senza opere non consente di equiparare
l’abuso della ricorrente a quelli
disciplinati dagli art. 31 e 33 del DPR
380/2001 (nuova costruzione, variazioni
essenziali, ristrutturazione pesante).
A proposito della ristrutturazione pesante
si osserva che in base all’art. 10, comma 1,
lett. c), del DPR 380/2001 può essere
considerato tale solo il cambio di
destinazione d’uso negli immobili compresi
nelle zone omogenee A;
(c)
la repressione del cambio di destinazione
d’uso operato dalla ricorrente non deve
quindi partire dal dato formale (necessità
del permesso di costruire) ma da quello
sostanziale (si tratta di un intervento
senza opere);
(d)
anche con questa precisazione non è però
possibile arrivare alla sanatoria
disciplinata dall’art. 53, comma 2, della LR
12/2005. Questa norma stabilisce che il
cambio di destinazione d'uso senza opere si
può sanare con il pagamento di una sanzione
amministrativa pecuniaria anche quando
risulti in contrasto con le previsioni
urbanistiche comunali.
Il confronto con l’art. 52, comma 2, della
LR 12/2005 chiarisce tuttavia che la
sanatoria non è possibile quando manchi la
conformità alla normativa
igienico-sanitaria, il che è in effetti
ragionevole se si considera il livello
sovraordinato degli interessi pubblici
collegati a quest’ultima (in particolare
l’interesse alla salute e alla sicurezza
collettiva);
(e)
nel caso dei luoghi di culto, come si è
visto sopra al punto 14, le questioni
igienico-sanitarie sono una parte rilevante
del contenuto della convenzione prevista
dall’art. 70, comma 2, della LR 12/2005.
Un cambio di destinazione d’uso senza opere
relativo a un luogo di culto non è quindi
sanabile con il meccanismo ordinario
dell’art. 53, comma 2, della LR 12/2005
proprio perché, mancando la convenzione,
manca la regolamentazione che è considerata
indispensabile per l’introduzione di un uso
non solo diverso da quello precedente ma del
tutto particolare e in grado di incidere in
modo significativo sul contesto sociale;
(f)
la convenzione potrebbe essere stipulata
anche a posteriori con effetto sanante, ma
appare comunque legittima la decisione del
Comune di bloccare immediatamente gli
effetti del cambio di destinazione d’uso per
il tempo necessario a valutare la situazione
e in attesa della presentazione di una
richiesta di permesso di costruire da parte
della ricorrente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.09.2010 n. 3522 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, declaratoria dell'intervento
di manutenzione straordinaria alla luce del
d.l. n. 40/2010 convertito con legge n.
73/2010.
Un Comune lombardo ha posto alla regione
Lombardia il quesito di seguito riportato.
DOMANDA:
A seguito dell'entrata in vigore della
legge 73/2010 (di conversione del d.l. n.
40/2010) ed in relazione al
comunicato regionale 03.06.2010
(a firma dell'Assessore BELOTTI e del
Direttore Generale MORI), ad oggi la
declaratoria dell'intervento di manutenzione
straordinaria cui attenersi,
nell'istruttoria delle pratiche edilizie, è
sempre quella di cui all'art. 27, comma 1,
lett. b) oppure quella di cui all'art. 3,
comma 1, lett. b) del DPR n. 380/2001?
RISPOSTA e-mail del 13.09.2010:
Con riferimento alla Sua mail in data
14.07.2010, si precisa che, anche a seguito
della legge n. 73/2010, di conversione del
D.L. n. 40, la definizione degli interventi
di manutenzione straordinaria rimane quella
esplicitata all'art. 27, comma 1, lett. b),
della L.R. n. 12/2005.
Come noto, quest'ultima disposizione non é
meramente riproduttiva di quella contenuta
nel T.U. statale, ovvero nell'art. 3 del
D.P.R. n. 380/2001, norma quest'ultima
espressamente dichiarata disapplicata
dall'art. 103, comma 1, della L.R. n.
12/2005.
Peraltro, ai fini della corretta
individuazione del regime giuridico degli
interventi, occorre tener conto della
sopraggiunta disposizione statale in materia
di attività edilizia libera (art. 6 del
D.P.R. n. 380, "riscritto" dal comma 1
dell'art. 5 del D.L. 25.03.2010, n. 40, come
sostituito dalla relativa legge di
conversione n. 73/2010), immediatamente
operante anche in Regione Lombardia, come
chiarito dal comunicato regionale in data
03.06.2010.
In altri termini, per beneficiare del regime
semplificato (comunicazione con relazione
tecnica e asseverazione), l'intervento di
manutenzione straordinaria, fermi gli altri
presupposti, dovrà rispettare i limiti
previsti al comma 2, lett. a) del "nuovo"
art. 6 sopra richiamato; più precisamente,
non dovrà riguardare le parti strutturali
dell'edificio, né comportare aumento del
numero delle unità immobiliari né implicare
incremento dei parametri urbanistici.
Un cordiale saluto.
Arch. Gian Angelo Bravo - Direttore Vicario
Direzione Generale Territorio e Urbanistica
- U.O. Programmazione e Pianificazione
Territoriale. |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Attività di
sbancamento - Attività edificatoria - Non
sussiste.
2. Interventi
edilizi - Definizione - Art. 3, d.P.R. n.
380/2001 - Derogabilità da parte del
legislatore regionale - Non sussiste.
3. Ristrutturazione
edilizia - Demolizione e ricostruzione -
Limite della sagoma - Combinato disposto
degli artt. 27, c. 1, lett. d), e 103, L.R.
Lombardia n. 12/2005 e dell'art. 22, L.R.
Lombardia n. 7/2010 - Contrasto con il
principio fondamentale dell'art. 3 del
d.P.R. n. 380/2001 - Sussiste - Violazione
dell'art. 117, c. 3, della Costituzione -
Sussiste - Rimette la questione alla Corte
Costituzionale.
1. La realizzazione di mere operazioni di
sbancamento non è sufficiente a configurare
l'inizio di una vera e propria attività
edificatoria.
2. L'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, recante
la definizione degli interventi edilizi,
costituisce un principio fondamentale della
legislazione statale, non derogabile dal
legislatore regionale.
3. Il combinato disposto degli artt. 27, c.
1, lett. d), ultimo periodo, della l.reg.
Lombardia n. 12/2005, come interpretato
dalla l. reg. n. 7/2010 -nella parte in cui
esclude l'applicabilità del limite della
sagoma alle ristrutturazioni edilizie
mediante demolizione e ricostruzione- e 103
della l.reg. Lombardia n. 12/2005 -nella
parte in cui prevede che, a seguito
dell'entrata in vigore della legge 12/2005,
cessi di avere diretta applicazione nella
Regione la disciplina di dettaglio prevista,
tra gli altri, dall'art. 3, d.P.R. n.
380/2001- si pone in aperto contrasto con
il principio fondamentale della legislazione
statale dettato dall'art. 3 del d.P.R. n.
380/2001 in materia di governo del
territorio e viola, dunque, l'art. 117, c.
3, della Costituzione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 07.09.2010 n.
5122 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia: e alla
fine il TAR ha rimesso alla Corte
Costituzionale il rito lombardo.
Come noto, in Regione Lombardia la
ricostruzione dell’edificio per effetto
della sua ristrutturazione é da intendersi
senza vincolo di sagoma. In tal senso
dispongono sia l'art. 27, c. 1, lett. d) e
103 l.reg. Lombardia n. 12/2005 (che non
prevede la sagoma tra i parametri da
rispettare) sia dell’art. 22, l.reg.
Lombardia n. 7 del 05.02.2010 (che
interpretando l'articolo 27 dichiara
espressamente che il rispetto della sagoma
non é necessario).
Con sentenza n. 5122 del 2010 la sezione
seconda del TAR Lombardia, Milano, ha
sollevato questione di legittimità
costituzionale del combinato disposto degli
artt. 27, c. 1, lett. d) e 103 l.reg.
Lombardia n. 12/2005 e dell’art. 22, l.reg.
Lombardia n. 7 del 05.02.2010, in relazione
all’art. 117, c. 3, della Costituzione.
Se la rimessione era più che attesa, può
forse stupire -ma in realtà neppure più di
tanto- il fatto che invece di censurare il
contrasto tra funzione legislativa e
funzione giurisdizionale (ossia la scelta
della Regione di attribuirsi il potere di
emanare norme di interpretazione autentica
quando é palese l'illegittimità
costituzionale della norma "interpretata"),
il TAR -probabilmente prendendo atto della
determinazione della stessa Regione nel
senso di mantenere aperto il conflitto
invece che di ricomporlo- ha rimesso alla
Corte tanto la norma interpretata (articolo
27 l.r. 12/2005) che la sua interpretazione
(art. 22 l.r. 7/2010).
Nell'attesa della decisione della Corte,
diventano attuali i profili di riflessione
in merito alle conseguenza di una pronuncia
di incostituzionalità delle norme in
questione. Sul punto v.
Quid iuris nell'ipotesi di un
pronuncia di incostituzionalità della legge
interpretativa? in La
ristrutturazione edilizia in Lombardia alla
luce della l.r. 7/2010 di interpretazione
autentica dell'art. 27 l.r. n. 12/2005
pubblicato il 30.06.2010 all'indirizzo
http://www.studiospallino.it/interventi/ristrutturazione.htm
(commento tratto da www.studiospallino.it).
---------------
Come è noto, l’edilizia, pur se non prevista
esplicitamente, rientra nell'ambito della
materia «governo del territorio», che l'art.
117, terzo comma, della Costituzione
attribuisce alla potestà legislativa
concorrente dello Stato e delle Regioni
(cfr. ex multis, Corte Cost.,
25.09.2003, n. 303 e 19.12.2003, n. 362).
La Corte Costituzionale ha, difatti,
affermato che “la materia dei titoli
abilitativi ad edificare appartiene
storicamente all'urbanistica che, in base
all'art. 117 Cost., nel testo previgente,
formava oggetto di competenza concorrente.
La parola "urbanistica" non compare nel
nuovo testo dell'art. 117, ma ciò non
autorizza a ritenere che la relativa materia
non sia più ricompresa nell'elenco del terzo
comma: essa fa parte del “governo del
territorio”. Se si considera che altre
materie o funzioni di competenza
concorrente, quali porti e aeroporti civili,
grandi reti di trasporto e di navigazione,
produzione, trasporto e distribuzione
nazionale dell'energia, sono specificamente
individuati nello stesso terzo comma
dell'art. 117 Cost. e non rientrano quindi
nel “governo del territorio”, appare del
tutto implausibile che dalla competenza
statale di principio su questa materia siano
stati estromessi aspetti così rilevanti,
quali quelli connessi all'urbanistica, e che
il “governo del territorio” sia stato
ridotto a poco più di un guscio vuoto”
(cfr. Corte Cost., 25.09.2003, n. 303).
Le Regioni esercitano, pertanto, in materia
edilizia, una potestà legislativa
concorrente, nel rispetto dei principi
fondamentali della legislazione statale.
In linea con tali dettami, la legge
regionale lombarda n. 12/2005 precisa,
all’art. 1, c. 1, che “la presente legge,
in attuazione di quanto previsto
dall’articolo 117, terzo comma, della
Costituzione detta le norme di governo del
territorio lombardo, definendo forme e
modalità di esercizio delle competenze
spettanti alla Regione e agli enti locali,
nel rispetto dei principi fondamentali
dell’ordinamento statale e comunitario,
nonché delle peculiarità storiche,
culturali, naturalistiche e paesaggistiche
che connotano la Lombardia”.
Ad avviso del Collegio, l’art. 3 del d.P.R.
n. 380/2001, recante la definizione degli
interventi edilizi, costituisce un principio
fondamentale della legislazione statale, non
derogabile dal legislatore regionale.
Depongono in tal senso elementi di carattere
letterale e sistematico, quale la rubrica
della norma “Definizioni degli interventi
edilizi” e la collocazione nel titolo I
della parte I, recante “Disposizioni
generali”.
La natura di principio fondamentale
dell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, è,
inoltre, desumibile dal complessivo impianto
del testo unico dell’edilizia e dal rilievo
centrale che in esso assumono le definizioni
degli interventi edilizi.
La disciplina applicabile agli interventi
edilizi è, difatti, legata alla loro
qualificazione: si pensi, ad esempio, alla
tipologia di titolo abilitativo -se permesso
di costruire o denuncia di inizio attività–
cui l’intervento è assoggettato,
all’onerosità o meno dell’intervento o alla
differente disciplina sanzionatoria.
In considerazione di tale valenza
trasversale, le definizioni delle tipologie
di intervento edilizio sono, quindi,
indubbia espressione di un principio
fondamentale.
Il carattere di principio fondamentale
dell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, legato
ad una esigenza di uniformità delle nozioni,
è dimostrato, infine, dalla prevalenza delle
definizioni in essa previste sulle eventuali
diverse disposizioni contenute negli
strumenti urbanistici generali e nei
regolamenti edilizi (art. 3, c. 2, d.P.R. n.
380/2001).
L’art. 3, c. 1, lett. d) del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 definisce, quali
interventi di ristrutturazione edilizia, “gli
interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad
un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente. Tali interventi
comprendono il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria e
sagoma di quello preesistente, fatte salve
le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica”.
La prima formulazione della norma
ricomprendeva tra gli interventi di
ristrutturazione edilizia “quelli
consistenti nella demolizione e successiva
fedele ricostruzione di un fabbricato
identico quanto a sagoma, volumi, area di
sedime e caratteristiche dei materiali,
fatte salve le sole innovazioni necessarie
per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
L'art. 1 del d.lgs. n. 27.12.2002, n. 301 ha
modificato l'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001
eliminando la locuzione “fedele
ricostruzione di un fabbricato identico,
quanto a sagoma, volumi, area di sedime e
caratteristiche di materiali a quello
preesistente” e l’ha sostituita con
l’espressione “ricostruzione con la
stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente” (art. 1, lett. a).
In mancanza dei requisiti previsti dall’art.
3 del d.P.R. n. 380/2001, l'intervento non
può essere qualificato quale
ristrutturazione edilizia, bensì quale nuova
edificazione. La lettera e) dell’art. 3,
comma 1, ricomprende infatti tra gli “interventi
di nuova costruzione” quelli di
trasformazione edilizia ed urbanistica del
territorio non rientranti nelle categorie
definite alle lettere precedenti.
Due sono, dunque, le ipotesi di
ristrutturazione previste dall’art. 3 del
d.P.R. n. 380/2001: quella contemplata dalla
prima parte della norma (c.d. intervento
conservativo), che può comportare anche
l’inserimento di nuovi volumi o modifiche
della sagoma (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
08.10.2007, n. 5214; Cass. pen, 17.02.2010,
n. 16393) e quella (c.d. intervento
ricostruttivo) attuata mediante demolizione
e ricostruzione, vincolata al rispetto di
volume e sagoma dell’edificio preesistente.
Quanto al titolo abilitativo necessario per
realizzare ristrutturazioni edilizie, l’art.
10 del d.P.R. n. 380/2001 subordina a
permesso di costruire gli interventi di
ristrutturazione c.d. pesante, quelli cioè
che portano alla realizzazione di un
organismo in tutto o in parte diverso dal
precedente e consistente in un aumento delle
unità immobiliari, in modifiche del volume,
dei prospetti, della sagoma o delle
superfici oppure, per gli immobili nella
zona A, con mutamenti di destinazione d'uso
(in alternativa, però, l'intervento può
essere anche effettuato con denuncia di
inizio attività sulla base del combinato
disposto artt. 3, 10 e 22, comma 3, lett. a)
del d.P.R. n. 380/2001).
In tutti le altre ipotesi di
ristrutturazione, c.d. leggere -quelle cioè
di portata minore– è sufficiente la previa
presentazione della dichiarazione di inizio
attività.
La ristrutturazione attuata mediante
demolizione e ricostruzione è, quindi,
soggetta alla sola dichiarazione di inizio
attività solo se porta alla realizzazione di
un organismo che abbia la stessa volumetria
e la stessa sagoma di quello preesistente.
La giurisprudenza accoglie
un’interpretazione restrittiva del concetto
di ristrutturazione edilizia mediante
demolizione e ricostruzione, sempre volta a
cogliere gli elementi che differenziano tale
tipologia di intervento da quello di nuova
costruzione.
Ad un primo orientamento che escludeva la
demolizione e ricostruzione dalla
fattispecie di ristrutturazione (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 09.02.1996, n. 144), è
seguito l'orientamento, trasfuso nel Testo
Unico dell'edilizia, che ha compreso la
fattispecie nella categoria della “ristrutturazione”
purché “fedele”, in quanto modalità
estrema di conservazione dell'edificio
preesistente nella sua consistenza
strutturale (cfr. Cons. Stato, sez. V,
10.08.2000, n. 4397).
Per la giurisprudenza pressoché unanime,
anche escludendo il superato criterio della
fedele ricostruzione, esigenze di
interpretazione logico-sistematica della
nuova normativa inducono a ritenere che la
ristrutturazione edilizia, per essere tale e
non finire per coincidere con la nuova
costruzione, debba conservare le
caratteristiche fondamentali dell'edificio
preesistente e la successiva ricostruzione
dell'edificio debba riprodurre le precedenti
linee fondamentali quanto a sagoma e volumi;
diversamente opinando, sarebbe, difatti,
sufficiente la preesistenza di un edificio
per definire ristrutturazione qualsiasi
nuova realizzazione eseguita in luogo o sul
luogo di quella preesistente (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, n. 1177/2008; sez. V, n.
476/2004; n. 5310/2003; n, 4593/2003;
18.03.2008, n. 1177; 08.10.2007, n. 5214;
16.03.2007, n. 1276; 22.05.2006, n. 3006;
Cass., sez. III, 26.10.2007, 18.03.2004).
Il legame con l’edificio preesistente,
quanto a sagoma -intendendosi con tale
concetto “la conformazione
planovolumetrica della costruzione ed il suo
perimetro considerato in senso verticale ed
orizzontale”, ovvero il contorno che
viene ad assumere l’edificio, ivi comprese
le strutture perimetrali con gli aggetti e
gli sporti (cfr. Cass. sez. III, 23.04.2004,
n. 19034)- e a volumetria, costituisce,
quindi, per unanime giurisprudenza, il
criterio distintivo degli interventi di
recupero del patrimonio edilizio esistente
dalle nuove costruzioni.
Le identità di volume e sagoma del nuovo
edificio rispetto a quello originario
giustificano, inoltre, il differente regime
cui sono soggetti gli interventi di
ristrutturazione edilizia rispetto alle
nuove costruzioni: ove la ristrutturazione
mantenga inalterati i parametri urbanistici
ed edilizi preesistenti, l’intervento non è,
difatti, subordinato al rispetto dei vincoli
posti dagli strumenti urbanistici
sopravvenuti, giacché la legittimazione
urbanistica del manufatto da demolire si
trasferisce su quello ricostruito (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 14.11.1996, n. 1359;
Cons. Stato, sez. V, 28.03.1998 , n. 369;
Cass. civ., sez. II, 12.06.2001, n. 7909;
Tar Calabria, Reggio Calabria, 24.01.2001,
n. 36; Puglia, Bari, sez. III, 22.07.2004 n.
3210) .
Delineato, così, il quadro della
normativa statale, si passa all’esame della
disciplina dettata, per la Regione
Lombardia, dal legislatore regionale.
L’art. 27 della l.reg. Lombardia n. 12/2005,
al comma 1, lett. d), prevede che “nell’ambito
degli interventi di ristrutturazione
edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e
ricostruzione parziale o totale nel rispetto
della volumetria preesistente fatte salve le
sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica”.
A differenza dell’art. 3, d.P.R. n.
380/2001, che, come si è visto, pone un
vincolo di identità di volumetria e di
sagoma tra il nuovo edificio e quello
preesistente, la norma regionale non
menziona il limite della sagoma.
L’art. 103 della l.reg. Lombardia n.
12/2005, prevede, inoltre, che, a seguito
dell’entrata in vigore della legge 12/2005,
cessi di avere diretta applicazione nella
Regione la disciplina di dettaglio prevista,
tra l’altro, dall’art. 3 del d.P.R. n.
380/2001, con ciò escludendo implicitamente
il carattere di principio fondamentale della
norma recante le definizioni degli
interventi edilizi.
Il Tar Lombardia ha ritenuto di poter
accedere ad una lettura conforme alla
Costituzione di queste disposizioni,
nonostante l’art. 27, c. 1, lett. d), della
l. reg. Lombardia n. 12/2005 non contenesse
alcun riferimento al limite della sagoma
dell’edificio.
Dapprima il Tar Lombardia, Brescia, con la
sentenza 13.05.2008, n. 504, ha affermato
che “il concetto di ristrutturazione
previa demolizione come intervento che
rispetta sia il volume sia la sagoma
dell’edificio preesistente è ben fermo e
ripetuto di frequente in giurisprudenza, sì
che è poco credibile che il legislatore
regionale, il quale intendesse abbandonarlo
per proporre una innovazione, lo abbia fatto
per implicito, senza palesare con termini
espressi tale intento”. Ha ritenuto
incongruo che l’esigenza del limite di
sagoma “possa venire accantonata
senz’altro dalle legislazione regionale”
e, quindi, “seguendo il costante
insegnamento della Corte costituzionale per
cui sin quando è possibile una legge
ordinaria va interpretata in modo conforme a
Costituzione” ha concluso che “il
limite della sagoma, attinente ad un
principio, nella norma lombarda che non lo
prevede espressamente, vada ricavato per via
di interpretazione logica e sistematica”.
Successivamente, anche questo Tar ha
sostenuto che l’art. 27, c. 1, l. d), della
L.R. Lombardia 11.03.2005, n. 12 dovesse
interpretarsi nel senso di prescrivere anche
il rispetto della sagoma dell’edificio
preesistente, in quanto tale requisito,
previsto dall’art. 3, comma 1, lettera d),
del D.P.R. 380/2001, costituisce espressione
di un principio generale che orienta anche
l’interpretazione della legislazione
regionale (Tar Lombardia Milano, sez. II,
16.01.2009, n. 153).
Una tale soluzione dell’antinomia tra le
previsioni dell’art. 27, c. 11, lett. d),
della l.reg. Lombardia n. 12/2005 ed il
principio fondamentale dettato dall’art. 3
del d.P.R. n. 380/2001 non può però più
essere accolta.
Con l’art. 22 della l. reg. n. 7 del
05.02.2010, il legislatore regionale ha,
difatti, adottato una norma di
interpretazione autentica, specificando che
“nella disposizione di cui all’art. 27,
c. 1, lett. d), ultimo periodo, della legge
regionale 11.03.2005, n. 12 la ricostruzione
dell’edificio è da intendersi senza vincolo
di sagoma”.
Ad avviso del Collegio, il combinato
disposto degli artt. 27, c. 1, lett. d),
ultimo periodo, della l.reg. Lombardia n.
12/2005, come interpretato dalla l.reg. n.
7/2010 -nella parte in cui esclude
l’applicabilità del limite della sagoma alle
ristrutturazioni edilizie mediante
demolizione e ricostruzione- e 103 della
l.reg. Lombardia n. 12/2005 -nella parte
in cui prevede che, a seguito dell’entrata
in vigore della legge 12/2005, cessi di
avere diretta applicazione nella Regione la
disciplina di dettaglio prevista, tra gli
altri, dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001-
si pone in aperto contrasto con il principio
fondamentale della legislazione statale
dettato dall’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001
in materia di governo del territorio e
viola, dunque, l’art. 117, c. 3 della
Costituzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.09.2010 n. 5122 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia,
Corso di specializzazione sull'applicazione
della L.R. n. 12/2005:
4^ lezione (parte B) - I parcheggi
pertinenziali (Geometra Orobico n.
