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dossier L.R. 11.03.2005 N. 12

per approfondimenti vedi anche:

L.R. 11.03.2005 n. 12
* * *
P.G.T. - Piani di Governo del Territorio

ANNO 2022
marzo 2022

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Standard edilizi, al vaglio di costituzionalità la deroga «senza limiti» introdotta dal decreto "Fare".
Il Consiglio di Stato rimette alla Consulta l'articolo 2-bis del testo unico edilizia introdotto dal Dl n. 69/2013.
Al vaglio di costituzionalità la possibilità di disapplicare le norme del decreto ministeriale 1444 sugli standard, in seguito alla norma prevista del decreto legge n. 69 del 2013 (cosiddetto decreto "fare") che ha aggiunto l'articolo 2-bis al testo unico edilizia.

Lo ha deciso la IV Sez. del Consiglio di Stato con l'ordinanza 17.03.2022 n. 1949 di rimessione alla Consulta.
La norma innovativa del Testo unico è stata concepita con l'obiettivo di superare la rigida applicazione degli standard edilizi -incluso il rispetto delle distanze minime tra gli edifici- che rappresentano una necessaria tutela nei contesti urbani di espansione edilizia ma allo stesso tempo un forte vincolo in quelli in cui si interviene sul costruito.
All'epoca, il governo Letta ha voluto dare una risposta alle pressanti sollecitazioni degli operatori varando il decreto legge "fare" con molte altre norme di snellimento procedurale e normativo, sia in materia di amministrazione pubblica/urbanistica, sia in materia di gare e lavori pubblici.
Nel corposo e variegato Dl n. 69/2013, approvato nel giugno 2013, ha trovato spazio anche il nuovo articolo 2-bis inserito nel Dpr 380/2001, secondo il quale «ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».
Il punto controverso
Il punto controverso -va sottolineato- non è quello del rispetto dei limiti minimi sulle distanze, sul quale la Corte Costituzionale si è già pronunciata confermando l'obbligo di rispettare i principi statali, riconosciuti come «inderogabili in quanto afferenti alla materia dell'ordinamento civile», e in quanto tali di esclusiva competenza statale.
In questo caso, la questione controversa resta nell'ambito del governo del territorio, materia di legislazione concorrente, che dà potere di legiferare alla Regione, nel rispetto delle norme di principio fissate dallo Stato. La Lombardia è tra le regioni che ha previsto la disapplicazione della dotazione di standard indicata nel Dm 1444 (salvo, come detto, per quanto riguarda i limiti sulle distanze), con una norma inserita nella legge regionale 12/2005 (articolo 103, comma 1-bis).
Il caso oggetto del contenzioso ha messo in evidenza quello che, visto dalla prospettiva dei giudici, è apparso una sorta di vulnus, tale da mettere la norma statale a rischio di anticostituzionalità.
Il "vulnus" che apre al rischio di incostituzionalità
Il motivo, spiegano i giudici della Quarta Sezione di Palazzo Spada, è che la norma introdotta nel 2013, «intervenendo in materia di competenza concorrente senza porre alcun confine di principio al potere di deroga attribuito a tutte le regioni rispetto alle preesistenti norme statali, senza assolvere alla funzione propria attribuita dalla Costituzione allo Stato di individuare i principi, così rendendo certamente possibili legislazioni regionali molto diverse tra di loro, contrasterebbe con l'art. 117, terzo comma» della Costituzione.
La disapplicazione degli standard, come operata dalla regione Lombardia, lascia infatti aperta la possibilità di prevedere un diverso valore degli standard sia inferiore ai limiti del Dm 1444, sia superiore. Di fatto, questo si traduce nella possibilità di «poter arrivare ad annullarne la previsione, in violazione dell'articolo 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».
Nel caso specifico, relativo a quello di un comune della Lombardia, l'appellante ha prospettato due possibilità in egual misura paradossali, in quanto il comune potrebbe in teoria ridurre lo standard all'1%, violando il precetto della buona amministrazione, sia, all'opposto, imporre uno standard del 99%, «determinando una situazione para-espropriativa».
Si torna alla legge del 1942
La prospettiva di una tale deregulation -cui corrisponde una potenziale evidente difformità di trattamento sul territorio- spinge il ragionamento dei giudici a tornare alla norma statale di riferimento, cioè la legge urbanistica del '42.
«Può dunque ritenersi -si legge nell'ordinanza al punto 9.3- posto che nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono comma dell'articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l'esigenza che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali».
È pertanto inaccettabile -prosegue il ragionamento dei giudici- che la modifica introdotta nel Testo Unico cancelli la «necessità di assicurare una quota minima di infrastrutture e aree per servizi pubblici che sia la stessa sull'intero territorio nazionale».
Lo stato fissi i limiti, alle regioni la scelta di rafforzarli
L'ordinanza conclude richiamando l'importanza del ruolo del legislatore nazionale.
«In definitiva -si legge al punto 10.1 dell'ordinanza- pur in un quadro costituzionale e legislativo caratterizzato dai principi di sussidiarietà verticale e di prossimità territoriale, in ragione dei quali la regolazione dell'assetto del territorio è rimessa quanto più possibile ai livelli di governo più vicini alle comunità di riferimento, deve ritenersi che la determinazione delle dotazioni infrastrutturali pubbliche o di interesse generale resti riservata al legislatore statale, in quanto ragionevolmente riconducibile all'ambito delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali; in tale prospettiva, al legislatore statale spetta non soltanto individuare i principi fondamentali della materia, sibbene fissare i livelli minimi delle predette prestazioni, rispetto ai quali le normative regionali potrebbero intervenire esclusivamente in senso "rafforzativo"».
«Ciò peraltro -ci tengono a chiarire i giudici- non comporta la totale obliterazione delle competenze legislative regionali, atteso che altro è la determinazione di livelli essenziali (minimi), altro la regolamentazione, tanto in termini quantitativi che qualitativi, delle dotazioni di standard, rispetto alla quale ultima –una volta garantito il rispetto della normativa statale vigente– la competenza regionale (che dovrebbe comunque ritenersi, ratione materiae, comunque di tipo concorrente) potrebbe tornare in gioco».
Le conseguenze dell'incostituzionalità
Cosa succede se la Corte Costituzionale dovesse dichiarare incostituzionale l'articolo 2-bis del 380?
Nel caso specifico l'illegittimità costituzionale travolgerebbe inevitabilmente anche la norma della regione Lombardia (e cioè l'articolo 103, comma 1-bis, della legge 12/2005): «la disposizione -si legge nell'ordinanza- andrebbe a sua volta dichiarata incostituzionale in via consequenziale». La parola passa alla Consulta (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 18.03.2022).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAAlla Corte costituzionale le deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati.
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Edilizia - Distanze – D.M. n. 1444 del 1968 - livelli essenziali delle prestazioni – Deroghe delle Regioni – Art. 2-bis, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 – Questione di legittimità costituzionale.
Sono rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale relative:
   a) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013, n. 98, per violazione degli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost.;
   b) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013, n. 98, per violazione dell’art. 117, terzo comma, lettere m) ed s), Cost.;
   c) all’art. 103, comma 1-bis, l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12, come introdotto dalla l.reg. 14.03.2008, n. 4, e successivamente modificato dalla l.reg. 26.11.2019, n. 18, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, Cost. (1).

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   (1) La questione di legittimità costituzionale sollevata dall’appellante riposa sul presupposto per cui l’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 autorizzerebbe le Regioni ad emanare una legislazione derogatoria rispetto al d.m. n. 1444 del 1968 in materia di dotazione delle aree a standard fino a poter arrivare ad annullarne la previsione, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
La Sezione ha esaminato la possibilità di una lettura costituzionalmente orientata della norma statale, tale da far venir meno il dovere di rimessione della questione alla Corte costituzionale. Una prima possibile interpretazione poggia sul rilievo che le regole cogenti del d.m. n. 1444 del 1968 si riespanderebbero in caso di mancato esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2-bis; una seconda interpretazione prospetta la possibilità di interpretare la norma nel senso di far salvi in ogni caso i limiti inderogabili stabiliti dal d.m.
Tuttavia, di queste due letture la prima non è idonea a far venir meno la possibile illegittimità costituzionale della disposizione: il fatto che la “cedevolezza” delle previsioni del d.m. sia solo potenziale, dipendendo dal concreto esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga, non fa venir meno il vulnus a quella che dovrebbe essere, in thesi, la loro inderogabilità da parte del legislatore regionale.
Quanto alla seconda ipotesi, questa si risolve –in sostanza- nel far dire alla norma regionale qualcosa che la stessa espressamente non afferma, sulla base di un’argomentazione ermeneutica “additiva” che non trova aggancio nel dato testuale. Peraltro, malgrado un dubbio interpretativo possa forse essere ingenerato dal successivo comma 1-bis dell’articolo in esame, introdotto dal più recente d.l. 18.04.2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.06.2019, n. 55, secondo cui le disposizioni del comma 1 “sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio”, il tenore testuale del comma 1 rimane inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al d.m. n. 1444/1968 alla possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale, non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. n. 1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le Regioni si sono avvalse di tale facoltà).
La Sezione ha ipotizzato che la norma statale di principio sia da rivenirsi nel già citato articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dalla legge n. 765 del 1967, il quale –come è noto- costituisce la fonte di derivazione del d.m. n. 1444 del 1968, imponendo agli strumenti urbanistici generali il rispetto di parametri e limiti definiti espressamente “inderogabili”.
Ha ancora chiarito la Sezione che posto che nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono comma dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l’esigenza che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali.
Tale però sembra essere il risultato dell’applicazione dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001, come inserito dal decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, il quale, autorizzando le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano a “prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444”, produce l’effetto di “neutralizzare” il carattere cogente delle anzi dette disposizioni dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e delle disposizioni regolamentari che ne discendono. 9.4.
Tuttavia, anche a voler ritenere che con la novella del 2013 al T.U. dell’edilizia il legislatore statale abbia inteso perseguire una deliberata ratio di abrogazione implicita dei commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, tale operazione appare di dubbia compatibilità con il quadro costituzionale sopra delineato, in quanto si risolve in una sostanziale abdicazione dalla fissazione di parametri e criteri generali, cui pure il legislatore statale sarebbe chiamato in materia di competenza concorrente, in modo da consentire a ciascuna Regione di dettare regole autonome e disomogenee in materia di dimensionamento delle aree a destinazione residenziale, degli spazi pubblici, delle infrastrutture, del verde pubblico etc.
Ciò peraltro comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui, obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli, che –come puntualmente dedotto dal Fallimento nel presente giudizio- risulta potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse Regioni pur in relazione ad aree avente identica destinazione urbanistica e ad interventi edilizi rientranti nella medesima tipologia. Sul possibile contrasto con l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed s), della Costituzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 17.03.2022 n. 1949 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
ORDINANZA
... per la riforma della sentenza 20.04.2020 n. 654 del Tar per la Lombardia, sede di Milano, sezione seconda.
...
La fase pregressa del giudizio.
1. La presente controversia concerne la disciplina urbanistica -prevista dal Piano di Governo del Territorio (d’ora in poi “PGT”) approvato dal Comune di Villasanta nel 2019– di un’ampia area di proprietà del Fallimento Lo.Pe. S.r.l., in liquidazione (d’ora in poi “Fallimento”), facente parte della porzione sud del territorio comunale, occupata da insediamenti produttivi dismessi o sottoutilizzati, tra i quali la raffineria di petrolio, per i quali il piano prevede la reindustrializzazione moderna, ampliata a funzioni “mixitè”, cioè a esercizi commerciali di vicinato, esercizi pubblici, artigianato e terziario.
1.1. Il Fallimento ha proposto appello, per le parti che lo hanno visto soccombente, avverso la sentenza del Tar per la Lombardia n. 654 del 20.04.2020, la quale:
   a) ha dichiarato inammissibile per carenza di interesse il ricorso proposto dal Fallimento stesso avverso la ridetta disciplina urbanistica, nella parte relativa all’impugnazione della determinazione provinciale n. 145 del 30.01.2019, contenente il parere della Provincia di Monza e Brianza;
   b) ha accolto parzialmente lo stesso ricorso, nella parte relativa all’impugnazione del PGT del Comune di Villasanta rispetto alle aree standard.
1.2. Il Comune si è costituito in giudizio per resistere all’appello ed ha proposto appello incidentale, con il quale ha criticato la statuizione del primo giudice che ha ritenuto illegittima, per difetto di motivazione, la previsione di uno standard pari al 55% della superficie del compendio, notevolmente superiore al limite minimo del 10%, individuato per le aree destinate ad insediamenti industriali o assimilati dall’articolo 5 del d.m. n. 1444 del 02.04.1968.
In particolare, e per quanto qui d’interesse, la tesi del Comune può così riassumersi:
   a) l’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, salvo che per i limiti inderogabili sulle distanze, ha disposto la disapplicazione delle norme del d.m. n. 1444 del 1968 per i PGT adeguati alle disposizioni dell’articolo 26, commi 2 e 3, della stessa legge regionale;
   b) la disposizione è conforme al principio previsto dall’articolo 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il quale accorda a leggi e regolamenti regionali la possibilità di derogare alle prescrizioni del suddetto d.m. n. 1444/1968, “con particolare riguardo a quelle in materia di spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi”, e dunque agli standards;
   c) il principio statale ha trovato applicazione nell’articolo 9, comma 3, della stessa legge regionale, il quale ha fissato il limite minimo della dotazione standard per la zona destinata a “residenza” a 18 mq per abitante, rinviando alla pianificazione locale la determinazione per le altre destinazioni funzionali;
   d) nell’articolo 9, la riserva di atto amministrativo è ancorata a tre elementi essenziali, costituiti dalla qualità delle attrezzature insediate e da insediare, alla loro fruibilità e accessibilità;
   e) il PGT, pertanto –fatta salva la misura minima stabilita per la destinazione a residenza– è autonomo nello stabilire il fabbisogno della dotazione di standard senza dover partire dai minimi previsti nel d.m. n. 1444/1968.
1.3. Il Fallimento ha criticato la tesi suesposta, mettendo in rilievo fra l’altro:
   a) che la “disapplicazione” del d.m. n. 1444/1968 per effetto dell’articolo 103 della l.r. cit. comporterebbe la conseguenza di affidare a ciascun singolo PGT dei Comuni adeguatisi alle disposizioni dell’articolo 26 della stessa l.r. la definizione della quantità di standard applicabile per le zone diverse da quella residenziale, senza nemmeno un parametro di riferimento stabilito a livello regionale;
   b) che tale interpretazione contrasterebbe con l’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché l’attribuzione alle Regioni del potere di regolamentare la materia degli standards in modo difforme dal d.m. cit. non può essere interpretata come totale liberalizzazione (in eccesso e in riduzione) delle regole affidate all’arbitrio di ogni singola amministrazione comunale, perché contrasterebbe con il rispetto degli articoli 7, 10, 13 e dell’articolo 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall’articolo 17 della legge 06.08.1967, n. 765, in tema di piani urbanistici generali e di piani particolareggiati, che rendono obbligatoria la fissazione di standards, di limiti e parametri inderogabili per l’edificazione applicabili in sede di pianificazione urbanistica, disposizione che ha legittimato l’emanazione del d.m. in argomento;
      b1) che, invece, l’articolo 2-bis perseguirebbe l’obiettivo di consentire alle Regioni di fissare limiti diversi rispetto a quelli del d.m. per orientare le scelte pianificatorie comunali, con la conseguenza di rendere possibile la limitata modifica dei parametri generali previsti dal d.m. medesimo.
Infine, per l’ipotesi che fosse ritenuta corretta la tesi del Comune e non percorribile una interpretazione adeguatrice delle norme vigenti, il Fallimento ha chiesto al Collegio di scrutinare la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 26 e 103, comma 1-bis, della citata l.r. n. 12 del 2005 per contrasto con gli articoli 3, 24, 41, 42, 97, 113 e 117 della Costituzione, in relazione ai principi fondamentali dettati dagli articoli 7, 10, 13 e 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, in quanto si determinerebbe:
   - il differente trattamento di cittadini che realizzino lo stesso intervento edilizio in Comuni differenti (articolo 3 Cost.);
   - la limitazione al diritto di difesa, in assenza di un parametro legislativo e regolamentare su cui pre-definire il livello di ragionevolezza della scelta pianificatoria assunta in tema di standards (articoli 24 e 113 Cost.);
   - la lesione del diritto di proprietà e del diritto di impresa, potendo il Comune prevedere uno standard del 99%, non incontrando limiti nel massimo, così determinando una situazione para-espropriativa (articoli 41 e 42 Cost.);
   - la violazione del precetto di buon andamento della pubblica amministrazione, non essendo previsti limiti nel minimo, con la conseguenza che il Comune potrebbe ridurre gli standards dovuti al 1% dell’estensione territoriale e consentire l’edificazione su tutto il resto, con enorme carico urbanistico non accompagnato dalle necessarie dotazioni di servizi, nonostante vi sia obbligo di rispettare l’art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942 (articolo 97 Cost.);
   - la violazione dell’articolo 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi generali dettati dalla l. n. 1150 del 1942 e dalla l. n. 765 del 1967, dei quali il d.m. n. 1444/1968 costituisce mera attuazione, tanto che viene definito come regolamento legislativo, oltre che degli articoli 9 e 10 della l. n. 62 del 1953, nella parte in cui obbligano a definire limiti inderogabili di edificazioni e di standards che le citate norme regionali hanno impropriamente abrogato, tenendo anche presente che la “disapplicazione” da parte regionale di norme statali può avvenire solo per le c.d. “norme cedevoli” regolamentari (il d.m. n. 1444/1968 è, per consolidata giurisprudenza, norma solo formalmente regolamentare con valenza legislativa in quanto attua in modo necessitato ed ineludibile norme di legge inderogabili) in quanto l’urbanistica è materia concorrente, ma non può avvenire in riguardo a norme di legge statale, specie se fissino principi fondamentali delle materia, anche riferibili a norme statali di principio già previgenti, soprattutto con riferimento alle disposizioni del d.m. n. 1444/1968, le quali sono considerate munite di efficacia precettiva inderogabile, anche in relazione agli obiettivi citati dall’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, essendo evidente la violazione dell’articolo 117, secondo comma, Cost. anche in relazione alla c.d. determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in cui la dotazione di standards urbanistici rientra e –più in generale– con riferimento alla competenza esclusiva statale in tema di proprietà privata.
2. Con sentenza non definitiva 20.05.2021 n. 3912, questa Sezione:
   a) ha respinto l’appello principale;
   b) ha disposto l’estromissione della Provincia di Monza e della Brianza dal giudizio;
   c) ha compensato integralmente tra le parti le spese del doppio grado di giudizio nei confronti della Provincia;
   d) ha riservato al definitivo ogni decisione sull’appello incidentale e sulle spese;
   e) ha disposto la prosecuzione del giudizio per la decisione dell’appello incidentale e ha demandato al Presidente della Sezione la fissazione dell’udienza di trattazione in esito al deposito delle memorie delle parti.
2.1. In particolare, la sentenza sopra indicata ha riservato la decisione sui possibili profili di incostituzionalità, che sono stati analiticamente enucleati ai punti 15 e 16 e che sono stati sinteticamente individuati al punto 17, all’esito delle interlocuzioni con le parti.
Giova citare testualmente i sopraindicati passaggi della sentenza:
   “15. La questione di costituzionalità prospettata dal Fallimento può così sintetizzarsi:
Se sia o meno non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 1-bis, in combinato disposto con gli artt. 9 (implicitamente dedotto) e 26, della l.r. n. 12 del 2005, in riferimento all’art. 117, terzo comma Cost., stante la competenza concorrente dello Stato in materia di “governo del territorio”, all’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost., stante la legislazione esclusiva statale nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, nonché in riferimento ad altri valori tutelati dalla Costituzione, quali il differente trattamento di cittadini che realizzino lo stesso intervento edilizio in Comuni differenti (art. 3 Cost.), il diritto di proprietà (art. 24 Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e il diritto di difesa (art. 24 Cost.); posto che la legge regionale (art. 103, comma 1-bis) -in sede di adeguamento degli strumenti urbanistici (art. 26)- prevede che non si applicano tutte le disposizioni del d.m. del 1968 diverse da quelle attinenti alle distanze tra fabbricati, le quali sono derogabili a determinate condizioni, e demanda al “Piano dei servizi”, adottato dal Comune in collegamento con il “Documento di piano” (artt. 8 e 9), l’individuazione, previa determinazione del numero degli utenti sulla base di criteri predefiniti, della dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico generale, la dotazione di verde, i corridoi ecologici e il sistema di verde di connessione tra territorio rurale ed edificato, la viabilità, stabilisce solamente una dotazione minima (art. 9, comma 3), pari a diciotto metri quadrati per abitante, di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale per le zone residenziali; in tal modo violando i principi fondamentali della legislazione statale, che impongono in tutti i Comuni l’osservanza di “rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti (residenziali) e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” (art. 41-quinques, commi 8 e 9, l. n. 1150 del 1942), come specificati dalle disposizioni del d.m. del 1968, più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile in quanto attuativo del suddetto art. 41-quinquies (art. 117, terzo comma); violando altresì, la competenza esclusiva statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (117, secondo comma) e il buon andamento dell’amministrazione (art. 97), rimettendo alla regolamentazione comunale anche l’individuazione dei rapporti minimi di aree standard in zone diverse da quelle residenziali; nonché il diritto di impresa e il diritto di proprietà (artt. 41 e 42), rimettendo alla regolamentazione comunale anche l’individuazione dei rapporti massimi di aree standard; nonché finanche il diritto di difesa dinanzi al giudice (art. 24 e 113) in assenza di un parametro legislativo di riferimento per il sindacato di ragionevolezza della scelta del singolo Comune.
   15.1. Può aggiungersi che il presupposto interpretativo assunto dal Fallimento posto alla base della richiesta principale di rigetto dell’appello incidentale, è che l’art. 2-bis cit. consenta solo alla legislazione regionale, e non anche alla regolamentazione urbanistica comunale, deroghe ai principi stabiliti dalla legislazione statale, e che, in mancanza delle deroghe previste dalla legge regionale -come nella fattispecie dove la legislazione regionale disciplina solo il minimo degli standards nelle zone residenziali (peraltro in maniera parziale e individuando la dotazione minima nella stessa percentuale prevista dall’art. 3 del d.m. del 1968)– per le aree non disciplinate dalla legislazione regionale continuano ad applicarsi i principi statali dell’art. 41-quinquies, l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. del 1968, con conseguente possibilità di sindacato sulla motivazione dei piani comunali quando si discostano notevolmente dalla percentuale minima statale.
   16. Il profilo dell’interpretazione del suddetto art. 2-bis all’interno del sistema dei principi vincolanti per la legislazione regionale individuati, dall’art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. del 1968.
L’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 consente solo alle Regioni di prevedere disposizioni derogatorie al d.m. del 1968 in materia di standard, “nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”. Trattandosi di deroghe a principi della legislazione statale vincolanti sul territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, terzo comma, in mancanza, totale o parziale, dell’esercizio di tale potere di deroga da parte delle Regioni potrebbe inferirsi che si riespande l’applicazione dei principi statali dell’art. 41-quinquies, commi 8 e 9, l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. n. 1444 del 1968, secondo lo stesso presupposto interpretativo assunto dal Fallimento.
   16.1. Tuttavia, la possibile sostenibilità di tale interpretazione costituzionalmente orientata, secondo il Collegio non consente, nella fattispecie, di sottrarsi alla valutazione della non manifesta infondatezza della possibile questione di legittimità costituzionale delle norme regionali, eccepita dal Fallimento.
   16.1.1. La ragione si rinviene nella peculiare “costruzione” dell’art. 103, comma 1-bis, in uno con un esercizio del potere regionale di emanare norme derogatorie che potremmo definire “estremo” per difetto.
Infatti, da un lato l’art. 103, comma 1-bis, dispone la generale non applicabilità del d.m. del 1968 (con l’eccezione disciplinata della materia delle distanze, che nella causa non viene in rilievo); dall’altro, la Regione esercita il potere di legiferare riconosciutole dall’art. 2-bis al minimo, e cioè prevedendo solo (art. 9, comma 3) la dotazione minima di standards per le aree residenziali; per di più, riproducendo la misura minima già individuata dall’art. 3, primo comma, del d.m. del 1968 e, quindi, intendendo non applicabili, secondo la previsione generale dell’art. 103, anche le altre disposizioni nella stessa materia, previste dai successivi commi dell’art. 3 e dall’art. 4, primo e secondo comma.
   16.1.2. In definitiva, si potrebbe dire che le norme regionali che derivano il loro fondamento nell’art. 2-bis integrino una “forma apparente” di esercizio del potere conferito alla Regione dall’art. 2-bis.
   16.3. D’altro canto, proprio la possibile questione di legittimità costituzionale ipotizzabile a parere del Collegio in riferimento allo stesso art. 2-bis, conduce pure nella direzione di escludere la soluzione della interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso articolo, sostenuta dal Fallimento.
17. Il profilo della compatibilità costituzionale del suddetto art. 2-bis, rispetto alla competenza concorrente delle regioni in materia di “governo del territorio” in riferimento alla regolamentazione delle aree standards.
Ritiene il Collegio che sia percorribile la tesi secondo cui la nuova disposizione statale introdotta nel 2013, intervenendo in materia di competenza concorrente senza porre alcun confine di principio al potere di deroga attribuito a tutte le regioni rispetto alle preesistenti norme statali, senza assolvere alla funzione propria attribuita dalla Costituzione allo Stato di individuare i principi, così rendendo certamente possibili legislazioni regionali molto diverse tra di loro, contrasterebbe con l’art. 117, terzo comma, Cost.
   17.1. Inoltre, andrebbe esplorato anche un altro possibile profilo di legittimità costituzionale, rispetto all’art. 117, secondo comma Cost. attinente alle materie di competenza esclusiva dello Stato.
Si tratta di valori costituzionali che, come evidenziato anche dal Fallimento nella prospettazione della questione di costituzionalità, sono oramai strettamente correlati alla materia del “governo del territorio”, quali la materia attinente alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” [117, secondo comma, lett. m)], quella della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” [art. 117, secondo comma, lett. s)], nonché il diritto di impresa e il diritto di proprietà (artt. 41 e 42 Cost.). Correlazione tanto più evidente negli anni Duemila, come si è sviluppata nel corso del tempo nella giurisprudenza della Corte costituzionale ed eurounitaria, rispetto ad epoche ormai lontane, quali gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso ai quali risale la legislazione nazionale di principio di nostro interesse
”.
2.2. Inoltre, a delimitare la questione di legittimità costituzionale ai fini della disamina della sua rilevanza e non manifesta infondatezza, si richiama un altro paragrafo della sentenza non definitiva nel quale si è rilevato che:
13. L’esistenza nell’ordinamento statale dell’art. 2-bis cit., oltre che dell’art. 41-quinquies, l. n. 1150 del 1942 e del d.m. del 1968, pone all’attenzione del Collegio il preliminare profilo dell’interpretazione del suddetto art. 2-bis all’interno del sistema dei principi vincolanti per la legislazione regionale, individuati dall’art. 41-quinquies, commi 8 e 9, della l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. del 1968, e della sua compatibilità costituzionale rispetto alla competenza concorrente delle Regioni in materia di “governo del territorio”, posto che se fosse ipotizzabile la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis per violazione dell’art. 117, terzo e secondo comma, la stessa sarebbe logicamente preliminare alla illegittimità prospettata dal Fallimento rispetto alle norme regionali, venendo meno –nel caso di ipotetico accoglimento– la base normativa statale che consente di emanare disposizioni regionali derogatorie ai principi già presenti nella legislazione statale.
13.1. Preliminarmente, deve precisarsi che dalla fattispecie in esame derivano i confini della rilevanza della possibile questione di costituzionalità, dovendosi escludere ogni profilo attinente alle deroghe in materia di limiti di distanze tra fabbricati, sui quali la Corte costituzionale è più volte intervenuta.
La fattispecie in esame è incentrata, infatti, unicamente sulle possibili deroghe, da parte della legislazione regionale, al d.m. del 1968 in materia di “spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi”, e dunque agli standards, “nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”. Materia che, a prescindere dalla mancata ricomprensione nel titolo dell’articolo, è indubbiamente disciplinata dall’art. 2-bis
”.
3. A seguito della sentenza non definitiva e della richiesta di interlocuzione sui possibili profili di compatibilità costituzionale, le parti hanno depositato memorie, rispettivamente il Fallimento in data 16.07.2021 e il Comune di Villasanta in data 19.07.2021.
3.1. Entrambe le parti hanno, quindi, depositato istanze di passaggio in decisione senza discussione della causa.
4. Alla pubblica udienza del 28.10.2021 la causa è stata trattenuta in decisione.
5. Delimitato dunque il thema decidendum ai profili di rilevanza e di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’articolo 103 della legge regionale n. 12 del 2005 della Regione Lombardia sopra individuate, la Sezione ritiene di dover sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della precitata norma statale, e in via consequenziale della norma regionale.
Sulla rilevanza della questione relativa all’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, al suo comma 1, con i quali è consentita la deroga a livello regionale dei parametri di cui al d.m. n. 1444/1968.
6. La questione di legittimità costituzionale sollevata dall’appellante riposa sul presupposto per cui l’articolo 2-bis, d.P.R. cit. autorizzerebbe le Regioni ad emanare una legislazione derogatoria rispetto al d.m. n. 1444 del 1968 in materia di dotazione delle aree a standard fino a poter arrivare ad annullarne la previsione, in violazione dell’articolo 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
6.1. Ad avviso della Sezione la questione, nel caso in esame, presenta il requisito della rilevanza come argomentato dall’appellante principale.
Infatti, diversamente da quanto in contrario eccepito dal Comune di Villasanta, le disposizioni regionali applicate al caso in esame hanno consentito, proprio in applicazione dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, di adottare la disciplina urbanistica applicabile al contesto di proprietà del Fallimento con un sovradimensionamento degli standards per la destinazione produttiva attribuita al comparto al di sopra di quanto previsto dall’articolo 5 dello stesso d.m.
Il citato d.m. è parzialmente disapplicato nella Regione Lombardia sulla base dell’articolo 103, comma 1-bis, lett. a), della legge regionale n. 12 del 2005, per cui la materia degli standards è interamente disciplinata, in ambito regionale, dall’articolo 9 che prevede limiti minimi e non massimi soltanto per le zone residenziali e lascia alla programmazione urbanistica di competenza comunale la scelta della previsione di limiti minimi e massimi per tutte le altre destinazioni. Pertanto –ciò che rileva sotto il profilo della rilevanza– in caso di declaratoria della incostituzionalità dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 verrebbe a mancare il presupposto sul quale poggia la disposizione regionale (a sua volta incostituzionale in via derivata) e sarebbe di nuovo applicabile il d.m. n. 1444 del 1968 con i limiti ivi indicati per gli standards.
La questione di costituzionalità dell’articolo 2-bis appare, quindi, rilevante per la definizione del giudizio poiché in caso di suo annullamento verrebbe meno il presupposto sul quale poggiano le disposizioni del PGT comunale oggetto del contenzioso.
Non può, d’altro canto, trovare spazio l’argomento del Comune, secondo cui la questione di costituzionalità sarebbe irrilevante poiché il d.m. n. 1444 del 1968 non fissa limiti massimi per la dotazione di standards ma solo limiti minimi, per cui, nel caso in esame, vertendosi in tema di sovradimensionamento degli standards, non vi sarebbe una violazione bensì una deroga generalizzata autorizzata ai sensi dell’articolo 2-bis.
La tesi testé esposta conduce, infatti, alla impossibilità per il giudice di sindacare, in base ai parametri di legittimità, di ragionevolezza e di proporzionalità, le scelte effettuate dall’Amministrazione nell’ambito della pianificazione urbanistica, essendo venuto meno, per il tramite del meccanismo di deroga di cui all’articolo 2-bis, anche il limite minimo nella fissazione degli standard.
Nel caso in esame la questione di costituzionalità è pertanto rilevante poiché l’appellante è stato sottoposto ad una cessione di aree a standard sulla base delle norme del PGT che trovano la loro fonte legittimante nella legge regionale, a sua volta “autorizzata” a stabilire deroghe dall’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001.
7. Tanto premesso, va innanzi tutto esaminata la possibilità di una lettura costituzionalmente orientata della norma statale, tale da far venir meno il dovere di rimessione della questione alla Corte costituzionale.
Una prima possibile interpretazione del genere è stata adombrata, in termini dubitativi e da definirsi a seguito della interlocuzione delle parti, nella stessa precedente sentenza parziale (§§ 16 e 16.1), laddove si sottolinea come, in ogni caso, le regole cogenti del d.m. n. 1444 del 1968 si riespanderebbero in caso di mancato esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2-bis; una seconda è ipotizzata dal Comune, il quale prospetta la possibilità di interpretare la norma nel senso di far salvi in ogni caso i limiti inderogabili stabiliti dal d.m. (pag. 5 della memoria del 12.07.2021).
Tuttavia, di queste due letture la prima non è idonea a far venir meno la possibile illegittimità costituzionale della disposizione: il fatto che la “cedevolezza” delle previsioni del d.m. sia solo potenziale, dipendendo dal concreto esercizio dal parte delle Regioni della facoltà di deroga, non fa venir meno il vulnus a quella che dovrebbe essere, in thesi, la loro inderogabilità da parte del legislatore regionale.
Quanto alla seconda ipotesi, questa si risolve –in sostanza- nel far dire alla norma regionale qualcosa che la stessa espressamente non afferma, sulla base di un’argomentazione ermeneutica “additiva” che non trova aggancio nel dato testuale.
Peraltro, malgrado un dubbio interpretativo possa forse essere ingenerato dal successivo comma 1-bis dell’articolo in esame, introdotto dal più recente d.l. 18.04.2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.06.2019, n. 55, secondo cui le disposizioni del comma 1 “sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio”, il tenore testuale del comma 1 rimane inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al d.m. n. 1444/1968 alla possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale, non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. n. 1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le Regioni si sono avvalse di tale facoltà).
8. Ritenuta impraticabile la via della interpretazione costituzionalmente orientata, la Sezione osserva che la questione assume rilevanza in relazione alla possibile violazione dei parametri costituzionali di cui agli articoli 3 e 117, terzo comma, con riferimento alla lesione della competenza statale concorrente in materia di “governo del territorio”, nonché rispetto al secondo comma del medesimo articolo 117, lett. m) ed s) (lesione della competenza esclusiva statale in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” e di “tutela dell’ambiente”).
Sul possibile contrasto con gli articoli 3 e 117, terzo comma, della Costituzione.
9. Con riguardo al primo profilo oggetto di scrutinio, va preliminarmente rilevato che –come già precisato nella sentenza non definitiva emessa da questa stessa Sezione (§13.1.: “Preliminarmente deve precisarsi che dalla fattispecie in esame derivano i confini della rilevanza della possibile questione di costituzionalità, dovendosi escludere ogni profilo attinente alle deroghe in materia di limiti di distanze tra fabbricati, sui quali la Corte è più volte intervenuta. la fattispecie in esame è incentrata, infatti, unicamente sulle possibili deroghe, da parte della legislazione regionale, al D.M. del 1968 in materia di “spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli a quelli riservati alle attività collettive ai parcheggi” e dunque agli standards, “nell’ambito delle definizione revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario di specifiche aree territoriali”)– non vi è alcuna analogia della questione in esame rispetto a quelle esaminate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (in particolare sent. n. 13 del 07.02.2020) relative alle norme del medesimo d.m. n. 1444/1968 in materia di distanze (articoli 9 e 10).
Tali ultime norme sono state ritenute dalla Corte in via di principio inderogabili da parte della legislazione regionale, in quanto afferenti alla materia dell’ordinamento civile (articolo 117, secondo comma, lettera l), Cost.), mentre lo stesso non si può dire per le altre norme contenute nel citato decreto, le quali prima facie attengono unicamente alla materia “governo del territorio”, oggetto di competenza concorrente ai sensi del terzo comma del medesimo articolo 117 Cost.: ciò impone di individuare le norme di principio della legislazione statale in subiecta materia, le quali segnano il limite della competenza legislativa regionale.
9.1. Per quanto qui interessa, può ipotizzarsi che la norma statale di principio sia da rivenirsi nel già citato articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dalla legge n. 765 del 1967, il quale –come è noto- costituisce la fonte di derivazione del d.m. n. 1444 del 1968, imponendo agli strumenti urbanistici generali il rispetto di parametri e limiti definiti espressamente “inderogabili”.
9.2. Orbene, ad avviso della Sezione e contrariamente a quanto sostenuto in giudizio dal Comune di Villasanta, non può ritenersi –neanche a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione attuata con la legge costituzionale n. 3/2001- che ad oggi inderogabile da parte della legislazione regionale sia soltanto l’ottavo comma del predetto articolo (il quale, appunto, stabilisce l’obbligo che gli strumenti urbanistici generali stabiliscano “limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”) e non anche il successivo nono comma, che demanda a un apposito decreto ministeriale la fissazione dei predetti limiti e rapporti; ciò, alla luce della giurisprudenza costituzionale dianzi richiamata, dovrebbe portare alla bizzarra conclusione che il comma da ultimo citato sia -in realtà- derogabile da parte delle Regioni non sempre e comunque, ma solo per la parte relativa ai “rapporti”, dal momento che per quella relativa ai “limiti” (di densità, altezza, distanza) è già pacifico che non lo è, attesa la acclarata riconducibilità delle norme del d.m. n. 1444 del 1968 in tema di distanze, altezze etc. alla materia “ordinamento civile” di esclusiva competenza statale (cfr. Corte cost., sent. n. 13/2020, cit.).
9.3. Può dunque ritenersi, posto che nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono comma dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l’esigenza che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali.
Tale però sembra essere il risultato dell’applicazione dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001, come inserito dal decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, il quale, autorizzando le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano a “prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444”, produce l’effetto di “neutralizzare” il carattere cogente delle anzi dette disposizioni dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e delle disposizioni regolamentari che ne discendono.
9.4. Tuttavia, anche a voler ritenere che con la novella del 2013 al T.U. dell’edilizia il legislatore statale abbia inteso perseguire una deliberata ratio di abrogazione implicita dei commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, tale operazione appare di dubbia compatibilità con il quadro costituzionale sopra delineato, in quanto si risolve in una sostanziale abdicazione dalla fissazione di parametri e criteri generali, cui pure il legislatore statale sarebbe chiamato in materia di competenza concorrente, in modo da consentire a ciascuna Regione di dettare regole autonome e disomogenee in materia di dimensionamento delle aree a destinazione residenziale, degli spazi pubblici, delle infrastrutture, del verde pubblico etc.
Ciò peraltro comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui, obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli, che –come puntualmente dedotto dal Fallimento nel presente giudizio- risulta potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse Regioni pur in relazione ad aree avente identica destinazione urbanistica e ad interventi edilizi rientranti nella medesima tipologia.
Sul possibile contrasto con l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed s), della Costituzione.
10. Sotto diverso profilo, la disposizione di cui al comma 1 del ricordato articolo 2-bis, d.P.R. n. 380/2001 interseca le competenze statali esclusive di cui all’articolo 117, comma secondo, lettere m) (“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”) ed s) (“tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”) della Costituzione.
10.1. Quanto al primo aspetto, anche prescindendo dall’orientamento giurisprudenziale che, anteriormente alla entrata in vigore dell’articolo 2-bis, sosteneva che le disposizioni del d.m. n. 1444 del 1968 fossero sempre e comunque cogenti nei confronti dei pianificatori comunali, il più volte citato nono comma dell’articolo 41-quinquies, l. n. 1150/1942 rileva anche sotto il profilo della necessità di assicurare una quota minima di infrastrutture e aree per servizi pubblici che sia la stessa sull’intero territorio nazionale.
In definitiva, pur in un quadro costituzionale e legislativo caratterizzato dai principi di sussidiarietà verticale e di prossimità territoriale, in ragione dei quali la regolazione dell’assetto del territorio è rimessa quanto più possibile ai livelli di governo più vicini alle comunità di riferimento, deve ritenersi che la determinazione delle dotazioni infrastrutturali pubbliche o di interesse generale resti riservata al legislatore statale, in quanto ragionevolmente riconducibile all’ambito delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali; in tale prospettiva, al legislatore statale spetta non soltanto individuare i principi fondamentali della materia, sibbene fissare i livelli minimi delle predette prestazioni, rispetto ai quali le normative regionali potrebbero intervenire esclusivamente in senso “rafforzativo”.
Ciò peraltro non comporta la totale obliterazione delle competenze legislative regionali, atteso che altro è la determinazione di livelli essenziali (minimi), altro la regolamentazione, tanto in termini quantitativi che qualitativi, delle dotazioni di standard, rispetto alla quale ultima –una volta garantito il rispetto della normativa statale vigente– la competenza regionale (che dovrebbe comunque ritenersi, ratione materiae, comunque di tipo concorrente) potrebbe tornare in gioco.
10.2. Sotto il secondo dei profili dianzi indicati, già da tempo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha evidenziato come il potere di pianificazione, specie alla luce delle scelte legislative più recenti, non possa dirsi limitato all’individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, e in specie alle potenzialità edificatorie delle stesse e ai limiti che incontrano tali potenzialità, dovendo invece essere inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non sia limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale, non in contrasto ma, anzi, in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato, in funzione di uno sviluppo del territorio che si svolga nel quadro del rispetto e dell’attuazione di valori costituzionalmente tutelati (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. II, 14.11.2019, n. 7839; id., sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
Tale impostazione è stata nella sostanza condivisa anche dalla giurisprudenza costituzionale, la quale, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, ha rilevato che la nozione di “governo del territorio” ha un contenuto più ampio di quella di “urbanistica”, individuando in linea di principio tutto ciò che attiene all’uso del territorio ed alla localizzazione di impianti o attività (cfr. Corte cost., sent. 07.10.2003, n. 307), ed ha altresì precisato che la relativa disciplina, pur toccando profili tradizionalmente appartenenti all’urbanistica e all’edilizia, non si esaurisce in esse, riferendosi piuttosto all’insieme delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in base ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio (cfr. Corte cost., sentt. 14.10.2005, n. 383, e 28.06.2004, n. 196).
Ne discende, in relazione al rapporto tra le competenze concorrenti in subiecta materia e la competenza statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente ex articolo 117, secondo comma, lettera s), Cost., che quest’ultima segna un limite negativo alle discipline che le Regioni possono introdurre in altre materie di propria competenza, salva la facoltà di queste ultime di adottare livelli di tutela ambientale più elevati (cfr. Corte cost., sent. n. 22.07.2021, n. 164, e in precedenza sentt. 23.07.2009, n. 235, 18.04.2008, n. 104, e 07.11.2007, n. 367).
Alla stregua dei consolidati orientamenti che si sono richiamati, anche laddove si sia in presenza di una legislazione regionale esclusivamente indirizzata a introdurre una disciplina in materia di pianificazione urbanistica, e che tuttavia intercetti aspetti “sensibili” sotto il profilo della vivibilità del territorio quali sono quelli afferenti alla dotazione di infrastrutture e servizi per la collettività, non può non venire in rilievo la competenza esclusiva statale de qua con la correlativa possibilità per le Regioni di intervenire in deroga solo in senso “migliorativo”.
Sulla consequenziale illegittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis, della l.r. della Lombardia n. 12/2005.
11. La prospettata illegittimità costituzionale dell’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, per le ragioni testé evidenziate, comporterebbe il venir meno della base normativa delle disposizioni regionali con cui, in attuazione di quanto stabilito nella norma statale, sia stata introdotta una disciplina degli standard urbanistici potenzialmente derogatoria dei limiti “inderogabili” di cui al d.m. n. 1444 del 1968, è fra queste, per quanto qui interessa, dell’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005.
Sotto quest’ultimo profilo non ha pregio l’argomento, articolato dal Comune nella memoria del 12.07.2021, secondo cui la disposizione in questione non opererebbe a regime, riguardando solo l’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti alle nuove disposizioni introdotte dalla stessa l.r. n. 12 del 2005: infatti, ai fini che qui interessano, rileva soltanto il fatto che per effetto di essa possano trovare ingresso nell’ordinamento prescrizioni urbanistiche, comunque destinate a valere a tempo indefinito, elaborate nella totale disapplicazione del criteri e parametri di cui al ricordato d.m. n. 1444 del 1968.
Pertanto, la disposizione andrebbe a sua volta dichiarata incostituzionale in via consequenziale in applicazione dell’articolo 27 della legge 11.03.1953, n. 87, secondo cui la Corte costituzionale, allorché dichiara illegittime le disposizioni che formano direttamente oggetto dell’incidente di costituzionalità, “dichiara altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata”.
Conclusioni.
12. Alla stregua dei rilievi fin qui svolti, devono quindi essere dichiarate rilevanti e non manifestamente infondate le descritte questioni di legittimità costituzionale:
   i) dell’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n. 194, S.O.), per violazione degli articoli 3 e 117, secondo comma, della Costituzione;
   ii) dell’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n. 194, S.O.), per violazione dell’articolo 117, terzo comma, lettere m) ed s), della Costituzione;
   iii) in via consequenziale, dell’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 16.03.2005), come introdotto dalla legge regionale 14.03.2008, n. 4 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 17.03.2008, n. 12), e successivamente modificato dalla l.r. 26.11.2019, n. 18 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 29.11.2019, n. 48), per violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, della Costituzione.
Il presente giudizio va quindi sospeso con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), visto l’art. 23 della legge 11.03.1953, n. 87, dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale relative:
   -
all’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n. 194, S.O.), per violazione degli articoli 3 e 117, terzo comma, della Costituzione;
   -
all’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n. 194, S.O.), per violazione dell’articolo 117, terzo comma, lettere m) ed s), della Costituzione;
   - in via consequenziale,
all’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 16.03.2005), come introdotto dalla legge regionale 14.03.2008, n. 4 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 17.03.2008, n. 12), e successivamente modificato dalla l.r. 26.11.2019, n. 18 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 29.11.2019, n. 48), per violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, della Costituzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 17.03.2022 n. 1949 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2021
dicembre 2021

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Prime indicazioni applicative a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis l.r. 12/2005 nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della l.r. 24.06.2021 n. 11 e dell’art. 40-bis, comma 11-quinquies, l.r. 12/2005 introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. m), l.r. 11/2021 (ANCI Lombardia, circolare 13.12.2021 n. 811).

ottobre 2021

EDILIZIA PRIVATA: E' incostituzionale la normativa della Regione Lombardia sul recupero degli immobili dismessi.
L'art. 40-bis della l.r. n. 12/2005, siccome introdotto dall’art. 4, comma 1, lett. a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, così recita:
   1. I comuni, con deliberazione consiliare, anche sulla base di segnalazioni motivate e documentate, individuano entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge regionale recante 'Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali' gli immobili di qualsiasi destinazione d'uso, dismessi da oltre cinque anni, che causano criticità per uno o più dei seguenti aspetti: salute, sicurezza idraulica, problemi strutturali che ne pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado ambientale e urbanistico-edilizio. La disciplina del presente articolo si applica, anche senza la deliberazione di cui sopra, agli immobili già individuati dai comuni come degradati e abbandonati. Le disposizioni di cui al presente articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui sopra, si applicano anche agli immobili non individuati dalla medesima, per i quali il proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre alla cessazione dell'attività, documentata anche mediante dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà a cura della proprietà o del legale rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova documentale e/o fotografica. I comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge regionale recante 'Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali', mediante deliberazione del consiglio comunale possono individuare gli ambiti del proprio territorio ai quali non si applicano le disposizioni di cui ai commi 5 e 10 del presente articolo, in relazione a motivate ragioni di tutela paesaggistica.
   2.
I comuni, prima delle deliberazioni di cui al comma 1, da aggiornare annualmente, notificano ai sensi del codice di procedura civile ai proprietari degli immobili dismessi e che causano criticità le ragioni dell'individuazione, di modo che questi, entro 30 giorni dal ricevimento di detta comunicazione, possano dimostrare, mediante prove documentali, l'assenza dei presupposti per l'inserimento.
   3. (omissis)
   5.
Gli interventi sugli immobili di cui al comma 1 usufruiscono di un incremento del 20 per cento dei diritti edificatori derivanti dall'applicazione dell'indice di edificabilità massimo previsto o, se maggiore di quest'ultimo, della superficie lorda esistente e sono inoltre esentati dall'eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, a eccezione di quelle aree da reperire all'interno dei comparti edificatori o degli immobili oggetto del presente articolo, già puntualmente individuate all'interno degli strumenti urbanistici e da quelle dovute ai sensi della pianificazione territoriale sovraordinata. A tali interventi non si applicano gli incrementi dei diritti edificatori di cui all'articolo 11, comma 5. Nei casi di demolizione l'incremento dei diritti edificatori del 20 per cento si applica per un periodo massimo di dieci anni dalla data di individuazione dell'immobile quale dismesso.
   6.
E' riconosciuto un ulteriore incremento dell'indice di edificabilità massimo previsto dal PGT o rispetto alla superficie lorda (SL) esistente del 5 per cento per interventi che assicurino una superficie deimpermeabilizzata e destinata a verde non inferiore all'incremento di SL realizzato, nonché per interventi che conseguano una diminuzione dell'impronta al suolo pari ad almeno il 10 per cento. A tal fine possono essere utilizzate anche le superfici situate al di fuori del lotto di intervento, nonché quelle destinate a giardino pensile, cosi come regolamentate dalla norma UNI 11235/2007.
   7. Se il proprietario non provvede entro il termine di cui al comma 4, non può più accedere ai benefici di cui ai commi 5 e 6 e il comune lo invita a presentare una proposta di riutilizzo, assegnando un termine da definire in ragione della complessità della situazione riscontrata, e comunque non inferiore a mesi quattro e non superiore a mesi dodici.
   8.
Decorso il termine di cui al comma 7 senza presentazione delle richieste o dei titoli di cui al comma 4, il comune ingiunge al proprietario la demolizione dell'edificio o degli edifici interessati o, in alternativa, i necessari interventi di recupero e/o messa in sicurezza degli immobili, da effettuarsi entro un anno. La demolizione effettuata dalla proprietà determina il diritto ad un quantitativo di diritti edificatori pari alla superficie lorda dell'edificio demolito fino all'indice di edificabilità previsto per l'area. I diritti edificatori generati dalla demolizione edilizia possono sempre essere perequati e confluiscono nel registro delle cessioni dei diritti edificatori di cui all'articolo 11, comma 4.
   9.
Decorso infruttuosamente il termine di cui al comma 8, il comune provvede in via sostitutiva, con obbligo di rimborso delle relative spese a carico della proprietà, cui è riconosciuta la SL esistente fino all'indice di edificabilità previsto dallo strumento urbanistico.
   10.
Tutti gli interventi di rigenerazione degli immobili di cui al presente articolo sono realizzati in deroga alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento, sulle distanze previste dagli strumenti urbanistici comunali vigenti e adottati e ai regolamenti edilizi, fatte salve le norme statali e quelle sui requisiti igienico-sanitari.

   11. (omissis)
   11-bis. (omissis)

In generale, l’imposizione ai Comuni, per di più al di fuori di qualsiasi procedura di raccordo collaborativo, di una disciplina quale quella in esame finisce per alterare i termini essenziali di esercizio della funzione pianificatoria, anche perché obbliga i medesimi Comuni a far dipendere le loro scelte fondamentali sulle forme di uso e sviluppo del territorio da una decisione legislativa destinata a incidere in modo assai significativo sull’aumento dell’edificato e sulla conseguente pressione insediativa.
Ciò contrasta con l’assunto, che questa Corte condivide, per cui «il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio […], ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti».
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale
  
dell’art. 40-bis della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, recante «Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali», nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge della Regione Lombardia 24.06.2021, n. 11, recante «Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità. Modifiche all’art. 40-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)»;
   ●
in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.

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SENTENZA
9.– Alla luce delle ragioni ora esposte, deve quindi procedersi all’esame delle sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nel testo vigente prima delle modifiche ad esso apportate dall’art. 1 della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.
Con un primo ordine di questioni, il TAR Lombardia ritiene che tale previsione normativa, introdotta dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, si ponga in contrasto con plurimi parametri costituzionali (artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, commi secondo, lettera p, terzo e sesto, e 118 Cost.), perché il legislatore regionale avrebbe introdotto una disciplina per il recupero degli immobili abbandonati e degradati che comprime illegittimamente, da più angolazioni, la potestà pianificatoria comunale, essenzialmente in ragione della sua portata temporalmente indefinita, dell’assolutezza delle sue prescrizioni e dell’assenza di una procedura di interlocuzione con i Comuni.
10.– Le questioni sono fondate.
10.1.– È utile premettere che la legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, con cui è stato introdotto nella legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 il censurato art. 40-bis, individua quali obiettivi da perseguire lo «sviluppo sostenibile» e stabilisce che gli interventi finalizzati alla rigenerazione urbana e territoriale, riguardante ambiti, aree ed edifici, costituiscono «azioni prioritarie per ridurre il consumo di suolo, migliorare la qualità funzionale, ambientale e paesaggistica dei territori e degli insediamenti, nonché le condizioni socio-economiche della popolazione» (art. 1).
Il recupero e la rigenerazione degli immobili dismessi, pertanto, rappresentano uno strumento a cui il legislatore regionale ha ritenuto di ricorrere nell’ambito di una rinnovata declinazione degli strumenti di governo del territorio e, in particolare, dell’azione pianificatoria, che in Lombardia ha trovato una significativa attuazione già con la legge reg. Lombardia, n. 31 del 2014. In essa, secondo quanto si ricava dal suo art. 1, comma 1, sono infatti dettate disposizioni «affinché gli strumenti di governo del territorio, nel rispetto dei criteri di minimizzazione del consumo di suolo, orientino gli interventi edilizi prioritariamente verso le aree già urbanizzate, degradate o dismesse ai sensi dell’articolo 1 della legge regionale 11.03.2005, n. 12».
10.2.– Così ricostruita la finalità che il legislatore lombardo ha inteso perseguire con la disposizione censurata, è di tutta evidenza come essa si presti a incidere sull’esercizio della potestà pianificatoria comunale, per il fatto di dettare una disciplina sul recupero degli immobili dismessi idonea, in ragione della sua natura autoapplicativa, a ripercuotersi su scelte attinenti all’uso del territorio.
La disciplina regionale oggetto di esame, infatti, si sovrappone ad attribuzioni assegnate ai Comuni in tale ambito e, in particolare, ai contenuti necessari del piano delle regole fissati dall’art. 10 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005. Il comma 2 di tale articolo prevede, in particolare, che, anche in vista dell’obiettivo della minimizzazione del consumo di suolo, stabilito dall’art. 8, comma 1, lettera b), della medesima legge regionale, spetti al piano delle regole definire «le caratteristiche fisico-morfologiche che connotano l’esistente, da rispettare in caso di eventuali interventi integrativi o sostitutivi, nonché le modalità di intervento, anche mediante pianificazione attuativa o permesso di costruire convenzionato, nel rispetto dell’impianto urbano esistente». Il successivo comma 3 demanda poi al medesimo piano delle regole il compito di identificare una serie di parametri da rispettare «negli interventi di nuova edificazione o sostituzione», tra i quali «caratteristiche tipologiche, allineamenti, orientamenti e percorsi» (lettera a), «consistenza volumetrica o superfici lorde di pavimento esistenti o previste» (lettera b), «rapporti di copertura esistenti e previsti» (lettera c) e «altezze massime e minime» (lettera d).
10.3.– A fronte di tale sovrapposizione alle funzioni comunali, assume rilievo la previsione con cui il legislatore statale, nell’esercizio della competenza ad esso esclusivamente attribuita dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., ha individuato, «[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione», quali funzioni fondamentali dei Comuni «la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale, nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lettera d, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122).
Con tale previsione è stato legislativamente riconosciuto un orientamento costante della giurisprudenza costituzionale, secondo cui quella attinente alla pianificazione urbanistica rappresenta una funzione che non può essere oltre misura compressa dal legislatore regionale, perché «il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere» (sentenza n. 378 del 2000) e la suddetta competenza regionale «non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni» (sentenza n. 83 del 1997).
Al tempo stesso, questa Corte ha sempre ribadito che l’autonomia comunale «non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali
» (sentenza n. 160 del 2016). Più specificamente, la Corte ha escluso che «il “sistema della pianificazione” assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –che è fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga a tali strumenti» (sentenza n. 245 del 2018 e, analogamente, sentenza n. 46 del 2014).
10.4.– Poste in questi termini le coordinate entro le quali sono chiamate a coesistere e a dinamicamente integrarsi, nel quadro del principio di sussidiarietà verticale, l’autonomia comunale e quella regionale, questa Corte ha di recente stabilito che, laddove si assuma lesa la potestà pianificatoria comunale, lo scrutinio di legittimità costituzionale si concentrerà «dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti», così da verificare se la sottrazione di potere ai Comuni costituisca effettivamente «il minimo mezzo utile per perseguire gli scopi del legislatore regionale» (sentenza n. 179 del 2019).
Tale giudizio di proporzionalità, mirante a verificare l’«esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali» (sentenza n. 286 del 1997), consente quindi di appurare «se, per effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.» (sentenza n. 119 del 2020).
11.– In questi termini, l’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, si pone in violazione del combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali dei Comuni, e degli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., in riferimento al principio di sussidiarietà verticale.
11.1.– Per quanto, come si è detto, la previsione di incentivi per il recupero degli immobili dismessi, anche in deroga agli strumenti urbanistici, possa essere ricondotta a un obiettivo legittimamente perseguibile dal legislatore regionale in quanto rientrante nella sua competenza legislativa in materia di governo del territorio, le modalità con cui questi incentivi sono stati previsti dalla disciplina in esame, e la loro stessa entità, determinano una compressione della funzione fondamentale dei Comuni in materia di pianificazione urbanistica che si spinge «oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità» (sentenza n. 119 del 2020).
L’alterazione dell’equilibrio che deve sussistere tra esercizio delle competenze regionali e salvaguardia dell’autonomia dei Comuni è innanzi tutto determinata dalla previsione, contenuta nella disposizione censurata, di ampliamenti di volumetria riconosciuti a chi intraprenda operazioni di recupero di immobili abbandonati, stabiliti in misura fissa e in percentuale significativa, oscillante tra il 20 e il 25 per cento rispetto al manufatto insediato. Se a ciò si aggiunge la generalizzata esenzione dal reperimento degli standard urbanistici e l’altrettanto indiscriminata previsione di deroghe a norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze (con l’unica eccezione di quelle previste da fonte statale), si evince agevolmente come i Comuni lombardi vedano gravemente alterati i termini essenziali di esercizio del loro potere pianificatorio, per il fatto che risulta loro imposta una disciplina che genera un aumento non compensato, di portata potenzialmente anche significativa, del carico urbanistico e, più in generale, della pressione insediativa, che per certi aspetti potrebbe risultare poco coerente con le finalità perseguite dalla stessa legge regionale.
Peraltro, ai medesimi Comuni non è attribuita alcuna possibilità di influire sull’applicazione delle misure incentivanti, sia perché ad essi (ove abbiano una popolazione superiore a 20.000 abitanti) non è attribuita alcuna “riserva di tutela” rispetto ad ambiti del proprio territorio ritenuti meritevoli di una difesa rafforzata del paesaggio, sia perché –ancora prima– la scelta di intervenire con legge regionale li ha ulteriormente privati di qualsiasi compensazione procedurale (quale, in ipotesi, si sarebbe potuta avere in sede di interlocuzione nel corso della procedura di adozione del piano di governo del territorio, ovvero all’atto della pianificazione regionale), con l’effetto –costituzionalmente intollerabile– di «estromettere tali Enti dalle decisioni riguardanti il proprio territorio» (sentenza n. 478 del 2002).
Né, infine, gli esiti ravvisati possono essere attenuati dalla natura temporanea degli incentivi e delle deroghe introdotte, atteso che nessuna delle misure in discussione, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa regionale, è soggetta a un termine di efficacia: esse si prestano, quindi, a comprimere in modo stabile il potere pianificatorio comunale, con l’unica e circoscritta eccezione dell’incremento dei diritti edificatori riconosciuto dal comma 5, ultimo periodo, del citato art. 40-bis ai proprietari degli immobili in caso di demolizione, applicabile per un periodo massimo di dieci anni dalla data di individuazione dell’immobile quale dismesso.
Anche da ciò, pertanto, si ricava come la disposizione in esame non faccia residuare in capo ai Comuni alcun reale spazio di decisione, con l’effetto di farli illegittimamente scadere a meri esecutori di una scelta pianificatoria regionale, per questo lesiva dell’autonomia comunale presidiata dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., oltre che del principio di sussidiarietà verticale di cui al combinato disposto degli artt. 5 e 118, commi primo e secondo, Cost.
11.2.– Gli argomenti addotti dalla Regione Lombardia e dalla parte privata a sostegno della legittimità costituzionale del richiamato art. 40-bis non scalfiscono le conclusioni raggiunte.
11.2.1.– Non colgono nel segno, innanzi tutto, gli argomenti spesi dalla difesa di MDV_Newco 40 srl per ritenere che la funzione comunale non sarebbe compromessa in ragione del mantenimento in capo ai Comuni del potere di individuare gli immobili abbandonati e degradati. I presupposti fissati dall’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 per tale individuazione, infatti, rendono l’esercizio della funzione dei Comuni sostanzialmente vincolata sul punto, perché essa viene ristretta tanto con riguardo al periodo a partire dal quale gli immobili devono ritenersi abbandonati (da oltre cinque anni), quanto in relazione ai profili di criticità che, da soli o congiuntamente, sono idonei a rivelarne lo stato di abbandono e di degrado.
11.2.2.– La difesa regionale ha invece sostenuto che la disposizione censurata non intacca il potere dei Comuni di scegliere quali funzioni insediare sul proprio territorio, ciò che potrebbe salvaguardare la loro autonomia per il fatto di consentire un’applicazione diversificata delle misure incentivanti e delle deroghe sul territorio di riferimento.
Tale assunto è innanzi tutto smentito nel momento in cui la disposizione censurata ha visto retroattivamente estendere la sua portata anche agli immobili già individuati dai Comuni come dismessi, sottraendosi così a qualsiasi forma di raccordo con gli atti pianificatori già assunti.
Questa circostanza incide in modo significativo sulla potestà pianificatoria municipale, perché riconnette a una scelta effettuata dal Comune in un determinato momento e, quindi, nel quadro delle complessive politiche pianificatorie da questo perseguite, conseguenze che lo stesso non avrebbe potuto prevedere al momento di adozione di quelle scelte e che finiscono potenzialmente per stravolgere l’esercizio del nucleo incomprimibile delle sue funzioni.
Ciò è del resto dimostrato dalle ricadute che la norma in esame ha prodotto nel caso che ha dato origine al giudizio a quo, in cui il Comune di Milano si è dotato di una disciplina sul recupero degli immobili dismessi, quale quella contenuta nel richiamato art. 11 delle NdA, nel quadro della più generale scelta pianificatoria consistente nell’adozione del principio dell’indifferenza funzionale, vale a dire della generale libertà delle funzioni da insediare sul proprio territorio (art. 8 NdA). Che il medesimo Comune, in un secondo momento, si veda imposta la scelta di consentire il recupero degli immobili dismessi con misure incentivanti ampie e stabilite in modo fisso, senza poterne più modulare la portata sulla base delle distinte funzioni insediate sul territorio, dimostra quanto dalla scelta pianificatoria in precedenza adottata scaturiscano conseguenze che esso non poteva prevedere, di cui non può più modulare l’efficacia e la portata e che conseguentemente stravolgono l’impianto della sua pianificazione.
11.2.3.– Più in generale,
l’imposizione ai Comuni, per di più al di fuori di qualsiasi procedura di raccordo collaborativo, di una disciplina quale quella in esame finisce per alterare i termini essenziali di esercizio della funzione pianificatoria, anche perché obbliga i medesimi Comuni a far dipendere le loro scelte fondamentali sulle forme di uso e sviluppo del territorio da una decisione legislativa destinata a incidere in modo assai significativo sull’aumento dell’edificato e sulla conseguente pressione insediativa. Ciò contrasta con l’assunto, che questa Corte condivide, per cui «il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio […], ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti» (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 09.05.2018, n. 2780).
12.– Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021 (14.12.2019).
Restano assorbite le altre questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle ordinanze di rimessione.
12.1.– La declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione comporta, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale in via conseguenziale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021, che ha stabilito, al ricorrere dei presupposti ivi indicati, l’ultrattività delle disposizioni originariamente contenute nell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, pur a seguito delle modifiche ad esso apportate dall’art. 1 della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
   1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, recante «Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali», nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge della Regione Lombardia 24.06.2021, n. 11, recante «Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità. Modifiche all’art. 40-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)»;
   2)
dichiara, in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021 (Corte Costituzionale, sentenza 28.10.2021 n. 202).

giugno 2021

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d’uso.
Il TAR Brescia osserva che gli articoli 51 e 52 della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 hanno previsto un regime di sostanziale liberalizzazione delle destinazioni d’uso, per il quale il passaggio a un diverso tipo di utilizzazione deve ritenersi sempre ammissibile, in mancanza di espressi divieti contenuti nello strumento urbanistico.
La liberalizzazione delle destinazioni d’uso non assicura peraltro che il passaggio dall’una all’altra avvenga a titolo gratuito.
In base alla normativa regionale perché si possa avere un mutamento di destinazione d’uso senza costi per il privato sono necessarie tre condizioni: che il cambio sia senza opere, che la nuova destinazione d'uso non alteri il fabbisogno di standard, che siano decorsi almeno 10 anni dell'ultimazione dei lavori
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.06.2021 n. 578 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3. Il ricorso assunto al N.R.G. 1286/2014 censura i provvedimenti con i quali l’amministrazione comunale ha diffidato i proprietari delle tre indicate unità a mutarne la destinazione d’uso da produttiva a direzionale/servizi, allegando che in virtù della convenzione urbanistica originaria gli standard sono stati versati solo nella misura del 20% della s.l.p., dovuta per gli immobili a destinazione produttiva, che la nuova funzionalizzazione richiede standard nella misura del 100% della s.l.p. (ai sensi degli articoli 23, 44 e 46 delle Nta del piano delle regole) e che quindi è dovuto il versamento del differenziale.
4. Va anzitutto dichiarata l’inammissibilità del gravame con riferimento al sub 701, atteso che il proprietario Gi.Sp. non ha proposto impugnativa.
5. Con riferimento ai restanti subalterni il ricorso è ammissibile limitatamente ai profili di interesse dei rispettivi proprietari.
6. L’amministrazione resistente ha precisato che non è mai stata in contestazione la possibilità di mutare la destinazione dei subalterni, risultando il nuovo utilizzo compatibile con le norme urbanistiche.
7. La nuova destinazione risulta pertanto legittima, atteso tra l’altro che gli articoli 51 e 52 della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 hanno previsto un regime di sostanziale liberalizzazione delle destinazioni d’uso, per il quale il passaggio a un diverso tipo di utilizzazione deve ritenersi sempre ammissibile, in mancanza di espressi divieti contenuti nello strumento urbanistico.
L’articolo 51, in particolare, prevede al comma 1 che “Costituisce destinazione d'uso urbanistica di un'area la funzione o il complesso di funzioni ammesse dagli strumenti di pianificazione. Ferma restando, per i profili edilizi, la destinazione d'uso prevalente ai sensi dell'articolo 23-ter, comma 2, del D.P.R. 380/2001, è principale la destinazione d'uso qualificante l'area; è complementare o accessoria o compatibile qualsiasi ulteriore destinazione d'uso che integri o renda possibile la destinazione d'uso principale o sia prevista dallo strumento urbanistico generale a titolo di pertinenza o custodia. In particolare, sono sempre considerate tra loro urbanisticamente compatibili, anche in deroga a eventuali prescrizioni o limitazioni poste dal PGT, le destinazioni residenziale, commerciale di vicinato e artigianale di servizio, nonché le destinazioni direzionale e per strutture ricettive fino a 500 mq di superficie lorda. Le destinazioni principali, complementari, accessorie o compatibili, come sopra definite, possono coesistere senza limitazioni percentuali ed è sempre ammesso il passaggio dall'una all'altra, nel rispetto del presente articolo, salvo quelle eventualmente escluse dal PGT. (…)”.
8. La liberalizzazione delle destinazioni d’uso non assicura peraltro che il passaggio dall’una all’altra avvenga a titolo gratuito. In base alla normativa regionale perché si possa avere un mutamento di destinazione d’uso senza costi per il privato sono necessarie tre condizioni: che il cambio sia senza opere, che la nuova destinazione d'uso non alteri il fabbisogno di standard, che siano decorsi almeno 10 anni dell'ultimazione dei lavori (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 02.03.2021, n. 206; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 17.06.2015, n. 855).
9. La modifica del fabbisogno di standard e quindi il carico urbanistico della nuova destinazione e l’eventuale incremento rispetto a quella precedente vanno verificati non già in base a principi generali, bensì in ragione delle specifiche previsioni urbanistiche comunali.

URBANISTICA: Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono il frutto di complesse valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello politico.
In tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni istituzionali in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al sindacato giurisdizionale l’apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla sfera del merito.
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L’ampia discrezionalità in materia di pianificazione urbanistica si riflette anche sull’onere di motivazione, che grava quindi sull’amministrazione in termini solo generali.
Tale obbligo risulta quindi soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che sorreggono le scelte effettuate, potendo la motivazione desumersi anche dai documenti di accompagnamento allo strumento di pianificazione e, più in generale, dagli atti del procedimento.
Per giustificare il rigetto delle osservazioni presentate dagli interessati è pertanto sufficiente che le stesse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste alla base del piano; d’altro canto le osservazioni costituiscono meri apporti collaborativi in funzione di interessi generali e non individuali.
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In ordine alla deduzione di eccesso di potere per disparità di trattamento, tale vizio, “a fronte di scelte discrezionali dell'Amministrazione, è riscontrabile soltanto in caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato, situazioni la cui prova rigorosa deve essere fornita dall'interessato, con la precisazione che la legittimità dell'operato della Pubblica amministrazione non può comunque essere inficiata dall'eventuale illegittimità compiuta in altra situazione.
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Circa il fatto che
l’atto di adozione del PGT non rechi alcuna motivazione a riscontro delle richieste formulate dal ricorrente a seguito della comunicazione di avvio del procedimento di redazione dello strumento urbanistico, va detto che la possibilità di fornire i propri contributi in tale anticipata fase di elaborazione del PGT non comporta l’obbligo per l’amministrazione di esaminarli né tanto meno di accoglierli, fermo restando che la partecipazione degli interessati è poi riconosciuta e codificata nella fase procedimentale vera e propria.
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In base a quanto previsto dall’art. 13, commi 7, 9 e 10, l.r. 12/2005, l’approvazione delle controdeduzioni alle osservazioni e l’approvazione definitiva del PGT avvengono contestualmente con un’unica deliberazione e non richiedono una duplice votazione, non prevista da alcuna norma
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Lo scrutinio delle censure articolate nel gravame richiede, preliminarmente, di ribadire che secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale “le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono il frutto di complesse valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello politico; in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni istituzionali in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al sindacato giurisdizionale l’apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla sfera del merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.04.2020, n. 2284; 31.12.2019, n. 8917; 12.05.2016, n. 1907)”.
...
È infondata anche la seconda doglianza, che si appunta sul denunciato difetto di motivazione.
Per consolidata giurisprudenza l’ampia discrezionalità in materia di pianificazione urbanistica si riflette anche sull’onere di motivazione, che grava quindi sull’amministrazione in termini solo generali. Tale obbligo risulta quindi soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che sorreggono le scelte effettuate, potendo la motivazione desumersi anche dai documenti di accompagnamento allo strumento di pianificazione e, più in generale, dagli atti del procedimento.
Per giustificare il rigetto delle osservazioni presentate dagli interessati è pertanto sufficiente che le stesse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste alla base del piano; d’altro canto le osservazioni costituiscono meri apporti collaborativi in funzione di interessi generali e non individuali (TAR Lombardia, Milano Sez. I, 26.10.2018, n. 2407).
...
Non merita parimenti accoglimento il terzo motivo del gravame, con il quale gli esponenti deducono l’eccesso di potere per disparità di trattamento; il vizio denunciato, infatti, “a fronte di scelte discrezionali dell'Amministrazione, è riscontrabile soltanto in caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato, situazioni la cui prova rigorosa deve essere fornita dall'interessato, con la precisazione che la legittimità dell'operato della Pubblica amministrazione non può comunque essere inficiata dall'eventuale illegittimità compiuta in altra situazione (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 02.03.2020, n. 1499; sez. III, 04.12.2018, n. 6873; id., sez. IV, 27.07.2018, n. 4611; id., sez. VI, 30.10.2017, n. 5016; id., sez. VI, 30.06.2011, n. 3894)” (Cons. Stato sez. IV, 22.03.2021, n. 2418; TAR Valle d'Aosta, Sez. I, 31.12.2020, n. 69).
Pertanto in assenza della totale sovrapponibilità delle situazioni in fatto relative alle zone poste in comparazione, della quale deve dare rigorosa prova il deducente, difettano i presupposti per denunciare l’illegittimità di una disciplina non omogenea.
...
Va disatteso anche il quarto motivo, con il quale i ricorrenti lamentano che l’atto di adozione del PGT non reca alcuna motivazione a riscontro delle richieste dagli stessi formulate a seguito della comunicazione di avvio del procedimento di redazione dello strumento urbanistico.
La possibilità di fornire i propri contributi in tale anticipata fase di elaborazione del PGT non comporta, infatti, l’obbligo per l’amministrazione di esaminarli né tanto meno di accoglierli, fermo restando che la partecipazione degli interessati è poi riconosciuta e codificata nella fase procedimentale vera e propria.
...
Deve essere, infine, disattesa anche l’ultima doglianza.
Come ribadito da recente pronuncia di questo TAR, infatti, “In base a quanto previsto dall’art. 13 commi 7, 9 e 10, l’approvazione delle controdeduzioni alle osservazioni e l’approvazione definitiva del piano avvengono contestualmente con un’unica deliberazione e non richiedono una duplice votazione, non prevista da alcuna norma (in tale senso, cfr. TAR Brescia, sez. I, 24.06.2009 n. 1312)” (Cons. Stato, Sez. II, 12.04.2021) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.06.2021 n. 563 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2021

EDILIZIA PRIVATA: F. Donegani, Rigenerazione urbana in Lombardia: la parola alla Corte Costituzionale (15.03.2021 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATAPremio volumetrico su immobili dismessi, lo scontro Comune-Regione Lombardia finisce alla Consulta.
Il Tar rimette la norma alla corte costituzionale. Fermi i progetti di Boeri per Coima. Gli immobiliaristi di Aspesi: senza incentivi nessuna rigenerazione urbana sostenibile.

Il Tar Lombardia spedisce alla Consulta la legge regionale sugli edifici abbandonati che concede un premio edificatorio fino al 25% a chi recupera immobili dismessi da almeno cinque anni.
La norma, secondo i giudici, rappresenta una «violazione della potestà pianificatoria» del Comune e ha il potere di «stravolgere l'assetto del territorio». Intanto, l'incertezza sulla legittimità degli attuali e consistenti premi volumetrici mina alcuni progetti di riqualificazione, caso emblematico il ponte-serra a scavalco su via Melchiorre Gioia concepito dagli studi Stefano Boeri e Diller Scofidio+Renfro, per conto di Coima, nell'ambito del progetto di riqualificazione del "Pirellino".
Ma, senza premi concreti, non può essere avviato l'ambizioso processo di rigenerazione che Milano ha in mente, avvertono gli imprenditori del settore immobiliare rappresentati da Aspesi. «Il recupero di un sito dismesso è più costoso di un intervento su terreno verde a causa di bonifiche e demolizioni da effettuare quasi sempre. Perché, quindi, un operatore come i nostri possa decidere di realizzarlo occorrono degli incentivi senza i quali i conti non tornerebbero», sottolinea Federico Filippo Oriana, presidente dell'Associazione nazionale delle società immobiliari.
La questione di costituzionalità della legge regionale è stata sollevata dal Comune, parte in causa in tre ricorsi al Tar (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 371 - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 372 - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 373) presentati da proprietari di immobili inseriti nell'elenco degli «edifici abbandonati o degradati» del nuovo Pgt.
Nella lista finiscono gli immobili dismessi da più di un anno e considerati pericolosi per la sicurezza, la salubrità o l'incolumità pubblica o, più semplicemente, in contrasto con il decoro e la qualità urbana. I proprietari che non recuperano o abbattono tali edifici nell'arco di 18 mesi, subiscono la demolizione in danno da parte del Comune e perdono la volumetria esistente (possono contare solo sul riconoscimento dell'indice di edificabilità unico di 0,35 mq/mq). Da qui il ricorso al Tar dei privati penalizzati dalle regole del nuovo Pgt.
Tra i motivi dei ricorsi spicca il contrasto tra le norme di attuazione del Pgt (art. 11) e la normativa regionale (
art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dalla lr 18 del 2019) di gran lunga più vantaggiosa per i proprietari di immobili fatiscenti, che hanno tre anni di tempo per presentare il titolo edilizio necessario per avviare i lavori e possono vedersi riconoscere un incremento dei diritti edificatori tra il 20 e il 25 per cento. Al premio si affianca l'esenzione dall'eventuale obbligo di reperimento degli standard.
Evidente, secondo il Tar, il contrasto tra le regole del Pgt e la legge regionale così come è palese che la questione di incostituzionalità sollevata dal Comune non sia infondata. In violazione di alcuni articoli della Costituzione (n. 5. 97, 114, 117 e 18), la legge regionale «comprime in maniera eccessiva la potestà pianificatoria comunale», si legge nelle ordinanze. Inoltre, affermano i giudici, la disciplina regionale sugli immobili fatiscenti è «ingiustificatamente rigida e uniforme», prescinde dalle decisioni comunali e può avere un impatto incisivo sulla pianificazione locale, tale da poter «stravolgere l'assetto del territorio o di sue parti».
Il Tar riscontra anche una violazione della normativa statale, tra cui quella sugli standard (Dm 1444 del 1968): l'art. 40-bis esonera, seppure con alcune eccezioni, dall'obbligo di individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, «non garantendo un corretto rapporto tra il carico urbanistico gravante sulla zona interessata dall'intervento di riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche».
Contrario, inoltre, ai principi di uguaglianza e imparzialità dell'amministrazione il riconoscimento di premialità in favore di persone che hanno causato «l'insorgere di situazioni di degrado e pericolo», vantaggi a cui invece non possono aspirare i proprietari più diligenti. La parola passa ora alla Consulta (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 12.02.2021).

EDILIZIA PRIVATADisciplina di legge regionale sul recupero degli immobili degradati e compromissione della potestà pianificatoria comunale: sollevata q.l.c..
Il Tar per la Lombardia sottopone al giudizio della Corte costituzionale la normativa regionale lombarda sul recupero edilizio degli immobili degradati e abbandonati (art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, introdotto dalla legge regionale n. 18 del 2019), censurandone l’irragionevolezza e il contrasto con gli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione.
In particolare, secondo la Sezione rimettente, risulterebbe oltremodo compressa la potestà pianificatoria dei Comuni (in specie, quelli di grandi dimensioni), i quali non sarebbero più messi nelle condizioni di approvare alcun intervento correttivo o derogatorio rispetto a quanto già stabilito dalle norme della legge regionale, in tal modo venendo loro sottratto il compito di valorizzare le peculiarità dei singoli territori.
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Urbanistica ed edilizia – Regione Lombardia – Recupero degli immobili degradati e abbandonati – Compressione della potestà pianificatoria dei Comuni – Questione rilevante e non manifestamente infondata di costituzionalità.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lettera a, della legge regionale n. 18 del 2019), rubricato “Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione, in quanto, nel dettare una disciplina completa ed esaustiva sul trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati e degradati, lascia compiti meramente attuativi ed esecutivi in capo ai Comuni, comprimendone in maniera eccessiva la potestà pianificatoria ed impedendo loro una coerente programmazione in ambito urbanistico (1).
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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, il Tar per la Lombardia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge regionale lombarda sul governo del territorio (legge regionale 11.03.2005, n. 12), come introdotto dalla legge regionale n. 18 del 2019, che detta una disciplina molto analitica sul recupero degli immobili degradati e abbandonati. Il cuore dei dubbi di costituzionalità attiene all’eccessiva compressione della potestà pianificatoria dei Comuni, con particolare riguardo ai Comuni di maggiori dimensioni.
Nel giudizio innescatosi dinnanzi al Tar, il proprietario di un immobile situato nel Comune di Milano (in zona a destinazione urbanistica prevalentemente terziariadirezionale) ha impugnato gli atti con i quali l’edificio è stato ricompreso tra gli “edifici abbandonati e degradati”, con conseguente sottoposizione al regime previsto dall’art. 11 delle Norme di attuazione (N.d.A.) del Piano delle Regole (P.d.R.), facente parte del Piano di Governo del Territorio (PGT).
Uno dei motivi di gravame ha lamentato l’illegittimità sopravvenuta di tali norme di attuazione, in quanto contrastanti con il regime successivamente introdotto dall’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005. La difesa comunale ha, in primo luogo, sostenuto la perfetta compatibilità tra quest’ultima norma e l’art. 11 delle N.d.A. (operando, cioè, un tentativo di interpretazione della norma di legge in senso costituzionalmente conforme), e, in subordine, ne ha eccepito l’illegittimità costituzionale per contrasto con vari parametri costituzionali.
   II. – Il Collegio ritiene di non accogliere l’interpretazione dell’art. 40-bis propugnata dalla difesa comunale (attese le evidenti inconciliabilità testuali rispetto a quanto previsto dalla preesistente norma di attuazione comunale, “poiché viene regolamentata, in maniera divergente oltre che contrastante, la medesima fattispecie, ossia la disciplina da riservare agli immobili abbandonati e degradati”) e, di conseguenza, ritiene pregiudiziale alla propria decisione la risoluzione della questione di legittimità costituzionale sulla norma della legge regionale. Di seguito, il percorso argomentativo seguito dal Tar per la Lombardia:
      a) quanto al requisito della rilevanza, esso deriva dalla sovrapposizione dell’art. 40-bis alla regolamentazione comunale contenuta nell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R., sicché l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe l’applicazione alla fattispecie della norma attuativa comunale; in particolare, secondo il Tar:
         a1) qualora fosse dichiarato incostituzionale l’art. 40-bis, non potrebbe escludersi che si possa comunque procedere all’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. comunali in ragione della fondatezza, anche parziale, dei restanti motivi di ricorso;
         a2) tale annullamento produrrebbe effetti sensibilmente diversi rispetto a quelli che scaturirebbero dalla permanente vigenza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, posto che, “in tale ultimo frangente, agli immobili abbandonati e degradati –compreso quello della ricorrente– si applicherebbero le regole contenute nella disposizione regionale, mentre, in caso di declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis, l’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. determinerebbe l’applicazione agli immobili fatiscenti dei principi generali afferenti alla materia edilizia ed urbanistica, riconoscendo ai titolari dei diritti sugli immobili abbandonati e degradati la facoltà di scegliere se procedere o meno alla loro riqualificazione e con le tempistiche e le modalità ritenute più opportune dai predetti soggetti”;
         a3) nella prospettiva del Comune, l’annullamento della norma regolamentare comunale per violazione della superiore legge regionale, non dichiarata incostituzionale, “non lascerebbe all’Ente locale alcuno spazio per intervenire con un proprio regolamento sulla materia, se non per aspetti del tutto marginali e secondari, vista la completezza e la sostanziale autoapplicabilità della richiamata previsione regionale”; di contro, un’eventuale declaratoria di incostituzionalità “lascerebbe intatto il potere comunale di intervenire per disciplinare ex novo la materia, anche laddove fosse integralmente annullato da questo Tribunale l’art. 11 delle N.d.A.”, così salvaguardandosi la potestà pianificatoria comunale;
      b) quanto al requisito della non manifesta infondatezza, il Tar mette a confronto il testo dell’art. 11 delle N.d.A. con il testo dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, evidenziando che quest’ultima disposizione “si rivela sostanzialmente completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati e degradati”: ai Comuni residuano “compiti meramente attuativi ed esecutivi”, con la sola parziale eccezione per i Comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti (“i quali, per motivate ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze”);
      c) i conseguenza, appaiono in primo luogo violati gli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione, a causa dell’eccessiva compressione della potestà pianificatoria dei Comuni di maggiori dimensioni (tra i quali, in particolare, il Comune di Milano), ai quali non risulta consentito “alcun intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione”; in particolare:
         c1) la disciplina regionale sul recupero degli immobili degradati e abbandonati “risulta particolarmente analitica sia nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio che tale pianificazione mira a realizzare”; tale normativa, pertanto, non lascia alcuno spazio per tentativi di interpretazione costituzionalmente orientata (sono richiamate, della Corte costituzionale: sentenza 10.10.2020, n. 218, punto 2.2 della parte in diritto, in Cassaz. pen., 2021, 204; sentenza 21.07.2016, n. 204, in Dir. pen. e proc., 2016, 1434, con nota di MENGHINI, in Rass. penit. e criminologica, 2015, 3, 135, con nota di ABATE, in Cass. pen., 2017, 594, con nota di ABATE, ed in Giur. cost., 2016, 1441, con note di PUGIOTTO e FIORENTIN);
         c2) la disciplina regionale, infatti, ha una portata “ingiustificatamente rigida e uniforme”, in quanto è destinata ad operare “a prescindere dalle decisioni comunali” e a “produrre un impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale”;
         c3) al singolo Comune è quindi impedita “una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea”, e ciò anche nell’ipotesi –che ricorre nella fattispecie– in cui un Comune avesse già individuato gli immobili da recuperare, posto che la legge regionale riconosce, in via generalizzata, “un indice edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard”, anche a costo di discostarsi dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o alla loro non inclusione nel relativo elenco;
         c4) in tale contesto, il sacrificio delle prerogative comunali appare “non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli immobili abbandonati e degradati”, posto che viene stravolta la pianificazione territoriale già adottata dai Comuni, soprattutto in considerazione del mancato bilanciamento tra l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato (derivante dall’indice edificatorio premiale predetto) e il contestuale reperimento degli standard urbanistici e dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione (che, come detto, sempre in prospettiva premiale, non sono previsti dalla legge) – aspetto, quest’ultimo, sottolinea il Tar, che si pone anche in contrasto con il d.m. n. 1444 del 1968, che costituisce un “principio in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di standard che devono essere garantiti sul territorio comunale”;
      d) sotto altro profilo, il Collegio rimettente evidenzia l’irragionevolezza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost., “nella parte in cui non si rapporta ai principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del 2005”, in specie al principio di riduzione del consumo di suolo (che è richiamato dagli artt. 1, comma 3-bis, e 19, comma 2, lett. b-bis, della legge regionale del 2005, nonché dalla legge regionale n. 31 del 2014, recante “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione del suolo degradato”); in proposito, il Collegio, nel citare alcuni passaggi della sentenza della Corte costituzionale del 16.07.2019, n. 179 (oggetto della News US n. 93 del 27.08.2019, cui si rinvia per ogni utile approfondimento, nonché in Giur. cost., 2019, 2074, con nota di FALLETTA, ed in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 843, con nota di PAGLIAROLI), osserva che:
         d1) la riduzione del consumo di suolo “rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo territoriale sostenibile”;
         d2) proprio il mancato bilanciamento tra l’attività di riqualificazione e recupero di immobili abbandonati e degradati e gli obiettivi di limitazione del consumo del suolo libero fa emergere, nel caso di specie, l’irragionevolezza e la contraddittorietà della norma regionale, caratterizzata da elevata rigidità;
      e) sotto ulteriore profilo, il Tar rimettente censura anche la lesione della “funzione amministrativa comunale in ambito urbanistico”, avuto riguardo alla puntuale e specifica natura della norma regionale “che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione”; difatti:
         e1) la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita, accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina urbanistico-edilizia (quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche e sulle tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento urbanistico locale), esclude qualsiasi autonoma scelta del Comune in sede di pianificazione generale ed altera i rapporti tra il carico urbanistico e le dotazioni pubbliche e private;
         e2) simili considerazioni trovano riscontro nella più recente giurisprudenza costituzionale, secondo cui “nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle Regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma 27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78 […], come sostituito dall’art. 19, comma 1, lett. a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 […], convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135). Il ‘sistema della pianificazione’, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)” (sentenza 23.06.2020, n. 119, oggetto della News US n. 83 del 24.07.2020, cui si rinvia per ampi riferimenti di giurisprudenza, nonché in Giur. cost., 2020, 1323);
         e3) l’intervento del legislatore regionale deve pertanto perseguire “esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito nell’art. 118 della Costituzione”;
         e4) nella specie, invece, “nessuna ‘riserva di tutela’ è stata riconosciuta al Comune, consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli strumenti di pianificazione incidenti sul governo del territorio”, diversamente, quindi, dal modus procedendi che lo stesso legislatore regionale lombardo ha correttamente seguito in altri recenti occasioni (sono qui citate le leggi regionali sul piano casa, la n. 12 del 2009 e la n. 4 del 2012, nonché gli artt. 63 ss. della stessa legge regionale n. 12 del 2005 in materia di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti): emerge pertanto –sottolinea il Collegio– che, “in alcuni frangenti, lo stesso legislatore regionale lombardo si è dimostrato rispettoso delle prerogative pianificatorie comunali, pur non rinunciando a disciplinare la materia del governo del territorio nell’esercizio delle proprie attribuzioni”;
         e5) non può, pertanto, nella specie, ritenersi superato “il test di proporzionalità con riguardo all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale” (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2019, cit., punto 12.7 della parte in diritto);
      f) ancora, la norma regionale sospettata di illegittimità costituzionale –laddove prevede il premio di edificabilità– sembra violare anche il principio espresso dall’art. 3-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 (testo unico dell’edilizia), secondo il quale la riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata, senza tuttavia aumento della superficie coperta: al riguardo, il Tar rimettente precisa che “deve ricomprendersi difatti tra i principi statali in materia di governo del territorio la previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un bene non può spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro bene, di almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo di suolo, peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale”;
      g) infine, viene sollevato pure il contrasto “con i principi di uguaglianza e imparzialità dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione”, dal momento che vengono riconosciute “delle premialità per la riqualificazione di immobili abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile”; ne deriva, secondo il Tar, un effetto discriminatorio e irragionevole di incentivazione di situazioni di abbandono e di degrado, “da cui discende la possibilità di ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle ordinarie”.
   III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
      h) con la richiamata sentenza n. 179 del 2019, cit., la Corte costituzionale –nel pronunciarsi, ex professo, proprio sul principio di autonomia dei Comuni nella pianificazione urbanistica– ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Lombardia n. 31 del 2014, nella parte in cui non consentiva ai Comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente; ciò, per violazione del combinato disposto tra l’art. 117, secondo comma, lett. p), Cost., relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali, e gli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., con riguardo al principio di sussidiarietà verticale, in quanto la disposizione impugnata comprime l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, paralizzandola per un periodo temporale, che è tradizionalmente rimessa all'autonomia dei Comuni e rientra in quel nucleo di potestà amministrative intimamente connesso al riconoscimento del principio dell’autonomia comunale; in particolare, secondo tale pronuncia (par. n. 12 della parte in diritto):
         h1) la funzione di pianificazione urbanistica è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni fin dalla legge n. 2359 del 1865 (recante nome “Sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica”), senza che questo presupposto di fondo sia stato poi travolto dalla successiva e complessa evoluzione che ha condotto allo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario, nonché “a una più ampia concezione di urbanistica e quindi alla consapevolezza della necessità di una pianificazione sovracomunale”, tanto che il legislatore nazionale ha qualificato, attuando il nuovo Titolo V della Costituzione, come funzioni fondamentali dei Comuni proprio “la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale” (art. 14, comma 27, lettera d, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, in legge n. 122 del 2010, n. 122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, in legge n. 135 del 2012);
         h2) il legislatore statale “ha quindi sottratto allo specifico potere regionale di allocazione ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione comunale, stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello dell’ente più vicino al cittadino, in cui storicamente essa si è radicata come funzione propria, e l’ha riconosciuta come parte integrante della dotazione tipica e caratterizzante dell’ente locale. Ha così stabilito un regime giuridico comune sottratto, per questo aspetto e salvo quanto si dirà in seguito, alle potenzialità di differenziazione insite nella potestà allocativa delle Regioni nelle materie di loro competenza”;
         h3) quanto precede non esclude che la legge regionale possa intervenire a disciplinare la funzione di pianificazione urbanistica, “anche in relazione agli ambiti territoriali di riferimento, e financo a conformarla in nome della verifica e della protezione di concorrenti interessi generali collegati a una valutazione più ampia delle esigenze diffuse sul territorio” (cfr. sentenza 27.07.2000, n. 378, in Urb. e appalti, 2000, 1183, con nota di MANFREDI);
         h4) anche dopo l’approvazione della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, l’autonomia dei Comuni “non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali” (sentenza 07.07.2016, n. 160, in Giur. cost., 2016, 1312);
         h5) su questo piano, è richiesto “uno scrutinio particolarmente rigoroso laddove la normativa regionale non si limiti a conformare, mediante previsioni normative alle quali i Comuni sono tenuti a uniformarsi, le previsioni urbanistiche nell’esercizio della competenza concorrente in tema di governo del territorio, quanto piuttosto comprima l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, come nel caso di specie, paralizzandola per un periodo temporale”;
         h6) ne risulta un quadro in cui “il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non [è] stato risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della Costituzione”, sicché “il giudizio di costituzionalità non ricade tanto, in via astratta, sulla legittimità dell’intervento del legislatore regionale, quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in ordine alla «verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali»” (con richiamo alla sentenza 30.07.1997, n. 286, in Giur. cost., 1997, 2588, con note di DELLO SBARBA e KUSTERMANN, in Le Regioni, 1998, 155, con nota di IMMORDINO, ed in Riv. amm., 1997, 1109, con nota di RAGO);
         h7) viene quindi in rilievo “il variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha riconosciuto specifica valenza costituzionale l’affermazione del principio di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa Corte a valutare, nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone”, dovendo pertanto il giudizio di proporzionalità “svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti”;
      i) le medesime argomentazioni sono state riprese e approfondite, più di recente, dalla sentenza della stessa Corte costituzionale n. 119 del 2020, cit. (anch’essa menzionata dall’ordinanza qui in epigrafe), secondo cui “Nelle delicate verifiche di funzionamento del principio di sussidiarietà verticale tra l’autonomia comunale e quella regionale, il giudizio di proporzionalità deve traguardare i singoli assetti normativi, nel loro peculiare e mutevole equilibrio”, nel caso di specie concludendo per la salvezza della norma regionale oggetto di scrutinio, “poiché gli interventi in deroga che la norma stessa consente, da un lato, soddisfano interessi pubblici di dimensione sovracomunale e, dall’altro, per i già segnalati limiti quantitativi, qualitativi e temporali, non comprimono l’autonomia comunale oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità”;
      j) sulle funzioni fondamentali degli Enti locali, e su una loro eventuale compressione, anche nella materia urbanistica, si veda inoltre, nella giurisprudenza costituzionale:
         j1) sentenza 27.12.2018, n. 245 (in Giur. cost., 2018, 2758), secondo cui “L’art. 2, comma 4, del testo unico dell’edilizia, se riconosce ai Comuni la facoltà di disciplinare l’attività edilizia, non configura (né potrebbe) in capo agli stessi una riserva esclusiva di regolamentazione in grado di spogliare il legislatore statale e quello regionale del legittimo esercizio delle loro concorrenti competenze legislative in materia di governo del territorio, competenze non a caso richiamate dallo stesso art. 2 TUE”;
         j2) sentenza 13.03.2014, n. 46 (in Giur. cost., 2014, 1134), secondo cui “anche riconoscendo che il «sistema della pianificazione» […] assurga a «principio dell’ordinamento giuridico della Repubblica» e ad espressione degli «interessi nazionali», limitando perciò l’esplicazione della competenza legislativa regionale di cui discute, è dirimente il rilievo che il principio in questione non potrebbe ritenersi così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –che è fonte normativa primaria, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti, come quelli di cui si discute”;
         j3) sentenza 26.11.2002, n. 478 (in Urb. e appalti, 2003, 289, con nota di DE PAULI, ed in Riv. giur. ambiente, 2003, 515, con nota di MANFREDI), secondo cui la legge nazionale, regionale o delle Province autonome può modificare le caratteristiche o l’estensione dei poteri urbanistici dei Comuni, “ovvero subordinarli a preminenti interessi pubblici, alla condizione di non annullarli o comprimerli radicalmente, garantendo adeguate forme di partecipazione dei Comuni interessati ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia (fra le molte, si vedano le sentenze n. 378/2000, n. 357/1998, n. 286/1997, n. 83/1997 e n. 61/1994)”, escludendo, comunque, che dall’autonomia in campo urbanistico possa derivare una “esclusività delle funzioni comunali”: “se il Comune ha diritto di partecipare, in modo effettivo e congruo, nel procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici regionali che abbiano effetti sull’assetto del proprio territorio […], occorre tuttavia evitare che questa partecipazione possa creare situazioni di ‘stallo decisionale’ (sentenze n. 83 del 1997 e n. 357 del 1988) che esporrebbero a gravi rischi un interesse generale tanto rilevante come la tutela ambientale e culturale”;
      k) nella giurisprudenza amministrativa, sull’ampiezza del potere di pianificazione urbanistica comunale, sugli interessi pubblici ad esso sottesi e sulla conseguente estensione del sindacato del giudice amministrativo, cfr. di recente:
         k1) Cons. Stato, sezione VI, sentenza 03.08.2020, n. 4898 (in Riv. giur. edilizia, 2020, I, 1364), secondo cui “Il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è un istituto di carattere eccezionale rispetto all’ordinario titolo edilizio e rappresenta l’espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del Consiglio comunale. In tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l’interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l’interesse costruttivo e, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall'evidente travisamento dei fatti”;
         k2) Cons. Stato, sez. II, sentenza 28.02.2020, n. 1461, secondo cui “L’esercizio della funzione pianificatoria si caratterizza per l’ampio margine di discrezionalità attribuito all’amministrazione, con possibilità di censurare le scelte effettuate solo quando queste si presentino come manifestamente illogiche o contraddittorie”;
         k3) Tar per la Lombardia, sezione II, sentenza 09.01.2020, n. 63 (in Foro amm., 2020, 68), secondo cui “Il principio di omogeneità della zona (criterio ordinariamente invocabile nella pianificazione generale) non costituisce un limite all'attività pianificatoria del Comune, il quale resta libero di imprimere alle varie parti del territorio la destinazione urbanistica che ritiene più confacente ai bisogni della collettività. Il modello di zonizzazione del territorio ha assunto forme flessibili nella prassi applicativa, sino a pervenire, nell'ambito della stessa zona omogenea, alla microzonizzazione o alla previsione di sottozone distinte da ulteriori peculiarità strutturali o funzionali, sicché il processo di conformazione del territorio non esclude che a livello di pianificazione generale possano essere previsti differenti regimi urbanistici all'interno della stessa zona omogenea. Il principio di tipicità degli strumenti urbanistici, che riflette il limite di legalità dell'azione amministrativa, non esclude infatti che il pianificatore comunale, stante la progressiva espansione degli interessi affidati al governo di prossimità, introduca un sistema di lettura del territorio diverso o ulteriore rispetto al modello per zone, purché al pari di questo sia iscritto nel medesimo referente normativo, nazionale e regionale, e ad esso si conformi. Se così non fosse, infatti, l'azione amministrativa sarebbe non discrezionale, ma del tutto arbitraria e il nuovo modello di conformazione del territorio risulterebbe sostanzialmente abrogativo del sistema delineato dalla legge n. 1150 del 1942, il cui nucleo essenziale inderogabile, tanto da costituire principio fondamentale per la legislazione regionale concorrente, esige che siano identificate previamente le categorie generali e astratte ove iscrivere le porzioni di territorio, sulla base di descrittori anch'essi previamente definiti, in funzione degli obiettivi che l'azione pianificatrice si prefigge. Allora sarà del tutto irrilevante che la conformazione del territorio, come detto funzionale alla dislocazione dei servizi di interesse generale, sia concepita per zone, contesti, ambiti, comparti, zone miste o microzone, purché —qualunque essa sia— corrisponda a categorie prefissate ex ante, tali cioè da costituire il parametro di legittimità della successiva azione amministrativa”;
         k4) Cons. Stato 2017, sezione IV, sentenza 03.04.2017, n. 1508 (in Foro amm., 2017, 828), secondo cui “La pianificazione attuativa, di cui è manifestazione il P.E.E.P. previsto dalla legge 18.04.1962, n. 167, costituisce, al pari del piano regolatore generale, espressione della potestà pianificatoria, seppure declinata in ottica più specifica e, per così dire, operativa: la costitutiva finalità attuativa, propria di tale programmazione di dettaglio, impone peraltro all'Amministrazione la contestuale ponderazione di molteplici e potenzialmente contrastanti interessi anche non strettamente urbanistici ed è, pertanto, innervata da valutazioni eminentemente discrezionali in ordine non solo al quomodo, ma pure al quando; siffatto spazio ampio di discrezionalità da un lato non consente di predicare, in capo al privato, una pretesa giuridicamente tutelata e coercibile all'emanazione hic et nunc di un piano attuativo da parte del Comune, dall'altro circoscrive significativamente la capacità penetrativa del sindacato del giudice amministrativo nei casi in cui l'ente locale abbia esternato i motivi sottesi alla scelta di non procedere, qui ed ora, all'adozione della pianificazione di dettaglio; più in particolare, in assenza di profili di macroscopica illogicità, di eclatante irragionevolezza, di palese travisamento dei fatti, nella specie certo non ricorrenti, il giudice non ha elementi su cui fondare il giudizio di legittimità della scelta di non procedere, in un certo momento storico, all'attuazione concreta ed operativa delle previsioni di massima contenute nella pianificazione urbanistica di carattere generale: tale scelta, infatti, è esito, funzione ed espressione di un complessivo bilanciamento di diversificati, contestuali e spesso confliggenti interessi e, come tale, è manifestazione del merito della funzione amministrativa” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 371 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlla Corte costituzionale il recupero degli immobili degradati e abbandonati in Lombardia.
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Edilizia – Lombardia - Recupero immobili degradati e abbandonati - Art. 40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 – Violazione artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), l.reg. Lombardia 26.11.2019, n. 18), recante “Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, nella parte in cui ha introdotto una disciplina urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale (1).
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   (1) In termini v. anche Tar Milano, sez. II, ord., 10.02.2021, n. 372 e n. 373.
L’art. 40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 si rivela sostanzialmente completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati e degradati, residuando in capo ai Comuni compiti meramente attuativi ed esecutivi, con una parziale eccezione per i Comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, i quali, per motivate ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze.
L’applicazione della disposizione regionale oggetto di scrutinio comprime in maniera eccessiva –con violazione degli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost.– la potestà pianificatoria comunale, in particolare dei Comuni che hanno più di 20.000 abitanti (come il Comune di Milano), non consentendo a siffatti Enti alcun intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione.
La normativa regionale risulta particolarmente analitica sia nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio che tale pianificazione mira a realizzare. La formulazione letterale della previsione e la puntuale regolamentazione dettata comportano, dunque, il fallimento in radice di ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme atteso che la normativa non lascia spazi per poter “adeguare” in via interpretativa il dettato di legge alla superiori previsioni costituzionali (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 218 del 10.10.2020, punto 2.2 del Diritto, che richiama le sentenze n. 204 e n. 95 del 2016).
Infatti, il legislatore regionale ha imposto, a regime, una disciplina urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale.
A ben vedere, pur essendo rimessa ordinariamente al Consiglio comunale l’individuazione degli immobili abbandonati e degradati, è comunque consentito al proprietario di un immobile versante nelle predette condizioni, indipendentemente dall’inserimento dello stesso nell’elenco formato dal Comune, di certificare con perizia asseverata giurata, oltre alla cessazione dell’attività, anche la sussistenza dei presupposti per beneficiare del regime di favore di cui all’art. 40-bis.
Il Comune quindi non ha la facoltà di selezionare, discrezionalmente, gli immobili da recuperare, in quanto l’applicazione della norma regionale, in presenza dei richiesti presupposti fattuali, ossia di immobili abbandonati e degradati, può avvenire anche su impulso del proprietario del manufatto. L’assoluta incertezza in ordine all’impatto sul territorio di una tale previsione, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, impedisce al Comune una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea.
Tuttavia pure nel caso in cui il Comune abbia già individuato gli immobili da recuperare –come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso– si deve segnalare che il riconoscimento generalizzato e automatico di un indice edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard, assume ugualmente un rilievo significativo sia in quanto la norma regionale si applica anche agli immobili già individuati come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore, sia perché gli interventi di recupero vengono ritenuti ininfluenti ai fini della quantificazione del carico urbanistico, senza alcuna considerazione per ciò che ne consegue.
L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili già individuati come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore –oltre che a quelli segnalati dai privati interessati– rappresenta una violazione della potestà pianificatoria comunale poiché impone, in via non temporanea, un regime urbanistico-edilizio che prescinde –o addirittura si discosta– dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o alla loro non inclusione nell’elenco.
Venendo al caso di specie, il Comune di Milano ha ricompreso l’immobile della ricorrente nell’elenco di quelli abbandonati e degradati (all. 3 del Comune) con l’obiettivo di consentirne il recupero a condizioni –indicate nell’art. 11 delle N.d.A.– e con un impatto sensibilmente diversi rispetto a quelli previsti nell’art. 40-bis. La legge regionale si sovrappone, tuttavia, alla decisione comunale perseguendo obiettivi ulteriori e, in parte, confliggenti con quelli dell’Ente territoriale.
La lesione della potestà pianificatoria comunale appare evidente e soprattutto il sacrificio delle prerogative comunali così determinatosi risulta non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli immobili abbandonati e degradati. L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili fatiscenti individuati prima della sua introduzione –come pure a quelli segnalati direttamente dai privati– stravolge la pianificazione territoriale del Comune, il quale aveva elaborato e introdotto un regime speciale per il recupero dei citati immobili, proprio tenendo in considerazione l’impatto degli interventi di riqualificazione sul tessuto urbano esistente.
Difatti, un conto è riqualificare un immobile, conservandone la medesima consistenza (oppure demolirlo, consentendo il recupero della sola superficie lorda esistente: art. 11 delle N.d.A.), un altro conto è riconoscere a titolo di beneficio un indice edificatorio aggiuntivo, oscillante tra il 20% e il 25%, cui si accompagna l’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard. Tale ultima disciplina determina un considerevole impatto sull’assetto pianificatorio in relazione a molteplici aspetti: l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato non risulta bilanciato dal contestuale reperimento degli standard urbanistici e dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione, cui consegue altresì il mancato rispetto dell’indice edificatorio comunale e delle prescrizioni regionali sulla riduzione del consumo di suolo.
L’art. 40-bis, comma 5, esonera, seppure con alcune eccezioni, dall’obbligo di individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, non garantendo un corretto rapporto tra il carico urbanistico gravante sulla zona interessata dall’intervento di riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche, disattendendo in tal modo i principi che presiedono ad una corretta attività pianificatoria. Ciò risulta in violazione anche della normativa statale (D.M. n. 1444 del 1968) che si pone quale principio in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di standard che devono essere garantiti sul territorio comunale.
La norma appare altresì irragionevole –con violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto altro profilo– nella parte in cui non si rapporta ai principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del 2005 (in specie quelli riferiti alla riduzione del consumo di suolo: cfr. art. 1, comma 3-bis, e art. 19, comma 2, lett. b-bis) e della legge regionale n. 31 del 2014 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione del suolo degradato”), poiché la riduzione del consumo di suolo rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo territoriale sostenibile (proprio con riferimento alla Regione Lombardia, cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.1 del Diritto); sebbene l’attività di riqualificazione e recupero di immobili abbandonati e degradati rientri nell’attività di rigenerazione urbana, la stessa non può porsi come indifferente rispetto agli obiettivi di limitazione del consumo del suolo libero, che altrimenti risulterebbero del tutto recessivi rispetto a quelli di recupero del patrimonio edilizio esistente dismesso e non utilizzabile. Il mancato bilanciamento e contemperamento tra i due obiettivi rende irragionevole e contraddittoria la normativa regionale sulla riqualificazione degli immobili degradati dismessi.
La Corte costituzionale ha già avuto modo di evidenziare, con riguardo all’art. 5, comma 4, della citata legge regionale n. 31 del 2014 (contenente, in origine, un divieto di ius variandi in relazione ai contenuti edificatori del documento di piano per un tempo indefinito), una intrinseca contraddittorietà nella “rigidità insita nella norma censurata (…) tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale e quindi coerenti con queste” (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.6 del Diritto).
Inoltre viene lesa anche la funzione amministrativa comunale in ambito urbanistico, in quanto l’art. 40-bis, quale norma che opera a regime, contiene una disciplina puntuale e specifica con riguardo agli interventi di recupero del patrimonio edilizio dismesso presenti nel territorio comunale, che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione; difatti, la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita, accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina urbanistica-edilizia, quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento urbanistico locale, non soltanto impedisce al Comune qualsiasi possibilità di autonoma scelta in sede di pianificazione generale, ma è potenzialmente idonea a stravolgerla in ampi settori, alterando i rapporti tra il carico urbanistico e le dotazioni pubbliche e private.
Ciò assume un maggiore rilievo in un Comune, qual è Milano, in cui è stato introdotto il principio dell’indifferenza funzionale, ossia una libertà di scelta delle funzioni da insediare in tutti i tessuti urbani senza alcuna esclusione e senza una distinzione ed un rapporto percentuale predefinito.
Tali considerazioni trovano riscontro anche nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha ricordato come ‘nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma 27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135). Il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Quindi, sebbene non possa escludersi a priori e in via astratta la legittimità dell’intervento del legislatore regionale, è necessario che quest’ultimo persegua esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito nell’art. 118 della Costituzione: ‘si deve verificare nell’ambito della funzione pianificatoria riconosciuta come funzione fondamentale dei Comuni, «quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone», inteso che «[i]l giudizio di proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti» (sentenza n. 179 del 2019). Proprio tale giudizio, così dinamicamente inteso, consente di verificare se, per effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Nella specie, nessuna “riserva di tutela” è stata riconosciuta al Comune, consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli strumenti di pianificazione incidenti sul governo del territorio.
In tal senso appare pertinente il riferimento al precedente della Corte costituzionale sulla legge regionale del Veneto relativa al Piano casa, in cui si è affermato “che, nel consentire interventi in deroga agli strumenti urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale veneto, in attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata il 01.04.2009, ha compiuto una ponderazione degli interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la limitazione dell’entità degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune componenti del patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge regionale censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto consentendo, altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre i propri strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle deroghe ammesse dalla medesima legge regionale” (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.2 del Diritto).
Del resto, il modus procedendi da ultimo richiamato è stato seguito dalla stessa Regione Lombardia, che attraverso l’art. 5, comma 6, della legge regionale n. 12 del 2009 (Piano casa) –sul punto ripreso dall’art. 3, comma 4, della legge regionale n. 4 del 2012 (Nuovo Piano casa)– ha previsto che “entro il termine perentorio del 15.10.2009 i comuni, con motivata deliberazione, possono individuare parti del proprio territorio nelle quali le disposizioni indicate nell’articolo 6 non trovano applicazione, in ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed urbanistiche delle medesime, compresa l’eventuale salvaguardia delle cortine edilizie esistenti, nonché fornire prescrizioni circa le modalità di applicazione della presente legge con riferimento alla necessità di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali e a verde”.
L’art. 40-bis sembra porsi in contrasto anche con il principio espresso dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale la riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata, tuttavia senza aumento della superficie coperta: al contrario l’art. 40-bis della legge regionale prevede un premio del 20% della superficie lorda, aumentabile fino al 25% al ricorrere di determinate condizioni.
Sebbene l’art. 103, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, abbia escluso una diretta applicazione nella Regione Lombardia della disciplina di dettaglio prevista, tra l’altro, dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, comunque è stata fatta salva l’applicazione dei principi contenuti nella citata disposizione statale, al cui novero certamente appartiene il divieto di consentire un aumento della superficie coperta in sede di riqualificazione di un immobile; deve ricomprendersi difatti tra i principi statali in materia di governo del territorio la previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un bene non può spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro bene, di almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo di suolo, peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale.
Infine, l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 appare in contrasto anche con i principi di uguaglianza e imparzialità dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione, visto che riconosce delle premialità per la riqualificazione di immobili abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile.
La norma regionale, quindi, incentiva in maniera assolutamente discriminatoria e irragionevole situazioni di abbandono e di degrado, da cui discende la possibilità di ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle ordinarie (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 371 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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FATTO
1. Con il ricorso indicato in epigrafe, la società ricorrente ha impugnato la deliberazione del Consiglio comunale di Milano 14.10.2019, n. 34, avente ad oggetto “controdeduzioni alle osservazioni e approvazione definitiva del nuovo Documento di Piano, della variante del Piano dei Servizi, comprensivo del Piano per le Attrezzature Religiose, e della variante del Piano delle Regole, costituenti il Piano di Governo del Territorio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 della L.R. 11.03.2005 n. 12 e s.m.i.”, con specifico riferimento all’art. 11 delle Norme di attuazione del Piano delle Regole.
La ricorrente è proprietaria di un immobile situato nel Comune di Milano, in Via ... n. ..., avente destinazione urbanistica prevalentemente terziaria-direzionale, che è stato ricompreso tra gli “edifici abbandonati e degradati” dalla Tavola R.10 del Piano delle regole (P.d.R.) del Piano di governo del territorio (P.G.T.) e assoggettato alla disciplina dell’art. 11 delle relative Norme di attuazione (N.d.A.).
Assumendo la lesività di tale disposizione, in quanto fortemente limitativa del diritto di proprietà sia per la previsione di un termine assai stringente per l’avvio dei lavori di recupero del fabbricato individuato come abbandonato e degradato, sia per le notevoli ripercussioni in caso di inadempienza, la ricorrente ne ha chiesto l’annullamento.
Con un primo ordine di censure è stata dedotta la violazione della normativa sul procedimento amministrativo, poiché la ricorrente non sarebbe stata coinvolta direttamente nello specifico procedimento culminato con l’inserimento del complesso immobiliare di sua proprietà tra gli “edifici abbandonati e degradati”, come imposto invece dallo stesso art. 11 delle N.d.A. e dall’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, non essendo surrogabile tale adempimento con la partecipazione avvenuta nel procedimento di formazione e approvazione dello strumento urbanistico.
Con la seconda censura è stata dedotta la violazione dell’art. 23 della Costituzione, poiché la disposizione impugnata non avrebbe alcun fondamento legale, non essendo attribuita al Consiglio comunale alcuna competenza provvedimentale-sanzionatoria in ambito urbanistico-edilizio; difatti, soltanto il Sindaco potrebbe adottare ordinanze contingibili e urgenti volte a risolvere “emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”, con particolare riferimento “all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana”, mentre farebbe capo alla dirigenza, nell’ambito dell’attività, avente natura gestoria, di vigilanza urbanistico-edilizia nel territorio comunale, l’adozione degli ordinari provvedimenti repressivi.
Con la terza doglianza la ricorrente ha dedotto l’illegittima introduzione di una fattispecie ablatoria non prevista dall’ordinamento, altresì effettuata in assenza dei presupposti procedurali e sostanziali per poterla porre in essere (mancato avviso di avvio del procedimento espropriativo, assenza della previa dichiarazione di pubblica utilità, mancata previsione di un indennizzo, ecc.).
Con il quarto motivo di ricorso si è dedotto il difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto non sarebbe stata dimostrata la situazione di degrado dell’immobile di proprietà della ricorrente, né l’insalubrità o il pericolo per la sicurezza urbana dello stesso, e nemmeno sarebbe rinvenibile negli atti impugnati una congrua motivazione a supporto della scelta comunale.
Con il quinto motivo la ricorrente ha eccepito l’incongruità, in quanto eccessivamente ristretto, del termine di diciotto mesi dalla prima individuazione dell’immobile abbandonato e degradato per avviare i lavori di recupero dello stesso, unitamente all’illogicità della previsione che assegna all’Amministrazione comunale il potere di procedere d’ufficio alla demolizione forzata in caso di mancato inizio dei lavori entro il predetto termine, oppure di rilasciare, insindacabilmente, il titolo abilitativo per l’effettuazione di interventi di risanamento conservativo.
Con il sesto motivo di ricorso la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, introdotto con la legge regionale n. 18 del 2019, in quanto l’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R. si porrebbe in contrasto con tale disposizione regionale (sovraordinata) sopravvenuta (i) che fissa in tre anni il termine entro cui presentare richiesta del titolo edilizio per avviare i lavori di ripristino dell’immobile degradato, (ii) che riconosce un incremento dei diritti edificatori pari al 20%, con un premio eventuale di un ulteriore 5% al ricorrere di determinati presupposti, e (iii) che esenta, di regola, dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale.
Con l’ultimo motivo di ricorso sono state dedotte l’irragionevolezza e la contraddittorietà del divieto di modificare la destinazione d’uso in presenza di interventi di conservazione degli edifici esistenti (consentiti fino al risanamento conservativo), sebbene l’art. 8 delle N.d.A. del Piano delle Regole stabilisca che “il mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie è sempre ammesso” e l’art. 51, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005 ammetta in maniera molto ampia la modifica della destinazione d’uso nell’ambito del tessuto urbanizzato.
Si è costituito in giudizio il Comune di Milano, che ha chiesto il rigetto del ricorso; con separata memoria, la difesa comunale ha controdedotto alle censure proposte dalla ricorrente e, in via subordinata, ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 per violazione degli artt. 3, 5, 97, 117, secondo comma, lettera p), 117, primo e terzo comma, 118, primo e secondo comma, della Costituzione, ritenendo: i) violata la competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali dei Comuni; ii) usurpata la funzione pianificatoria comunale in materia urbanistica; iii) violato l’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, quale normativa di principio in materia di governo del territorio; iv) lesi i principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa e di ragionevolezza.
Con l’ordinanza n. 928/2020 è stata fissata l’udienza pubblica per la trattazione del merito del ricorso.
In prossimità dell’udienza di merito, i difensori delle parti hanno depositato memorie e documentazione a sostegno delle rispettive posizioni.
All’udienza del 22.01.2021, uditi i difensori delle parti mediante collegamento da remoto in videoconferenza, ai sensi dell’art. 25 del decreto legge n. 137 del 2020, convertito in legge n. 176 del 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. In via preliminare, deve essere modificato l’ordine di trattazione dei motivi di ricorso, poiché la sesta censura, in ragione del suo carattere assorbente, deve essere trattata prioritariamente rispetto alle altre: infatti, laddove si dovesse giungere alla conclusione che l’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18) abbia l’identico perimetro applicativo dell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R., quest’ultima disposizione dovrebbe essere annullata, poiché, in ossequio al principio di gerarchia delle fonti normative, una disposizione di natura regolamentare, qual è una norma del Piano delle regole (cfr., Consiglio di Stato, V, 16.04.2013, n. 2094; TAR Lombardia, Milano, II, 22.05.2020, n. 914), non può porsi in contrasto con una prescrizione contenuta in una legge primaria (regionale, nella specie); l’annullamento del richiamato art. 11 delle N.d.A. comunali, costituendo la “più radicale illegittimità” dedotta (Consiglio di Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5), soddisferebbe pienamente l’interesse della ricorrente e renderebbe del tutto superfluo l’esame delle ulteriori censure contenute nel ricorso.
2. Tuttavia, proprio con riguardo al sesto motivo di ricorso, la difesa comunale, dapprima, ha sostenuto la tesi della perfetta compatibilità dell’art. 11 delle N.d.A. con l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, sulla scorta di un tentativo di interpretazione della disposizione di legge in senso costituzionalmente conforme, e successivamente, in via subordinata, ne ha eccepito l’incostituzionalità per contrasto con vari precetti costituzionali, chiedendo a questo Collegio di rimettere la questione all’esame della Corte costituzionale.
3. Osserva il Collegio come la tesi svolta in via principale dal Comune non possa condividersi. Le due regolamentazioni si riferiscono, infatti, alla medesima fattispecie dettando una disciplina in tema di immobili degradati ed abbandonati e, in particolare, regole volte ad incentivare il recupero di tali immobili. Di conseguenza, sussiste una sovrapposizione tra le due discipline che conferisce alla norma regionale il ruolo di parametro di legittimità della norma regolamentare dettata dal Comune di Milano.
Inoltre, l’impossibilità di procedere ad una interpretazione dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 in modo da salvaguardare anche il disposto di cui all’art. 11 delle N.d.A. comunali risulta evidente, emergendo l’inconciliabilità delle richiamate disposizioni già da un semplice esame testuale delle stesse, poiché viene regolamentata, in maniera divergente oltre che contrastante, la medesima fattispecie, ossia la disciplina da riservare agli immobili abbandonati e degradati; difatti,
   (i) secondo il citato art. 11 delle N.d.A., l’arco temporale per l’avvio dei lavori di recupero degli immobili “abbandonati e degradati” è di diciotto mesi dalla loro prima individuazione, a prescindere dal momento in cui si è ottenuto il titolo abilitativo, mentre il comma 4 dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 fissa in tre anni il termine entro cui presentare la richiesta di rilascio del titolo edilizio o gli atti equipollenti (s.c.i.a. o c.i.l.a.) oppure “l’istanza preliminare funzionale all’ottenimento dei medesimi titoli edilizi” per procedere al recupero;
   (ii) l’art. 11 delle N.d.A. non riconosce alcun incremento dei diritti edificatori, ma al massimo consente l’integrale conservazione dell’immobile o della superficie lorda (SL) esistente, mentre l’art. 40-bis, commi 5 e 6, della legge regionale attribuisce, nella fase di recupero dell’immobile, un incremento pari al 20% dei diritti edificatori o, se maggiore, della superficie lorda esistente, cui si può aggiungere un incremento di un ulteriore 5%;
   (iii) l’art. 11 delle N.d.A., in caso di mancato tempestivo adeguamento o di demolizione d’ufficio, attribuisce l’indice di edificabilità territoriale unico pari a 0,35 mq/mq, mentre l’art. 40-bis, commi 8 e 9, della legge regionale riconosce la superficie lorda esistente fino all’indice di edificabilità previsto dallo strumento urbanistico;
   (iv) l’art. 40-bis, comma 5, della legge regionale prevede l’esenzione, di regola, dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, mentre nulla è previsto dall’art. 11 delle N.d.A.
In conseguenza dell’evidenziato contrasto e della correlata recessività della normativa pianificatoria comunale rispetto a quanto stabilito dalla legge regionale, deve essere esaminata la questione, eccepita in via subordinata dalla difesa comunale, di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005: l’eventuale declaratoria di incostituzionalità della norma regionale farebbe salva la disciplina contenuta nell’art. 11 delle N.d.A., la cui applicabilità alla fattispecie oggetto di scrutinio imporrebbe l’esame delle restanti censure di ricorso, su cui indubbiamente permarrebbe l’interesse della ricorrente; in caso contrario, ossia di mancato accoglimento della questione di costituzionalità, dovrebbe pronunciarsi l’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A., in ragione della riconducibilità della fattispecie oggetto di scrutinio allo spettro di applicazione dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
4. In ossequio al disposto di cui all’art. 23, secondo comma, della legge n. 87 del 1953, è indispensabile procedere alla verifica della rilevanza della questione di costituzionalità nel presente giudizio e della sua non manifesta infondatezza.
5. Quanto alla rilevanza della questione, come già evidenziato al precedente punto 3, si osserva che l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 ha ad oggetto la disciplina da applicare agli immobili abbandonati e degradati (nella cui categoria è ricompreso quello della ricorrente) e si sovrappone, determinandone in astratto l’invalidità, alla regolamentazione comunale contenuta nell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R. È già stato sottolineato come la (eventuale) declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 determinerebbe l’applicazione alla fattispecie oggetto di esame dell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R.; a tal punto lo scrutinio di questo Tribunale si concentrerebbe sul citato art. 11 e dal suo esito dipenderebbero l’accoglimento o la reiezione, totali o parziali, del gravame.
La rilevanza della questione di costituzionalità tuttavia trascende le conseguenze dirette che l’art. 40-bis della legge regionale produce sull’art. 11 delle N.d.A. Difatti, in seguito all’eventuale declaratoria di incostituzionalità del citato art. 40-bis, non può escludersi che si possa comunque procedere all’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. comunali in ragione della fondatezza, anche parziale, dei restanti motivi di ricorso; appare nondimeno evidente che un tale annullamento produrrebbe effetti sensibilmente diversi rispetto a quelli che scaturirebbero dalla permanente vigenza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
In tale ultimo frangente, agli immobili abbandonati e degradati –compreso quello della ricorrente– si applicherebbero le regole contenute nella disposizione regionale, mentre, in caso di declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis, l’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. determinerebbe l’applicazione agli immobili fatiscenti dei principi generali afferenti alla materia edilizia ed urbanistica, riconoscendo ai titolari dei diritti sugli immobili abbandonati e degradati la facoltà di scegliere se procedere o meno alla loro riqualificazione e con le tempistiche e le modalità ritenute più opportune dai predetti soggetti.
Anche nella prospettiva comunale, l’ipotesi di annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. per violazione dell’art. 40-bis della legge regionale –ove non dichiarato incostituzionale– non lascerebbe all’Ente locale alcuno spazio per intervenire con un proprio regolamento sulla materia, se non per aspetti del tutto marginali e secondari, vista la completezza e la sostanziale autoapplicabilità della richiamata previsione regionale (“Le disposizioni di cui al presente articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui sopra, si applicano anche agli immobili non individuati dalla medesima, per i quali il proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre alla cessazione dell’attività, documentata anche mediante dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà a cura della proprietà o del legale rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova documentale e/o fotografica”: comma 1 dell’art. 40-bis); di contro, l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale lascerebbe intatto il potere comunale di intervenire per disciplinare ex novo la materia, anche laddove fosse integralmente annullato da questo Tribunale l’art. 11 delle N.d.A.; in tal modo verrebbe, comunque, pienamente salvaguardata la potestà pianificatoria comunale.
Da tanto discende la rilevanza nel presente giudizio della questione di costituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, poiché anche in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale della citata norma potrebbe determinarsi l’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R., sebbene con conseguenze molto differenti, per entrambe le parti del giudizio, rispetto a quelle scaturenti in caso di permanente vigenza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
6. A questo punto è necessario procedere alla verifica della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, che nella specie appare certamente sussistente.
L’art. 11 delle Norme di attuazione (N.d.A.) del P.d.R. ai primi tre commi stabilisce che “1. Il recupero di edifici abbandonati e degradati, che comportano pericolo per la salute e la sicurezza urbana, situazioni di degrado ambientale e sociale, costituisce attività di pubblica utilità ed interesse generale, perseguibile secondo le modalità di cui al presente articolo.
   2. Le disposizioni del presente articolo si applicano a tutte le aree e gli edifici, indipendentemente dalla destinazione funzionale, individuati nella Tav. R.10, aggiornata con Determina Dirigenziale, con periodicità annuale, previa comunicazione di avvio del procedimento nei confronti degli interessati. Si considerano abbandonati gli edifici dismessi da più di 1 anno, che determinano pericolo per la sicurezza o per la salubrità o l’incolumità pubblica o disagio per il decoro e la qualità urbana o in presenza di amianto o di altri pericoli chimici per la salute. L’individuazione degli immobili di cui al presente comma sarà comunicata periodicamente alla Prefettura e alla Questura.
   3. Alla proprietà degli edifici abbandonati e degradati così come individuati dalla Tav. R.10, fatti salvi eventuali procedimenti in corso ad esito favorevole, è data facoltà di presentare proposta di piano attuativo o idoneo titolo abilitativo finalizzato al recupero dell’immobile; i lavori dovranno essere avviati entro 18 mesi dalla loro prima individuazione. In alternativa è fatto obbligo di procedere con la demolizione del manufatto:
      a. in caso di demolizione dell’edificio esistente su iniziativa della proprietà è riconosciuta integralmente la SL esistente. I diritti edificatori saranno annotati nel Registro delle Cessioni dei Diritti Edificatori, con possibilità di utilizzo in loco o in altre pertinenze dirette per mezzo di perequazione, secondo la normativa vigente;
      b. in caso di mancata demolizione dell’edificio esistente da parte della proprietà, fatto salvo l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del comune finalizzati alla demolizione, è riconosciuto l’Indice di edificabilità Territoriale unico pari a 0,35 mq/mq.
Le relative spese sostenute da parte dell’Amministrazione dovranno essere rimborsate dalla proprietà o dai titolari di diritti su tali beni. Se non rimborsate tali spese saranno riscosse coattivamente secondo normativa vigente.
Di quanto sopra verrà inviata comunicazione alla proprietà, alla prefettura e alla questura.
In caso di mancata demolizione sono ammessi esclusivamente interventi di conservazione degli edifici esistenti fino al risanamento conservativo senza modifica della destinazione d’uso
”.
L’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18) stabilisce:
   “1. I comuni, con deliberazione consiliare, anche sulla base di segnalazioni motivate e documentate, individuano entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge regionale recante ‘Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali’ gli immobili di qualsiasi destinazione d’uso, dismessi da oltre cinque anni, che causano criticità per uno o più dei seguenti aspetti: salute, sicurezza idraulica, problemi strutturali che ne pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado ambientale e urbanistico-edilizio. La disciplina del presente articolo si applica, anche senza la deliberazione di cui sopra, agli immobili già individuati dai comuni come degradati e abbandonati. Le disposizioni di cui al presente articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui sopra, si applicano anche agli immobili non individuati dalla medesima, per i quali il proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre alla cessazione dell’attività, documentata anche mediante dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà a cura della proprietà o del legale rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova documentale e/o fotografica. I comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge regionale recante ‘Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali’, mediante deliberazione del consiglio comunale possono individuare gli ambiti del proprio territorio ai quali non si applicano le disposizioni di cui ai commi 5 e 10 del presente articolo, in relazione a motivate ragioni di tutela paesaggistica.
   2. I comuni, prima delle deliberazioni di cui al comma 1, da aggiornare annualmente, notificano ai sensi del codice di procedura civile ai proprietari degli immobili dismessi e che causano criticità le ragioni dell’individuazione, di modo che questi, entro 30 giorni dal ricevimento di detta comunicazione, possano dimostrare, mediante prove documentali, l’assenza dei presupposti per l’inserimento.
   3. Le disposizioni del presente articolo non si applicano in ogni caso:
      a) agli immobili eseguiti in assenza di titolo abilitativo o in totale difformità rispetto allo stesso titolo, a esclusione di quelli per i quali siano stati rilasciati titoli edilizi in sanatoria;
      b) agli immobili situati in aree soggette a vincoli di inedificabilità assoluta.
   4. La richiesta di piano attuativo, la richiesta di permesso di costruire, la segnalazione certificata di inizio attività, la comunicazione di inizio lavori asseverata o l’istanza di istruttoria preliminare funzionale all’ottenimento dei medesimi titoli edilizi devono essere presentati entro tre anni dalla notifica di cui al comma 2. La deliberazione di cui al comma 1 attesta l’interesse pubblico al recupero dell’immobile individuato, anche ai fini del perfezionamento dell’eventuale procedimento di deroga ai sensi dell’articolo 40.
   5. Gli interventi sugli immobili di cui al comma 1 usufruiscono di un incremento del 20 per cento dei diritti edificatori derivanti dall’applicazione dell’indice di edificabilità massimo previsto o, se maggiore di quest’ultimo, della superficie lorda esistente e sono inoltre esentati dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, a eccezione di quelle aree da reperire all’interno dei comparti edificatori o degli immobili oggetto del presente articolo, già puntualmente individuate all’interno degli strumenti urbanistici e da quelle dovute ai sensi della pianificazione territoriale sovraordinata. A tali interventi non si applicano gli incrementi dei diritti edificatori di cui all’articolo 11, comma 5. Nei casi di demolizione l’incremento dei diritti edificatori del 20 per cento si applica per un periodo massimo di dieci anni dalla data di individuazione dell'immobile quale dismesso.
   6. È riconosciuto un ulteriore incremento dell’indice di edificabilità massimo previsto dal PGT o rispetto alla superficie lorda (SL) esistente del 5 per cento per interventi che assicurino una superficie deimpermeabilizzata e destinata a verde non inferiore all’incremento di SL realizzato, nonché per interventi che conseguano una diminuzione dell’impronta al suolo pari ad almeno il 10 per cento. A tal fine possono essere utilizzate anche le superfici situate al di fuori del lotto di intervento, nonché quelle destinate a giardino pensile, cosi come regolamentate dalla norma UNI 11235/2007.
   7. Se il proprietario non provvede entro il termine di cui al comma 4, non può più accedere ai benefici di cui ai commi 5 e 6 e il comune lo invita a presentare una proposta di riutilizzo, assegnando un termine da definire in ragione della complessità della situazione riscontrata, e comunque non inferiore a mesi quattro e non superiore a mesi dodici.
   8. Decorso il termine di cui al comma 7 senza presentazione delle richieste o dei titoli di cui al comma 4, il comune ingiunge al proprietario la demolizione dell’edificio o degli edifici interessati o, in alternativa, i necessari interventi di recupero e/o messa in sicurezza degli immobili, da effettuarsi entro un anno. La demolizione effettuata dalla proprietà determina il diritto ad un quantitativo di diritti edificatori pari alla superficie lorda dell'edificio demolito fino all'indice di edificabilità previsto per l’area. I diritti edificatori generati dalla demolizione edilizia possono sempre essere perequati e confluiscono nel registro delle cessioni dei diritti edificatori di cui all'articolo 11, comma 4.
   9. Decorso infruttuosamente il termine di cui al comma 8, il comune provvede in via sostitutiva, con obbligo di rimborso delle relative spese a carico della proprietà, cui è riconosciuta la SL esistente fino all’indice di edificabilità previsto dallo strumento urbanistico.
   10. Tutti gli interventi di rigenerazione degli immobili di cui al presente articolo sono realizzati in deroga alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento, sulle distanze previste dagli strumenti urbanistici comunali vigenti e adottati e ai regolamenti edilizi, fatte salve le norme statali e quelle sui requisiti igienico-sanitari.
   11. Per gli immobili di proprietà degli enti pubblici, si applicano le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 a condizione che, entro tre anni dalla individuazione di cui al comma 1, gli enti proprietari approvino il progetto di rigenerazione ovvero avviino le procedure per la messa all’asta, l’alienazione o il conferimento a un fondo.
   11-bis. Gli interventi di cui al presente articolo riguardanti il patrimonio edilizio soggetto a tutela culturale e paesaggistica sono attivati previo coinvolgimento del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo e nel rispetto delle prescrizioni di tutela previste dal piano paesaggistico regionale ai sensi del d.lgs. 42/2004
” (comma aggiunto dall’art. 13, comma 1, lett. b), legge reg. 09.06.2020, n. 13).
Tale disposizione regionale si rivela sostanzialmente completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati e degradati, residuando in capo ai Comuni compiti meramente attuativi ed esecutivi, con una parziale eccezione per i Comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, i quali, per motivate ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze.
7. L’applicazione della disposizione regionale oggetto di scrutinio comprime in maniera eccessiva –con violazione degli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione– la potestà pianificatoria comunale, in particolare dei Comuni che hanno più di 20.000 abitanti (come il Comune di Milano), non consentendo a siffatti Enti alcun intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione.
La normativa regionale risulta particolarmente analitica sia nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio che tale pianificazione mira a realizzare. La formulazione letterale della previsione e la puntuale regolamentazione dettata comportano, dunque, il fallimento in radice di ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme atteso che la normativa non lascia spazi per poter “adeguare” in via interpretativa il dettato di legge alla superiori previsioni costituzionali (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 218 del 10.10.2020, punto 2.2 del Diritto, che richiama le sentenze n. 204 e n. 95 del 2016).
Infatti, il legislatore regionale ha imposto, a regime, una disciplina urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale.
A ben vedere, pur essendo rimessa ordinariamente al Consiglio comunale l’individuazione degli immobili abbandonati e degradati, è comunque consentito al proprietario di un immobile versante nelle predette condizioni, indipendentemente dall’inserimento dello stesso nell’elenco formato dal Comune, di certificare con perizia asseverata giurata, oltre alla cessazione dell’attività, anche la sussistenza dei presupposti per beneficiare del regime di favore di cui all’art. 40-bis.
Il Comune quindi non ha la facoltà di selezionare, discrezionalmente, gli immobili da recuperare, in quanto l’applicazione della norma regionale, in presenza dei richiesti presupposti fattuali, ossia di immobili abbandonati e degradati, può avvenire anche su impulso del proprietario del manufatto. L’assoluta incertezza in ordine all’impatto sul territorio di una tale previsione, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, impedisce al Comune una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea.
Tuttavia pure nel caso in cui il Comune abbia già individuato gli immobili da recuperare –come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso– si deve segnalare che il riconoscimento generalizzato e automatico di un indice edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard, assume ugualmente un rilievo significativo sia in quanto la norma regionale si applica anche agli immobili già individuati come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore, sia perché gli interventi di recupero vengono ritenuti ininfluenti ai fini della quantificazione del carico urbanistico, senza alcuna considerazione per ciò che ne consegue.
L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili già individuati come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore –oltre che a quelli segnalati dai privati interessati– rappresenta una violazione della potestà pianificatoria comunale poiché impone, in via non temporanea, un regime urbanistico-edilizio che prescinde –o addirittura si discosta– dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o alla loro non inclusione nell’elenco.
Venendo al caso di specie, il Comune di Milano ha ricompreso l’immobile della ricorrente nell’elenco di quelli abbandonati e degradati (all. 3 del Comune) con l’obiettivo di consentirne il recupero a condizioni –indicate nell’art. 11 delle N.d.A.– e con un impatto sensibilmente diversi rispetto a quelli previsti nell’art. 40-bis. La legge regionale si sovrappone, tuttavia, alla decisione comunale perseguendo obiettivi ulteriori e, in parte, confliggenti con quelli dell’Ente territoriale.
8. La lesione della potestà pianificatoria comunale appare evidente e soprattutto il sacrificio delle prerogative comunali così determinatosi risulta non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli immobili abbandonati e degradati. L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili fatiscenti individuati prima della sua introduzione –come pure a quelli segnalati direttamente dai privati– stravolge la pianificazione territoriale del Comune, il quale aveva elaborato e introdotto un regime speciale per il recupero dei citati immobili, proprio tenendo in considerazione l’impatto degli interventi di riqualificazione sul tessuto urbano esistente.
Difatti, un conto è riqualificare un immobile, conservandone la medesima consistenza (oppure demolirlo, consentendo il recupero della sola superficie lorda esistente: art. 11 delle N.d.A.), un altro conto è riconoscere a titolo di beneficio un indice edificatorio aggiuntivo, oscillante tra il 20% e il 25%, cui si accompagna l’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard.
Tale ultima disciplina determina un considerevole impatto sull’assetto pianificatorio in relazione a molteplici aspetti: l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato non risulta bilanciato dal contestuale reperimento degli standard urbanistici e dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione, cui consegue altresì il mancato rispetto dell’indice edificatorio comunale e delle prescrizioni regionali sulla riduzione del consumo di suolo. L’art. 40-bis, comma 5, esonera, seppure con alcune eccezioni, dall’obbligo di individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, non garantendo un corretto rapporto tra il carico urbanistico gravante sulla zona interessata dall’intervento di riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche, disattendendo in tal modo i principi che presiedono ad una corretta attività pianificatoria.
Ciò risulta in violazione anche della normativa statale (D.M. n. 1444 del 1968) che si pone quale principio in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di standard che devono essere garantiti sul territorio comunale.
9. La norma appare altresì irragionevole –con violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto altro profilo– nella parte in cui non si rapporta ai principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del 2005 (in specie quelli riferiti alla riduzione del consumo di suolo: cfr. art. 1, comma 3-bis, e art. 19, comma 2, lett. b-bis) e della legge regionale n. 31 del 2014 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione del suolo degradato”), poiché la riduzione del consumo di suolo rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo territoriale sostenibile (proprio con riferimento alla Regione Lombardia, cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.1 del Diritto); sebbene l’attività di riqualificazione e recupero di immobili abbandonati e degradati rientri nell’attività di rigenerazione urbana, la stessa non può porsi come indifferente rispetto agli obiettivi di limitazione del consumo del suolo libero, che altrimenti risulterebbero del tutto recessivi rispetto a quelli di recupero del patrimonio edilizio esistente dismesso e non utilizzabile. Il mancato bilanciamento e contemperamento tra i due obiettivi rende irragionevole e contraddittoria la normativa regionale sulla riqualificazione degli immobili degradati dismessi.
La Corte costituzionale ha già avuto modo di evidenziare, con riguardo all’art. 5, comma 4, della citata legge regionale n. 31 del 2014 (contenente, in origine, un divieto di ius variandi in relazione ai contenuti edificatori del documento di piano per un tempo indefinito), una intrinseca contraddittorietà nella “rigidità insita nella norma censurata (…) tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale e quindi coerenti con queste” (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.6 del Diritto).
10. Inoltre viene lesa anche la funzione amministrativa comunale in ambito urbanistico, in quanto l’art. 40-bis, quale norma che opera a regime, contiene una disciplina puntuale e specifica con riguardo agli interventi di recupero del patrimonio edilizio dismesso presenti nel territorio comunale, che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione; difatti, la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita, accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina urbanistica-edilizia, quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento urbanistico locale, non soltanto impedisce al Comune qualsiasi possibilità di autonoma scelta in sede di pianificazione generale, ma è potenzialmente idonea a stravolgerla in ampi settori, alterando i rapporti tra il carico urbanistico e le dotazioni pubbliche e private.
Ciò assume un maggiore rilievo in un Comune, qual è Milano, in cui è stato introdotto il principio dell’indifferenza funzionale, ossia una libertà di scelta delle funzioni da insediare in tutti i tessuti urbani senza alcuna esclusione e senza una distinzione ed un rapporto percentuale predefinito.
Tali considerazioni trovano riscontro anche nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha ricordato come ‘nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma 27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135). Il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Quindi, sebbene non possa escludersi a priori e in via astratta la legittimità dell’intervento del legislatore regionale, è necessario che quest’ultimo persegua esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito nell’art. 118 della Costituzione: ‘si deve verificare nell’ambito della funzione pianificatoria riconosciuta come funzione fondamentale dei Comuni, «quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone», inteso che «[i]l giudizio di proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti» (sentenza n. 179 del 2019). Proprio tale giudizio, così dinamicamente inteso, consente di verificare se, per effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Nella specie, nessuna “riserva di tutela” è stata riconosciuta al Comune, consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli strumenti di pianificazione incidenti sul governo del territorio.
In tal senso appare pertinente il riferimento al precedente della Corte costituzionale sulla legge regionale del Veneto relativa al Piano casa, in cui si è affermato “che, nel consentire interventi in deroga agli strumenti urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale veneto, in attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata il 01.04.2009, ha compiuto una ponderazione degli interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la limitazione dell’entità degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune componenti del patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge regionale censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto consentendo, altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre i propri strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle deroghe ammesse dalla medesima legge regionale” (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.2 del Diritto).
Del resto, il modus procedendi da ultimo richiamato è stato seguito dalla stessa Regione Lombardia, che attraverso l’art. 5, comma 6, della legge regionale n. 12 del 2009 (Piano casa) –sul punto ripreso dall’art. 3, comma 4, della legge regionale n. 4 del 2012 (Nuovo Piano casa)– ha previsto che “entro il termine perentorio del 15.10.2009 i comuni, con motivata deliberazione, possono individuare parti del proprio territorio nelle quali le disposizioni indicate nell’articolo 6 non trovano applicazione, in ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed urbanistiche delle medesime, compresa l’eventuale salvaguardia delle cortine edilizie esistenti, nonché fornire prescrizioni circa le modalità di applicazione della presente legge con riferimento alla necessità di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali e a verde”.
Ugualmente, la salvaguardia delle prerogative pianificatorie comunali è riscontrabile altresì nella normativa regionale in materia di recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti –artt. 63-65 della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005– dove si prevede la possibilità per il Comune di escludere dall’applicazione sul proprio territorio del regime ivi contemplato [art. 65 – “Ambiti di esclusione – “1. Le disposizioni del presente capo non si applicano negli ambiti territoriali per i quali i comuni, con motivata deliberazione del Consiglio comunale, ne abbiano disposta l’esclusione, in applicazione dell’articolo 1, comma 7, della legge regionale 15.07.1996, n. 15 (Recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti).
   1-bis. Fermo restando quanto disposto dal comma 1, i comuni, con motivata deliberazione, possono ulteriormente disporre l’esclusione di parti del territorio comunale, nonché di determinate tipologie di edifici o di intervento, dall’applicazione delle disposizioni del presente capo.
   1-ter. Con il medesimo provvedimento di cui al comma 1-bis, i comuni possono, altresì, individuare ambiti territoriali nei quali gli interventi di recupero ai fini abitativi dei sottotetti, se volti alla realizzazione di nuove unità immobiliari, sono, in ogni caso, subordinati all’obbligo di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali nella misura prevista dall’articolo 64, comma 3.
   1-quater. Le determinazioni assunte nelle deliberazioni comunali di cui ai commi 1, 1-bis e 1-ter hanno efficacia non inferiore a cinque anni e comunque fino all’approvazione dei PGT ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3. Il piano delle regole individua le parti del territorio comunale nonché le tipologie di edifici o di intervento escluse dall’applicazione delle disposizioni del presente capo.
   1-quinquies. In sede di redazione del PGT, i volumi di sottotetto recuperati ai fini abitativi in applicazione della l.r. n. 15/1996, ovvero delle disposizioni del presente capo, sono computati ai sensi dell’articolo 10, comma 3, lettera b
”].
Dai richiamati esempi emerge come, in alcuni frangenti, lo stesso legislatore regionale lombardo si è dimostrato rispettoso delle prerogative pianificatorie comunali, pur non rinunciando a disciplinare la materia del governo del territorio nell’esercizio delle proprie attribuzioni.
Diversamente, in presenza di prescrizioni di durata indefinita, in carenza di profili interlocutivi e nell’assolutezza, finanche contraddittoria con gli obiettivi posti in sede regionale, risultanti dalla disciplina contenuta nell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, non può ritenersi superato, “ai sensi del legittimo esercizio del principio di sussidiarietà verticale, il test di proporzionalità con riguardo all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale” (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.7 del Diritto).
11. L’art. 40-bis sembra porsi in contrasto anche con il principio espresso dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale la riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata, tuttavia senza aumento della superficie coperta: al contrario l’art. 40-bis della legge regionale prevede un premio del 20% della superficie lorda, aumentabile fino al 25% al ricorrere di determinate condizioni.
Sebbene l’art. 103, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, abbia escluso una diretta applicazione nella Regione Lombardia della disciplina di dettaglio prevista, tra l’altro, dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, comunque è stata fatta salva l’applicazione dei principi contenuti nella citata disposizione statale, al cui novero certamente appartiene il divieto di consentire un aumento della superficie coperta in sede di riqualificazione di un immobile; deve ricomprendersi difatti tra i principi statali in materia di governo del territorio la previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un bene non può spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro bene, di almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo di suolo, peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale.
12. Infine, l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 appare in contrasto anche con i principi di uguaglianza e imparzialità dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione, visto che riconosce delle premialità per la riqualificazione di immobili abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile.
La norma regionale, quindi, incentiva in maniera assolutamente discriminatoria e irragionevole situazioni di abbandono e di degrado, da cui discende la possibilità di ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle ordinarie.
13. In conclusione, il giudizio deve essere sospeso e gli atti vanno trasmessi alla Corte Costituzionale in quanto risulta rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18), recante “Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione, secondo quanto specificato in precedenza.
14. Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e sulle spese resta riservata alla decisione definitiva.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando:
   a)
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18), recante “Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione;
   b) dispone la sospensione del presente giudizio;
   c) ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale;
   d) ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente della Giunta Regionale della Lombardia e comunicata al Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia;
   e) riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2020
dicembre 2020