4/2010). |
URBANISTICA:
P. Brambilla,
V.A.S. E COMPETENZE - Il Consiglio di Stato
non sospende la scure del Tar Milano
abbattutasi sulla V.A.S. della Regione
Lombardia (link a
www.greenlex.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n.
32 del 12.08.2010
(link a www.infopoint.it):
- "Atto di indirizzo per l’aggiornamento
del Database topografico e l’interscambio
con le banche dati catastali (art. 3, l.r.
12/2005)" (deliberazione
G.R. 28.07.2010 n. 338);
- "Approvazione del bando di
finanziamento 2010 per lo «Sviluppo del
Database topografico ai sensi della l.r.
12/2005»" (decreto
D.S. 29.07.2010 n. 7571). |
luglio 2010 |
|
URBANISTICA:
Chiarimenti ai Comuni sull'applicazione
della VAS a seguito della sentenza del TAR
Lombardia (Regione Lombardia,
nota 28.07.2010 - link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
URBANISTICA:
M. Luraghi e V. Latorraca,
La V.A.S. secondo il TAR Milano
(link a www.lavatellilatorraca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria 05.07.2010 n. 27,
"Modalità di finanziamento agli Enti
locali per lo sviluppo del Database
Topografico, a supporto del SIT integrato
per l’anno 2010" (deliberazione
G.R. 23.06.2010 n. 160 - link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: Ancora
sulla V.A.S. del P.G.T..
Ulteriori chiarimenti della Regione
Lombardia sulla corretta individuazione dei
soggetti quale Autorità procedente ed
Autorità competente per la VAS.
La Regione Lombardia, in risposta ad un
quesito del Sindaco di un comune con più di
5.000 abitanti, ha evidenziato alcune
osservazioni -di interesse per tutti i
Comuni lombardi- che si riportano di
seguito:
"... In merito a quanto riportato nella
Sua lettera si osserva quanto segue:
1.
dall'analisi della documentazione pubblicata
sul sito web del Comune e nella scheda del
sito regionale SIVAS
(www.cartografia.regione.lombardia.it/sivas),
si riscontrano alcune irregolarità
nell'individuazione delle Autorità in quanto
l'individuazione del Sindaco quale autorità
procedente non è in ogni caso corretta,
essendo data tale possibilità solo ai Comuni
con meno di 5.000 abitanti (come previsto
dal comma 23 dell'art. 53 della legge
23.12.2000, n. 388 modificato dal comma 4
dell'art. 29 della legge 28.12.2001, n. 448,
previa assunzione delle disposizioni
regolamentari ed organizzative): dovrebbe
invece essere individuata all'interno
dell'ente tra coloro che hanno
responsabilità nel procedimento di PGT (ad
es. il Responsabile Unico del Procedimento);
2.
inoltre, l'Autorità competente per la VAS
deve possedere i requisiti richiamati nel
punto 3.2 dell'allegato 1a (ndr: della
DGR 30.12.2009 n. 10971) e il dirigente
del Settore Urbanistica ed Edilizia Privata
del Comune di ..., nominato Autorità
competente per la VAS, sembra avere
competenze in materia di pianificazione
e urbanistica piuttosto che in materia di
tutela, protezione e valorizzazione
ambientale e di sviluppo sostenibile;
3.
si suggerisce, pertanto, di individuare
all'interno dell'Ente le due Autorità con
nuova deliberazione di Giunta Comunale, ai
sensi della DGR n. 10971 del 30.12.2009;
tali Autorità dovranno accompagnare il loro
primo pronunciamento con un'esplicita
determinazione di convalida delle attività
precedentemente svolte nell'ambito della
procedura di VAS e potranno proseguire nella
stessa. ..."
(Regione Lombardia, Direzione Generale
Territorio e Urbanistica, Programmazione e
Pianificazione Territoriale, Strumenti per
il Governo del Territorio,
nota
01.07.2010 n. 15812 di prot.). |
giugno 2010 |
|
URBANISTICA:
W. Fumagalli,
Lombardia, La perequazione: una facoltà o un
obbligo? (AL n. 6/2010). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia,
Corso di specializzazione sull'applicazione
della L.R. n. 12/2005:
4^ lezione (parte A) - Edificazione nelle
zone agricole (Geometra Orobico
n. 3/2010). |
URBANISTICA:
Ambiente, il controllore va
separato dal controllato. Tar Lombardia,
principi in materia di valutazione
strategica.
Il controllore non può essere allo stesso
tempo anche il controllato. Si tratta di un
principio di elementare civiltà giuridica
che il Tar Lombardia ha desunto da una
corretta interpretazione del dlgs 4/2008,
che ha innovato le procedure Vas
(Valutazione ambientale strategica) nel
territorio nazionale, e che ha ora sancito
nella sentenza della seconda sezione n.
1526/2010 depositata lo scorso 18.05.2010.
Con questa sentenza – presidente M. Arosio,
estensore G. Zucchini – la prima emessa in
Italia in tema di Vas – il Tar della
Lombardia assume una chiara posizione nei
confronti della problematica della
definizione dell'autorità competente nei
procedimenti di valutazione ambientale
strategica Vas relativi allo sviluppo
urbanistico ed edilizio sul territorio.
Per effetto di questa anomalia riscontrata,
il Tar ha annullato il Pgt del Comune di
Cermenate (dove addirittura il tecnico
comunale era anche co-firmatario del Pgt),
ma i principi enunciati da questa sentenza
–ricordiamo la prima in Italia in materia-
valgono in tutto il territorio della Regione
Lombardia ed anche italiano. A rischio di
annullamento, quindi, si trovano ora tutti i
Piano di governo del territorio o i
Programmi integrati di intervento approvati
senza rispettare la regola della terzietà
dell'autorità competente Vas o anche in fase
di approvazione, tra cui Milano, Como e
moltissimi altri comuni.
Come noto nei procedimenti Vas –che per
legge debbono precedere le scelte
pianificatorie dei Pii e dei Pgt– l'autorità
competente esercita una funzione di
controllo sulle proposte pianificatorie, che
l'autorità procedente intende portare ad
approvazione.
Nel caso in esame, dove addirittura il
tecnico comunale aveva insieme firmato il
Pgt, firmato il parere relativo alla
delibera approvativa del Pgt e aveva assunto
il ruolo di autorità competente per la Vas,
il Pgt di Cermenate è stato completamente
annullato perché preceduto da un
procedimento Vas illegittimo.
Così i giudici amministrativi lombardi di
primo grado, nel rispetto della regola
generale dell'imparzialità amministrativa ex
art. 97 della Costituzione, hanno stabilito
che autorità competente ed autorità
procedente non possono appartenere alla
medesima amministrazione comunale, ma
debbono appartenere a due diverse e distinte
amministrazioni pubbliche.
«Questa sentenza è una pietra miliare
nella definizione del corretto procedimento
Vas» commenta a ItaliaOggi l'avv.
Umberto Sgrella, difensore della parte
ricorrente e vincitrice in primo grado. «Le
amministrazioni comunali dovranno rivolgersi
ad altri enti pubblici esperti in materia
ambientale per il ruolo di autorità
competente, ponendo fine alla prassi
illegittima della c.d. Vas fatte in casa che
spesso si risolvevano solo in un mero
passaggio burocratico interno, laddove i
funzionari preposti si trovavano in una
situazione difficile per l'esercizio delle
loro potestà, in quanto dipendenti della
stessa amministrazione che desiderava far
approvare lo strumento urbanistico
sottoposto a Vas» (articolo ItaliaOggi
del 24.06.2010, pag. 43). |
maggio 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: W.
Fumagalli,
Le nuove
modifiche della 44 Legge Regionale 12/2005 (AL
n. 5/2010). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 22 del
31.05.2010, "Direzione Centrale Affari
Istituzionali e Legislativo – Nomine e
designazioni di competenza della Giunta
regionale: Commissioni Regionali per il
Paesaggio (rif. art. 78 della l.r.
11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del
territorio»)" (comunicato
regionale 26.05.2010 n. 69 - link
a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli
interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale
o parziale scontano il contributo concessorio previsto per le nuove
costruzioni.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 26/27.10.2007, prot.
n. 17310, emesso dal responsabile dell’Area Tecnica, con cui
il Comune ha rideterminato il contributo di costruzione per
gli interventi edilizi eseguiti sull’area del complesso
produttivo “ex Mellin” ed ha ingiunto alla ricorrente
il pagamento di € 615.883,31 quale maggior somma dovuta a
tale titolo; con la condanna del Comune al risarcimento del
danno.
...
16. Qui si tratta solo di vedere se la pretesa creditoria
del Comune, fondata sulla diversa qualificazione
dell’intervento (nuova costruzione, anziché
ristrutturazione), senza alcuna contestazione che investa il
computo aritmetico consequenziale, sia o no sia fondata; e
d’altro canto, in questo come in ogni altro caso analogo, è
innegabile, essendo in re ipsa -stante il danno
erariale cui pur accenna l’atto impugnato- l’interesse
pubblico alla riscossione delle somme dovute ex lege
a titolo tributario o paratributario.
17. La tesi secondo cui la “rivisitazione” del
contributo sarebbe preclusa dall’accordo sostitutivo non è
condivisibile.
In primo luogo, perché gli accordi
sostitutivi possono intervenire, ai sensi dell’art. 11
(primo comma) della legge n. 241 del 1990, “al fine di
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento”,
e quindi non possono avere ad oggetto la liquidazione di un
contributo che va determinato, in via del tutto vincolata,
sulla base di presupposti di fatto e qualificazioni di
diritto predeterminati da fonti normative, di rango
legislativo o regolamentare.
18. In secondo luogo, perché l’accordo sostitutivo in
questione non ha ad oggetto il contributo di concessione
relativo alle d.i.a. presentate dalla Società per la
realizzazione di interventi di ristrutturazione.
19. Vero è che nelle premesse dell’accordo si dà atto che
l’amministrazione comunale, a seguito di una “verifica in
autotutela circa la corretta quantificazione dei contributi
concessori alla luce dell’effettiva qualificazione giuridica
degli interventi oggetto di DIA” ... “ha accertato che il
maggior [importo] dovuto da parte del soggetto attuatore a
titolo di conguaglio del contributo concessorio dal medesimo
autoliquidato è pari ad € 184.762,68 (cioè per un totale
complessivo di € 225.015.62)”.
20. Tale premessa non è tuttavia idonea a rendere
intangibile l’accertamento del dovuto: sia perché la
qualificazione dell’intervento e la determinazione del
contributo non possono essere oggetto di contrattazione; sia
perché l’accordo, nel suo contenuto dispositivo, si propone
di regolare tutt’altra cosa, vale a dire la realizzazione, a
cura della Società (soggetto attuatore), della viabilità
destinata a servire l’area di trasformazione edilizia e
delle opere di manutenzione dell’edificio scolastico a
scomputo del contributo concessorio.
21. Per quanto riguarda la qualificazione dell’intervento,
reputa il Collegio che la pretesa creditoria del Comune,
fondata sull’art. 44 della legge regionale 11.03.2005 n. 12
(legge per il governo del territorio), sia fondata.
22. Qui non è in questione la legittimità delle d.i.a. e
dell’intervento edilizio, ma la qualificazione
dell’intervento ai fini del contributo concessorio.
23. Ora, è vero che, in sede di definizione degli interventi
edilizi, la legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per
il governo del territorio) dispone [art. 27, comma 1, lett.
d)] che “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione
edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto
della volumetria preesistente fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica”.
24. Ed è altrettanto vero che, in sede di interpretazione
autentica di questa disposizione, il legislatore regionale,
in dissonanza da quanto stabilito dal testo unico in materia
edilizia [art. 3, primo comma, lett. d): “Nell'ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia sono
ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente”] ha stabilito (art. 22 legge regionale
05.02.2010 n. 7) che “la ricostruzione dell’edificio è da
intendersi senza vincolo di sagoma”.
25. Ma tutto ciò attiene all’ammissibilità -secondo gli
strumenti urbanistici- degli interventi edilizi
classificati in base ad una tipologia standard.
Ai fini del
contributo, vale invece l’art. 44 della stessa legge
regionale n. 12 del 2005; il quale, dopo avere stabilito
(commi 8 e 9) le modalità di calcolo degli oneri di
urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione non
comportanti demolizione e ricostruzione”, dispone (comma 10)
che “per gli interventi di ristrutturazione di cui al comma
8 gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono quelli
riguardanti gli interventi di nuova costruzione, ridotti
della metà.”
Il che significa che gli interventi di
ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale
scontano il contributo concessorio previsto per le nuove
costruzioni.
26. Nel caso in esame, come si evince dalle d.i.a. n.
41/2004 (in data 01.07.2004) e n. 17/2005 (in data
12.05.2005), gli interventi edilizi sono consistiti,
rispettivamente, nella parziale demolizione del fabbricato
esistente con costruzione di palazzine uffici in aderenza al
corpo di fabbrica esistente sui fronti nord e sud (vedasi la
relazione tecnica alla d.i.a. 41/2004, che parla di “nuove
palazzine in progetto”) e nella parziale demolizione e
innalzamento del fabbricato esistente (d.i.a. 17/2005).
27. Poiché si versa dunque in quella ipotesi di demolizione
e ricostruzione che la legge regionale assoggetta al
contributo previsto per le nuove costruzioni, la pretesa
creditoria del Comune appare fondata.
E ciò non soltanto per
la d.i.a. n. 17/2005 (presentata nel vigore della legge
regionale n. 12/2005), ma anche per la d.i.a. 41/2004,
presentata nel vigore del t.u. statale (d.p.r. n. 380/2001),
che esclude dalla nozione di ristrutturazione gli interventi
di demolizione e ricostruzione che non rispettino il vincolo
della volumetria e della sagoma (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.05.2010 n. 1566 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il TAR Lombardia-Milano
ha annullato la D.G.R. 27.12.2007 n. 6420,
limitatamente all'art. 3.2. dell'Allegato 1
(modello generale),
relativa alla
procedura per la Valutazione Ambientale di
Piani e Programmi (denominata anche
Valutazione Ambientale Strategica o VAS).
L’individuazione
dell’autorità competente per la VAS
nell’ambito della stessa Amministrazione
comunale tenuta all’approvazione del PGT è illegittima in quanto una struttura
competente per la VAS completamente interna
al Comune non offre sufficienti
garanzie di imparzialità e terzietà nella
valutazione ambientale, determinando una
illegittima commistione fra funzioni di
amministrazione attiva (approvazione PGT) e
di controllo (valutazione ambientale), con
la conseguenza di vanificare le finalità
–previste dalla normativa comunitaria e da
quella nazionale di attuazione– proprie
della valutazione ambientale strategica.
Nel caso di
specie il Comune di ..., in attuazione
dell’art. 3.2 dell’allegato 1 alla delibera
di Giunta del 27.12.2007, ha individuato
l’autorità competente all’interno dello
stesso Comune, scegliendo in particolare i
Responsabili del Settore Urbanistica e del
Settore Lavori Pubblici. Tale composizione
dell’autorità competente, al di là di ogni
valutazione sulla preparazione e sulla
capacità professionale dei singoli operatori
comunali, non appare in ogni caso rispettosa
delle norme comunitarie e statali sopra
riportate, in quanto appare assolutamente
inidonea a garantire la necessaria
imparzialità dell’autorità competente
rispetto a quella procedente. Si aggiunga,
inoltre, che il Responsabile del Settore
Urbanistica del Comune, membro dell’autorità
competente, risulta fra coloro che hanno
contribuito alla predisposizione del
documento di Piano, il che vale a rafforzare
il convincimento del Collegio circa
l’illegittimità della composizione
dell’autorità competente, a causa
dell’evidente commistione fra il ruolo di
controllore e quello di controllato.
Nel secondo
motivo, è denunciata la violazione, sotto
molteplici profili, della normativa
comunitaria, statale e regionale in materia
di VAS (valutazione ambientale strategica) e
a tale proposito l’esponente impugna, anche
se solo in parte, la delibera di Giunta
Regionale 27.12.2007 n. 8/6420 relativa alla
procedura per la Valutazione Ambientale di
Piani e Programmi (denominata anche
Valutazione Ambientale Strategica o VAS).
Il Comune di ..., ai fini
dell’obbligatoria sottoposizione del proprio
PGT alla procedura di VAS, ha provveduto,
con delibera di Giunta n. 38/2008 (doc. 6
del ricorrente), ad avviare il procedimento
di valutazione ambientale strategica,
individuando contestualmente la c.d.
autorità competente per la VAS, costituta
dal team composto da due dipendenti
comunali, vale a dire il geom. ... ed il
P.I.E. ..., rispettivamente
Responsabile Settore Urbanistica e Sportello
Unico Attività Produttive e Responsabile del
Settore Lavori Pubblici.
Secondo il ricorrente, l’individuazione
dell’autorità competente per la VAS
nell’ambito della stessa Amministrazione
comunale tenuta all’approvazione del PGT
sarebbe illegittima, in quanto una struttura
competente per la VAS completamente interna
al Comune non offrirebbe sufficienti
garanzie di imparzialità e terzietà nella
valutazione ambientale, determinando una
illegittima commistione fra funzioni di
amministrazione attiva (approvazione PGT) e
di controllo (valutazione ambientale), con
la conseguenza di vanificare le finalità
–previste dalla normativa comunitaria e da
quella nazionale di attuazione– proprie
della valutazione ambientale strategica.
Con riguardo a tale motivo, occorre dapprima
evidenziare come sussista interesse ad agire
in capo al ricorrente, visto che per effetto
dell’accoglimento della censura sarebbe
invalidato l’intero PGT, con obbligo per
l’Amministrazione comunale di nuova adozione
del Piano, nel rispetto però delle
disposizioni in materia di VAS, sicché si
configura in capo al geom. ... un
interesse strumentale ad una riedizione del
potere amministrativo, che potrebbe
svolgersi in senso più favorevole al
ricorrente (cfr. sul punto, TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 27.01.2010, n. 188).
Preliminarmente, appaiono necessarie talune
premesse relative alla valutazione
ambientale strategica (VAS), alla luce della
disciplina comunitaria e nazionale in
materia.
La valutazione ambientale strategica è stata
introdotta dalla direttiva 2001/42/CE del
Parlamento Europeo e del Consiglio del
27.6.2001, concernente la valutazione degli
effetti di determinati piani e programmi
sull’ambiente. Lo scopo dichiarato della
direttiva (art. 1), è quello di garantire un
<<elevato livello di protezione
dell’ambiente (...) all’atto
dell’elaborazione e dell’adozione di piani e
programmi al fine di promuovere lo sviluppo
sostenibile>>.
E’ stato peraltro notato, dalla dottrina,
che l’istituto comunitario della VAS,
unitamente a quello della valutazione di
impatto ambientale-VIA, affonda le proprie
radici in precedenti esperienze giuridiche
statunitensi degli anni sessanta del secolo
scorso ed anche in alcune iniziative delle
Nazioni Unite per la protezione ambientale
internazionale (si vedano a tale proposito i
lavori della Commissione dell’ONU per
l’ambiente e lo sviluppo, conclusi con il
rapporto Brundtland del 1987, che enuncia
per la prima volta il principio dello “Sviluppo
Sostenibile”).
Tornando, ad ogni modo, alla disciplina
comunitaria, si ricordi che la legge della
Regione Lombardia n. 12/2005 sul governo del
territorio, all’art. 4 (“Valutazione
ambientale dei piani”), richiama
espressamente la direttiva 2001/42/CE,
rinviando a successive deliberazioni del
Consiglio e della Giunta l’approvazione di
indirizzi ed ulteriori adempimenti per la
valutazione ambientale dei piani. In
attuazione dell’art. 4 citato, il Consiglio
Regionale ha approvato gli indirizzi
generali per la valutazione suindicata, con
deliberazione 13.03.2007 n. VIII/351, mentre
con successiva delibera di Giunta 27.12.2007
n. 8/6420 è stata disciplinata la procedura
per la VAS.
Lo Stato italiano ha dato compiuta
attuazione alla direttiva 2001/42/CE con il
decreto legislativo 16.01.2008 n. 4, quindi
successivo alla regolamentazione regionale
sopra richiamata.
Per effetto del citato decreto legislativo,
è stata interamente riscritta la parte II
del D.Lgs. 152/2006 (“Norme in materia
ambientale”, c.d. Codice dell’ambiente)
ed è stata dettata una specifica disciplina
per la VAS agli articoli 4 e seguenti.
Tale disciplina è stata ritenuta
costituzionalmente legittima ed espressione
di potestà legislativa esclusiva statale, in
quanto inerente alla materia della “tutela
dell’ambiente”, che l’art. 117, comma
2°, lett. s), della Costituzione, riserva
alla legislazione esclusiva dello Stato
(cfr. Corte Costituzionale, 22.07.2009, n.
225).
L’art. 5, comma 1, lett. a), del D.Lgs.
152/2006, definisce la VAS come valutazione
ambientale di piani e programmi,
comprendente lo svolgimento di una verifica
di assoggettabilità, l’elaborazione di un
rapporto ambientale e la conseguente
valutazione del piano o programma.
Nell’ambito della procedura di VAS, l’art. 5
distingue l’autorità competente (lettera p)
dall’autorità procedente (lett. q);
quest’ultima è definita come la pubblica
amministrazione che elabora il piano o
programma, mentre la prima è la pubblica
amministrazione a cui compete l’attività di
valutazione ambientale. Ai fini
dell’individuazione dell’autorità
competente, il successivo art. 7, comma 6°,
ha cura di specificare che, in sede
regionale, l’autorità competente è la
pubblica amministrazione con compiti di
tutela, valorizzazione e protezione
ambientale.
Le ulteriori disposizioni sulla VAS
contenute nel Codice dell’ambiente
confermano, con chiarezza, la necessità di
separazione fra le due differenti autorità
–quella procedente e quella competente– il
cui rapporto nell’ambito del procedimento di
valutazione ambientale strategica appare
tutto sommato dialettico, a conferma
dell’intendimento del legislatore di
affidare il ruolo di autorità competente ad
un soggetto pubblico specializzato, in
giustapposizione all’autorità procedente,
coincidente invece con il soggetto pubblico
che approva il piano (cfr., fra gli altri,
art. 11, comma 2°; art. 12, comma 4°; artt.
13, 14 e 15).
Viene poi confermata l’assoluta
obbligatorietà della VAS, tanto è vero che i
provvedimenti amministrativi di approvazione
di piani e programmi adottati senza la VAS,
dove prescritta, <<sono annullabili per
violazione di legge>> (art. 11, comma
5°).
Dall’esame della disciplina legislativa
suindicata –di recepimento della direttiva
2001/42/CE– si giunge alla conclusione,
secondo lo scrivente Tribunale, per cui,
nella scelta dell’autorità competente,
l’autorità procedente deve individuare
soggetti pubblici che offrano idonee
garanzie non solo di competenza tecnica e di
specializzazione in materia di tutela
ambientale, ma anche di imparzialità e di
indipendenza rispetto all’autorità
procedente, allo scopo di assolvere la
funzione di valutazione ambientale nella
maniera più obiettiva possibile, senza
condizionamenti –anche indiretti– da parte
dell’autorità procedente.