ESPROPRIAZIONE: L.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 (art. 9, comma 12) – Vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione ad opera della pubblica amministrazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi – Questione di legittimità costituzionale in via incidentale – Asserita violazione dei precetti costituzionali della temporaneità e della indennizzabilità dei vincoli espropriativi (art. 42 Cost.) e pregiudizio della competenza concorrente in materia di governo del territorio (art. 117 Cost.) – Illegittimità costituzionale in parte qua.
Va dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La Regione, disciplinando una nuova ipotesi di attuazione del vincolo espropriativo, ha infatti superato i limiti imposti alla sua competenza concorrente in materia (art. 117, comma 3, Cost.), con l’introduzione di una nuova condizione in cui il vincolo preordinato all’esproprio si consolida, pur in mancanza di un «serio inizio della procedura espropriativa», condizione ritenuta invece essenziale dalla giurisprudenza costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore statale –esclusivamente al quale spetta la relativa competenza– solo nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
La disposizione regionale censurata si pone peraltro in contrasto con l’art. 42 Cost., poiché consente l’esercizio del potere ablatorio a tempo indeterminato, in ragione di un provvedimento, quale l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di motivazione, né di indennizzo
(Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONEReiterazione di vincoli espropriativi a tempo indeterminato: la Corte costituzionale ne ribadisce le ragioni di illegittimità costituzionale.
La Corte costituzionale, in accoglimento di una questione sollevata dal Tar per la Lombardia–Brescia, dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge regionale (l’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, recante “Legge per il governo del territorio”), con la quale, in sostanza, si prevedeva la possibilità di reiterare, a tempo indeterminato, l’efficacia di vincoli preordinati all’esproprio, oltre quindi il termine quinquennale stabilito dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001 (c.d. testo unico delle espropriazioni).
In motivazione, la Corte ribadisce che la proroga, in via legislativa, dei vincoli espropriativi costituisce un “fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza”.
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Espropriazione per pubblico interesse – Regione Lombardia – Vincolo preordinato all’esproprio – Reiterazione – Violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. – Illegittimità costituzionale in parte qua.
E’ incostituzionale, per violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost., l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, in quanto, consentendo la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e –in virtù del richiamo al programma triennale delle opere pubbliche– per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento di alcun indennizzo, realizza un effetto che si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale in materia di espropriazione per pubblica utilità, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario (1).
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   (1) I. – Con la sentenza in rassegna, la Corte costituzionale ribadisce la propria costante giurisprudenza in materia di durata del vincolo espropriativo, confermando che la legge (in questo caso, si trattava di una norma della legge generale della Regione Lombardia in materia di governo del territorio) non può prevedere una protrazione indefinita del vincolo, ben oltre il termine quinquennale individuato dall’art. 9, comma 2, del t.u. espropriazioni (di cui al d.P.R. n. 327 del 2001), termine che rappresenta il “punto di equilibrio”, individuato dal legislatore, oltre il quale non è costituzionalmente tollerabile il sacrificio del diritto di proprietà privata senza il riconoscimento di un adeguato indennizzo.
La questione era stata sollevata dal Tar per la Lombardia–Brescia, sezione II, con ordinanza 14.08.2019, n. 740 (in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 1250, nonché oggetto della News US n. 109 del 16.10.2019, cui si rinvia per gli ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza). Nel giudizio a quo, era impugnato l’atto contenente la dichiarazione di pubblica utilità, insieme ai successivi provvedimenti, adottati nell’ambito di una procedura espropriativa iniziata dal Comune di Agro per la realizzazione di una strada di collegamento progettata, in parte, su un fondo privato.
Il vincolo preordinato all’esproprio, derivante dall’approvazione del piano comunale di governo del territorio, avrebbe esaurito la propria durata quinquennale nel novembre 2017 ma, in applicazione della norma regionale censurata, esso risultava prorogato sine die per effetto dell’avvenuto inserimento dell’opera nel programma triennale delle opere pubbliche, approvato nell’aprile del 2017.
In base alla norma regionale oggetto dei dubbi sollevati dal Tar per la Lombardia, infatti, i vincoli preordinati all’esproprio, aventi una durata pari a cinque anni, “decadono qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione”.
II. – La Corte costituzionale, dunque, dichiara l’illegittimità costituzionale di tale norma per violazione degli artt. 42, comma 3, e 117, comma 3, Cost., concludendo invece per l’inammissibilità (per difetto di motivazione) della questione in relazione al parametro di cui agli artt. 117, comma 1, Cost., e 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. Questo, in sintesi, il percorso seguito dalla Corte per giungere –dopo aver superato alcune questioni di inammissibilità– alla declaratoria di incostituzionalità:
      a) la Corte premette, anzitutto, un’articolata ricostruzione del quadro normativo statale vigente in subiecta materia, ripercorrendone le tappe salienti e ricordando quanto segue:
         a1) l’espropriazione per motivi d’interesse generale, governata dall’art. 42, comma 3, Cost., è un procedimento preordinato all’emanazione di un provvedimento che trasferisce la proprietà o altro diritto reale su di un bene; le fasi del procedimento, finalizzate all’emissione del decreto di esproprio, sono scandite dall’art. 8 del t.u. espropriazioni, e sono costituite dalla sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio, dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera che deve essere realizzata e dalla determinazione dell’indennità di espropriazione;
         a2) ai sensi dell’art. 9 del medesimo testo unico, un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’espropriazione quando diventa efficace, in base alla specifica normativa statale e regionale di riferimento, l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che preveda la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità; l’effetto del vincolo comporta che il proprietario del bene, pur restando titolare del diritto sulla cosa, non può utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che l’amministrazione non proceda all’espropriazione;
         a3) il legislatore, chiamato ad adeguarsi ai principi enunciati con la sentenza 29.05.1968, n. 55 (in Giur. cost., 1968), ha stabilito, con l’art. 2 della legge n. 1187 del 1968, una durata quinquennale del vincolo espropriativo, periodo durante il quale la necessità di corrispondere un indennizzo è esclusa;
         a4) con la sentenza 20.05.1999, n. 179 (in Foro it., 1999, I, 1705, con nota di BENINI, in Corriere giur., 1999, 830, con note di CARBONE e GIOIA, in Giorn. dir. amm., 1999, 851, con nota di MAZZARELLI, in Urb. e appalti, 1999, 712, con nota di LIGUORI, in Giust. civ., 1999, I, 2597, con nota di STELLA RICHTER, in Appalti urbanistica edilizia, 1999, 395, con nota di GISONDI, in Riv. amm., 1999, 274, con nota di CACCIAVILLANI, in Giur. it., 1999, 2155, con nota di DE MARZO, in Le Regioni, 1999, 804, con nota di CIVITARESE MATTEUCCI, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1999, 873, con nota di BONATTI, ed in Guida al dir., 1999, 22, 133, con nota di RICCIO), la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma, della legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la previsione di un indennizzo;
         a5) con l’adozione del testo unico sulle espropriazioni, di cui al già richiamato d.P.R. n. 327 del 2001, il legislatore statale si è adeguato alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, prevedendo la durata quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio (art. 9, comma 2; si tratta del c.d. periodo di franchigia, durante il quale al proprietario del bene non è dovuto alcun indennizzo), nonché la decadenza dal vincolo se, entro tale termine, non è dichiarata la pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3); il vincolo può essere motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di un nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4), e con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39) – ciò, fermo restando che le stesse garanzie devono sorreggere un’eventuale proroga del vincolo prima della sua naturale scadenza (in tal senso, Corte cost., sentenza 20.07.2007, n. 314, in Foro it., 2009, I, 1711);
         a6) la dichiarazione di pubblica utilità, che deve intervenire entro il termine di efficacia del vincolo espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni), è l’atto con il quale vengono individuati in concreto i motivi di interesse generale cui l’art. 42, comma 3, Cost. subordina l’espropriazione della proprietà privata nei casi previsti dalla legge (cfr. Corte cost., sentenza 08.05.1995, n. 155, in Foro it., 1995, I, 2389), e segna l’effettivo avvio della procedura espropriativa, nel necessario rispetto del contraddittorio tra i cittadini interessati e l’amministrazione;
         a7) un “ruolo centrale”, nella disciplina in esame, è poi svolto dalla c.d. dichiarazione implicita di pubblica utilità, la quale (a norma dell’art. 12 del d.P.R. n. 327 del 2001) si intende disposta “quando l’autorità espropriante approva a tale fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità, ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato il piano di zona”, nonché nei casi in cui la normativa vigente prevede che equivalga “a dichiarazione di pubblica utilità l’approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti”;
         a8) a livello statale, poi, un ruolo decisivo gioca il programma triennale dei lavori pubblici, attualmente previsto dall’art. 21 del codice dei contratti pubblici (di cui al d.lgs. n. 50 del 2016) il quale disciplina unitariamente la programmazione, sia per i lavori pubblici che per i servizi e le forniture, demandando (comma 8) a un decreto ministeriale, di natura regolamentare, la normazione di dettaglio; tale programma triennale, ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), del cod. contratti pubblici, rappresenta il documento, da aggiornare annualmente, che le amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori da avviare nel triennio;
         a9) l’art. 5, comma 5, dell’apposito regolamento (di cui al d.m. 16.01.2018, n. 14) stabilisce le modalità di partecipazione dei privati interessati in relazione alla definizione del contenuto del programma in questione, prevedendo la possibilità di presentare osservazioni prima dell’approvazione definitiva del programma;
      b) a livello regionale, e con specifico riguardo alla disciplina vigente nella Regione Lombardia, la Corte poi ricorda che:
         b1) la disciplina sul governo del territorio, contenuta nella legge regionale n. 12 del 2005, nonché la disciplina sul procedimento di espropriazione (di cui alla legge della Regione Lombardia n. 3 del 2009) sono state varate nell’esercizio della potestà legislativa concorrente, come previsto dallo stesso testo unico delle espropriazioni (art. 5, comma 1), posto che l’espropriazione costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi anche nella materia concorrente del “governo del territorio” nella quale, come più volte riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, rientra l’urbanistica (cfr. sentenza 26.06.2020, n. 130, e sentenza 05.12.2019, n. 254, quest’ultima in Quad. dir. e politica ecclesiastica, 2019, 697, con nota di MARCHEI, in Dir. pen. globalizzazione, 2020, 33, con nota di PLACANICA, ed in Giur. cost., 2019, 3131, con nota di GORLANI);
         b2) con specifico riferimento alle prime due fasi della procedura espropriativa (che vengono in rilievo nella fattispecie di cui al giudizio a quo), la disciplina regionale lombarda presenta delle differenze rispetto a quella statale, in quanto (per un verso) fa discendere un “peculiare effetto” dall’inserimento dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle opere pubbliche (ossia, la mancata decadenza del vincolo, pur superato il periodo quinquennale), mentre (per altro verso) l’art. 9 della legge regionale sul procedimento espropriativo, a determinate condizioni, include proprio il programma triennale delle opere pubbliche tra gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità;
      c) nel solco tracciato dalla sentenza n. 179 del 1999, cit., la Corte ribadisce dunque che “la proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza”; di conseguenza, la Corte enuclea i seguenti vizi della norma regionale censurata:
         c1) essa consente la protrazione dell’efficacia del vincolo “ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo”;
         c2) tale effetto “si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario”;
         c3) peraltro, la norma lombarda “ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello cosiddetto di franchigia”, con ciò ulteriormente discostandosi dalla legge statale di riferimento (cfr. art. 9, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001);
         c4) ancora, la norma lombarda “appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato”, così contravvenendo ad un’altra prescrizione già in passato ribadita dalla giurisprudenza costituzionale, quella cioè di mettere i privati, ancora prima dell’adozione dell’atto limitativo, “in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico” (viene richiamata la sentenza 30.04.2015, n. 71, in Foro it., 2015, I, 2629, con nota di R. PARDOLESI, in Urb. e appalti, 2015, 767, con note di ARTARIA e BARILÀ, in Guida al dir., 2015, 21, 84, con nota di PONTE, in Resp. civ. e prev., 2015, 1492, con nota di REGA, in Giur. cost., 2015, 998, con nota di MOSCARINI, in Europa e dir. privato, 2015, 951, con nota di GRISI, ed in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 581, con note di MARI e STRAZZA);
         c5) del resto, le forme di partecipazione che sono previste per l’approvazione del programma triennale delle opere pubbliche appaiono –precisa la Corte– “di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo”, trovando esse la loro fonte in un atto meramente regolamentare (il già ricordato d.m. n. 14 del 2018), il quale oltretutto le prevede in modalità solo eventuale.
   III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
      d) nella decisione in rassegna, la Corte afferma la “trasversalità” della materia delle espropriazioni, in quanto riconducibile all’urbanistica la quale, a sua volta, è da ricomprendere nella materia concorrente del governo del territorio; su quest’ultima affermazione cfr., di recente:
         d1) Corte cost., sentenza n. 130 del 2020, cit., secondo cui “la normativa sui centri storici si trovi al crocevia fra le competenze regionali in materia urbanistica o di governo del territorio e la tutela dei beni culturali”, con la conseguente precisazione secondo cui “le Regioni hanno dedicato specifiche discipline ai centri storici, nell’ambito delle competenze in materia di governo del territorio o urbanistica, cercando di superare la visione parcellizzata degli interventi edilizi per privilegiare la considerazione unitaria dei nuclei storici. In accordo con l’ordinamento statale, le Regioni stesse affidano a strumenti urbanistici comunali e al lavoro di uffici tecnici territorialmente competenti l’attuazione delle norme dettate a livello regionale e statale”;
         d2) Corte cost., sentenza n. 254 del 2019, cit., secondo cui “nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo”, giungendosi così alla seguente conclusione: “In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia, alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici)”;
      e) per l’affermazione secondo cui le garanzie partecipative devono trovare applicazione nell’ambito del procedimento espropriativo, cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 2015, cit., menzionata anche dalla pronuncia in epigrafe, secondo cui:
         e1) il principio del “giusto procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano adottati provvedimenti limitativi dei loro diritti) “non può dirsi assistito in assoluto da garanzia costituzionale” (in tal senso, nella giurisprudenza della Corte, cfr. già: sentenza 12.07.1995, n. 312, in Cons. Stato, 1995, II, 1197; sentenza 31.05.1995, n. 210, in Cons. Stato, 1995, II, 906; sentenza 24.02.1995, n. 57, in Mass. giur. lav., 1995, 146, con nota di SANTONI, in Lavoro giur., 1995, 657, con nota di PILATI, in Giorn. dir. amm., 1995, 801, con nota di MARIANI, in Dir. lav., 1995, II, 132, con nota di PELLACANI, ed in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 738, con nota di CORSINOVI; sentenza 19.03.1993, n. 103, in Foro it., 1993, I, 2410; ordinanza 10.12.1987, n. 503, in Giur. cost., 1987, I, 3317, con nota di AMODIO; sentenza 20.03.1978, n. 23, in Giur. it., 1979, I, 209);
         e2) ciò, tuttavia, “non sminuisce certo la portata che tale principio ha assunto nel nostro ordinamento, specie dopo l’entrata in vigore della legge 07.08.1990, n. 241”;
         e3) in materia espropriativa, è ormai risalente l’affermazione secondo cui i privati interessati devono essere messi “in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico” (cfr. sentenza 20.07.1990, n. 344, in Giur. cost., 1990, 2158; sentenza 21.03.1989, n. 143, in Foro it., 1991, I, 1970; sentenza 27.06.1986, n. 151, in Foro it., 1986, I, 2690, con note di COZZUTO QUADRI e CARAVITA; sentenza 02.03.1962, n. 13, in Giur. cost., 1962);
      f) in tema di proroga di vincoli espropriativi già scaduti, cfr., nella giurisprudenza costituzionale, la sentenza n. 314 del 2007, cit. (menzionata anche dalla decisione in rassegna), con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma di legge della Regione Campania che prorogava, per un triennio, i piani regolatori dei nuclei e delle aree industriali già scaduti; in tale pronuncia si legge, per quanto qui di maggiore interesse:
         f1) che la reiterazione dei vincoli espropriativi, pur in linea di principio “consentita in via amministrativa, e a maggior ragione, per legge”, deve tuttavia essere “puntualmente motivata con riguardo alla persistente necessità di acquisire la proprietà privata (da valutare sulla base di una apposita istruttoria procedimentale da cui emerga la prevalenza dell’interesse pubblico rispetto a quello privato da sacrificare); e, contemporaneamente, deve prevedere la corresponsione del giusto indennizzo. In mancanza di tali presupposti vi è lesione del diritto di proprietà”;
         f2) che “La regola dell’indennizzabilità dei vincoli espropriativi reiterati è ormai un principio consolidato nell’ordinamento, anche per l’entrata in vigore dell’art. 39 t.u. delle espropriazioni (d.p.r. 08.06.2001 n. 327). La reiterazione di qualsiasi vincolo preordinato all’esproprio, o sostanzialmente espropriativo, dunque, è da intendere implicitamente integrabile con il principio generale dell’indennizzabilità” (con richiamo alla precedente ordinanza 25.07.2002, n. 397, in Riv. giur. edilizia, 2002, I, 1207);
      g) nella giurisprudenza amministrativa, con riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento con cui è reiterato il vincolo espropriativo, cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 24.05.2007, n. 7 (in Foro it., 2007, III, 350 con nota di TRAVI; in Guida al dir., 2007, 24, 73, con nota di FORLENZA; in Riv. amm., 2007, 461, con nota di CACCIAVILLANI; in Corriere merito, 2007, 1092, con nota di VELTRI; in Urb. e appalti, 2007, 1113, con nota di CARBONELLI; in Giorn. dir. amm., 2007, 1174, con nota di MAZZARELLI; in Resp. e risarcimento, 2007, 7, 95, con nota di PAPPALARDO; in Quaderni centro documentaz., 2007, 242, con nota di COLLACCHI) secondo cui:
         g1) “l'esercizio del potere di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio decaduto per decorrenza del termine quinquennale può essere esercitato unicamente sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che escluda un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti”;
         g2) “per valutare l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti di reiterazione di vincoli preordinati all'esproprio occorre distinguere se questi riguardano o meno una pluralità di aree, se riguardano solo una parte già incisa da vincoli decaduti, se, infine, la reiterazione sia disposta (o meno) per la prima volta sull'area”;
         g3) “si ha adeguato supporto motivazionale dell'atto di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio qualora l'amministrazione, nell'evidenziare l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, abbia a seguito di specifica istruttoria, tenuto conto delle seguenti circostanze:
1) in caso di reiterazione disposta con riguardo o meno una pluralità di aree, nell'ambito dell'adozione di una variante generale o comunque riguardante una consistente parte del territorio comunale, si devono distinguere le ipotesi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un'area ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico) e quelle in cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una consistente parte del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli preordinati all'esproprio (necessari per l'adeguamento degli standard, a seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Tale distinzione ha ragion d'essere perché solo nell'ipotesi in cui vengono reiterati ‘in blocco’ i vincoli decaduti, già riguardanti una pluralità di aree, la sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dalla perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard (indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l'assenza di un intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
2) in caso di reiterazione disposta con riguardo solo ad una parte delle aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l'altra parte non è disposta la reiterazione in quanto il vincolo venga impresso su nuovi terreni. Tale scelta, pur costituendo senz'altro un'anomalia della funzione pubblica, deve fondarsi, pena il profilarsi di un intento vessatorio nei confronti dei proprietari delle aree riassoggettate a vincolo, su una motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico che giustifichino il vantaggio di chi non è più coinvolto nelle determinazioni di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all'esproprio;
3) in caso di reiterazione disposta per la prima volta, può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni; di converso, quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, l'autorità urbanistica deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, evidenziano le ragioni, con riferimento al rispetto degli standard, alle esigenze della spesa, agli specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali, che diano conto dell'attuale sussistenza dell'interesse pubblico
”;
         g4) “secondo il quadro normativo vigente antecedentemente al testo unico sugli espropri approvato con il d.P.R. n. 327 del 2001, valeva il principio che, in caso di atti di reiterazione dei vincoli preordinati all'esproprio, imponeva l'obbligo di un'adeguata motivazione (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, d.P.R. cit.), nella quale l'amministrazione doveva indicare la ragione che l'avevano indotta a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la precedente scelta si era appuntata, evidenziando, a tal fine, l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, ciò in quanto tale specie di determinazione è destinata ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio”;
         g5) la deliberazione riguardante la reiterazione del vincolo espropriativo non necessita di copertura finanziaria volta a garantire il pagamento del corrispondente indennizzo (“la delibera impugnata in primo grado non doveva essere preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’”);
      h) sulla distinzione fra vincoli conformativi e vincoli espropriativi, in relazione a motivazione e indennizzo, cfr. da ultimo, nella giurisprudenza amministrativa (cui adde le ulteriori indicazioni riportate nella News US n. 109 del 16.10.2019, cit.):
         h1) Cons. Stato, sezione IV, sentenza 19.02.2020, n. 1253, secondo cui “l’art. 40 della legge n. 1150/1942, dopo l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 55 del 1968, deve intendersi nel senso che gli obblighi di allineamento rispetto alle previsioni di piano sulle vie di comunicazione non decadono perché non hanno natura espropriativa”;
         h2) Cons. Stato, sezione IV, sentenza 12.04.2018, n. 2205, in cui si legge quanto segue: “il concetto di ‘limiti comportanti la totale inutilizzazione’ va enucleato in base alla insuperata giurisprudenza costituzionale, in materia di cd. espropriazione di valore (sentenze 20.01.1966 n. 6 e 29.05.1968 n. 55), che indica il criterio per discernere le ipotesi in cui l'amministrazione esercita sui beni di proprietà privata un potere conformativo (come tale, non indennizzabile), da quelle in cui -viceversa- esercita un potere sostanzialmente ablatorio (come tale, indennizzabile [...])”;
         h3) Cons. Stato, sezione IV, decisione 28.10.2009, n. 6661 (in Giurisdiz. amm., 2009, I, 1399), secondo cui “In tema di convenzione urbanistica di lottizzazione, quando sia scaduto un piano di lottizzazione si applicano alla convenzione le disposizioni dell'art. 17 l. 1150/1942, le quali impongono, in mancanza di una diversa disciplina di dettaglio, di rispettare gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabilite dallo strumento urbanistico attuativo, ancorché scaduto; la previsione di «ultrattività» delle disposizioni del piano scaduto è finalizzata ad evitare l'alterazione dello sviluppo urbanistico-edilizio così come armonicamente programmato e ad assicurare una edificazione omogenea”;
      i) sulla programmazione triennale dei lavori pubblici cfr., in dottrina: L. PETRANGELI PAPINI, La programmazione e la progettazione dei lavori pubblici, in Appalti urbanistica edilizia, 2000, 12, 643 ss.; G. FORMICHELLA, Lavori pubblici. La programmazione dei lavori pubblici negli Enti locali. I principi, le procedure, gli aspetti positivi e gli spunti problematici, in Nuova rass., 2001, 1857 ss.; A. MATARAZZO, Lavori pubblici. Brevi annotazioni operative in tema di programmazione dei lavori pubblici, in Nuova rass., 2001, 1871 ss.; E. BARUSSO, Le competenze degli organi dell’Ente Locale, Santarcangelo di Romagna, 2001, 127 ss.; G. PESCE, Effetti del programma triennale delle opere pubbliche e valutazione di fattibilità dell'intervento, in Urb. e appalti, 2003, 442 ss.; A. PAGANO, Programma triennale dei lavori pubblici, Commento a d.m. Infrastrutture e trasporti 09.06.2005, in Urb. e appalti, 2005, 914; D. GHIANDONI, E. MASINI, Le principali novità del programma oo.pp. 2019/2021, in Azienditalia, 2018, 10, 1247; P. LEONCINO, La contabilizzazione delle opere pubbliche, in Azienditalia, 2019, 6, 885; A. GRAZIANO, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, I, Fonti e principi, Ambito, Programmazione e progettazione, 2019, 1123 ss.; R. DE NICTOLIS, Appalti pubblici e concessioni, Bologna, 2020, 300 ss. (Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIllegittimo l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della L.R. Lombardia n. 12 del 2005 che consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio oltre la naturale scadenza quinquennale.
La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Osserva al riguardo la Corte che:
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le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 9, comma 12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono fondate, poiché tale disposizione viola gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost..
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71 del 2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14 del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità
>> (commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Espropriazione per pubblica utilità - Norme della Regione Lombardia - Piano dei servizi - Durata quinquennale dei vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi, decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso - Decadenza dei vincoli qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche.
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1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, con
ordinanza 20.09.2019 n. 827 (r.o. n. 221 del 2019), solleva, in riferimento agli artt. 42 e 117, terzo e primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio).
...
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, dubita che l’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), violi gli artt. 42 e 117, terzo e primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952.
1.1.– Il TAR Lombardia ricorda che la disposizione censurata disciplina i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi.
Quest’ultimo costituisce una componente del piano di governo del territorio, previsto dall’art. 7, comma 1, lett. b), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 quale strumento urbanistico generale della pianificazione di livello comunale.
La disposizione censurata, dopo aver stabilito nel primo periodo, in cinque anni, decorrenti dall’entrata in vigore del citato piano dei servizi, la durata dei vincoli ablativi in questione, prevede, nel secondo periodo (cioè proprio nella parte della cui legittimità costituzionale il rimettente dubita), che «[d]etti vincoli decadono qualora, entro tale termine, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento […]».
Ciò posto, il rimettente espone, in punto di rilevanza, che le società Te.Mo. spa e So.Ag.Be. ss hanno impugnato l’atto contenente la dichiarazione di pubblica utilità e i successivi provvedimenti, adottati nell’ambito del procedimento espropriativo preordinato alla realizzazione di una strada di collegamento, in parte prevista su un fondo di proprietà della Te.Mo. spa e destinato dalla So.Ag.Be. ss alla coltivazione di uva per la produzione di vino pregiato.
La dichiarazione di pubblica utilità, contenuta nella deliberazione del Consiglio comunale del 15.02.2018, n. 11 (recante l’approvazione del progetto dell’opera da realizzare), sarebbe stata adottata –riferisce il rimettente– quando erano già decorsi cinque anni dal momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Quest’ultimo, infatti, troverebbe origine nell’approvazione, in data 21.11.2012, del piano di governo del territorio del Comune di Adro, che prevedeva l’assoggettamento del fondo in questione a vincolo ablativo fino al 21.11.2017.
La decadenza del vincolo ablativo sarebbe stata impedita proprio e soltanto in forza dell’applicazione della disposizione censurata. Tale effetto sarebbe cioè derivato dall’inserimento dell’intervento, prima della scadenza quinquennale del vincolo espropriativo, nel programma triennale delle opere pubbliche –nella specie approvato in data 06.04.2017– inserimento che avrebbe così legittimato l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, pur se intervenuta in data 15.02.2018, e dunque oltre il termine quinquennale decorrente dall’approvazione del piano di governo del territorio.
Il TAR Lombardia riferisce che, nella medesima data da ultimo indicata, è stata anche adottata dal Consiglio comunale di Adro una variante urbanistica (poi approvata con deliberazione del 12.05.2018, n. 23).
Tuttavia, con riferimento all’opera pubblica di cui si tratta, quest’ultima deliberazione non avrebbe legittimamente reiterato il vincolo preordinato all’esproprio (ormai già scaduto), in quanto il Comune di Adro, in applicazione della disposizione censurata, avrebbe semplicemente «preso atto» dell’inserimento dell’intervento nel programma triennale delle opere pubbliche e del conseguente «effetto “confermativo”» dell’efficacia del vincolo.
A giudizio del TAR Lombardia –che attribuisce al provvedimento di variante urbanistica funzione meramente ricognitiva di un effetto legale già prodottosi– la sua mancata impugnazione da parte delle società ricorrenti non avrebbe dunque rilievo, poiché il provvedimento stesso «risulterebbe inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta il presupposto».
Infatti, la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, impugnata dalle ricorrenti, sarebbe comunque intervenuta sulla base di un vincolo preordinato all’esproprio risalente a più di cinque anni prima, sicché essa poggerebbe esclusivamente su una sorta di “proroga automatica” del vincolo, conseguente all’inclusione dell’opera nel programma triennale delle opere pubbliche ai sensi della disposizione censurata.
Quest’ultima costituirebbe, in definitiva, l’unico ostacolo frapposto all’annullamento dell’atto.
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo, sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte, ricorda che, trascorso un periodo di ragionevole durata –oggi fissato in cinque anni dall’art. 9, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (Testo A)» (d’ora innanzi: t.u. espropriazioni)– la pubblica amministrazione può reiterare il vincolo solo motivando adeguatamente in relazione alla persistenza di effettive esigenze urbanistiche (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni), e comunque corrispondendo un indennizzo (ai sensi del successivo art. 39 del medesimo testo unico).
Secondo il Tribunale amministrativo rimettente, dunque, l’esercizio del potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 Cost., solo se risulti limitato nel tempo e compensato, in caso di reiterazione del vincolo, dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Ricorda il giudice a quo, in particolare, che la giurisprudenza costituzionale (è richiamata la sentenza n. 179 del 1999) ha escluso che il vincolo possa essere reiterato senza che si proceda, alternativamente, all’espropriazione (o comunque al «serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi)», oppure alla corresponsione di un indennizzo.
Nella ricostruzione del TAR Lombardia, questo «serio inizio» dell’attività espropriativa sarebbe stato individuato dal legislatore statale, unico competente a tal fine, nel provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera; quindi, in un atto che comunque garantisce la partecipazione del proprietario del bene.
L’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, avrebbe, invece, disciplinato una nuova ipotesi di attuazione del vincolo espropriativo, in mancanza di un serio avvio della procedura espropriativa e, in particolare, di una tempestiva dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
In tal modo, in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., la legge regionale avrebbe ecceduto la propria competenza concorrente in materia, dal momento che l’art. 12 t.u. espropriazioni non ricomprenderebbe, tra gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità, l’inserimento dell’opera pubblica nel programma triennale.
Inoltre, in lesione dell’art. 42 Cost., la disposizione censurata consentirebbe l’esercizio del potere ablatorio «a tempo indeterminato», in ragione di un provvedimento –appunto l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche– la cui adozione, da un lato, non può essere qualificata come serio avvio della procedura espropriativa, e, dall’altro, non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e può essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di motivazione, né di indennizzo.
2.– In via preliminare, non può essere accolta la richiesta di una declaratoria d’inammissibilità delle questioni per sopravvenuto difetto di rilevanza, avanzata dal Comune di Adro, costituito in giudizio, in conseguenza della rinuncia al ricorso depositata nel giudizio a quo dalle società espropriate.
Come stabilito dall’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, il giudizio incidentale di costituzionalità è autonomo rispetto al giudizio a quo, nel senso che non risente delle vicende di fatto, successive all’ordinanza di rimessione e relative al rapporto dedotto nel processo principale. Per questo, la costante giurisprudenza costituzionale afferma che la rilevanza della questione deve essere valutata alla luce delle circostanze sussistenti al momento del provvedimento di rimessione, senza che assumano rilievo eventi sopravvenuti (sentenze n. 244 e n. 85 del 2020), quand’anche costituiti dall’estinzione del giudizio principale per effetto di rinuncia da parte dei ricorrenti (ordinanza n. 96 del 2018).
3.– Deve essere, inoltre, circoscritto il thema decidendum.
Il giudice a quo, in dispositivo, indirizza le proprie censure sull’intero comma 12 dell’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La motivazione dell’ordinanza di rimessione, tuttavia, consente agevolmente di delimitare l’oggetto delle censure al solo secondo periodo del comma in esame, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione decadono qualora, entro cinque anni dall’approvazione del piano dei servizi che prevede l’intervento, quest’ultimo non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
4.– Sempre in via preliminare, va rigettata l’eccezione d’inammissibilità per difetto di rilevanza, originariamente avanzata dalla difesa del Comune di Adro, secondo cui l’adozione della variante allo strumento urbanistico, in quanto idonea a reiterare il vincolo preordinato all’esproprio, renderebbe irrilevanti le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
Nel caso in esame, non risulta implausibile il ragionamento del rimettente, secondo il quale il Comune di Adro non sarebbe stato obbligato a reiterare il vincolo –nonostante la scadenza del quinquennio dalla originaria apposizione– proprio in virtù della norma censurata, che avrebbe determinato una “prorogaex lege del vincolo, a seguito dell’inserimento dell’opera nel programma triennale, per la durata di quest’ultimo e dei suoi eventuali aggiornamenti annuali.
Infatti, da questo punto di vista, il provvedimento di variante urbanistica, quantomeno in relazione all’opera di cui si tratta, potrebbe considerarsi meramente ricognitivo e, come tale, prima ancora che “atipico” (come ritenuto dal rimettente), addirittura superfluo.
Non si versa, pertanto, in una di quelle ipotesi di manifesta implausibilità della motivazione sulla rilevanza, che impediscono, secondo costante giurisprudenza costituzionale, l’esame del merito (da ultimo, sentenze n. 218 del 2020 e n. 208 del 2019).
5.– Neppure può essere accolta l’eccezione d’inammissibilità delle censure di violazione dell’art. 117 Cost., per non avere il rimettente indicato «quale comma e/o lettera sarebbero stati violati».
In primo luogo, il giudice a quo, almeno in un passaggio dell’ordinanza di rimessione, individua espressamente il terzo comma dell’art. 117 Cost. quale parametro evocato.
È, poi, ininfluente che il rimettente non menzioni espressamente la materia di legislazione concorrente tra quelle indicate nel terzo comma dell’art. 117 Cost., quando la questione, nel contesto della motivazione, risulti chiaramente enunciata (in senso analogo, da ultimo, sentenza n. 264 del 2020). E dal tenore dell’ordinanza di rimessione si evince con sufficiente chiarezza che le censure si incentrano sulla violazione della competenza legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia «governo del territorio».
6.– Va invece, e ancora preliminarmente, dichiarata l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Il rimettente non ha, infatti, assolto l’onere di motivazione sulla non manifesta infondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.
L’ordinanza di rimessione è, invero, volta unicamente a denunciare la lesione degli artt. 42 e 117, terzo comma, Cost., sotto i profili prima illustrati, e non indica alcuna ragione a sostegno di uno specifico contrasto della disposizione censurata con il parametro interposto sovranazionale.
Tale carenza conduce inevitabilmente all’inammissibilità della specifica questione in esame (in tal senso, tra le molte, sentenze n. 223 e n. 115 del 2020).
7.– Quanto all’esame del merito delle residue questioni di legittimità costituzionale, è utile premettere qualche sintetico richiamo alla disciplina statale e regionale rilevante, nonché alla pertinente giurisprudenza costituzionale.
8.– Governata dall’art. 42, terzo comma, Cost., l’espropriazione per motivi d’interesse generale consiste in un procedimento preordinato all’emanazione di un provvedimento che trasferisce la proprietà o altro diritto reale su di un bene.
Il legislatore statale ha introdotto a tal fine uno schema procedimentale articolato nelle fasi indicate dall’art. 8 t.u. espropriazioni, costituite dalla sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio, dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera che deve essere realizzata e dalla determinazione dell’indennità di espropriazione.
Tali fasi sono finalizzate all’emissione del decreto di esproprio.
Ai sensi del successivo art. 9 del medesimo testo unico, un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’espropriazione quando diventa efficace, in base alla specifica normativa statale e regionale di riferimento, l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che preveda la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità.
Una volta apposto il vincolo espropriativo, il proprietario del bene resta titolare del suo diritto sulla cosa e nel possesso di essa, ma non può utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che l’amministrazione non proceda all’espropriazione.
Come ricorda il giudice rimettente, questa Corte, con la sentenza n. 55 del 1968, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i numeri 2), 3) e 4) dell’art. 7 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), nonché l’art. 40 della stessa legge, nella parte in cui non prevedevano un indennizzo per le limitazioni espropriative a tempo indeterminato.
Il legislatore statale, chiamato a sciogliere l’alternativa tra un indennizzo da corrispondere immediatamente, al momento dell’apposizione del vincolo di durata indeterminata, e un vincolo senza immediato indennizzo ma a tempo determinato, ha optato per tale seconda soluzione, con la legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), il cui art. 2 ha stabilito la durata quinquennale del vincolo, periodo durante il quale la necessità di corrispondere un indennizzo è esclusa.
Con la sentenza n. 179 del 1999, infine, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma, della legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la previsione di un indennizzo.
Il legislatore statale si è adeguato a queste indicazioni con l’emanazione del già richiamato t.u. espropriazioni.
In base alle norme dettate da quest’ultimo, il vincolo preordinato all’esproprio è di durata quinquennale (art. 9, comma 2) –periodo, cosiddetto di franchigia, durante il quale al proprietario del bene non è dovuto alcun indennizzo– e decade se, entro tale termine, non è dichiarata la pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3).
Una volta decaduto e, dunque, divenuto inefficace, il vincolo può solo essere motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di un nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4), e con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39).
Le stesse garanzie devono sorreggere una eventuale proroga del vincolo prima della sua naturale scadenza (in tal senso, sentenza n. 314 del 2007).
Una volta apposto il vincolo, occorre procedere alla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, entro il termine di efficacia del vincolo espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni).
Si tratta dell’atto con il quale vengono individuati in concreto i motivi di interesse generale cui l’art. 42, terzo comma, Cost. subordina l’espropriazione della proprietà privata nei casi previsti dalla legge (sentenza n. 155 del 1995).
Con la dichiarazione di pubblica utilità, la pubblica amministrazione avvia effettivamente la procedura espropriativa, accertando l’interesse pubblico dell’opera attraverso l’individuazione specifica di essa e la sua collocazione nel territorio, nel rispetto del contraddittorio tra i cittadini interessati e l’amministrazione.
Un ruolo centrale nell’attuale disciplina del procedimento espropriativo è svolto dalla cosiddetta dichiarazione implicita di pubblica utilità.
Il t.u. espropriazioni, infatti, prevede che l’adozione di taluni atti, aventi struttura e funzioni proprie, comporti anche la dichiarazione di pubblica utilità delle opere da essi previste.
In particolare, ai sensi dell’art. 12, comma 1, la dichiarazione di pubblica utilità si intende disposta «quando l’autorità espropriante approva a tale fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità, ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato il piano di zona». Inoltre, e comunque, essa si intende disposta quando la normativa vigente prevede che equivalga «a dichiarazione di pubblica utilità l’approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti».
8.1.– In ambito statale, il programma triennale dei lavori pubblici è attualmente previsto dall’art. 21 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), il quale disciplina unitariamente la programmazione, sia per i lavori pubblici che per i servizi e le forniture, demandando (comma 8) a un decreto ministeriale, di natura regolamentare, la normazione di dettaglio.
Ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), cod. contratti pubblici, il programma rappresenta il documento, da aggiornare annualmente, che le amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori da avviare nel triennio.
Ai fini della presente decisione, va altresì sottolineato che, in relazione alla definizione del contenuto del programma in questione, la disciplina della partecipazione dei privati interessati è contenuta nella fonte regolamentare prima evocata: l’art. 5, comma 5, del decreto ministeriale 16.01.2018, n. 14 («Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali»), prevede, infatti, che le amministrazioni «possono consentire» la presentazione di «eventuali» osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione del programma sul profilo informatico del committente e che l’approvazione definitiva del documento programmatico triennale, con gli eventuali aggiornamenti, avviene entro i successivi trenta giorni dalla scadenza del termine fissato per tali «consultazioni», ovvero, comunque, entro sessanta giorni dalla pubblicazione sul suddetto profilo.
9.– La complessiva disciplina statale sinteticamente richiamata ha trovato peculiare attuazione nella legislazione della Regione Lombardia.
Come riconosce significativamente lo stesso art. 5, comma 1, t.u. espropriazioni («[l]e Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà legislativa concorrente, in ordine alle espropriazioni strumentali alle materie di propria competenza […]»), l’espropriazione costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi in varie materie, anche di competenza concorrente. Tra queste, soprattutto, il «governo del territorio», per la pacifica attrazione in quest’ultimo dell’urbanistica, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti, sentenze n. 130 del 2020 e n. 254 del 2019).
La Regione Lombardia, nell’esercizio delle proprie competenze legislative, si è dotata sia di una propria legge per il governo del territorio (legge reg. Lombardia n. 12 del 2005), sia di una disciplina in materia di procedimento di espropriazione, contenuta nella legge della Regione Lombardia 04.03.2009, n. 3 (Norme regionali in materia di espropriazione per pubblica utilità).
Con specifico riferimento alla vicenda che ha dato origine al giudizio a quo, relativo ad una fattispecie in cui sono in questione le prime due fasi della procedura espropriativa (apposizione del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarazione di pubblica utilità) assumono rilievo, nella legislazione della Regione Lombardia, due disposizioni: da un lato, quella effettivamente censurata, contenuta nella legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che attribuisce, come s’è visto, peculiare effetto all’inserimento dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle opere pubbliche; dall’altro, l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del 2009, il quale, nell’indicare gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità, include –a differenza della appena ricordata disciplina statale– anche il programma triennale delle opere pubbliche, subordinando però tale effetto all’accertamento di alcuni requisiti.
In particolare, il comma 2 della previsione da ultimo citata esige, relativamente a ciascuna opera per la quale il programma triennale intende produrre l’effetto in parola, che esso contenga: un piano particellare che individui i beni da espropriare, con allegate le relative planimetrie catastali; una motivazione circa la necessità di dichiarare la pubblica utilità in tale fase; la determinazione del valore da attribuire ai beni da espropriare, in conformità ai criteri applicabili in materia, con l’indicazione della relativa copertura finanziaria.
Pur riguardando entrambe il programma triennale delle opere pubbliche in ambito regionale, le due disposizioni hanno differenti obbiettivi: la prima (oggetto delle censure di legittimità costituzionale) è relativa alla fase dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio e stabilisce che il vincolo non decade se l’opera viene inserita nel programma; la seconda, relativa alla fase successiva del procedimento, include, alle condizioni viste, il programma in questione tra gli atti la cui approvazione comporta dichiarazione di pubblica utilità, con scelta, si è detto, innovativa rispetto alla disciplina statale.
Il giudice a quo non si occupa affatto della seconda disposizione e perciò non ne definisce il rapporto (di coordinamento, di alternatività, di esclusione) con la prima, che sospetta di illegittimità costituzionale. Si deve ritenere, peraltro, che tale pur indubbia lacuna non comporti l’inammissibilità delle questioni, per incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento, oppure per una erronea o incompleta individuazione della disciplina da censurare. Avendo affermato, nell’ordinanza di rimessione, che il programma triennale delle opere pubbliche approvato dal Comune di Adro non costituisce «serio inizio» della procedura espropriativa (carattere che, invece, è in generale riconosciuto alla dichiarazione di pubblica utilità di un’opera, e che, in virtù dei requisiti posti dall’art. 9, comma 2, legge reg. Lombardia n. 3 del 2009, potrebbe derivare, almeno nelle intenzioni del legislatore regionale, dall’inserimento nel programma triennale delle opere pubbliche corredate da quei requisiti), se ne deve dedurre che il rimettente abbia implicitamente ritenuto non applicabile l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del 2009 alla fattispecie al suo esame.
Trattandosi, dunque, di disposizione non ritenuta pertinente alla definizione del giudizio, questa Corte può prescindere da qualsiasi valutazione su di essa, sia in punto di ammissibilità delle questioni, sia, nel merito, circa la sua riconducibilità alla legittima espressione della potestà legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia «governo del territorio».
10.– Tutto ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 9, comma 12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono fondate, poiché tale disposizione viola gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost.
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71 del 2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14 del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità.
11.– Per queste complessive ragioni
va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
   1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento;
   2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, con l’ordinanza indicata in epigrafe (Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione per pubblica utilità - Norme della Regione Lombardia - Vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi - Termine di decadenza quinquennale, decorrente dalla vigenza del piano - Proroga, in caso di inserimento dei relativi interventi nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento - Violazione del diritto di proprietà e dei principi in materia di governo del territorio - Illegittimità costituzionale.
  
È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost., l'art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La norma censurata dal TAR Lombardia, sez. staccata di Brescia, consente la protrazione dell'efficacia del vincolo preordinato all'esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell'inclusione dell'aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell'ambito applicativo della medesima norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo.
Pertanto, essa è in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale formatasi in tema di vincoli ablativi finalizzati all'espropriazione, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario. Nel consentire la proroga senza indennizzo del vincolo preordinato all'esproprio oltre il quinquennio originario, il legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l'interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello c.d. di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di reiterazione del vincolo.
Ancora, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato, in quanto la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma triennale delle opere pubbliche -in relazione al cui contenuto il codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell'art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo- è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14 del 2018), non già dall'art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla legge regionale.
Inoltre, e soprattutto, l'art. 5, comma 5, dell'indicato d.m., prevedendo che le amministrazioni possano consentire la presentazione di eventuali osservazioni da parte dei privati interessati, degrada la partecipazione a mera eventualità
(precedenti citati: sentenze n. 314 del 2007, n. 179 del 1999, n. 155 del 1995 e n. 55 del 1968).
  
L'espropriazione costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi in varie materie, anche di competenza concorrente. Tra queste, soprattutto, il «governo del territorio», per la pacifica attrazione in quest'ultimo dell'urbanistica (precedenti citati: sentenze n. 130 del 2020 e n. 254 del 2019).
La proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all'infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza (precedente citato: sentenza n. 179 del 1999).
  
In materia espropriativa, i privati interessati, prima che l'autorità pubblica adotti provvedimenti limitativi dei loro diritti, devono essere messi in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell'interesse pubblico (precedente citato: sentenza n. 71 del 2015) (Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270).

novembre 2020

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Spallino, Regione Lombardia: nuove proroghe alle convenzioni di lottizzazione (30.11.2020 - link a www.dirittopa.it).

URBANISTICA: Contenuto del documento di piano e del piano delle regole del PGT.
Il TAR Milano osserva: «come la giurisprudenza della Sezione chiarisca come i contenuti del Documento di Piano attinenti alla disciplina degli ambiti di trasformazione siano stabiliti dall’articolo 8, comma 2, lett. e), della L.r. n. 12 del 2005. La disposizione prevede, in particolare, che il Documento di Piano “individua, anche con rappresentazioni grafiche in scala adeguata, gli ambiti di trasformazione, definendone gli indici urbanistico-edilizi in linea di massima, le vocazioni funzionali e i criteri di negoziazione, nonché i criteri di intervento, preordinati alla tutela ambientale, paesaggistica e storico-monumentale, ecologica, geologica, idrogeologica e sismica, laddove in tali ambiti siano comprese aree qualificate a tali fini nella documentazione conoscitiva”.
Le previsioni contenute nel Documento di Piano “non producono effetto diretto perché, trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono sufficienti a definire in modo compiuto le regole di carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti di trasformazione; a tal fine è necessario l’intervento del piano attuativo che, attraverso le regole di dettaglio, dovrà definire in maniera puntuale il quadro giuridico ad essi applicabile, con norme aventi carattere prescrittivo”.
La giurisprudenza della Sezione differenzia, sulla base del quadro normativo vigente, tra il regime giuridico degli ambiti di trasformazione e quello del tessuto urbano consolidato. Per i primi la disciplina giuridica è dettata “da una duplice fonte: il documento di piano, che li individua e detta le prescrizioni di massima che non hanno però effetto diretto sul loro regime giuridico; ed i piani attuativi che dettano invece le prescrizioni di dettaglio aventi effetti diretti sul loro regime giuridico”. Conferma, inoltre, l’inidoneità delle previsioni contenute nel documento di piano a spiegare effetti diretti trattandosi di regole di massima che necessitano di previsioni puntuali rimesse alla pianificazione attuativa.
Al contrario, “per gli ambiti del tessuto urbano consolidato”, “l’art. 10, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce al Piano delle Regole la definizione delle modalità di intervento e dei parametri da rispettare negli interventi di nuova edificazione; va aggiunto, inoltre, che le indicazioni contenute nel Piano delle Regole hanno carattere vincolante e producono effetti diretti sul regime giuridico dei suoli e non hanno termini di validità”»
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.11.2020 n. 2182 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
9. Venendo al merito del terzo motivo (i cui contenuti sono richiamati anche nell’ottavo e nel nono motivo) il Collegio osserva, in primo luogo, come la giurisprudenza della Sezione chiarisca come i contenuti del Documento di Piano attinenti alla disciplina degli ambiti di trasformazione siano stabiliti dall’articolo 8, comma 2, lett. e), della L.r. n. 12 del 2005.
La disposizione prevede, in particolare, che il Documento di Piano “individua, anche con rappresentazioni grafiche in scala adeguata, gli ambiti di trasformazione, definendone gli indici urbanistico-edilizi in linea di massima, le vocazioni funzionali e i criteri di negoziazione, nonché i criteri di intervento, preordinati alla tutela ambientale, paesaggistica e storico-monumentale, ecologica, geologica, idrogeologica e sismica, laddove in tali ambiti siano comprese aree qualificate a tali fini nella documentazione conoscitiva”.
9.1. Le previsioni contenute nel Documento di Piano “non producono effetto diretto perché, trattandosi di disposizioni di massima, da sole non sono sufficienti a definire in modo compiuto le regole di carattere urbanistico-edilizio che disciplinano gli ambiti di trasformazione; a tal fine è necessario l’intervento del piano attuativo che, attraverso le regole di dettaglio, dovrà definire in maniera puntuale il quadro giuridico ad essi applicabile, con norme aventi carattere prescrittivo” (cfr. TAR per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 07.11.2019, n. 1022).
9.2. La giurisprudenza della Sezione differenzia, sulla base del quadro normativo vigente, tra il regime giuridico degli ambiti di trasformazione e quello del tessuto urbano consolidato.
Per i primi la disciplina giuridica è dettata “da una duplice fonte: il documento di piano, che li individua e detta le prescrizioni di massima che non hanno però effetto diretto sul loro regime giuridico; ed i piani attuativi che dettano invece le prescrizioni di dettaglio aventi effetti diretti sul loro regime giuridico”. Conferma, inoltre, l’inidoneità delle previsioni contenute nel documento di piano a spiegare effetti diretti trattandosi di regole di massima che necessitano di previsioni puntuali rimesse alla pianificazione attuativa (TAR per la Lombardia – sede di Milano, 05.12.2014, n. 2971; Id., 06.02.2018, n. 347).
Al contrario, “per gli ambiti del tessuto urbano consolidato”, “l’art. 10, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce al Piano delle Regole la definizione delle modalità di intervento e dei parametri da rispettare negli interventi di nuova edificazione; va aggiunto, inoltre, che le indicazioni contenute nel Piano delle Regole hanno carattere vincolante e producono effetti diretti sul regime giuridico dei suoli e non hanno termini di validità” (TAR per la Lombardia, sede di Milano, Sez. II, 07.11.2019, n. 1022).

URBANISTICASecondo la giurisprudenza della Sezione “nessun argomento favorevole alla ripubblicazione è desumibile dalla legge regionale n. 12/2005, la quale all’art. 13 pianamente prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni” (comma 7) e che “la deliberazione del Consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione” (comma 9)”.
Dello stesso avviso si mostra il Consiglio di Stato secondo cui “la modifica del P.R.G. adottato in accoglimento delle osservazioni non comporta per il comune l’obbligo di ripubblicazione del progetto di P.R.G. così modificato solo se, da un lato, tutte le modifiche introdotte derivano strettamente dal contenuto delle osservazioni presentate dai privati e favorevolmente vagliate dall’amministrazione e, d’altro lato, se si tratti di modifiche settoriali ed esclusivamente incidenti sulla sfera giuridica dei soggetti che hanno presentato le corrispondenti osservazioni”.
Lo stesso Consiglio di Stato chiarisce: “in linea di principio, se la pubblicazione del progetto di piano regolatore generale prevista dalle diverse e concordanti leggi regionali è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano quale adottato dal Comune, essa non è richiesta di regola per le successive fasi del procedimento, anche se il piano risulti modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o modifiche introdotte in sede di approvazione regionale, salvo che si tratti di modifiche tali da stravolgere il piano e comportare nella sostanza una nuova adozione”.
Il principio che il Consiglio di Stato ricava da “tale condivisibile regola giurisprudenziale” è quello “per cui, salve (marginali sotto il profilo statistico e della concreta esperienza giurisprudenziale […]) ipotesi di stravolgimento del piano, l’accoglimento dell’osservazione proposta dal privato avviene con atto modificativo che non determina ex se l’obbligo che il piano faccia “navetta” e necessitino nuovi incombenti di pubblicizzazione del medesimo”.
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10. Con il terzo motivo Coop lamenta l’illegittimità della previsione derogatoria di cui all’art. 8, co. 7, delle N.t.A. al P.d.R. nella parte in cui dispone la possibilità di “passaggio da media a grande struttura di vendita” per il tramite di un permesso convenzionato e non attraverso pianificazione attuativa.
Tale titolo non imporrebbe una analisi di impatto urbanistico soggetta al confronto politico ma si sostanzierebbe in un atto della Dirigenza amministrativa. Inoltre, la previsione determinerebbe uno stravolgimento delle previsioni del Piano adottato con conseguente obbligo di ripubblicazione (omesso nel caso di specie) e di riedizione della procedura di V.A.S.
10.1. Le censure sono infondate.
10.2. Osserva il Collegio come il ricorso allo strumento del permesso di costruire convenzionato non privi l’Amministrazione di un penetrante potere di verifica dell’effettivo impatto urbanistico operando, comunque, le regole dettate dalla D.G.R. 1193/2013. Tale atto normativo prevede lo svolgimento di apposita istruttoria con coinvolgimento dei soggetti coinvolti ed indizione di una conferenza di servizi per acquisire i pareri necessari alla verifica di sostenibilità dell’intervento.
La “sottrazione” alla dialettica politica non può, inoltre, ritenersi motivo di illegittimità trattandosi di aspetti di carattere eminentemente tecnico e, in ogni caso, di una scelta amministrativa a valle di una disciplina urbanistica voluta proprio all’esito del confronto politico che conduce alla variante.
10.3. Né sussiste l’obbligo di ripubblicazione non trattandosi di una opzione che stravolge il piano.
10.3.1. Secondo la giurisprudenza della Sezione “nessun argomento favorevole alla ripubblicazione è desumibile dalla legge regionale n. 12/2005, la quale all’art. 13 pianamente prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni” (comma 7) e che “la deliberazione del Consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione” (comma 9)” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 07.06.2017, n. 1281).
Dello stesso avviso si mostra il Consiglio di Stato secondo cui “la modifica del P.R.G. adottato in accoglimento delle osservazioni non comporta per il comune l’obbligo di ripubblicazione del progetto di P.R.G. così modificato solo se, da un lato, tutte le modifiche introdotte derivano strettamente dal contenuto delle osservazioni presentate dai privati e favorevolmente vagliate dall’amministrazione e, d’altro lato, se si tratti di modifiche settoriali ed esclusivamente incidenti sulla sfera giuridica dei soggetti che hanno presentato le corrispondenti osservazioni” (Consiglio di Stato, Sez. III, 28.04.2009, n. 950).
10.3.2. Lo stesso Consiglio di Stato chiarisce: “in linea di principio, se la pubblicazione del progetto di piano regolatore generale prevista dalle diverse e concordanti leggi regionali è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano quale adottato dal Comune, essa non è richiesta di regola per le successive fasi del procedimento, anche se il piano risulti modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o modifiche introdotte in sede di approvazione regionale, salvo che si tratti di modifiche tali da stravolgere il piano e comportare nella sostanza una nuova adozione” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.03.2011, n. 1503).
Il principio che il Consiglio di Stato ricava da “tale condivisibile regola giurisprudenziale” è quello “per cui, salve (marginali sotto il profilo statistico e della concreta esperienza giurisprudenziale […]) ipotesi di stravolgimento del piano, l’accoglimento dell’osservazione proposta dal privato avviene con atto modificativo che non determina ex se l’obbligo che il piano faccia “navetta” e necessitino nuovi incombenti di pubblicizzazione del medesimo” (Consiglio di Stato, sez. IV, 13.03.2014, n. 1241).
10.3.3. Il principio affermato dalla giurisprudenza impone, quindi, di verificare se le modificazioni apportate costituiscano uno stravolgimento del piano o, comunque, determinino un mutamento delle caratteristiche di fondo e dei criteri generali da cui muovono le concrete scelte pianificatorie.
10.3.4. Nel caso di specie, si osserva già in precedenza come non si tratti di una scelta derogatoria delle linee portanti del Piano ma, al contrario, di una opzione che si inserisce all’interno degli assetti prescelti dal pianificatore. Non è, quindi, predicabile un obbligo di ripubblicazione del Piano.
10.4. Per le stesse ragioni non è condivisibile il rilievo della ricorrente secondo cui occorrerebbe rinnovare le operazioni di V.A.S. Infatti, la decisione comunale lascia inalterata l’esclusione della possibilità di introdurre nuove G.S.V. prevedendo esclusivamente limitate possibilità nell’ambito di precisi presupposti e, comunque, in aree già urbanizzate. Per tale ragione conservano valenza le risultanze del rapporto ambientale non essendo compromesse le esigenze su cui si fonda la scelta urbanistica generale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.11.2020 n. 2139 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2020

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Nella seduta del 07.10.2020, il Consiglio dei Ministri ha deliberato di impugnare dinanzi alla Consulta l'art. 28 della L.R. 07.08.2020 n. 18 recante ad oggetto "Assestamento al bilancio 2020–2022 con modifiche di leggi regionali".
Legge della regione Lombardia 07.08.2020 n. 18 “Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali” presenta alcuni profili di non conformità alla Carta costituzionale e va pertanto impugnata per le ragioni che si illustrano.
L’art. 28 della legge in parola interviene sulla durata della validità dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione disciplinandola riguardo alla proroga dei termini in modo difforme da quanto previsto dall'articolo 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge n. 18/2020, convertito dalla legge n. 27/2020, nonché dall’articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge n. 76/2020, convertito dalla legge n. 120/2020, senza peraltro prevedere la comunicazione del soggetto interessato di volersene avvalere e senza far salva la compatibilità dei titoli abilitativi con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati, in violazione dei principi fondamentali della materia edilizia, rientrante in quella più generale del «governo del territorio» oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost..
Si evidenzia preliminarmente che, anche nell'attuale situazione di emergenza collegata alla diffusione del virus Covid-19, gli interventi normativi delle Regioni e delle Province autonome, nello specifico in materia edilizia, debbano armonizzarsi con il complesso dei provvedimenti adottati dallo Stato finalizzati a garantire la salute dei cittadini e al contempo sostenere il sistema economico e non possano produrre deroghe alla normativa statale di settore superando l'ambito di competenza sopra menzionato.
Ciò posto, va evidenziato che, in considerazione della situazione emergenziale in atto, il legislatore nazionale è intervenuto sulla disciplina dei titoli abilitativi agli interventi edilizi e sulle convenzioni di lottizzazione, prorogandone la validità.
In particolare:
   1) l'articolo 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 17.03.2020, 18 (recante "Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19"), convertito, con modificazioni, dalla legge 24.04.2020, n. 27, ha disposto che:
"(omissis)
2. Tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti abilitativi comunque denominati, compresi i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, in scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020, conservano la loro validità per i novanta giorni successivi alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza. La disposizione di cui al periodo precedente si applica anche alle segna/azioni certificate di inizio attività, alle segnalazioni certificate di agibilità, nonché alle autorizzazioni paesaggistiche e alle autorizzazioni ambientali comunque denominate. Il medesimo termine si applica anche al ritiro dei titoli abilitativi edilizi comunque denominati rilasciati fino alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza.
2-bis. Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, in scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020, sono prorogati di novanta giorni. La presente disposizione si applica anche ai diversi termini delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale nonché dei relativi piani attuativi che hanno usufruito della proroga di cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98
";
   2) l'articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto legge 16.07.2020, n. 76 (recante "Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale”) convertito, con modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120, ha previsto che:
"(omissis).
4. Per effetto della comunicazione del soggetto interessato di volersi avvalere del presente comma, sono prorogati rispettivamente di un anno e di tre anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, come indicati nei permessi di costruire rilasciati o comunque formatisi fino al 31.12.2020, purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati. Le disposizioni di cui al primo periodo del presente comma si applicano anche ai permessi di costruire per i quali l'amministrazione competente abbia già accordato una proroga ai sensi dell'articolo 15, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380. La medesima proroga si applica alle segnalazioni certificate di inizio attività presentate entro lo stesso termine ai sensi degli articoli 22 e 23 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
4-bis. Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, formatisi al 31.12.2020, sono prorogati di tre anni. La presente disposizione si applica anche ai diversi termini delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, o degli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale nonché dei relativi piani attuativi che hanno usufruito della proroga di cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98
".
Passando all'analisi della legge regionale, approvata in data 28.07.2020, l'articolo 28 recita:
   "1. Anche in considerazione del permanere di gravi difficoltà per il settore delle costruzioni, derivanti dall'emergenza epidemiologica da COVID-19, è prorogata la validità:
a) di tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa scadenza;
b) delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 46 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla relativa scadenza.
   2. Le scadenze dei termini previsti agli articoli 8-bis, commi i e 2, e 40-bis, comma 1, primo e quarto periodo, della L.R. 12/2005, nonché del termine di cui all'articolo 8, comma 2, della legge regionale 26.11.2019, n. 18 (Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio" e ad altre leggi regionali), differite in applicazione dell'articolo 1, comma 1, della legge regionale 31.03.2020, n. 4 (Differimento dei termini stabiliti da leggi e regolamenti regionali e disposizioni urgenti in materia contabile e di agriturismi, in considerazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19), sono prorogate fino al 31.12.2020.
   3. L'efficacia delle deliberazioni della Giunta regionale relative ai criteri di cui agli articoli 11, comma 5, e 43, comma 2-quinquies, della L.R. 12/2005 è sospesa per novanta giorni dalla data di pubblicazione nel Bollettino ufficiale della Regione Lombardia delle stesse deliberazioni per consentire e agevolare le valutazioni di competenza dei comuni, ai fini della relativa applicazione
”.
Così delineato il quadro normativo di riferimento, si rappresenta che è principio pacifico nella giurisprudenza della Corte Costituzionale quello secondo cui, nell'ambito della materia concorrente «governo del territorio», prevista dall'articolo 117, comma terzo, della Costituzione, i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale (sentenze n. 259 del 2014, n. 139 e n. 102 del 2013 n. 303 del 2003).
Con riguardo alla portata dei «principi fondamentali» riservati alla legislazione statale nelle materie di potestà concorrente, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire, tra l'altro, che «il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio [...] deve essere inteso nel senso che l'una è volta a prescrivere criteri ed obiettivi, mentre all'altra spetta l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi» (sentenze n. 272 del 2013 e n. 237 del 2009).
La legge regionale in esame, nel regolamentare la disciplina della validità dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione, lungi dall'adottare una disciplina di dettaglio rispetto a quella statale, ha introdotto una normativa sostitutiva dei principi dettati dal legislatore statale.
Ed invero l'articolo 28 della legge regionale nel prevedere, al comma 10, lettera a), che la validità di attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, è tre anni dalla data di relativa scadenza, si pone in contrasto con la previsione contenuta nell'articolo 103, comma 2, del decreto-legge n. 18 del 2020, che, individua un meccanismo di proroga automatica dei titoli in scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020, e fissa il termine finale della stessa al novantesimo giorno successivo alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza.
Peraltro, la medesima disposizione, diversamente sia dal testo dell'articolo 10, comma 4, del decreto-legge n. 76 del 2020 vigente alla data di approvazione della disposizione regionale che dal testo del medesimo articolo 10, comma 4, del citato decreto-legge, come modificato dalla legge di conversione:
   - individua un termine di proroga diverso disponendo, per quelli in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, la proroga per tre anni dalla data di relativa scadenza. Al riguardo, si sottolinea che l'articolo 10, comma 4, del decreto semplificazioni (anche prima delle modifiche apportate della legge di conversione), stabilisce la proroga, rispettivamente di un anno e di tre anni dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, come indicati nei permessi di costruire rilasciati o comunque formatisi fino al 31.12.2020;
   - non ancora l'operatività della proroga alla comunicazione del soggetto interessato di volersene avvalere;
   - non contiene la previsione che fa salva la compatibilità dei i titoli abilitativi, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati.
In relazione alla disciplina delle convenzioni di lottizzazioni, l'articolo 28, comma 1, lettera b), della legge regionale, nel prevedere la proroga per gli atti "stipulati antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla relativa scadenza", si pone in contrasto:
   - con l'articolo 103, comma 2-bis, del decreto-legge c.d. Cura Italia vigente al momento dell'approvazione e della successiva pubblicazione della legge regionale, che stabilisce la proroga per le convenzioni di lottizzazione e i piani attuativi in scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020;
   - con l'articolo 10, comma 4-bis, del decreto-legge c.d. Semplificazione, che individua il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, formatisi al 31.12.2020, sono prorogati di tre anni.
Alla luce della ricostruzione sopra effettuata, la legge regionale in esame comporta l'invasione della. riserva di competenza statale alla formulazione di principi fondamentali, con tutti i rischi per la certezza e per l'unitarietà della disciplina che tale invasione comporta.
Il contrasto tra la disciplina statale e quella regionale comporta la violazione dei principi fondamentali della materia edilizia, rientrante in quella più generale del «governo del territorio» oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost., in quanto la disciplina statale dei "titoli edilizi" costituisce norma di principio (Corte costituzionale 09.03.2016, 49).
Per le esposte ragioni,
si ritiene quindi di impugnare innanzi alla Corte costituzionale, ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione, la legge della Regione Lombardia n. 18 del 2020, limitatamente all’articolo 28, che interviene sulla durata della validità dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione, in violazione dei principi fondamentali della materia edilizia, rientrante in quella più generale del governo del territorio oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost., con riferimento all'articolo 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge n. 18/2020, convertito dalla legge n. 27/2020, nonché all’articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge n. 76/2020, convertito dalla legge n. 120/2020 (07.10.2020 - commento tratto da e link a www.affariregionali.gov.it).
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Si legga, al riguardo:
  
Ricorso per questione di legittimità costituzionale depositato in cancelleria il 13.10.2020 (del Presidente del Consiglio dei ministri)
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Lombardia - Differimento di termini e sospensione dell’efficacia di atti in materia di governo del territorio in considerazione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 - Proroga della validità di certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, e delle convenzioni di lottizzazione.
– Legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali), art. 28.

agosto 2020

EDILIZIA PRIVATA: Disapplicazione del DM 1444/1968 ad opera dell’art. 103 della L.R. 12/2005.
L’art. 103, comma 1-bis, L.R. n. 12/2005, lungi dallo stabilire una disapplicazione in via generale del D.M. n. 1444/1968, si limita invero a consentire ai Comuni di redigere i propri Piani di governo del territorio senza rispettare le disposizioni dettate dal D.M. n. 1444/1968.
È solo in sede di redazione dei nuovi PGT sostitutivi dei precedenti PRG che, quindi, “ai fini dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti”, i Comuni potevano derogare a determinati limiti posti dal decreto ministeriale.
Questa interpretazione rinviene un autorevole avallo nella Corte Costituzionale che, con la recente sentenza n. 13 del 07.02.2020, evidenzia come si tratti di “una disciplina volta a regolare la sola fase transitoria di adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti, modulata secondo precise scansioni temporali, e non la revisione dei piani di governo del territorio già approvati”.
Tale disposizione, “pur posteriore alla «Legge per il governo del territorio» del 2005, si colloca in un orizzonte temporale definito, legato all’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti e alla successiva transizione ai piani di governo del territorio, che si configurano come i nuovi strumenti di pianificazione urbanistica previsti dalla legislazione regionale”.
In tal senso, depone “l’univoco dettato letterale, che richiama l’adeguamento, secondo le cadenze predeterminate dall’art. 26, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005, e postula un nesso di strumentalità della disapplicazione rispetto all’adeguamento stesso”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.08.2020 n. 1576 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1. Con il ricorso in epigrafe, Eu. s.r.l., premesso di essere una società operante nel settore immobiliare, ha impugnato il provvedimento assunto in data 25.06.2019 dal Comune di Seregno con cui si comunicava, con riferimento all’immobile sito in via ... 32, il “diniego definitivo del Permesso di costruire per l'esecuzione degli interventi edilizi, sulla scorta delle motivazioni già espresse nel preavviso di diniego richiamato in premessa e che restano confermate: 1. l’altezza massima del nuovo edificio in progetto derivante da ristrutturazione edilizia, ex art. 3, lett. d), del DPR 380/2001, supera l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti”.
2. Con il primo motivo, si deduce l’illegittimità del diniego del permesso di costruire per violazione dell’art. 103, comma 1-bis, della L.R. Lombardia n. 12/2005.
2.1. La disposizione in esame prevede che “Ai fini dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile tra fabbricati inseriti all'interno di piani attuativi e di ambiti con previsioni planivolumetriche oggetto di convenzionamento unitario”.
L’amministrazione comunale, ritenendo applicabili alla fattispecie i limiti di altezza posti dall’art. 8 del D.M. n. 1444/1968 in difetto di una specifica previsione sul punto nella propria disciplina urbanistica, avrebbe violato la norma regionale predetta, che vieterebbe, in tesi, di fare applicazione del decreto ministeriale citato.
2.2. La tesi non è condivisibile.
L’art. 103, comma 1-bis, L.R. n. 12/2005, lungi dallo stabilire una disapplicazione in via generale del D.M. n. 1444/1968, si limita invero a consentire ai Comuni di redigere i propri Piani di governo del territorio senza rispettare le disposizioni dettate dal D.M. n. 1444/1968.
È solo in sede di redazione dei nuovi PGT sostitutivi dei precedenti PRG che, quindi, “ai fini dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti”, i Comuni potevano derogare a determinati limiti posti dal decreto ministeriale.
Questa interpretazione, già affermata dalla Sezione (cfr.
sentenza 22.07.2020 n. 1413, rinviene un autorevole avallo nella Corte Costituzionale che, con la recente sentenza n. 13 del 07.02.2020, evidenzia come si tratti di “una disciplina volta a regolare la sola fase transitoria di adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti, modulata secondo precise scansioni temporali, e non la revisione dei piani di governo del territorio già approvati”.
Tale disposizione, “pur posteriore alla «Legge per il governo del territorio» del 2005, si colloca in un orizzonte temporale definito, legato all’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti e alla successiva transizione ai piani di governo del territorio, che si configurano come i nuovi strumenti di pianificazione urbanistica previsti dalla legislazione regionale”.
In tal senso, depone “l’univoco dettato letterale, che richiama l’adeguamento, secondo le cadenze predeterminate dall’art. 26, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005, e postula un nesso di strumentalità della disapplicazione rispetto all’adeguamento stesso”.
2.3. Non essendo stata prevista, dunque, nel PGT di Seregno una deroga alla disposizione sull’altezza degli edifici, correttamente il Comune ha fatto applicazione dell’art. 8 del D.M. 1444/1968, in sede di decisione sulla specifica richiesta di permesso di costruire.

marzo 2020

URBANISTICA: Compensazione e perequazione.
Il TAR Milano con riferimento agli istituti della compensazione e della perequazione precisa:
«come l’istituto della compensazione, a differenza di quello della perequazione, non ha quale precipua finalità quella di mitigare le disuguaglianze che si producono con la pianificazione urbanistica ma mira ad individuare una forma di remunerazione alternativa a quella pecuniaria per i proprietari dei suoli destinati all’espropriazione, consistente nell’attribuzione di diritti edificatori che potranno essere trasferiti, anche mediante cessione onerosa (articolo 11, commi 3 e 4, della L.r. n. 12 del 2005).
Come osservato dalla Sezione, i modelli configurati dal legislatore regionale non hanno carattere stringente ma possono essere, per determinati aspetti, adattati dai Comuni al fine di assecondarli alle specifiche esigenze di pianificazione.
Infatti, “gli istituti della perequazione e della compensazione urbanistica trovano fondamento in due pilastri fondamentali del nostro ordinamento, che travalicano le previsioni contenute nelle diverse leggi regionali, e precisamente nella potestà conformativa del diritto proprietà di cui è titolare l'Amministrazione nell'esercizio della propria attività di pianificazione, ai sensi dell’art. 42, comma primo, Cost., e, al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge n. 241 del 1990.
In ragione di quanto esposto, la Sezione correttamente ritiene possibili adattamenti dei modelli previsti dalla legislazione regionale al fine di soddisfare le esigenze delle Amministrazioni locali e di realizzare l’interesse pubblico. Interpretazione che, come riconosciuto dalla Sezione, “si pone in linea con i rilievi espressi da una parte della dottrina” che auspica “l’astensione dei legislatori regionali dal dettare normative stringenti in materia […] al fine di evitare che in tal modo si imbrigliassero eccessivamente le scelte compiute in sede di pianificazione” (TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 11.06.2014, n. 1542, che richiama, sul punto, la delibera di Giunta Regionale n. VIII/1681 del 29.12.2005, la quale, al punto 2.1.3, chiarisce che, con la previsione di cui all’articolo 11, il legislatore individua solo dei modelli di riferimento “che lasciano comunque grande spazio ad una vasta gamma di soluzioni soprattutto di tipo intermedio”)» (nella fattispecie, come sintetizzato da TAR «i ricorrenti deducono la violazione della previsione di cui all’articolo 11, comma 3, della L.r. n. 12 del 2005.
Osservano i ricorrenti come, nel caso di specie, “aree pubbliche destinate alla realizzazione di interventi di interesse pubblico sono trasferite non al Comune ma al privato”, per il tramite di un piano attuativo. Si realizza, quindi, la permuta di un’area privata edificabile, che viene, in tutto o in parte destinata a interventi di interesse pubblico mentre l’area, già comunale, destinata ad interventi di interesse pubblico viene trasferita al privato»)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.03.2020 n. 444 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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9. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti deducono la violazione della previsione di cui all’articolo 11, comma 3, della L.r. n. 12 del 2005. Osservano i ricorrenti come, nel caso di specie, “aree pubbliche destinate alla realizzazione di interventi di interesse pubblico sono trasferite non al Comune ma al privato”, per il tramite di un piano attuativo.
Si realizza, quindi, la permuta di un’area privata edificabile, che viene, in tutto o in parte destinata a interventi di interesse pubblico mentre l’area, già comunale, destinata ad interventi di interesse pubblico viene trasferita al privato.
9.1. Il motivo è infondato.
9.2. Osserva il Collegio come l’istituto della compensazione, a differenza di quello della perequazione, non ha quale precipua finalità quella di mitigare le disuguaglianze che si producono con la pianificazione urbanistica ma mira ad individuare una forma di remunerazione alternativa a quella pecuniaria per i proprietari dei suoli destinati all’espropriazione, consistente nell’attribuzione di diritti edificatori che potranno essere trasferiti, anche mediante cessione onerosa (articolo 11, commi 3 e 4, della L.r. n. 12 del 2005).
Come osservato dalla Sezione, i modelli configurati dal legislatore regionale non hanno carattere stringente ma possono essere, per determinati aspetti, adattati dai Comuni al fine di assecondarli alle specifiche esigenze di pianificazione (TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 11.06.2014, n. 1542).
Infatti, “gli istituti della perequazione e della compensazione urbanistica trovano fondamento in due pilastri fondamentali del nostro ordinamento, che travalicano le previsioni contenute nelle diverse leggi regionali, e precisamente nella potestà conformativa del diritto proprietà di cui è titolare l'Amministrazione nell'esercizio della propria attività di pianificazione, ai sensi dell’art. 42, comma primo, Cost., e, al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.07.2010 n. 4545; TAR Campania, Salerno, sez. I, 05.07.2002 n. 670, TAR Veneto sez. I, 19.05.2009, n. 1504)” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 11.06.2014, n. 1542).
9.3. In ragione di quanto esposto, la Sezione correttamente ritiene possibili adattamenti dei modelli previsti dalla legislazione regionale al fine di soddisfare le esigenze delle Amministrazioni locali e di realizzare l’interesse pubblico. Interpretazione che, come riconosciuto dalla Sezione, “si pone in linea con i rilievi espressi da una parte della dottrina” che auspica “l’astensione dei legislatori regionali dal dettare normative stringenti in materia […] al fine di evitare che in tal modo si imbrigliassero eccessivamente le scelte compiute in sede di pianificazione” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 11.06.2014, n. 1542, che richiama, sul punto, la delibera di Giunta Regionale n. VIII/1681 del 29.12.2005, la quale, al punto 2.1.3, chiarisce che, con la previsione di cui all’articolo 11, il legislatore individua solo dei modelli di riferimento “che lasciano comunque grande spazio ad una vasta gamma di soluzioni soprattutto di tipo intermedio”).
9.4. Del resto, la possibilità di adattamento del modello di compensazione non è propriamente contestato da parte dei ricorrenti che, in memoria conclusiva, deducono la non operatività del principio esposto stante il non concreto perseguimento di un interesse pubblico. Tesi che il Collegio, tuttavia, non condivide per le ragioni già in precedenza illustrate che ritengono configurabile un interesse pubblico nell’operazione complessivamente effettuata dall’Amministrazione (cfr., retro, punti 8.4 ss. della presente sentenza).

febbraio 2020

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAPer quanto attiene alla nozione di area agricola strategica la giurisprudenza ha riconosciuto che il concetto di area a vocazione agricola e il concetto di area agricola strategica non sono sovrapponibili.
In particolare, è stato detto che “In disparte l’elemento storico (provenienza dei due concetti da differenti impianti normativi) e testuale (l’espressa connotazione delimitativa delle aree agricole strategiche), appare corretta la lettura del TAR che ha evidenziato come anche la Regione Lombardia avesse individuato diversamente i criteri per la definizione degli ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico, attraverso delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, da dove si evince che gli ambiti strategici non sono tutti quelli destinati all’agricoltura, ma solo quelle parti di territorio caratterizzate da elementi di particolare rilievo”.
Tuttavia l’idoneità dei terreni della ricorrente a soddisfare esigenze agricole risulta motivata dalla Provincia con elementi che sono desunti proprio dalla delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, come la valutazione della classe del valore agro-forestale e l'estensione e continuità territoriale di scala sovracomunale (v. il punto 2 della deliberazione regionale citata).
A ciò si aggiunge che il carattere strategico dell’area non è legato alle sole esigenze dell’agricoltura ma anche a quelle silvo-pastorali.
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La società ricorrente, proprietaria nel comune di Agrate Brianza di un’area a destinazione agricola secondo il PGT vigente, ha impugnato il PTCP della Provincia di Monza e Brianza in quanto l’ha inserita all’interno delle aree agricole strategiche individuate dalla tavola 7b e disciplinate dall'art. 6 delle NTA del Piano stesso.
La ricorrente premette che l’area è inserita in un contesto fortemente urbanizzato e dotato di tutte le infrastrutture di servizio ed è situata nella zona artigianale/industriale del comune di Agrate Brianza e confina con importanti aziende locali e con l’ambito di trasformazione (ATp6) produttivo. Per tali ragioni ha presentato un’osservazione alla Provincia per ottenere lo stralcio dell’area dagli ambiti agricoli strategici ma la Provincia l’ha ritenuta inaccoglibile in quanto ”l'inserimento in AAS è coerente con i criteri per l’individuazione degli ambiti e con l'impostazione metodologica del procedimento di individuazione effettuato”.
Contro il piano approvato ha quindi sollevato i seguenti motivi di ricorso.
   1. Illegittimità per violazione dell'art. 11, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005 sotto il profilo del mancato rispetto del criteri regionali per la definizione degli ambiti agricoli strategici. Eccesso di potere nelle sue diverse figure sintomatiche. Violazione dell'art. 41 della Costituzione.
Secondo la ricorrente la qualificazione del fondo in oggetto quale area agricola strategica si porrebbe in contrasto con la deliberazione della Giunta regionale della Lombardia n. 8059 del 2008 secondo la quale non tutti gli ambiti agricoli presentano specifiche peculiarità tali da essere definiti o riconosciuti come ambiti strategici.
Gli ambiti agricoli strategici non avrebbero funzione di salvaguardia dalla edificazione (come pure le aree agricole classiche sono state a volte considerate, sebbene con qualche contrasto in dottrina e giurisprudenza) ma assumerebbero la caratteristica di aree con vocazione economico-produttiva riguardo agli utilizzi agricoli. Gli elementi necessari per qualificare un’area agricola strategica sarebbero: a) inclusione tra le zone agricole del PGT; b) classificazione a "prati permanenti" contenuta nel DUSAF (banca dati dell'uso e copertura del suolo); c) continuità con altri ambiti agricoli strategici; d) inclusione nell'area di ricarica diretta degli acquiferi in base alla tavola 9 del PTCP di Monza come "prati permanenti".
Nessuno degli elementi innanzi considerati dalla provincia di Monza nella sua attività istruttoria per la formazione del PTCP avrebbe evidenziato quelle specifiche caratteristiche di "produttività agricola" necessarie per connotare l'area di cui è causa tra gli ambiti agricoli strategici.
...
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Per quanto attiene alla nozione di area agricola strategica la giurisprudenza (Cons. Stato, IV, 01/09/2015 n. 4081; idem Cons. Stato, I, 04.07.2017 n. 1607; TAR Lombardia, Brescia, I, 08/05/2017 n. 614) ha riconosciuto che il concetto di area a vocazione agricola e il concetto di area agricola strategica non sono sovrapponibili.
In particolare, è stato detto che “In disparte l’elemento storico (provenienza dei due concetti da differenti impianti normativi) e testuale (l’espressa connotazione delimitativa delle aree agricole strategiche), appare corretta la lettura del TAR che ha evidenziato come anche la Regione Lombardia avesse individuato diversamente i criteri per la definizione degli ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico, attraverso delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, da dove si evince che gli ambiti strategici non sono tutti quelli destinati all’agricoltura, ma solo quelle parti di territorio caratterizzate da elementi di particolare rilievo” (v. Cons. Stato, IV, 01/09/2015 n. 4081).
Tuttavia l’idoneità dei terreni della ricorrente a soddisfare esigenze agricole risulta motivata dalla Provincia con elementi che sono desunti proprio dalla delibera di Giunta n. VIII/8059 del 19.09.2008, come la valutazione della classe del valore agro-forestale e l'estensione e continuità territoriale di scala sovracomunale (v. il punto 2 della deliberazione regionale citata).
A ciò si aggiunge che, a differenza di quanto affermato dalla ricorrente, il carattere strategico dell’area non è legato alle sole esigenze dell’agricoltura ma anche a quelle silvo-pastorali. Né d’altro canto la ricorrente ha contestato i dati provenienti dall’ERSAF, limitandosi piuttosto ad un più generico motivo di difetto di motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.02.2020 n. 266 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia, disapplicazione D.M. 02.04.1968, n. 1444 in sede di adeguamento degli strumenti urbanistici.
La Corte Costituzionale: “
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 1-bis, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), sollevate, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, della Costituzione, dal Consiglio di Stato, sezione prima, con l’ordinanza indicata in epigrafe”.
La Corte ricorda che:
1.1.– La disposizione censurata è stata aggiunta dall’art. 1, comma 1, lettera xxx), della legge della Regione Lombardia 14.03.2008, n. 4, recante «Ulteriori modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)», e prevede che, ai fini dell’adeguamento, «ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444».
La disciplina in esame salvaguarda, per i soli interventi di nuova costruzione, «il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri» e ne consente la deroga soltanto «tra fabbricati inseriti all’interno di piani attuativi e di ambiti con previsioni planivolumetriche oggetto di convenzionamento unitario», in base alla previsione introdotta dall’art. 4, comma 1, lettera k), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, recante «Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali».
La distanza minima di dieci metri, nel rispetto di quanto previsto dagli artt. 873 e 907 del codice civile, è altresì «derogabile per lo stretto necessario alla realizzazione di sistemi elevatori a pertinenza di fabbricati esistenti che non assolvano al requisito di accessibilità ai vari livelli di piano» (art. 103, comma 1-ter, della legge regionale n. 12 del 2005, aggiunto dall’art. 12, comma 1, della legge della Regione Lombardia 13.03.2012, n. 4, recante «Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia»)
”.
Nel giudizio la Regione Lombardia ha eccepito l’inammissibilità delle questioni in ragione dell’inadeguata motivazione in punto di rilevanza: il rimettente non avrebbe argomentato in alcun modo in ordine alla necessità di applicare una disposizione che riguarda specificamente la fase di adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti.
La Corte Costituzionale accoglie l’eccezione di inammissibilità sulla base delle seguenti motivazioni:
6.1.– La disposizione censurata esclude l’applicazione delle previsioni del d.m. n. 1444 del 1968 e puntualizza che tale disapplicazione opera «[a]i fini dell’adeguamento, ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti».
L’art. 26, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 dispone che i Comuni deliberino l’avvio del procedimento di adeguamento dei piani regolatori generali vigenti entro un anno dall’entrata in vigore della medesima legge, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia del 16 marzo 2005, n. 11, e destinata a entrare in vigore, in difetto di previsioni di segno diverso, il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione.
I Comuni sono poi obbligati ad approvare tutti gli atti inerenti ai piani di governo del territorio in conformità ai princìpi enunciati dalla nuova «Legge per il governo del territorio» e secondo il procedimento che tale legge delinea.
L’art. 26, comma 3, della stessa legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nella formulazione originaria, disciplinava i tempi di adeguamento dello strumento urbanistico generale, quando fosse stato approvato prima dell’entrata in vigore «della legge regionale 15.04.1975, n. 51 (Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia per la tutela del patrimonio naturale e paesistico)» (art. 25, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005). Era previsto il termine più celere di sei mesi dall’entrata in vigore della nuova «Legge per il governo del territorio» e si stabiliva che, successivamente, fossero approvati tutti gli atti di piano di governo del territorio.
Dopo le novità apportate dall’art. 1, comma 1, lettera f), della legge della Regione Lombardia 10.03.2009, n. 5 (Disposizioni in materia di territorio e opere pubbliche - Collegato ordinamentale), l’art. 26, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005 oggi regola l’avvio del procedimento di approvazione del piano di governo del territorio, che deve essere deliberato dai Comuni entro il 15.09.2009.
6.2.– Il Consiglio di Stato, sin dalle premesse dell’ordinanza di rimessione, evidenzia che è stata impugnata la variante adottata con delibera del Consiglio comunale di Sondrio 28.11.2014, n. 81, e destinata a modificare il piano di governo del territorio, a sua volta approvato con delibera del Consiglio comunale 06.06.2011, n. 40.
6.3.– A fronte di una variante risalente al novembre 2014 e relativa a un piano di governo del territorio già approvato nel giugno 2011, il rimettente non illustra le ragioni che rendono necessaria l’applicazione di una disciplina volta a regolare la sola fase transitoria di adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti, modulata secondo precise scansioni temporali, e non la revisione dei piani di governo del territorio già approvati.
La disposizione censurata, pur posteriore alla «Legge per il governo del territorio» del 2005, si colloca in un orizzonte temporale definito, legato all’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti e alla successiva transizione ai piani di governo del territorio, che si configurano come i nuovi strumenti di pianificazione urbanistica previsti dalla legislazione regionale.
In tal senso depone l’univoco dettato letterale, che richiama l’adeguamento, secondo le cadenze predeterminate dall’art. 26, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005, e postula un nesso di strumentalità della disapplicazione rispetto all’adeguamento stesso.
Sull’elemento temporale e sulla correlazione finalistica con l’adeguamento, che integrano requisiti imprescindibili della disposizione sospettata di incostituzionalità, il rimettente non offre ragguagli di sorta. Il Consiglio di Stato non dimostra che il provvedimento impugnato, posteriore alla fase transitoria di adeguamento, rinviene il suo fondamento nella disciplina sottoposta al vaglio di questa Corte e contraddistinta da presupposti applicativi rigorosi
” (Corte Costituzionale, sentenza 07.02.2020 n. 13 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).

ANNO 2019
dicembre 2019

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICASpazi per le moschee e altri luoghi religiosi: la Lombardia ha limitato irragionevolmente la libertà di culto.
La libertà religiosa garantita dall’articolo 19 della Costituzione comprende anche la libertà di culto e, con essa, il diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare. Pertanto, quando disciplina l’uso del territorio, il legislatore deve tener conto della necessità di dare risposta a questa esigenza e non può comunque ostacolare l’insediamento di attrezzature religiose.

È quanto ha stabilito la Corte costituzionale, che con la sentenza 05.12.2019 n. 254 (relatrice Daria de Pretis) ha accolto le questioni sollevate dal TAR Lombardia e, conseguentemente, ha annullato due disposizioni in materia di localizzazione dei luoghi di culto introdotte nella disciplina urbanistica lombarda (l. 12/2005) dalla legge regionale della Lombardia n. 2 del 2015.
La prima (contenuta nell’articolo 72, secondo comma, legge 12/2005) poneva come condizione per l’apertura di qualsiasi nuovo luogo di culto l’esistenza del piano per le attrezzature religiose (PAR). La Corte ha fatto riferimento al carattere assoluto della norma, che riguardava indistintamente tutte le nuove attrezzature religiose a prescindere dal loro impatto urbanistico, e al regime differenziato irragionevolmente riservato alle sole attrezzature religiose e non alle altre opere di urbanizzazione secondaria.
In base alla seconda disposizione dichiarata incostituzionale (articolo 72, quinto comma, secondo periodo), il PAR poteva essere adottato solo unitamente al piano di governo del territorio (PGT). Secondo la Corte, questa necessaria contestualità e il carattere del tutto discrezionale del potere del Comune di procedere alla formazione del PGT rendevano assolutamente incerta e aleatoria la possibilità di realizzare nuovi luoghi di culto.
Le norme censurate finivano così per determinare una forte compressione della libertà religiosa senza che a ciò corrispondesse alcun reale interesse di buon governo del territorio (Corte Costituzionale, comunicato stampa 05.12.2019).
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Nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose; in ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.
In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia, alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici).
A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR (piano delle attrezzature religiose) e che per un verso non consente un equilibrato e armonico sviluppo del territorio e per altro verso finisce con l’ostacolare l’apertura di nuovi luoghi di culto.
La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì che le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an e il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da ultimo, sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo del territorio.
Ciò posto va dichiarata:
   - l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
   - l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.com).
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Considerato in diritto
1.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del 2018 il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (sentenza 03.08.2018 n. 1939) dubita della legittimità costituzionale dell’art. 72, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione.
L’art. 72, comma 1, stabilisce che «[l]e aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70». Il comma 2 dispone che «[l]’installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all’articolo 70». Le attrezzature religiose sono identificate dall’art. 71 della stessa legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
Secondo il TAR, i citati commi 1 e 2 dell’art. 72, nel prevedere che, in assenza o comunque al di fuori delle previsioni del piano delle attrezzature religiose (di seguito, PAR), i comuni non possano consentire l’apertura di spazi destinati all’esercizio del culto, a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica opera, violerebbero:
   a) l’art. 19 Cost., in quanto la possibilità di esercitare collettivamente e in forma pubblica i riti non contrari al buon costume verrebbe a essere subordinata alla discrezionale pianificazione comunale e, quindi, al controllo pubblico;
   b) l’art. 3 Cost., in quanto le norme censurate eccederebbero lo scopo di assicurare il corretto inserimento sul territorio delle attrezzature religiose e assegnerebbero a queste un trattamento discriminatorio rispetto a quello riservato ad altre attrezzature comunque destinate alla fruizione pubblica, con conseguente violazione «dei fondamentali canoni di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione»;
   c) l’art. 2 Cost., «stante la centralità del credo religioso quale espressione della personalità dell’uomo, tutelata nella sua affermazione individuale e collettiva».
2.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 172 del 2018, lo stesso TAR Lombardia dubita della legittimità costituzionale del comma 5, secondo periodo, dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 19, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera m), e sesto comma, e 118, primo comma, Cost.
La disposizione censurata stabilisce che «[i] comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale […]. Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT».
Secondo il TAR, l’art. 72, comma 5, secondo periodo, in base al quale, una volta decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, il PAR è approvato unitamente al nuovo piano per il governo del territorio (di seguito, PGT), senza «alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere quando […] determinarsi a fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto», violerebbe:
   a) gli artt. 2, 3 e 19 Cost., per l’irragionevole compressione della libertà religiosa dei fedeli, sotto il profilo del loro diritto di trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà, in quanto, a seguito della inutile decorrenza del termine di diciotto mesi per l’adozione del PAR, la norma non prevede «alcun intervento sostitutivo», e demanda all’amministrazione comunale la facoltà di introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT «senza alcun ulteriore termine» e senza «alcuna disposizione “sanzionatoria”»;
   b) l’art. 97 Cost., in quanto la mancata previsione di tempi certi di risposta all’istanza dei fedeli, da un lato, contrasterebbe con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa e, dall’altro lato, esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso», con conseguente violazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa;
   c) l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la predeterminazione della durata massima dei procedimenti atterrebbe ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, in base all’art. 29 della legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi);
   d) gli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost., in quanto, una volta decorsi i diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, «la norma regionale condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione complessiva del piano di governo del territorio», con conseguente ingiustificata compressione dell’autonomia dei comuni.
3.– I due giudizi, riguardando norme sotto più profili connesse e sollevando questioni in parte sovrapponibili, vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia.
4.– L’intervento dell’associazione As. di Cantù è avvenuto in entrambi i giudizi oltre il termine previsto dall’art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, in quanto l’atto di intervento è stato depositato il 25.09.2019, ben dopo i venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio, avvenuta il 14.11.2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 159 del 2018 e il 05.12.2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 172 del 2018. L’intervento è dunque inammissibile in quanto, secondo il costante orientamento di questa Corte, il termine per l’intervento nei giudizi dinanzi a essa è perentorio (tra le molte, sentenze n. 106, n. 90 e n. 78 del 2019).
5.– Venendo all’esame delle questioni sollevate nella prima causa (reg. ord. n. 159 del 2018), occorre innanzitutto precisare il thema decidendum sottoposto a questa Corte e affrontare i profili processuali.
Il TAR Lombardia censura i primi due commi dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005: il comma 2 perché subordina in modo assoluto l’apertura di luoghi di culto alla previa adozione del PAR; il comma 1 perché, «anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di fuori delle aree a ciò specificamente destinate».
A sostegno delle sue censure il giudice a quo sviluppa per le due disposizioni un’argomentazione unica, articolata in riferimento ai tre parametri invocati. In realtà, le due norme censurate presentano un contenuto differenziato e sono in effetti oggetto di distinte doglianze da parte del TAR, che contesta per un verso la subordinazione dei luoghi di culto alla previa approvazione del PAR (prevista al comma 2) e per altro verso il necessario rispetto della zonizzazione operata nel PAR stesso (prescritto al comma 1). Le censure devono dunque essere distinte anche in relazione all’oggetto, e non solo in relazione al parametro.
5.1.– Precisato ciò,
le questioni relative all’art. 72, comma 1, sono inammissibili per irrilevanza. Il TAR censura infatti il carattere vincolante delle previsioni localizzative del PAR per l’insediamento di qualsivoglia nuova attrezzatura religiosa, ma, nel caso oggetto del giudizio a quo, il PAR non risulta adottato, con la conseguenza che al giudizio stesso è estraneo il tema –anche logicamente, oltre che fattualmente, subordinato al tema della previa esistenza del PAR– della necessaria conformità alla zonizzazione del piano e dunque in esso non viene in rilievo la questione di costituzionalità della norma che la prescrive (art. 72, comma 1).
5.2.– Passando alle questioni proposte con riferimento all’art. 72, comma 2, occorre esaminare, in primo luogo, l’eccezione di irrilevanza sollevata dalla Regione, secondo la quale, mentre il TAR censura la sproporzione tra l’obbligo generalizzato previsto dalla norma, che impone l’esistenza del PAR come condizione per l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa, e le ipotesi in cui questa consista per esempio in una piccola sala di preghiera, il giudizio a quo riguarderebbe invece un luogo di culto potenzialmente frequentabile da un numero non determinato di fedeli e destinato a incidere in modo rilevante e permanente sul tessuto urbano.
L’eccezione non è fondata.
Anche senza entrare nel merito del presupposto di fatto dell’eccezione (cioè, l’asserita rilevante consistenza della dimensione dell’immobile oggetto del giudizio a quo), si deve osservare che il TAR non censura l’art. 72, comma 2, solo nella parte in cui si applica ai luoghi di culto di dimensioni modeste, ma chiede una pronuncia ablativa dell’intera disposizione. Il riferimento all’applicazione della norma anche alle «modeste sale di preghiera» è diretto a mettere in evidenza gli effetti irragionevoli della norma stessa, non a limitare il petitum. L’effettiva consistenza della struttura oggetto del giudizio a quo non è dunque significativa ai fini della rilevanza delle questioni.
Complessivamente, la motivazione del TAR sulla rilevanza risulta adeguata. Il giudice a quo censura l’art. 72, comma 2, cioè esattamente la norma posta alla base del provvedimento di annullamento d’ufficio, impugnato nel giudizio a quo. Si sofferma inoltre espressamente sugli effetti della sopravvenuta legge della Regione Lombardia 25.01.2018, n. 5 (Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge), che ha abrogato la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, argomentando in modo plausibile sulla permanenza della rilevanza delle questioni.
Si può osservare, infine, che la parte dell’atto di rimessione in cui si sollevano le questioni di legittimità costituzionale ha una propria autonomia e delinea in modo chiaro le questioni stesse, mettendone in evidenza la rilevanza ai fini della decisione del quinto motivo di ricorso (l’unico non deciso dal rimettente). Non rilevano dunque in questa sede eventuali profili di non coerenza fra la parte dell’atto di rimessione che solleva le questioni e altri capi della pronuncia in cui vengono respinti gli altri motivi di ricorso, in alcuni casi applicando le disposizioni che il TAR ha poi sottoposto al giudizio di questa Corte.
6.– Nel merito,
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, proposta in relazione agli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost., è fondata.
È opportuno, innanzitutto, ricordare la cornice costituzionale in cui si inserisce l’oggetto dei presenti giudizi.
La libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile (sentenze n. 334 del 1996, n. 195 del 1993 e n. 203 del 1989), tutelato «al massimo grado» (sentenza n. 52 del 2016) dalla Costituzione. La garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è «da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità» (sentenza n. 67 del 2017).
Della libertà di religione il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale, che lo stesso art. 19 Cost. garantisce specificamente disponendo che «[t]utti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». L’esercizio pubblico e comunitario del culto, come questa Corte ha più volte precisato, va dunque tutelato, e va assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di minoranza (sentenze n. 63 del 2016, n. 195 del 1993 e n. 59 del 1958).
La libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare (sentenza n. 67 del 2017) e comporta perciò più precisamente un duplice dovere a carico delle autorità pubbliche cui spetta di regolare e gestire l’uso del territorio (essenzialmente le regioni e i comuni): in positivo –in applicazione del citato principio di laicità– esso implica che le amministrazioni competenti prevedano e mettano a disposizione spazi pubblici per le attività religiose; in negativo, impone che non si frappongano ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le confessioni nell’accesso agli spazi pubblici (sentenze n. 63 del 2016, n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993).
Naturalmente, nel destinare spazi pubblici alle sedi di attività di culto delle diverse confessioni, regioni e comuni devono tener conto della loro presenza nel territorio di riferimento, dal momento che, in questo contesto, il divieto di discriminazione «non vuol dire […] che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione» (sentenza n. 63 del 2016).
6.1.– Il quadro costituzionale descritto ha trovato attuazione nella normativa, sia statale che di molte regioni, che garantisce la previsione di adeguati spazi per i luoghi di culto per l’esercizio della libertà religiosa.
Quanto alla disciplina statale, è sufficiente ricordare che, in base all’art. 3 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), i luoghi di culto rientrano tra le «attrezzature di interesse comune» che devono essere previste dagli strumenti urbanistici al fine di soddisfare gli standard fissati dallo stesso decreto. Inoltre, l’art. 16, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), ha confermato che gli oneri di urbanizzazione secondaria riguardano anche «chiese e altri edifici religiosi».
A livello regionale, negli anni Ottanta e Novanta molte regioni hanno dettato norme dirette a riservare alle attrezzature religiose un trattamento differenziato rispetto alle altre opere di urbanizzazione secondaria, al fine di agevolarne la realizzazione, in particolare con la previsione di contributi finanziari (regionali e comunali) e con l’innalzamento della dotazione minima richiesta dalla disciplina statale (così, fra le altre: legge della Regione Liguria 24.01.1985, n. 4, recante «Disciplina urbanistica dei servizi religiosi»; legge della Regione Piemonte 07.03.1989, n. 15, recante «Individuazione negli strumenti urbanistici generali di aree destinate ad attrezzature religiose. Utilizzo da parte dei Comuni del fondo derivante dagli oneri di urbanizzazione»; legge della Regione Campania 05.03.1990, n. 9, recante «Riserva di standard urbanistici per attrezzature religiose»).
6.2.– In questo filone si inseriva anche la legge della Regione Lombardia 09.05.1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi), che riservava alle attrezzature religiose il 25% della dotazione complessiva di attrezzature per interesse comune e prevedeva, fra l’altro, che in ciascun comune almeno l’8% delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria fosse destinato alla loro realizzazione e manutenzione. Poiché tuttavia tali contributi erano riservati alla Chiesa cattolica e alle altre confessioni religiose dotate di intesa, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione che li prevedeva, nella parte in cui prescriveva il requisito dell’intesa (sentenza n. 346 del 2002).
La successiva legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), disciplinava poi, agli artt. da 70 a 73, la realizzazione di attrezzature religiose, stabilendo che esse sarebbero state regolate, insieme alle altre attrezzature di interesse pubblico, dal piano dei servizi. Tale normativa è stata oggetto, a partire dal 2006, di varie modifiche, che hanno progressivamente sottoposto l’apertura di luoghi di culto a controlli e limiti sempre più penetranti.
La prima modifica è stata apportata con la legge della Regione Lombardia 14.07.2006, n. 12 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 «legge per il governo del territorio»), che ha assoggettato a permesso edilizio i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche senza opere, «finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali» (art. 52, comma 3-bis, aggiunto alla legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).
Una nuova restrizione è stata introdotta dalla legge regionale 14.03.2008, n. 4, recante «Ulteriori modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)», che, aggiungendo il comma 4-bis nell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, ha limitato le zone in cui potevano essere realizzate le attrezzature religiose fino all’approvazione del piano dei servizi.
La successiva legge regionale 21.02.2011, n. 3 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2011), ha poi allargato la nozione di attrezzature religiose, comprendendovi «gli immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali» (art. 71, comma 1, lettera c-bis, aggiunta alla legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).
È infine intervenuta la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, oggetto del presente giudizio, che ha dettato una complessa disciplina in materia di attrezzature religiose, modificando l’art. 70 e sostituendo l’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La disciplina del 2015 è stata impugnata, in alcune sue parti, dal Governo, e questa Corte ha deciso il ricorso con la sentenza n. 63 del 2016, fra l’altro dichiarando costituzionalmente illegittimi l’art. 70, commi 2-bis (nella parte in cui fissava alcuni requisiti solo per le confessioni non cattoliche senza intesa) e 2-quater (che istituiva la consulta regionale), e l’art. 72, comma 4, primo periodo (che prevedeva i pareri relativi ai profili di sicurezza pubblica, nel corso del procedimento di formazione del PAR), e comma 7, lettera e) (che richiedeva un impianto di videosorveglianza negli edifici di culto), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La sentenza n. 63 del 2016 non si è pronunciata nel merito sulle norme qui in esame, poiché i commi 1 e 2 dell’art. 72 non erano stati impugnati dal Governo e l’art. 72, comma 5, è stato oggetto di una pronuncia di manifesta inammissibilità.
6.3.– Così illustrato il contesto di riferimento, si possono ora esaminare le questioni sollevate dal giudice rimettente.
La disposizione censurata (art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dalla legge reg. Lombardia n. 2 del 2015) subordina l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR (atto separato facente parte del piano dei servizi), che rappresenta a sua volta una novità introdotta dalla stessa legge reg. Lombardia n. 2 del 2015.
Occupandosi della potestà legislativa regionale in tema di edilizia di culto, questa Corte ne ha già chiarito finalità e limiti, affermando che «[l]a legislazione regionale in materia di edilizia di culto “trova la sua ragione e giustificazione –propria della materia urbanistica– nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” (sentenza n. 195 del 1993)» (sentenza n. 63 del 2016). In questo contesto «la Regione è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure» (sentenza n. 67 del 2017). Nell’esercizio delle sue competenze, tuttavia, il legislatore regionale «non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione», non essendogli consentito in particolare di introdurre «all’interno di una legge sul governo del territorio […] disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione» (sentenza n. 63 del 2016).
In sintesi dunque, nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.
In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia, alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici).
A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR. Questa Corte non può non rilevare infatti che tale soluzione legislativa per un verso non consente un equilibrato e armonico sviluppo del territorio e per altro verso finisce con l’ostacolare l’apertura di nuovi luoghi di culto.
A questo riguardo viene in evidenza innanzitutto il carattere assoluto della previsione, che riguarda indistintamente (ed esclusivamente) tutte le nuove attrezzature religiose, a prescindere dal loro carattere pubblico o privato, dalla loro dimensione, dalla specifica funzione cui sono adibite, dalla loro attitudine a ospitare un numero più o meno consistente di fedeli, e dunque dal loro impatto urbanistico, che può essere molto variabile e potenzialmente irrilevante. L’effetto di tale assolutezza è che anche attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica, solo per il fatto di avere destinazione religiosa (si pensi a una piccola sala di preghiera privata di una comunità religiosa), devono essere preventivamente localizzate nel PAR, e che, per esempio, i membri di un’associazione avente finalità religiosa non possono riunirsi nella sede privata dell’associazione per svolgere l’attività di culto, senza una specifica previsione del PAR. Al contrario, qualsiasi altra attività associativa, purché non religiosa, può essere svolta senz’altro nella sede sua propria, liberamente localizzabile sul territorio comunale nel solo rispetto delle generali previsioni urbanistiche. In questa prospettiva, la potenziale irrilevanza urbanistica di una parte almeno delle strutture investite dalla previsione contestata rende evidente l’esistenza di un obiettivo ostacolo all’insediamento di nuove strutture religiose.
Va sottolineato inoltre il regime differenziato che, a dispetto dello specifico riconoscimento costituzionale –sopra ricordato– del diritto di disporre di un luogo di esercizio del culto, colpisce solo le attrezzature religiose e non le altre opere di urbanizzazione secondaria, quali per esempio scuole, ospedali, palestre, centri culturali. Si tratta in tutti i casi di impianti di interesse generale a servizio degli insediamenti abitativi che, in maniera non diversa dalle attrezzature religiose, possono presentare maggiore o minore impatto urbanistico in ragione delle loro dimensioni, della funzione e dei potenziali utenti. Il fatto che il legislatore regionale subordini solo le attrezzature religiose al vincolo di una specifica e preventiva pianificazione indica che la finalità perseguita è solo apparentemente di tipo urbanistico-edilizio, e che l’obiettivo della disciplina è invece in realtà quello di limitare e controllare l’insediamento di (nuovi) luoghi di culto. E ciò qualsiasi sia la loro consistenza, dalla semplice sala di preghiera per pochi fedeli al grande tempio, chiesa, sinagoga o moschea che sia.
In conclusione,
la compressione della libertà di culto che la norma censurata determina, senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione dal punto di vista del perseguimento delle finalità urbanistiche che le sono proprie, si risolve nella violazione degli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost.
7.– Passando a esaminare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, occorre soffermarsi in primo luogo sulle eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Regione Lombardia.
7.1.– Secondo la Regione Lombardia, la questione è irrilevante innanzitutto perché l’atto impugnato davanti al giudice rimettente non farebbe riferimento alla previsione censurata (art. 72, comma 5), che non troverebbe dunque applicazione nel giudizio a quo.
Sebbene sia vero che l’atto impugnato non menziona l’art. 72, comma 5, e che esso si pronuncia su un’osservazione presentata nel procedimento di approvazione del PGT, l’eccezione di irrilevanza non è fondata. Il TAR infatti non si limita a contestare la discrezionalità delle scelte urbanistiche affidate ai comuni in relazione al quando deliberare sulle istanze di individuazione di un luogo di culto, ma precisa espressamente che, nel caso di specie, viene in rilievo il secondo periodo dell’art. 72, comma 5, e la necessità, in esso prevista, che il PAR venga approvato «unitamente al nuovo PGT», con la conseguenza che resterebbero incerti e aleatori i tempi di risposta sull’istanza degli interessati, dato che, secondo il TAR, «l’Amministrazione non ha alcun obbligo di avviare il procedimento di revisione del PGT, per individuare le aree destinate a luogo di culto». E, in effetti, il baricentro delle questioni sollevate è proprio quello della necessaria approvazione del PAR contestualmente al nuovo PGT.
Ciò precisato, la motivazione offerta dal rimettente sulla rilevanza delle questioni investe due distinti profili.
Innanzitutto, è valorizzato il fatto che nel primo dei motivi aggiunti la ricorrente in due punti lamenta l’illegittimità del diniego perché, nella sua parte finale, la delibera impugnata afferma che «ogni determinazione in tal senso sarà oggetto di successiva ed ulteriore verifica in sede di futuro aggiornamento del PGT», come prescritto proprio all’art. 72, comma 5, secondo periodo. In secondo luogo, dopo aver affermato che l’art. 72, comma 5, vigente dal 2015, trova applicazione nel procedimento oggetto del giudizio a quo (iniziato con un’osservazione al PGT presentata nel 2011), il TAR osserva che, in base all’art. 72, comma 5, secondo periodo, «senza l’avvio del nuovo Piano del Governo del Territorio rimane senza tutela la posizione dell’Associazione: in tal senso è quindi innegabile la rilevanza della questione nel caso di specie».
Secondo il rimettente, pertanto, da un lato la legittimità dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, condiziona la legittimità del rinvio, operato dal provvedimento impugnato, al futuro aggiornamento del PGT, dall’altro la questione è comunque rilevante perché il Comune non avrebbe potuto accogliere l’istanza senza avviare il procedimento per il nuovo PGT, a causa del vincolo discendente dall’art. 72, comma 5, secondo periodo.
La motivazione fornita sulla rilevanza è dunque sufficiente e plausibile.
7.2.– La seconda eccezione di inammissibilità è sviluppata dalla Regione Lombardia nella memoria depositata il 30.09.2019, nella quale lamenta che, «non motivando sugli ulteriori profili di ricorso, nonostante la loro priorità logico-giuridica, di fatto il Giudice a quo svincola la proposizione del dubbio di costituzionalità dal nesso di pregiudizialità».
In realtà il TAR rimettente afferma espressamente, basandosi sull’ordine dei motivi aggiunti fissato dalla stessa ricorrente, che la seconda censura può essere esaminata solo dopo aver deciso sulla prima, e poi argomenta (come appena visto) sulla rilevanza della questione di costituzionalità relativa all’art. 72, comma 5, ai fini della decisione del primo dei motivi aggiunti.
È comunque il caso di ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non è sindacabile l’ordine di esame delle questioni seguito dal rimettente, qualora esso si sviluppi in modo non implausibile (ad esempio, sentenze n. 120 del 2019 e n. 125 del 2018).
Nemmeno questa eccezione, dunque, è fondata.
8.– Nel merito,
anche la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 Cost., è fondata.
Come visto, la norma censurata stabilisce che, decorso il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, il PAR «è approvato unitamente al nuovo PGT», il che significa che –come del resto precisato, con riferimento alla previsione in esame, anche nella circolare n. 3 del 20.02.2017, recante gli indirizzi per l’applicazione della suddetta legge regionale– il PAR non può essere approvato «separatamente da un nuovo strumento di pianificazione urbanistica (PGT o variante generale)».
Seguendo un modello diffuso nella legislazione urbanistica regionale più recente, anche il legislatore regionale lombardo ha previsto un piano urbanistico comunale, denominato PGT, che si articola in tre atti: documento di piano, piano dei servizi e piano delle regole (art. 7 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005). Il documento di piano ha un contenuto ricognitivo-conoscitivo e determina gli obiettivi e le politiche di sviluppo del territorio. Esso ha validità quinquennale ed è sempre modificabile (art. 8 della citata legge regionale). Il piano dei servizi serve ad assicurare una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale, non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 9 della stessa legge regionale). Infine, il piano delle regole ha i diversi contenuti indicati nell’art. 10 della legge regionale in questione, e anch’esso non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 10, comma 6). Il complesso procedimento di approvazione degli atti costituenti il PGT è regolato dall’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005; la stessa disciplina si applica «anche alle varianti agli atti costituenti il PGT» (art. 13, comma 13).
La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì che le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an e il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da ultimo, sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo del territorio. Secondo le regole generali, infatti, la realizzazione di un impianto di interesse pubblico che richieda la modifica delle previsioni di piano si può tradurre in una semplice variante parziale. E comunque, quand’anche la previsione del nuovo impianto possa richiedere una riconsiderazione dell’intero ambito interessato, la valutazione in concreto dell’impatto della nuova struttura sul contesto circostante spetterebbe in via esclusiva al comune. La previsione ad opera della legge regionale della necessaria e inderogabile approvazione del PAR unitamente all’approvazione del piano che investe l’intero territorio comunale (il PGT o la sua variante generale) è dunque ingiustificata e irragionevole, e tanto più lo è in quanto riguarda l’installazione di attrezzature religiose, alle quali, come visto, in ragione della loro strumentalità alla garanzia di un diritto costituzionalmente tutelato, dovrebbe piuttosto essere riservato un trattamento di speciale considerazione.
È significativo che per gli altri impianti di interesse pubblico la legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 non solo non esiga la variante generale del PGT ma non richieda neppure sempre la procedura di variante parziale, visto che «[l]a realizzazione di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi, non comporta l’applicazione della procedura di variante al piano stesso ed e` autorizzata previa deliberazione motivata del consiglio comunale» (art. 9, comma 15, della citata legge regionale).
Anche nel caso dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, si deve concludere che
la disposizione censurata determina una limitazione dell’insediamento di nuove attrezzature religiose non giustificata da reali esigenze di buon governo del territorio e che essa, dunque, comprimendo in modo irragionevole la libertà di culto, viola gli artt. 2, 3 e 19 Cost.
9.– A seguito dell’accoglimento delle censure esaminate, le questioni riferite all’art. 97, all’art. 117, secondo comma, lettera m), e agli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost. restano assorbite.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
   1) dichiara inammissibili gli interventi spiegati dall’Associazione culturale As. di Cantù nei giudizi indicati in epigrafe;
   2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
   3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015;
   4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, con l’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018 (Corte Costituzionale, sentenza 05.12.2019 n. 254).