Qualora quest’ultima, infatti, individuasse
l’autorità competente esclusivamente fra
soggetti collocati al proprio interno,
legati magari da vincoli di subordinazione
gerarchica rispetto agli organi politici o
amministrativi di governo
dell’Amministrazione, il ruolo di verifica
ambientale finirebbe per perdere ogni
efficacia, risolvendosi in un semplice
passaggio burocratico interno, con il
rischio tutt’altro che remoto di vanificare
la finalità della disciplina sulla VAS e di
conseguenza di pregiudicare la corretta
applicazione delle norme comunitarie,
frustrando così gli scopi perseguiti dalla
Comunità Europea con la direttiva
2001/42/CE, come quello di salvaguardia e
promozione dello “sviluppo sostenibile”,
espressamente enunciato all’art. 1 della
direttiva, come già sopra evidenziato (si
ricordi che lo “sviluppo sostenibile”
costituisce uno degli scopi dell’Unione
Europea, espressamente enunciato all’art. 3,
comma 3°, del Trattato dell’Unione Europea
in vigore dal 01.12.2009).
A tale proposito, pare utile al Collegio
rammentare l’obbligo del giudice nazionale
di interpretare il diritto interno alla luce
di quello comunitario (cfr., sul punto,
Consiglio di Stato, sez. VI, 03.09.2009 n.
5197 e TAR Piemonte, sez. I, 05.06.2009, n.
1563), in modo da garantire il c.d.
“primato” di quest’ultimo sugli ordinamenti
difformi degli Stati membri (sul “primato”
del diritto comunitario, si veda Corte di
Giustizia CE, sez. III, 19.11.2009 n. 314).
Nel caso di specie il Comune di ...,
in attuazione dell’art. 3.2 dell’allegato 1
alla delibera di Giunta del 27.12.2007, ha
individuato l’autorità competente
all’interno dello stesso Comune, scegliendo
in particolare i Responsabili del Settore
Urbanistica e del Settore Lavori Pubblici.
Tale composizione dell’autorità competente,
al di là di ogni valutazione sulla
preparazione e sulla capacità professionale
dei singoli operatori comunali, non appare
in ogni caso rispettosa delle norme
comunitarie e statali sopra riportate, in
quanto appare assolutamente inidonea a
garantire la necessaria imparzialità
dell’autorità competente rispetto a quella
procedente.
Si aggiunga, inoltre, che il Responsabile
del Settore Urbanistica del Comune, membro
dell’autorità competente, risulta fra coloro
che hanno contribuito alla predisposizione
del documento di Piano, il che vale a
rafforzare il convincimento del Collegio
circa l’illegittimità della composizione
dell’autorità competente, a causa
dell’evidente commistione fra il ruolo di
controllore e quello di controllato.
Sono quindi illegittimi sia il provvedimento
comunale di designazione dell’autorità
competente sia quello regionale ivi
impugnato, che prevede la composizione della
suddetta autorità con soggetti scelti
all’interno della differente autorità
procedente.
L’illegittimità della delibera regionale del
2007 non è esclusa neppure dalla lettura
della legislazione regionale in materia,
vale a dire l’art. 4 della L.R. 12/2005.
L’articolo si limita, infatti, sotto il
profilo dell’individuazione dell’autorità
competente, a rinviare a successive
deliberazioni del Consiglio o della Giunta
Regionale, senza però altro dire. Si
aggiunga –e si perdoni l’ovvietà– che in
materia di VAS la Regione è in ogni caso
rigidamente subordinata alla disciplina
comunitaria, sicché non appare certo
possibile per l’Ente regionale introdurre
deroghe alla medesima.
Peraltro, la stessa Regione Lombardia non
pare essere stata sempre coerente con la
propria delibera del 27.12.2007, tenuto
conto che, con parere espresso dalla
Struttura Valutazione Ambientale Strategica
e Programmazione Negoziata con nota del
06.04.2009 n. 6818, indirizzato al Comune di
Campodolcino, la citata Struttura regionale
escludeva che il Sindaco potesse assumere il
ruolo di autorità competente, allorché
l’autorità procedente era stata individuata
nell’Amministrazione comunale.
Nel parere si ricorda il principio,
desumibile dal D.Lgs. 4/2008 e assolutamente
condiviso dallo scrivente Collegio, della
separazione dell’autorità competente
rispetto a quella procedente e, con riguardo
alla prima, della necessità di un suo
sufficiente grado di autonomia e di
competenza in materia di ambiente e sviluppo
sostenibile (cfr. il parere regionale, doc.
9 del ricorrente).
Ciò premesso, il motivo n. 2 del ricorso
principale appare suscettibile di
accoglimento, con conseguente annullamento
non solo –seppure in parte qua –
della delibera regionale impugnata, ma anche
della delibera di Giunta Comunale n. 38/2008
di istituzione dell’autorità competente in
materia di VAS e delle deliberazioni
consiliari n. 12 e n. 13 del 2009, recanti
approvazione di un PGT viziato nella sua
totalità per l’illegittimità della procedura
di VAS, come sopra indicato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2010 n. 1526 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
In merito alla citata sentenza, si legga la
nota 25.05.2010 n. 344
di prot. dell'ANCI Lombardia. |
URBANISTICA:
PGT - VAS - Autorità competente -
Autorità procedente - Distinzione - Art. 5,
lett. p e q - Necessità di separazione.
Nell’ambito della procedura di VAS, l’art. 5
del d.lgs. n. 152/2006 distingue l’autorità
competente (lettera p) dall’autorità
procedente (lett. q); quest’ultima è
definita come la pubblica amministrazione
che elabora il piano o programma, mentre la
prima è la pubblica amministrazione a cui
compete l’attività di valutazione
ambientale.
Ai fini dell’individuazione dell’autorità
competente, il successivo art. 7, comma 6°,
ha cura di specificare che, in sede
regionale, l’autorità competente è la
pubblica amministrazione con compiti di
tutela, valorizzazione e protezione
ambientale.
Le ulteriori disposizioni sulla VAS
contenute nel Codice dell’ambiente
confermano, con chiarezza, la necessità di
separazione fra le due differenti autorità
-quella procedente e quella competente- il
cui rapporto nell’ambito del procedimento di
valutazione ambientale strategica appare
tutto sommato dialettico, a conferma
dell’intendimento del legislatore di
affidare il ruolo di autorità competente ad
un soggetto pubblico specializzato, in
giustapposizione all’autorità procedente,
coincidente invece con il soggetto pubblico
che approva il piano (cfr., fra gli altri,
art. 11, comma 2°; art. 12, comma 4°; artt.
13, 14 e 15).
PGT -
VAS - Obbligatorietà della VAS -
Art. 11, c. 5, d.lgs. n. 152/2006 - Piani e
programmi adottati senza la VAS -
Annullabilità per violazione di legge.
L’art. 11, c. 5, del d.lgs. n. 152/2006
conferma l’assoluta obbligatorietà della VAS,
tanto è vero che i provvedimenti
amministrativi di approvazione di piani e
programmi adottati senza la VAS, dove
prescritta, <<sono annullabili per
violazione di legge>>.
PGT - VAS - Autorità procedente -
Scelta dell’autorità competente - Requisiti
- Competenza tecnica e specializzazione -
Imparzialità e indipendenza - Individuazione
dell’autorità competente tra soggetti
collocati all’interno dell’autorità
procedente, legati da vincoli di
subordinazione gerarchica - Illegittimità -
Ragioni.
Nella scelta dell’autorità competente
all’elaborazione della VAS, l’autorità
procedente deve individuare soggetti
pubblici che offrano idonee garanzie non
solo di competenza tecnica e di
specializzazione in materia di tutela
ambientale, ma anche di imparzialità e di
indipendenza rispetto alla stessa autorità
procedente, allo scopo di assolvere la
funzione di valutazione ambientale nella
maniera più obiettiva possibile, senza
condizionamenti -anche indiretti- da parte
dell’autorità procedente.
Qualora quest’ultima, infatti, individuasse
l’autorità competente esclusivamente fra
soggetti collocati al proprio interno,
legati magari da vincoli di subordinazione
gerarchica rispetto agli organi politici o
amministrativi di governo
dell’Amministrazione, il ruolo di verifica
ambientale finirebbe per perdere ogni
efficacia, risolvendosi in un semplice
passaggio burocratico interno, con il
rischio tutt’altro che remoto di vanificare
la finalità della disciplina sulla VAS e di
conseguenza di pregiudicare la corretta
applicazione delle norme comunitarie,
frustrando così gli scopi perseguiti dalla
Comunità Europea con la direttiva 2001/42/CE
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2010 n. 1526 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
"coperture stagionali" la l.r. n. 12/2005
della Lombardia non detta prescrizioni
analitiche circa le dimensioni di tali
coperture; tuttavia ragioni di ordine
sistematico ed anche –in parte– letterale,
inducono alla conclusione che debba
trattarsi di dimensioni tutto sommato
contenute, essendo tali opere destinate alla
protezione delle colture e dei piccoli
animali, quindi con dimensioni compatibili
con la sola funzione di protezione e non con
altre funzioni, quali ad esempio l’accesso
delle persone –siano esse dipendenti
dell’impresa o clienti della stessa– o
l’esercizio nella struttura di attività
commerciale di vendita.
Del resto,
relativamente alla protezione degli animali,
la legge regionale ha cura di specificare
che si tratta di animali <<piccoli>> ed
<<allevati all’aria aperta>>, con ciò stesso
escludendo il ricorso alle coperture
stagionali per la protezione di bestiame di
grossa taglia –si pensi ad esempio ad un
allevamento bovino– in quanto tali
coperture finirebbero per assumere
dimensioni tali da cagionare un rilevante
impatto sul territorio, impatto che sarebbe
incompatibile con il regime di totale
liberalizzazione dell’attività edilizia di
cui al comma secondo dell’art. 33 l.r. n.
12/2005.
Le colture e gli allevamenti da proteggersi
attraverso le indicate "coperture
stagionali" devono essere <<a pieno campo>>
e tale espressione deve intendersi nel senso
che le coperture devono svolgere una
funzione di sola protezione e non altre di
carattere produttivo o tanto meno
commerciale.
Quanto al requisito della “stagionalità”, lo
stesso non può che riferirsi ad un fenomeno
relativo ad una sola parte dell’anno e
quindi, nel caso di una copertura
stagionale, quest’ultima deve essere
collocata per una parte dell’anno solare e
rimossa per la parte successiva. Al
contrario, la permanenza dell’opera per
l’intero anno, seppure con caratteristiche
tecniche differenti al variare delle
stagioni, esclude di per sé che possa
parlarsi di “copertura stagionale”.
Devono escludersi per le strutture di cui è
causa (n. 4 strutture aventi ognuna
dimensioni di 8 metri x 22,80 metri, quindi
una superficie di circa 180 metri quadrati
ciascuna per un totale di quasi 800 metri
quadrati) sia il carattere di semplice
“copertura” sia quello di “stagionalità”,
richiesti invece dall’art. 33 della legge
regionale 12/2005.
La costruzione di una serra, anche se in
astratto facilmente amovibile, presuppone il
rilascio di concessione edilizia (ora,
ovviamente, permesso di costruire), allorché
la serra soddisfi stabilmente le esigenze di
esercizio dell’impresa agricola e sia quindi
destinata ad un indeterminata permanenza al
suolo, modificando così definitivamente
l’assetto urbanistico ed edilizio di una
zona.
Ritiene il
Collegio di esaminare in via prioritaria il
motivo contrassegnato con la lettera C,
relativo alla corretta classificazione
giuridica delle strutture di cui è causa,
che il Comune reputa essere “serre”, mentre
la ricorrente vorrebbe qualificare come
“coperture stagionali”, le quali, ai sensi
dell’art. 33, comma 2, lett. d), della legge
regionale 12/2005, possono essere realizzate
senza alcun titolo edilizio.
La corretta qualificazione delle suddette
strutture, infatti, assume rilevanza per la
decisione di altri motivi di ricorso, fra
cui in primo luogo quello contrassegnato con
la lettera A, relativo al vincolo
cimiteriale.
Ciò premesso, la pretesa della ricorrente di
ricondurre alla figura delle “coperture
stagionali” di cui al citato art. 33, le
strutture dalla stessa realizzate, appare
priva di pregio.
La lettera d) del secondo comma dell’art.
33, esclude la necessità di titolo edilizio
per le <<coperture stagionali destinate a
proteggere le colture ed i piccoli animali
allevati all’aria aperta e a pieno campo,
nelle aree destinate all’agricoltura>>.
Prescindendo dalla destinazione dell’area di
cui è causa, occorre evidenziare come la
legge regionale non detti prescrizioni
analitiche circa le dimensioni di tali
coperture; tuttavia ragioni di ordine
sistematico ed anche –in parte– letterale,
inducono alla conclusione che debba
trattarsi di dimensioni tutto sommato
contenute, essendo tali opere destinate alla
protezione delle colture e dei piccoli
animali, quindi con dimensioni compatibili
con la sola funzione di protezione e non con
altre funzioni, quali ad esempio l’accesso
delle persone –siano esse dipendenti
dell’impresa o clienti della stessa– o
l’esercizio nella struttura di attività
commerciale di vendita.
Del resto,
relativamente alla protezione degli animali,
la legge regionale ha cura di specificare
che si tratta di animali <<piccoli>> ed
<<allevati all’aria aperta>>, con ciò stesso
escludendo il ricorso alle coperture
stagionali per la protezione di bestiame di
grossa taglia –si pensi ad esempio ad un
allevamento bovino– in quanto tali
coperture finirebbero per assumere
dimensioni tali da cagionare un rilevante
impatto sul territorio, impatto che sarebbe
incompatibile con il regime di totale
liberalizzazione dell’attività edilizia di
cui al comma secondo dell’art. 33 citato.
Non si dimentichi poi, sempre con riguardo
al dato letterale della norma, che le
colture e gli allevamenti da proteggersi
attraverso le indicate coperture devono
essere <<a pieno campo>> e tale espressione
deve intendersi nel senso, già sopra
indicato, che le coperture devono svolgere
una funzione di sola protezione e non altre
di carattere produttivo o tanto meno
commerciale.
Quanto al requisito della “stagionalità”, lo
stesso non può che riferirsi ad un fenomeno
relativo ad una sola parte dell’anno e
quindi, nel caso di una copertura
stagionale, quest’ultima deve essere
collocata per una parte dell’anno solare e
rimossa per la parte successiva. Al
contrario, la permanenza dell’opera per
l’intero anno, seppure con caratteristiche
tecniche differenti al variare delle
stagioni, esclude di per sé che possa
parlarsi di “copertura stagionale”.
Si
tratta, infatti, di quattro strutture,
aventi ognuna dimensioni di 8 metri x 22,80
metri (cfr. doc. 6 e doc. 11 della
ricorrente), quindi una superficie di circa
180 metri quadrati ciascuna per un totale di
quasi 800 metri quadrati, destinate alla
permanenza continua sul suolo, visto che le
coperture sono sostituite semplicemente al
cambio delle stagioni, come del resto
ammesso nel ricorso (vedesi pag. 47 del
medesimo, dove si parla di una <<duplice
modalità di copertura>>, per la stagione
estiva ed invernale), a nulla rilevando che,
in presenza di particolari situazioni
climatiche favorevoli, i teli siano
eccezionalmente rimossi, per poi però essere
nuovamente collocati, per agevolare il
migliore sviluppo delle colture.
Del resto, la stessa documentazione
fotografica di parte ricorrente (cfr. il suo
doc. 25), evidenzia l’esistenza di strutture
ampie, destinate non solo ad ospitare
l’azienda florovivaistica, ma anche a
consentire l’accesso del pubblico per
l’esercizio dell’attività di vendita dei
prodotti, visto che la signora Giani è
titolare di autorizzazione regionale alla
produzione ed al commercio di vegetali (doc.
4 ricorrente).
La documentazione fotografica del Comune
(cfr. docc. 4, 5, 7 e 8 di quest’ultimo),
mostra poi, con chiarezza, l’esistenza di
ampie strutture, destinata alla coltivazione
ed alla vendita, con accesso di pubblico.
Devono, di conseguenza, escludersi, per le
strutture di cui è causa, sia il carattere
di semplice “copertura” sia quello di
“stagionalità”, richiesti invece dall’art.
33 della legge regionale 12/2005.
Neppure potrebbe sostenersi, come invece
fatto in ricorso, che le quattro strutture
sarebbero precarie e facilmente amovibili,
per cui difetterebbe in capo alle stesso
ogni requisito di stabilità, che presuppone
il rilascio di un titolo abilitativo.
Si tratta, infatti, di opere infisse al
suolo stabilmente, a nulla rilevando che le
fondazioni in calcestruzzo riguardino non
l’intero perimetro della struttura ma solo
la parte in corrispondenza dell’ingresso,
destinate a soddisfare esigenze di carattere
continuativo, tanto è vero che le stesse
sono presenti in loco ormai da tempo e che
al loro interno è svolta senza soluzione di
continuità l’attività imprenditoriale
dell’esponente. Trattandosi poi di opere
chiuse, salvo i limitatissimi periodi di
scopertura per esigenze agricole, le stesse
realizzano altresì nuovi volumi.
Pare corretta, di conseguenza, la loro
qualificazione come vere e proprie “serre” e
come tali necessitanti di un titolo
abilitativo, conformemente al pacifico
indirizzo giurisprudenziale, per il quale la
costruzione di una serra, anche se in
astratto facilmente amovibile, presuppone il
rilascio di concessione edilizia (ora,
ovviamente, permesso di costruire), allorché
la serra soddisfi stabilmente le esigenze di
esercizio dell’impresa agricola e sia quindi
destinata ad un indeterminata permanenza al
suolo, modificando così definitivamente
l’assetto urbanistico ed edilizio di una
zona (TAR Brescia, sez. I, 19.11.2009 n.
2223; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 19.11.2009
n. 2794; Consiglio di Stato, sez. IV,
06.03.2006 n. 1119; sez. V, 23.09.2002 n. 4832;
sez. V, 08.06.2000 n. 3247; sez. V, 13.03.2000
n. 1299; Cassazione penale, sez. III,
10.01.2000) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.05.2010 n. 1234 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA:
E' di competenza della giunta provinciale
emettere pareri di compatibilità di uno strumento
urbanistico comunale, tenuto conto che l'art.
42 T.U. 267/2000 si riferisce solo ai
pareri espressi (dal Consiglio) nell’ambito del procedimento
di formazione dei suoi piani e dei suoi programmi, mentre
esulano dalla previsione i pareri che l’Ente è chiamato a
rendere circa la compatibilità con il proprio piano o
programma di attività poste in essere da altri soggetti.
L’ultimo motivo, in cui si rileva l’incompetenza della
Giunta a rilasciare il parere di compatibilità con il PTCP
ai sensi dell’art. 42 T.U. 267/2000, è infondato, alla luce
della decisione del 28.05.2009 n. 3333 con cui il Consiglio
di Stato (Sez. VI) ha ritenuto di competenza della giunta
provinciale emettere pareri di compatibilità di uno
strumento urbanistico comunale, sull’assunto che la suddetta
norma si riferisca solo ai pareri espressi nell’ambito del
procedimento di formazione dei suoi piani e dei suoi
programmi, mentre esulano dalla previsione i pareri che
l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il
proprio piano o programma di attività poste in essere da
altri soggetti (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.05.2010 n. 1221 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del
26.04.2010, "Approvazione del 3°
aggiornamento dell'elenco degli Enti locali
idonei all'esercizio delle funzioni
paesaggistiche loro attribuite dall'art. 80
della legge regionale 11.03.2005 n. 12"
(decreto
D.G. 12.04.2010 n. 3539 - link a
www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
1. Art. 11, L.R. n. 12/2005 -
Perequazione urbanistica - Principio della
necessaria partecipazione di tutti i
proprietari alla rendita edilizia - Sussiste
- Obbligo di prevedere per tutte le aree del
territorio comunale un identico indice di
edificabilità territoriale, inferiore a
quello minimo fondiario - Sussiste.
2. Impugnazione di
strumento urbanistico recante nuove
destinazioni - Affidamento generico del
proprietario di un suolo edificabile alla reformatio in melius - Obbligo di
motivazione specifica - Non sussiste,
neppure in caso di preesistente possibilità
edificatoria.
3. Impugnazione di
strumento urbanistico recante nuove
destinazioni - Affidamento generico del
proprietario di un suolo edificabile alla reformatio in melius - Diniego di
concessione edilizia espresso sulla base di
una variante di piano annullata -
Risarcibilità - Non sussiste - Danno da
ritardo nell'adozione e approvazione di uno
strumento urbanistico - Non sussiste.
1. L'istituto della perequazione di cui
all'art. 11, L.R. n. 12/2005, richiede la
previsione di un indice territoriale unico e
di un indice fondiario minimo, il primo
inferiore al secondo, di modo che i
proprietari di aree edificabili (aree di
trasformazione, ovvero aree "di
atterraggio") siano tenuti ad acquisire la
volumetria espressa dalle aree destinate a
standard (aree "di decollo").
In altri
termini, nel sistema perequativo legale la
partecipazione di tutti i proprietari al
mercato edilizio è necessaria e, nell'ambito
della perequazione generalizzata ex art. 11,
comma 2, L.R. 12/2005, il principio della
necessaria partecipazione di tutti i
proprietari alla rendita edilizia consegue
all'obbligo di prevedere per tutte le aree
del territorio comunale un "identico indice
di edificabilità territoriale, inferiore a
quello minimo fondiario".
2. L'affidamento generico alla
reformatio in
melius o alla non reformatio in pejus delle
previsioni di uno strumento urbanistico non
richiede una motivazione specifica delle
nuove destinazioni urbanistiche oltre a
quella che può evincersi dai criteri di
ordine tecnico-urbanistico seguiti per la
redazione dello strumento, senza necessità
di apposita motivazione riguardo alle
destinazioni delle singole aree, neppure in
caso di preesistente possibilità
edificatoria, perché il mutamento di
destinazione trova esauriente
giustificazione, ai sensi dell'art. 10,
comma 7, legge 17.08.1942, n. 1150, nelle
sopravvenute ragioni che determinino la
totale o parziale inattuabilità del piano o
la convenienza di migliorarlo.
3. Laddove la posizione del proprietario di
un suolo edificabile debba qualificarsi in
termini di mera aspettativa, non sussistono
i presupposti per l'instaurazione di un
giudizio risarcitorio a seguito del diniego
di concessione edilizia espresso sulla base
di una variante di piano annullata, né è
configurabile un danno da ritardo, anche
solo in termini di chance, nell'adozione e
approvazione di uno strumento urbanistico
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 23.04.2010 n.
1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
E. Gariboldi,
Programmazione negoziata: compensazione,
perequazione ed incentivazione urbanistica
(link a www.cameramministrativacomo.it). |
marzo 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di
costruire - Art. 35, comma 1, L.R. n.
12/2005 e art. 11, D.P.R. n. 380/2001 -
Titolo per il rilascio del permesso di
costruire - Diritto di proprietà e altri
diritti reali o personali di godimento,
purché con facoltà di attuare interventi
sull'immobile - Necessità di accertamento
del titolo da parte del Comune - Sussiste,
limitatamente alla verifica di un titolo
sostanziale idoneo a costituire la posizione
legittimante.
Come noto, l'art. 35, comma 1, L.R. 12/2005
-riprendendo analoga formulazione dell'art.
11, D.P.R. n. 380/2001- stabilisce che il
permesso di costruire venga rilasciato «al
proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo» e l'espressione
legislativa «titolo per richiederlo» è stata
intesa dalla giurisprudenza nel senso di
posizione che civilisticamente costituisca
titolo per esercitare sul fondo un'attività
costruttiva.
Tale posizione soggettiva non
coincide con il solo diritto di proprietà,
ma anche con altri diritti reali o
addirittura personali di godimento, purché
attribuiscano al titolare la facoltà di
attuare interventi sull'immobile.
Tenuto
conto, pertanto, che la mancanza della
proprietà o di altro titolo idoneo preclude
il rilascio del permesso di costruire,
l'Amministrazione comunale è chiamata allo
svolgimento di un'attività istruttoria, per
accertare la sussistenza del titolo
legittimante.