settembre 2019

ESPROPRIAZIONEAlla Corte costituzionale la legge lombarda che prevede il potere ablatorio sia esercitabile a tempo indeterminato in ragione dell’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche.
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Espropriazione per pubblica utilità – Lombardia – Potere ablatorio è esercitabile a tempo indeterminato – In ragione dell’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche – Art. 9, comma 12, l. reg. n. 12 del 2005 – Violazione artt. 42 e 117 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005, per violazione degli artt. 42 e 117 Cost., nella parte in cui prevede che il potere ablatorio è esercitabile a tempo indeterminato, in ragione dell’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né di motivazione né di indennizzo (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il legislatore lombardo ha derogato al principio fondamentale affermato nella sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999, secondo cui, alla scadenza del termine di efficacia quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio esso decade a meno che non ricorra una delle seguenti condizioni: a) il vincolo sia reiterato seguendo l’apposito procedimento a tal fine previsto dalla legge, con le conseguenti garanzie in termini di partecipazione al procedimento e di indennizzo del danno conseguente; b) la sua decadenza sia preclusa dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”.
Tale condizione è stata ravvisata dalla stessa sentenza in parola nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal legislatore del testo unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che comunque garantisce la partecipazione in chiave collaborativa al proprietario/espropriando e che rappresenta il primo atto di un procedimento (quello espropriativo) puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo l’esercizio del potere espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più breve termine espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba intervenire entro cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto efficace il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato emerge chiaramente come, nel corso del tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e oggi anche all’art. 1 del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento che si è chiarito come il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta europea dei diritti dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà legislativa dello Stato e a maggior ragione delle Regioni, la cui violazione genera questioni di legittimità costituzionale attratte nella competenza della Corte Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e in quanto risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta, a parere del Collegio, aver disatteso i limiti imposti alla propria competenza legislativa, violando l’art. 117 Cost., per aver, nell’esercizio di una competenza legislativa concorrente, eluso i principi fondamentali della materia, desumibili anche dall’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal legislatore statale nel T.U. delle espropriazioni, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che li ha estrapolati dall’art. 42 Cost..
Più precisamente, la Regione Lombardia ha violato i limiti posti dall’art. 117 Cost., perché, esorbitando dalla propria competenza concorrente in materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il vincolo preordinato all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si andranno a meglio evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio della procedura espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla Corte Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di pubblica utilità.
Il Tar ritiene, dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione” del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 Cost. che, riserva al legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui adozione equivale al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte Costituzionale ha indicato come condizione necessaria per ritenere rispettato il principio della temporaneità del potere espropriativo esercitabile su determinati beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi, nella fattispecie in esame, in contrasto con l’art. 42 Cost., da una corretta interpretazione del quale discende, come già anticipato, che il potere espropriativo può essere esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e, come evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale n. 575 del 1989, a condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della proprietà.
Ne discende che il vincolo preordinato all’esproprio, imposto mediante un apposito procedimento che garantisca la partecipazione dell’interessato, deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del periodo di efficacia deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità, la quale, a sua volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che garantisce la partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del decreto di esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione e comunque non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al comma 12 dell’art. 9, l.reg. Lombarda n. 12 del 2005, invece, il potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo indeterminato, in ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 14.08.2019 n. 740 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it - si legga anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 20.09.2019 n. 827).
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SENTENZA
1. Le società ricorrenti hanno impugnato l’atto recante la dichiarazione di pubblica utilità e i successivi provvedimenti adottati nell’ambito del procedimento espropriativo preordinato alla realizzazione della nuova strada di collegamento tra la via Cattaneo e la via per Torbiato nel Comune di Adro, la cui localizzazione è stata in parte prevista sulla proprietà della società Te.Mo., destinata dalla società Be. alla coltivazione dell’uva per la produzione di vino con denominazione “Franciacorta DOCG”.
Più precisamente, con il ricorso introduttivo, le società ricorrenti hanno censurato la legittimità della dichiarazione di pubblica utilità, mentre con il primo ricorso per motivi aggiunti hanno impugnato la successiva deliberazione di approvazione di alcune modifiche progettuali e con il secondo il decreto di esproprio.
Al fine di ottenere l’annullamento di detti provvedimenti, le ricorrenti hanno formulato una pluralità di censure, con le quali sono stati dedotti vizi procedurali (censure 1, 4 e 5 del ricorso introduttivo, 1, 2 e 3 del primo ricorso per motivi aggiunti e 2 del secondo ricorso per motivi aggiunti), oltre che la violazione dei principi posti a tutela del suolo agricolo e l’eccesso di potere connesso alla scelta di realizzare un’opera che, separata dalla più ampia opera di cui era originariamente parte (la circonvallazione dell’abitato), avrebbe una pubblica utilità limitata, recessiva rispetto alla conservazione della pregiata coltura in atto, nonché l’illegittimità costituzionale della norma in ragione della quale è stata ravvisata, nel 2018, la conformità urbanistica dell’opera prevista nel PGT del 2012.
2. Con sentenza non definitiva n. 736/2019, questo Tribunale ha ritenuto che le doglianze suddette fossero in parte inammissibili e in parte infondate, con la sola esclusione della censura n. 2 del ricorso introduttivo, riproposta anche nel primo ricorso per motivi aggiunti (e, in termini di invalidità derivata, anche nel secondo ricorso per motivi aggiunti), avente ad oggetto l’efficacia del presupposto essenziale del procedimento espropriativo, rappresentato dal vincolo preordinato all’esproprio: efficacia disciplinata dall’art. 9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005, sospettato di illegittimità costituzionale per contrasto con gli art. 3, 42, comma 2, e 117, comma 3, della Costituzione.
3.
Ad avviso del Collegio sussistono i presupposti per sollevare la questione avanti alla Corte Costituzionale.
3.1. Sulla rilevanza della questione di costituzionalità.
Come noto, l’art. 23 della legge n. 87 del 1953 prevede che il giudice debba sospendere il giudizio in corso e trasmettere gli atti alla Corte Costituzionale quando il giudizio non possa essere risolto indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale.
Tale condizione risulta ricorrere nella fattispecie, posto che, respinte tutte le altre censure, il ricorso revoca in dubbio la legittimità costituzionale della disposizione applicata nella fattispecie al fine di sostenere la efficacia del vincolo preordinato all’esproprio sulla scorta del quale è stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera in questione, così adottando il provvedimento che ha degradato il diritto di proprietà rendendolo aggredibile con la procedura espropriativa.
Se il dubbio sollevato da parte ricorrente fosse fondato, dunque, il vincolo espropriativo dovrebbe essere ritenuto decaduto, al momento dell’adozione della dichiarazione di pubblica utilità, che, per ciò stesso, dovrebbe essere dichiarata illegittima, perché priva del presupposto fondante l’esercizio del potere ablatorio (cfr. la lettera a) dell’art. 8 del DPR 327/2001, la quale afferma che il decreto di esproprio può essere emanato qualora “l’opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale o in un atto di natura ed efficacia equivalente e sul bene da espropriare sia stato apposto in vincolo preordinato all’esproprio”).
Infatti, nel caso in esame, il vincolo preordinato all’esproprio è divenuto efficace nel momento in cui ha acquistato efficacia il PGT del Comune di Adro approvato nel 2012 e cioè il giorno 21.11.2012. Il primo comma dell’art. 9 del DPR 327/2001 prevede espressamente che “Un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diventa efficace l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità”.
I successivi commi stabiliscono che “2. Il vincolo preordinato all’esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. 3. Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e trova applicazione la disciplina dettata dall’articolo 9 del testo unico in materia edilizia approvato con decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380. 4. Il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti al comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard.”.
In base alla disposizione ora citata il vincolo sarebbe, dunque, venuto meno il 21.11.2017, mentre la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera è intervenuta solo il 15.02.2018.
Secondo la tesi del Comune, però, la sussistenza della necessaria conformità urbanistica dell’opera rispetto allo strumento urbanistico sarebbe garantita, nella fattispecie, come espressamente attestato nella deliberazione del Consiglio comunale che ha approvato il progetto e dichiarato la pubblica utilità, dalla vigenza dell’art. 9, comma 12, della legge regionale n. 12/2005, il quale recita: “I vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi hanno la durata di cinque anni, decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso. Detti vincoli decadono qualora, entro tale termine, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione.”.
Poiché, nella fattispecie, il piano triennale delle opere pubbliche 2017-2019 è stato approvato, prevedendo la realizzazione anche del collegamento tra le via Cattaneo e per Torbiato, in data 06.04.2017 (con deliberazione del consiglio comunale n. 12 del 2017) e, dunque, prima della scadenza del quinquennio di efficacia del vincolo espropriativo, quest’ultimo è stato dichiaratamente assunto quale presupposto della procedura espropriativa avversata: circostanza, questa, rilevante ai fini dell’ammissibilità sia della doglianza stessa, che della questione di legittimità costituzionale.
Infatti, è pur vero che, lo stesso giorno in cui è stata dichiarata la pubblica utilità, è stata anche adottata (con la deliberazione precedente, recante il numero 10 del 2018) una variante urbanistica, poi approvata solo con deliberazione del consiglio comunale n. 23 del 12.05.2018, con cui il Comune di Adro ha preso atto della “conferma” dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio in ragione dell’inclusione dell’opera nel Programma triennale delle opere pubbliche. Tale deliberazione ha un duplice contenuto: da un lato reitera i vincoli preordinati all’esproprio relativi ad alcune opere pubbliche per cui erano decaduti, dall’altro, per una pluralità di opere pubbliche, tra cui il collegamento tra le vie Cattaneo e per Torbiato in parola, dà atto dell’inserimento delle stesse nel Programma triennale delle opere pubbliche e del conseguente effetto “confermativo” dell’efficacia del vincolo, derivante dall’art. 9, comma 12, della LR 12/2005.
In tale seconda parte, il provvedimento risulta essere del tutto atipico (dal momento che l’effetto della norma richiamata è automatico) e, dunque, al più, sostanzialmente ricognitivo. L’assenza di contenuto dispositivo, innovativo dell’ordinamento, congiuntamente con la considerazione del fatto che la statuizione contenuta in tale atipica variante urbanistica è divenuta efficace ben dopo la dichiarazione di pubblica utilità, rende, contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, irrilevante la sua mancata impugnazione. Non appare, infatti, revocabile in dubbio il fatto che, nella fattispecie, la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta sulla base di un vincolo preordinato all’esproprio divenuto efficace più di cinque anni prima dell’approvazione del progetto, la cui efficacia risulta prorogata automaticamente per effetto dell’inclusione dell’opera nel Programma delle opere pubbliche triennale, a prescindere da ogni motivazione circa l’interesse pubblico alla reiterazione, da ogni garanzia partecipativa per il proprietario e dalla corresponsione di un adeguato indennizzo (così come, invece, previsto dall’art. 39 del T.U. DPR 327/2001), così come puntualmente rappresentato nella stessa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
A nulla rileva che di tale effetto si sia preso atto in un provvedimento successivo alla dichiarazione di pubblica utilità stessa, privo di capacità innovativa circa l’efficacia del vincolo, il quale, per ciò stesso, risulterebbe inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta il presupposto.
Considerato, dunque, che, data la sua formulazione, la disposizione non risulta suscettibile di un’interpretazione costituzionalmente orientata, rispettosa dei precetti costituzionali, così come enunciati nel ricordato articolo 9 del DPR 327/2001, il Collegio ravvisa la necessità, ai fini della risoluzione della controversia, di accertare se nell’approvare l’art. 9 della L.R della Lombardia n. 12/2005, la Regione abbia violato i principi fondamentali della materia espropriativa e, dunque, non solo l’art. 42 della Costituzione, ma anche l’art. 1 del Primo protocollo della CEDU, nonché i limiti della potestà legislativa regionale di cui all’art. 117 della Costituzione.
Solo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale consentirebbe, infatti, al Collegio di annullare i provvedimenti impugnati.
3.2. Sulla non manifesta infondatezza della questione.
Ritiene il Collegio che l’art. 9, comma 12, della legge regionale lombarda n. 12/2005 violi gli art. 117 e 42 della Costituzione, per le ragioni che si andranno ad esplicitare.
Con sentenza n. 575 del 1989, la Corte Costituzionale, pur rigettando la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla violazione dell’articolo 42 della Costituzione, affermò che l’indeterminatezza temporale del vincolo espropriativo (da non confondersi con il ben diverso vincolo conformativo) desse luogo a una situazione di incompatibilità con la garanzia della proprietà privata e, di fatto, a un’espropriazione di valore, con conseguente necessità della previsione di un indennizzo.
Più precisamente, il giudice delle leggi, ha affermato che “
è propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata in relazione alle effettive esigenze urbanistiche. Tale possibilità, tuttavia, darebbe luogo ad un sistema non conforme ai principi affermati nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo venga protratto a tempo indeterminato senza la previsione di indennizzo. Come si evince dalla stessa sentenza e come e stato ribadito più di recente (sent. n. 82 del 1982), i due requisiti della temporaneità e della indennizzabilità sono difatti tra loro alternativi, per cui l'indeterminatezza temporale dei vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli indefinitamente nel tempo anche se con diversa destinazione o con altri mezzi, é costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà secondo i principi affermati nelle sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968.
Sulla scorta di tale pronuncia, il legislatore, nel modificare l’articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, stabilì la durata quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio, subordinandone la reiterazione alla rappresentazione di una debita motivazione fondata sulla presenza di un elemento di novità che la giustificasse.
A seguito del dubbio di costituzionalità anche in relazione a tale disposizione (sollevato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con ordinanza n. 20/1996), con sentenza n. 179 del 20.05.1999, il giudice delle leggi dichiarò l’incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, primo comma, della legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150) “
nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità senza la previsione di indennizzo”.
In altri termini, si legge ancora nella sentenza “
una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico (avente le anzidette caratteristiche), se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all’espropriazione (o al serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi) dalla previsione di un indennizzo”.
Tempestivamente il legislatore del 2001 fece propri tali principi e introdusse, nel testo unico delle espropriazioni approvato con DPR 327/2001:
   a) la previsione della durata quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio;
   b) la possibilità della reiterazione del vincolo seguendo un procedimento che prevede la garanzia partecipativa per i proprietari interessati e si conclude con un provvedimento motivato che deve tenere conto, in particolar modo, delle esigenze di soddisfacimento degli standard;
   c) l’obbligo della corresponsione, nel caso di reiterazione, di un indennizzo, ancorché, come chiarito con sentenza dell’Adunanza plenaria n. 7/2007, per la legittimità della reiterazione non sia necessaria la puntuale definizione dell’indennizzo da parte dell’Amministrazione, subordinata alla prova, da parte del proprietario inciso, dell’effettivo danno subìto e alla sua esatta quantificazione.
Venendo alla previsione regionale sospetta di incostituzionalità, il legislatore lombardo ha, a parere del Collegio, derogato al principio fondamentale affermato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1999, secondo cui, alla scadenza del termine di efficacia quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio esso decade a meno che non ricorra una delle seguenti condizioni:
   A. il vincolo sia reiterato seguendo l’apposito procedimento a tal fine previsto dalla legge, con le conseguenti garanzie in termini di partecipazione al procedimento e di indennizzo del danno conseguente;
   B. la sua decadenza sia preclusa dall’intervenire, prima della scadenza, dell’espropriazione ovvero del “serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione”. Tale condizione è stata ravvisata dalla stessa sentenza in parola nell’approvazione di un piano attuativo e poi dal legislatore del testo unico del 2001 nell’approvazione del provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera e, quindi, di un provvedimento che comunque garantisce la partecipazione in chiave collaborativa al proprietario/espropriando e che rappresenta il primo atto di un procedimento (quello espropriativo) puntualmente cadenzato, che delimita nel tempo l’esercizio del potere espropriativo, prevedendo che, in difetto di un più breve termine espressamente previsto, il decreto d’esproprio debba intervenire entro cinque anni decorrenti dal giorno in cui è divenuto efficace il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.
Da tutto il quadro sin qui delineato
emerge chiaramente come, nel corso del tempo, sia stato chiarito che l’esercizio del potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 della Costituzione (e oggi anche all’art. 1 del Primo protocollo allegato alla CEDU, dal momento che si è chiarito come il rispetto della norma pattizia, quale è la Carta europea dei diritti dell’uomo, pone dei precisi limiti alla potestà legislativa dello Stato e a maggior ragione delle Regioni, la cui violazione genera questioni di legittimità costituzionale attratte nella competenza della Corte Costituzionale – cfr. le sentenze nn. 348 e 349 del 2007) se e in quanto risulti limitato nel tempo e compensato dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Il legislatore regionale lombardo, quindi, risulta, a parere del Collegio, aver disatteso i limiti imposti alla propria competenza legislativa, violando l’art. 117 della Costituzione, per aver, nell’esercizio di una competenza legislativa concorrente, eluso i principi fondamentali della materia, desumibili anche dall’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU e affermati dal legislatore statale nel T.U. delle espropriazioni, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che li ha estrapolati dall’art. 42 della Costituzione.
Più precisamente,
la Regione Lombardia ha violato i limiti posti dall’art. 117 della Costituzione, perché, esorbitando dalla propria competenza concorrente in materia, ha introdotto una nuova ipotesi in cui il vincolo preordinato all’esproprio si consolida, che per le ragioni che si andranno a meglio evidenziare, non può rappresentare un “serio inizio della procedura espropriativa”, condizione ritenuta essenziale dalla Corte Costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore nazionale solo nell’intervento del primo atto della procedura espropriativa intesa in senso stretto, quale è stata qualificata la dichiarazione di pubblica utilità.
Il Collegio ritiene, dunque, che la Regione Lombardia abbia travalicato i limiti della propria competenza legislativa, disciplinando una nuova ipotesi di “attuazione” del vincolo espropriativo, in violazione dell’art. 117 della Costituzione che, riserva al legislatore nazionale l’individuazione degli atti la cui adozione equivale al serio avvio della procedura espropriativa, che la Corte Costituzionale ha indicato come condizione necessaria per ritenere rispettato il principio della temporaneità del potere espropriativo esercitabile su determinati beni.
L’esercizio di questo potere pare, dunque, porsi, nella fattispecie in esame, in contrasto con l’art. 42 della Costituzione, da una corretta interpretazione del quale discende, come già anticipato, che il potere espropriativo può essere esercitato solo nei limiti in cui ciò sia previsto dalla legge e, come evidenziato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 575/1989 già ricordata, a condizione che l’assoggettamento al potere espropriativo sia limitato nel tempo ovvero che, a fronte di una indeterminatezza temporale del vincolo, il proprietario sia indennizzato per la perdita, in via di fatto, della proprietà.
Ne discende che
il vincolo preordinato all’esproprio, imposto mediante un apposito procedimento che garantisca la partecipazione dell’interessato, deve avere durata determinata nel tempo e nell’arco del periodo di efficacia deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità, la quale, a sua volta, è pronunciata a conclusione di un procedimento che garantisce la partecipazione e deve essere attuata, con l’intervento del decreto di esproprio, entro il termine all’uopo fissato dall’Amministrazione e comunque non superiore ai cinque anni.
Nell’ipotesi di cui al comma 12 dell’art. 9 della Legge regionale lombarda n. 12/2005, invece, il potere ablatorio finisce per essere esercitabile a tempo indeterminato, in ragione di un provvedimento, l’approvazione del Piano triennale delle opere pubbliche che preveda la realizzazione anche di quella oggetto del vincolo in scadenza, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere rinnovato all’infinito senza bisogno né di motivazione, né di indennizzo.
L’art. 21 del codice degli appalti, infatti, disciplina l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche senza particolari formalità che garantiscano la partecipazione al procedimento dei soggetti interessati dalla realizzazione delle opere in esso inserite, anche in considerazione della sua funzione prettamente programmatica, strettamente connessa alla programmazione finanziaria e di bilancio e alla sua natura organizzativa dell’attività dell’ente, individuando le opere da eseguirsi con priorità.
Tant’è che anche a seguito dell’entrata in vigore del D.M. 16.01.2018, n. 14, recante il regolamento relativo alle procedure e schemi tipo per la redazione e la pubblicazione del piano triennale dei lavori pubblici, pur essendo ribadita la necessità della pubblicazione del piano, la garanzia partecipativa risulta essere minima, dal momento che l’art. 5 prevede che l’amministrazione “possa” consentire la presentazione delle osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione, facendo ricorso a un subprocedimento che la norma definisce come “consultazioni”, che, quindi, è eventuale, rimesso alla scelta dell’ente e può concludersi senza che sul Comune gravi un preciso onere motivazionale, nel caso in cui le prospettazioni del privato vengano disattese.
Inoltre, nessuna disposizione normativa limita la possibilità di riproporre, negli aggiornamenti annuali, il mantenimento delle previsioni di realizzazione della stessa opera, che, dunque, potrebbe essere procrastinata all’infinito, di fatto svuotando completamente di contenuto il diritto di proprietà e, così, espropriando il suo titolare, cui è preclusa ogni utilizzazione che non sia quella per la coltivazione agricola, pur in assenza di alcun indennizzo.
In questo modo si finisce per eludere sia il principio della temporaneità del potere espropriativo, sia quello dell’indennizzabilità in caso di un potere che si consolidi nel tempo pur non essendo intervenuta l’espropriazione, espressamente indicati come alternativi dal giudice delle leggi nelle sentenze già più volte ricordate.
L’inserimento nel piano triennale delle opere pubbliche, infatti:
   - se da un lato non può essere qualificato come un serio inizio della procedura espropriativa, in quanto non offre alcuna garanzia circa il fatto che l’opera sia effettivamente realizzata, non comportando alcun impegno di spesa e non essendo previsto alcun termine di efficacia entro cui i lavori debbono essere conclusi;
   - dall’altro, viola anche il fondamentale presupposto, introdotto dal legislatore in recepimento del principio individuato dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 179/1999 e trasfuso nel primo comma dell’art. 39 del T.U. DPR 327/2001, secondo cui “nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità, commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto.”.
4. In conclusione
questo Tribunale ritiene che l’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005 sia costituzionalmente illegittimo laddove ricollega all’inserimento dell’opera pubblica nella programmazione triennale prevista dalla normativa in materia di lavori pubblici, l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo preordinato all’esproprio.
5. Ciò premesso,
questo Tribunale solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, nella parte in cui, in violazione dei limiti alla propria competenza legislativa concorrente definiti dall’art. 117 Cost. e comunque dei principi fondamentali relativi ai limiti del potere espropriativo discendenti dall’art. 42 Cost., attribuisce all’inserimento della previsione della realizzazione di un’opera pubblica nella programmazione triennale di cui all’art. 21 del d.lgs. 50/2016 l’effetto preclusivo della decadenza del vincolo quinquennale preordinato all’esproprio per la sua esecuzione, secondo i profili e per le ragioni sopra indicate, con sospensione del giudizio fino alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana della decisione della Corte Costituzionale sulle questioni indicate, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 79 ed 80 del c.p.a. e art. 295 c.p.c..
Riserva al definitivo la decisione nel merito e sulle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda),
ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, per violazione degli artt. 42 e 117 della Costituzione, dispone la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 14.08.2019 n. 740 - link a www.giustizia-amministrartiva.it - si legga anche TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ordinanza 20.09.2019 n. 827).

ANNO 2018
dicembre 2018

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 del 06.12.2018, "Legge di revisione normativa e di semplificazione 2018" (L.R. 04.12.2018 n. 17).
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Di particolare interesse si leggano:

Titolo I – Ambito istituzionale
   ● Art. 6 - Proroga dei termini per l’aggiornamento dell’individuazione e classificazione dei piccoli comuni e della classificazione del territorio montano della Lombardia

Titolo III – Ambito territoriale
   ● Art. 19 - Modifica dell’articolo 5 della l.r. 10/2009
1. All’articolo 5 della legge regionale 29.06.2009, n. 10 (Disposizioni in materia di ambiente e servizi di interesse economico generale – collegato ordinamentale) sono apportate le seguenti modifiche: ...

   ● Art. 20 - Modifiche alla l.r. 4/2016
1. Alla legge regionale 15.03.2016, n. 4 (Revisione della normativa regionale in materia di difesa del suolo, di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico e di gestione dei corsi d'acqua) sono apportate le seguenti modifiche: ...

   ● Art. 22 - Disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale. Modifica degli articoli 3, 6, 11 e inserimento del nuovo articolo 5-bis della l.r. 5/2010
1. Alla legge regionale 02.02.2010, n. 5 (Norme in materia di valutazione di impatto ambientale) sono apportate le seguenti modifiche: ...

   ● Art. 25 - Adeguamento dei regolamenti edilizi comunali

   ● Art. 26 - Modifica alla l.r. 31/2014
1. Alla legge regionale 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato) è apportata la seguente modifica: ...

   ● Art. 27 - Modifica alla l.r. 12/2005
1. Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) è apportata la seguente modifica: ...

ottobre 2018

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Ancora alla Corte costituzionale la legge della Regione Lombardia sulle aree che accolgono attrezzature religiose.
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Religione – Edifici di culto – Lombardia – Edifici di culto – Art. 72, l.reg. n. 12 del 2005 – Discrezionalità del Comune – Violazione artt. 2, 3, 5, 19, 114, 117, commi 2, lett. m), e 6, terzo periodo, e 118 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della l.r. della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lett. c), l.reg. Lombardia 03.02.2015, n. 2, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 19, 114, 117, commi 2, lett. m), e 6, terzo periodo, e 118 Cost. nella parte in cui, avuto riguardo alla tutela costituzionale riservata alla libertà religiosa, non detta alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere quando (comma 5) e in che senso (commi 1 e 2) determinarsi a fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar di aver già rimesso la questione di legittimità costituzionale limitatamente a commi 1 e 2 dell’art. 72, l.reg. n. 12 del 2005 con sentenza della sez. II 03.08.2018, n. 1939.
Ritiene infatti il Tar che la domanda di spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà debba trovare una risposta -in un senso positivo o in senso negativo- in tempi certi, ed entro un termine ragionevole, avuto riguardo sia ai tempi connessi alla valutazione di impatto sul tessuto urbanistico, a volte indiscutibilmente complessa, sia avuto riguardo alla particolare importanza del bene della vita al quale aspirano i fedeli interessati.
Al riguardo, il Tar ha richiamato la sentenza della Corte cost. 24.03.2016, n. 63, secondo cui “Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione.”. La richiamata condizione di attesa a tempo indeterminato e di incertezza rileva quale ostacolo all’esplicazione del diritto di libertà religiosa.
Ne consegue una non giustificata compressione dei diritti di cui all’art. 19 Cost., e più in generale un ostacolo non giustificato all’esplicazione dei diritti inviolabili della persona, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in violazione dell’art. 2 Cost..
Il fatto che tale compressione della posizione soggettiva degli interessati non appaia giustificata pare altresì contrastare con il criterio della ragionevolezza del quale è espressione l’art. 3 Cost..
In sintesi la norma contrasta con i principi costituzionali richiamati, laddove prevede un termine –di 18 mesi– per l’adozione del piano delle attrezzature religiose, decorso il quale non viene previsto alcun intervento sostitutivo, ma viene demandato all’Amministrazione Comunale la facoltà di introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT, senza alcun ulteriore termine.
In tal modo viene vanificato il diritto alla libertà religiosa, sotto il profilo del diritto di trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà.
La norma pare violare altresì l’art. 97 Cost. e dell’art. 117, comma 2, lett. m), il fatto che l’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 rinvii a tempo indeterminato la risposta a un’esigenza riguardante l’esercizio di un diritto fondamentale della persona.
La mancata previsione, da parte della norma regionale, di tempi certi di risposta alle istanze dei fedeli interessati sembra infatti in contrasto con il principio di buon andamento che deve presiedere l’attività della Pubblica Amministrazione.
A bene vedere, la mancata di previsione di tempi certi da parte dell’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 pare inoltre esprimere uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso, il che contrasta con il principio di imparzialità dell’azione amministrativa di cui al menzionato art. 97 Cost..
Sotto connesso profilo, nella prospettiva dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. appare violato il livello minimo delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Al riguardo, osserva il Tar che, ai sensi dell’art. 29, l. n. 241 del 1990 attiene ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. l’aspetto riguardante la predeterminazione della durata massima dei procedimenti.
Ovviamente, va da sé che una norma che si esprima in termini di sfavore verso il fenomeno religioso contrasta anche con gli artt. 2. 3 e 19 Cost., ai quali si è già fatto riferimento.
In sintesi il quadro normativo che, una volta decorso il primo termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della l. reg. Lombardia n. 12 del 2005, non ha previsto ulteriori termini per imporre l’adozione del piano della attrezzature religiose, si pone in contrasto con la disciplina in materia di procedimento amministrativo e di certezza dei termini di conclusione del procedimento, quindi con i principi costituzionali dell’art. 97 Cost. e dell’art. 117, comma 2, lett. m) Cost.
Sotto un ulteriore profilo, ritiene il Tar che l’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 contrasti con l’art. 5 Cost., con l’art. 114, comma 2, Cost., con l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost., con l’art. 118, comma 1, Cost..
Ad avviso del Tar la norma regionale condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione complessiva del piano di governo del territorio.
Infatti, solo nei primi diciotto mesi dall’entrata in vigore della norma le Amministrazioni potevano predisporre il Piano delle attrezzature religiose senza mettere mano all’intera disciplina del governo del territorio.
Da che è maturata la scadenza dei diciotto mesi, la legge regionale non lo permette più.
In altri termini, l’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 impedisce ai Comuni di dotarsi di un Piano delle attrezzature religiose senza contestualmente revisionare l’intera disciplina del governo del territorio.
Ad avviso del Tar viene in rilievo una ingiustificata compressione delle prerogative del Comuni da parte della Regione. Infatti, non si comprende quale ragione possa giustificare il sostanziale divieto gravante sui Comuni lombardi di adottare il Piano delle attrezzature religiose in un momento distinto rispetto alla revisione generale del Piano di governo del territorio. Da un primo punto di vista, la norma sembra integrare una violazione dell’art. 5 Cost., atteso che essa frustra l’autonomia dei Comuni, quali autonomie locali. Sotto connesso profilo, appaiono violati l’art. 114, comma 2, Cost. e l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost..
In particolare, nella prospettiva dell’art. 114, comma 2, Cost. appare violato sotto un profilo generale l’autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e delle funzioni di loro competenza.
Nella più particolare prospettiva dell’art. 117, comma 6, terzo periodo Cost. appare violata l’autonomia degli Enti Locali sotto il profilo della potestà regolamentare in ordine alle funzioni attribuite ai Comuni.
Come anticipato, la limitazione imposta dalla Regione all’autonomia dei Comuni non appare giustificata.
Da questo punto di vista sembra venire in rilievo la violazione del principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118, comma 1, Cost..
In sintesi la disposizione regionale, laddove fa divieto ai Comuni di adottare il piano delle attrezzature religiose dopo il termine dei 18 mesi, ma necessariamente solo contestualmente alla revisione del PGT, viola il principio di autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e delle funzioni di loro competenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.10.2018 n. 2227 -commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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FATTO
L’Associazione Co.Is. (da ora anche solo Associazione), è un’associazione costituita nel 2004 e raccoglie circa trecento persone di religione islamica, residenti prevalentemente a Sesto Calende e nei comuni limitrofi.
Già nel luglio 2011, nel corso della formazione del PGT, l’Associazione ha chiesto al Comune di prevedere nel proprio strumento urbanistico un’area per il culto islamico.
Il provvedimento di rigetto è stato impugnato con ricorso (r.g. n. 364/2012), accolto con sentenza n. 2485 del 08.11.2013.
Tuttavia, a fronte dell’inerzia del Comune, L’Associazione si vedeva costretta a notificare ricorso per ottemperanza, accolto con sentenza n. 146 del 15.01.2015.
L’Amministrazione avviava quindi un procedimento in ottemperanza alla sentenza del Tar; tuttavia, con nota del 22.02.2015, l’Amministrazione comunicava di aver sospeso il procedimento, a seguito della L.R. n. 2 del 03.02.2015.
L’Associazione notificava un nuovo giudizio di ottemperanza, sull’assunto che la nuova legge regionale non potesse costituire ostacolo all’esecuzione delle precedenti statuizioni giurisdizionali. Il ricorso di ottemperanza veniva accolto con sentenza n. 943/2015: il Tar riteneva infatti che la L.R. 2/2015, ancorché sopravvenuta, dovesse trovare applicazione e incidesse sul dovere di esecuzione del Comune.
Al fine di non fare decorrere il termine di 18 mesi per l’approvazione dei piani comunali delle attrezzature religiose, l’Associazione notificava in data 26.07.2016 un atto di diffida.
L’Amministrazione avviava il procedimento al fine della valutazione delle osservazioni pervenute e dopo la comunicazione ex art 10-bis, notificava il rigetto della domanda, rilevando l’assenza dei requisiti di ente di confessione religiosa, come richiesti dalla L. 1159/1929.
Il diniego veniva impugnato con il presente ricorso, notificato in data 20.12.2016 e depositato il 22.12.2016, per i seguenti motivi:
   1) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 per eccesso di potere e violazione di legge, in relazione all’art. 70, c. 2-ter, L.R. 12/2005; violazione della L. 1159/1929; in subordine illegittimità derivata per violazione degli art. 2 e 19 Cost.: secondo l’Amministrazione l’Associazione non avrebbe i poteri di rappresentanza propri degli enti delle altre confessioni religiose e non costituirebbe ente di confessione religiosa. Sostiene la ricorrente che la L. 1159/1929 non è applicabile al caso in esame, né può rappresentare una condizione per limitare l’esercizio del diritto di culto, dal momento che la libertà religiosa è un diritto costituzionale. Seguendo l’interpretazione dell’Amministrazione la L.R. risulterebbe in contrasto con gli artt. 2, 8 e 19 Cost., perché si escluderebbe qualsiasi insediamento di edifici di culto islamico nel territorio regionale;
   2) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 in relazione ai vincolo da osservare nell’esecuzione delle sentenze del Tar Lombardia sez. II n. 2485/2013 e n. 146/2015, difetto di motivazione: l’Amministrazione sostiene che l’Associazione ricorrente non sarebbe “ente di confessione religiosa”. Già nelle pregresse sentenze l’Associazione è stata ritenuta come rappresentativa di una comunità di residenti dotata di legittimazione al ricorso;
   3) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 per violazione degli artt. 3 e 8 Cost. e dell’art 70 L.R. 12/2005: il provvedimento richiede la necessità della sottoscrizione di una convenzione con il Comune. L’Associazione è sempre stata disponibile a detta sottoscrizione; in ogni caso si tratta di una condizione in contrasto con i principi costituzionali perché viene introdotta una discriminazione fondata sulla confessione religiosa;
   4) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 per violazione dell’art 10 L. 241/1990: nel provvedimento una ragione di rigetto è indicata nella circostanza che l’associazione non costituirebbe ente di confessione religiosa, motivo non rappresentato nel preavviso di rigetto.
Si è costituito in giudizio il Comune di Sesto Calende, chiedendo il rigetto del ricorso.
Con ordinanza cautelare n. 117 del 20.01.2017 gli effetti del diniego sono stati sospesi, disponendo il riesame, rilevando profili di fondatezza del ricorso, in quanto “la mancanza del riconoscimento ai sensi della legge n. 1159 del 1929 non appare legittimamente invocabile quale causa di esclusione dalla possibilità di ottenere, da parte di una confessione religiosa, l’assegnazione di aree da destinare all’esercizio del culto, considerato che tale possibilità deve essere garantita a tutte le confessioni, e non soltanto a quelle riconosciute (cfr. Corte cost. n. 63 del 2016, n. 193 del 1995 e n. 59 del 1958);
   - appare pure censurabile l’affermazione secondo la quale l’Associazione ricorrente, al di là della mancanza di riconoscimento ai sensi della legge n. 1159 del 1929, non costituirebbe “ente di confessione religiosa”, in quanto, a fronte della finalità religiosa dell’organizzazione e della dichiarata volontà di disporre di un luogo per l’esercizio del culto, non sembra consentito al Comune richiedere né il possesso di specifici requisiti da parte del soggetto istante (attesa la declaratoria di illegittimità costituzionale che ha colpito la parte del comma 2-bis dell’articolo 70 della legge regionale n. 12 del 2005, ove tali requisiti erano stabiliti), né la prova che tale soggetto costituisca articolazione di una confessione organizzata o benefici di un riconoscimento formale della rappresentatività di un certo credo religioso, poiché la libertà di culto è garantita anche a “confessioni religiose strutturate come semplici comunità di fedeli che non abbiano organizzazioni regolate da speciali statuti” (Corte cost. n. 193 del 1995);
   - conseguentemente, in una lettura costituzionalmente orientata della disciplina regionale, la qualificazione del soggetto richiedente, da parte del Comune, come “ente di confessione religiosa” non sembra potersi basare che sull’idoneità in concreto di tale soggetto a rappresentare un’esigenza di culto riscontrabile a livello locale;
   - in tale prospettiva, la valutazione che il Comune è chiamato a compiere, ai fini all’individuazione di luoghi da destinare all’esercizio del culto, dovrà perciò risultare attinente, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, “all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione” (Corte cost. n. 63 del 2016); dati, questi, da ponderare in considerazione delle utilità limitate (nel caso di specie: utilizzazione del territorio ed eventuale consumo di suolo) oggetto di assegnazione (cfr. ancora la sentenza da ultimo richiamata);
”.
Il Comune ha quindi adottato la delibera consiliare del 20.09.2017 n. 39, sempre respingendo la domanda, per una pluralità di motivi. In particolare sostiene il Comune che:
   - l’Associazione non avrebbe i requisiti richiesti dalla legge, perché la disciplina sui luoghi di culto non va applicata in funzione della percentuale rispetto alla popolazione totale, ma quando si riscontra la presenza di un gruppo di fedeli e l’esigenza per essi di disporre di un culto;
   - le aree non sono dotate di parcheggi e in ogni caso non ci sono immobili comunali idonei a questo scopo;
   - l’Associazione si è trasferita come sede in altro comune.
Con motivi aggiunti depositati in data 22.11.2017 è stata impugnata la delibera n. 39/2017, per i seguenti motivi:
   1) Violazione dell’art 19 Cost. e dell’art 70, comma 2-bis, L.R. 12/2005; violazione dei principi affermati dal Tar Lombardia nella sentenza 24585/2013: l’Amministrazione non può, in presenza di una comunità religiosa, differire ogni determinazione in ordine alla individuazione di un’area di culto. La presenza di una comunità islamica è ragione sufficiente per accogliere la richiesta;
   2) Violazione dell’art. 70, comma 2, della L.R. 12/2005 per carenza di istruttoria e difetto di motivazione: il comune afferma:
      a) che l’associazione non avrebbe le caratteristiche di consistenza e di incidenza sociale; per consentire l’individuazione di un’area di culto;
      b) le aree non sono dotate di parcheggi e non ci sono immobili comunali idonei;
      c) l’associazione si è trasferita come sede fuori dal Comune resistente;
      d) nel 2008 l’Amministrazione ha negato che vi fossero elementi per riconoscere una consistente presenza sul territorio dell’associazione.
La ricorrente contesta la fondatezza delle motivazioni del rigetto della domanda, in quanto l’Associazione ha come iscritti i nuclei familiari, per cui gli aderenti sono maggiori rispetto a quelli considerati. Inoltre la disciplina sui luoghi di culto non va applicata in funzione della percentuale rispetto alla popolazione totale, ma quando si riscontra la presenza di un gruppo di fedeli e l’esigenza per essi di disporre di un culto.
L’affermazione circa l’inidoneità delle aree è in contrasto con il diritto costituzionale alla libertà religiosa. Irrilevante la circostanza che l’associazione abbia cambiato sede e che già nel 2008 l’Amministrazione avesse negato che sussistessero elementi idonei a confermare la consistente presenza dell’associazione sul territorio.
Anche rispetto ai motivi aggiunti si è costituto il Comune, affermando che non vi sarebbe alcun obbligo di trovare un’area, ma solo di valutare l’idoneità dell’area.
Ha altresì sollevato l’eccezione di inammissibilità del ricorso, in quanto generico.
All’udienza del 30.05.2018 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1) Con il ricorso principale l'Associazione ha impugnato, chiedendone la sospensione cautelare, il provvedimento prot. 24471 di data 25.10.2016 a mezzo del quale il Comune di Sesto Calende aveva respinto l'istanza tesa all'individuazione di un luogo di culto del territorio comunale da dedicare al culto islamico.
A seguito dell'accoglimento dell'istanza cautelare con l'ordinanza della Sezione n. 112/2017 e del rigetto dell'appello avverso la stessa decisone con l'ordinanza del Consiglio di Stato n. 1884/2017, il Comune si rideterminava a mezzo della deliberazione consiliare n. 39 di data 20.09.2017, con la quale respingeva nuovamente l'istanza dell'Associazione.
Ritiene il Collegio che tale decisione di riesame della originaria istanza dell'Associazione abbia natura di provvedimento di secondo grado rispetto a quello di data 25.10.2016.
Di conseguenza, la deliberazione consiliare n. 39 di data 20.09.2017 ha definitivamente privato di efficacia il provvedimento di data 25.10.2016, impugnato –quando ancora era efficace– a mezzo del ricorso principale.
In tale situazione, il ricorso principale va dichiarato improcedibile.
2) Con il ricorso per motivi aggiunti l'Associazione chiede l'annullamento della deliberazione consiliare n. 39 di data 20.09.2017.
Al riguardo, va rigettata l’eccezione di inammissibilità opposta dalla difesa Comunale, secondo cui i motivi aggiunti avrebbero contenuto generico e non indicherebbero i profili di ritenuta illegittimità del provvedimento impugnato.
Osserva infatti il Collegio che, nel primo motivo aggiunto, riguardante l’impianto generale della deliberazione consiliare n. 39/2017, emergono nitidamente le doglianze circa il difetto di motivazione e circa il cattivo esercizio della discrezionalità nella pianificazione urbanistica.
Il secondo motivo aggiunto contesta invece analiticamente i singoli punti della motivazione del provvedimento impugnato.
3) Passando al merito della controversia, rileva il Collegio che la deliberazione consiliare n. 39 di data 20.09.2017 costituisce il provvedimento finale del procedimento apertosi a seguito dell'istanza dell'Associazione tesa all'individuazione nel PGT del Comune di Sesto Calende di un luogo del territorio comunale di culto da dedicare al culto islamico, sulla base della sentenza della Sezione n. 2485/2013, passata in giudicato.
Nel giudizio riguardante l'ottemperanza della sentenza appena citata, la Sezione aveva precisato che al procedimento andavano applicate le norme introdotte dalla L.R. Lombardia n. 2/2015 a modifica della L.R. n. 12/2005 rubricata “Legge per il governo del territorio” (sentenza n. 943/2016).
Il procedimento era quindi retto dall'applicazione dell'art. 72 della L.R. Lombardia n. 12/2005, nella versione risultante dalle modifiche introdotte dalla menzionata L.R. n. 2/2015.
L'Associazione, a mezzo del terzo motivo del ricorso principale, ha eccepito l'illegittimità costituzionale di tale art. 72 sopra citato nella parte in cui condiziona l'esercizio del culto alla discrezionalità riservata al Comune nell'individuare o meno nello strumento urbanistico luoghi destinati a servizi religiosi.
L'eccezione è da intendersi estesa anche al provvedimento impugnato con i motivi aggiunti.
Infatti, il ricorso per motivi aggiunti non ha mutato i termini della controversia così come perimetrati nel ricorso principale.
   3.1 Ciò premesso,
anche il Collegio dubita della legittimità costituzionale dell'art. 72 della L.R. Lombardia n. 12/2005 nella misura in cui tale norma, avuto riguardo alla tutela costituzionale riservata alla libertà religiosa, non detta alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere quando (comma 5) e in che senso (commi 1 e 2) determinarsi a fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto.
La Sezione ha già rimesso la questione di legittimità costituzionale limitatamente a commi 1 e 2 del menzionato art. 72 della L.R. n. 12/2005 a mezzo della sentenza non definitiva n. 1939/2018, alla quale infra il Collegio farà ampio riferimento.
Sotto questo profilo, il Collegio reputa opportuno sospendere il giudizio ai sensi dell'art. 79 c.p.a. in attesa della decisione della Corte Costituzionale.
Sotto il profilo della questione di legittimità costituzionale dell'art. 72, comma 5, ritiene invece il Collegio di dovere sottoporre gli atti alla Corte Costituzionale, per un ulteriore profilo di incostituzionalità della norma regionale, non sollevato nella precedente decisione di rinvio.
4) Prima di affrontare compiutamente i temi della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, pare al Collegio opportuno richiamare la ricostruzione del quadro normativo che viene in rilievo, operata a mezzo della menzionata sentenza della Sezione n. 1939/2018:
“9.1 La legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12 (“Legge per il governo del territorio”) reca, nella Parte II (“Gestione del territorio”), un Titolo IV dedicato alle “Attività edilizie specifiche”. Nell’ambito di questo Titolo, il Capo III – composto dagli articoli 70-73 della legge – detta “Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi”.
Le previsioni contenute nel suddetto Capo stabiliscono, anzitutto, che le “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, come definite all’articolo 71, comma 1, della legge regionale, “costituiscono opere di urbanizzazione secondaria ad ogni effetto” (così il comma 2 dello stesso articolo 71, tuttora vigente).
Quanto alla localizzazione sul territorio di tali attrezzature, l’articolo 71, comma 1, stabiliva, nel suo tenore originario, prima delle modifiche apportate dalla legge regionale 03.02.2015, n. 2, che il Piano dei Servizi –che è uno degli atti di cui si compone il Piano di Governo del Territorio– dovesse specificamente individuare, dimensionare e disciplinare “le aree che accolgono attrezzature religiose, o che sono destinate alle attrezzature stesse”, e ciò “sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70”.
Tali ultimi soggetti erano individuabili, in particolare, negli “enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica” (articolo 70, comma 1) e negli “enti delle altre confessioni religiose come tali qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune (…), ed i cui statuti esprimano il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e previa stipulazione di convenzione tra il comune e le confessioni interessate” (articolo 70, comma 2).
Era, inoltre, stabilito che, indipendentemente dalla dotazione di attrezzature religiose esistenti, “nelle aree in cui siano previsti nuovi insediamenti residenziali, il piano dei servizi, e relative varianti, assicura nuove aree per attrezzature religiose, tenendo conto delle esigenze rappresentate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma 2).
Apposite previsioni erano pure dettate per la realizzazione di attrezzature religiose di interesse sovracomunale (articolo 71, comma 3).
Quanto alla ripartizione delle attrezzature tra gli enti interessati, questa doveva essere operata “in base alla consistenza ed incidenza sociale delle rispettive confessioni” (articolo 71, comma 4).
Era, inoltre, stabilito che, fino all’approvazione del Piano dei Servizi, la realizzazione di nuove attrezzature per i servizi religiosi fosse “ammessa unicamente su aree classificate a standard nei vigenti strumenti urbanistici generali e specificamente destinate ad attrezzature per interesse comune” (così il comma 4-bis dell’articolo 71, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lett. hhh), della legge regionale 14.03.2008, n. 4).
Infine, l’articolo 73 dettava (e detta tuttora) disposizioni relative alle modalità di finanziamento della realizzazione di attrezzature religiose da parte di ciascun comune.
9.2 La suddetta disciplina ha subito incisive modifiche a seguito dell’entrata in vigore della legge regionale 03.02.2015, n. 2; modifiche che –si anticipa sin d’ora– sono state in parte colpite da una dichiarazione di incostituzionalità, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 2016.
9.2.1 La nuova legge ha, anzitutto, innovato in modo significativo la disciplina dettata dall’articolo 70, in tema di individuazione degli enti delle confessioni religiose deputati a realizzare attrezzature religiose sul territorio comunale. Tali soggetti sono stati, infatti, individuati, oltre che negli enti della Chiesa cattolica, anche negli “enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha già approvato con legge la relativa intesa ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione” (nuovo articolo 70, comma 2) e negli enti delle ulteriori confessioni religiose, non firmatarie di intesa, in presenza di determinati requisiti specifici (articolo 70, comma 2-bis).
Per gli enti diversi da quelli della Chiesa cattolica è stato, peraltro, previsto che l’applicazione delle previsioni in materia di attrezzature di interesse religioso sia subordinata alla stipulazione di “una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato” (articolo 70, comma 2-ter).
E’ stata, ancora, prevista l’istituzione di una Consulta regionale, nominata con provvedimento della Giunta regionale, deputata al “rilascio di parere preventivo e obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti” per l’accreditamento presso i Comuni degli enti di confessioni religiose che non abbiano stipulato intese con lo Stato, al fine della realizzazione di attrezzature religiose (articolo 70, comma 2-quater).
9.2.2 E’ stata, inoltre, radicalmente modificata la disciplina relativa alla localizzazione delle attrezzature religiose, contenuta all’articolo 72.
Sotto questo profilo, si è stabilito, anzitutto, che “Le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma 1).
Il Piano delle attrezzature religiose è “sottoposto alla medesima procedura di approvazione dei piani componenti il PGT” (articolo 72, comma 3) e deve prevedere una serie di contenuti specifici (articolo 72, comma 7), consistenti in prescrizioni di dotazioni di servizi (lett. a), b) e d), del comma 7), caratteristiche costruttive delle attrezzature religiose (lett. e), f) e g) del comma 7) e apposite distanze tra le strutture da destinare alle diverse confessioni religiose, sulla base delle distanze minime stabilite dalla Giunta regionale (lett. c) del comma 7).
E’, poi, stabilito che “L’installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma 2). E, in questa prospettiva, la legge regionale dispone pure che “I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante “Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi“.”, ossia la stessa legge n. 2 del 2015; “Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT” (articolo 72, comma 5).
9.3 Le previsioni in materia di attrezzature religiose introdotte dalla legge regionale n. 2 del 2015 sono state in parte dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 63 del 2016, in esito al giudizio in via d’azione promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri contro la predetta legge.
Più in dettaglio, la Corte ha dichiarato fondate, per violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettera c), della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto:
   – l’articolo 70, comma 2-bis, ove erano stabiliti i requisiti che gli enti delle confessioni religiose che non hanno stipulato un’intesa con lo Stato avrebbero dovuto possedere al fine di accedere alla possibilità di realizzare attrezzature religiose;
   – l’articolo 70, comma 2-quater, che sottoponeva al vaglio di un’apposita Consulta regionale lo scrutinio in ordine al possesso di tali requisiti.
La Corte ha, inoltre, riscontrato la fondatezza delle questioni con le quali si prospettava la violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione ad opera delle previsioni contenute:
   – all’articolo 72, comma 4, primo periodo, della legge regionale, ove si prevedeva che, nel corso del procedimento per la predisposizione del Piano delle attrezzature religiose, venissero acquisiti “i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali”;
   – all’articolo 72, comma 7, lett. e), ove si prescriveva che il Piano dovesse prevedere, per le attrezzature religiose, “la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine”.
9.4 L’intervento della Corte non ha, invece, toccato –in quanto non sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale– l’architettura del sistema prefigurato dalla legge regionale n. 2 del 2015 al fine dell’insediamento sul territorio delle attrezzature religiose e, in particolare, la necessaria subordinazione della realizzazione di tali attrezzature all’approvazione di un apposito Piano.
La Corte ha, infatti, espressamente evidenziato che non formava oggetto del giudizio “l’art. 72, comma 1, della stessa legge regionale n. 12 del 2005, il quale ricollega alla valutazione delle «esigenze locali», previo esame delle diverse istanze confessionali, la programmazione urbanistica delle attrezzature religiose”.
Per quanto qui rileva, la Corte ha, inoltre, dichiarato manifestamente inammissibile, per inconferenza del parametro evocato –ossia l’articolo 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione– la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005, ove si stabilisce che i Comuni che intendano prevedere nuove attrezzature religiose debbano approvare il relativo Piano entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge e che, in mancanza, si provveda unitamente al nuovo Piano di Governo del Territorio.”
La ricostruzione normativa deve essere completata in considerazione dell’avvenuta abrogazione della L.R. Lombardia n. 2/2015 a mezzo della L.R. n. 5/2018, recante “Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge.”
Sulla portata della L.R. Lombardia n. 5/2018 ritiene il Collegio di confermare il proprio orientamento espresso nella più volte menzionata sentenza della Sezione n. 1939/2018:
“Sempre in punto di rilevanza, il Collegio deve prendere in considerazione la portata della legge regionale 25.01.2018, n. 5, recante “Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge.”, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia del 29.01.2018, Supplemento n. 5.
La suddetta legge reca, all’articolo 2 –dedicato alla “Abrogazione di leggi”– la previsione secondo la quale “A decorrere dall’entrata in vigore della presente legge sono o restano abrogate: …b)le seguenti leggi o disposizioni operanti modifiche alla legislazione regionale… 69) L.R. 03.02.2015, n. 2 (Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi);”.
E’ stata, dunque, disposta l’abrogazione della legge regionale n. 2 del 2015, che –come più volte ripetuto– ha novellato la legge regionale n. 12 del 2005, dettando la disciplina applicata dal provvedimento impugnato nel presente giudizio.
Occorre, dunque, domandarsi se tale previsione possa influire sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si intendono rimettere alla Corte costituzionale.
21.1 Il Collegio rileva, anzitutto, che il provvedimento impugnato nel presente giudizio è precedente alla legge regionale n. 5 del 2018, per cui la sua legittimità va valutata in base al quadro normativo vigente al tempo della sua adozione.
Conseguentemente, la norma regionale abrogatrice sopravvenuta non potrebbe comunque far venire meno la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale relative al testo della legge n. 12 del 2005, nella formulazione in vigore quando è stato rilasciato il permesso di costruire annullato, e anche al tempo della determinazione di autotutela qui censurata.
21.2 In ogni caso, è pure da escludere che la legge regionale n. 5 del 2018 abbia modificato l’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, il quale è da ritenere a tutt’oggi vigente nel tenore risultante dalle modificazioni apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015.
L’operazione disposta dal legislatore regionale è stata, infatti, di mero riordino legislativo, come risulta chiaramente dall’articolo 1 della legge regionale n. 5 del 2018, ove, nell’indicare le finalità dell’intervento normativo, si enuncia che “La presente legge opera interventi di manutenzione e razionalizzazione tecnica dell’ordinamento regionale attraverso interventi abrogativi di leggi o di disposizioni di legge. Per tutte le disposizioni oggetto di abrogazione sono fatti salvi gli effetti secondo quanto previsto dall’articolo 4.”.
Il richiamato articolo 4 stabilisce, a sua volta, che “Sono fatti salvi gli effetti prodotti o comunque derivanti dalle leggi e dalle disposizioni abrogate dalla presente legge, comprese le modifiche apportate ad altre leggi. Restano pertanto confermate, in particolare, le autorizzazioni, le variazioni, i rifinanziamenti e ogni altro effetto giuridico, economico o finanziario prodotto o comunque derivante dalle disposizioni in materia di bilancio, nonché le variazioni testuali apportate alla legislazione vigente dalle leggi abrogate dalla presente legge, ove non superate da integrazioni, modificazioni o abrogazioni disposte da leggi intervenute successivamente. Trova inoltre applicazione, per le leggi di cui all’articolo 3, anche quanto previsto dall’articolo 24, comma 2, della L.R. 29/2006”.
Il legislatore regionale ha, cioè, inteso eliminare le leggi enumerate –tra le quali la legge n. 2 del 2015– intese esclusivamente quali atti fonte, ossia quali “veicoli” delle modificazioni apportate ad altre leggi; “veicoli” che hanno sostanzialmente esaurito i loro effetti con l’introduzione stessa delle novelle. Le leggi modificate non sono state, invece, toccate dall’intervento di riordino, il quale non ha inteso apportare alcuna variazione sostanziale al corpus legislativo regionale.”