Tuttavia, al Comune spetta
soltanto la verifica, in capo al
richiedente, di un titolo sostanziale idoneo
a costituire la posizione legittimante,
senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine
che si estenda fino alla ricerca di
eventuali fattori limitativi, preclusivi o
estintivi del titolo di disponibilità
dell'immobile, allegato da chi presenta
istanza edilizia (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
31.03.2010 n.
842 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, Interventi edilizi di
manutenzione straordinaria.
Il decreto-legge 25.03.2010, n. 40, in
vigore dal 26 marzo e principalmente
dedicato a “disposizioni tributarie e
finanziarie urgenti”, reca all’articolo
5 una nuova disciplina della cosiddetta
“attività edilizia libera”.
Mediante la sostituzione dell’art. 6 del
T.U. dell’edilizia (D.P.R. n. 380/2001), il
legislatore statale procede ad una nuova
individuazione degli interventi edilizi che
possono essere eseguiti senza alcun titolo
abilitativo (DIA o permesso di costruire).
L’innovazione principale consiste nel
prevedere tra questi anche gli “interventi
di manutenzione straordinaria … che non
riguardino le parti strutturali
dell’edificio, non comportino aumento del
numero delle unità immobiliari e non
implichino incremento dei parametri
urbanistici”.
La nuova norma statale, contenuta nel D.L.
n. 40, stabilisce tuttavia che sono fatte
salve le “più restrittive disposizioni
previste dalla disciplina regionale”. Ne
consegue che essa, con particolare
riferimento alla individuata fattispecie di
manutenzione straordinaria, ad oggi non può
trovare immediata applicazione in Lombardia,
disponendo la nostra Regione di una
disciplina più restrittiva, contenuta negli
articoli 33 e 41 della L.R. n. 12/2005, che
impone per questi interventi un previo
titolo abilitativo (DIA piuttosto che
permesso di costruire) (comunicato
31.03.2010 - link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n.
13 del 30.03.2010, "Il Piano Territoriale
Regionale della Lombardia (2010) - Testo
integrato degli elaborati approvati (d.c.r.
del 19.01.2010, n. 951)" (comunicato
regionale 15.03.2010 n. 37 - link
a www.infopoint.it).
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Per vedere gli allegati del P.T.R.
cliccare qui. |
URBANISTICA:
Lombardia, Fondo Regionale Aree
Verdi, adempimenti per i comuni.
In attuazione dell’art. 43, comma 2-bis,
della l.r. n. 12/2005, così come modificato
dalla l.r. n. 7/2010, le Direzione Generali
Territorio ed Urbanistica ed Agricoltura
hanno istituito un fondo regionale da
alimentarsi mediante le maggiorazioni dei
contributi di costruzione applicate agli
interventi di nuova costruzione che
sottraggono superfici agricole nello stato
di fatto. Tali interventi sono infatti
assoggettati ad una maggiorazione
percentuale del contributo di costruzione,
determinata dai comuni entro un minimo
dell’1,5 ed un massimo del 5 per cento, da
destinare obbligatoriamente a interventi
forestali a rilevanza ecologica e di
incremento della naturalità.
Regione Lombardia aveva a suo tempo, con
D.g.r. n. 8757 del 22/12/2008 “Linee
guida per la maggiorazione del contributo di
costruzione per il finanziamento di
interventi estensivi delle superfici
forestali” richiesto ai Comuni di
individuare le “aree agricole nello stato
di fatto” a cui applicare la
maggiorazione. In assenza di specifiche
determinazioni comunali in materia si
intendono ad oggi valide le aree individuate
nello strato DUSAF 2.0 – Uso del suolo
2005-2007, scaricabili dal geoportale
regionale.
In data 10/02/10, la Giunta regionale, con
D.g.r. n. 11297 ha approvato specifiche
linee guida relative all’applicazione delle
disposizioni di cui al comma 2-bis e le
modalità di gestione di un fondo finanziario
denominato “Fondo Aree Verdi”, attualmente
in fase di avanzata definizione, la cui
finalità è sostenere la realizzazione di
interventi che perseguano obiettivi di
sviluppo territoriale e di salvaguardia e
valorizzazione del sistema
rurale-paesistico-ambientale, in particolare
mediante la valorizzazione dei contesti
agricoli, forestali, naturali e
paesaggistici e con attenzione al recupero
delle aree degradate.
Il Fondo sarà alimentato da:
a) risorse regionali;
b) proventi delle maggiorazioni dei
contributi di costruzione derivanti da
interventi in aree ricadenti in:
- accordi di programma o programmi integrati
di intervento di interesse regionale;
- comuni capoluogo di provincia;
- parchi regionali e nazionali;
c) proventi delle maggiorazioni che i comuni
non capoluogo di provincia decidano di
destinare al fondo.
Si rammenta ai Comuni l’obbligatorietà di
attivarsi al fine di dare attuazione alla
norma suddetta in vigore dal 12/04/2009.
La Regione predisporrà a breve le modalità e
le specifiche tecniche secondo cui ogni
Amministrazione dovràcomunicare:
- le aree agricole nello stato di fatto
interessate da interventi che hanno dato
titolo alla maggiorazione;
- le entrate determinate;
- gli interventi attuati attraverso
l’utilizzo dei suddetti contributi (comunicato
29.03.2010 - link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 12 del
25.03.2010, "Testo coordinato della L.R.
11.03.2005 n. 12 «Legge per il governo del
territorio»"
(testo
coordinato L.R. 11.03.2005 n. 12
- link a
www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1.
Concessione edilizia - Permesso di costruire
- Procedimento - Scadenza termine per
conclusione rilascio - Intervento
sostitutivo
2.
Procedimento - Osservazioni - Onere di
risposta - Non necessità.
1.
Per la conclusione del procedimento di
rilascio del permesso di costruire
l'infruttuoso decorso del termine
complessivo di 75 giorni dalla presentazione
della domanda costituisce presupposto per
l'eventuale richiesta dell'intervento
sostitutivo disciplinato dal successivo art.
39 l.r. 12/2005, e in particolare per la
nomina di un commissario ad acta da parte
della provincia: la presenza di un
meccanismo sostitutivo esclude che il
silenzio possa essere qualificato in senso
favorevole al privato.
2.
L'onere di cui all'art. 10, l. 07.08.1990
n. 241, non comporta la confutazione
analitica dei rilievi, essendo sufficiente
ai fini della giustificazione del
provvedimento adottato la motivazione
complessivamente e logicamente resa a
sostegno dell'atto stesso.
La norma deve
essere letta in chiave sostanziale alla luce
della ratio di consentire al privato
di far valere le proprie ragioni nell'iter
procedimentale, consentendo allo stesso
quell'apporto partecipativo in grado di
orientare in senso a lui favorevole il
provvedimento finale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza
16.03.2010 n.
1217 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Recupero sottotetti
- Ratio - Praticabilità - Presupposto - Non
sussiste.
In base alla ratio della l.r. 12/2005 di
favorire la creazione di nuove residenze
attraverso il razionale recupero dei
sottotetti, evitando per tale via un
ulteriore consumo territorio la ridotta
dimensione e la non praticabilità del
sottotetto da recuperare e la scarsa
ampiezza del volume non sono elementi
preclusivi alla realizzazione dell'opera, al
punto che la novella del 1999 ha autorizzato
l'innalzamento delle quote di gronda e di
colmo per raggiungere le caratteristiche di
abitabilità (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez.
I,
sentenza
10.03.2010 n.
1152 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
LOMBARDIA: legge per
il governo del territorio - Art. 26, comma
3-ter, L.R. n. 12/2005.
La recente l.r. 05.02.2010 n. 7 con l’art.
21, comma 1, lett. b), ha introdotto il
comma 3-ter all’art. 26 della l.r. n.
12/2005 il quale ha posto dei dubbi -alle
amministrazioni comunali- in ordine alle "procedure
in corso alla data del 31.03.2010" dei
piani attuativi in variante al P.R.G..
In merito, si è avuto in data 16.03.2010
l'intervento chiarificatore dal parte
dell'Ing. Mario Nova, Direttore della D.G.
Territorio e Urbanistica della Regione
Lombardia, il quale è stato preceduto (in
tempi non sospetti) da un autorevole
commento di un noto legale milanese e, non
appena di dominio pubblico, ha avuto una
breve ed interessante replica dissimile nei
contenuti interpretativi. |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, Serie Inserzioni e Concorsi n. 9
del 03.03.2010, "Direzione Generale
Territorio e Urbanistica - Piani di Governo
del Territorio: indicazioni ai Comuni a
seguito dell'approvazione del Piano
Territoriale Regionale"
(comunicato
regionale 25.02.2010 n. 29 - link a
www.infopoint.it). |
febbraio 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord, al n. 8
del 26.02.2010, "Modifiche alla l.r.
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio) e alla l.r. 05.01.2010, n. 1
(Riordino del sistema delle autonomie in
Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31.03.1998,
n. 112 «Conferimento di funzioni e compiti
amministrativi dallo Stato alle regioni ed
agli enti locali, in attuazione del capo I
della legge 15.03.1997, n. 59»" (L.R.
22.02.2010 n. 12 - link a
www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del
22.02.2010, "Determinazioni inerenti la
modalità di erogazione di contributi ai
Comuni per la formazione dei Piani di
Governo del Territorio in attuazione della
l.r. n. 12/2005 «Legge per il governo del
territorio»" (deliberazione
G.R. 10.02.2010 n. 11364 - link a
www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del
22.02.2010, "Linee guida relative
all'applicazione delle disposizioni di cui
al comma 2-bis, art. 43, l.r. n. 12/2005 e
modalità di gestione del fondo di cui al
comma 2-bis 1, art. 43, l.r. n. 12/2005
(«Fondo aree verdi»)" (deliberazione
G.R. 10.02.2010 n. 11297 - link a
www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
Lombardia, Indicazioni ai Comuni in seguito
all'entrata in vigore del PTR.
Il Consiglio Regionale ha approvato con
deliberazione del 19.01.2010, n. 951
(pubblicata sul 3° S.S. al BURL n. 6, del
11.02.2010) il Piano Territoriale Regionale.
Il Piano acquista efficacia, ai termini del
comma 6 dell’art. 21 della l.r. 12/2005 “Legge
per il governo del territorio” a seguito
della pubblicazione dell’avviso di
approvazione sul Bollettino Ufficiale della
Regione Lombardia, prevista sul BURL, Serie
Inserzioni e Concorsi del 17.02.2010 ...
(link a www.territorio.lombardia.it). |
URBANISTICA:
Lombardia, Approvato il Piano Territoriale
Regionale (PTR).
Il Consiglio Regionale della Lombardia ha
approvato in via definitiva il Piano
Territoriale Regionale con deliberazione del
19/01/2010, n. 951, pubblicata sul
Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia
n. 6, 3° Supplemento Straordinario
dell'11.02.2010.
Con la chiusura dell’iter di approvazione
del Piano, formalmente avviato nel dicembre
2005, si chiude il lungo percorso di stesura
del principale strumento di programmazione
delle politiche per la salvaguardia e lo
sviluppo del territorio della Lombardia ...
(link a www.territorio.lombardia.it). |
URBANISTICA:
Lombardia, Approvato il PTR, nuovi
adempimenti per i Comuni.
Il 17.02.2010 con la pubblicazione
dell'avviso di approvazione sul BURL S.I.
entra in vigore il Piano Territoriale
Regionale (PTR), quadro di riferimento per
la pianificazione territoriale in Lombardia
e di orientamento per le politiche di
settore ... (link a
www.territorio.lombardia.it). |
gennaio 2010 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia: la Regione
Lombardia alla prova di forza con il TAR
(link a http://studiospallino.blogspot.com). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, 3° suppl. straord. al n. 6
dell'11.02.2010, "Approvazione delle
controdeduzioni alle osservazioni al Piano
Territoriale Regionale adottato con d.c.r.
n. 874 del 30.07.2009 - Approvazione del
Piano Territoriale Regionale (articolo 21,
comma 4, l.r. 11.03.2005 n. 12 «Legge per il
governo del territorio»"
(deliberazione
C.R. 19.01.2010 n. 951 - link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 6
dell'08.02.2010, "Interventi normativi
per l'attuazione della programmazione
regionale e di modifica ed integrazione di
disposizioni legislative - Collegato
ordinamentale 2010" (L.R.
05.02.2010 n. 7 - link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 2
dell'11.01.2010, "Direzione Centrale
Affari Istituzionali e Legislativo - Nomine
e designazioni di competenza della Giunta
regionale: Commissioni Regionali per il
Paesaggio (rif. art. 78 l.r. 11.03.2005, n.
12 «Legge per il Governo del Territorio»"
(comunicato
regionale 04.01.2010 n. 1 - link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
1. P.G.T. -
Delibera di approvazione definitiva -
Notifica alla Provincia - Necessità - Non
sussiste - Pianificazione urbanistica -
Natura - Procedimento esclusivamente
comunale.
2. P.G.T. -
Delibera di approvazione definitiva -
Coinvolgimento della Provincia - Necessità -
Solo in caso di piano territoriale di
coordinamento adottato dalla Provincia.
3. P.G.T. -
Osservazioni dei privati - Natura
collaborativa - Limiti al potere comunale o
regionale di apportare le modifiche ritenute
necessarie al piano adottato - Non sussiste.
4. Aggiornamento
della cartografia di piano con funzione
meramente ricognitiva - Obbligo di
ripubblicazione - Non sussiste.
5. Zone agricole -
Rapporto tra L.R. 12/2005 e P.R.G. -
Portata.
6. Zone agricole -
Rapporto tra L.R. 12/2005 e P.R.G. - Computo
dei volumi realizzabili - N.T.A. con
ulteriori limiti volumetrici alle
attrezzature ed alle infrastrutture
produttive di cui all'art. 59, L.R. 12/2005 -
Illegittimità.
7. Giustizia amministrativa - Onere della
prova - Criterio generale - Applicabilità
nel giudizio amministrativo-risarcitorio -
Sussiste.
1. In caso di impugnazione di deliberazione
del consiglio comunale che approvi in via
definitiva atti di P.G.T. ai sensi della
L.R. 11.03.2005 n. 12, la mancata
notificazione del ricorso alla Provincia è
eccezione che non merita accoglimento in
quanto, a seguito dell'entrata in vigore
della stessa L.R. 12/2005, la pianificazione
urbanistica non si svolge più attraverso
atti complessi, ma si configura come
procedimento concentrato nell'ambito del
Comune, in capo al quale l'art. 3, comma 20, L.R. 12/2005 prevede soltanto la trasmissione
alla Provincia -per conoscenza- del piano
regolatore approvato.
2. In materia di approvazione di P.G.T., il
coinvolgimento della Provincia nel
procedimento è solo eventuale in quanto si
verifica esclusivamente se l'ente
sovracomunale si è dotato di piano
territoriale di coordinamento vigente (art.
13, comma 5, L.R. 12/2005): peraltro, la
Provincia valuta esclusivamente la
compatibilità del documento di piano con il
proprio piano territoriale di coordinamento,
svolgendo una funzione di coordinamento tra
i vari livelli di pianificazione e non una
partecipazione alle decisioni di
pianificazione territoriale comunale.
3. In tema di adozione e approvazione di P.G.T., le osservazioni dei privati
interessati hanno natura collaborativa e non
costituiscono un rimedio in senso proprio
che possa limitare il potere del Comune di
apportare le modifiche ritenute necessarie
al piano adottato, senza necessità di
specifica motivazione con riferimento a
tutte le richieste del privato (cfr. TAR
Milano, sent. n. 4106/2008).
4. L'aggiornamento della cartografia di
piano con funzione meramente ricognitiva non
costituisce una modifica del piano tale da
comportare una profonda modificazione dei
criteri posti a base del piano stesso e
pertanto non rende necessaria una nuova
pubblicazione, con la conseguente raccolta
delle nuove osservazioni (cfr. TAR
Torino, sent. n. 2074/2008; TAR Pescara,
sent. n. 30/2009; TAR Brescia, sent. n.
1318/2009; TAR Milano, sent. n.
4671/2009).
5. La potestà pianificatoria comunale
preesiste alla disciplina legislativa e
concorre con quella e con la potestà
pianificatoria provinciale a dettare la
disciplina delle aree agricole, così come
confermato dall'art. 10, comma 4, lett. a),
della L.R. 12/2005 che attribuisce al Piano
delle Regole il compito di dettare, per le
aree destinate all'agricoltura la disciplina
d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia,
in conformità con quanto previsto dal titolo
terzo della parte seconda (art. 59 ss. L.R.
12/2005).
6. Il potere comunale di disciplinare le
aree agricole, seppur non cancellato dalle
previsioni della legge regionale di governo
del territorio, trova comunque un limite
nelle previsioni tassative stabilite dalla
stessa L.R. 12/2005.
In particolare, in
materia di computo dei volumi realizzabili,
come stabilito dall'art. 59, comma 4, L.R.
12/2005, nel calcolo non devono essere sono
conteggiate le attrezzature e le
infrastrutture produttive di cui al comma 1,
le quali non sono sottoposte a limiti
volumetrici bensì solo a limiti di copertura
che possono essere disciplinati dalla
normativa comunale: è pertanto illegittima
la norma delle n.t.a. comunali nella parte
in cui contenga una disciplina dell'attività
agricola che imponga limiti volumetrici alle
attrezzature ed alle infrastrutture
produttive previste dalla norma.
7.
La regola generale dell'onere probatorio,
secondo cui spetta a chi agisce in giudizio
indicare e provare i fatti su cui fonda la
pretesa avanzata, trova integrale
applicazione nel processo amministrativo in
tutti i casi nei quali siano nella piena
disponibilità della parte gli elementi atti
a sostenere la fondatezza della domanda
giudiziale azionata (cfr. C.d.S., sent. n.
551/1998): e ciò è tanto più valevole in
sede di giudizio risarcitorio, nel quale non
ricorre quella diseguaglianza di posizioni
tra P.A. e privato che giustifica
l'applicazione del principio dispositivo con
metodo acquisitivo (cfr. TAR Napoli, sent.
n. 1794/2006) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 08.01.2010 n.
3 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2009 |
|
dicembre 2009 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della
L.R. n. 12/2005:
3^ lezione - Cambi di destinazione d'uso
(Geometra
Orobico n. 6/2009). |
EDILIZIA PRIVATA:
"Approvazione del secondo
aggiornamento dell'elenco degli enti locali idonei
all'esercizio delle funzioni paesaggistiche
loro attribuite dall'art. 80 della legge
regionale 11.03.2005 n. 12" (decreto
D.G. 30.12.2009 n. 14545 - link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Comma 3-bis dell'art. 52 della
L.R. n. 12/2005 introdotto dall'art. 1,
comma 1, lett. m), della L.R. n. 12/2006 -
Efficacia retroattiva - Non sussiste.
2. Intervento di manutenzione straordinaria
realizzato senza DIA - Acquisizione al
patrimonio del Comune - Non sussiste.
1.
Il comma 3-bis dell'art. 52 della L.R. n.
12/2005 è stato introdotto con L.R. n.
12/2006 (art. 1, comma 1, lett. m) e non è
applicabile, in virtù di quanto previsto
dall'art. 11 delle preleggi, prima della sua
entrata in vigore.
2.
L'assenza di DIA per gli interventi
qualificati come manutenzione straordinaria
non dà luogo ad acquisizione, da parte del
Comune, dell'immobile interessato da tali
interventi realizzati senza il suddetto
titolo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.12.2009 n. 6226 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'esecuzione di opere edilizie
finalizzate a mutare la destinazione d'uso
di un laboratorio artigianale a centro
sociale nonché ad attività di culto.
In seguito a sopralluogo il Comune ha
contestato: la formazione di una nuova
parete a tutta altezza in cartongesso, lunga
3,60 metri, che divide il locale principale
dai servizi igienici; il posizionamento
all’esterno del fabbricato, sul fronte che
prospetta sulla pubblica via, di due unità
esterne di climatizzazione ad un’altezza di
m. 2,75; il cambiamento d’uso dell’immobile,
destinato a centro sociale nonché ad
attività di culto, che si svolgono ogni
settimana il venerdì.
Ritenuto che le opere abusive configurino un
intervento di manutenzione straordinaria,
che l’installazione delle unità esterne di
condizionamento non sia regolamentare
(dovendo le medesime essere sistemate sulla
copertura), e che il cambio di destinazione
d’uso richieda il rilascio del permesso di
costruire (ex art. 52, comma 3-bis, legge
regionale n. 12 del 2005), il Comune, con
ordinanza 26.08.2009 n. 109, preceduta da
avviso di avvio del procedimento cui
l’Associazione ha dato seguito con proprie
osservazioni, ha ingiunto la demolizione
delle opere abusive e il ripristino della
destinazione d’uso artigianale antecedente
l’attuale destinazione a luogo di culto, con
preavviso di acquisizione dell’immobile in
caso di inottemperanza.
Il ricorso, cui resiste il
Comune, è fondato.
Va
esaminata in via prioritaria, per ragioni
logiche, la questione se il cambio di
destinazione d’uso richiedesse o meno, nel
caso de quo, il permesso di costruire.
L’art. 52, comma 3-bis, della legge
regionale 11.03.2005 n. 12 (legge sul
governo del territorio) stabilisce che “I
mutamenti di destinazione d’uso di immobili,
anche non comportanti la realizzazione di
opere edilizie, finalizzati alla creazione
di luoghi di culto e luoghi destinati a
centri sociali, sono assoggettati a permesso
di costruire”.
Il comma 3-bis è stato introdotto dalla
legge regionale 14.07.2006 n. 12 (art. 1,
comma 1, lett. m), e non è applicabile prima
della sua entrata in vigore.
Nel caso in esame, sebbene non vi sia prova
della data in cui sono state eseguite le
opere contestate dal Comune, e sebbene solo
il contratto di locazione stipulato in data
14.04.2008 (e non anche quello antecedente,
stipulato nell’ottobre 2005) preveda la
destinazione dell’immobile a “circolo
ricreativo”, è verosimile che tale
destinazione risalga a data anteriore
all’introduzione della norma, come si desume
dalla nota del 29.10.2005 con la quale il
Comune, nell’interloquire con il ricorrente,
che aveva formulato una richiesta di
utilizzo del campo sportivo, indirizzava la
propria risposta al Centro, nella sede di
piazza Dante 7.
Ne consegue che la norma de qua non è
applicabile al caso in esame.
Gli abusi edilizi commessi dal ricorrente
(realizzazione di un tramezzo e
posizionamento irregolare delle unità
esterne di condizionamento), in quanto
finalizzati al mutamento di destinazione
d’uso, vanno riguardati e valutati dunque
sotto un’altra prospettiva, tenendo conto:
(a) che la disciplina regionale in materia
distingue il regime dei mutamenti di
destinazione d’uso secondo che siano
conformi o non conformi alle previsioni
urbanistiche (cfr. artt. 52 e 53 legge
regionale n. 12 del 2005);
(b) che lo stesso Comune ha qualificato le
opere abusive come opere di manutenzione
straordinaria;
(c) che le opere di manutenzione
straordinaria richiedono una semplice d.i.a.,
la cui mancanza non può dar luogo
all’acquisizione dell’immobile
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.12.2009 n. 6226 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del
14.12.2009, "Modalità di istituzione
delle commissioni regionali per i beni
paesistici in attuazione del comma 1, art.
78, della l.r. 12/2005" (deliberazione
G.R. 02.12.209 n. 10725 - link a
www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fattispecie
in materia di ristrutturazione - Demolizione
e ricostruzione integrale in Lombardia (l.r.
12/2005).
In caso di ristrutturazione mediante
demolizione e ricostruzione, lo spostamento
di volumetria non può, dunque, ritenersi
ammissibile –pena lo sconfinamento nella
differente ipotesi della nuova costruzione–
laddove vada ad incidere sul requisito della
identità di sagoma, superfici e volumi
richiesto dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001.
Il T.U. dell'edilizia ha ricompreso tra gli
interventi di ristrutturazione edilizia “quelli
consistenti nella demolizione e successiva
fedele ricostruzione di un fabbricato
identico quanto a sagoma, volumi, area di
sedime e caratteristiche dei materiali,
fatte salve le sole innovazioni necessarie
per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
L'art. 1 del decreto legislativo 27.12.2002,
n. 301 ha modificato l'art. 3, in parte qua,
eliminando la locuzione “fedele
ricostruzione di un fabbricato identico,
quanto a sagoma, volumi, area di sedime e
caratteristiche di materiali a quello
preesistente” e l’ha sostituita con
l’espressione “ricostruzione con la
stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente” (art. 1, lett. a).
Anche escludendo il superato criterio della
fedele ricostruzione, esigenze di
interpretazione logico-sistematica della
nuova normativa inducono tuttavia a ritenere
che la ristrutturazione edilizia, per essere
tale e non finire per coincidere con la
nuova costruzione, debba conservare le
caratteristiche fondamentali dell'edificio
preesistente e la successiva ricostruzione
dell'edificio debba riprodurre le precedenti
linee fondamentali quanto a sagoma,
superfici e volumi (fra le tante Cons.
Stato, sez. IV, 18.03.2008, n. 1177)
(massima tratta da www.studiospallino.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.12.2009 n. 5268 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Permesso di Costruire -
Ristrutturazione edilizia mediante
demolizione e ricostruzione - Nuova
costruzione - Qualificazione intervento
edilizio - Art. 3 D.P.R. n. 380/2001.
2. Permesso di costruire - Ristrutturazione
mediante demolizione e ricostruzione -
Spostamento di volumetria - Illegittimità.
1.
L'art. 3 D.P.R. n. 380/2001 ricomprende tra
gli interventi di ristrutturazione edilizia
anche quello consistente nella demolizione e
ricostruzione che riproduca, tuttavia, le
precedenti linee fondamentali dell'edificio
preesistente quanto a sagoma, superfici e
volumi perché ciò che la contraddistingue
dalla nuova edificazione è, dunque, la già
avvenuta trasformazione del territorio,
attraverso una edificazione di cui si
conservi la struttura fisica, ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita ma, in quest'ultimo caso, con
ricostruzione comunque rispettosa della
volumetria e della sagoma della costruzione
preesistente.
2.
In caso di ristrutturazione mediante
demolizione e ricostruzione, lo spostamento
di volumetria non può ritenersi ammissibile
in quanto incide sul requisito della
identità di sagoma, superfici e volumi
richiesto dall'art. 3 D.P.R. n. 380/2001,
risultando in tal caso l'intervento non
qualificabile come ristrutturazione edilizia
(mediante demolizione e ricostruzione) bensì
quale nuova costruzione e, conseguentemente,
illegittimo il permesso di costruire
abilitativo (massima tratta da www.solom.it
- TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 02.12.2009 n. 5268 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
3^ sentenza, in materia di ristrutturazione
edilizia, che sconfessa nuovamente il
legislatore lombardo (L.R. n. 12/2005).
La ristrutturazione edilizia, per essere
tale e non finire per coincidere con la
nuova costruzione, debba conservare le
caratteristiche fondamentali dell'edificio
preesistente e la successiva ricostruzione
dell'edificio debba riprodurre le precedenti
linee fondamentali quanto a sagoma,
superfici e volumi.
Con riferimento alla sagoma, nel caso di
specie, non sussiste identità tra l’edificio
oggi esistente e quello originario. Per tale
ragione l’intervento non può qualificarsi
quale ristrutturazione mediante demolizione
e ricostruzione bensì quale nuova
costruzione.
In caso di ristrutturazione mediante
demolizione e ricostruzione, lo spostamento
di volumetria non può, dunque, ritenersi
ammissibile –pena lo sconfinamento nella
differente ipotesi della nuova costruzione–
laddove vada ad incidere sul requisito della
identità di
sagoma, superfici e volumi
richiesto dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001.
Ai sensi dell’art. 3, c.1, lett. d) del
d.P.R. n. 380/2001 sono “interventi di
ristrutturazione edilizia” (…) “gli
interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad
un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente. Tali interventi
comprendono il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria e
sagoma di quello preesistente, fatte salve
le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica.”.
Il permesso di costruire impugnato ha ad
oggetto un intervento di “demolizione e
ricostruzione, su un medesimo sedime con
ristrutturazione dell’esistente, spostamenti
volumetrici nonché formazione di autorimesse
interrate”.
Il concetto di ristrutturazione edilizia,
quale enunciato dall'art. 31, lett. d), l.
05.08.1978, n. 431 (”interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante
un insieme sistematico di opere che possono
anche portare ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente”),
ha subito nel tempo diversificate
interpretazioni e diffuse incertezze
soprattutto riguardo alla ristrutturazione
per demolizione e ricostruzione, nella
ricerca degli elementi che distinguessero la
fattispecie dalla ristrutturazione.
Ad un primo orientamento che escludeva la
demolizione e ricostruzione dalla
fattispecie di ristrutturazione (Cons. St.,
sez. V, 09.02.1996, n. 144), è seguito
l'orientamento trasfuso nel Testo Unico
dell'edilizia che ha compreso la fattispecie
nella categoria della “ristrutturazione”
purché “fedele” in quanto modalità
estrema di conservazione dell'edificio
preesistente nella sua consistenza
strutturale, essendosi ritenuto che “la
ricostruzione di un preesistente fabbricato
senza variazione o alterazione della
superficie, volumetria e destinazione d'uso,
non incide sul carico urbanistico già
esistente e non è pertanto assoggettato ad
oneri né al rispetto degli indici
sopravvenuti” (Cons. St., sez. V,
10.08.2000, n. 4397).
In recepimento degli indirizzi
giurisprudenziali formatisi in materia, il
T.U. dell'edilizia ha ricompreso tra gli
interventi di ristrutturazione edilizia “quelli
consistenti nella demolizione e successiva
fedele ricostruzione di un fabbricato
identico quanto a sagoma, volumi, area di
sedime e caratteristiche dei materiali,
fatte salve le sole innovazioni necessarie
per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
L'art. 1 del decreto legislativo 27.12.2002,
n. 301 ha modificato l'art. 3, in parte qua,
eliminando la locuzione “fedele
ricostruzione di un fabbricato identico,
quanto a sagoma, volumi, area di sedime e
caratteristiche di materiali a quello
preesistente” e l’ha sostituita con
l’espressione “ricostruzione con la
stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente” (art. 1, lett. a).
Anche escludendo il superato criterio della
fedele ricostruzione, esigenze di
interpretazione logico-sistematica della
nuova normativa inducono tuttavia la
giurisprudenza a ritenere che la
ristrutturazione edilizia, per essere tale e
non finire per coincidere con la nuova
costruzione, debba conservare le
caratteristiche fondamentali dell'edificio
preesistente e la successiva ricostruzione
dell'edificio debba riprodurre le precedenti
linee fondamentali quanto a sagoma,
superfici e volumi (fra le tante Cons.
Stato, sez. IV, 18.03.2008, n. 1177).
Questa sezione ha, al riguardo, recentemente
affermato, che "la previsione di cui
al’art. 27 c. 1 l. d) della L.R. Lombardia
11.03.2005, n. 12 -che ricomprende tra gli
interventi di ristrutturazione edilizia
quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione parziale o totale nel rispetto
della volumetria preesistente- deve
interpretarsi nel senso di prescrivere anche
il rispetto della sagoma dell’edificio
preesistente” in quanto tale requisito,
previsto dall’art. 3, comma 1, lettera d),
del D.P.R. 380/2001, costituisce espressione
di un principio generale che orienta anche
l’interpretazione della legislazione
regionale (TAR Lombardia Milano, sez. II,
16.01.2009, n. 153).
Ciò che contraddistingue la ristrutturazione
dalla nuova edificazione è, dunque, la già
avvenuta trasformazione del territorio,
attraverso una edificazione di cui si
conservi la struttura fisica (sia pure con
la sovrapposizione di un «insieme
sistematico di opere, che possono portare ad
un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente»), ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con
ricostruzione, se non «fedele»
(termine espunto dall'attuale disciplina),
comunque rispettosa della volumetria e della
sagoma della costruzione preesistente
(Consiglio Stato, sez. VI, 16.12.2008, n.
6214).
Nel caso di specie, quantomeno con
riferimento alla sagoma, come evincibile
dall’allegato P alla consulenza tecnica
esperita dinanzi al Tribunale di Monza nella
causa intentata dalla Cascina Paolina s.r.l.
nei confronti della Doma s.r.l., non
sussiste identità tra l’edificio oggi
esistente e quello originario.
Per tale ragione l’intervento non può
qualificarsi quale ristrutturazione mediante
demolizione e ricostruzione bensì quale
nuova costruzione; sono state, pertanto,
violate le disposizioni delle n.t.a.
relative alle nuove edificazioni.
In caso di ristrutturazione mediante
demolizione e ricostruzione, lo spostamento
di volumetria non può, dunque, ritenersi
ammissibile –pena lo sconfinamento nella
differente ipotesi della nuova costruzione–
laddove vada ad incidere sul requisito della
identità di sagoma, superfici e volumi
richiesto dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.12.2009 n. 5268 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
novembre 2009 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Indici
della presenza di una ristrutturazione
(anziché di restauro e risanamento
conservativo) sono l’importanza
dell’intervento (criterio quantitativo) e
l’aggiunta di nuovi elementi non finalizzati
al recupero dell’esistente (criterio
qualitativo).
La ristrutturazione è un concetto non
sovrapponibile a quello di superficie lorda
di pavimento, nel senso che può esservi la
prima anche quando le norme comunali
escludano la presenza della seconda.
Parimenti la superficie utilizzata per il
calcolo del contributo di costruzione nella
ristrutturazione non corrisponde
necessariamente alla superficie lorda di
pavimento.
Per stabilire se vi sia ristrutturazione (e
quindi se l’intervento edilizio sia oneroso)
occorre infatti valutare le opere nel loro
complesso indipendentemente dal fatto che si
realizzi un guadagno di superficie lorda di
pavimento.
L’art. 27, comma 1, lett. d), della LR
11.03.2005 n. 12 (che codifica ora la
materia riprendendo per questa parte nozioni
consolidate) individua la ristrutturazione
in un insieme sistematico di opere che
possono portare a un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente.
Indici della presenza di una
ristrutturazione (anziché di restauro e
risanamento conservativo) sono l’importanza
dell’intervento (criterio quantitativo) e
l’aggiunta di nuovi elementi non finalizzati
al recupero dell’esistente (criterio
qualitativo).
Nel caso in esame le demolizioni e
ricostruzioni (che hanno interessato in modo
coordinato i tre piani di proprietà del
ricorrente) e la chiusura dell’altana (che
ha permesso di aggiungere un nuovo locale
funzionalmente e strutturalmente collegato a
quelli dei piani inferiori) corrispondono
alla descrizione di un intervento di
ristrutturazione. Il fatto che il nuovo
locale sia accessorio nella destinazione è
irrilevante, in quanto deve essere preso in
considerazione per l’utilità aggiuntiva che
apporta al resto dell’unità abitativa. Nella
sostanza quindi la decisione del Comune
sull’onerosità del titolo edilizio appare
corretta
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 02.11.2009 n. 1785 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2009 |
|
URBANISTICA:
Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della
L.R. n. 12/2005:
2^ lezione - parte B
(gli atti di programmazione negoziata) (Geometra
Orobico n. 5/2009). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
W. Fumagalli,
Le nuove
norme sul Governo del Territorio (AL
n. 5/2009). |
settembre 2009 |
|
URBANISTICA:
Zone agricole -
Rapporto tra le previsioni della L.R.
12/2005 e del P.R.G. - Portata.
Le previsioni della L.R. 12/2005 che
disciplinano le zone agricole non preclusono
all'autorità urbanistica l'esercizio del più
pieno potere di pianificazione del
territorio, anche in funzione di
salvaguardia dei valori ambientali e
paesaggistici.
Le predette disposizioni
della L.R. si applicano dunque in via
sussidiaria, solo ove manchino specifiche
prescrizioni dello strumento urbanistico, e
non rendono illegittime le scelte inerenti
alla assoluta inedificabilità e
immodificabilità delle aree agricole, ovvero
quelle che subordinano l'identificazione
delle possibili modifiche all'adozione di un
piano attuativo, volto alla razionale
gestione del territorio posto all'interno
dell'istituendo parco
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
29.09.2009 n.
4749 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
EDIFICABILITA' NELLE AREE
AGRICOLE.
1.- Attività edilizia -
Limitata - Per le zone agricole "E" -
Normativa applicabile - Art. 2, L.R.
Lombardia n. 93/1980 - In via sussidiaria
alla pianificazione urbanistica comunale.
2.- Autorizzazione - Alla escavazione di un
pozzo - Tutela affidamento privato alla
successiva realizzazione di un edificio -
Non sussiste.
3.- Zone agricole "E" - Poteri comunali -
Sussistenza - Delimitazione - In relazione
alla L.R. Lombardia n. 12/2005.
4.- Edificabilità su aree agricole - Art. 59, co. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 - Limiti
massimi - Potere comunale - Esercitabile -
Entro i limiti.
5.- Edificabilità in aree agricole - Art.
59, L.R. Lombardia n. 12/2005 - Criteri di
riferimento per individuare i soggetti
legittimati a costruire.
1.-
L'articolo 2 della L.R. n. 93/1980, nel
prevedere la normativa applicabile nei
territori dei Comuni per le zone agricole
"E", non ha precluso all'autorità
urbanistica l'esercizio del più pieno potere
di pianificazione del territorio, anche in
funzione di salvaguardia dei valori
ambientali e paesaggistici.
Le disposizioni dell'art. 2 della legge regionale si applicano in via
sussidiaria, solo ove manchino specifiche
prescrizioni dello strumento urbanistico, e
non rendono illegittime le scelte inerenti
alla assoluta inedificabilità e
immodificabilità delle aree agricole, ovvero
quelle che subordinano l'identificazione
delle possibili modifiche all'adozione di un
piano attuativo, volto alla razionale
gestione del territorio.
2.-
Nessuna tutela dell'affidamento può derivare
da atti diretti a scopi diversi ed aventi ad
oggetto beni diversi da quelli che il
privato si aspetta di acquisire
dall'amministrazione. Non è possibile
ritenere che l'autorizzazione
all'escavazione di un pozzo possa costituire
implicita manifestazione di assenso alla
realizzazione di edifici in zona agricola in
quanto si tratta di atto relativo
semplicemente alla conduzione agricola del
fondo indipendentemente dalle sue modalità.
3.-
La L.R. n. 12/2005 (che ha sostanzialmente
riprodotto le disposizioni della L.R. 07.06.1980 n. 93 - Norme in materia di
edificazione nelle zone agricole) demanda
alla strumentazione urbanistica comunale
(oggi Piano delle regole) oltre
all'individuazione delle aree destinate
all'agricoltura, la definizione della
relativa "disciplina d'uso, di
valorizzazione e di salvaguardia" (art.
10, co. 4, lett. a, punto 1), in conformità
con quanto previsto dagli artt. 59 ss. della
stessa legge regionale.
4.-
Con riferimento, alle costruzioni con
finalità (anche) residenziale, occorre
evidenziare che l'art. 59, co. 3, L.R. n.
12/2005 stabilisce indici edificatori che
costituiscono per il pianificatore comunale
solo un limite massimo.
Tale inciso, letto in correlazione con i
nuovi poteri pianificatori comunali di cui
all'art. 10, co. 4, lett. a) punto 1 e con il
principio di sussidiarietà verticale di cui
all'art. 118, co. 1, Cost., porta alla
conclusione che se il Comune non può
prevedere limiti superiori a quelli
contenuti nell'art. 59 (in forza della norma
di prevalenza ex art. 61) non per questo
allo stesso è sottratto il potere di
stabilire limiti inferiori od altri tipi di
limiti, nel rispetto delle altre fonti
normative e dei principi generali
dell'azione amministrativa.
In sostanza la previsione di uno "statuto"
della disciplina edificatoria nelle aree
agricole, determinato direttamente con
legge, mediante una disciplina edificatoria
inderogabile e direttamente applicabile
sull'intero territorio regionale, pare volto
a dettare una disciplina uniforme nei limiti
massimi, diretta a tutelare, piuttosto che
le esigenze edificatorie dell'agricoltura
intesa come produzione, la funzione generale
di contenimento dell'attività edilizia in
zona agricola anche prevalendo su norme più
permissive introdotte a livello locale.
Ne consegue che tale disciplina non
impedisce al Comune di individuare altri
interessi di valore preminente che,
riguardando anche le zone agricole,
comportino l'adozione di una disciplina più
restrittiva dell'edificabilità agricola.
5.-
L'articolo 59 della L.R. n. 12/2005 prevede
che l'azienda costituisca il criterio di
riferimento per individuare i soggetti
legittimati a costruire in zona agricola
(l'imprenditore agricolo ed i dipendenti
dell'azienda) e correla i limiti volumetrici
per le attrezzature e le infrastrutture
produttive alla superficie aziendale.
Il riferimento contenuto nell'art. 12.4
delle n.t.a. al complesso aziendale per
disciplinare l'edificabilità costituisce
quindi un criterio che trova fondamento
nello statuto delle aree agricole stabilito
dalla legge regionale (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 29.09.2009 n. 4749 -
link a
http://mondolegale.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Piano attuativo - Incompetenza -
Dirigente comunale - Sussiste.
Nel regime transitorio di cui all'art. 25
della legge regionale 12/2005 che dispone
che sino all'adeguamento degli strumenti
urbanistici alle disposizioni dell'articolo
della L.R. 12/2005 i piani attuativi sono
approvati con la procedura di cui
all'articolo 3 della l.r. 23/1997 è
illegittimo il provvedimento del dirigente
comunale di diniego definitivo
dell'approvazione del piano attuativo,
trattandosi di competenza espressamente
riservata dalla legge al consiglio comunale
(il TAR ha tuttavia precisato che il
responsabile dell'istruttoria è pienamente
titolato a rilevare eventuali ragioni di
contrasto tra la proposta di piano attuativo
e la normativa urbanistica, e chiudere
l'istruttoria con un atto negativo e che,
pertanto, ove tale atto determini un arresto
procedimentale, esso è immediatamente
impugnabile dinanzi al giudice
amministrativo, al quale non è precluso di
conoscere anche delle censure di carattere
sostanziale rivolte contro il medesimo)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
29.09.2009 n.
4745 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’utilizzo
della propria residenza per riunioni di
adepti, a scopo religioso, culturale,
associativo in genere, non è di per sé
sufficiente a configurare un illecito
edilizio suscettibile di essere sanzionato
ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. n. 380 del
2001 (t.u. edilizia); né lo è lo svolgimento
saltuario di pratiche di culto in un luogo
strutturato e destinato ad abitazione.
Il ricorrente, proprietario di una casa con
giardino, in cui risiede con la famiglia,
premesso che il vicino avrebbe adibito a
tempio buddista, mutandone la destinazione,
l’unità immobiliare adiacente, anch’essa
posta in zona residenziale B2, ha chiesto al
Comune (istanze 30.07.2007 e 22.09.2008) di
accertare e sanzionare con le misure
appropriate il cambio di destinazione d’uso
dell’immobile.
L’art. 52 della legge regionale n. 12/2005
(legge per il governo del territorio)
stabilisce [comma 3-bis, aggiunto dall’art.
1, comma 1, lett. m), legge regionale
14.07.2006 n. 12] che “i mutamenti di
destinazione d’uso di immobili, anche non
comportanti la realizzazione di opere
edilizie, finalizzati alla creazione di
luoghi di culto e luoghi destinati a centri
sociali, sono assoggettati a permesso di
costruire”.
Nel caso in esame è pacifico che l’immobile
in questione ha destinazione residenziale, è
strutturato per tale funzione e non ha
subito alcun intervento edilizio volto ad
adibirlo, con modifiche strutturali, ad una
funzione diversa.
Si tratta di vedere se lo svolgimento delle
attività denunciate dal ricorrente integri
quella diversa destinazione d’uso che
richiederebbe, secondo la norma regionale,
il rilascio di un titolo edilizio.
Ritiene il Collegio che al quesito debba
darsi, nel caso in esame, risposta negativa.
Il mutamento di destinazione rilevante ai
fini in discorso è quello che altera, sia
pure senza opere, la funzione originaria
dell’immobile, al fine di adibirlo, in via
permanente, ad una funzione diversa. In tal
caso l’immobile perde la destinazione
originariamente assentita per assumere la
funzione diversa che gli viene assegnata.
Altra cosa è l’uso di fatto dell’immobile in
relazione alle molteplici attività umane che
il titolare è libero di esplicare. La
destinazione d'uso impressa a determinati
locali dal titolo autorizzativo non
riguarda, infatti, le attività umane che vi
si svolgono, ossia i c.d. usi di fatto (cfr.
Cons. Stato V 23.02.2000 n. 949, 28.01.1997
n. 77). Ove detti usi e attività diano luogo
a comportamenti illeciti (immissioni non
consentite, schiamazzi, ecc.), ben possono
essere oggetto di sanzioni penali, civili,
ed amministrative, incidenti sulla condotta
dei responsabili, laddove l’applicazione di
sanzioni edilizie coinvolgenti (anche) le
strutture (rimessione in pristino e, in caso
di inottemperanza, acquisizione al
patrimonio comunale) postula un quid
pluris, che nella specie non è dato
ravvisare.
Considerate le risultanze dell’istruttoria
effettuata dal Comune, non sono ravvisabili
infatti elementi idonei a configurare un
mutamento di destinazione d’uso rilevante
sotto il profilo edilizio.
L’utilizzo della propria residenza per
riunioni di adepti, a scopo religioso,
culturale, associativo in genere, non è di
per sé sufficiente a configurare un illecito
edilizio suscettibile di essere sanzionato
ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. n. 380 del
2001 (t.u. edilizia); né lo è lo svolgimento
saltuario di pratiche di culto in un luogo
strutturato e destinato ad abitazione.
Se ciò di cui il ricorrente si duole è il
disturbo derivante dalle pratiche di culto
(cfr. istanza 11.05.2009) ovvero la “intollerabile
immissione di rumori eccedenti i limiti
imposti dalla legge e dalla convivenza
civile” (cfr. diffida 07.03.2007
indirizzata al vicino), resta ovviamente
salva la facoltà di adire il giudice
ordinario qualora, in relazione all’afflusso
di persone e al disturbo cagionato in
occasione delle suddette cerimonie
religiose, si registrino immissioni moleste
che eccedono la normale tollerabilità
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.09.2009 n. 4665 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2009 |
|
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 34 del
25.08.2009, "Adozione del Piano
Territoriale Regionale (art. 21 l.r.
11.03.2005, n. 12 «Legge per il Governo del
Territorio»)"
(deliberazione
C.R. 30.07.2009 n. 874 - link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
Lombardia, Il Piano Territoriale Regionale
(PTR) adottato dal Consiglio: breve
presentazione dei contenuti
(link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del
10.08.2009, "Modalità per il sostegno
finanziario degli Enti locali e degli Enti
gestori delle aree regionali protette per
l'esercizio delle funzioni paesaggistiche
loro attribuite (art. 79, l.r. n. 12/2005)"
(deliberazione
G.R. 29.07.2009 n. 9964 - link a
www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lombardia,
300.000 euro agli enti locali per la
gestione delle competenze paesaggistiche.