5) Alla luce della ricostruzione normativa e della precedente decisione, viene sollevato in questo giudizio l’ulteriore profilo di incostituzionalità dell’art. 72 L.R. Lombardia n. 12/2005, in quanto questione rilevante al fine della definizione dei motivi aggiunti.
Infatti, entrambe le censure proposte con i motivi aggiunti riguardano la violazione dell’art. 70, comma 2-bis, della L.R. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “le disposizioni del presente capo si applicano altresì agli enti delle altre confessioni religiose”. Al riguardo, viene in rilievo il “Capo III”, intitolato “Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi” della Parte II, Titolo IV, della Legge regionale in argomento.
Lamentando la violazione di tale norma, l’Associazione ricorrente si duole quindi del modo in cui il Comune ha applicato le norme del Capo III, tra le quali è compreso l’art. 72, che, come detto nella precedente decisione, si deve ritenere in vigore.
In particolare, con il primo motivo aggiunto, l'Associazione lamenta che “l’Amministrazione comunale non può legittimamente negare la sussistenza dei presupposti ad una individuazione di area di culto da assegnare a fedeli della religione islamica, né tanto meno [il che particolarmente rileva ai fini della questione di legittimità costituzionale – n.d.r.] può legittimamente differire ogni determinazione in tal senso ad una successiva ed ulteriore verifica in sede di futuro aggiornamento del PGT”.
L’Associazione ricorrente ha avuto cura di precisare che la censura di cui al primo motivo aggiunto “ha carattere assorbente” rispetto a quella contenuta nel motivo successivo, a mezzo del quale la ricorrente lamenta che il Comune avrebbe errato: (a) nell’esprimere il giudizio di significatività della presenza di una comunità islamica sul proprio territorio; (b) nel qualificare l’istanza dell’Associazione come tesa a fruire di un immobile comunale; (c) nell’affermare che l’Associazione avrebbe ormai trovato sede in un Comune contermine; (d) nel dare rilevanza che già nell’anno 2008 il Comune medesimo non aveva ravvisato in capo all’Associazione una consistenza e una incidenza sociale apprezzabili sul territorio.
Ritiene quindi il Collegio di poter affrontare la seconda censura dei motivi aggiunti solo dopo avere deciso sulla prima censura.
Sennonché, come detto, la decisione sulla prima censura passa necessariamente attraverso l’applicazione dell’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005, secondo cui -lo si ripete- “I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi". Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT.”.
Al riguardo, osserva il Collegio che il termine di diciotto mesi menzionato al primo periodo ha iniziato a decorrere dal 06.02.2015, giorno successivo alla data di pubblicazione della Legge sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, ed è spirato il 06.08.2016.
Nel caso di specie, il Comune di Sesto Calende ha adottato il provvedimento impugnato in data 20.09.2017, con la conseguenza che viene in rilievo l’applicazione del secondo periodo dell’art. 72, comma 5, a mente del quale la previsione di nuove attrezzature religiose sul territorio comunale presuppone la previa redazione di un apposito piano, che i Comuni lombardi possono adottare in uno con il nuovo PGT.
Senza l’avvio del nuovo Piano del Governo del Territorio rimane sena tutela la posizione dell’Associazione: in tal senso è quindi innegabile la rilevanza della questione nel caso di specie.
6)
Il Collegio sospetta l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 di illegittimità costituzionale per le seguenti ragioni.
   6.1.
Sotto un primo profilo, al Collegio pare che l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 contrasti con l’art. 2 Cost., con l’art. 3 Cost., e con l’art. 19 Cost..
Al riguardo, con la sentenza n. 1939/2018 la Sezione ha già avuto modo di osservare che la programmazione urbanistica comunale interviene con cadenze periodiche pluriennali, non fissate a priori.
Di conseguenza, atteso il tenore letterale dell’art. 72, comma 5, della L.R. n. 12/2005, i fedeli di una confessione che intendono trovare una sede per esercitare il proprio culto devono attendere per un tempo indeterminato la decisione del Comune di individuare o meno un’area da destinare ad attrezzatura religiosa: infatti se decorre inutilmente il termine dei 18 mesi (come nel caso in esame), l’Amministrazione non ha alcun obbligo di avviare il procedimento di revisione del PGT, per individuare le aree destinate a luogo di culto.
Al decorso dei 18 mesi non è infatti prevista alcuna disposizione “sanzionatoria”, quale la sostituzione commissariale per l’adozione del piano de quo.
Ora, resta fuori discussione il potere del Comune di decidere, all’esito di un istruttoria adeguata, se accogliere o respingere la domanda degli interessati.
Tuttavia, la perdurante situazione di attesa e di incertezza nella quale, in ragione di quanto disposto dall’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005, versano i fedeli, i quali aspirano a che il Comune individui un luogo per il culto da essi professato, non è compatibile con il rango costituzionale del diritto di libertà religiosa.
Ritiene infatti il Collegio che la domanda di spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà debba trovare una risposta -in un senso positivo o in senso negativo- in tempi certi, ed entro un termine ragionevole, avuto riguardo sia ai tempi connessi alla valutazione di impatto sul tessuto urbanistico, a volte indiscutibilmente complessa, sia avuto riguardo alla particolare importanza del bene della vita al quale aspirano i fedeli interessati.
Al riguardo, il Collegio ritiene utile e opportuno fare riferimento a quanto affermato dalla Corte Costituzionale 24.03.2016 n. 63, secondo cui “Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione.”
Infatti, ad avviso del Collegio, la richiamata condizione di attesa a tempo indeterminato e di incertezza rileva quale ostacolo all’esplicazione del diritto di libertà religiosa.
Ne consegue una non giustificata compressione dei diritti di cui all’art. 19 Cost., e più in generale un ostacolo non giustificato all’esplicazione dei diritti inviolabili della persona, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in violazione dell’art. 2 Cost..
Il fatto che tale compressione della posizione soggettiva degli interessati non appaia giustificata pare altresì contrastare con il criterio della ragionevolezza del quale è espressione l’art. 3 Cost..
In sintesi la norma contrasta con i principi costituzionali richiamati, laddove prevede un termine –di 18 mesi– per l’adozione del piano delle attrezzature religiose, decorso il quale non viene previsto alcun intervento sostitutivo, ma viene demandato all’Amministrazione Comunale la facoltà di introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT, senza alcun ulteriore termine.
In tal modo viene vanificato il diritto alla libertà religiosa, sotto il profilo del diritto di trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà.
   6.2
La norma pare violare altresì l’art. 97 Cost. e dell’art. 117, comma 2, lett. m), il fatto che l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 rinvii a tempo indeterminato la risposta a un’esigenza riguardante l’esercizio di un diritto fondamentale della persona.
La mancata previsione, da parte della norma regionale, di tempi certi di risposta alle istanze dei fedeli interessati sembra infatti in contrasto con il principio di buon andamento che deve presiedere l’attività della Pubblica Amministrazione.
A bene vedere, la mancata di previsione di tempi certi da parte dell’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 pare inoltre esprimere uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso, il che contrasta con il principio di imparzialità dell’azione amministrativa di cui al menzionato art. 97 Cost..
Sotto connesso profilo, nella prospettiva dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. appare violato il livello minimo delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Al riguardo, osserva il Collegio che, ai sensi dell’art. 29 della L. n. 241/1990 attiene ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione l’aspetto riguardante la predeterminazione della durata massima dei procedimenti.
Ovviamente, va da sé che una norma che si esprima in termini di sfavore verso il fenomeno religioso contrasta anche con gli artt. 2. 3 e 19 Cost., ai quali si è già fatto riferimento.
In sintesi il quadro normativo che, una volta decorso il primo termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della L.R. 12/2010, non ha previsto ulteriori termini per imporre l’adozione del piano della attrezzatture religiose, si pone in contrasto con la disciplina in materia di procedimento amministrativo e di certezza dei termini di conclusione del procedimento, quindi con i principi costituzionali dell’art 97 Cost. e dell’art. 117 comma 2 lett. m) Cost.
   6.3.
Sotto un ulteriore profilo, ritiene il Collegio che l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 contrasti con l’art. 5 Cost., con l’art. 114, comma 2, Cost., con l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost., con l’art. 118, comma 1, Cost..
Ad avviso del Collegio, la norma regionale condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione complessiva del piano di governo del territorio.
Infatti, solo nei primi diciotto mesi dall’entrata in vigore della norma le Amministrazioni potevano predisporre il Piano delle attrezzature religiose senza mettere mano all’intera disciplina del governo del territorio.
Da che è maturata la scadenza dei diciotto mesi, la legge regionale non lo permette più.
In altri termini, l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 impedisce ai Comuni di dotarsi di un Piano delle attrezzature religiose senza contestualmente revisionare l’intera disciplina del governo del territorio.
Ad avviso del Collegio, viene in rilievo una ingiustificata compressione delle prerogative del Comuni da parte della Regione.
Infatti, non si comprende quale ragione possa giustificare il sostanziale divieto gravante sui Comuni lombardi di adottare il Piano delle attrezzature religiose in un momento distinto rispetto alla revisione generale del Piano di governo del territorio.
Da un primo punto di vista, la norma sembra integrare una violazione dell’art. 5 Cost., atteso che essa frustra l’autonomia dei Comuni, quali autonomie locali.
Sotto connesso profilo, appaiono violati l’art. 114, comma 2, Cost. e l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost..
In particolare, nella prospettiva dell’art. 114, comma 2, Cost. appare violato sotto un profilo generale l’autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e delle funzioni di loro competenza.
Nella più particolare prospettiva dell’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost. appare violata l’autonomia degli Enti Locali sotto il profilo della potestà regolamentare in ordine alle funzioni attribuite ai Comuni.
Come anticipato, la limitazione imposta dalla Regione all’autonomia dei Comuni non appare giustificata.
Da questo punto di vista sembra venire in rilievo la violazione del principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118, comma 1, Cost..
In sintesi la disposizione regionale, laddove fa divieto ai Comuni di adottare il piano delle attrezzature religiose dopo il termine dei 18 mesi, ma necessariamente solo contestualmente alla revisione del PGT, viola il principio di autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e delle funzioni di loro competenza.
7) In conclusione, il ricorso principale va dichiarato improcedibile.
Rispetto ai motivi aggiunti,
va rimessa alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art. 72, comma 5, della L.R. n. 12/2005 in relazione all’art. 2 Cost., all’art. 3 Cost., all’art. 5 Cost., all’art. 19 Cost., all’art. 114 Cost., all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., all’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost. e all’art. 118 Cost..
Va di conseguenza disposta la sospensione del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando sul ricorso principale e su quello per motivi aggiunti:
   - dichiara improcedibile il ricorso principale;
   -
rimette alla Corte Costituzionale le questioni di legittimità costituzionale illustrate in motivazione, relative all’articolo 72, comma 5, della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 03.02.2015 n. 2, per contrasto con l’art. 2 Cost., con l’art. 3 Cost., con l’art. 5 Cost., con l’art. 19 Cost., con l’art. 114 Cost., con l’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., con l’art. 117 comma 6 terzo periodo Cost. e con l’art. 118 Cost.;
   - dispone, la sospensione del giudizio sino all’esito della decisione della Corte Costituzionale sulla questione rimessa tramite il presente provvedimento e sino alla decisione sulla questione di legittimità Costituzionale sollevata dal Tribunale a mezzo della sentenza non definitiva n. 1939/2018;
   - riserva alla sentenza definitiva la pronuncia in ordine ai motivi aggiunti, nonché in ordine alla complessiva regolazione delle spese del giudizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.10.2018 n. 2227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2018

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la legge della Regione Lombardia sulle aree che accolgono attrezzature religiose.
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Religione – Edifici di culto – Lombardia - Apertura di alcuna attrezzatura religiosa – Art, 72, comma 1 e 2, l.reg. n. 12 del 2005 – Necessità del Piano delle attrezzature religiose – Violazione artt. 2, 3 e 19 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rimessa alla Corte costituzionale, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 Cost., la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 72, commi 1 e 2, l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lett. c), l.reg. 03.02.2015, n. 2, nella parte in cui stabilisce che –in assenza o comunque al di fuori delle previsioni del Piano delle attrezzature religiose– non sia consentita l’apertura di alcuna attrezzatura religiosa, a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica opera (1).
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   (1) In particolare, il comma 1 dell’art. 72, l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12 stabilisce che “Le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all'art. 70”. Il successivo comma 2 aggiunge, poi, che “L'installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all'art. 70”.
Dalla lettura di tali previsioni, ad avviso del Tar, discende che:
   - la realizzazione di ogni e qualsivoglia attrezzatura religiosa deve trovare necessariamente previsione in un apposito Piano comunale, costituente un atto separato facente parte del Piano dei Servizi (art. 72, comma 1), che a sua volta è l’atto, componente il Piano di Governo del Territorio, deputato ad “assicurare una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale, le eventuali aree per l'edilizia residenziale pubblica e da dotazione a verde, i corridoi ecologici e il sistema del verde di connessione tra territorio rurale e quello edificato, nonché tra le opere viabilistiche e le aree urbanizzate ed una loro razionale distribuzione sul territorio comunale, a supporto delle funzioni insediate e previste”, in base a quanto previsto dall’art. 9 della stessa l. reg. n. 12 del 2005;
   - in assenza del suddetto Piano, nessuna “attrezzatura religiosa” è realizzabile (art. 72, comma 1) e, anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di fuori delle aree a ciò specificamente destinate (comma 1), indipendentemente dalla circostanza che si tratti: di edifici di culto o di altre attrezzature religiose, secondo l’ampia definizione di cui all’art. 71, comma 1, della legge regionale; di attrezzature necessarie per assicurare la dotazione di standard di urbanizzazione secondaria di insediamenti esistenti o da realizzare, ovvero di luoghi di culto che privati cittadini chiedano liberamente di poter realizzare, al fine di professare collettivamente la propria religione; di strutture di grandi dimensioni, destinate a determinare un largo afflusso di fedeli, ovvero di semplici sale di culto, dedicate a una frequentazione limitata a poche decine di persone; di edifici realizzati a iniziativa pubblica o con contributi pubblici, ovvero a iniziativa del tutto privata.
Secondo il Tar tali previsioni sono di dubbia legittimità costituzionale in quanto preordinano una completa e assoluta programmazione pubblica della realizzazione di “attrezzature religiose”, in funzione delle “esigenze locali” –rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune– a prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere, e persino della loro destinazione alla fruizione da parte di un pubblico più o meno esteso, introducendo così un controllo pubblico totale, esorbitante rispetto alle esigenze proprie della disciplina urbanistica, in ordine all’apertura di qualsivoglia spazio destinato all’esercizio del culto (o anche di semplici attività culturali a connotazione religiosa).
A giudizio del Tar l’equivoco di fondo da cui muove l’impostazione seguita dal legislatore regionale è che le “attrezzature religiose”, delle quali gli edifici di culto sono una species, debbano essere trattate solo ed esclusivamente quali opere di urbanizzazione secondaria (art. 71, comma 2), da inserirsi nel contesto urbano mediante un apposito Piano comunale che ne stabilisce sia la localizzazione che il dimensionamento (art. 72, commi 1 e 2). E ciò prescindendo dalle caratteristiche del singolo intervento, dalla circostanza che tali attrezzature siano o non siano strettamente necessarie ad assicurare la dotazione di standard urbanistici funzionale a un dato insediamento residenziale, e persino dalla destinazione di tali opere a una più o meno estesa fruizione pubblica.
Tale impostazione, tuttavia, finisce per determinare l’accentramento in capo all’Amministrazione locale della scelta in ordine a tempi, luoghi e distribuzione tra le varie confessioni religiose dei luoghi di culto che si prevede di aprire sul territorio, senza consentire, al di fuori di tale rigida predeterminazione, avocata alla mano pubblica, neppure la realizzazione, a iniziativa privata e in aree comunque idonee dal punto di vista urbanistico, di modeste sale di preghiera.
In altri termini, il presupposto su cui si fonda l’intera architettura della disciplina regionale lombarda in materia di edifici di culto consiste nell’individuazione di una corrispondenza biunivoca tra le “attrezzature religiose di interesse comune”, di cui all’art. 71, comma 1, costituenti opere di urbanizzazione secondaria, e le “attrezzature religiose” di cui all’art. 72, di modo che tutte tali attrezzature sono trattate allo stesso modo, ossia quali opere di urbanizzazione secondaria soggette alla necessaria previa programmazione comunale.
E ciò a prescindere dalla circostanza che il loro inserimento nel territorio debba essere effettivamente preordinato dall’Amministrazione, al fine di assicurare la proporzionata dotazione di standard di urbanizzazione secondaria a servizio di insediamenti residenziali, ovvero che si tratti di libere iniziative di enti religiosi, comunità di fedeli o gruppi di cittadini, al solo scopo di assicurare ai fedeli che intendano praticare un dato culto di disporre di un luogo idoneo a praticarlo collettivamente (
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.08.2018 n. 1939 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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1. L’Associazione Culturale Ma. ha impugnato la determinazione del Responsabile del Servizio lavori pubblici, territorio e ambiente del Comune di Castano Primo con la quale è stato annullato il permesso di costruire n. 17/2015, rilasciato alla stessa Associazione il 15.01.2016.
Ha, inoltre, censurato il rapporto della Polizia locale di Castano Primo del 09.11.2016, richiamato nel provvedimento di annullamento.
2. L’Associazione ricorrente è diretta, in base all’atto costitutivo e dallo statuto, a perseguire i seguenti scopi:
   “a) mantenere e valorizzare le tradizioni culturali e religiose dei Paesi d’origine dei Musulmani residenti nel territorio del Castanese, rafforzare il legame di fratellanza umana con i cittadini locali attraverso lo scambio culturale, la collaborazione sociale, la vicinanza civile all’interno di un quadro di rispetto e di integrazione, in accordo con i valori della Repubblica Italiana e nel pieno rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti.
   b) far rivivere gli insegnamenti del Profeta (Sunna) e la Rivelazione Divina (Corano).
   c) promuovere una condotta morale che porti alla pratica del bene.
   d) organizzare e facilitare viaggi di studio e di pellegrinaggio (Mecca-Medina).
   e) organizzare e facilitare le procedure di sepoltura dei Musulmani anche presso il paese d’origine.
   f) organizzare corsi e manifestazioni o eventi per la promozione della cultura musulmana e le lingue e tradizioni del paese di origine degli associati
”.
Secondo quanto risulta agli atti del giudizio, con istanza depositata il 09.01.2013, l’Associazione ha chiesto al Comune di Castano Primo un “Parere preventivo all’esercizio dell’attività di culto” presso gli “immobili siti in Castano Primo, Via ... n. 1”. Nell’istanza si evidenziava, tra l’altro, che il complesso immobiliare era costituito “da n. 2 fabbricati a uso residenziale, n. 2 fabbricati a uso deposito, n. 1 fabbricato a uso autorimessa oltre ad area di pertinenza” e che tale complesso –che in caso di parere positivo sarebbe stato ristrutturato– ricadeva in zona urbanistica B 3.1 “residenziale di completamento edilizio del tessuto urbano consolidato”.
L’istanza è stata riscontrata dal Comune con la nota del 22.03.2013, con la quale è stato reso parere favorevole all’utilizzazione richiesta dall’Associazione, in considerazione della localizzazione degli immobili nella zona urbanistica B 3.1 “dove la destinazione principale è quella residenziale e le attrezzature culturali, che rientrano nella fattispecie dei “servizi alla persona” compatibili con la residenza, sono quindi ammissibili”.
Il Comune precisava, inoltre, che “Per poter utilizzare in tal senso gli immobili prescelti, è necessario pertanto inoltrare richiesta di idoneo titolo abilitativo tendente al mutamento della destinazione d’uso, adottando tutte le specifiche prescrizioni impartite dalla normativa vigente. Nella redazione dell’istanza, dovrà essere posta particolare attenzione al reperimento dei Posti Auto interni al lotto, nelle quantità previste all’art. 12 della N.T.A. del Piano delle Regole, inerenti la nuova destinazione d’uso (servizi alla persona). Dovranno essere inoltre computati e successivamente versati i contributi relativi agli Oneri di Urbanizzazione dovuti in relazione alla trasformazione dell’uso da “residenziale” a “servizi alla persona compatibili”, secondo le vigenti tariffe”.
Stante il parere preventivo favorevole del Comune, l’Associazione ha quindi dato corso, il 28.10.2013, all’acquisto del complesso immobiliare di Via ... n. 1.
L’Associazione ha poi ottenuto, il 24.07.2015, l’autorizzazione paesaggistica “per la realizzazione di ampliamento edificio esistente con cambio di destinazione d’uso da residenza a servizio alla persona”, e ha quindi domandato, il 20.08.2015, il permesso di costruire, che è stato effettivamente rilasciato il 15.01.2016.
A ciò è seguita, il 05.07.2016, la presentazione della comunicazione di inizio dei lavori.
E’ poi avvenuto che il Comune ha manifestato dubbi all’Associazione in ordine all’effettiva possibilità di destinare il complesso immobiliare di Via ... n. 1 all’esercizio del culto. Si sono, quindi, tenuti una serie di incontri con i rappresentanti dell’Associazione, la quale ha stabilito spontaneamente, in questa fase, di sospendere i lavori dal 13.10.2016, dandone comunicazione all’Amministrazione.
Gli approfondimenti svolti hanno, infine, condotto il Comune all’adozione del provvedimento del 13.03.2017, impugnato nel presente giudizio, con il quale è stato disposto l’annullamento d’ufficio del permesso di costruire n. 17/2015 del 15.01.2016.
3. Le motivazioni della determinazione assunta dall’Amministrazione, illustrate nel corpo dell’atto, evidenziano, in particolare, che:
   - il Comune ha appurato che l’intervento edilizio è preordinato alla realizzazione di un’attrezzatura religiosa, ai sensi dell’articolo 71 della legge regionale 11.03.2005, n. 12, come si evince: dalle finalità dell’Associazione Culturale Ma.; dagli elementi architettonici, quali la nicchia orientata a Sud-Est (ossia in direzione della Mecca); dalla distribuzione interna dei locali, che sono formati da una sala principale al piano terra e da un blocco di servizi igienici al piano interrato, questi ultimi servizi chiaramente preordinati alle pratiche propedeutiche alle funzioni religiose del rito musulmano (si tratterebbe, in altri termini, delle vasche per le abluzioni rituali); dalle stesse dichiarazioni rese dall’Associazione nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, dalle quali risulta chiaramente la volontà di attuare la destinazione a luogo di culto;
   - la realizzazione di un tale intervento edilizio, diretto allo svolgimento non occasionale anche di attività di culto, ricade nella categoria urbanistica prevista dall’articolo 71, comma 1, lett. b) e c-bis), della legge regionale n. 12 del 2005; categoria per la cui attuazione è richiesta la preventiva approvazione del Piano delle attrezzature religiose di cui all’articolo 72, comma 1, della medesima legge regionale;
   - allo stato, il Comune di Castano Primo non è dotato di tale Piano, per cui il permesso di costruire è stato rilasciato “in assenza di un iter procedurale atto a garantire la trasparenza degli atti assunti attraverso meccanismi di partecipazione e consultazione della cittadinanza”;
   - “la situazione viabilistica dell’area di cui sopra, come emerge nel rapporto della Polizia locale del 09.11.2016, n. prot. 2269, non è idonea, né allo stato e neppure anche con le misure indicate nel rapporto stesso, a sopportare il carico di traffico e di posteggio indotto dall’affluenza di persone in relazione alla pratica del culto”;
   - l’annullamento del titolo edilizio “non risponde ad un mero ripristino della legalità formale violata, bensì ad un concreto interesse pubblico diretto ad impedire l’esercizio di un’attività di culto, per sua natura aperta ad un numero indeterminato di destinatari, in un’area inidonea per le sue ridotte dimensioni, inserita in una zona altamente residenziale, inadatta per le condizioni viabilistiche di contorno e per la carenza di parcheggio”;
   - i lavori sono stati sospesi dall’Associazione e “anche per tale ragione non può dirsi consolidato alcun affidamento in favore dell’Associazione Ma., consapevole dei profili di illegittimità del permesso di costruire esposti nel corso di incontri con i rappresentanti dell’Amministrazione comunale”.
4. Nel censurare il provvedimento comunale, la ricorrente ha allegato i seguenti motivi:
   I) violazione dell’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005 e dell’articolo 11 delle disposizioni sulla legge in generale, nonché eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto di istruttoria e di motivazione; ciò in quanto il complesso immobiliare della ricorrente rientrerebbe tra le “attrezzature religiose esistenti” al 06.02.2015, ossia alla data in cui è entrata in vigore la legge regionale 03.02.2015, n. 2, che ha modificato la legge regionale n. 12 del 2005, introducendo il Piano delle attrezzature religiose; conseguentemente, la realizzazione dell’intervento oggetto del permesso di costruire non sarebbe subordinato all’approvazione dell’apposito Piano, ma beneficerebbe dell’esenzione dalla nuova disciplina, secondo quanto ora disposto dall’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005; in particolare, la natura di attrezzatura religiosa esistente deriverebbe dal fatto che l’Associazione Culturale Ma. sarebbe presente sul territorio di Castano Primo sin dal 2007 e avrebbe trasferito la propria sede nel complesso di Via Friuli n. 1 dal 28.10.2013;
...
   IV) difetto di motivazione, violazione dei principi di proporzionalità e di non aggravamento, nonché contraddittorietà manifesta; ciò in quanto la legge regionale dovrebbe essere interpretata nel senso che la previa approvazione del Piano delle attrezzature religiose dovrebbe essere richiesta soltanto per la realizzazione di strutture di grandi dimensioni, ma non anche per quelle di modesta entità, quale quella oggetto del permesso di costruire rilasciato in favore della ricorrente; il provvedimento di annullamento del permesso di costruire, subordinando la realizzazione della destinazione richiesta al Piano delle attrezzature religiose, si porrebbe in contraddizione con le determinazioni precedentemente assunte dal Comune, con il principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione e con il divieto di aggravamento del procedimento amministrativo; peraltro, la ricorrente avrebbe anche inutilmente rappresentato al Comune la propria disponibilità a incrementare le aree da destinare a parcheggio all’interno del lotto di proprietà; il provvedimento di annullamento sarebbe, perciò, immotivato, irragionevole e sproporzionato rispetto all’interesse pubblico al ripristino della legalità violata;
  
V) incostituzionalità dell’articolo 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005 e contrasto della disposizione regionale con la normativa europea; ciò in quanto il predetto comma 5, come sostituito dall’articolo 1 della legge regionale n. 2 del 2015, stabilirebbe la mera facoltà discrezionale dei Comuni, e non l’obbligo, di prevedere la realizzazione di edifici di culto attraverso l’apposito Piano delle attrezzature religiose; risulterebbero, quindi, violati gli articoli 2, 3, 8, 19, 20 e 117 della Costituzione, nonché con l’articolo 118, primo comma, della Costituzione; sarebbe violata anche la direttiva 2000/43/CE del 29.06.2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone, indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, comprendendo tra le libertà fondamentali il diritto alla libertà di associazione e il diritto all’accesso ai beni e ai servizi: in quest’ultimo ambito rientrerebbe l’edilizia religiosa, in quanto preordinata alla fornitura di un servizio;
...
5. Si è costituito il Comune di Castano Primo, insistendo per il rigetto del ricorso.
6. In esito alla camera di consiglio fissata per la trattazione cautelare della causa, la Sezione ha emesso l’ordinanza n. 780 del 20.06.2017, con la quale ha disposto la fissazione dell’udienza pubblica, ritenendo che il ricorso ponesse questioni di particolare complessità, da vagliare in sede di merito, anche in considerazione della possibilità di ravvisare profili di dubbio sulla compatibilità costituzionale delle previsioni dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, laddove dall’applicazione delle relative disposizioni deriva il divieto incondizionato di aprire nuovi luoghi di culto in assenza dell’apposito Piano delle attrezzature religiose approvato dal Comune.
7. All’udienza pubblica fissata la causa è stata, infine, trattenuta in decisione.
8.
Il Collegio anticipa sin d’ora di ritenere che tutti i motivi di ricorso siano infondati, a eccezione del quinto, la cui soluzione impone di sollevare innanzi alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 03.02.2015, n. 2, sotto i profili e per le ragioni che si illustreranno più oltre.
9. La trattazione del ricorso richiede, peraltro, una breve premessa ricostruttiva della cornice normativa entro la quale si inquadra la presente controversia.
9.1 La legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12 (“Legge per il governo del territorio”) reca, nella Parte II (“Gestione del territorio”), un Titolo IV dedicato alle “Attività edilizie specifiche”. Nell’ambito di questo Titolo, il Capo III –composto dagli articoli 70-73 della legge– detta “Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi”.
Le previsioni contenute nel suddetto Capo stabiliscono, anzitutto, che le “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, come definite all’articolo 71, comma 1, della legge regionale, “costituiscono opere di urbanizzazione secondaria ad ogni effetto” (così il comma 2 dello stesso articolo 71, tuttora vigente).
Quanto alla localizzazione sul territorio di tali attrezzature, l’articolo 71, comma 1, stabiliva, nel suo tenore originario, prima delle modifiche apportate dalla legge regionale 03.02.2015, n. 2, che il Piano dei Servizi –che è uno degli atti di cui si compone il Piano di Governo del Territorio– dovesse specificamente individuare, dimensionare e disciplinare “le aree che accolgono attrezzature religiose, o che sono destinate alle attrezzature stesse”, e ciò “sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70”.
Tali ultimi soggetti erano individuabili, in particolare, negli “enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica” (articolo 70, comma 1) e negli “enti delle altre confessioni religiose come tali qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune (...), ed i cui statuti esprimano il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e previa stipulazione di convenzione tra il comune e le confessioni interessate” (articolo 70, comma 2).
Era, inoltre, stabilito che, indipendentemente dalla dotazione di attrezzature religiose esistenti, “nelle aree in cui siano previsti nuovi insediamenti residenziali, il piano dei servizi, e relative varianti, assicura nuove aree per attrezzature religiose, tenendo conto delle esigenze rappresentate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma 2).
Apposite previsioni erano pure dettate per la realizzazione di attrezzature religiose di interesse sovracomunale (articolo 71, comma 3).
Quanto alla ripartizione delle attrezzature tra gli enti interessati, questa doveva essere operata “in base alla consistenza ed incidenza sociale delle rispettive confessioni” (articolo 71, comma 4).
Era, inoltre, stabilito che, fino all’approvazione del Piano dei Servizi, la realizzazione di nuove attrezzature per i servizi religiosi fosse “ammessa unicamente su aree classificate a standard nei vigenti strumenti urbanistici generali e specificamente destinate ad attrezzature per interesse comune” (così il comma 4-bis dell’articolo 71, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lett. hhh), della legge regionale 14.03.2008, n. 4).
Infine, l’articolo 73 dettava (e detta tuttora) disposizioni relative alle modalità di finanziamento della realizzazione di attrezzature religiose da parte di ciascun comune.
9.2 La suddetta disciplina ha subito incisive modifiche a seguito dell’entrata in vigore della legge regionale 03.02.2015, n. 2; modifiche che –si anticipa sin d’ora– sono state in parte colpite da una dichiarazione di incostituzionalità, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 2016.
9.2.1 La nuova legge ha, anzitutto, innovato in modo significativo la disciplina dettata dall’articolo 70, in tema di individuazione degli enti delle confessioni religiose deputati a realizzare attrezzature religiose sul territorio comunale. Tali soggetti sono stati, infatti, individuati, oltre che negli enti della Chiesa cattolica, anche negli “enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha già approvato con legge la relativa intesa ai sensi dell'articolo 8, terzo comma, della Costituzione” (nuovo articolo 70, comma 2) e negli enti delle ulteriori confessioni religiose, non firmatarie di intesa, in presenza di determinati requisiti specifici (articolo 70, comma 2-bis).
Per gli enti diversi da quelli della Chiesa cattolica è stato, peraltro, previsto che l’applicazione delle previsioni in materia di attrezzature di interesse religioso sia subordinata alla stipulazione di “una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato” (articolo 70, comma 2-ter).
E’ stata, ancora, prevista l’istituzione di una Consulta regionale, nominata con provvedimento della Giunta regionale, deputata al “rilascio di parere preventivo e obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti” per l’accreditamento presso i Comuni degli enti di confessioni religiose che non abbiano stipulato intese con lo Stato, al fine della realizzazione di attrezzature religiose (articolo 70, comma 2-quater).
9.2.2 E’ stata, inoltre, radicalmente modificata la disciplina relativa alla localizzazione delle attrezzature religiose, contenuta all’articolo 72.
Sotto questo profilo, si è stabilito, anzitutto, che “Le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all'articolo 70” (articolo 72, comma 1). Il Piano delle attrezzature religiose è “sottoposto alla medesima procedura di approvazione dei piani componenti il PGT” (articolo 72, comma 3) e deve prevedere una serie di contenuti specifici (articolo 72, comma 7), consistenti in prescrizioni di dotazioni di servizi (lett. a), b) e d), del comma 7), caratteristiche costruttive delle attrezzature religiose (lett. e), f) e g) del comma 7) e apposite distanze tra le strutture da destinare alle diverse confessioni religiose, sulla base delle distanze minime stabilite dalla Giunta regionale (lett. c) del comma 7).
E’, poi, stabilito che “L'installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all'articolo 70” (articolo 72, comma 2). E, in questa prospettiva, la legge regionale dispone pure che “I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi".”, ossia la stessa legge n. 2 del 2015; “Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT” (articolo 72, comma 5).
9.3 Le previsioni in materia di attrezzature religiose introdotte dalla legge regionale n. 2 del 2015 sono state in parte dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 63 del 2016, in esito al giudizio in via d’azione promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri contro la predetta legge.
Più in dettaglio, la Corte ha dichiarato fondate, per violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettera c), della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto:
   - l’articolo 70, comma 2-bis, ove erano stabiliti i requisiti che gli enti delle confessioni religiose che non hanno stipulato un’intesa con lo Stato avrebbero dovuto possedere al fine di accedere alla possibilità di realizzare attrezzature religiose;
   - l’articolo 70, comma 2-quater, che sottoponeva al vaglio di un’apposita Consulta regionale lo scrutinio in ordine al possesso di tali requisiti.
La Corte ha, inoltre, riscontrato la fondatezza delle questioni con le quali si prospettava la violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione ad opera delle previsioni contenute:
   - all’articolo 72, comma 4, primo periodo, della legge regionale, ove si prevedeva che, nel corso del procedimento per la predisposizione del Piano delle attrezzature religiose, venissero acquisiti “i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali”;
   - all’articolo 72, comma 7, lett. e), ove si prescriveva che il Piano dovesse prevedere, per le attrezzature religiose, “la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine”.
9.4 L’intervento della Corte non ha, invece, toccato –in quanto non sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale– l’architettura del sistema prefigurato dalla legge regionale n. 2 del 2015 al fine dell’insediamento sul territorio delle attrezzature religiose e, in particolare, la necessaria subordinazione della realizzazione di tali attrezzature all’approvazione di un apposito Piano.
La Corte ha, infatti, espressamente evidenziato che non formava oggetto del giudizio “l’art. 72, comma 1, della stessa legge regionale n. 12 del 2005, il quale ricollega alla valutazione delle «esigenze locali», previo esame delle diverse istanze confessionali, la programmazione urbanistica delle attrezzature religiose”.
Per quanto qui rileva, la Corte ha, inoltre, dichiarato manifestamente inammissibile, per inconferenza del parametro evocato –ossia l’articolo 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione– la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005, ove si stabilisce che i Comuni che intendano prevedere nuove attrezzature religiose debbano approvare il relativo Piano entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge e che, in mancanza, si provveda unitamente al nuovo Piano di Governo del Territorio.
10. Premessa questa ricostruzione del quadro giuridico di riferimento, può passarsi all’esame delle questioni prospettate con il ricorso.
11. Come detto, il Comune di Castano Primo ha annullato in autotutela il permesso di costruire rilasciato in favore dell’Associazione Culturale Ma., riscontrando che le opere assentite consistevano nella realizzazione di un edificio destinato al culto e che il titolo edilizio era stato emesso, tuttavia, senza procedere preventivamente all’approvazione dell’apposito Piano delle attrezzature religiose, prescritto dall’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, come modificato dalla legge regionale n. 2 del 2015.
12. Con il primo motivo, la ricorrente ha contestato la sussistenza stessa del predetto profilo di illegittimità del permesso di costruire. In particolare, l’Associazione ha richiamato l’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005, ove si stabilisce che “Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle attrezzature religiose esistenti alla entrata in vigore della legge recante "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi".”, ossia la legge n. 2 del 2015, entrata in vigore il 06.02.2015.
12.1 Secondo la ricorrente, la destinazione ad attrezzature religiose dell’edificio di Via ... n. 1 sarebbe stata attuata precedentemente all’entrata in vigore della legge ora richiamata, poiché l’Associazione sarebbe presente sul territorio di Castano Primo sin dal 2007 e avrebbe trasferito la propria sede nel complesso di Via ...i n. 1 dal 28.10.2013. Inoltre, la destinazione dei locali a sede dell’Associazione, fin da epoca precedente all’intervento di ristrutturazione, risulterebbe anche dalle tavole allegate alla domanda di rilascio del permesso di costruire, sulle quali nulla l’Amministrazione avrebbe obiettato.
Conseguentemente, tale destinazione, in quanto preesistente, rientrerebbe tra quelle escluse dall’ambito di applicazione della legge regionale sopravvenuta.
12.2 Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che,
nel fare salve le “attrezzature religiose esistenti”, l’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005 non può aver avuto riguardo se non alle strutture giuridicamente esistenti con la predetta destinazione, e non anche agli immobili destinati ad attività di culto in via di mero fatto e senza un apposito titolo.
E ciò tanto più tenuto conto che, sin da prima della novella del 2015, la legge regionale n. 12 del 2005 reca un’apposita previsione secondo la quale “I mutamenti di destinazione d'uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire” (così l’articolo 52, comma 3-bis, aggiunto dall’articolo 1, comma 1, lett. m) della legge regionale 14.07.2006, n. 12).

12.3 Nel caso oggetto del presente giudizio, è incontroverso che la modifica della destinazione del complesso immobiliare di Via ... n. 1 sia avvenuta giuridicamente solo a seguito del permesso di costruire n. 17/2015 del 15.01.2016. Ne deriva che, a prescindere dall’eventuale utilizzazione di fatto dei fabbricati, tale destinazione non può essere ritenuta preesistente al 06.02.2015.
12.4 Da ciò il rigetto della censura.
...
14. Vanno quindi esaminate, per ragioni di ordine logico, le censure prospettate nella prima parte del quarto motivo di impugnazione, laddove l’Associazione ricorrente contesta ancora, sotto altro profilo, la sussistenza del vizio di legittimità del permesso di costruire riscontrato dal Comune.
14.1 La ricorrente sostiene, in particolare, che l’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005 andrebbe interpretato nel senso che la previa approvazione del Piano delle attrezzature religiose sarebbe richiesta solo per le strutture di grandi dimensioni, ma non anche per quelle di modesta entità, quale la sede dell’Associazione Culturale Ma..
14.2 L’interpretazione proposta dalla ricorrente non può, tuttavia, essere accolta, in quanto si pone in contrasto con il chiaro e inequivocabile tenore della legge.
L’articolo 72, infatti, si riferisce alle “attrezzature religiose”, senza alcuna specificazione ulteriore, e il comma 2 del predetto articolo afferma espressamente –come sopra detto– che l’installazione di nuove attrezzature religiose “presuppone” l’apposito Piano e che “senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzature religiosa da confessioni di cui all’articolo 70”.
La lettera della legge non lascia dubbi, perciò, in ordine alla concreta portata delle sue previsioni, le quali sono inequivocabilmente dirette a stabilire un divieto rivolto indiscriminatamente nei confronti di qualsivoglia “attrezzatura religiosa”, che si tratti di un luogo di culto destinato ad attirare grandi flussi di fedeli o di una modesta sala di preghiera.

14.3 In questo senso, le censure di violazione dei principi di proporzionalità, di non aggravamento del procedimento amministrativo e di buon andamento dell’Amministrazione non colgono nel segno, poiché il provvedimento assunto dal Comune risulta fondato sull’unica interpretazione consentita della legge regionale.
Tali considerazioni assumono invece rilievo, come meglio si dirà nel prosieguo, al fine di corroborare i dubbi che il Collegio nutre in ordine alla legittimità costituzionale delle disposizioni contenute all’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nei sensi di cui si dirà più oltre.
15. Alla luce delle censure sin qui scrutinate, il provvedimento di autotutela assunto dal Comune risulta, dunque, correttamente fondato sul presupposto dell’illegittimità del permesso di costruire n. 17/2015, poiché è effettivamente riscontrabile un contrasto del titolo edilizio con le previsioni di legge regionale più volte richiamate.
...
18. Fin qui, tutti i motivi di ricorso trattati, a giudizio del Collegio, non meritano accoglimento.
Rimane, tuttavia, da scrutinare il quinto motivo, con il quale l’Associazione ricorrente lamenta l’illegittimità costituzionale dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nonché il contrasto della stessa previsione con la direttiva 2000/43/CE del 29.06.2000 (“Direttiva del Consiglio che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica”).
18.1 Al riguardo, deve anzitutto escludersi che possa ravvisarsi un profilo di incompatibilità della disciplina normativa con la direttiva ora richiamata.
In disparte ogni altra considerazione, deve infatti osservarsi che il campo di applicazione della direttiva è limitato agli ambiti indicati all’articolo 3.
Secondo la ricorrente, l’edilizia religiosa sarebbe preordinata alla fornitura di un “servizio”. Con tale affermazione, la parte implicitamente richiama la fattispecie di cui al comma 1, lett. h), del suddetto articolo 3, ove si afferma che la direttiva si applica “all'accesso a beni e servizi che sono a disposizione del pubblico e alla loro fornitura, incluso l'alloggio”.
Il riferimento, tuttavia, non è da ritenere pertinente, atteso che lo stesso articolo 3 reca disposizioni operanti “Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità”, e quindi trova applicazione con riferimento alla sola dimensione del mercato unico europeo; dimensione che non presenta alcuna attinenza con l’esercizio delle libertà religiose. In questa prospettiva, il termine “servizi”, contenuto nella locuzione sopra riportata, va perciò inteso in senso strettamente economico e non può, conseguentemente, includere l’edilizia religiosa, né comunque le condizioni per l’esercizio di un culto.
Ne deriva che non si pone neppure il problema di verificare l’effettiva compatibilità della disciplina di legge regionale con la direttiva, questione peraltro dedotta dalla ricorrente in termini del tutto generici e apodittici.
18.2 Il Collegio ritiene, invece, di dover condividere i dubbi sulla legittimità costituzionale dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nei sensi e nei limiti che si esporranno di seguito, e di dover quindi rimettere la soluzione delle relative questioni alla Corte costituzionale.
18.3 Va, conseguentemente, rinviata all’esito del giudizio della Corte anche la domanda di risarcimento del danno, pure proposta dall’Associazione ricorrente.
19.
Il Collegio dubita, in particolare, della compatibilità dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 03.02.2015, n. 2, con gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione.
20. In punto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, il Collegio evidenzia che sono stati trattati e ritenuti non meritevoli di accoglimento tutti i motivi di impugnazione proposti dalla parte, a eccezione del tema della legittimità costituzionale delle previsioni di legge regionale applicate dal Comune.
Conseguentemente, la decisione della causa dipende esclusivamente dalla soluzione della questione attinente alla legittimità costituzionale delle previsioni dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, sulla cui base è stato assunto il provvedimento di autotutela censurato nel presente giudizio.
Il suddetto motivo di censura è rilevante, atteso che le ragioni di interesse pubblico all’annullamento, che –come sopra illustrato– il Comune ha indicato nel provvedimento impugnato non sono da sole sufficienti a sorreggere l’eliminazione del permesso di costruire già rilasciato in favore della ricorrente. L’esercizio del potere di autotutela richiede, infatti, ai sensi dell’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990, anzitutto l’illegittimità del provvedimento annullato. E, come detto, l’accertamento di tale profilo riposa esclusivamente nella soluzione delle questioni di legittimità costituzionale prospettate nei confronti della legge regionale.
Da tali questioni dipende, perciò, l’esito del giudizio.
21. Sempre in punto di rilevanza, il Collegio deve prendere in considerazione la portata della legge regionale 25.01.2018, n. 5, recante “Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge.”, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia del 29.01.2018, Supplemento n. 5.
La suddetta legge reca, all’articolo 2 –dedicato alla “Abrogazione di leggi”– la previsione secondo la quale “A decorrere dall’entrata in vigore della presente legge sono o restano abrogate: ...b) le seguenti leggi o disposizioni operanti modifiche alla legislazione regionale... 69) L.R. 03.02.2015, n. 2 (Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi);”.
E’ stata, dunque, disposta l’abrogazione della legge regionale n. 2 del 2015, che –come più volte ripetuto– ha novellato la legge regionale n. 12 del 2005, dettando la disciplina applicata dal provvedimento impugnato nel presente giudizio.
Occorre, dunque, domandarsi se tale previsione possa influire sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si intendono rimettere alla Corte costituzionale.
21.1 Il Collegio rileva, anzitutto, che il provvedimento impugnato nel presente giudizio è precedente alla legge regionale n. 5 del 2018, per cui la sua legittimità va valutata in base al quadro normativo vigente al tempo della sua adozione.
Conseguentemente, la norma regionale abrogatrice sopravvenuta non potrebbe comunque far venire meno la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale relative al testo della legge n. 12 del 2005, nella formulazione in vigore quando è stato rilasciato il permesso di costruire annullato, e anche al tempo della determinazione di autotutela qui censurata.
21.2 In ogni caso, è pure da escludere che la legge regionale n. 5 del 2018 abbia modificato l’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, il quale è da ritenere a tutt’oggi vigente nel tenore risultante dalle modificazioni apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015.
L’operazione disposta dal legislatore regionale è stata, infatti, di mero riordino legislativo, come risulta chiaramente dall’articolo 1 della legge regionale n. 5 del 2018, ove, nell’indicare le finalità dell’intervento normativo, si enuncia che “La presente legge opera interventi di manutenzione e razionalizzazione tecnica dell'ordinamento regionale attraverso interventi abrogativi di leggi o di disposizioni di legge. Per tutte le disposizioni oggetto di abrogazione sono fatti salvi gli effetti secondo quanto previsto dall'articolo 4.”.
Il richiamato articolo 4 stabilisce, a sua volta, che “Sono fatti salvi gli effetti prodotti o comunque derivanti dalle leggi e dalle disposizioni abrogate dalla presente legge, comprese le modifiche apportate ad altre leggi. Restano pertanto confermate, in particolare, le autorizzazioni, le variazioni, i rifinanziamenti e ogni altro effetto giuridico, economico o finanziario prodotto o comunque derivante dalle disposizioni in materia di bilancio, nonché le variazioni testuali apportate alla legislazione vigente dalle leggi abrogate dalla presente legge, ove non superate da integrazioni, modificazioni o abrogazioni disposte da leggi intervenute successivamente. Trova inoltre applicazione, per le leggi di cui all'articolo 3, anche quanto previsto dall'articolo 24, comma 2, della L.R. 29/2006”.
Il legislatore regionale ha, cioè, inteso eliminare le leggi enumerate –tra le quali la legge n. 2 del 2015– intese esclusivamente quali atti fonte, ossia quali “veicoli” delle modificazioni apportate ad altre leggi; “veicoli” che hanno sostanzialmente esaurito i loro effetti con l’introduzione stessa delle novelle. Le leggi modificate non sono state, invece, toccate dall’intervento di riordino, il quale non ha inteso apportare alcuna variazione sostanziale al corpus legislativo regionale.
21.3 Deve, perciò, confermarsi la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si passa a esporre.
22. Come detto, il Collegio dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale n. 12 del 2015, come modificata dalla legge regionale n. 2 del 2015.
22.1 In particolare,
il comma 1 dell’articolo 72 stabilisce che “Le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all'articolo 70”.
Il successivo comma 2 aggiunge, poi, che “L'installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all'articolo 70”.

22.2
Dalla lettura di tali previsioni, discende che:
   - la realizzazione di ogni e qualsivoglia attrezzatura religiosa deve trovare necessariamente previsione in un apposito Piano comunale, costituente un atto separato facente parte del Piano dei Servizi (articolo 72, comma 1), che a sua volta è l’atto, componente il Piano di Governo del Territorio, deputato ad “assicurare una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale, le eventuali aree per l'edilizia residenziale pubblica e da dotazione a verde, i corridoi ecologici e il sistema del verde di connessione tra territorio rurale e quello edificato, nonché tra le opere viabilistiche e le aree urbanizzate ed una loro razionale distribuzione sul territorio comunale, a supporto delle funzioni insediate e previste”, in base a quanto previsto dall’articolo 9 della stessa legge regionale n. 12 del 2005;
   - in assenza del suddetto Piano, nessuna “attrezzatura religiosa” è realizzabile (articolo 72, comma 1) e, anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di fuori delle aree a ciò specificamente destinate (comma 1), indipendentemente dalla circostanza che si tratti: di edifici di culto o di altre attrezzature religiose, secondo l’ampia definizione di cui all’articolo 71, comma 1, della legge regionale; di attrezzature necessarie per assicurare la dotazione di standard di urbanizzazione secondaria di insediamenti esistenti o da realizzare, ovvero di luoghi di culto che privati cittadini chiedano liberamente di poter realizzare, al fine di professare collettivamente la propria religione; di strutture di grandi dimensioni, destinate a determinare un largo afflusso di fedeli, ovvero di semplici sale di culto, dedicate a una frequentazione limitata a poche decine di persone; di edifici realizzati a iniziativa pubblica o con contributi pubblici, ovvero a iniziativa del tutto privata.

22.3 Secondo l’avviso del Collegio,
le suddette previsioni sono di dubbia legittimità costituzionale, come meglio si dirà nel prosieguo, in quanto preordinano una completa e assoluta programmazione pubblica della realizzazione di “attrezzature religiose”, in funzione delle “esigenze locali” –rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune– a prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere, e persino della loro destinazione alla fruizione da parte di un pubblico più o meno esteso, introducendo così un controllo pubblico totale, esorbitante rispetto alle esigenze proprie della disciplina urbanistica, in ordine all’apertura di qualsivoglia spazio destinato all’esercizio del culto (o anche di semplici attività culturali a connotazione religiosa).
22.4 Va, invece, evidenziato che non è specificamente rilevante nel presente giudizio l’eventuale illegittimità costituzionale del comma 5 dello stesso articolo 72, ove si stabilisce che “I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi". Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT”.
La suddetta disposizione potrebbe apparire di dubbia legittimità costituzionale, laddove indica come meramente facoltativa l’adozione del Piano delle attrezzature religiose entro il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, stabilendo che, superato tale termine, all’approvazione del Piano si provveda soltanto in occasione della nuova pianificazione comunale.
Nella presente controversia si fa questione, tuttavia, dell’annullamento in autotutela di un permesso di costruire rilasciato prima del decorso del termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, ossia in un momento in cui il Comune di Castano Primo sarebbe stato ancora in termini per sospendere l’iter di rilascio del titolo edilizio e adottare il Piano deputato all’inserimento sul territorio di nuove attrezzature religiose. Non è perciò idonea a influire sull’esito del giudizio la specifica questione attinente all’obbligatorietà o facoltatività del suddetto piano e alle conseguenze della sua mancata adozione entro il predetto termine di diciotto mesi.
Anche laddove il Piano fosse stato obbligatorio, infatti, il Comune sarebbe stato in tempo per adottarlo e, quindi, il permesso di costruire rilasciato prima dei diciotto mesi sarebbe comunque illegittimo.
23. Così perimetrato l’ambito delle questioni rilevanti, in relazione alla portata delle disposizioni regionali che si sottopongono allo scrutinio della Corte costituzionale, deve passarsi a illustrare compiutamente le ragioni per le quali si ritengono tali questioni non manifestamente infondate.
23.1 A giudizio del Collegio, l’equivoco di fondo da cui muove l’impostazione seguita dal legislatore regionale è che le “attrezzature religiose”, delle quali gli edifici di culto sono una species, debbano essere trattate solo ed esclusivamente quali opere di urbanizzazione secondaria (articolo 71, comma 2), da inserirsi nel contesto urbano mediante un apposito Piano comunale che ne stabilisce sia la localizzazione che il dimensionamento (articolo 72, commi 1 e 2). E ciò prescindendo dalle caratteristiche del singolo intervento, dalla circostanza che tali attrezzature siano o non siano strettamente necessarie ad assicurare la dotazione di standard urbanistici funzionale a un dato insediamento residenziale, e persino dalla destinazione di tali opere a una più o meno estesa fruizione pubblica.
23.2 Che sia così, e che nessun’altra interpretazione della legge regionale sia consentita, in base alla lettera e alla ratio delle previsioni di legge, si evince chiaramente dalla circostanza che l’articolo 71, comma 1, riferendosi alle “attrezzature religiose di interesse comune”, include tra tali attrezzature tutti gli edifici aventi una determinata destinazione urbanistica –edifici di culto, abitazioni di ministri di culto, attività di formazione religiosa, sedi di associazioni culturali connotate da finalità religiose– a prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere e dalla loro specifica preordinazione al fine di assicurare la richiesta dotazione di opere di urbanizzazione secondaria in favore di un dato insediamento.
E tale necessaria lettura della legge regionale è ulteriormente comprovata dalla circostanza che tale previsione si salda con quella dell’articolo 72, comma 2, laddove, nell’introdurre il nuovo Piano delle attrezzature religiose, si stabilisce che “nessuna nuova attrezzatura religiosa” possa essere installata in assenza del Piano.
Infine, l’interpretazione ora evidenziata, oltre a essere l’unica compatibile con la lettera e con la ratio della legge regionale, è anche quella accolta nella prassi amministrativa, fondata sulla circolare regionale 20.02.2017, n. 3 (“Indirizzi per l’applicazione della legge regionale 03.02.2015, n. 2 «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»”, pubblicata sul BURL, Supplemento ordinario, 22.02.2017, n. 8).
23.3 Tale impostazione, tuttavia, finisce per determinare l’accentramento in capo all’Amministrazione locale della scelta in ordine a tempi, luoghi e distribuzione tra le varie confessioni religiose dei luoghi di culto che si prevede di aprire sul territorio, senza consentire, al di fuori di tale rigida predeterminazione, avocata alla mano pubblica, neppure la realizzazione, a iniziativa privata e in aree comunque idonee dal punto di vista urbanistico, di modeste sale di preghiera.
In altri termini, il presupposto su cui si fonda l’intera architettura della disciplina regionale lombarda in materia di edifici di culto consiste nell’individuazione di una corrispondenza biunivoca tra le “attrezzature religiose di interesse comune”, di cui all’articolo 71, comma 1, costituenti opere di urbanizzazione secondaria, e le “attrezzature religiose” di cui all’articolo 72, di modo che tutte tali attrezzature sono trattate allo stesso modo, ossia quali opere di urbanizzazione secondaria soggette alla necessaria previa programmazione comunale. E ciò a prescindere dalla circostanza che il loro inserimento nel territorio debba essere effettivamente preordinato dall’Amministrazione, al fine di assicurare la proporzionata dotazione di standard di urbanizzazione secondaria a servizio di insediamenti residenziali, ovvero che si tratti di libere iniziative di enti religiosi, comunità di fedeli o gruppi di cittadini, al solo scopo di assicurare ai fedeli che intendano praticare un dato culto di disporre di un luogo idoneo a praticarlo collettivamente.
24.
Il Collegio è dell’avviso che tale impostazione collida anzitutto con l’articolo 19 della Costituzione.
24.1 Secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, “Con l'art. 19 il legislatore costituente riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, col solo e ben comprensibile, limite che il culto non si estrinsechi in riti contrari al buon costume. La formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l'apertura di templi ed oratori e la nomina dei relativi ministri.” (sentenza n. 59 del 1958).
Proprio con riferimento alla legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, come modificata dalla legge regionale n. 2 del 2015, la Corte ha poi ribadito il proprio costante insegnamento, evidenziando che “Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione” e che “L’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume.” (sentenza n. 63 del 2016).
24.2 Ciò posto, non si intende ovviamente negare –né si dubita– che la Regione, nell’esercizio della propria potestà legislativa in materia di “governo del territorio”, attribuitale dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, possa dettare una disciplina legislativa specificamente dedicata all’inserimento urbanistico delle attrezzature religiose e degli edifici di culto. Questo aspetto è stato affermato dalla Corte, tra l’altro, nella richiamata sentenza n. 63 del 2016.
La Corte ha, tuttavia, rimarcato che la legislazione regionale in materia di edilizia del culto “trova la sua ragione e giustificazione –propria della materia urbanistica– nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” (sentenza n. 195 del 1993, richiamata dalla sentenza n. 63 del 2016) e che “Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione” (sentenza n. 63 del 2016).
24.3 Come detto, l’articolo 72, commi 1, 2 e 5 della legge regionale n. 12 del 2005 istituiscono un sistema nel quale le attrezzature religiose di qualsivoglia natura, inclusi i luoghi di culto, devono essere necessariamente realizzati nelle aree e negli immobili stabiliti dal Comune, al quale spetta, per questa via, ogni discrezionalità in ordine all’apertura di luoghi di culto, pubblici o privati, sul proprio territorio.
Deve, inoltre, ricordarsi che, in base al comma 1 dell’articolo 72, il dimensionamento e la disciplina di tali attrezzature sono stabilite dal Comune “sulla base delle esigenze locali”. Locuzione, questa, su cui anche la Corte ha richiamato l’attenzione, nella sentenza n. 63 del 2016, pur evidenziando che la previsione del comma 1 dell’articolo 72 non era stata sottoposta al suo sindacato.
24.3.1 Ora, l’impostazione seguita dal legislatore regionale non porrebbe dubbi di compatibilità con l’articolo 19 della Costituzione, ad avviso del Collegio, se il Piano delle attrezzature religiose intervenisse al solo scopo di censire le attrezzature esistenti aperte al pubblico, verificare il fabbisogno di ulteriori attrezzature, e provvedere conseguentemente.
In questi termini, la previsione sarebbe effettivamente ragionevole e funzionale allo scopo di assicurare l’adeguata dotazione di edifici di culto a servizio degli insediamenti residenziali, che è compito propriamente rientrante tra quelli demandati al Piano dei Servizi. In questa prospettiva, sarebbe anche ragionevole il dimensionamento delle attrezzature religiose in base alle esigenze riscontrate localmente. La stessa Corte costituzionale ha, infatti, affermato che, “come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo”, nella ponderazione rimessa al Comune “si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione” (sentenza n. 63 del 2016).
24.3.2 La disciplina regionale, tuttavia, si spinge oltre tale obiettivo, stabilendo che –in assenza o comunque al di fuori delle previsioni del Piano delle attrezzature religiose– non sia consentita l’apertura di alcuna attrezzatura religiosa, a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica opera.
Per questa via, si determina un ostacolo di fatto al libero esercizio del culto, poiché la possibilità di esercitare collettivamente e in forma pubblica i riti non contrari al buon costume –garantita dalla Costituzione– viene a essere subordinata alla pianificazione comunale e, quindi, al controllo pubblico.
Ciò, secondo l’avviso del Collegio, determina un’indebita limitazione della libertà di religione, perché:
   - è fisiologico che la programmazione comunale intervenga necessariamente con cadenze periodiche pluriennali (quelle tipiche della pianificazione); circostanza, questa, che di per sé determina un differimento nella possibilità di soddisfare le esigenze di culto della collettività;
   - come detto, il Piano dei Servizi è deputato a operare il dimensionamento delle attrezzature religiose, in base alla situazione del contesto, e non garantisce la previsione di luoghi di culto per tutti gli enti di confessioni religiose o per le singole comunità di fedeli.
Tuttavia, la libertà di esercizio collettivo del culto, assicurata dall’articolo 19 della Costituzione, non può risentire in termini così stringenti della programmazione urbanistica, né è assicurata soltanto ai culti dotati di una determinata rappresentatività in ambito locale. Al contrario, la Costituzione garantisce l’esercizio pubblico del culto, con il solo limite del rispetto del buon costume, anche una comunità composta da pochi fedeli (come nel caso oggetto del presente giudizio, ove si fa questione della sede di un’Associazione religiosa cui aderiscono circa sessanta famiglie).
25. Né potrebbe ritenersi che le limitazioni all’apertura di luoghi di culto stabilite dalla legge regionale siano sorrette adeguatamente dallo scopo di assicurare il corretto inserimento sul territorio delle attrezzature religiose.
A giudizio del Collegio, le previsioni normative sopra richiamate appaiono, infatti, eccedenti rispetto allo scopo, in modo tale da far emergere anche la violazione dei fondamentali canoni di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione posti dall’articolo 3 della Costituzione.
25.1 Deve, infatti, tenersi presente che il comma 7 dell’articolo 72 ha stabilito quali caratteristiche costruttive debbano avere le attrezzature religiose e quali dotazioni aggiuntive di parcheggi debbano essere assicurate, in proporzione alle dimensioni della struttura (v. lett. d).
A ciò deve aggiungersi che, in linea di principio, gli edifici religiosi sono funzionali all’insediamento abitativo e, quindi, dovrebbero essere in linea di massima realizzabili negli ambiti urbani ove è previsto l’insediamento della funzione residenziale, o in ambiti prossimi, ferma restando la potestà del Comune di stabilire limitazioni, anche in funzione delle dimensioni della struttura, tenuto conto del contesto locale, nei suoi diversi aspetti (viabilità, parcheggi, e via dicendo).
Tutte le previsioni costruttive e di inserimento urbanistico delle attrezzature religiose ben possono, tuttavia –sulla base delle indicazioni contenute nella legge regionale– trovare adeguata previsione nelle ordinarie prescrizioni degli strumenti urbanistici. E ciò tenuto conto anche della circostanza che l’apertura di un edificio di culto, da un punto di vista di assetto del territorio, appare non differire sensibilmente dalla realizzazione di altri luoghi di aggregazione sociale, quali palestre, case di cura, scuole, centri culturali non aventi finalità religiose, e simili. Per tali diverse strutture non è, tuttavia, stabilita un’analoga rigida programmazione comunale.
In termini più espliciti, si evidenzia che la natura di “opere di urbanizzazione secondaria” è comune –ad esempio– alle scuole. Anche per le scuole la relativa dotazione minima deve essere prevista nel Piano dei Servizi. Ciò, tuttavia, non preclude ai privati la possibilità di aprire liberamente ulteriori scuole e istituti d’istruzione privati, nell’esercizio della libertà costituzionale di insegnamento, purché nel rispetto di tutte le previsioni di piano atte ad assicurare il corretto inserimento di tali strutture nel contesto urbanistico. Non è, invece, previsto che i privati debbano attendere, a tal fine, l’approvazione di un apposito Piano, volto a dimensionare, canalizzare e predeterminare completamente e rigidamente la localizzazione delle scuole e, per questa via, il contenuto dell’intera offerta scolastica sul territorio comunale, persino laddove si tratti dell’apertura di un corso limitato a poche decine o a qualche centinaio di iscritti.
Il differente trattamento riservato, sotto questo profilo, alle attrezzature religiose appare, perciò, del tutto ingiustificato e discriminatorio, rispetto a quello riservato ad altre attrezzature comunque destinate alla fruizione pubblica, potenzialmente idonee a generare un impatto analogo, o persino maggiore, nel contesto urbanistico. E tale trattamento è tanto più sperequato, ove si consideri che la legge regionale n. 12 del 2005 è informata, in linea di massima, al principio del favor verso il libero insediamento delle destinazioni d’uso compatibili con la destinazione di zona, salve le esclusioni stabilite dallo strumento urbanistico (cfr. articoli 51 e 10, comma 3, lett. f), della legge regionale n. 12 del 2005).
25.2 In definitiva, secondo l’avviso del Collegio,
l’avocazione al Comune dell’integrale programmazione della localizzazione e del dimensionamento delle attrezzature religiose finisce per eccedere gli scopi propri della disciplina dell’assetto del territorio comunale, producendo, di fatto, effetti simili all’autorizzazione governativa all’apertura dei luoghi di culto, prevista dall'articolo 1 del regio decreto 28.02.1930, n. 289, già dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 59 del 1958.
26.
La violazione degli articoli 3 e 19 della Costituzione, sotto i profili ora detti, ridonda anche nella lesione dei diritti inviolabili della persona, tutelati dall’articolo 2 della Costituzione (v. Corte cost., sentenza n. 195 del 1993), stante la centralità del credo religioso quale espressione della personalità dell’uomo, tutelata nella sua affermazione individuale e collettiva.
27. Per tutte le ragioni esposte,
questo Tribunale ritiene rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sopra illustrate.
Va, conseguentemente, disposta la sospensione del giudizio e la rimessione delle predette questioni alla Corte costituzionale, ai sensi dell’articolo 23 della legge 11.03.1953, n. 87.
Deve essere rinviata, infine, all’esito della pronuncia della Corte anche la trattazione della domanda di risarcimento del danno, come sopra detto, nonché la decisione in ordine alle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
   - respinge in parte il ricorso, limitatamente a quanto indicato in motivazione;
  
- rimette alla Corte costituzionale le questioni di legittimità costituzionale illustrate in motivazione, relative all’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 03.02.2015, n. 2, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione;
   - dispone, conseguentemente, la sospensione del giudizio;
   - riserva alla sentenza definitiva ogni pronuncia in ordine agli ulteriori profili, nonché in ordine alla regolazione delle spese del giudizio.