Anche per il 2009 Regione Lombardia
assegnerà contributi per 300.000 euro agli
enti locali per la gestione delle competenze
paesaggistiche
(link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del
10.08.2009, "Disposizioni per l'esercizio
dei poteri sostitutivi regionali per l'avvio
del procedimento di approvazione del PGT
(art. 26, comma 3, l.r. n. 12/2005) -
Modifica della d.g.r. n. 41493/99 in materia
di criteri, modalità, formazione, gestione e
articolazione dell'albo dei commissari ad
acta" (deliberazione
G.R. 29.07.2009 n. 9963 - link a
www.infopoint.it). |
URBANISTICA: Lombardia,
Piani di governo del territorio, commissari
per i Comuni inadempienti
(link a www.territotio.regione.lombardia.it). |
URBANISTICA:
Lombardia, Adottato il Piano Territoriale
Regionale (PTR)
(link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
URBANISTICA: Indicazioni
operative sulla verifica della componente
geologica dei P.G.T. da parte delle Province
(regione Lombardia, Direzione Generale
Territorio e Urbanistica,
nota 03.08.2009 n.
15628 di prot.). |
URBANISTICA:
Lombardia, Corso di specializzazione
sull'applicazione della L.R. n. 12/2005:
2^
lezione - parte A (diritti edificatori)
(Geometra Orobico n. 4/2009). |
luglio 2009 |
|
URBANISTICA:
Sull’accesso agli atti di
adozione del PGT nella Regione Lombardia.
La mancata previsione
nella legislazione urbanistica del "diritto
degli interessati" non solo "di prendere
visione", ma anche "di estrarre copia di
documenti amministrativi" (art. 22, comma 1,
legge n. 241 del 1990), non può ritenersi in
contrasto con i principi di trasparenza e di
partecipazione, sottesi alla legge generale
sul procedimento amministrativo.
La fattispecie, oggetto dello scrutinio dei
Giudici di Palazzo Spada (ndr: che conferma
TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 08.04.2009 n. 814),
concerne la pretesa d’accesso agli atti del
procedimento di adozione dello strumento
urbanistico di pianificazione comunale
denominato “Piano di governo del
territorio” (PGT), previsto dall’art. 7
della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 e s.m..
Il GA, preliminarmente, ricorda che l’art.
24, comma 1, lettera c), della legge n. 241
del 1990 e s.m., secondo cui "il diritto
di accesso è escluso…nei confronti
dell'attività della pubblica amministrazione
diretta all'emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e
di programmazione, per i quali restano ferme
le particolari norme che ne regolano la
formazione", esclude espressamente
dall’ambito di applicazione delle norme
generali sull’accesso quelle attività
dell’amministrazione rivolte anche
all’adozione ed all’approvazione degli
strumenti di pianificazione urbanistica.
In tal caso, quindi, la trasparenza degli
atti -volti all’emanazione degli strumenti
urbanistici- continua ad essere disciplinata
dalle norme speciali che la regolavano,
prevalenti su quelle generali, secondo il
criterio risolutore di antinomie normative
previsto dal principio di specialità (che,
nella materia urbanistica, è interpretato
dalla giurisprudenza amministrativa in
termini di prevalenza esclusiva e non di
mera integrazione tra fonti di produzione
del diritto; cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, n. 6436/2002 e sez. V n. 1479/1998).
Con particolare riguardo all’esercizio del
diritto d’accesso nei confronti degli atti
dei procedimenti di adozione di strumenti
urbanistici, è applicabile l’art. 9, 1°
comma, della legge urbanistica n. 1150 del
1942, che testualmente dispone: "il
progetto di piano regolatore generale del
Comune deve essere depositato nella
Segreteria comunale per la durata di 30
giorni consecutivi, durante i quali chiunque
ha facoltà di prendere visione. L'effettuato
deposito è reso noto al pubblico nei modi
che saranno stabiliti nel regolamento di
esecuzione della presente legge".
Pertanto, gli atti dei procedimenti
amministrativi, volti all’approvazione degli
strumenti di piano, sono accessibili agli
interessati nelle seguenti forme:
- deposito al pubblico del progetto di piano
con relativi elaborati;
- pubblicazione dell’avvenuto deposito;
- visione dello stesso da parte di ogni
soggetto interessato.
Non è previsto, invece, un
diritto di effettuare copia dei documenti
che compongono il piano in corso di
approvazione.
Infatti, l’art. 13 della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005 e s.m., rubricato
Approvazione degli atti costituenti il piano
di governo del territorio, al comma 4°
dispone che "entro novanta giorni
dall'adozione, gli atti di PGT sono
depositati, a pena di inefficacia degli
stessi, nella segreteria comunale per un
periodo continuativo di trenta giorni, ai
fini della presentazione di osservazioni nei
successivi trenta giorni. Del deposito degli
atti è fatta, a cura del comune, pubblicità
sul Bollettino ufficiale della Regione e su
almeno un quotidiano o periodico a
diffusione locale".
In particolare, la Sez. IV ritiene che la
ragione per cui la legge n. 241 del 1990 ha
escluso dall'ambito di applicazione delle
norme generali sull'accesso i procedimenti
di pianificazione generale, compresi quelli
in materia urbanistica, sta nel fatto che,
trattandosi di procedimenti con destinatari
non determinati e astrattamente illimitati,
finalizzati ad incidere su intere
collettività, per essi non può ammettersi un
diritto di estrazione di copia che
rischierebbe, attesa la potenziale
moltitudine di richiedenti, di vanificare il
correlato e paritario principio
costituzionale di buon andamento, nei suoi
contenuti precettivi dell’azione
amministrativa di economicità, celerità ed
efficacia (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.07.2009 n. 4838 -
link a www.altalex.com). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA:
E' illegittimo che la provincia valuti la compatibilità del
documento di piano del P.G.T., con il proprio piano
territoriale di coordinamento (P.T.C.P.), mediante
provvedimento della Giunta/Consiglio anziché con determina
dirigenziale.
La lettera b)
dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non
a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga
i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai
pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione
di quei piani e programmi (o delle relative varianti e
deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione, ad
esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la
compatibilità con il proprio piano o programma di attività
poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di
conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si
dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Nel caso in esame, la Provincia è chiamata appunto ad una
“valutazione di compatibilità” tra due strumenti urbanistici
di diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra
le previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato
(PGT) rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro al quale sono estranee valutazioni
di merito; a maggior ragione esso non implica alcuna di
quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del
consiglio provinciale ex art. 42, primo comma t.u.e.l., che
definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo”.
---------------
Dall’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.),
si desume che la giunta compie gli atti che non sono
riservati al consiglio, e che non rientrano nelle competenze
del presidente o nelle attribuzioni dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna
“tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o
dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente”
(secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli
obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo
adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono tra l’altro (art. 107, secondo comma,
lettera f) “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o
analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e
valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di
criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti
generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le
concessioni edilizie”; nonché (lettera h) “le attestazioni,
certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali,
autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto
costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in
questione (a) mira esclusivamente a verificare, attraverso
la mera comparazione del contenuto dei due piani, il
rispetto del PTCP da parte del piano comunale di governo del
territorio, e (b) non implica, come osservato, profili di
discrezionalità, se ne trae che essa non si configura come
atto di indirizzo, ma tende alla mera attuazione degli
obiettivi della pianificazione provinciale, ed è pertanto
riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
Il Comune di
Vertemate con Minoprio ha adottato (delibera consiliare
29.07.2008 n. 27) il piano di governo del territorio (PGT),
e lo ha trasmesso alla Provincia di Como -ex art. 13, comma
5, legge regionale lombarda 11.03.2005 n. 12- per la
valutazione di compatibilità con il piano territoriale di
coordinamento provinciale (PTCP).
Con provvedimento 16.12.2008, assunto dal Dirigente del
Settore pianificazione territoriale, la Provincia di Como ha
attestato la compatibilità del PGT col PTCP a condizione che
venissero recepite determinate prescrizioni e apportate al
PGT le conseguenti modifiche.
Il Comune ha controdedotto alle osservazioni dei privati e
alle valutazioni della Provincia, approvando il PGT con
delibera consiliare 15.01.2009 n. 1.
Per quanto riguarda la valutazione di compatibilità
effettuata dalla Provincia, il Comune ha ritenuto il
provvedimento dirigenziale viziato da “difetto assoluto
di attribuzione”, qualificandolo come tale “inidoneo
a produrre gli effetti della valutazione di compatibilità
del PGT con il PTCP”. Ha peraltro controdedotto, “ad
abundantiam”, con apposito documento, alle valutazioni
della Provincia “anche a sostegno delle scelte
urbanistiche effettuate dal consiglio comunale”.
Nel contempo, peraltro, il Comune ha impugnato il
provvedimento dirigenziale col ricorso n. 460/2009,
deducendo i seguenti motivi:
- incompetenza del dirigente, dovendo il parere di
compatibilità essere reso dal consiglio provinciale; il
provvedimento sarebbe anzi nullo, ex art. 21-septies legge
n. 241/1990, per difetto assoluto di attribuzioni, essendosi
il dirigente arrogato un potere di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo riservato all’organo di governo
dell’ente;
- violazione dell’art. 13 legge regionale n. 12 del 2005,
eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di
motivazione, contraddittorietà e travisamento dei
presupposti di fatto e di diritto: anziché limitarsi ad
effettuare la valutazione di compatibilità tra PGT e PTCP,
lasciando al Comune il potere di individuare le possibili
soluzioni per ricomporre il contrasto tra i due strumenti
urbanistici, la Provincia avrebbe -con le prescrizioni
dettate alle pagg. 19~22 del provvedimento impugnato-
imposto modificazioni sostanziali al PGT adottato,
individuando le destinazioni funzionali che il Comune
sarebbe tenuto a recepire a pena di inefficacia degli atti
assunti; le singole prescrizioni sarebbero poi illegittime
per i motivi esposti nelle controdeduzioni comunali,
riprodotte in ricorso quale parte integrante e sostanziale.
...
La questione di competenza, sollevata dal Comune con il
primo motivo del ricorso n. 460/2009, è infondata.
L’art. 13 della legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per
il governo del territorio) disciplina la procedura di
approvazione degli atti costituenti il piano di governo del
territorio.
Il quinto comma [nel testo modificato dall'art. 1, comma 1,
lett. u), della l.r. 14.03.2008, n. 4], stabilisce
testualmente: “5. Il documento di piano, il piano dei
servizi e il piano delle regole, contemporaneamente al
deposito, sono trasmessi alla provincia se dotata di piano
territoriale di coordinamento vigente. La provincia,
garantendo il confronto con il comune interessato, valuta
esclusivamente la compatibilità del documento di piano con
il proprio piano territoriale di coordinamento entro
centoventi giorni dal ricevimento della relativa
documentazione, decorsi inutilmente i quali la valutazione
si intende espressa favorevolmente. Qualora il comune abbia
presentato anche proposta di modifica o integrazione degli
atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in
merito sono assunte con deliberazione di giunta provinciale.
In caso di assenso alla modifica, il comune può sospendere
la procedura di approvazione del proprio documento di piano
sino alla definitiva approvazione, nelle forme previste
dalla vigente legislazione e dalla presente legge, della
modifica dell’atto di pianificazione provinciale di cui
trattasi, oppure richiedere la conclusione della fase
valutativa, nel qual caso le parti del documento di piano
connesse alla richiesta modifica della pianificazione
provinciale acquistano efficacia alla definitiva
approvazione della modifica medesima. In ogni caso, detta
proposta comunale si intende respinta qualora la provincia
non si pronunci in merito entro centoventi giorni dalla
trasmissione della proposta stessa”.
Il Comune sostiene che la competenza ad esprimere la
valutazione di compatibilità del PGT con il PTCP spetterebbe
al consiglio provinciale, ai sensi dell’art. 42, secondo
comma, lett. b), del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267
(testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali), il quale, nel disciplinare le attribuzioni dei
consigli (comunali e provinciali) stabilisce che “il
consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti
fondamentali: …. b) programmi, relazioni previsionali e
programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e
elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e
pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani
territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali
per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da
rendere per dette materie”.
La valutazione di compatibilità di cui trattasi sarebbe
appunto oggetto di un parere riservato al consiglio
provinciale, cui spetterebbe di valutare la compatibilità
del piano comunale con il proprio piano territoriale di
coordinamento, quale strumento urbanistico sovraordinato e,
per taluni profili, prevalente.
La tesi non può essere, alla stregua della giurisprudenza
più recente, condivisa.
Sia pure in una vicenda in cui era stata contestato, per
incompetenza, un provvedimento emesso in materia non da un
dirigente, ma dalla giunta provinciale, il Consiglio di
Stato ha statuito (sentenza 28.05.2009 n. 3333, Sez. IV) che
la lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si
riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che
comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso
approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del
procedimento di formazione di quei piani e programmi (o
delle relative varianti e deroghe)”, sicché “restano
fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è
chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio
piano o programma di attività poste in essere da altri
soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un
intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla
competenza consiliare)”.
Nel caso in esame, la Provincia è chiamata appunto ad una “valutazione
di compatibilità” tra due strumenti urbanistici di
diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra le
previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT)
rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro al quale sono estranee valutazioni
di merito; a maggior ragione esso non implica alcuna di
quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del
consiglio provinciale ex art. 42, primo comma t.u.e.l., che
definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo”.
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la
valutazione di compatibilità in questione sarebbe riservata
al consiglio provinciale.
---------------
Sempre a sostegno
della censura di incompetenza, il Comune denuncia la
violazione dell’art. 107 del t.u.e.l., per avere il
dirigente provinciale “invaso le attribuzioni riservate
agli organi di governo dell’Ente”: il che comporterebbe
-secondo l’assunto comunale- nullità dell’atto (ex art.
21-septies legge n. 241/1990) per difetto assoluto di
attribuzioni, o quanto meno annullabilità dello stesso per
violazione dell’ordine delle competenze.
Ora, una volta esclusa -per le ragioni esposte al punto che
precede- una riserva di competenza al consiglio provinciale,
si deve esaminare se la censura del Comune possa avere
fondamento sotto un diverso profilo, nel senso cioè che la
competenza in materia appartenga alla giunta provinciale,
anch’essa “organo di governo dell’ente” (art. 36
t.u.e.l.): tesi sulla quale punta la difesa comunale, dopo
avere preso atto -nella memoria depositata il 19.06.2009-
della recente statuizione del giudice di appello.
Al riguardo va osservato che la menzionata sentenza n.
3333/2009 del Consiglio di Stato non ha affermato
(positivamente e definitivamente) la competenza della giunta
provinciale, ma si è limitata ad escludere la riserva di
competenza al consiglio in una fattispecie in cui la
valutazione di compatibilità -rispetto al sopraordinato PTCP-
di un P.I.I. (programma integrato di intervento), adottato
da altro comune in variante al PRG, era stata effettuata
dalla giunta provinciale con provvedimento impugnato per
incompetenza.
Non si può trarre dunque argomento, sic et simpliciter,
dalla sentenza citata per desumerne tout court la
competenza della giunta e l’incompetenza del dirigente.
Ciò premesso, ritiene il Collegio che al quesito di cui
sopra (se cioè nella vicenda in esame sia stato invaso un
ambito di attribuzioni riservato alla giunta provinciale)
debba darsi risposta negativa, alla luce sia della normativa
regionale di settore, sia della disciplina generale delle
attribuzioni dirigenziali.
L’art. 13, quinto comma, della legge regionale n. 12/2005
(di cui si è riportato il testo al precedente punto 5.)
dispone che “qualora il comune abbia presentato anche
proposta di modifica o integrazione degli atti di
pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono
assunte con deliberazione di giunta provinciale”: il che
lascia arguire che la competenza della giunta provinciale
insorga nel solo caso in cui occorra delibare se la proposta
di modifica sia o meno assentibile ai fini della sospensione
ovvero del proseguimento della procedura di approvazione del
PGT, secondo una delle opzioni previste dallo stesso comma,
ferma restando comunque la competenza del consiglio
provinciale per la “definitiva approvazione…. della
modifica dell’atto di pianificazione provinciale”.
Dall’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.),
si desume, d’altro canto, che la giunta compie gli atti che
non sono riservati al consiglio, e che non rientrano nelle
competenze del presidente o nelle attribuzioni dei
dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna
“tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o
dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente”
(secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli
obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo
adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono tra l’altro (art. 107, secondo comma,
lettera f) “i provvedimenti di autorizzazione,
concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga
accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale,
nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai
regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le
autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché (lettera
h) “le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide,
verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto
costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in
questione (a) mira esclusivamente a verificare, attraverso
la mera comparazione del contenuto dei due piani, il
rispetto del PTCP da parte del piano comunale di governo del
territorio, e (b) non implica, come osservato, profili di
discrezionalità, se ne trae che essa non si configura come
atto di indirizzo, ma tende alla mera attuazione degli
obiettivi della pianificazione provinciale, ed è pertanto
riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
In conclusione, le censure del Comune in punto di competenza
sono prive di fondamento; mentre appaiono fondate le
(speculari) censure della Provincia circa l’erroneità del
presupposto (incompetenza del dirigente) sulla cui base il
Comune ha ritenuto di disattendere la valutazione di
compatibilità del PGT
(TAR Lombardia-Milano, Sezione II,
sentenza 28.07.2009 n. 4468 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI -
URBANISTICA:
La verifica di compatibilità del
PGT al PTCP è di competenza del dirigente,
mentre le prescrizioni di stralcio della
Provincia non hanno carattere precettivo ma
sono finalizzate a consentire, se recepite,
l’approvazione immediata del PGT.
1.
Se si considera che la valutazione di
compatibilità del piano di governo del
territorio al piano territoriale di
coordinamento provinciale mira
esclusivamente a verificare, attraverso la
mera comparazione del contenuto dei due
piani, il rispetto del PTCP da parte del PGT,
e non implica profili di discrezionalità, se
ne trae che essa non si configura come atto
di indirizzo, ma tende alla mera attuazione
degli obiettivi della pianificazione
provinciale, ed è pertanto riconducibile
alle attribuzioni dirigenziali.
2.
Nell’ambito del procedimento di verifica di
compatibilità del piano di governo del
territorio al piano territoriale di
coordinamento provinciale, le prescrizioni
della Provincia, nella parte in cui
prevedono (anche) le destinazioni degli
ambiti da stralciare, non hanno carattere
precettivo, e non escludono la possibilità
di destinazioni diverse: esse, in altri
termini, devono intendersi unicamente
finalizzate a consentire l’approvazione
immediata del piano regolatore senza
ulteriori passaggi procedimentali; nel senso
che, se il Comune recepisce le prescrizioni
di stralcio con la rispettiva destinazione,
il piano può essere approvato e produrre i
suoi effetti tout court, mentre una
destinazione diversa da quella suggerita
imporrebbe il ritorno del piano alla
Provincia per una nuova verifica di
compatibilità, ovvero l’attivazione del
procedimento di modifica o integrazione del PTCP (TAR Lombardia-Milano, Sezione II,
sentenza 28.07.2009 n. 4468 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, 4° suppl. straord. al n. 29 del
24.07.2009, "Approvazione del bando di
finanziamento 2009 per «la produzione di
basi cartografiche attraverso Data base
topografici» ai sensi della l.r. 12/2005"
(decreto
D.U.O. 08.07.2009 n. 6973 - link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del
13.07.2009, "Approvazione del primo
elenco degli enti locali idonei
all'esercizio delle funzioni paesaggistiche
loro attribuite dall'art. 80 della legge
regionale 11.03.2005 n. 12" (decreto
D.G. 03.07.2009 n. 6820 - link a
www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del
06.07.2009, "Modalità per il
finanziamento agli enti locali per lo
sviluppo del Data base topografico, a
supporto del Sistema Informativo
Territoriale Integrato - Anno 2009 (art. 3,
l.r. n. 12/2005)" (deliberazione
G.R. 19.06.2009 n. 9664 - link a
www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
La zonizzazione è ammessa anche
con i PGT.
Il fatto che la legge regionale lombarda n. 12 del
2005 non preveda più espressamente la
ripartizione del territorio in zone omogenee
non esclude affatto la possibilità che il PGT (Piano di Governo del Territorio)
preveda aree contigue aventi diversa
destinazione funzionale, né rende
illegittima la zonizzazione del territorio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.07.2009 n. 4305 -
link a
www.cameramministrativacomo.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA:
Rientra nella competenza
della giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di
uno strumento urbanistico comunale con il P.T.C.P.
Non può, al riguardo, invocarsi l’art. 42, c. 2, lett. b),
d.lgs. n. 267/2000: tale norma -che attribuisce alla
competenza consiliare i “programmi, relazioni previsionali e
programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e
elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e
pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani
territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali
per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da
rendere per dette materie”- si riferisce, difatti, “non a
qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i
piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai
pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione
di quei piani e programmi (o delle relative varianti e
deroghe)”.
Come ha di recente affermato il Consiglio di Stato con la
sentenza 28.05.2009 n. 3333, rientra nella competenza della
giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di uno
strumento urbanistico comunale (si trattava, nel caso
esaminato, di un programma integrato di intervento) con il
P.T.C.P.
Non può, al riguardo, invocarsi l’art. 42, c. 2, lett. b),
d.lgs. n. 267/2000: tale norma -che attribuisce alla
competenza consiliare i “programmi, relazioni
previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi
triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci
annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto,
piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e
pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad
essi, pareri da rendere per dette materie”- si
riferisce, difatti, “non a qualsiasi parere espresso
dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo
stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito
del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o
delle relative varianti e deroghe)”. (Cons. Stato, sez.
IV, 28.05.2009, n. 3333) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.07.2009 n. 4303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2009 |
|
URBANISTICA:
Un P.L. è stato adottato nell'agosto del
2008 dalla G.C.. Nel frattempo, la L.R.
12/2005 è stata modificata sicché la
competenza ad approvare i piani attuativi è
stata riportata in capo ai Consigli
Comunali.
Si chiede di conoscere se il piano adottato
in questione possa essere approvato ancora
dalla Giunta oppure debba necessariamente
passare al vaglio del Consiglio Comunale
(Regione Lombardia,
risposta e-mail del 09.06.2009). |
URBANISTICA:
L. Spallino,
La gestione del territorio in Regione
Lombardia sino ai P.G.T.: le novità della
legge regionale n. 5 del 2009
(link a www.studiospallino.it). |
URBANISTICA:
Lombardia, Bando di finanziamento per la
produzione di Data base topografici.
A seguito della delibera VIII/9664 del
19.06.2009 con cui sono state definite i
criteri per la concessione di finanziamenti
agli enti locali per lo sviluppo del Data
base topografico (DBT), con decreto n. 6973
dell’08.07.2009, il Dirigente dell’Unità
Organizzativa Infrastruttura per
l’Informazione Territoriale della DG
Territorio e Urbanistica ha approvato il
bando di finanziamento 2009 per la
“Produzione di basi cartografiche attraverso
Data base topografici” ai sensi della legge
di governo del territorio (link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
URBANISTICA:
Disponibile on-line il Rapporto 2008 sulla
pianificazione in Lombardia.
Il “Rapporto 2008 sullo stato della
pianificazione in Lombardia", frutto
dell’attività dell’Osservatorio Permanente
della Programmazione Territoriale, è stato
assunto dalla Giunta Regionale, con la preso
d’atto della Comunicazione del Presidente
Formigoni, di concerto con l’assessore Boni,
con la DGR n. 9622/2009.