gennaio 2018

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: E' rilevante e non manifestamente infondata la questione, che si rimette alla Corte costituzionale, di legittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis, della l.r. della Lombardia n. 12/2005 che recita:
"
1-bis. Ai fini dell’adeguamento, ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all’interno di piani attuativi.".
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal signor Ni.Ca., nato a Treviso il ... e residente a Sondrio, per l’annullamento della deliberazione del Consiglio comunale di Sondrio 28.11.2014 n. 81, d’approvazione di variante del piano di governo del territorio.
...
Premesso:
Il Comune di Sondrio, già dotato del piano di governo del territorio approvato con deliberazione del Consiglio comunale 06.06.2011 n. 40, con deliberazione della giunta comunale del 29.09.2013 ha attivato un procedimento di variante del medesimo piano, comunicandolo alla cittadinanza. In merito sono state avanzate proposte da parte di alcuni cittadini.
L’ente territoriale ha introdotto, inoltre, modifiche alle norme tecniche d’attuazione, alcune delle quali su suggerimento dell’ufficio tecnico comunale.
Fra le modifiche della normativa, in particolare, una riguarda la disciplina delle distanze tra fabbricati “Distanza minima tra edifici”, come dettata dall’art. 3 – “Definizioni urbanistiche ed edilizie”, dell’elaborato “Definizioni e disposizioni generali del Piano di Governo del Territorio".
Nella formulazione originaria, essa stabiliva che “
Nelle aree comprese in ambiti di trasformazione e nelle aree comprese in ambiti del territorio consolidate {Piano delle Regole) la distanza minima tra edifici deve essere pari all’altezza dell'edificio più alto e comunque non inferiore a m 10, fatta eccezione per gli edifici nelle aree comprese in ambiti del territorio urbanizzato di antica formazione per i quali la distanza minima tra edifici non può essere inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”.
A seguito della variante approvata, il testo della disposizione è stato così riformulato: “
Nelle aree comprese in ambiti di trasformazione e in ambiti del territorio consolidate {Piano delle Regole) la distanza minima tra edifici deve essere non inferiore a m 10, fatta eccezione per gli edifici compresi nei tessuti edificati di antica formazione (Taf) per i quali la distanza minima tra edifici non può essere inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale. Limitatamente alle aree comprese in ambiti di trasformazione, la distanza minima deve inoltre essere pari o superiore all’altezza dell’edificio più alto”.
Per effetto della variazione
è stata sottratta all’applicazione della disciplina più restrittiva (quella che impone una distanza minima pari all’altezza dell’edificio più alto), le aree di nuova edificazione comprese all’interno di un ambito territoriale che, secondo la disciplina dettata dalla legge regionale della Lombardia 11.05.2005 n. 12 viene definito “il tessuto urbano consolidato”.
In particolare, la riformulata disposizione è riferita agli ambiti territoriali previsti e disciplinati dagli articoli 18 e 19 delle norme di attuazione del piano delle regole.
Con l’art. 18 vengono definiti alcuni ambiti di espansione edificatoria che, pur compresi nel perimetro territoriale disegnato al fine d’individuare il cosiddetto “tessuto urbano consolidato”, e definiti “tessuti di completamento”, costituiscono vere e proprie aree di espansione edificatoria, dato che ai sensi del comma 1 del predetto art. 18 “Gli ambiti cosi classificati sono rappresentati da parti prevalentemente non edificate, intercluse all’interno del tessuto consolidate di fondovalle o di versante o ai suoi margini.. La loro individuazione sul territorio consente di affermare che si tratta di ambiti privi di edificazione, da assoggettare per la prima volta a processo urbanizzativo ed edificatorio.
Tale risulta la condizione dell’ambito n. 15, adiacente alla proprietà del ricorrente, individuato dall'art. l9, quale ambito assoggettato a piano attuativo obbligatorio. Tale ambito conferma una previsione già presente nel previgente piano regolatore generale approvato negli anni ‘90, laddove era individuata come zona “RT n. 17”, assoggettata a piano attuativo obbligatorio, coinvolgente il medesimo ambito territoriale, assolutamente privo di edificazione e destinato a nuovi insediamenti residenziali, ubicato ai margini estremi dell'aggregato urbano edificato, lungo la strada che introduce alla Valmalenco, caratterizzata da una elevata acclività.
Il citato ambito, individuato nel piano generale del territorio come ambito n. 15 nell’art. 19, conferma la delimitazione dello stesso ambito territoriale individuato nel precedente piano regolatore generale come “RT n. 17”, mai coinvolto in precedenza in processi di urbanizzazione di edificazione, atteso che è stata assoggettata in entrambi gli strumenti urbanistici a piano attuativo, com’è prescritto per tutte le zone che, secondo il decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, devono essere qualificate come zone di espansione.
L’Amministrazione, nella scelta di denominazioni e sigle delle zone territoriali omogenee differenti da quelle dettate nel D.M. n. 1444/1968 (prima RT ora ambito TAC), ad avviso del ricorrente sarebbero state sottratte alla disciplina che detto decreto ha fissato, specialmente per quanto riguarda il regime delle distanze tra fabbricati, che assumono valenza integrativa del codice civile, asseritamente non derogabili dalle norme locali con conseguente richiesta di disapplicazione delle disposizioni di strumenti urbanistici che fissino una distanza tra fabbricati inferiore a quella prevista nel citato DM.
Tutti gli ambiti “Tc” individuati dall’art. 19 del piano generale del territorio sono assoggettati o a piano urbanistico attuativo o a permesso di costruire convenzionato obbligatorio, in considerazione proprio della circostanza che si tratta di ambiti non edificati, da assoggettare per la prima volta ad un processo di urbanizzazione che richiede la preventiva pianificazione di dettaglio, o almeno, ove si tratti di un ambito di più limitata estensione, ad un permesso di costruire corredato da una convenzione obbligatoria, mediante la quale garantire gli stessi effetti del piano attuativo.
A conferma, il ricorrente richiama la circostanza che su 20 ambiti “Tc” individuati e disciplinati dall'art. 19 del piano generale del territorio ben 11 sono soggetti al piano attuativo obbligatorio. Fra essi vi è il n. 15, confinante con la sua proprietà, sulla quale insiste un edificio a destinazione residenziale (individuato in catasto al foglio 31, mappale 319, del Comune di Sondrio), a fronte del quale è in corso di realizzazione un complesso residenziale avente altezza largamente superiore a m 10, che non rispetterebbe la distanza pari all’altezza dell’edificio più alto, come prescritto per le zone omogenee C (parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi che risultino inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità delle zone, totalmente edificate) dall’art. 9, 1° comma, del DM n. 1444/1968.
Il ricorrente evidenzia, poi, che nelle stesse “Norme di Attuazione del Piano delle Regole a1 Capo 2 (articoli 14, 15, 16, 17)” vengono disciplinate le altre porzioni del tessuto urbano consolidato che presentano già una condizione di parziale o compiuta edificazione, per i quali vengono ammessi interventi diretti o perfino piani attuativi all’interno dei quali viene consentita una distanza tra gli edifici minore di quella minima di legge, evidentemente in applicazione di quanto disposto dall’ultimo comma dell'art. 9 del DM 1444/1968.
Tale circostanza fa emergere la presenza, all’interno del tessuto urbano consolidato, di ambiti territoriali molto diversificati fra loro, alcuni dei quali aventi le caratteristiche delle zone di completamento, altri quelle delle zone di espansione.
2. Il ricorrente lamenta che la profonda diversità di condizione oggettiva renda ingiustificata e illegittima la sottrazione al più incisivo regime delle distanze tra fabbricati fissato dall’art. 9 del DM n. 1444/1968 proprio per le zone di nuova edificazione ed urbanizzazione.
Di conseguenza egli impugna la variante del piano generale del territorio di Sondrio, segnatamente la parte mediante la quale ha modificato la disposizione dell’art. 3 relativa alla distanza tra fabbricati riducendo la misura della distanza tra immobili fronteggianti alla sola misura di ml. 10,00 ed escludendo dall’applicazione della maggiore distanza pari all’altezza dell’edificio più alto i nuovi insediamenti previsti nelle cosiddette “zone TAC”, e confermando tale disposizione solo per i nuovi insediamenti in ambiti di trasformazione, senza tener conto del fatto che, invece, per situazioni del genere doveva essere mantenuta la formulazione originaria conforme a1 dispositivo dell'art. 9 del DM n. 1444/1968, data l’identità di condizioni oggettive di ambiti non edificati da assoggettare, per la prima volta, ad un processo di nuova urbanizzazione soggetto a preventiva approvazione di piano attuativo.
A fondamento del ricorso il ricorrente deduce i seguenti motivi di violazione di legge ed eccesso di potere.
1. Violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, in quanto è stato espunto dall’ordinamento urbanistico locale l’obbligo del rispetto della distanza minima pari all’edificio più alto, in relazione ad interventi di nuova edificazione, in asserite “Zone di espansione edificatoria aventi le condizioni oggettive delle Zone C”.
2. Difetto di motivazione e contraddittorietà, perché l’originaria formulazione del PGT in materia di distanze dettava una disposizione univoca, in conformità alla disciplina prevista dal richiamato art. 9 del D.M. n. 1444/1968, avente valenza vincolante in sede di pianificazione. La decisione di modificare la norma generale sarebbe quindi arbitraria, oltre che carente di adeguata motivazione.
3. Difetto di motivazione, contraddittorietà, deviazione dalla funzione. Il ricorrente sostiene che il 29.09.2013, pur in presenza di un PGT approvato (deliberazione del Consiglio comunale n. 40/2011), la giunta comunale ha assunto la determinazione di avviare il procedimento di revisione del PGT con l’esplicita affermazione di aggiornare il piano senza alterarne l’impostazione complessiva originaria e al solo fine di correggere errori materiali riscontrati in fase applicativa. Quindi, la rilevante modifica sul regime delle distanze contestata avrebbe il carattere di norma elusiva di tassativi limiti di legge e foriera di ulteriori situazioni di contrasto con il vigente quadro giuridico di riferimento.
Considerato:
3. L’art. 2-bis del decreto del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001 n. 380 stabilisce che “…le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
La Regione Lombardia, con le modifiche introdotte alla legge urbanistica regionale 11.05.2005 n. 12 con la legge regionale 14.03.2008 n. 4, ha recepito tali indicazioni stabilendo, ai fini dell’adeguamento degli strumenti urbanistici, l’inapplicabilità del citato D.M. n. 1444/1968 fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima di dieci metri, derogabile all’interno dei piani attuativi.
L’art. 9 del D.M. 02.04.n. 1444/1968 dispone che “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a m 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
   - m 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
   - m 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra m 7 e m 15;
   - ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15
”.
L’art. 1-bis della legge regione Lombardia 11.03.2005, n. 12, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), L.R. 14.03.2008, n. 4, prevede che “Ai fini dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all'interno di piani attuativi”.
Il successivo comma 1-ter dispone che “Ferme restando le distanze minime di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile, fuori dai centri storici e dai nuclei di antica formazione la distanza minima tra pareti finestrate, di cui al comma 1-bis, è derogabile per lo stretto necessario alla realizzazione di sistemi elevatori a pertinenza di fabbricati esistenti che non assolvano al requisito di accessibilità ai vari livelli di piano”.
4.
In materia di distanza tra fabbricati, per costante giurisprudenza (da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3093; 08.05.2017 n. 2086; 29.02.2016 n. 856; Corte Cass. civ., sez. II, 14.11.2016 n. 23136), la disposizione contenuta nell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile poiché si tratta di norma imperativa la quale predetermina, in via generale ed astratta, le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
Tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Occorre osservare, poi, che
la disposizione dell’art. 9, n. 2 del D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti o sopraelevazioni di essi: Consiglio di Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse. Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che,
ai sensi dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, avente per oggetto “Disciplina dell’attività urbanistica e suoi scopi” nella formulazione in vigore dal 30.06.2003, i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati nonché i rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, sono imposti ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica).
Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato,
lo stesso art. 9 del D.M. n. 1444/1968 per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti,
il discrimine in tema di distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10 m), nella ‘ratio’ dell’indicato art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente si otterrebbe che, da un lato, l’immobile considerato non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio piano volumetrico.
Anzi,
la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444/1968 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull’esistente.
In conclusione,
in tema di distanze fra costruzioni, l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, “poiché emanato su specifica delega contenuta nell'art. 41-quinquies della legge urbanistica fondamentale 17.08.1942, n. 1150, ha efficacia di legge dello Stato sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti edilizi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass. civ. sez. II, 12.02.2016, n. 2848).
5.
Le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi sono state, da tempo, ricondotte dalla Corte costituzionale nell’ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio (Corte costituzionale, sent. 23.11.2011, n. 309; 01.10.2003, n. 303).
In merito è stato chiarito che “
sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali.
L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall'altro.
La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato
”.
Con specifico riferimento al riparto di competenze in tema di distanze legali, la medesima Corte ha affermato che “
la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio
" (Corte costituzionale, sentenze 03.11.2016 n. 231; 23.01.2013 n. 6; 21.05.2014 n. 134; ordinanza 19.05.2011 n. 173).
Si è affermato di conseguenza che “
nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, ritenuto più volte dotato di “efficacia precettiva e inderogabile” (Corte costituzionale, sent. 10.05.2012, n. 114; ordinanza 19.05.2011, n. 173).
Con rifermento ad eventuali deroghe, la Corte ha ritenuto che tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
In definitiva,
le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
Le richiamate conclusioni sono state ribadite anche a seguito dell’emanazione dell’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98 − e dell’art. 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001.
Ad avviso del giudice costituzionale, invero, la disposizione ha recepito l’orientamento della Corte “inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal D.M. n. 1444/1968 e dell'ammissibilità di deroghe solo a condizione che esse siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenze 20.07.2016 n. 175 e 21.09.2016 n. 178).
6.
L’art. 103, comma 1-bis, della legge della Regione Lombardia n. 12/2005, non affidando l’operatività dei suoi precetti a “strumenti urbanistici” e non essendo funzionale ad un “assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio”, riferisce la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento, quindi anche su singoli edifici, con la conseguenza che essa risulta assunta al di fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di “governo del territorio”, in violazione del limite “dell’ordinamento civile” assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Sotto i delineati profili
la Sezione è dell’avviso che la questione di legittimità costituzionale di cui al comma 1-bis dell’articolo 103 della legge regionale della Lombardia 2005 n. 12, (comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), della legge regionale Lombardia 14.03.2008, n. 4), non sia manifestamente infondata.
Non può dubitarsi, poi, della sua rilevanza atteso che, come emerge dall’esposizione fin qui svolta, la sua applicazione è decisiva ai fini della decisione della controversia in esame.
Dev’essere disposta, conseguentemente, la rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione della predetta questione di legittimità costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede consultiva (Sezione prima), visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, 23 della legge 11.03.1953, n. 87 e l’art. 1, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale 07.10.2008:
   a)
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione, che rimette alla Corte costituzionale, di legittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, nei sensi indicati in motivazione;
   b) dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il presente procedimento (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 22.01.2018 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2017
maggio 2017

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di un intervento di ristrutturazione edilizia attuato mediante sostituzione dell’opera preesistente lo stesso soggiace, ai sensi dell'art. 44 della l.r. Lombardia n. 12/2005, alla corresponsione per intero degli oneri di urbanizzazione.
I commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della l.r. 11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri di calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento alle ristrutturazioni edilizie “non comportanti demolizione e ricostruzione”. Ne deriva, a contrario, che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12 del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “i comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alle d.i.a. oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente presupposto che gli interventi in questione siano, in linea di principio, soggetti all’integrale assolvimento della quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per i Comuni di ridurre la misura della relativa quota di contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli interventi di ricostruzione previa demolizione dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella, all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
In senso contrario non può assumersi come legittimo un calcolo degli oneri di urbanizzazione limitato al solo incremento di superficie traslata dai piani inferiori tenuto conto dell’avvenuta integrale demolizione dei piani interessati (quinto, sesto e settimo) e della loro ricostruzione con altra forma.
Ne è quindi derivata la realizzazione di un organismo edilizio, per quella parte, del tutto nuovo, avente non solo un diverso aspetto esteriore, ma anche caratteristiche completamente diverse di fruibilità interna, derivanti dalla nuove modalità costruttive e dalla superficie aggiunta. L’opera, per quella parte, va quindi considerata unitariamente, e non può invece ritenersi qualificabile come un mero incremento di superficie attraverso un sistema di traslazione di s.l.p..
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1. Il ricorso introduttivo non è meritevole di accoglimento.
2. La società ricorrente contesta la rideterminazione degli oneri di urbanizzazione effettuata dal Comune di Milano attraverso la nota P.G. n. 580848/2015 del 29.10.2015, in quanto a suo giudizio l’intervento di traslazione di superficie dai piani inferiori a quelli superiori (quinto, sesto e settimo piano), dando luogo ad una parziale ristrutturazione con demolizione e successiva ricostruzione, avrebbe potuto determinare l’applicazione della correlata tariffa soltanto alla parte di superficie che si è aggiunta a quella originaria e non anche alla superficie preesistente, da assoggettare alla tariffa prevista per gli interventi di sola ristrutturazione.
Di conseguenza, la somma individuata dagli Uffici comunali a titolo di conguaglio non sarebbe dovuta nella sua integralità, ma soltanto in parte (nella misura di € 127.273,45 piuttosto che di € 281.814,96).
2.1. La prospettazione fornita dalla parte ricorrente non può essere condivisa.
In punto di fatto va evidenziato che dalla documentazione versata in giudizio emerge come l’intervento edilizio relativo ai piani quinto, sesto e settimo dell’immobile abbia avuto quale presupposto la demolizione (della preesistente struttura) fino al terzo piano e la realizzazione dei solai dal quarto piano e oltre in struttura metallica (cfr. Relazione struttura ultimata edificio, in parte ripresa dal Certificato di collaudo statico: all. 10 e 11 del Comune): quindi può convenirsi con la difesa comunale laddove assume che la parte ricorrente abbia eseguito una ristrutturazione di tipo pesante tramite demolizione e (non fedele) ricostruzione dei piani quinto, sesto e settimo.
Di conseguenza, il predetto intervento deve essere assoggettato all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione, come già sostenuto da questa Sezione in una fattispecie similare.
Infatti, i commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri di calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento alle ristrutturazioni edilizie “non comportanti demolizione e ricostruzione”. Ne deriva, a contrario, che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni (cfr. Consiglio di Stato, IV, 22.05.2012, n. 2969, che conferma la sentenza 18.05.2010, n. 1566 di questa Sezione).
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12 del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “i comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alle d.i.a. oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente presupposto che gli interventi in questione siano, in linea di principio, soggetti all’integrale assolvimento della quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per i Comuni di ridurre la misura della relativa quota di contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli interventi di ricostruzione previa demolizione dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella, all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
In senso contrario non può assumersi come legittimo un calcolo degli oneri di urbanizzazione limitato al solo incremento di superficie traslata dai piani inferiori tenuto conto dell’avvenuta integrale demolizione dei piani interessati (quinto, sesto e settimo) e della loro ricostruzione con altra forma.
Ne è quindi derivata la realizzazione di un organismo edilizio, per quella parte, del tutto nuovo, avente non solo un diverso aspetto esteriore, ma anche caratteristiche completamente diverse di fruibilità interna, derivanti dalla nuove modalità costruttive e dalla superficie aggiunta. L’opera, per quella parte, va quindi considerata unitariamente, e non può invece ritenersi qualificabile come un mero incremento di superficie attraverso un sistema di traslazione di s.l.p..
Deve perciò concludersi nel senso che, nel caso di specie, si sia in presenza di un intervento di ristrutturazione edilizia attuato mediante sostituzione dell’opera preesistente, con conseguente soggezione, ai sensi del richiamato articolo 44 della legge regionale n. 12 del 2005, alla corresponsione per intero degli oneri di urbanizzazione (cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 23.03.2015, n. 780) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.05.2017 n. 1218 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2016
ottobre 2016

EDILIZIA PRIVATA: Corte Costituzionale: è illegittima la L.R. Lombardia 7/2012 "salva" ristrutturazioni edilizie ante 30.11.2011 senza rispetto della sagoma.
Con sentenza 21.11.2011 n. 309, la Corte Costituzionale dichiarò l'incostituzionalità:
   • dell’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nella parte in cui escludeva l’applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione; dell’art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui disapplica l’art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) (testo A);
   • dell’art. 22 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica ed integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2010),
confermando la fondatezza della eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal TAR Lombardia con l'ordinanza n. 5122 del 07.09.2010, ossia che non c'é spazio per una definizione di ristrutturazione edilizia diversa da quella indicata dal legislatore nazionale nell'articolo 3 del DPR 380/2011.
Al fine dichiarato di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, nel 2012 la Regione Lombardia intervenne sulla legge n. 12 del 2005 disponendo la salvezza dei permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 nonché le denunce di inizio attività esecutive alla medesima data (Art. 17. "Disciplina dei titoli edilizi di cui all'articolo 27, comma 1, lettera d), della l. r. 12/2005 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011", L.R. 08.04.2012, n. 7, Misure per la crescita, lo sviluppo e l'occupazione).
Adito dalla proprietaria di un immobile, sito nel territorio del Comune di Paderno Dugnano, confinante con un’area nella quale il Comune ebbe ad autorizzare, con permesso di costruire, un intervento di ristrutturazione mediante demolizione dell’edificio esistente e ricostruzione con sagoma diversa, con ordinanza del 05.11.2015 il TAR Lombardia sollevò la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della L.R. 7/2012, in riferimento al Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013, n. 69.
Con sentenza 20.10.2016 n. 224, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della L.R. 7/2012.
Stigmatizzando la norma lombarda, i giudici costituzionali hanno condiviso la fondatezza della questione di illegittimità costituzionale della normativa lombarda sottolineando:
   • che la Corte ha già stigmatizzato (ex plurimis, sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale, interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima;
   • tale è il caso della disposizione impugnata, emanata al dichiarato «fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati» in relazione agli «interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza n. 309 del 2011»;
   • essa, come risulta esplicitamente dal suo tenore letterale, mira a convalidare e a confermare nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in diretta applicazione della precedente normativa regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla citata pronuncia di questa Corte, i cui effetti la disposizione regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare;
   • a nulla rilevano, ovviamente, i mutamenti successivamente intervenuti nella legislazione statale, che hanno rimosso il divieto di alterazione della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie, su cui si fondavano le dichiarazioni di illegittimità costituzionale contenute nella sentenza n. 309 del 2011: come già precedentemente osservato, la questione e la norma che ne costituisce oggetto concernono situazioni anteriori a tale innovazione della legislazione statale e non sono da essa interessate.
Per questi motivi la disposizione impugnata è stata ritenuta costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136 Cost., mentre resta assorbito ogni altro motivo di censura (23.10.2016 - commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7.
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Art. 17, c. 1, l.r. Lombardia n. 7/2012 – Interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sent. Corte Cost. n. 309/2011 – Conservazione degli effetti della norma dichiarata illegittima – Illegittimità costituzionale.
L’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione), nel prevedere, in relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sent. Corte Cost. n. 309 del 2011, che i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (data di pubblicazione della sentenza citata), nonché le denunce di inizio attività esecutive alla medesima data, siano considerati titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, conservando o ripristinando gli effetti della norma dichiarata illegittima.
Essa, infatti, mira a convalidare e a confermare nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in diretta applicazione della precedente normativa regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla citata sentenza n. 309 del 2011, i cui effetti la disposizione regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare.
La disposizione regionale deve pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136 Cost.
(massima tratta da www.ambientediritto.it).
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Considerato in diritto
1.– Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con ordinanza 05.11.2015 (r.o. n. 21 del 2016  - sentenza 05.11.2015 n. 2342), solleva questioni di costituzionalità dell’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione), il quale, in relazione agli «interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza n. 309 del 2011», «al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati», prescrive che i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (data di pubblicazione della sentenza citata), nonché le denunce di inizio attività esecutive alla medesima data, siano considerati titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012.
Ad avviso del rimettente, tale disposizione violerebbe l’art. 136 della Costituzione e l’art. 1 della legge costituzionale 09.02.1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale), in quanto limiterebbe gli effetti per il passato della sentenza di questa Corte n. 309 del 2011, escludendo che la perdita di efficacia delle disposizioni, dichiarate costituzionalmente illegittime da tale sentenza, rilevi per i titoli edilizi rilasciati in base alle stesse disposizioni prima della pubblicazione della sentenza (a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012).
Sarebbe altresì violato l’art. 117, comma terzo, Cost., in relazione all’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – testo A) – nella versione anteriore alle modifiche di cui all’art. 30 del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98 – in quanto verrebbero affermate la validità e l’efficacia di titoli edilizi riferiti a interventi di ristrutturazione di edifici mediante demolizione e ricostruzione con sagoma diversa, in violazione del principio fondamentale della legislazione statale, che la sentenza n. 309 del 2011 ha desunto dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2011, nel testo allora vigente, secondo il quale rientravano nella definizione di ristrutturazione edilizia solo gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all’edificio preesistente.
In subordine, qualora il censurato art. 17, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 7 del 2012 fosse interpretato nel senso (non di affermare la validità e l’efficacia dei titoli edilizi ivi considerati, bensì più limitatamente) di paralizzare in via generale e astratta il potere di autotutela dell’amministrazione in relazione ad atti basati sulle disposizioni legislative dichiarate costituzionalmente illegittime dalla sentenza n. 309 del 2011, sarebbe violato l’art. 97 Cost.: così intesa, la norma regionale sacrificherebbe aprioristicamente la legalità e il buon andamento della pubblica amministrazione, impedendo una comparazione in concreto, in sede di autotutela, tra gli interessi generali e quelli privati coinvolti in ciascuna fattispecie.
2.1.– Preliminarmente, considerato che il rimettente ripropone questioni già sollevate dinanzi a questa Corte, in relazione alle quali è stata disposta la restituzione degli atti (ordinanza n. 35 del 2015), occorre verificare se il giudice abbia assolto all’onere di riesaminare la rilevanza e i termini delle stesse questioni, alla luce delle novità normative, in termini non implausibili (ex plurimis, sentenze n. 162 e n. 46 del 2014, n. 321 del 2011).
La verifica ha esito positivo. Il giudice ha esaminato l’art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla legge n. 98 del 2013, ne ha argomentato il carattere innovativo ed ha escluso la sua applicabilità ai fatti di causa, in particolare perché i provvedimenti impugnati sono anteriori alla nuova normativa. Così facendo, il giudice ha fatto plausibile applicazione del principio secondo cui «lo ius superveniens non può venire in evidenza nel giudizio di costituzionalità sollevato dai giudici amministrativi poiché, secondo il principio tempus regit actum, la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione”» (sentenza n. 49 del 2016; si veda anche sentenza n. 30 del 2016).
2.2.– Neppure osta all’ammissibilità la circostanza che il TAR abbia fatto ampio riferimento alla propria precedente ordinanza di rimessione, integralmente riportata nella nuova, con l’aggiunta di considerazioni, sia pure sintetiche, sul carattere innovativo e non retroattivo dello ius superveniens.
Il giudice rimettente deve fornire, nell’atto di promovimento, un’esauriente ed autonoma motivazione, mentre il mero recepimento di argomenti sviluppati dalle parti o rinvenuti nella giurisprudenza, anche costituzionale, non basta di per sé a chiarire «le ragioni per le quali “quel” giudice reputi che la norma applicabile in “quel” processo risulti in contrasto con il dettato costituzionale» (sentenza n. 22 del 2015). Ciò non impedisce che il rimettente riferisca il contenuto di pronunce della Corte costituzionale o di altri atti del procedimento a quo, purché corroborato da proprie considerazioni con le quali illustri, in relazione al giudizio principale, le ragioni dei dubbi di legittimità costituzionale prospettate a questa Corte (sentenze n. 51 e n. 10 del 2015).
3.–
Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. e all’art. 1 della l. cost. n. 1 del 1948 è fondata.
Questa Corte ha già stigmatizzato (ex plurimis, sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale, interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima.
Tale è il caso della disposizione impugnata, emanata al dichiarato «fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati» in relazione agli «interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza n. 309 del 2011». Essa, come risulta esplicitamente dal suo tenore letterale, mira a convalidare e a confermare nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in diretta applicazione della precedente normativa regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla citata pronuncia di questa Corte, i cui effetti la disposizione regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare.
A nulla rilevano, ovviamente, i mutamenti successivamente intervenuti nella legislazione statale, che hanno rimosso il divieto di alterazione della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie, su cui si fondavano le dichiarazioni di illegittimità costituzionale contenute nella sentenza n. 309 del 2011: come già precedentemente osservato, l’odierna questione e la norma che ne costituisce oggetto concernono situazioni anteriori a tale innovazione della legislazione statale e non sono da essa interessate.
Per questi motivi la disposizione impugnata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136 Cost., mentre resta assorbito ogni altro motivo di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia 18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione) (Corte Costituzionale, sentenza 20.10.2016 n. 224).

EDILIZIA PRIVATA: La Corte costituzionale ritorna sulle conseguenze della violazione del c.d. giudicato costituzionale.
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Corte costituzionale - Giudicato costituzionale – Mantenimento in vigore di norme dichiarate incostituzionali – Incostituzionalità.
E' incostituzionale, per violazione dell'art. 136 Cost., la norma statale o regionale che interviene al fine di mitigare gli effetti di una pronuncia di incostituzionalità, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, quanto previsto dalla norma dichiarata illegittima (fattispecie relativa all'art. 17, comma 1, l.reg. Lombardia 18.04.2012, n. 7 che -in relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 309 del 2011- prescrive che i titoli edilizi rilasciati alla data di pubblicazione della sentenza stessa siano considerati titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012) (1).
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(1)
Con una sentenza tanto snella quanto decisa, la Consulta accoglie una questione di costituzionalità sollevata dal Tar Milano (Sez. II, sentenza 05.11.2015 n. 2342) e con l’occasione ribadisce le regole fondamentali in tema di giudicato costituzionale, in specie rispetto ai limiti per il legislatore (nella specie regionale) che tenti di ridare vita a norme già cadute sotto la censura di incostituzionalità della stessa Corte.
La peculiarità della decisione deriva dal fatto che la norma regionale oggetto di censura costituisce una riedizione di una precedente disposizione già oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale su rimessione del medesimo giudice amministrativo.
Infatti, con sentenza 23.11.2011, n. 309 (in Giur. cost. 2011, 6, 4311 con nota Gorlani, sempre su ordinanza di rimessione del Tar per la Lombardia), la Corte aveva già dichiarato costituzionalmente illegittime una serie di norme regionali, fra cui l'art. 22, l.reg. Lombardia 05.02.2010, n. 7; in particolare tale ultima disposizione –a propria volta recante interpretazione autentica di altra precedente legge regionale del 2005– nello stabilire che la ricostruzione dell'edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma, è stata reputata in contrasto con il riparto di competenza di cui all’art. 117, comma 3, Cost., in materia di governo del territorio, in quanto in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001 t.u. edilizia, che definisce gli "interventi di ristrutturazione edilizia".
Il legislatore regionale, pur dinanzi a tale annullamento, ha adottato la norma oggetto della sentenza in commento, in base alla quale sono dichiarati “validi ed efficaci” i titoli edilizi riguardanti gli interventi edilizi oggetto della succitata sentenza n. 309 del 2011, e cioè gli interventi di ristrutturazione consistenti nella demolizione e ricostruzione senza vincolo di sagoma, a condizione che:
   a) il titolo sia stato rilasciato prima del 30.11.2011;
   b) la comunicazione di inizio lavori sia stata protocollata prima del 30.04.2012.
La Consulta -oltre a censurare l’ultra vigenza di titoli adottati sulla base di una legge dichiarata incostituzionale, per questa via ribadendo la competenza legislativa statale in materia di definizione e classificazione degli interventi edilizi (Corte cost. 09.03.2016, n. 49, in Rivista Giuridica dell'Edilizia 2016, 1-2, I, 8 con nota di STRAZZA, secondo cui: <<Nell’ambito della materia concorrente “governo del territorio”, prevista dall’art. 117, comma 3, cost., i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la d.i.a. e per la s.c.i.a. che, seppure con la loro indubbia specificità, si inseriscono in una fattispecie il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi>>)- conferma la palese illegittimità costituzionale della norma, richiamando i propri precedenti applicativi dell’art. 136 Cost..
In particolare, la Corte ribadisce (da ultimo 16.07.2015 n. 169, in Giustizia civile, 2015, 27 luglio con nota di DI MARZIO) l’inammissibilità di disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale, intervenga al fine di mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima.
Più in generale, sul c.d. giudicato costituzionale merita di essere altresì richiamata la più risalente giurisprudenza costituzionale secondo la quale, perché vi sia violazione del giudicato costituzionale, è necessario che una norma ripristini o preservi l'efficacia di una norma già dichiarata incostituzionale. In particolare il rigore del citato precetto costituzionale impone al legislatore di “accettare la immediata cessazione dell'efficacia giuridica della norma illegittima”, anziché “prolungarne la vita” sino all'entrata in vigore di una nuova disciplina del settore  e che «le decisioni di accoglimento hanno per destinatario il legislatore stesso, al quale è quindi precluso non solo il disporre che la norma dichiarata incostituzionale conservi la propria efficacia, bensì il perseguire e raggiungere, “anche se indirettamente”, esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione
» (19.07.1983, n. 223, in Foro it. 1983, I, 2057).
Per più recenti pronunce in materia di violazione del giudicato costituzionale e sue conseguenze sulla legislazione residua v. Corte cost. 23.04.2013, n. 72, in Foro it., 2014, I, 2273, ivi gli ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza; Cass. pen., sez. un., 28.07.2015, n. 33040, Jazouli, id., 2015, II, 694, con nota di LO FORTE (
Corte Costituzionale, sentenza 20.10.2016 n. 224 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIllegittima la sanatoria lombarda. Ristrutturazioni. La Consulta boccia la legge sulle sagome anteriori al 2013.
Il giudice delle leggi rimprovera la Regione Lombardia, pretendendo il rispetto delle proprie pronunce: con la sentenza 20.10.2016 n. 224 la Consulta dichiara illegittima la legge regionale 7/2012, in materia di ristrutturazione edilizia. La materia del contendere sono le costruzioni realizzate tra il 2011 ed il 2012, ma vi sono tuttavia importanti affermazioni sul potere di autotutela, che in edilizia trova spazio quando si chiede di intervenire su provvedimenti taciti (Scia).
La Corte costituzionale si è occupata del concetto di “sagoma” delle costruzioni: secondo la Regione (Lr 12/2005, articolo 27) le ristrutturazioni (demolizione e ricostruzione) potevano avvenire anche con diversa sagoma, ad esempio con disegno speculare o torrini e piattaforme non presenti nel fabbricato demolito, cosa esclusa dalla sentenza 309/2011 della Consulta perché prevale il Testo unico statale dell’edilizia (380/2001). Secondo la Corte, la Regione ha competenza sul territorio, non sul paesaggio, al quale appartiene il concetto di sagoma.
Nel 2013, il Dl 69 ha rimediato, consentendo ristrutturazioni anche senza il rispetto della sagoma preesistente. Per titoli edilizi con sagome alterate rilasciati prima del Dl, la Lombardia ha varato una sostanziale sanatoria (Lr 7/2012), sulla quale la Consulta ritiene sia stato aggirato il proprio orientamento del 2011.
Se il giudice delle leggi censura una norma, questa perde efficacia fin dall’origine (articolo 136 della Costituzione e 30 della legge 87/1953) e quindi si intende annullata retroattivamente. Solo in rari casi le sentenze della Consulta non hanno un effetto integralmente demolitorio, come avvenuto con la 10/2015 sull’Ires. In questo caso, il contrasto col legislatore lombardo avrà conseguenze limitate: si discute di pochi manufatti e in particolare di un edificio a Besozzo (9mila abitanti in provincia di Varese), demolito e ricostruito con diversa sagoma, generando il ricorso di un vicino proprietario.
L’edificio, secondo il principio espresso dalla Consulta, non può considerarsi sanato dalla legge statale 63/2013 (che ammette oggi ristrutturazioni con diversa sagoma), ma probabilmente potrebbe fruire di una sanzione relativamente modesta. Infatti, pur essendo stato edificato con un titolo illegittimo, potrebbe comunque essere ricostruito con le stesse caratteristiche. Al vicino litigioso spetta solo il risarcimento del danno per il periodo in cui ha subìto il disagio di un fabbricato con sagoma irregolare.
Più delicato il passaggio in cui la Corte si occupa dell’interesse pubblico a reprimere abusi che successivamente siano considerati irrilevanti. Il principio della legge più favorevole è codificato (articolo 2 del Codice penale) per le sanzioni penali. Ma di fatto trova spazio anche nelle vicende amministrative, sotto forma di ragionevole motivazione sull’opportunità di ripristinare una situazione superata da leggi sopravvenute
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ANNO 2015
novembre 2015

EDILIZIA PRIVATAAi sensi degli art. 71, comma 1, c-bis) e 72 L.R. n. 12/2005 Lombardia, l’installazione di attrezzature per servizi religiosi in immobili destinati a sede di associazioni le cui finalità siano da ricondurre alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza della condizione rappresentata dall’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati.
Inoltre, che nel caso di specie il mutamento della destinazione d’uso (da negozio a luogo destinato al culto) è avvenuto in assenza del pur necessario titolo edilizio.
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... per la riforma dell'ordinanza 31.07.2015 n. 1506 del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA, resa tra le parti, concernente ripristino originale destinazione d'uso a negozio nei locali di via Tremana 11, Bergamo;
...
- Considerato che ai sensi degli art. 71, comma 1, c-bis) e 72 L.R. n. 12/2005 Lombardia, l’installazione di attrezzature per servizi religiosi in immobili destinati a sede di associazioni le cui finalità siano da ricondurre alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza della condizione rappresentata dall’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati;
- ritenuto, inoltre, che nel caso di specie il mutamento della destinazione d’uso (da negozio a luogo destinato al culto) è avvenuto in assenza del pur necessario titolo edilizio;
- ritenuto, pertanto, che l’appello proposto dal Comune meriti accoglimento, con conseguente rigetto dell’istanza cautelare proposta in primo grado;
- ritenuto che sussistono i presupposti per compensare le spese della fase cautelare;
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
Accoglie l'appello (Ricorso numero: 8729/2015) e, per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, respinge l'istanza cautelare proposta in primo grado.
Ordina che a cura della segreteria la presente ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita fissazione dell'udienza di merito ai sensi dell'art. 55, comma 10, cod. proc. amm. (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 25.11.2015 n. 5254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn base all’art. 136 della Costituzione “quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.
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L’intervenuta dichiarazione di incostituzionalità ha effetti erga omnes e retroattivi che si dispiegano su tutti i rapporti giuridici, salvo il limite invalicabile del giudicato, e salvo altresì il limite derivante da situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili: la dichiarazione di illegittimità colpisce dunque la norma fin dalla sua origine, eliminandola dall'ordinamento, ricalcandosi così un fenomeno analogo a quello che si verifica in caso di annullamento degli atti giuridici.
In applicazione dell’art. 136 della Costituzione,
la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni di cui all’art. 27, primo comma, lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12 ed all’art. 22 della l.r. 05.02.2010 n. 7, pronunciata con sentenza n. 309/2011, dovrebbe dunque valere anche per il passato.
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Con l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, il legislatore lombardo ha dettato una disposizione che appare in contrasto con gli illustrati principi, stabilendo che “In relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, (…) i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…) devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori …”; e stabilendo quindi, nella sostanza, che, in base a questa norma, la dichiarazione di incostituzionalità non rileva per i titoli edilizi rilasciati in epoca anteriore alla pubblicazione della su indicata sentenza.
Con la disposizione in esame, si è dunque prevista un’ipostesi di sanatoria legislativa diretta ad emendare i titoli rilasciati prima della pubblicazione della sentenza n. 309/2011 dal vizio derivante dell’essere tali atti applicativi di disposizioni dichiarate incostituzionali.
Sembra pertanto sussistere il contrasto con i citati artt. 136 della Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1.
Si deve invero osservare che
la Regione, con la succitata disposizione, ha compresso il potere di autotutela riservato alle autorità comunali, impedendo loro di intervenire sui titoli edilizi già rilasciati per rendere conforme l’attività di trasformazione del territorio alle disposizioni normative vigenti nell’ordinamento.
Tale compressione si pone in antitesi con i principi di legalità buon andamento della pubblica amministrazione sanciti dalla suddetta norma costituzionale, in quanto sacrifica in maniera aprioristica i suddetti valori senza richiedere una preventiva concreta comparazione degli interessi coinvolti nel procedimento di autotutela; comparazione invece normalmente richiesta per giustificare il mantenimento in essere di provvedimenti non conformi a legge.
Esempio emblematico di questo ultroneo sacrifico potrebbe essere dato proprio dal caso in esame, nel quale l’autorità amministrativa ha ritenuto di non potere esercitare il proprio potere di autotutela nonostante la fase esecutiva dell’attività edilizia assentita fosse ferma alla fase iniziale e, dunque, non ancora cristallizzato in capo al privato quell’affidamento che, in astratto, giustifica il mantenimento in essere di un titolo illegittimo.
In conclusione,
ritiene questo Giudice rilevante e non manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo, e 97 della stessa Costituzione.”.

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... per l'annullamento:
- del provvedimento del Comune di Paderno Dugnano, Settore Pianificazione del Territorio, prot. 25093 del 15.05.2012 a mezzo del quale è stata confermata “la validità del permesso di costruire n. 11/10, proprietario sig. Fl.As., alla luce di quanto previsto dalla l.r. n. 7/2012, art. 17, comma 1”;
- di ogni altro atto preordinato, presupposto, consequenziale e/o comunque connesso, ivi compreso il suddetto permesso di costruire n. 11/10 rilasciato al sig. Fl.As..
...
FATTO e DIRITTO
I – In ordine alla vicenda di cui in epigrafe giova, per ogni profilo, riportare integralmente l’intero contenuto della ordinanza di questa Sezione II (ordinanza 20.06.2013 n. 1588 – R.O.C.C. 260), con cui, al tempo, venne rimessa alla Corte Costituzionale la questione di costituzionalità (o meno) relativa al 1° c. dell’art. 17 della l.r. della Lombardia n. 7 del 18.04.2012:
“1. La sig.ra Ro.Ce., odierna ricorrente, è proprietaria di un immobile situato sul territorio del Comune di Paderno Dugnano.
2. L’immobile confina con un’area di proprietà del sig. Fl.As. il quale, in data 09.11.2010, ha ottenuto dal predetto Comune il rilascio di un permesso di costruire per procedere alla ristrutturazione di un edificio ivi insistente.
3. La ricorrente, in data 07.03.2012, ha rivolto all’Amministrazione istanza di autotutela riguardante il suddetto titolo edilizio.
4. Il Comune di Paderno Dugnano, con atto del 15.05.2012, ha respinto l’istanza confermando la validità del permesso di costruire rilasciato.
5. Avverso tale atto ed avverso il citato permesso di costruire è diretto il ricorso in esame.
6. Si sono costituiti in giudizio, per resistere al gravame, il Comune di Paderno Dugnano ed il controinteressato, sig. Fl.As..
7. La Sezione, con ordinanza n. 1188 del 24.08.2012, ha accolto l’istanza cautelare.
8. In prossimità dell’udienza di discussione del merito, le parti costituite hanno depositato memorie, insistendo nelle loro conclusioni.
9. Tenutasi la pubblica udienza in data 03.04.2013, la causa è stata trattenuta in decisione.
10. Come anticipato, con il ricorso in esame, viene impugnato il provvedimento con il quale il Comune di Paderno Dugnano ha respinto l’istanza di annullamento in autotutela di un permesso di costruire rilasciato per la realizzazione di un intervento di ristrutturazione di un edificio ubicato su di un’area attigua a quella di proprietà della ricorrente. Viene altresì impugnato il permesso di costruire, a suo tempo rilasciato al controinteressato.
11. L’intervento oggetto del titolo edilizio avrebbe consentito la demolizione e la ricostruzione dell’edificio con sagoma diversa rispetto a quella originaria.
12. Secondo la parte ricorrente l’illegittimità del titolo edilizio dipenderebbe proprio da quest’ultimo elemento, non essendo ammissibili, a suo dire, interventi classificati come ristrutturazione che comportino la demolizione e la ricostruzione di manufatti senza il rispetto della sagoma originaria.
13. Nell’istanza di autotutela, peraltro, l’interessata ha invocato la sentenza della Corte Costituzionale 21.11.2011 n. 309, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni contenute nell’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12/2005, come interpretato dall’art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7/ 2010, il quale definisce ristrutturazione edilizia gli interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma. In particolare, tali disposizioni sono state ritenute dalla Corte in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, il quale esclude che possa parlarsi di ristrutturazione nel caso in cui la ricostruzione dell’immobile sia effettuata senza il vincolo di sagoma, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
14. Con il provvedimento di rigetto dell’istanza, l’Amministrazione intimata ha rilevato che, nonostante l’intervento della Corte Costituzionale, l’annullamento del permesso di costruire a suo tempo rilasciato al controinteressato non poteva essere disposto; e ciò in ragione del sopravvenuto art. 17, primo comma, della l.r. n. 7/2012, in forza del quale i titoli edilizi riguardanti gli interventi oggetto della suindicata pronuncia, rilasciati prima del 30.11.2011 e per i quali sia stata protocollata comunicazione di inizio lavori prima del 30.04.2012, debbono ritenersi comunque validi.
15. L’interessata, nel proprio ricorso, sostiene che la norma regionale da ultimo citata sia, e debba essere dichiarata, incostituzionale per contrasto con l’art. 136 Cost. e per contrasto con il principio di retroattività delle sentenze emanate dalla Corte Costituzionale.
16. Prima di affrontare i profili di costituzionalità, dai quali dipende, per come sarà spiegato, l’esito del giudizio, è tuttavia necessario ricostruire il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
17. In base alla definizione data dall’art. 27, primo comma, lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12, sono ricompresi fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quegli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale dell’edificio nel rispetto della volumetria preesistente.
18. La norma, a differenza dell’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, non richiede espressamente che la ricostruzione debba avvenire nel rispetto della sagoma originaria.
19. La giurisprudenza di questo Tribunale aveva proposto (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 16.01.2009 n. 153) una interpretazione armonizzatrice delle due disposizioni, stabilendo che anche per la normativa regionale il rispetto della sagoma fosse requisito imprescindibile ai fini della definizione di ristrutturazione edilizia; e che la mancata esplicita previsione in tal senso da parte della legislazione regionale dovesse considerarsi lacuna colmabile attraverso l’applicazione della norma statale.
20. Questa giurisprudenza è stata però sconfessata dall’art. 22 della l.r. 05.02.2010 n. 7 (recante “Interpretazione autentica dell’articolo 27, comma 1, lett. d), della legge regionale 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»), il quale ha espressamente previsto che, per la legislazione lombarda, ai fini della definizione di ristrutturazione edilizia, la ricostruzione dell’edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma.
21. Come già anticipato, queste disposizioni sono state censurate dalla Corte Costituzionale, la quale, partendo dal presupposto che l’edilizia costituisce materia di legislazione concorrente ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost., con sentenza 21-23.11.2011, n. 309, ha affermato che le disposizioni recate dalla normativa statale in materia di definizione e classificazione degli interventi edilizi costituiscono norme di principio; e che quindi la legislazione regionale non può discostarsi da esse senza scontare il contrasto con la predetta norma costituzionale.
22. Applicando le statuizioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale il ricorso potrebbe essere, quindi, accolto, giacché con esso l’interessata lamenta proprio che il Comune, in applicazione della normativa regionale dichiarata incostituzionale, abbia assentito un intervento di ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un edificio senza il rispetto della sagoma originaria.
23. Nel suddetto quadro legislativo si è tuttavia inserito l’art. 17, comma 1, della l.r. 18.04.2012 n. 7, in base al quale “In relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…) devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012”.
24. Questa norma, come si vede, dichiara testualmente “validi ed efficaci” i titoli edilizi riguardanti gli interventi oggetto della succitata sentenza n. 309/2011, e cioè gli interventi di ristrutturazione consistenti nella demolizione e ricostruzione senza vincolo di sagoma, a condizione: 1) che il titolo sia stato rilasciato prima del 30.11.2011; 2) che la comunicazione di inizio lavori sia stata protocollata prima del 30.04.2012.
25. Il Collegio si è interrogato, innanzitutto, sull’interpretazione da dare alla norma, per stabilire se di essa si potesse dare una lettura costituzionalmente orientata, tale da escludere la rilevanza della sollevata questione ed evitare un rinvio il cui esito appariva altrimenti scontato.
26. Si sarebbe potuto, infatti, ritenere che, con tale disposizione, il legislatore lombardo avesse semplicemente inteso affermare la persistente efficacia, sino a rimozione giurisdizionale o amministrativa, dei titoli rilasciati; e ciò nonostante l’intervento della Corte Costituzionale sulle norme cui essi danno applicazione.
27. Letta così la norma non avrebbe affermato nulla di più di quanto la dottrina pacificamente sostiene in ordine agli effetti delle sentenze della Corte, che nonostante l’effetto retroattivo delle sue pronunce non travolge né i rapporti conclusi e le situazioni ormai consolidate né, ex se, i provvedimenti adottati dall’amministrazione in base alla norma dichiarata incostituzionale. L’effetto delle sentenze della Corte che rimuovono le norme incostituzionali implica infatti che, in tutte le situazioni in cui i provvedimenti emessi (legittimamente) prima della caducazione della norma sottostante continuino a produrre effetti (non inerendo a un rapporto concluso), l’amministrazione ha il dovere di intervenire in autotutela e di rimuoverli, poiché il principio di affidamento, che pure è un valore costituzionalmente garantito, cessa di essere tale nello stesso momento in cui esso non poggia più su atti legittimi.
28. Se alla norma in questione si fosse data questo significato, per vero assai riduttivo, sterilizzandola da ogni volontà di intervenire per sanare tutti gli abusi commessi prima e dopo la pronuncia della Corte, la conclusione avrebbe potuto essere nel senso che, avendo l’amministrazione intimata richiamato tale norma indicandola espressamente come l’ostacolo all’esercizio del potere di autotutela, il Collegio avrebbe definito il giudizio annullando il provvedimento impugnato per il vizio (ove dedotto) di violazione e/o erronea applicazione di detta norma.
29. Questo esito non è invece possibile, con tutto quanto ne consegue ai fini della rilevanza della questione di costituzionalità che si verrà esponendo, perché l’interpretazione costituzionalmente aderente in precedenza profilata si scontra, a giudizio del Tribunale,, con due argomenti ineludibili quanto dirimenti.
30. Il primo è di carattere letterale: come visto, l’art. 17 cit. non si limita a predicare l’efficacia dei titoli rilasciati ma anche la loro validità (la norma afferma testualmente che i permessi di costruire debbono intendersi “validi ed efficaci”) sottendendo quindi che essi sono intangibili per l’amministrazione che intendesse intervenire in autotutela..
31. Il secondo argomento si basa su criteri logici di interpretazione, ed in particolare sul principio secondo il quale occorre dare alla legge, se possibile, un significato utile. In proposito si osserva che, ove la previsione, come già sopra rilevato, si limitasse a rimarcare la persistente efficacia dei titoli rilasciati, la stessa dovrebbe considerarsi del tutto inutile posto che, già per costante insegnamento giurisprudenziale, la dichiarazione di incostituzionalità di una legge non travolge automaticamente il provvedimento che ne dà applicazione (cfr. Consiglio di Stato, ad plen., 08.04.1983 n. 8).
32. Va peraltro osservato che questa interpretazione limitativa non è stata minimamente seguita dall’Amministrazione intimata, la quale ha ritenuto che l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, lungi dal limitarsi a confermare l’efficacia del titolo in concreto rilasciato, avesse effetto paralizzante sull’esercizio dei propri poteri di autotutela e per questa sola ragione ha respinto l’istanza della ricorrente.
33. Occorre quindi, perché altro non resta, esaminare la seconda opzione ermeneutica.
34. Orbene, se per dare un diverso senso alla norma, si deve ritenere, come ha fatto il Comune di Paderno Dugnano, che la stessa sia volta ad evitare l’annullamento dei titoli ormai rilasciati, allora è chiaro che, indipendentemente dalle modalità con tale effetto si realizza, il suo significato e la sua efficacia deve intendersi nel senso della volontà del legislatore regionale di sanare il titolo edilizio rilasciato in spregio alla (o per meglio dire privando di efficacia la) declaratoria di incostituzionalità contenuta nella sentenza n. 309/2011.
35. Così argomentando altro non può ritenersi se non che il legislatore regionale, con l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, abbia voluto sanare ex post, in via legislativa, i provvedimenti divenuti illegittimi a seguito della suddetta pronuncia di incostituzionalità, impedendo quindi, non solo all’amministrazione ma anche al giudice, di pronunciarne l’annullamento.
36. Tale interpretazione, peraltro è anche la più aderente al dato letterale della norma atteso che, come già rilevato, la stessa afferma testualmente che i titoli rilasciati prima della sentenza della Corte (sia pure a determinate condizioni) debbono considerarsi “validi”.
37. Seguendo questa impostazione si potrebbe prospettare anche una lettura della norma, utile ai soli fini della prospettazione della non manifesta rilevanza della questione di costituzionalità, per cui la volontà del legislatore regionale non fosse tanto quella di introdurre un’ipotesi di sanatoria ex lege, quanto quella di intervenire surrettiziamente sul potere di autotutela riservato all’autorità amministrativa, formulando una valutazione astratta di prevalenza dell’interesse del privato al mantenimento in essere dell’atto rilasciato su quello pubblico volto al ripristino della legalità violata.
38. La disposizione in esame inciderebbe, in questo caso, con effetti paralizzanti, solo sul potere di autotutela. Ma l’effetto paralizzante non sarebbe provocato dalla sanatoria dell’atto illegittimo (che conserverebbe la propria illegittimità e sarebbe per ciò annullabile in sede giurisdizionale) ma dalla suindicata astratta valutazione di prevalenza dell’interesse privato su quello pubblico volto all’annullamento; il che si dedurrebbe dando significativo rilievo all’inciso “al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati”, contenuto nell’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012.
39. Illustrato in tal modo il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, il Collegio deve osservare come, seguendo la seconda delle opzioni ermeneutiche sopra proposte (come detto la prima non regge, se non alle condizioni forzate sopra descritte), la questione di legittimità costituzionale del suddetto art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012 sia, all’evidenza, rilevante e non manifestamente infondata.
40. Prima di procedere oltre occorre, però, un’ulteriore precisazione. Poiché come già detto, il Collegio ritiene che l’interpretazione più aderente al dato letterale e, dunque, più plausibile dell’art. 17 sia quella che attribuisce ad esso (direttamente o indirettamente) effetti sananti, le argomentazioni che verranno sviluppate nel prosieguo muoveranno dal presupposto ovvio che si segua questa interpretazione. In alcuni specifici passaggi si darà peraltro conto delle questioni che si pongono qualora si ritenga che la disposizione abbia solo effetto paralizzante del potere di autotutela.
41. Ciò premesso, per ciò che concerne il profilo della rilevanza si osserva quanto segue.
42. Come anticipato, con l’atto di archiviazione del procedimento di autotutela qui impugnato, il Comune di Paderno Dugnano ha consentito la realizzazione di una ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un edificio senza il rispetto del vincolo di sagoma.
43. Applicando la normativa in vigore prima dell’introduzione dell’art. 17 cit., come risultante a seguito della pronuncia di incostituzionalità, il ricorso sarebbe stato, quindi, accolto.
44. Applicando invece quest’ultima disposizione il ricorso dovrebbe essere respinto posto che, nel caso concreto, il permesso di costruire qui avversato è stato rilasciato in data 09.04.2011 (dunque prima del 30.11.2011), ed essendo la relativa comunicazione di inizio lavori stata protocollata in data 14.07.2011 (dunque prima del 30.04.2012). Da qui la rilevanza della questione di legittimità costituzionale ad essa afferente.
45. Prima di procedere oltre il Collegio ritiene, nondimeno, opportuno formulare due ulteriori considerazioni.
46. La prima riguarda l’inciso “fino al momento della dichiarazione di fine lavori”, contenuto nel ridetto art. 17, comma 1, della legge n. 7/2012.
47. Tale inciso, anche se interpretato nel senso (per la verità poco comprensibile) che la validità e l’efficacia del provvedimento vengano meno una volta ultimati i lavori, non è decisivo ai fini della soluzione della presente controversia, posto che nel caso concreto la comunicazione di fine lavori, al momento di rilascio degli atti impugnati, non era ancora intervenuta. L’effetto sanante (o paralizzante sul potere di autotutela) della disposizione è dunque ancora operante; con la conseguenza che, in applicazione di essa, questo giudice dovrebbe comunque disporre il rigetto del ricorso.
48. La seconda considerazione si ricollega alle eccezioni di tardività ed inammissibilità sollevate dalle parti resistenti.
49. Queste sostengono invero che il ricorso, nella parte in cui si rivolge avverso il permesso di costruire, sarebbe irricevibile per tardività della notifica; e che lo stesso ricorso, nella parte in cui si rivolge avverso l’atto di rifiuto dell’esercizio del potere di autotutela, sarebbe inammissibile in quanto diretto contro un atto meramente confermativo del precedente titolo edilizio.
50. Tale eccezione potrebbe considerarsi decisiva ai fini della rilevanza della questione posto che:
   a) secondo una consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo, le pronunce della Corte Costituzionale che colpiscono le norme applicate dalla pubblica amministrazione nell’esercizio dei propri poteri autoritativi non incidono sui rapporti esauriti;
   b) devono considerarsi esauriti i rapporti regolati da provvedimenti divenuti inoppugnabili per decorrenza dei termini di impugnazione giurisdizionale (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen n. 8/1983 cit.);
   c) e che quindi il rigetto del presente ricorso potrebbe essere disposto anche a prescindere dall’applicazione della norma contenuta nell’art. 17, comma 1, della l.r. n. 7/2012, ove si ritenesse che il rapporto fra p.a. e controinteressato sia, nel caso concreto, definitivamente disciplinato dal permesso di costruire n. 11/2010, ormai divenuto inoppugnabile e, dunque, immune alle statuizioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011.
51. Ritiene tuttavia il Collegio che la regolazione del rapporto fra p.a. e controinteressato, nel caso concreto, non si sia cristallizzata nel succitato permesso di costruire; e ciò in quanto il Comune, a seguito dell’istanza della ricorrente, ha avviato un procedimento di annullamento in autotutela del titolo edilizio rilasciato, culminato con l’adozione del provvedimento di archiviazione, anch’esso avversato in questa sede.
52. Attraverso il nuovo procedimento l’autorità amministrativa ha quindi rinnovato l’istruttoria, nel corso della quale sono stati valutati elementi in precedenza non presi in considerazione, ed in particolare sono state per la prima volta affrontate proprio le questioni di legittimità connesse alla compatibilità costituzionale delle disposizioni regionali che ascrivono alla categoria della ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo di sagoma.
53. Il Comune, invero, invece di rilevare l’inutilità del riesame, stante l’ininfluenza della sentenza della Corte Costituzionale sul permesso di costruire rilasciato e ormai divenuto inoppugnabile, ha delibato la questione giungendo alla conclusione di non annullare l’atto in ragione del sopravvenuto dettato legislativo (significativo in proposito è l’atto di avviso di avvio del procedimento inoltrato al controinteressato, nella parte in cui il Comune manifesta esplicitamente l’intenzione di stabilire se sussistano i presupposti per esercitare il potere di autotutela in ragione dell’intervenuta sentenza di incostituzionalità delle disposizioni che disciplinavano l’intervento).
54. Ne consegue che, in esito al suddetto procedimento, è stato adottato un provvedimento che non può considerarsi meramente confermativo del precedente permesso di costruire: tale atto, difatti, pur confermando, attraverso l’archiviazione del procedimento, il contenuto dispositivo del precedente, fa ciò muovendo da nuove valutazioni ed in applicazione di una normativa, l’art. 17, comma 1, della l.r. n. 7/2012 , che all’epoca di adozione del primo provvedimento non era neppure in vigore e che ha consentito di ritenere la validità di un provvedimento altrimenti suscettibile di di declaratoria di illegittimità.
55. Il provvedimento di archiviazione del procedimento di autotutela va dunque qualificato come atto di natura sostanziale con cui, mediante la formulazione di nuove valutazioni espresse in seno ad una rinnovata istruttoria, si è affermata la validità del permesso di costruire a suo tempo rilasciato e si è, di conseguenza, confermato il suo contenuto dispositivo.
56. In tale contesto non può negarsi la sussistenza di una sopravvenuta manifestazione di volontà dell’Ente che si aggiunge a quella originaria e che concorre con la prima nel determinare la regolazione del rapporto intercorrente con il controinteressato destinatario del titolo edilizio. Come detto, l’atto in parola non può pertanto considerarsi meramente confermativo del precedente.
57. Il rinnovato esercizio del potere ha dunque riaperto i termini di impugnazione. Ne discende che, ai fini che qui rilevano, il rapporto fra p.a. e controinteressato non può dirsi esaurito (il provvedimento di archiviazione del procedimento di autotutela è stato infatti ritualmente impugnato); e che, quindi, il rigetto o l’accoglimento del ricorso stesso non possono che dipendere dall’applicazione del ridetto art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012.
58. Tutto il ragionamento sin qui svolto, si fonda, come anticipato, sul presupposto che si segua l’interpretazione dell’art. 17 preferita dal Collegio; tuttavia anche qualora si ritenga che la suddetta norma abbia effetti meramente paralizzanti sul potere di autotutela le conclusioni non muterebbero.
59. Va invero osservato che, secondo la giurisprudenza, l’intervenuta inoppugnabilità del provvedimento non impedisce alla pubblica amministrazione di annullare l’atto illegittimo per sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata nell’esercizio del potere: l’inoppugnabilità determina dunque l’esaurimento del rapporto solo nei confronti del privato, interessato ad ottenere l’annullamento del provvedimento in sede giurisdizionale, ma non nei confronti della pubblica amministrazione che, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale, può sempre esercitare i propri poteri di autotutela non soggetti a limiti temporali di decadenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 09.06.2003 n. 3458; TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 17.11.2007 n. 1721).
60. In proposito va peraltro soggiunto che, in base ad un’opinione dottrinale, il potere di annullamento in autotutela di un titolo edilizio non potrebbe più esercitarsi quando i lavori siano ultimati, giacché in tal caso il rapporto dovrebbe considerarsi esaurito. Tale principio tuttavia non opera nel caso di specie posto che, come anticipato, all’epoca di emanazione dell’atto di archiviazione del procedimento di autotutela, i lavori non erano ancora stati ultimati.
61. Da tutto ciò consegue che, anche se si volesse ritenere che, nella fattispecie concreta, il predetto atto di archiviazione del procedimento non abbia valenza di atto sostanziale di conferma di validità del permesso di costruire rilasciato (come sopra si è sostenuto), ma abbia valenza di atto di rifiuto dell’esercizio del potere di autotutela, anche in questo caso la questione di legittimità costituzionale conserverebbe rilevanza, posto che tale rifiuto è stato opposto alla ricorrente esclusivamente in applicazione della disposizione di cui all’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, al quale dunque anche questo giudice dovrebbe dare applicazione per rigettare il ricorso.
62. Va pertanto ribadita la rilevanza della questione di legittimità costituzionale riguardante la suddetta norma.
63. Può ora passarsi all’esame del profilo inerente la non manifesta infondatezza, in ordine al quale si svolgono le seguenti considerazioni.
64. Ritiene innanzitutto il Collegio che l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012 possa essere in contrasto con l’art. 136, comma primo, Cost. e con l’art. 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1.
65. In base all’art. 136 della Costituzione “
quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.
66. Analoga disposizione è contenuta nell’art. 30, comma 3, della legge 11.03.1953 n. 87.
67. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha insegnato che, nonostante la loro non chiarissima formulazione, la disposizioni suindicate debbono interpretarsi, avuto anche riguardo al disposto dell’art. 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, nel senso che
l’intervenuta dichiarazione di incostituzionalità ha effetti erga omnes e retroattivi che si dispiegano su tutti i rapporti giuridici, salvo il limite invalicabile del giudicato, e salvo altresì il limite derivante da situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili: la dichiarazione di illegittimità colpisce dunque la norma fin dalla sua origine, eliminandola dall'ordinamento, ricalcandosi così un fenomeno analogo a quello che si verifica in caso di annullamento degli atti giuridici (cfr. Corte Costituzionale sent. 25.03.1970 n. 49; id. sent. 15.12.1966 n. 127).
68. In applicazione dell’art. 136 della Costituzione,
la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni di cui all’art. 27, primo comma, lett. d) della l.r. 11.03.2005 n. 12 ed all’art. 22 della l.r. 05.02.2010 n. 7, pronunciata con sentenza n. 309/2011, dovrebbe dunque valere anche per il passato.
69. Sennonché, come visto,
con l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, il legislatore lombardo ha dettato una disposizione che appare in contrasto con gli illustrati principi, stabilendo che “In relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, (…) i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 (…) devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori …”; e stabilendo quindi, nella sostanza, che, in base a questa norma, la dichiarazione di incostituzionalità non rileva per i titoli edilizi rilasciati in epoca anteriore alla pubblicazione della suindicata sentenza.
70.
Con la disposizione in esame, si è dunque prevista un’ipostesi di sanatoria legislativa diretta ad emendare i titoli rilasciati prima della pubblicazione della sentenza n. 309/2011 dal vizio derivante dell’essere tali atti applicativi di disposizioni dichiarate incostituzionali.
71.
Sembra pertanto sussistere il contrasto con i citati artt. 136 della Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1.
72. Il Collegio ritiene inoltre che possa anche profilarsi il contrasto con l’art. 117, comma terzo, della Costituzione.
73. Difatti, nel sancire la validità dei permessi di costruire rilasciati anteriormente al 30.11.2011, l’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012 interviene, nella sostanza, ancora una volta sulla disciplina inerente la definizione e classificazione degli interventi edilizi (materia, come detto, ritenuta dalla Corte riconducibile a quelle di legislazione concorrente), ribadendo la possibilità di ascrivere alla categoria delle ristrutturazioni interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione di edifici senza vincolo di sagoma, e ciò perlomeno con riferimento agli interventi i cui titoli autorizzativi siano stati rilasciati entro la predetta data.
74. Sembra pertanto che la normativa denunciata sia in contrasto con la normativa statale di principio contenuta nell’art. 3, comma primo, lett. d), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (che, come detto, impone invece il rispetto del limite di sagoma), e ripeta per ciò il vizio di violazione dell’art. 117, comma terzo, Cost. già rilevato con la sentenza n. 309/2011.
75. Da ultimo il Collegio osserva che, ove si ritenesse che l’art. 17, comma 1, della l.r. n. 7/2012, abbia valenza non già di norma sanante ma di norma meramente paralizzante il potere di autotutela (come sopra precisato) possa, in tal caso, profilarsi un evidente contrasto con l’art. 97 della Costituzione.
76. Si deve invero osservare che
la Regione, con la succitata disposizione, ha compresso il potere di autotutela riservato alle autorità comunali, impedendo loro di intervenire sui titoli edilizi già rilasciati per rendere conforme l’attività di trasformazione del territorio alle disposizioni normative vigenti nell’ordinamento.
77.
Tale compressione si pone in antitesi con i principi di legalità buon andamento della pubblica amministrazione sanciti dalla suddetta norma costituzionale (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 26.02.2013 n. 1186), in quanto sacrifica in maniera aprioristica i suddetti valori senza richiedere una preventiva concreta comparazione degli interessi coinvolti nel procedimento di autotutela; comparazione invece normalmente richiesta per giustificare il mantenimento in essere di provvedimenti non conformi a legge.
Esempio emblematico di questo ultroneo sacrifico potrebbe essere dato proprio dal caso in esame, nel quale l’autorità amministrativa ha ritenuto di non potere esercitare il proprio potere di autotutela nonostante la fase esecutiva dell’attività edilizia assentita fosse ferma alla fase iniziale e, dunque, non ancora cristallizzato in capo al privato quell’affidamento che, in astratto, giustifica il mantenimento in essere di un titolo illegittimo.
78. In conclusione,
ritiene questo Giudice rilevante e non manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo, e 97 della stessa Costituzione.”.