L’Osservatorio Permanente della
Programmazione Territoriale è stato
costituito, in attuazione dell’articolo 5
della l.r. 12/2005 e successive modifiche,
presso l’Assessorato Territorio e
Urbanistica.
A gennaio 2009 sono state definite le
modalità operative di funzionamento
del’Osservatorio e avviate ufficialmente le
relative attività (decreto del Direttore
Generale Direzione Generale Territorio e
Urbanistica n. 321/2009).
L’Osservatorio redige annualmente, a
conclusione della propria attività, una
Relazione che fornisce dati e elementi di
conoscenza delle dinamiche territoriali e di
valutazione degli effetti derivanti
dall’attuazione dei nuovi strumenti di
pianificazione. Il Rapporto rappresenta
pertanto un utile strumento di conoscenza
delle dinamiche territoriali in Lombardia
per l’orientamento delle politiche regionali
sul territorio, con l’obiettivo di favorirne
l’efficacia e rispondere all’esigenza di
realizzare uno sviluppo equilibrato e
sostenibile (link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quesiti sulla gratuità ovvero
onerosità degli interventi edilizi.
Lombardia,
l'interpretazione autentica della l.r. n.
12/2005 circa il versamento degli oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione in
relazione ad alcune fattispecie edilizie
(Regione Lombardia, Direzione Generale
Territorio e Urbanistica,
nota 09.06.2009 n.
11538 di prot.). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 22
dell'01.06.2009, "Determinazioni inerenti
le modalità di erogazione di contributi ai
Comuni per la formazione dei Piani di
Governo del Territorio" (deliberazione
G.R. 20.05.2009 n. 9481
- link a
www.infopoint.it). |
maggio 2009 |
|
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 20 del
18.05.2009, "Determinazioni
in merito alle modalità per l'approvazione
dei Programmi Integrati di Intervento in
variante, non aventi rilevanza regionale, da
osservarsi fino all'approvazione dei Piani
di Governo del Territorio (art. 25, comma 7,
l.r. 12/2005 e s.m.i." (deliberazione
G.R. 06.05.2009 n. 9413 - link a
www.infopoint.it). |
URBANISTICA: "Determinazioni
in merito alle modalità per l'approvazione
dei Programmi Integrati di Intervento in
variante, non aventi rilevanza regionale, da
osservarsi fino all'approvazione dei Piani
di Governo del Territorio (art. 25, comma 7,
l.r. 12/2005 e s.m.i." (deliberazione
G.R. 06.05.2009 n. 9413 - in attesa
di pubblicazione sul B.U.R.L.). |
URBANISTICA: Lombardia,
via libera ai Piani Integrati Strategici di
intervento.
La Giunta regionale ha approvato, su
proposta dell'assessore al Territorio e
Urbanistica, Davide Boni, i criteri e le
modalità per disciplinare l'approvazione da
parte dei Comuni di nuovi Programmi
integrati di intervento
(link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
URBANISTICA:
L. Spallino,
Modifiche alla legge regione Lombardia n.
12/2005 (L.R. 5/2009): P.I.I. in variante e
termine per l'avvio del procedimento di
approvazione dei p.g.t. (link a
www.studiospallino.it). |
aprile 2009 |
|
URBANISTICA:
Indicazioni operative sulla verifica
della componente geologica del P.G.T. da
parte delle Province (Regione Lombardia,
Direzione Generale Territorio e Urbanistica,
nota 27.04.2009 n. 8483 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Articolo 41, comma
2, della L.R. n. 12/2005 e succ. mod. ed int.
- Varianti minori realizzabili senza
necessità della previa acquisizione del
titolo abilitativo edilizio - Applicazione -
Sussiste - Potere dell'Amministrazione di
chiedere integrazioni documentali e
pagamenti degli oneri - Sussiste.
L'articolo 41, comma 2, della L.R. n. 12/2005,
che ricalca quanto previsto dall'art. 22 del
T.U. Edilizia, deve essere interpretato nel
senso che permette, nel caso di modeste
modifiche da apportare ad opere già
assentite in forza di permesso di costruire,
di non interrompere i lavori e di acquisire
il relativo titolo anche dopo la loro
realizzazione.
La speciale procedura, che sicuramente
deroga al principio della necessità della
previa acquisizione del titolo per
l'esecuzione di ogni lavoro edilizio, si
giustifica in relazione alla natura degli
interventi che non comportano un mutamento
dei caratteri essenziali dell'intervento, ma
non impedisce all'Amministrazione, nella
fase di controllo, di chiedere eventuali
integrazioni documentali, nonché il
pagamento degli oneri se dovuti a seguito
delle modifiche apportate (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.04.2009 n. 3584
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 16 del
20.04.2009, "Determinazione in merito ai
criteri di concessione dei contributi a
Comuni e Province per studi e
approfondimenti geologici e idrogeologici ai
sensi della l.r. 12/2005 - Modifica d.g.r.
n. 876/2005"
(deliberazione
G.R. 08.04.2009 n. 9284 - link
a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del
14.04.2009, "Approvazione delle «Modalità
per la segnalazione a regione Lombardia
delle modifiche da apportare allo strato
informativo aree agricole nello stato di
fatto ex art. 43 della l.r. 12/2005 e
ss.mm.ii." (decreto
D.U.O. 18.03.2009 n. 2609 - link
a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, l'interpretazione autentica della
l.r. n. 12/2005 circa l'intervento di
ristrutturazione edilizia -inteso come
demolizione/ricostruzione- se debba
rispettare o meno il volume esistente
(Regione Lombardia, Direzione Generale
Territorio e Urbanistica,
nota 01.04.2009 n.
6466 di prot.). |
marzo 2009 |
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 13 del
31.03.2009, "Testo coordinato della l.r.
11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del
territorio», entrata in vigore il 31.03.2005"
(testo
coordinato L.R. 11.03.2005 n. 12
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lombardia, legge regionale n. 5/2009 di
modificazione/integrazione alla l.r. n.
12/2005 (link a
www.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lombardia, Aree agricole nello stato di
fatto: modalità segnalazione modifiche
(link a www.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 10
del 13.03.2009, "Disposizioni in materia
di territorio e opere pubbliche - Collegato
ordinamentale"
(L.R.
10.03.2009 n. 5 - link
a www.infopoint.it).
Modificazioni/integrazioni alla L.R. n.
12/2005. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lombardia,
LEGGE
CONSIGLIO REGIONALE N. 121/2009.
"Disposizioni in materia di territorio e
opere pubbliche – collegato ordinamentale"
approvata dal Consiglio Regionale nella
seduta del 03.03.2009 in attesa di
pubblicazione sul B.U.R.L..
Posticipa di 1 anno (entro il 31.03.2010) il
termine entro cui dotarsi del PGT con
modificazioni/integrazioni varie alla L.R.
n. 12/2005. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Approvate le modifiche alla legge
urbanistica lombarda n. 12/2005
(comunicato stampa 03.03.2009 - link a
www.consiglio.regione.lombardia.it). |
gennaio 2009 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Lombardia,
l'interpretazione autentica della l.r. n.
12/2005 circa il versamento degli oneri di
urbanizzazione sia nel caso di permesso di
costruire sia nel caso di d.i.a.
(Regione Lombardia, Direzione Generale
Territorio e Urbanistica,
nota 29.01.2009 n.
1983 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche in Lombardia la
ristrutturazione edilizia, intesa come
demolizione/ricostruzione di fabbricato
esistente, deve rispettare, oltre al volume
della costruzione preesistente, anche la
sagoma.
Le regioni esercitano la potestà legislativa
concorrente in materia edilizia nel rispetto
dei principi fondamentali della legislazione
statale desumibili dalle disposizioni
contenute nel testo unico (DPR 380/2001).
L’art. 27, c. 1, lett. d), della L.R.
11.03.2005, n. 12 prevede che “nell’ambito
degli interventi di ristrutturazione
edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e
ricostruzione parziale o totale nel rispetto
della volumetria preesistente fatte salve le
sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica”.
La norma tace in particolare in merito al
profilo della sagoma lasciando il dubbio in
merito alla sorte di questo elemento. In
considerazione del fatto che l’art. 3, comma
1, lettera d), del D.P.R. 380/2001
stabilisce che nell'ambito degli interventi
di ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione purché mantengano la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie
per l'adeguamento alla normativa
antisismica.
Occorre chiarire quindi se in caso di
demolizione e ricostruzione il rispetto della sagoma
previsto dall’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R.
380/2001 costituisca espressione di un principio generale
che orienti anche l’interpretazione della legislazione
regionale. In primo luogo occorre chiarire che all’utilizzo
a tale scopo dell’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R.
380/2001 non osta la sua disapplicazione ad opera dell’art.
103 della legge regionale 11.03.2005, n. 12, in quanto la
norma in questione è sicuramente, in tutto o in parte, norma
di principi in quanto contiene le definizioni degli
interventi edilizi, che
costituiscono l’architrave di tutto l’impianto normativo del
D.P.R. 380/2001 (vedi TAR
Abruzzo, Pescara 14.04.2005 n. 185; TAR Abruzzo, Pescara,
20.12.2002, n.
1182; TAR
Abruzzo, L’Aquila,
22.09.2008 n. 1114 in materia di
ristrutturazione edilizia).
Tali principi prevalgono sulla normativa
regionale, così come previsto dal comma 1 dell’art. 2 del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "le regioni
esercitano la potestà legislativa concorrente in materia
edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della
legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute
nel testo unico" (vedi in merito Cons. Stato, Adunanza
Plenaria, sentenza 07.04.2008 n. 2).
Il D.P.R. 380/2001 ha “positivizzato” la
distinzione degli interventi di ristrutturazione edilizia in
due tipologie principali, sottoposte a differente
disciplina:
a) le ristrutturazioni che non comportino
demolizione e ricostruzione, per le quali sono ammesse anche
modifiche di volumetria e di sagoma (c.d. intervento
conservativo);
b) le ristrutturazioni con demolizione e
ricostruzione, soggette al vincolo del rispetto delle
precedenti volumetria e sagoma (c.d. intervento
ricostruttivo).
In questo secondo caso il rispetto della
sagoma è richiesto perché, eliminati tutti gli elementi
materiali dell’edificio preesistente, la sagoma è il solo
elemento fisico che permette di individuare quel
collegamento con l’edificio abbattuto che costituisce la
ratio della qualificazione di un intervento come di
ristrutturazione edilizia.
In secondo luogo il suo ampliamento oltre i
limiti del volume e della sagoma comporterebbe il venir meno
della finalità della normativa statale e regionale, che è
quello del recupero del patrimonio esistente mediante la
liberalizzazione degli interventi sul patrimonio
immobiliare, al fine di migliorare e ammodernare i
fabbricati più vecchi e malridotti. Come chiarito dalla
giurisprudenza, infatti, l’art. 3 del D.P.R. 380/2001, c. 1,
lett. d), così come modificato dall'art.
1,
D.Lgs. 27.12.2002, n. 301, “è norma di principio ………, in
base alla sua logica ………… che è quella di fornire uno
strumento per il recupero del patrimonio esistente:
abbandonando il limite della sagoma preesistente, tale
obiettivo non verrebbe più raggiunto, nel senso che si
realizzerebbe un nuovo edificio di volume identico al
preesistente, che certo ne mantiene il carico urbanistico,
ma non ne conserva necessariamente alcuno dei valori
estetici e funzionali. Appare allora incongruo che tale
esigenza possa venire accantonata senz’altro dalla
legislazione regionale” (TAR Lombardia, Brescia,
13.05.2008 n. 504).
Ulteriori perplessità in ordine
all’ampliamento del concetto di ristrutturazione fino a
comprendervi anche le modifiche di sagoma, deriva dal regime
giuridico connesso agli interventi di ristrutturazione.
Infatti è opinione comune della giurisprudenza (Cass. civ.,
sez. II, 12.06.2001, n. 7909; TAR Calabria, Reggio Calabria,
24.01.2001, n. 36; Cons. Stato, sez. V, 14.11.1996, n. 1359;
Puglia, Bari, sez. III, 22.07.2004 n. 3210)
che per la ristrutturazione edilizia, anche mediante
ricostruzione dell'edificio demolito, restano ferme le norme
urbanistiche vigenti al tempo in cui venne rilasciato
l’originario titolo edilizio, con la conseguenza che non
sono applicabili le prescrizioni ed i vincoli imposti dagli
strumenti urbanistici sopravvenuti.
La ratio di questa disciplina tipica
della ristrutturazione edilizia è quello di favorire
l’attuazione di tutti quegli interventi migliorativi del
patrimonio edilizio esistente che lasciano inalterato il
tessuto urbanistico ed architettonico preesistente, ancorché
difformi dalle nuove norme che regolano l’attività di
trasformazione del territorio.
La modifica senza alcun limite della sagoma delle
costruzioni è chiaramente elemento che modifica fortemente
il tessuto urbano e dà vita ad una trasformazione edilizia
ed urbanistica del territorio che, secondo la legislazione
statale (art. 3, c. 1, lett. e), D.P.R. 380/2001) e
regionale (art. 27, c. 1, lett. e), L.R. 12/2005), è effetto
tipico delle nuove costruzioni e richiede che sia
disciplinato dalla normativa urbanistica ed edilizia
vigente.
E’ il caso, come quello in decisione, nel
quale si verifica un aumento del carico urbanistico. Infatti
nel progetto presentato dalla ricorrente il volume che
costituiva piano interrato doveva essere utilizzato per
creare un nuovo piano fuori terra, con conseguente aumento
del carico urbanistico. In tal caso l’aumento del peso
insediativo creato dall’immobile richiede la necessaria
valutazione dei servizi da realizzare e dell’impatto sul
tessuto urbanistico esistente, di competenza degli strumenti
di pianificazione comunale.
In quest’ottica, inoltre, il superamento
delle prescrizioni e dei vincoli imposti dagli strumenti
urbanistici sopravvenuti, costituisce un vulnus della
competenza comunale in materia urbanistica che dev’essere
interpretato restrittivamente, giustificando così, anche
sotto questo aspetto, un’interpretazione della nozione di
ristrutturazione dettata in sede regionale in senso conforme
a quella nazionale.
Deve quindi ritenersi condivisibile la
considerazione fatta in giurisprudenza (TAR Lombardia,
Brescia, 13.05.2008 n. 504) secondo la quale “il concetto
di ristrutturazione previa demolizione come intervento che
rispetta sia il volume sia la sagoma dell’edificio
preesistente è ben fermo e ripetuto di frequente in
giurisprudenza, sì che è poco credibile che il legislatore
regionale, il quale intendesse abbandonarlo per proporre una
innovazione, lo abbia fatto per implicito, senza palesare
con termini espressi tale intento”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.01.2009 n. 153). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 del
12.01.2009, "Linee guida per la
maggiorazione del contributo di costruzione
per il finanziamento di interventi estensivi
delle superfici forestali (art. 43, comma
2-bis, l.r. n. 12/2005)" (deliberazione
G.R. 22.12.2008 n. 8757 - link a
www.infopoint.it). |
ANNO 2008 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, l'interpretazione autentica
circa la portata del termine
"ristrutturazione edilizia" di cui all'art.
27, comma 1, lett. d), della L.R. n. 12/2005
in relazione alla possibilità -o meno- di
demolire/ricostruire sullo stesso sedime
(Regione Lombardia, Direzione Generale
Territorio e Urbanistica,
nota 01.12.2008 n.
23187 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, Giurisprudenza e legge sul
governo del territorio: oscillazioni
interpretative
(link
a
www.www.lavatellilatorraca.it). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44
del 27.10.2008, "Costituzione
dell'Osservatorio permanente della
programmazione territoriale, articolo 5
della legge regionale 11 marzo 2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio)"
(deliberazione
C.R. 30.09.2008 n. 703 - link
a www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, 4° suppl. straord. al
n. 43 del 24.10.2008, "Approvazione del
2° bando di finanziamento 2008 per la
«Produzione di basi cartografiche attraverso
Data base topografici» ai sensi della l.r.
12/2005"
(decreto
D.U.O. 14.10.2008 n. 11321 - link
a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Zona agricola - Permesso di
costruire - Rilascio - Normativa - Ratio.
2. Zona agricola - Permesso di costruire -
Rilascio - Azienda Agricola - Esistenza -
Interpretazione.
1.
La ratio delle disposizioni che regolano il
rilascio del permesso di costruire nelle
zone agricole è quella di far sì che
l'edificazione in tali zone venga accordata
solo all'imprenditore agricolo e per la sola
realizzazione di opere funzionali alla
conduzione del fondo o comunque strumentali
all'attività produttiva. Tale funzionalità
all'attività agricola è dunque il parametro
base con cui interpretare l'obbligo del
Sindaco di verificare l'effettiva esistenza
ed il funzionamento dell'azienda agricola.
2.
L'accertamento da parte del Sindaco
dell'effettiva esistenza e funzionamento
dell'attività agricola di cui all'art. 3
della legge regionale n. 93/1980, le cui
disposizioni sono oggi confluite nell'art.
60 della legge regionale n. 12/2005 deve
soffermarsi sull'effettiva destinazione
funzionale dei manufatti progettati
all'attività di produzione agricola,
indipendentemente dalla preesistenza
sull'area di un'azienda agricola, essendo
sufficiente l'esistenza dell'azienda
agricola sia pure agli inizi (massima tratta
da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II, sentenza 17.10.2008 n. 5151). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia serie ordinaria n. 42 del
13.10.2008 "Determinazioni in merito al
Piano di Governo del Territorio dei comuni
con popolazione compresa tra 2001 e 15000
abitanti (art. 7, comma 3, l.r. n. 12/2005"
(deliberazione
G.R. 01.10.2008 n. 8138 - link
a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 40 del
29.09.2008, "Criteri per la definizione
degli ambiti destinati all'attività agricola
di interesse strategico dei Piani
Territoriali di Coordinamento provinciale
(comma 4 dell'art. 15 della l.r. 12/2005) -
Approvazione"
(deliberazione
G.R. 19.09.2008 n. 8059). |
URBANISTICA: Le
disposizioni lombarde in materia agricola sonno immediatamente
prevalenti sulla normativa comunale.
Le disposizioni della legge regionale in materia di edificazione in zone
agricole sono immediatamente prevalenti sugli strumenti urbanistici
comunali (nonché sui regolamenti edilizi e sui regolamenti di igiene).
La clausola di prevalenza è espressamente prevista dall’art. 4 della LR
93/1980 e dall’art. 61 della LR 12/2005. Attraverso questa clausola è
garantita l’uniformità dell’utilizzazione agricola del territorio su
base regionale ed è assicurato un trattamento paritetico ai soggetti con
la qualifica di imprenditore agricolo. La finalità della norma è di
permettere l’insediamento di strutture produttive e di abitazioni
residenziali in forma omogenea senza gli effetti antieconomici derivanti
dalla frammentazione della disciplina a livello comunale. Per questo
motivo la disciplina di legge non solo si sostituisce (senza bisogno di
recepimento) alle disposizioni contenute negli strumenti urbanistici
comunali esistenti ma non accetta neppure di essere derogata da uno
strumento urbanistico comunale adottato o approvato successivamente. Le
restrizioni che possono essere introdotte in ambito locale sono
unicamente quelle giustificate da esigenze di tutela ambientale
accertate nella programmazione sovracomunale e in particolare nel PTCP
(v. TAR Brescia 15.02.2007 n. 170).
Il passaggio dai PRG ai PGT stabilito dalla LR 12/2005 non ha cambiato
il significato della clausola di prevalenza, che opera nei confronti di
qualunque strumento urbanistico comunale, indipendentemente dalla
denominazione, dalla tipologia e dal tempo di approvazione. Una conferma
può essere rinvenuta nell’art. 62-bis comma 1 della stessa LR 12/2005,
introdotto dall'art. 1, comma 1, lett. r), della LR 14.07.2006 n. 12, il
quale stabilisce che fino all’approvazione dei PGT la disciplina
legislativa regionale (compresa evidentemente la clausola di prevalenza)
si intende riferita alle aree classificate dagli strumenti urbanistici
comunali vigenti come zone agricole (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 25.07.2008 n. 839 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto riguarda la presentazione della DIA si
ritiene che l’espressione utilizzata dall’art. 42, comma 1,
della LR 12/2005 (“il proprietario dell'immobile o chi abbia
titolo per presentare la denuncia di inizio attività”)
individui oltre al proprietario altre due categorie di
soggetti.
In primo luogo coloro che dispongono di un diritto reale
diverso dalla proprietà che conferisca il potere di
modificare l’immobile attraverso interventi edilizi. Accanto
a questi si possono considerare legittimati quanti
dispongano di un diritto di natura personale da cui derivino
aspettative edificatorie.
La promessa di vendita, e in generale il preliminare di
compravendita, costituiscono sotto questo profilo titoli
idonei, purché non vi sia una clausola con un divieto
espresso che riservi al promittente venditore la facoltà di
definire le questioni edilizie in attesa del contratto
definitivo.
---------------
8. Con il primo motivo di ricorso viene in rilievo la
questione della legittimazione del geom. Fr.Da. a presentare
la DIA.
Questo problema è alla base sia della censura del
ricorrente, che lamenta la violazione dell’art. 42, comma 1,
della LR 12/2005, sia dell’eccezione di inammissibilità
formulata dai controinteressati, i quali sostengono che il
ricorso avrebbe dovuto essere instaurato nei confronti della
società Ed. 90 snc.
9. Per quanto riguarda la presentazione della DIA si ritiene
che l’espressione utilizzata dall’art. 42, comma 1, della LR
12/2005 (“il proprietario dell'immobile o chi abbia
titolo per presentare la denuncia di inizio attività”)
individui oltre al proprietario altre due categorie di
soggetti.
In primo luogo coloro che dispongono di un diritto reale
diverso dalla proprietà che conferisca il potere di
modificare l’immobile attraverso interventi edilizi. Accanto
a questi si possono considerare legittimati quanti
dispongano di un diritto di natura personale da cui derivino
aspettative edificatorie. La promessa di vendita, e in
generale il preliminare di compravendita, costituiscono
sotto questo profilo titoli idonei (v. CS Sez. VI 03.12.2004
n. 7847), purché non vi sia una clausola con un divieto
espresso che riservi al promittente venditore la facoltà di
definire le questioni edilizie in attesa del contratto
definitivo.
Nel caso in esame la promessa di vendita contiene tra i
patti speciali una dichiarazione di disponibilità del
promittente venditore a “firmare l’eventuale
documentazione necessaria all’inoltro della pratica edilizia
al Comune” e il consenso all’effettuazione di
misurazioni e rilievi da parte del promissario acquirente.
Queste formule possono essere interpretate come
manifestazioni della volontà di trasferire immediatamente al
promissario acquirente ogni potere circa l’edificazione: del
resto la vendita di un lotto edificabile ha come finalità
intrinseca, nota alle parti, proprio la realizzazione di un
intervento edilizio.
Di conseguenza la disponibilità a firmare la documentazione
va intesa come impegno del promittente venditore a favorire
una rapida conclusione della procedura edilizia: a tale
scopo il promittente venditore si impegna a presentare a
proprio nome (o a controfirmare) una richiesta di permesso
di costruire (o una DIA) nell’eventualità che
l’amministrazione non accetti una simile richiesta formulata
dal solo promissario acquirente.
In conclusione non vi è nella promessa di vendita alcun
elemento che privi il promissario acquirente della
legittimazione a presentare una DIA. Occorre poi
sottolineare, trattandosi di promessa per persona da
nominare, che qualora l’effettivo acquirente sia un terzo è
comunque applicabile l’istituto della ratifica ex art. 2032
cc. e conseguentemente il nuovo proprietario può consolidare
a proprio vantaggio gli effetti del titolo edificatorio. In
concreto la funzione della ratifica è stata svolta dalla
volturazione della DIA su richiesta della società Ed. 90 snc
(v. sopra al punto 3)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.07.2008 n. 830 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: DIA - Presentazione - Categorie di soggetti
- Legittimità.
Ai fini della presentazione della DIA, la
L.r. n. 12/2005 individua oltre al
proprietario altre categorie di soggetti:
coloro che dispongono di un diritto reale
diverso dalla proprietà che conferisca il
potere di modificare l'immobile attraverso
interventi edilizi; quanti dispongono di un
diritto di natura personale da cui derivino
aspettative edificatorie. La promessa di
vendita, e in generale il preliminare di
compravendita, costituiscono titoli idonei
salvo clausola con divieto espresso che
riservi al promettente venditore la facoltà
di definire le questioni edilizie in attesa
del contratto definitivo. (CDS sez. VI, n.
7847/2004)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 19.07.2008 n.
830 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: W.
Fumagalli,
Lombardia, la nuova riforma della legge per il Governo del territorio
(AL n. 6/2008). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 24 del 12.06.2008, "Aggiornamento
dei «Criteri ed indirizzi per la definizione della componente geologica,
idrogeologica e sismica del Piano di Governo del Territorio, in
attuazione dell'art. 57, comma 1, della l.r. 11.03.2005, n. 12»,
approvati con d.g.r. 22.12.2005, n. 8/1566"
(deliberazione
G.R. 28.05.2008 n. 7374
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 03.06.2008, "Comunicato
congiunto Direzione Generale Territorio e Urbanistica e Direzione
Centrale Affari Istituzionali e Legislativo - Modalità di
pubblicazione dell'avviso di approvazione dei PGT" (comunicato
regionale 26.05.2008 n. 107
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 03.06.2008, "Modalità per
il finanziamento agli Enti locali per lo sviluppo del Data base
topografico, a supporto del SIT integrato, per l'anno 2008 (art. 3, l.r.
12/2005)" (deliberazione
G.R. 19.05.2008 n. 7306
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche in Lombardia, dopo la l.r. n. 12/2005,
la demolizione/ricostruzione di un
fabbricato (intesa come ristrutturazione
edilizia) deve rispettare la sagoma
esistente.
L'art. 103 della l.r. lombarda n. 12/2005
non può disapplicare l'art. 3
del T.U. dell'edilizia per cui le disposizioni dell’art.
27 della l.r. prevarrebbero sull’art. 3 del
T.U. nazionale: la legge regionale, pur dopo
la riforma del titolo V parte II della
Costituzione, incontra pur sempre una serie
di limiti rispetto alla legge statale, e non
può derogarvi a piacimento. Il concetto di
ristrutturazione delimitato dalla legge
nazionale è una norma di principio ai sensi
dell’art. 117 Cost..
Il Collegio è dell’avviso che di norma di
principio si debba parlare, in base alla sua
logica come sopra ricostruita, che è quella
di fornire uno strumento per il recupero del
patrimonio esistente: abbandonando il limite
della sagoma preesistente, tale obiettivo
non verrebbe più raggiunto, nel senso che si
realizzerebbe un nuovo edificio di volume
identico al preesistente, che certo ne
mantiene il carico urbanistico, ma non ne
conserva necessariamente alcuno dei valori
estetici e funzionali. Appare allora
incongruo che tale esigenza possa venire
accantonata senz’altro dalla legislazione
regionale. In tali termini, seguendo il
costante insegnamento della Corte
costituzionale, per cui sin quando possibile
una legge ordinaria va interpretata in modo
conforme a Costituzione, si deve concludere
che il limite della sagoma, attinente ad un
principio, nella norma lombarda che non lo
prevede espressamente, vada ricavato per via
di interpretazione logica e sistematica
Nella normativa nazionale, gli interventi di
ristrutturazione edilizia sono definiti
dall’art. 3, comma 1, lettera d), del T.U.
06.06.2001 n. 380, come “interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che
possono portare ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o
la sostituzione di alcuni elementi
costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti”. La norma poi
prosegue affermando che “nell'ambito
degli interventi di ristrutturazione
edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria e
sagoma di quello preesistente, fatte salve
le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica.”
La norma in questione, peraltro di per sé
non oscura, è interpretata dalla
giurisprudenza costante nel senso che per
aversi la ristrutturazione contemplata dalla
sua seconda parte, ovvero sia la
ristrutturazione che passa per la previa
demolizione dell’esistente, non si possa
prescindere dal rispetto, nella successiva
ricostruzione del manufatto, sia della
volumetria sia della sagoma dell’edificio
preesistente, osservandosi che in caso
contrario la distinzione fra
ristrutturazione e costruzione nuova
svanirebbe di fatto, potendosi altrimenti
definire ristrutturazione qualsiasi edificio
nuovo sorto là dove preesisteva qualunque
altro edificio con lo stesso volume (C.d.S.
sez. IV 22.03.2007 n. 1388 e 16.03.2007 n.
1276, nonché C.d.S. sez. V 19.02.2007 n.
827, per non citare che le più recenti).
La ragione ultima di tale scelta legislativa
è spiegata, in termini che il Collegio
condivide, nell’ampia motivazione di C.d.S.
sez. V 30.08.2006 n. 5061, ove si ricorda
che antecedente storico dell’art. 3 citato è
l’art. 31 della l. 457/1978, volta a
disciplinare nel loro complesso gli “interventi
di recupero del patrimonio edilizio
esistente”: in tale contesto, la
demolizione rappresenta un caso limite,
quello in cui per recuperare un dato
edificio, compromesso in modo serio, è
necessario abbatterlo e rifarlo dalle
fondamenta; è quindi intesa come uno
strumento, se pure riservato a casi
particolari, per raggiungere il fine di
riportare l’esistente alla primitiva
condizione, il che ovviamente non si avrebbe
se il nuovo edificio avesse una sagoma
diversa.
Per completezza si osserva come l’art. 3
citato preveda alla lettera d) due distinte
ipotesi di ristrutturazione: quella appena
descritta, per la quale si demolisce, e
quella prevista dalla prima parte della
norma, che può comportare anche
l’inserimento di nuovi volumi, ed anche
modifiche della sagoma che ad essi possono
ben conseguire, ma dall’esistente non
prescinde, perché lo altera senza
distruggerlo. Ciò posto, è ben comprensibile
come il successivo art. 10 del T.U.
distingua, prevedendo per taluni interventi
di ristrutturazione, fra i quali appunto
quelli che modificano il volume, il più
oneroso titolo abilitativo costituito dal
permesso di costruire. Ciò tuttavia, come
correttamente osservato dalla difesa del
Comune, non comporta una contraddizione in
termini definitori, ma solo una diversa
disciplina dei titoli abilitativi
all’interno di una stessa categoria, che ad
altri fini, tra i quali la stessa
possibilità di procedervi a norma del Piano
che qui rileva, rimane unitaria.
In tale contesto, l’art. 27, comma 1, della
l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12 definisce,
così come fa l’art. 3 del T.U. nazionale, i
vari interventi edilizi, con norme che, ai
sensi del successivo art. 103, si dichiarano
prevalenti sulla normativa nazionale, e alla
lettera d) considera interventi di
ristrutturazione edilizia “gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che
possono portare ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o
la sostituzione di alcuni elementi
costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia sono
ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione parziale o
totale nel rispetto della volumetria
preesistente fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica.”
La lettera della norma differisce da quella
dell’art. 3 perché nella seconda parte,
sempre relativa alla ristrutturazione che
passa per la demolizione, di rispetto della
sagoma non si parla. Si tratta allora di
stabilire se il limite in parola sia
scomparso, e la ristrutturazione previa
demolizione in Lombardia sia tale sol che
sia rispettato il volume preesistente, come
sostiene il ricorrente, ovvero se il limite
rimanga implicito, e vada desunto in via
interpretativa, come ritiene il Comune.
Il Collegio è per la seconda alternativa. Si
osserva preliminarmente, in termini
generali, che il concetto di
ristrutturazione previa demolizione come
intervento che rispetta sia il volume sia la
sagoma dell’edificio preesistente è ben
fermo e ripetuto di frequente in
giurisprudenza, sì che è poco credibile che
il legislatore regionale, il quale
intendesse abbandonarlo per proporre una
innovazione, lo abbia fatto per implicito,
senza palesare con termini espressi tale
intento.
Va poi osservato che non è decisivo sul
punto l’art. 103 citato della stessa l.r.,
per cui le disposizioni dell’art. 27
prevarrebbero sull’art. 3 del T.U.
nazionale, comportandone la disapplicazione:
la legge regionale, pur dopo la riforma del
titolo V parte II della Costituzione,
incontra pur sempre una serie di limiti
rispetto alla legge statale, e non può
derogarvi a piacimento. Occorre pertanto
chiedersi se una deroga consimile sia o non
sia consentita dalla Costituzione, ovvero in
termini più espliciti se il concetto di
ristrutturazione delimitato dalla legge
nazionale sia o non sia una norma di
principio ai sensi dell’art. 117 Cost.
Il Collegio è dell’avviso che di norma di
principio si debba parlare, in base alla sua
logica come sopra ricostruita, che è quella
di fornire uno strumento per il recupero del
patrimonio esistente: abbandonando il limite
della sagoma preesistente, tale obiettivo
non verrebbe più raggiunto, nel senso che si
realizzerebbe un nuovo edificio di volume
identico al preesistente, che certo ne
mantiene il carico urbanistico, ma non ne
conserva necessariamente alcuno dei valori
estetici e funzionali. Appare allora
incongruo che tale esigenza possa venire
accantonata senz’altro dalla legislazione
regionale. In tali termini, seguendo il
costante insegnamento della Corte
costituzionale, per cui sin quando possibile
una legge ordinaria va interpretata in modo
conforme a Costituzione, si deve concludere
che il limite della sagoma, attinente ad un
principio, nella norma lombarda che non lo
prevede espressamente, vada ricavato per via
di interpretazione logica e sistematica (TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 13.05.2008 n. 504 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, non rientra
nell'accezione di "ristrutturazione
edilizia" la demolizione e ricostruzione di
un fabbricato con traslazione dell'area di
sedime.
Una ristrutturazione realizzata con
traslazione totale dell’area di sedime in un
sito completamente diverso è di dubbia
legittimità, essendo il concetto di
ristrutturazione ancorato ad una
preesistenza in situ.
---------------
...
per
l’annullamento dei provvedimenti 28.06.2007,
prot. 6196 [ricorso] e 08.01.2008 prot. n.
84 [motivi aggiunti], con cui il Comune ha
negato il permesso di costruire un’edificio
da destinare a residenza dell’imprenditore
agricolo; e per la condanna del Comune al
risarcimento del danno.
...
Premesso che:
- il diniego impugnato col ricorso introduttivo è stato rimosso dal
Comune nell’esercizio dei poteri di
autotutela;
- il diniego impugnato con motivi aggiunti è
motivato per relationem al preavviso
di diniego: il quale rileva, in primo luogo,
che l’art. 59, secondo comma, della legge
regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per il
governo del territorio) ammette la
costruzione in zona agricola di nuovi
edifici residenziali per l’imprenditore a
agricolo e i dipendenti dell’azienda “qualora
le esigenze abitative non possano essere
soddisfatte attraverso interventi sul
patrimonio edilizio esistente”, e che la
residenza dell’imprenditore, nel caso in
esame, potrebbe essere localizzata
nell’immobile denominato Cascina Guastone,
suscettibile di ristrutturazione anche con
interventi di demolizione e ricostruzione;
in secondo luogo, che la diversa area
interessata dal progetto edilizio (sita nei
pressi della Cascina Merlo) sarebbe compresa
tra gli ambiti agricoli di pregio da non
sottrarre alla coltivazione a norma del PTCP
(piano territoriale di coordinamento
provinciale);
Considerato che sul secondo profilo della
motivazione non sono rinvenibili specifiche
censure e che, quanto al primo profilo della
motivazione, una ristrutturazione realizzata
con traslazione totale dell’area di sedime
in un sito completamente diverso (secondo la
tesi svolta nel settimo motivo di
ricorso) è di dubbia legittimità, essendo il
concetto di ristrutturazione ancorato ad una
preesistenza in situ (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 09.04.2008
n. 547). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, 3° suppl. straord. al n.
17 del 24.04.2008, "Testo coordinato
della l.r. 11 marzo 2005, n. 12 «Legge per
il governo del territorio»"
(testo
coordinato L.R. 11.03.2005 n. 12
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 17 del
22.04.2008, "Aggiornamento delle
specifiche tecniche in materia di Data base
topografico a supporto del Sistema
Informativo Territoriale Integrato"
(deliberazione
G.R. 20.02.2008 n. 6650
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 17 del
21.04.2008, "Determinazioni in merito ai
contributi ai Comuni per la formazione dei
Piani di Governo del Territorio (l.r. n.
12/2005)"
(deliberazione
G.R. 09.04.2008 n. 7050
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 16 del
14.04.2008, "Proroga al 31.01.2009
dei termini per la consegna della
documentazione necessaria per l'erogazione
del saldo della quota di contributo concessa
ai Comuni per la formazione dei Piani di
Governo del Territorio e dei documenti di
inquadramento ai sensi della d.g.r. n. 2323
del 05.04.2006"
(decreto
D.S. 27.03.2008 n. 3053
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oneri concessori - Parificazione
degli oneri dovuti in relazione agli
interventi di ristrutturazione edilizia
mediante demolizione e ricostruzione con
quelli inerenti agli interventi edilizi di
nuova costruzione - Possibilità - Non
sussiste.
E' irragionevole la parificazione degli
oneri dovuti in relazione agli interventi di
ristrutturazione edilizia mediante
demolizione e ricostruzione, con quelli
dovuti in relazione agli interventi edilizi
di nuova costruzione, dal momento che nelle
aree in cui si intendono realizzare
interventi di nuova costruzione è necessario
prevedere la dotazione, ovvero il
potenziamento (ove già esistenti), delle
opere di urbanizzazione primaria e
secondaria a servizio delle opere edilizie
prima non esistenti, al contrario dei casi
di ristrutturazione edilizia (anche previa
demolizione), in cui si tratta di interventi
su una volumetria comunque già presente
nell'area interessata e già dotata (si
suppone) delle relative opere di
urbanizzazione. Né a favore di tale
parificazione può essere invocato il
disposto del comma 10 dell'art. 44 della L.R.
n. 12/2005, il quale sebbene preveda che per
gli interventi di ristrutturazione non
comportanti demolizione e ricostruzione
"gli oneri di urbanizzazione, se dovuti,
sono quelli riguardanti gli interventi di
nuova costruzione, ridotti della metà",
non consente tuttavia di accomunare nel
medesimo regime tariffario le opere di
ristrutturazione previa demolizione a quelle
di nuova costruzione
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
08.04.2008 n.
928
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 12 del
17.03.2008, "Ulteriori modifiche e
integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio)"
(L.R.
14.03.2008 n. 4
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA:
Procedimenti di Valutazione Ambientale
Strategica. Coinvolgimento Soprintendenze di
settore
(Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, Direzione Regionale per i Beni
Culturali e Paesaggistici della Lombardia,
nota 18.03.2008 n.
3787 di prot.). |
URBANISTICA: Raccordo
verifica Valutazione Ambientale Strategica (VAS)
e Valutazione di Incidenza (VIC) sugli atti
di pianificazione
(Regione Lombardia, Direzione Generale
Qualità dell'Ambiente,
nota 15.01.2008 n. 1383 di prot.). |
ANNO 2007 |
|
EDILIZIA PRIVATA: PROCEDIMENTO
PER IL RILASCIO DI PERMESSO DI COSTRUIRE EX L.R. LOMBARDIA
N. 12/2005 - ART. 38 (link a www.studiospallino.it). |
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 13.08.2007, "Approvazione
del bando di finanziamento per l'anno 2007: «Formazione dei Piani di
Governo del Territorio e Strumenti di Programmazione» ai sensi della
legge regionale 11.03.2005 n. 12" (decreto
Dirigente U.O. 02.08.2007 n. 8921
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 30.07.2007, "Criteri per
l'erogazione di contributi agli Enti Locali per la formazione dei Piani
di Governo del Territorio e strumenti di programmazione con valenza
territoriale (l.r. n. 12/2005)" (deliberazione
G.R. 18.07.2007 n. 5126
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 09.07.2007, "Approvazione
del bando di finanziamento 2007: «Produzione di basi cartografiche
attraverso Data base topografici» ai sensi della l.r. 12/2005" (decreto
D.U.O. 26.06.2007 n. 6942
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 02.07.2007, "Definizione dei
criteri di finanziamento agli Enti locali per lo sviluppo del Data base
topografico, a supporto del SIT integrato per l'anno 2007 (in attuazione
dell'art. 3 della l.r. 12/2005)" (deliberazione
G.R. 15.06.2007 n. 4937
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 30.04.2007 - pag. 1264, "Criteri
e modalità per l'erogazione agli enti locali di contributi per
l'attuazione della l.r. 11.03.2005 n. 12, «"Legge per il Governo del
Territorio», art. 24" (deliberazione
G.R. 18.04.2007 n. 4589
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA -
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 02.04.2007, "Indirizzi
generali per la valutazione di piani e programmi (articolo 4,
comma 1, l.r. 11.03.2005, n. 12)" (deliberazione
C.R. 13.03.2007 n. 351). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 3 del 16.01.2007, "Aggiornamento
delle specifiche tecniche in materia di Database Topografici e adozione
di nuove specifiche in materia di Ortofoto digitali e repertorio dei
dati territoriali a supporto del Sistema Informativo Territoriale
integrato (ll.rr. 29/1979 e 12/2005)" (deliberazione
G.R. 20.12.2006 n. 3879
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.2007 - pag. 189, "Indirizzi
inerenti l'applicazione di riduzione degli oneri di urbanizzazione in
relazione a interventi di edilizia bioclimatica o finalizzati al
risparmio energetico (l.r. n. 12/2005 art. 44)" (deliberazione
G.R. 27.12.2006 n. 3951
- link a www.infopoint.it). |
ANNO 2006 |
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EDILIZIA
PRIVATA: Aree
destinate all'agricoltura - Art. 62 della L.R. n. 12/2005 -
Assenza di PGT - Applicazione PRG.
Sebbene l'art. 62 della L.R. n. 12/2005 disponga che
gli interventi di ristrutturazione e ampliamento da
realizzarsi in zone destinate all'agricoltura non sono
soggetti al titolo III della predetta legge, titolo recante
la disciplina in materia di edificazione nelle aree
destinate all'agricoltura, ma sono regolati dal PGT, in
assenza di quest'ultimo, si applicano le norme del PRG che
nel caso di specie non consentono tali tipi di interventi
edilizi (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
20.12.2006 n. 3014
- massima tratta da www.solom.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: W.
Fumagalli,
Il nuovo testo
della Legge per il Governo del Territorio
(AL n. 11/2006) |
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia 3° suppl. straord. al n. 47 del 24.11.2006 "Approvazione
delle linee guida per la realizzazione degli strumenti del SIT integrato
per la pianificazione locale ai sensi dell'art. 3 della l.r. 12/2005"
(decreto
Dirigente U.O. 10.11.2006 n. 12520
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica.
Sottoscritto in data 04.08.2006 l'accordo tra Regione Lombardia e
Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Semplificazione della documentazione per le istanze di autorizzazione (link
a www.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 30 del 25.07.2006, "Testo
coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del
territorio" (a seguito delle modifiche apportate dalle ll.rr. 27.12.2005 n. 20,
03.03.2006 n. 6, 14.07.2006 n. 12 - link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. ord. al n. 29 del 21.07.2006, "ERRATA
CORRIGE N. 29/I-S.O. 2006
- L.R. 14.07.2006, n. 12 «Modifiche e integrazioni alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio»,
pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia n. 29 I
Supplemento Ordinario del 18.07.2006" (link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 29 del 18.07.2006, "Modifiche
e integrazioni alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 «Legge per il
governo del territorio»" (L.R.
14.07.2006 n. 12
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 25 del 20.06.2006, "Approvazione
del bando di finanziamento per la «Produzione di basi cartografiche
attraverso Data base topografici» ai sensi della l.r. 12/2005" (decreto
Dirigente U.O. 08.06.2006 n. 6451
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 18.04.2006, "Criteri
per le misure di sostegno finanziario agli enti locali in attuazione
della l.r. n. 12 «Legge per il governo del territorio»" (deliberazione
G.R. 05.04.2006 n. 2323
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia,
3° suppl. straord. al n. 13 del 31.03.2006, "Criteri e procedure
per l'esercizio delle funzioni amministrative in materia di tutela dei
beni paesaggistici in attuazione della legge regionale 11.03.2005, n.
12"
(deliberazione
G.R. 15.03.2006 n. 2121
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 10 del 07.03.2006, "Norme per
l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa" (L.R.
03.03.2006 n. 6
- link a www.infopoint.it).
La suddetta legge aggiunge l'art. 98-bis alla l.r. n. 12/2005 (Legge per
il governo del territorio). |
EDILIZIA PRIVATA: Primi
indirizzi interpretativi - repertorio di pareri
sulla nuova legge urbanistica della Regione Lombardia.
I pareri giuridici (espressi in forma di massima) sono frutto
dell'attività di chiarimento e di interpretazione svolta fin
dall'entrata in vigore della legge regionale per il governo del
territorio (31.03.2005), in riferimento ai quesiti sull'applicazione
della l.r. 12 formulati dagli Enti locali.
Con questa rassegna l'Assessorato regionale al Territorio e Urbanistica
intende offrire un primo aiuto alla lettura della l.r. 12 agli Enti
locali e agli operatori del settore (link a www.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 3° suppl. straord. al n. 5 del 03.02.2006, "Testo
coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del
territorio», modificata dalla l.r. 27.12.2005, n. 20 «Modifiche
alla l.r. 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), in
materia di recupero abitativo dei sottotetti esistenti»" (testo
coordinato L.R. 11.03.2005 n. 12
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 4 del 26.01.2006 "Modalità
per la pianificazione comunale (l.r. 12/2005, art. 7)" (deliberazione
G.R. 29.12.2005 n. 1681
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 3° suppl. straord. al n. 3 del 19.01.2006 "Criteri
ed indirizzi per la definizione della componente geologica (GEO),
idrogeologica e sismica del Piano di Governo del Territorio, in
attuazione dell'articolo 57, comma 1, della l.r. 11.03.2005, n. 12"
(deliberazione
G.R. 22.12.2005 n. 1566
- link a www.infopoint.it). |
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 16.01.2006, pag.
265, "Modalità di coordinamento ed integrazione delle informazioni
per lo sviluppo del Sistema Informativo Territoriale integrato (SIT)
(L.R 2005 n. 12, art. 3)" (deliberazione
di G.R. 22.12.2005 n. 1562
- link a www.infopoint.it). |
ANNO 2005 |
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EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia 1° suppl. ord. al n. 52 del 30.12.2005 "Modifiche
alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), in materia di recupero abitativo dei sottotetti esistenti"
(L.R.
27.12.2005 n. 20
- link a www.infopoint.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
W. Fumagalli,
I Piani
regolatori vanno (un po’ per volta) in pensione
(AL n. 1-2/2006) |
EDILIZIA PRIVATA:
W. Fumagalli,
Le attrezzature
religiose
(AL n. 11/2005). |
URBANISTICA: W.
Fumagalli,
Perequazione,
compensazione e incentivazione urbanistiche (AL n. 8-9/2005). |
URBANISTICA: L.
Spallino, Perequazione, compensazione e incentivazione nella
l.r. Lombardia 12/2005 (articolo
13.04.2005
- link a www.studiospallino.it). |
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