II – In esito a quanto sopra, come integralmente riportato, veniva adottata dalla Corte Costituzionale l’Ordinanza n. 35 del 12.03.2015 con la quale sono stati rinviati i relativi atti a questo remittente Giudice al fine di scrutare le attualità della rilevanza della detta questione alla stregua dell’intervento del legislatore statale che, con il DL n. 69 del 21.06.2013 (e.c. 98/13) –tramite il contenuto dell’art. 30–, ha tolto di mezzo l’obbligo, già disposto dall’art. 3, 1° c., del dpr 380 del 2001, del rispetto, nell’attività edilizia connesse alla cd. ristrutturazione, della sagoma strutturale in essere precedentemente.
II.1 – Sicché ed in necessaria sintesi, la sagoma preesistente –ovviamente nell’ambito della suddetta attività specifica di trasformazione materiale dell’esistente– non rileva ora, come per il passato, quale elemento che, se non rispettato, finiva coll’allocare l’opus “rifatto” tra le nuove costruzioni; ciò secondo giurisprudenza costante e del tutto consolidata.
II.2 – In buona sostanza il detto rinvio a questo Giudice è il risultato di tale intervento normativo statale che, nello specifico, altrimenti così finisce col ridefinire solo sostantivi di specie analoghi a quelli di cui all’art. 27, 1° c., lett. d), della l.r. n. 12 del 2005.
III – Rileva così, per altro aspetto, il fatto che tale ultima articolata normativa regionale sia stata annullata, nella parte in cui il legislatore regionale stesso non aveva previsto, al tempo ed in modo esplicito, l’obbligo del rispetto delle sagome preesistenti nelle cd. ristrutturazioni: tutto ciò rafforzando poi con interpretazione autentica tramite l’art. 22 della l.r. n. 7 del 2010. In tale modo tuttavia provocando il rinvio inerente di questo Giudice alla Corte Costituzionale che ha poi preso posizione con la detta sentenza n. 309 del 2011. La quale ultima ha sancito come incostituzionale la citata norma regionale di cui all’art. 27, 1° c., lett. d, della L. Lombardia n. 12 del 2005.
IV – Nel prosieguo il medesimo legislatore regionale ha, tuttavia, approvato la l.r. citata sub I del 2012, la quale ha determinato, nel corso della presente causa, il diverso rinvio alla Corte ut supra delinato ancora sub 1 (l.r. n. 7 del 2012 art. 17).
V – Da quanto illustrato e riportato ne consegue la necessità di scrutare se vi sia ancora rilevanza della inerente questione, proprio alla luce degli apporti normativi statali di cui al citato DL n. 69 del 2013.
VI – A tale ultimo specifico riguardo si osserva che il contenuto statuitivo di cui all’art. 30 del d.l. n. 69 del 2003 (entrata in vigore il 22.06.2013), non ha portata retroattiva intanto in quanto da luogo ad una diversa composizione funzionale del concetto di ristrutturazione si ampliarne, in modo del tutto nuovo, il contenuto materiale.
Parimenti si può escludere che tale norma statale proprio per evidenti ragioni lessicali, assuma le caratteristiche di interpretazione autentica. Del resto basta rifarsi alla sentenza della Corte Costituzionale n. 209 del 2011.
VI – I – Inoltre la giurisprudenza amministrativa ha sempre escluso che le attività di ristrutturazione edilizia potessero legittimamente dar luogo ad una struttura materiale del tutto non conforme a quella sagoma edilizia in essere prima dell’intervento materiale finale.
VI – II – Inoltre questo stesso Giudice ha più volte escluso che la detta nuova normativa statale del 2013, sopra menzionata, fosse veicolo di interpretazione autentica dell’art. 3, 1° c., del dpr 380 del 2001 (sentenza n. 617 del 2015 e n. 720 del 2015). La ratio legis di tale ultimo intervento statale è poi ben noto ed è anche dovuto a circostanze particolari di profilo economico e sociale: quand’anche per necessità di semplificazione.
VII – Da tutto ciò consegue la persistente attualità della rilevanza della questione al tempo veicolata con l’ordinanza n. 1588 del 2013.
VII – I – D’altro canto non è possibile per questo Giudice conferire ex se alla sentenza della Corte n. 309 del 2011 una portata tale da determinare la disapplicazione della norma di cui all’art. 17 della l.r. n. 7 del 2012 che, nella sostanza, finisce con lo sterilizzare ratione temporis la portata di tale medesima sentenza della Corte.
VIII – Le ragioni della attualità della rilevanza di specie, vanno così ritrovate e rinvenute in quelle stesse sopra delineate con l’ordinanza n. 1588 del 2013. Analogo riferimento può declinarsi con riguardo alla già scrutata manifestata infondatezza. Del resto l’ostacolo normativo è, anche ad oggi, insormontabile.
IX – E solo il caso di ricordare che tutte le eccezioni postulate come ostacolo ad una trattazione di merito specifico, sono state già superate e disattese.
X – E da tutto ciò ancora la sospensione del presente giudizio con ritrasmissione degli atti relativi alla On. Corte Costituzionale.
P.Q.M.
I Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda)
dichiara ancora rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma primo, della l.r. n. 7/2012, in riferimento agli artt. 136, comma primo, della Costituzione e 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, nonché con riferimento agli artt. 117, comma terzo e 97 della stessa Costituzione.
Dispone la sospensione del presente giudizio.
Ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordine che, a cura della Segretaria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente della Giunta Regionale della Lombardia e comunicata al Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia (TAR Lombardia, Sez. II, sentenza 05.11.2015 n. 2342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2015

EDILIZIA PRIVATALa destinazione ad attività di culto di un locale, la quale impone il rispetto delle pertinenti previsioni urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in cui al locale stesso sia permesso l’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati.
Questo appare non essere il caso, poiché da un lato gli agenti di Polizia Locale non hanno rilevato sul posto alcun afflusso di persone, dall’altro lato, come dichiarato alla camera di consiglio dal responsabile della comunità, al momento l’accesso al locale è riservato ai soci dell’associazione e, come da contratto allegato 3 alla citata relazione, la destinazione al culto è configurata come futura ed eventuale, subordinata all’ottenimento degli assensi amministrativi necessari.
Pertanto il fumus del ricorso sussiste, nel senso che allo stato non può impedirsi che gli associati all’ente ricorrente, nominativamente individuati, accedano alla struttura per professarvi il culto religioso da loro scelto, con esclusione del pubblico accesso.
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... per l’annullamento, previa sospensiva, del provvedimento 24.02.2015 prot. n. U0036176, notificato alla ricorrente in data 06.03.2015, con la quale il Dirigente del servizio interventi edilizi e gestione del territorio del Comune di Bergamo ha ordinato, fra gli altri, al legale rappresentante della Missione della Chiesa di Scientology delle Orobie di ripristinare nei locali siti in Bergamo, alla via Tremana civico 11 la originaria destinazione di uso a negozio;
...
Rilevato:
- che l’associazione ricorrente, di carattere religioso, insorge contro il provvedimento di cui meglio in epigrafe, con il quale si è vista imporre lo sgombero dai locali in questione, sul presupposto che negli stessi si svolga attività di culto (doc. 1 ricorrente, copia ordinanza);
- che tale apprezzamento si fonda su un sopralluogo effettuato in data 27.01.205, il cui tenore è ricostruibile dalla conseguente relazione di servizio del 05.02.2015, prodotta dal Comune il 24.07.2015;
- che la destinazione ad attività di culto di un locale, la quale impone il rispetto delle pertinenti previsioni urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in cui al locale stesso sia permesso l’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati, così come ritenuto, fra le molte, dalla sentenza della Sezione 29.05.2013 n. 522, ove ulteriori rimandi;
- che questo appare non essere il caso, poiché da un lato gli agenti operanti (v. rel. citata) non hanno rilevato sul posto alcun afflusso di persone, dall’altro lato, come dichiarato alla camera di consiglio 04.06.2015 dal responsabile della comunità, al momento l’accesso al locale è riservato ai soci dell’associazione e, come da contratto allegato 3 alla citata relazione, la destinazione al culto è configurata come futura ed eventuale, subordinata all’ottenimento degli assensi amministrativi necessari;
- che pertanto il fumus del ricorso sussiste, nel senso che allo stato non può impedirsi che gli associati all’ente ricorrente, nominativamente individuati, accedano alla struttura per professarvi il culto religioso da loro scelto, con esclusione del pubblico accesso;
- che le spese di fase seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
accoglie la suindicata istanza cautelare e per l’effetto sospende il provvedimento 24.02.2015 prot. n. U0036176 del Dirigente del servizio interventi edilizi e gestione del territorio del Comune di Bergamo. Spese di fase compensate. Fissa per la trattazione del merito la pubblica udienza del 19.10.2016 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 31.07.2015 n. 1506 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il TAR Lombardia-Brescia scavalca la L.R. 12/2005 Lombardia in materia di edifici di culto senza attendere che il comune si doti (preliminarmente) del piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all'articolo 70.
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Per quanto riguarda la rilevanza della nuova legislazione regionale sulle attrezzature religiose, si ritiene che il caso in esame, essendo riferito a un intervento già favorevolmente valutato in sede di variante al PGT, ricada nella deroga prevista dall’art. 72, comma 8, della LR 12/2005 (“attrezzature religiose esistenti”).
Più precisamente, poiché si tratta di una situazione in itinere, devono essere salvaguardate le aspettative dei privati che si sono ormai consolidate per effetto della pianificazione vigente.
Non è quindi necessario attendere l’approvazione dello specifico piano riferito alle attrezzature religiose, perché la zonizzazione già consente l’inserimento di un luogo di culto. Su questo presupposto, gli aspetti dell’intervento edilizio collegati alle opere di urbanizzazione e alle distanze minime possono essere definiti attraverso l’elaborazione delle norme tecniche del piano attuativo.
Il Comune deve invece dotarsi dei criteri che compongono la restante parte della disciplina prevista dall’art. 72, comma 7, della LR 12/2005 (parcheggi, sevizi igienici, accessibilità, congruità architettonica e dimensionale degli edifici).
Per l’elaborazione di questi criteri (che non richiedono necessariamente la modifica del PGT, trattandosi di prescrizioni di dettaglio) il termine ragionevole è individuato in 120 giorni dal deposito della presente ordinanza. In ogni caso, scaduto il termine, l’esame dello schema preliminare dovrà essere ripreso anche per la parte relativa alle attrezzature religiose.

... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, del provvedimento del responsabile della Direzione Pianificazione Urbanistica del 25.03.2015, con il quale è stata sospesa l’istruttoria sullo schema di piano attuativo NE21, riguardante aree situate in via Campi Spini;
...
Considerato a un sommario esame:
1. Il Comune di Bergamo, con provvedimento del responsabile della Direzione Pianificazione Urbanistica del 25.03.2015, ha sospeso l’istruttoria sullo schema preliminare di piano attuativo NE21, riguardante aree situate in via Campi Spini.
2. Lo schema prevede, in conformità alla variante al PGT approvata nel 2014, due corpi di fabbrica, uno a ovest con destinazioni d’uso terziarie e commerciali, e uno a est con destinazione a servizi religiosi (la società ricorrente, soggetto promotore del piano attuativo, ha stipulato il 21.05.2014 un preliminare di vendita con l’Associazione dei Testimoni di Geova di Bergamo).
3. Il motivo della sospensione dell’istruttoria è indicato nella nuova formulazione dell’art. 72 della LR 11.03.2005 n. 12, che consente la realizzazione di attrezzature religiose solo sulla base di un apposito piano (commi 1 e 2) approvato con la stessa procedura dei piani inseriti nel PGT (comma 3). Il piano deve contenere (comma 7) una disciplina puntuale delle infrastrutture di servizio e degli altri requisiti urbanistico-edilizi necessari per l’ottimale inserimento delle attrezzature religiose.
4. Sulla vicenda così sintetizzata si possono formulare le seguenti considerazioni:
(a) lo schema preliminare di piano attuativo prevede due edificazioni distinte sia fisicamente sia sotto il profilo della destinazione d’uso. La decisione del Comune di sospendere l’istruttoria si basa sulla nuova disciplina delle attrezzature religiose, che interessa solo una parte del lotto. Per il principio di proporzionalità appare quindi necessario consentire la prosecuzione dell’istruttoria almeno con riguardo alle destinazioni d’uso terziarie e commerciali, se questo corrisponde a un interesse economico del soggetto promotore;
(b) in questa prospettiva deve essere affrontato anche il problema delle opere di urbanizzazione non scindibili, nel senso che deve essere data la possibilità al soggetto promotore di elaborare un programma di lavori adeguatamente graduato nel tempo;
(c) per quanto riguarda la rilevanza della nuova legislazione regionale sulle attrezzature religiose, si ritiene che il caso in esame, essendo riferito a un intervento già favorevolmente valutato in sede di variante al PGT, ricada nella deroga prevista dall’art. 72, comma 8, della LR 12/2005 (“attrezzature religiose esistenti”);
(d) più precisamente, poiché si tratta di una situazione in itinere, devono essere salvaguardate le aspettative dei privati che si sono ormai consolidate per effetto della pianificazione vigente;
(e) non è quindi necessario attendere l’approvazione dello specifico piano riferito alle attrezzature religiose, perché la zonizzazione già consente l’inserimento di un luogo di culto. Su questo presupposto, gli aspetti dell’intervento edilizio collegati alle opere di urbanizzazione e alle distanze minime possono essere definiti attraverso l’elaborazione delle norme tecniche del piano attuativo.
Il Comune deve invece dotarsi dei criteri che compongono la restante parte della disciplina prevista dall’art. 72, comma 7, della LR 12/2005 (parcheggi, sevizi igienici, accessibilità, congruità architettonica e dimensionale degli edifici);
(f) per l’elaborazione di questi criteri (che non richiedono necessariamente la modifica del PGT, trattandosi di prescrizioni di dettaglio) il termine ragionevole è individuato in 120 giorni dal deposito della presente ordinanza. In ogni caso, scaduto il termine, l’esame dello schema preliminare dovrà essere ripreso anche per la parte relativa alle attrezzature religiose.
5. Sussistono pertanto le condizioni per adottare una misura cautelare propulsiva con il contenuto sopra esposto.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
(a) accoglie la domanda cautelare, come precisato in motivazione;
(b) fissa la trattazione del merito all'udienza pubblica del 21.09.2016;
(c) compensa le spese della fase cautelare (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 29.07.2015 n. 1443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L'articolo 13, comma 11, della legge regionale n. 12/2005 dispone espressamente che “Gli atti di PGT acquistano efficacia con la pubblicazione dell'avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura del comune”. Da tale data, quindi, il piano determina la modificazione permanente della situazione giuridica dei suoli e, perciò, produce diretti effetti nella sfera giuridica dei proprietari dei terreni.
Di conseguenza, è da tale data che decorre anche il termine per l’impugnazione.
Conclusione, questa, che è in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto che è dal momento in cui sono espletate le modalità di pubblicazione previste dalla legge che decorre il termine per la proposizione del ricorso avverso lo strumento urbanistico.
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L’entrata in vigore di un nuovo strumento urbanistico determina di per sé una modificazione permanente della situazione giuridica dei suoli e, quindi, dispiega immediatamente un’efficacia lesiva nei confronti dei relativi proprietari.
Conseguentemente, laddove il piano abbia ridotto la capacità edificatoria del suolo, il proprietario è immediatamente leso da tale determinazione, e ha quindi l’onere di impugnarla entro l’ordinario termine di decadenza, decorrente dal termine di entrata in vigore dello strumento urbanistico.
La circostanza che il singolo proprietario possa, in quel momento storico, essere già in possesso di un titolo edificatorio che gli permette di realizzare quanto previsto dal precedente strumento urbanistico, non differisce da quella del proprietario che abbia già costruito o che, nel momento dell’entrata in vigore del piano, non abbia la possibilità o l’intenzione di costruire: si tratta, in tutti tali casi, di situazioni di mero fatto, che non incidono sulla oggettiva immediata lesività dello strumento urbanistico. Quest’ultimo è, invero, destinato a condizionare permanentemente le successive utilizzazioni dell’area e, quindi, incide in ogni caso sulle prerogative del proprietario, anche laddove un titolo edilizio sia già stato rilasciato o l’edificazione sia già stata completata in base al precedente strumento.
D’altro canto, ammettere che la parte in possesso di un titolo edificatorio possa impugnare il piano solo allorché, non essendo in grado di ultimare i lavori nel termine, si sia vista costretta ad avvalersi della proroga, equivale a differire i termini di decadenza per l’impugnazione dello strumento urbanistico da parte dei proprietari dei suoli –termini stabiliti per legge con fini di certezza giuridica– facendoli dipendere da una circostanza di mero fatto (la mancata ultimazione dei lavori nel termine), peraltro totalmente dipendente dal comportamento del soggetto interessato.
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La consolidata giurisprudenza della Sezione ha da tempo affermato, con orientamento che il Collegio pienamente condivide, che i termini per l’approvazione del PGT stabiliti dall’articolo 13, commi 7 e 7-bis, della legge regionale n. 12 del 2005 hanno carattere ordinatorio e non perentorio e, conseguentemente, il superamento di tali scadenze non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria già compiuti (ndr: deliberazione di adozione).
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Secondo costante giurisprudenza, la semplice modifica in peius, rispetto al precedente strumento urbanistico, delle aspettative edificatorie di un fondo non determina, di per sé, l’onere per l’amministrazione di fornire alcuna particolare motivazione. E ciò salvo che ricorra una delle peculiari situazioni in relazione alle quali la giurisprudenza ha ritenuto che sussista un’aspettativa qualificata, tale da rendere necessaria una più intensa e specifica motivazione.
Nessuna di tali situazioni è, però ravvisabile nel caso di specie, posto che –anche laddove fosse comprovata la presenza di un lotto intercluso, che è un dato meramente affermato dalla parte– tale circostanza potrebbe rilevare, al più, unicamente laddove il nuovo strumento urbanistico avesse introdotto la modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

2. Con il secondo motivo il Fallimento ricorrente allega una pluralità di censure contro il Piano di Governo del Territorio del Comune di Milano.
2.1 La parte afferma che il proprio interesse a ricorrere contro lo strumento urbanistico sarebbe sorto unicamente a seguito dell’esito negativo della comunicazione di proroga del titolo edilizio. Il piano sarebbe invero divenuto lesivo soltanto una volta che ha prodotto il concreto risultato di impedire il completamento dell’intervento già avviato.
Per questa ragione, il Fallimento chiede espressamente che –sulla base delle censure allegate nel ricorso– sia dichiarata in ogni caso l’inefficacia dell’intera procedura di pianificazione. E ciò al fine di ottenere, in esito alla riedizione del potere, la possibilità di fare salva la realizzazione dell’intervento oggetto della denuncia di inizio di attività del 14.05.2010, che era stato progettato sfruttando la capacità edificatoria attribuita all’area dal Piano Regolatore Generale previgente.
2.2 La difesa comunale eccepisce l’irricevibilità delle censure, in quanto proposte dopo la scadenza del termine per l’impugnazione del PGT, termine che dovrebbe decorrere necessariamente dalla data di pubblicazione dell’avviso di deposito sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, avvenuta il 22.11.2012.
2.3 L’eccezione comunale merita condivisione.
E invero, l’articolo 13, comma 11, della legge regionale n. 12 del 2005 dispone espressamente che “Gli atti di PGT acquistano efficacia con la pubblicazione dell'avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura del comune”. Da tale data, quindi, il piano determina la modificazione permanente della situazione giuridica dei suoli e, perciò, produce diretti effetti nella sfera giuridica dei proprietari dei terreni.
Di conseguenza, è da tale data che decorre anche il termine per l’impugnazione.
Conclusione, questa, che è in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto che è dal momento in cui sono espletate le modalità di pubblicazione previste dalla legge che decorre il termine per la proposizione del ricorso avverso lo strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. IV, 19.07.2004, n. 5225; Id. 08.07.2003, n. 4040; Id., 23.11.2002, n. 6436).
Secondo la tesi della parte ricorrente, lo strumento urbanistico non sarebbe stato lesivo al momento dell’entrata in vigore, in quanto la Società, poi fallita, era in possesso a quella data di un titolo edificatorio efficace e non caducato dalla sopravvenienza del nuovo piano.
Al riguardo, deve tuttavia obiettarsi che la lesività del provvedimento amministrativo, e il conseguente interesse a invocare avverso di esso la tutela giurisdizionale, devono essere valutati in termini oggettivi, ossia tenendo conto dell’idoneità dell’atto a incidere sulla situazione giuridica del soggetto, e della correlata possibilità che l’intervento del giudice assicuri alla parte un risultato utile, in termini di eliminazione dell’effetto lesivo oggettivamente verificatosi.
Ora, l’entrata in vigore di un nuovo strumento urbanistico determina di per sé una modificazione permanente della situazione giuridica dei suoli e, quindi, dispiega immediatamente un’efficacia lesiva nei confronti dei relativi proprietari.
Conseguentemente, laddove il piano abbia ridotto la capacità edificatoria del suolo, il proprietario è immediatamente leso da tale determinazione, e ha quindi l’onere di impugnarla entro l’ordinario termine di decadenza, decorrente dal termine di entrata in vigore dello strumento urbanistico.
La circostanza che il singolo proprietario possa, in quel momento storico, essere già in possesso di un titolo edificatorio che gli permette di realizzare quanto previsto dal precedente strumento urbanistico, non differisce da quella del proprietario che abbia già costruito o che, nel momento dell’entrata in vigore del piano, non abbia la possibilità o l’intenzione di costruire: si tratta, in tutti tali casi, di situazioni di mero fatto, che non incidono sulla oggettiva immediata lesività dello strumento urbanistico. Quest’ultimo è, invero, destinato a condizionare permanentemente le successive utilizzazioni dell’area e, quindi, incide in ogni caso sulle prerogative del proprietario, anche laddove un titolo edilizio sia già stato rilasciato o l’edificazione sia già stata completata in base al precedente strumento.
D’altro canto, ammettere che la parte in possesso di un titolo edificatorio possa impugnare il piano solo allorché, non essendo in grado di ultimare i lavori nel termine, si sia vista costretta ad avvalersi della proroga, equivale a differire i termini di decadenza per l’impugnazione dello strumento urbanistico da parte dei proprietari dei suoli –termini stabiliti per legge con fini di certezza giuridica– facendoli dipendere da una circostanza di mero fatto (la mancata ultimazione dei lavori nel termine), peraltro totalmente dipendente dal comportamento del soggetto interessato.
Ciò che, ancora una volta, si pone in contrasto con i principi.
3. Pur tuttavia, anche a voler ammettere che –seguendo la tesi della parte ricorrente– l’interesse a impugnare il piano sia sorto solo e unicamente a seguito dell’impossibilità di ottenere la proroga del titolo edificatorio, le censure proposte non potrebbero ugualmente trovare accoglimento, per le ragioni che di seguito si espongono.
3.1 Quanto alla censura sopra indicata al punto II – (i), la consolidata giurisprudenza della Sezione ha da tempo affermato, con orientamento che il Collegio pienamente condivide, che i termini per l’approvazione del PGT stabiliti dall’articolo 13, commi 7 e 7-bis, della legge regionale n. 12 del 2005 hanno carattere ordinatorio e non perentorio e, conseguentemente, il superamento di tali scadenze non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria già compiuti (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 24.04.2015, n. 1032; Id., 19.11.2014, n. 2765; Id., 11.01.2013, n. 86; Id., 20.12.2010, n. 7614; Id., 10.12.2010, n. 7508).
3.2 Una volta escluso che la scadenza del termine per l’approvazione del PGT possa determinare il venir meno anche della precedente delibera di adozione, deve conseguentemente concludersi che l’eventuale accoglimento delle censure indicate al punto II – (ii), (iii) e (iv) non determinerebbe l’effetto ipotizzato dalla parte ricorrente, ossia la caducazione dell’intera procedura pianificatoria.
Si tratta, infatti, di censure dirette nei confronti degli atti dell’iter di formazione del PGT compiuti dopo la prima approvazione (cui, come sopra detto, è seguita la revoca della delibera di approvazione e la ripetizione dei passaggi procedimentali successivi alla presentazione delle osservazioni, fino a pervenire a una seconda approvazione). L’accoglimento delle doglianze articolate comporterebbe, quindi, la necessità di riportare la procedura pianificatoria allo stadio della prima approvazione o dell’adozione. Ciò, però, non consentirebbe alla parte di ottenere il risultato utile cui essa dichiara di aspirare e in relazione al quale prospetta il proprio interesse a ricorrere, ossia la caducazione dell’intero iter, al fine di fare salva la realizzazione dell’intervento oggetto della denuncia di attività del 2010, basata sulla capacità edificatoria attribuita all’area dal precedente Piano Regolatore Generale.
In questi termini, le censure sono, quindi, da ritenere in ogni caso inammissibili per difetto di interesse.
3.3 Analoga sorte riguarda la prima delle censure di cui al punto II – (v), con la quale si lamenta il difetto di specifica motivazione della scelta peggiorativa compiuta, con riferimento (anche) all’area della parte ricorrente, in occasione della seconda approvazione del PGT: pure in questo caso l’eventuale accoglimento della censura non determinerebbe il venir meno dell’intera procedura pianificatoria e, quindi, non potrebbe soddisfare l’interesse della parte ricorrente, come da essa stessa prospettato.
Quanto alla seconda censura prospettata nel motivo II – (v), la parte afferma che l’area di sua proprietà sarebbe un lotto intercluso e, quindi –sia in occasione della prima approvazione del PGT, che in occasione della seconda approvazione– sarebbe stata necessaria una particolare motivazione al fine di ridurre la relativa capacità edificatoria.
La doglianza è infondata.
Basta, al riguardo, tenere presente che, secondo costante giurisprudenza, la semplice modifica in peius, rispetto al precedente strumento urbanistico, delle aspettative edificatorie di un fondo non determina, di per sé, l’onere per l’amministrazione di fornire alcuna particolare motivazione (Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2015 n. 3142; Id. 15.05.2012, n. 2759; Id., 13.07.2011, n. 4242; Id., 12.05.2011, n. 2683; Id., 24.02.2011, n. 1222; Id., 12.03.2009, n. 1477). E ciò salvo che ricorra una delle peculiari situazioni in relazione alle quali la giurisprudenza ha ritenuto che sussista un’aspettativa qualificata, tale da rendere necessaria una più intensa e specifica motivazione.
Nessuna di tali situazioni è, però ravvisabile nel caso di specie, posto che –anche laddove fosse comprovata la presenza di un lotto intercluso, che è un dato meramente affermato dalla parte– tale circostanza potrebbe rilevare, al più, unicamente laddove il nuovo strumento urbanistico avesse introdotto la modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (v. TAR Lombardia, Milano, 22.07.2014, n. 1972).
Nel caso di specie, non è però allegato che il PGT abbia introdotto alcuna previsione specifica per l’area della parte ricorrente, né che abbia azzerato la capacità edificatoria del fondo, risultando che sia stata unicamente prevista una riduzione della capacità edificatoria.
Scelta, questa, che evidentemente non richiedeva in sé alcuna specifica motivazione, oltre a quella evincibile dai criteri generali di impostazione del piano.
3.4 In definitiva, tutte le censure articolate dalla ricorrente contro il PGT sono irricevibili e, comunque, anche inammissibili o infondate nel merito (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.07.2015 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2015

URBANISTICA: PGT: il termine di 90 gg. inerisce la controdeduzione delle osservazioni e non l'approvazione, sicché solo nel primo caso l'eventuale inosservanza del termine comporta l'inefficacia dell'intero procedimento.
L’articolo 13 della legge regionale n. 12 del 2005 dispone, al comma 7, che “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo.”.
Al riguardo, deve confermarsi l’adesione all’orientamento già espresso dall’univoca giurisprudenza della Sezione, la quale ha già avuto modo di affermare, in più occasioni, che della disposizione dell’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga disposizione contenuta all’articolo 14, comma 4, della medesima legge, debba darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata. Per questa via, si è ritenuto di dover escludere che l’inosservanza dei termini normativamente prescritti possa determinare automaticamente l’inefficacia dell’intero procedimento sino ad allora svolto.
In particolare, si è affermato che una soluzione che sanzionasse con la perdita di efficacia degli atti la mera violazione del termine condurrebbe inevitabilmente “(...) ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.”.
E invero, accogliendo la tesi suddetta “(...) l’attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la ratio acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera procedura amministrativa.”.
Per converso, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo, il quale –come detto– prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”. Ciò –secondo l’orientamento richiamato– “consente di riferire la sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.”. Conseguentemente, “l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati”.
Tale lettura, oltre ad essere consentita dal tenore letterale della previsione normativa, è altresì in linea con il principio generale per il quale i termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola non perentori, soprattutto allorché si tratti di procedure complesse, con la partecipazione di una pluralità di soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli interessi, pubblici o privati, coinvolti.

1.4 Nel merito, il motivo è tuttavia infondato.
1.4.1 Rileva il Collegio che l’articolo 13 della legge regionale n. 12 del 2005 dispone, al comma 7, che “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo.”.
Il successivo comma 7-bis –introdotto dall'articolo 1, comma 1, lett. a) della legge regionale 03.10.2007, n. 24 e poi modificato nell’attuale tenore dall’articolo 3, comma 9, lett. a) della legge regionale 22.02.2010, n. 11– stabilisce, inoltre, che “Il termine di cui al comma 7 è di centocinquanta giorni qualora, nella fase del procedimento di approvazione del PGT successiva all’adozione dello stesso, venga pubblicato il decreto di indizione dei comizi elettorali per il rinnovo dell’amministrazione comunale.”.
Le suddette disposizioni stabiliscono, quindi, un termine entro il quale deve pervenirsi alla conclusione del procedimento di formazione del PGT, con evidente ratio acceleratoria dell’iter dello strumento urbanistico.
Al riguardo, deve confermarsi l’adesione all’orientamento già espresso dall’univoca giurisprudenza della Sezione, la quale ha già avuto modo di affermare, in più occasioni, che della disposizione dell’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005, e dell’analoga disposizione contenuta all’articolo 14, comma 4, della medesima legge, debba darsi un’interpretazione costituzionalmente orientata. Per questa via, si è ritenuto di dover escludere che l’inosservanza dei termini normativamente prescritti possa determinare automaticamente l’inefficacia dell’intero procedimento sino ad allora svolto (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508).
In particolare, si è affermato che una soluzione che sanzionasse con la perdita di efficacia degli atti la mera violazione del termine condurrebbe inevitabilmente “(...) ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.”.
E invero, accogliendo la tesi suddetta “(...) l’attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la ratio acceleratoria sottesa alla norma. Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7 della legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera procedura amministrativa.” (così la richiamata pronuncia della Sezione n. 7508 del 2010).
Per converso, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo, il quale –come detto– prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”. Ciò –secondo l’orientamento richiamato– “consente di riferire la sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.”. Conseguentemente, “l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati” (così ancora la sentenza n. 7508 del 2010).
1.4.2 Tale lettura, oltre ad essere consentita dal tenore letterale della previsione normativa, è altresì in linea con il principio generale per il quale i termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi sono di regola non perentori, soprattutto allorché si tratti di procedure complesse, con la partecipazione di una pluralità di soggetti, a garanzia del contemperamento di tutti gli interessi, pubblici o privati, coinvolti (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 14.11.2012, n. 2750).
Sotto altro profilo, non può neppure accedersi alla tesi della ricorrente, secondo la quale la natura ordinatoria del termine sarebbe esclusa dalla circostanza che il comma 7-bis del medesimo articolo 13 abbia previsto una fattispecie nella quale il termine è elevato a centocinquanta giorni. Ad avviso della ricorrente, non sarebbe logico prevedere una maggiore durata di un termine che non sia perentorio.
La tesi, come detto, non convince, in quanto la fissazione del termine, benché ordinatorio, svolge pur sempre una funzione di accelerazione dei procedimenti e individua quali siano le modalità per il corretto operare dell’Amministrazione. Conseguentemente, non può ritenersi priva di rilevanza l’elevazione del termine nella fattispecie di cui al comma 7-bis, posto che –al contrario– sarebbe irragionevole fissare un termine, benché non perentorio, che non possa essere ragionevolmente osservato.
1.4.3 Deve, quindi, concludersi nel senso che della disposizione di legge regionale debba farsi necessariamente un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (articoli 3 e 97 della Costituzione), nonché ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (articolo 12 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella, sopra illustrata, che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
1.5 Deve, poi, evidenziarsi che la giurisprudenza della Sezione ha altresì preso in considerazione, ai fini della valutazione del rispetto del termine, la circostanza che alla data della sua scadenza fosse in corso la fase decisoria finale del PGT, ritenendo in tal caso legittimo e rispettoso della previsione normativa l’operato del Comune (v. le richiamate sentenze n. 2765 del 2014 e n. 7614 del 2010).
Ciò è quanto avvenuto anche nel caso di specie, poiché l’avvio della fase di approvazione (20.02.2012) ricade entro i novanta giorni dalla data in cui la delibera di revoca della precedente approvazione è divenuta esecutiva (07.12.2011), né risulta che la rinnovata fase procedimentale di approvazione sia stata successivamente interrotta.
Aderendo all’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, deve quindi concludersi nel senso che il termine sia stato, nella specie, osservato, senza che a tal fine occorra interrogarsi in merito all’applicabilità del più lungo termine previsto dal comma 7-bis dell’articolo 13 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.04.2015 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2015

EDILIZIA PRIVATA: I commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della l.r. 11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri di calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento alle ristrutturazioni edilizie “non comportanti demolizione e ricostruzione”.
Ne deriva, a contrario, che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo comma 10-bis dell’articolo 44 della l.r. n. 12/2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della l.r. 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “I comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione si fonda infatti sull’evidente presupposto che gli interventi in questione siano, in linea di principio, soggetti all’integrale assolvimento della quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per i comuni di ridurre la misura della relativa quota di contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli interventi di ricostruzione previa demolizione dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella, all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
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6.2 Ciò posto, quanto alla determinazione dell’entità dell’intervento, deve condividersi quanto rappresentato dalla difesa comunale, la quale correttamente evidenzia come i commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della legge regionale 11.03.2005, n. 11 abbiano previsto speciali criteri di calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento alle ristrutturazioni edilizie “non comportanti demolizione e ricostruzione”.
Ne deriva, a contrario, che –come già chiarito dalla giurisprudenza formatasi sulle disposizioni richiamate– gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni (v. Cons. Stato, Sez. IV, 22.05.2012, n. 2969, che conferma la sentenza di questa Sezione del 18.05.2010, n. 1566).
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12 del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “I comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alla d.i.a. oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente presupposto che gli interventi in questione siano, in linea di principio, soggetti all’integrale assolvimento della quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per i comuni di ridurre la misura della relativa quota di contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli interventi di ricostruzione previa demolizione dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella, all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.03.2015 n. 780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2015

URBANISTICA: Lo strumento della perequazione, che trova fondamento legislativo a livello locale nell’art. 11 della LR 12/2005, consente alle amministrazioni comunali di ottenere vantaggi superiori a quelli della tradizionale zonizzazione.
Due opportunità sono di particolare rilievo: (i) intercettare parte della rendita prodotta dalla zonizzazione a favore dei proprietari di aree edificabili; (ii) conformare in dettaglio la trasformazione della proprietà privata, indirizzandola verso obiettivi di utilità sociale.
Si tratta in entrambi i casi di risultati legittimi, ma solo a condizione che siano rispettati i principi della pianificazione e siano evitate soluzioni eccessivamente penalizzanti per i proprietari.
La premessa imprescindibile è che non tutte le aree sono uguali, né possono essere rese uguali con provvedimenti amministrativi (l’art. 8 comma 2-e della LR 12/2005 collega l’individuazione degli ambiti di trasformazione al rispetto delle vocazioni funzionali del territorio). È vero che i diritti edificatori non ineriscono alla proprietà e sono invece attribuiti dalla pianificazione, ma la loro base naturale risiede nelle caratteristiche fisiche e topografiche dei terreni, che li rendono più o meno adatti all’edificazione.
Una volta riconosciuta la base naturale dei diritti edificatori, è anche evidente che la sottrazione di una parte del valore economico di tali diritti non può superare limiti ragionevoli. In effetti, se il privato per poter realizzare una qualsiasi costruzione (ossia per non essere costretto a lasciare inedificato il terreno) deve monetizzare, al prezzo stabilito dal Comune, i diritti edificatori mancanti, questa situazione è assimilabile all’alternativa tra pagare o non pagare una tassa sulla costruzione.
Trattandosi di un peso economico che si aggiunge al vero e proprio contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, contributo sul costo di costruzione), è necessario evitare che la somma di questi oneri abbia esiti confiscatori o determini di fatto un vincolo di inedificabilità.
Anche l’altro aspetto della perequazione, ossia la creazione di diritti edificatori utili esclusivamente a fini commerciali, in quanto non sfruttabili direttamente sul terreno che li genera, è sottoposto a limiti logici e normativi. In generale, si osserva che la perequazione non è uno strumento finalizzato a moltiplicare le rendite private.
Il vero obiettivo è la redistribuzione a tutta la collettività dei vantaggi derivanti a pochi proprietari dall’attribuzione di diritti edificatori: questo implica che sia l’amministrazione a incamerare l’eventuale differenza tra il “giusto diritto edificatorio” e il valore della costruzione, per riversarlo poi sul territorio sotto forma di servizi e infrastrutture.
Le indicazioni offerte dalla normativa sono interpretabili in questo senso. L’art. 11, comma 1, della LR 12/2005 prevede l’attribuzione di identici diritti edificatori nelle aree di trasformazione inserite in piani attuativi e in atti di programmazione negoziata.
In effetti, le posizioni dei proprietari coinvolti in questi interventi edilizi sono equivalenti, e dunque è ragionevole che tutti possano beneficiare nella stessa misura dei diritti edificatori, anche se le costruzioni vengono concentrate solo in un punto specifico.
Con una previsione più ampia e innovativa, il comma 2 dell’art. 11 della LR 12/2005 consente che a tutte le aree del territorio comunale, ad eccezione di quelle agricole e di quelle non soggette a trasformazione urbanistica, siano attribuiti identici diritti edificatori, inferiori all’indice minimo fondiario.
Questo è il presupposto del vero e proprio mercato dei diritti edificatori, di cui i comuni devono tenere un registro pubblico e aggiornato. Essendo per definizione normativa un bene scarso, i diritti edificatori possono essere vantaggiosamente scambiati tra i privati, fino a raggiungere la soglia minima che permette l’edificazione. È però evidente che questo meccanismo enfatizza la rendita dei proprietari non interessati a costruire, e impone l’intervento calmieratore dell’amministrazione attraverso la monetizzazione dei diritti edificatori mancanti.
A questo punto, è anche evidente che la perequazione aumenta i costi delle costruzioni senza svolgere una funzione di contenimento dell’utilizzo del territorio. Da qui possono derivare effetti discriminatori, in quanto i proprietari più forti economicamente potranno permettersi di pagare un extracosto anche elevato, mentre gli altri dovranno rinunciare a edificare. È quindi necessario che il prezzo della monetizzazione sia attentamente ponderato, tenendo conto dell’evoluzione del mercato immobiliare.
La costituzione di una rendita nella forma di diritti edificatori è meno problematica quando corrisponda chiaramente a un interesse pubblico, in particolare quando sia effettuata a compensazione della cessione gratuita di aree al Comune, come previsto dall’art. 11, comma 3, della LR 12/2005. Analogamente, la concessione di diritti edificatori è ammissibile come indennizzo per le aree che siano sottoposte a un vincolo sostanzialmente espropriativo.
In questi casi si presenta il problema opposto a quello antispeculativo visto sopra, ossia è necessario che questi diritti siano effettivamente commerciabili in modo vantaggioso per i proprietari, in quanto devono compensare una perdita patrimoniale effettiva. A tale fine sono utili gli incentivi per i proprietari che acquistano da altri privati, rendendo meno conveniente l’alternativa della monetizzazione.
Vi sono poi gli incentivi legati alla tipologia dell’edificazione. Alcuni sono considerati ammissibili direttamente dall’art. 11, comma 5, della LR 12/2005 in relazione a obiettivi di interesse pubblico (riqualificazione urbana; edilizia residenziale pubblica; risparmio energetico; edilizia interamente biocompatibile). L’autonomia dei comuni può individuare ulteriori obiettivi.
Si osserva in proposito che più ci si allontana dagli aspetti costruttivi per puntare a finalità di altra natura (nuovi insediamenti produttivi; disponibilità di alloggi di edilizia convenzionata, a canone moderato o a canone sociale) più è necessario che vi sia un attento bilanciamento tra i diritti edificatori di base, ossia quelli generati dal terreno interessato dall’intervento, e i diritti edificatori reperibili tramite le incentivazioni.
Le condizioni per ottenere gli incentivi determinano infatti un incremento dei costi di costruzione e incidono sulla redditività dell’investimento. Può quindi determinarsi un effetto discriminatorio basato nuovamente sulla capacità economica di chi costruisce.

Sui limiti della perequazione
17. Lo strumento della perequazione, che trova fondamento legislativo a livello locale nell’art. 11 della LR 12/2005, consente alle amministrazioni comunali di ottenere vantaggi superiori a quelli della tradizionale zonizzazione.
Due opportunità sono di particolare rilievo: (i) intercettare parte della rendita prodotta dalla zonizzazione a favore dei proprietari di aree edificabili; (ii) conformare in dettaglio la trasformazione della proprietà privata, indirizzandola verso obiettivi di utilità sociale.
18. Si tratta in entrambi i casi di risultati legittimi, ma solo a condizione che siano rispettati i principi della pianificazione e siano evitate soluzioni eccessivamente penalizzanti per i proprietari.
19. La premessa imprescindibile è che non tutte le aree sono uguali, né possono essere rese uguali con provvedimenti amministrativi (l’art. 8, comma 2-e, della LR 12/2005 collega l’individuazione degli ambiti di trasformazione al rispetto delle vocazioni funzionali del territorio). È vero che i diritti edificatori non ineriscono alla proprietà e sono invece attribuiti dalla pianificazione, ma la loro base naturale risiede nelle caratteristiche fisiche e topografiche dei terreni, che li rendono più o meno adatti all’edificazione.
Una volta riconosciuta la base naturale dei diritti edificatori, è anche evidente che la sottrazione di una parte del valore economico di tali diritti non può superare limiti ragionevoli. In effetti, se il privato per poter realizzare una qualsiasi costruzione (ossia per non essere costretto a lasciare inedificato il terreno) deve monetizzare, al prezzo stabilito dal Comune, i diritti edificatori mancanti, questa situazione è assimilabile all’alternativa tra pagare o non pagare una tassa sulla costruzione.
Trattandosi di un peso economico che si aggiunge al vero e proprio contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, contributo sul costo di costruzione), è necessario evitare che la somma di questi oneri abbia esiti confiscatori o determini di fatto un vincolo di inedificabilità.
20. Anche l’altro aspetto della perequazione, ossia la creazione di diritti edificatori utili esclusivamente a fini commerciali, in quanto non sfruttabili direttamente sul terreno che li genera, è sottoposto a limiti logici e normativi. In generale, si osserva che la perequazione non è uno strumento finalizzato a moltiplicare le rendite private.
Il vero obiettivo è la redistribuzione a tutta la collettività dei vantaggi derivanti a pochi proprietari dall’attribuzione di diritti edificatori: questo implica che sia l’amministrazione a incamerare l’eventuale differenza tra il “giusto diritto edificatorio” e il valore della costruzione, per riversarlo poi sul territorio sotto forma di servizi e infrastrutture.
21. Le indicazioni offerte dalla normativa sono interpretabili in questo senso. L’art. 11, comma 1, della LR 12/2005 prevede l’attribuzione di identici diritti edificatori nelle aree di trasformazione inserite in piani attuativi e in atti di programmazione negoziata.
In effetti, le posizioni dei proprietari coinvolti in questi interventi edilizi sono equivalenti, e dunque è ragionevole che tutti possano beneficiare nella stessa misura dei diritti edificatori, anche se le costruzioni vengono concentrate solo in un punto specifico.
22. Con una previsione più ampia e innovativa, il comma 2 dell’art. 11 della LR 12/2005 consente che a tutte le aree del territorio comunale, ad eccezione di quelle agricole e di quelle non soggette a trasformazione urbanistica, siano attribuiti identici diritti edificatori, inferiori all’indice minimo fondiario.
Questo è il presupposto del vero e proprio mercato dei diritti edificatori, di cui i comuni devono tenere un registro pubblico e aggiornato. Essendo per definizione normativa un bene scarso, i diritti edificatori possono essere vantaggiosamente scambiati tra i privati, fino a raggiungere la soglia minima che permette l’edificazione. È però evidente che questo meccanismo enfatizza la rendita dei proprietari non interessati a costruire, e impone l’intervento calmieratore dell’amministrazione attraverso la monetizzazione dei diritti edificatori mancanti.
A questo punto, è anche evidente che la perequazione aumenta i costi delle costruzioni senza svolgere una funzione di contenimento dell’utilizzo del territorio. Da qui possono derivare effetti discriminatori, in quanto i proprietari più forti economicamente potranno permettersi di pagare un extracosto anche elevato, mentre gli altri dovranno rinunciare a edificare. È quindi necessario che il prezzo della monetizzazione sia attentamente ponderato, tenendo conto dell’evoluzione del mercato immobiliare.
23. La costituzione di una rendita nella forma di diritti edificatori è meno problematica quando corrisponda chiaramente a un interesse pubblico, in particolare quando sia effettuata a compensazione della cessione gratuita di aree al Comune, come previsto dall’art. 11, comma 3, della LR 12/2005. Analogamente, la concessione di diritti edificatori è ammissibile come indennizzo per le aree che siano sottoposte a un vincolo sostanzialmente espropriativo.
In questi casi si presenta il problema opposto a quello antispeculativo visto sopra, ossia è necessario che questi diritti siano effettivamente commerciabili in modo vantaggioso per i proprietari, in quanto devono compensare una perdita patrimoniale effettiva. A tale fine sono utili gli incentivi per i proprietari che acquistano da altri privati, rendendo meno conveniente l’alternativa della monetizzazione.
24. Vi sono poi gli incentivi legati alla tipologia dell’edificazione. Alcuni sono considerati ammissibili direttamente dall’art. 11, comma 5, della LR 12/2005 in relazione a obiettivi di interesse pubblico (riqualificazione urbana; edilizia residenziale pubblica; risparmio energetico; edilizia interamente biocompatibile). L’autonomia dei comuni può individuare ulteriori obiettivi.
Si osserva in proposito che più ci si allontana dagli aspetti costruttivi per puntare a finalità di altra natura (nuovi insediamenti produttivi; disponibilità di alloggi di edilizia convenzionata, a canone moderato o a canone sociale) più è necessario che vi sia un attento bilanciamento tra i diritti edificatori di base, ossia quelli generati dal terreno interessato dall’intervento, e i diritti edificatori reperibili tramite le incentivazioni.
Le condizioni per ottenere gli incentivi determinano infatti un incremento dei costi di costruzione e incidono sulla redditività dell’investimento. Può quindi determinarsi un effetto discriminatorio basato nuovamente sulla capacità economica di chi costruisce.
Conclusioni
25. Tornando al caso in esame, inquadrato economicamente come si è visto sopra, si ritiene che le modalità con cui il PGT ha attuato la perequazione presentino le seguenti criticità:
(a) vi è un intervallo eccessivo tra i diritti edificatori generati dall’area interessata dall’intervento e quelli da acquistare, monetizzare, o reperire mediante gli incentivi. Non è possibile stabilire, in mancanza di puntuali indicazioni normative, una ripartizione esatta, ma si può ritenere che almeno la metà dei diritti edificatori necessari per intraprendere una costruzione (indice di densità minimo) debba appartenere alla prima categoria. In questo modo il peso degli incentivi è relativizzato, e viene salvaguardata la libertà di scelta dei privati circa le caratteristiche della costruzione;
(b) con il prezzo iniziale della monetizzazione, e la conseguente necessità di utilizzare tutti gli incentivi, erano praticabili solo l’attività edificatoria dotata dei più elevati standard costruttivi (quindi più costosa) e quella finalizzata all’edilizia sociale (non facilmente gestibile da un privato o da un normale impresa di costruzioni).
In corso di causa è intervenuta la riduzione del prezzo della monetizzazione, ma rimane la necessità di un’indagine più precisa sulla situazione del mercato immobiliare e di un’analisi più dettagliata dei reali costi di costruzione (in particolare, delle voci che presentano rigidità, come lavoro e materiali);
(c) la disciplina del PGT non tiene adeguatamente conto della distinzione tra l’indice di densità minimo e quello massimo. Per raggiungere il primo, i diritti edificatori generati dall’area interessata dall’intervento non possono essere inferiori, come si è visto, alla metà del totale. Nello specifico, per contro, come si è detto, i diritti edificatori generati dall’area in questione sono stati fissati in 0,25 mq/mq e l’indice minimo di densità in 0,80 mq/mq, determinando un differenziale di diritti edificatori da colmare, per ogni mq edificato, pari a 0,55 mq/mq [0,80-0,25], che è alla base di quell’effetto distorsivo che la ricorrente giustamente censura;
(d) è invece in relazione al secondo indice di densità (quello massimo) che, una volta corretto il primo nel senso sopra chiarito, possono trovare maggiore spazio le politiche incentivanti del Comune, le quali, operando su questo segmento della capacità edificatoria, sono in grado di svolgere un’appropriata funzione premiale senza effetti inibitori o distorsivi.
26. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento delle norme del PGT relative alla perequazione. L’effetto conformativo di questa pronuncia comporta l’obbligo per il Comune di riesaminare la disciplina in questione mediante un nuovo pronunciamento del consiglio comunale, nel rispetto delle indicazioni sopra esposte.
Per tale adempimento è fissato il termine di 90 giorni dal deposito della presente sentenza (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.01.2015 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2014
ottobre 2014

EDILIZIA PRIVATAL’art. 73, comma 1, della l.r. 12.2005 stabilisce a tal fine che “in ciascun comune, almeno l'8 per cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria è ogni anno accantonato in apposito fondo, risultante in modo specifico nel bilancio di previsione, destinato alla realizzazione delle attrezzature indicate all'articolo 71, nonché per interventi manutentivi, di restauro e ristrutturazione edilizia, ampliamento e dotazione di impianti, ovvero all'acquisto delle aree necessarie”.
Sicché, la concessione del finanziamento pubblico, nei limiti delle risorse accantonate nel bilancio dell’ente, sia subordinato ad uno specifico provvedimento amministrativo che ne accerti l’ammissibilità alla luce dei parametri indicati dalla legge.
A tal fine l’amministrazione comunale è tenuta, oltre che a verificare riconducibilità degli interventi richiesti con quelli normativamente previsti e la loro compatibilità con gli strumenti urbanistici in essere, anche a valutare, nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa, l’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera in ragione della consistenza ed incidenza sociale nel comune delle rispettive confessioni religiose.
Né il comune risulta obbligato a finanziare totalmente il programma presentato, potendo il finanziamento essere concesso solo in parte.
In assenza di siffatta valutazione, destinata a trovare espressione in un provvedimento formale dei competenti organi comunali adeguatamente motivato con riguardo agli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda, non appare configurabile in capo ai potenziali beneficiari alcun diritto soggettivo a conseguire direttamente il finanziamento nella misura dell’accantonamento previsto dalla legge.

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Con la nota sopra citata, il Commissario straordinario del comune di Sedriano (MI), espone quanto segue.
La legge regionale 11.03.2005, n. 12 impone ai comuni di accantonare ogni anno almeno l'8 per cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria in un in apposito fondo diretto alla realizzazione di attrezzature di interesse comune destinate a servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della chiesa cattolica (o delle altre confessioni religiose aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell'ambito del comune) che ne facciano richiesta, presentando entro il 30 giugno di ogni anno un programma di massima, anche pluriennale, degli interventi da effettuare.
La stessa legge regionale stabilisce, inoltre, che il comune, entro Il successivo 30 novembre, dopo aver verificato che gli interventi previsti nei programmi presentati rientrano tra quelli finanziabili, ripartisce i predetti contributi, finanziando in tutto o in parte i programmi a tal fine presentati.
Richiamati i predetti riferimenti normativi si rappresenta che il comune non ha mai proceduto all'accantonamento in bilancio della quota prevista dalla legge, né ha mai impegnato tale somma, ma, a fronte delle ripetute richieste di finanziamento presentate dalla locale parrocchia, ha impegnato e, successivamente, liquidato una quota decisa sulla base della disponibilità di bilancio del momento, a prescindere sia dall'importo del contributo che doveva essere accantonato e sia dal programma di massima che la parrocchia stessa, tramite il proprio rappresentante legale, aveva fatto pervenire al comune, unitamente alle fatture che rendicontavano l'avvenuta realizzazione dei lavori.
Si è quindi è venuta a creare una situazione tale che, in alcuni anni, l'importo corrisposto dal comune risulta inferiore, in altri, superiore a quanto dovuto in base alla legge regionale sopra richiamata.
Tutto ciò premesso e allegata la documentazione relativa al caso di specie, si formulano i seguenti quesiti.
- se il comune debba riconoscere il finanziamento di tali contributi pari ad euro 281.457,81 debito fuori bilancio ai sensi dell'art. 194 del TUEL;
- se il comune possa compensare le somme dovute al culto religioso con l'eccedenza corrisposta in più nel corso degli anni pari ad euro 39.449,76.
...
L’esame del merito della questione, nei limiti sopra riferiti, richiede di chiarire gli obblighi incombenti sul Comune per effetto delle disposizioni contenute nella legge regionale 11.03.2005, n. 12 dirette a promuovere, la realizzazione di attrezzature di interesse comune destinate a servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica e delle altre confessioni religiose aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune.
L’art. 73, primo comma, della predetta legge regionale stabilisce a tal fine che “in ciascun comune, almeno l'8 per cento delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria è ogni anno accantonato in apposito fondo, risultante in modo specifico nel bilancio di previsione, destinato alla realizzazione delle attrezzature indicate all'articolo 71, nonché per interventi manutentivi, di restauro e ristrutturazione edilizia, ampliamento e dotazione di impianti, ovvero all'acquisto delle aree necessarie”.
Lo stesso art. 73 precisa quindi che “i contributi sono corrisposti agli enti delle confessioni religiose di cui all'articolo 70 che ne facciano richiesta. A tal fine le autorità religiose competenti, secondo l'ordinamento proprio di ciascuna confessione, presentano al comune entro il 30 giugno di ogni anno un programma di massima, anche pluriennale, degli interventi da effettuare, dando priorità alle opere di restauro e di risanamento conservativo del proprio patrimonio architettonico esistente, corredato dalle relative previsioni di spesa. Entro il successivo 30 novembre, il comune, dopo aver verificato che gli interventi previsti nei programmi presentati rientrino tra quelli di cui all'articolo 71, comma 1, ripartisce i predetti contributi tra gli enti di cui all'articolo 70 che ne abbiano fatto istanza, tenuto conto della consistenza ed incidenza sociale nel comune delle rispettive confessioni religiose, finanziando in tutto o in parte i programmi a tal fine presentati. Tali contributi, da corrispondere entro trenta giorni dall'esecutività della deliberazione di approvazione del bilancio annuale di previsione, sono utilizzati entro tre anni dalla loro assegnazione e la relativa spesa documentata con relazione che gli enti assegnatari trasmettono al comune entro sei mesi dalla conclusione dei lavori”.
Dal quadro normativo definito dalle disposizioni sopra richiamate emerge chiaramente che
la concessione del finanziamento pubblico, nei limiti delle risorse accantonate nel bilancio dell’ente, sia subordinato ad uno specifico provvedimento amministrativo che ne accerti l’ammissibilità alla luce dei parametri indicati dalla legge.
A tal fine l’amministrazione comunale è tenuta, oltre che a verificare riconducibilità degli interventi richiesti con quelli normativamente previsti e la loro compatibilità con gli strumenti urbanistici in essere, anche a valutare, nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa, l’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera in ragione della consistenza ed incidenza sociale nel comune delle rispettive confessioni religiose.
Né il comune risulta obbligato a finanziare totalmente il programma presentato, potendo il finanziamento essere concesso solo in parte.
In assenza di siffatta valutazione, destinata a trovare espressione in un provvedimento formale dei competenti organi comunali adeguatamente motivato con riguardo agli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda, non appare configurabile in capo ai potenziali beneficiari alcun diritto soggettivo a conseguire direttamente il finanziamento nella misura dell’accantonamento previsto dalla legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 17.10.2014 n. 263).

gennaio 2014

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 6 del 05.02.2014, "Disposizioni per l’iscrizione all’albo dei commissari ad acta di cui all’art. 31 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio», disciplinato con d.g.r. n. 6/41493 del 19.02.1999 «Attuazione dell’art. 14, secondo comma, della legge regionale 23.06.1997, n. 23. Definizione di criteri e modalità per la formazione, la gestione e l’articolazione dell’albo dei commissari ad acta ai fini dell’esercizio dei poteri sostitutivi regionali in materia edilizio-urbanistica e paesistico-ambientale»" (deliberazione G.R. 24.01.2014 n. 1273).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICAIl parere di compatibilità del PGT con il PTCP, di cui alla LR 12/2005, non costituisce una manifestazione della generale potestà di pianificazione riconosciuta dal Testo Unico degli enti locali (D.Lgs. 267/2000), all’organo consiliare, quanto piuttosto una valutazione di carattere tecnico, non riservata pertanto al Consiglio.
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Va ricordato l’indirizzo giurisprudenziale che riconosce alle Amministrazioni ampia discrezionalità in sede di approvazione degli strumenti urbanistici generali, senza contare che le osservazioni dei privati a questi ultimi costituiscono un mero apporto collaborativo.

La giurisprudenza amministrativa, infatti, è ormai giunta alla conclusione che il parere di compatibilità del PGT con il PTCP, di cui alla LR 12/2005, non costituisce una manifestazione della generale potestà di pianificazione riconosciuta dal Testo Unico degli enti locali (D.Lgs. 267/2000), all’organo consiliare, quanto piuttosto una valutazione di carattere tecnico, non riservata pertanto al Consiglio (si vedano, sul punto, le sentenze del TAR Lombardia, sez. II, n. 4303/2009, n. 1221/2010, n. 7512 del 10.12.2010 e n. 7614/2010, costituenti precedenti specifici ai quali si rinvia).
Il precedente di segno opposto di questa Sezione II, citato dalla ricorrente (sentenza n. 5292/2007), risulta ormai superato dalle più recenti decisioni di cui sopra, senza contare che la sentenza n. 5292/2007 è stata annullata senza rinvio dal Consiglio di Stato con sentenza della sezione IV, 28.05.2009, n. 3337.
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Nella controdeduzione all’osservazione n. 14 della società istante, l’Amministrazione ha avuto cura di specificare che l’ambito di trasformazione commerciale “E” è stato individuato sulla base di una precedente proposta di piano attuativo in variante al PRG presentata dalla società stessa (cfr. su tale proposta, il doc. 4 ed il doc. 12 del Comune), mentre non appariva rispondente alle esigenze della collettività la soppressione dell’area a verde, peraltro già non edificabile anche in base al previgente PRG.
Si tratta di motivazioni non illogiche né arbitrarie, che escludono l’illegittimità della decisione di pianificazione del Comune, anche tenendo conto dell’indirizzo giurisprudenziale che riconosce alle Amministrazioni ampia discrezionalità in sede di approvazione degli strumenti urbanistici generali, senza contare che le osservazioni dei privati a questi ultimi costituiscono un mero apporto collaborativo (cfr. fra le tante, la fondamentale sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710, richiamata e confermata dalla successiva sentenza della stessa Sezione IV, 28.11.2012, n. 6040; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.12.2012, n. 6703 e 21.12.2012, n. 6656; oltre che, fra le decisioni di primo grado, TAR Toscana, sez. I, 20.11.2013, n. 1593; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 04.12.2013, n. 2696, 26.02.2013, n. 532 e 08.02.2012, n. 437; TAR Emilia Romagna, Parma, 29.01.2013, n. 26; TRGA Trentino Alto Adige, Bolzano, 17.07.2012, n. 255)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.01.2014 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L.R. Lombardia 12/2005: la scadenza del termine per l'approvazione dei PGT non comporta la decadenza dei titoli edilizi non avviati.
Il TAR Lombardia-Milano interpreta l'articolo 25, c. 1, della legge regionale n. 12/2005 nell'ottica del principio di ragionevolezza, affermando che il decorso del termine per l'approvazione (allora il 31.12.2012, oggi il 30.06.2014) dei P.G.T. imponga non la decadenza (art. 15 T.U.E.D.), bensì la sospensione dei titoli edilizi privi di inizio lavori.
Con la sentenza 24.07.2013 n. 1943 e la sentenza 03.01.2014 n. 2 il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, interviene sulla questione dell'efficacia della disposizione contenuta nel comma 1 dell'articolo 25 della L.R. 12/2005 secondo cui "1. Gli strumenti urbanistici comunali vigenti conservano efficacia fino all’approvazione del PGT e comunque non oltre la data del 30.06.2014 [...]".
Tutto ruota, ovviamente, sulla nozione di "perdita di efficacia" che, se tradizionalmente definita come l'idoneità di un atto a produrre effetti giuridici (Virga, 1997), non significa di per sé decadenza, istituto che produce l'estinzione di un rapporto, non di un atto (Santaniello, 1962), ma unicamente incapacità dell'atto di produrre effetti.
In una accezione letterale l'espressione ^perdita di efficacia^ significa la mera sospensione degli effetti dello strumento urbanistico in essere, che rimarrebbe vigente in attesa del nuovo. Le conseguenze pratiche di una simile opzione, conforme al testo di legge e alla teoria generale del diritto, corrispondono alla paralisi dello strumento urbanistico.
In una interpretazione logica, che operi avendo presente lo scopo che il legislatore sembra essersi prefisso con la norma, la medesima espressione potrebbe tuttavia valere a configurare la perdita di efficacia come sinonimo di decadenza. In tal senso si esprimeva la D.G. Territorio in un verbale della Commissione consiliare Territorio del 29.07.2010.
La rara dottrina che ha commentato l'articolo 25 o non si è espressa (G. Inzaghi, 2005) o ha sostenuto la tesi della applicabilità dell'art. 9 del TUED (G. Leo, 2005).
In questo scenario si calano le decisioni del TAR Lombardia, ad avviso del quale la disposizione in questione impone non la decadenza, bensì la sospensione dei titoli edilizi rilasciati ma privi di inizio lavori. Il decorso del termine indicato dall'articolo 25 per l'approvazione non equivale, afferma il TAR, a fattispecie ostativa ex 15 D.P.R. 380/2001, a norma del quale: "4. Il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio.".
Si tratta, si afferma: "di un’interpretazione del dettato legislativo regionale rispettosa del canone di ragionevolezza che –ex art. 3 della Costituzione– deve sempre accompagnare l’esercizio della funzione legislativa, anche da parte delle Regioni (sulla rilevanza della “ragionevolezza”, quale parametro costituzionale, si veda, fra le decisioni più recenti: Corte Costituzionale, 27.06.2013, n. 160).".
A sostegno della tesi cita il TAR la circolare 19.06.2013, n. 14 (pubblicata sul BURL 21.06.2013, n. 25), con cui la Regione Lombardia ha stabilito che possono essere riattivate le istanze di intervento presentate entro il 31.12.2012 ma non definite per effetto della pregressa disciplina restrittiva, sicché le novità della LR 1/2013 finiscono per avere un effetto sostanzialmente retroattivo (ex tunc).
Giova in ultimo ricordare che la questione interpretativa dei menzionati commi dell’art. 25 della LR 12/2005 ha perso parzialmente rilevanza, visto che la stessa Regione Lombardia, con legge regionale 04.06.2013, n. 1, ha espressamente abrogato i commi in questione (cfr. l’art. 2, comma 2°, della legge), fissando un nuovo termine per l’approvazione del PGT per i Comuni rimasti ancora inerti, al 30.06.2014.
Poiché, tuttavia, il dettato del comma 1 è rimasto il medesimo ("Gli strumenti urbanistici comunali vigenti conservano efficacia ..."), la soluzione offerta dal TAR è utile per la nuova scadenza
(tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).

ANNO 2013
dicembre 2013

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2013, "Direzione generale Territorio,urbanistica e difesa del suolo - Esame e valutazione delle domande di iscrizione all’albo dei commissari ad acta ai fini dell’esercizio dei poteri sostitutivi regionali in materia edilizio-urbanistica e paesistico-ambientale, istituito con legge regionale 11.03.2005, n. 12" (decreto A.R. 23.12.2013 n. 12733).

URBANISTICA: La delibera di approvazione del PGT va annullata nella parte in cui omette di apprezzare, attraverso una corretta e completa istruttoria, quali e quante realtà sociali espressione di religioni non cattoliche, in ispecie islamiche, esistano nel Comune, di valutare le loro istanze in termini di servizi religiosi e di decidere motivatamente se e in che misura esse possano essere soddisfatte nel Piano dei servizi.
Il Piano dei servizi, che ai sensi dell’art. 7 della l.r. 12/2005 è una delle articolazioni del PGT, ai sensi del successivo art. 9, comma 4, “valuta prioritariamente l'insieme delle attrezzature al servizio delle funzioni insediate nel territorio comunale… e, in caso di accertata insufficienza o inadeguatezza delle attrezzature stesse, quantifica i costi per il loro adeguamento e individua le modalità di intervento. Analogamente il piano indica… le necessità di sviluppo e integrazione dei servizi esistenti, ne quantifica i costi e ne prefigura le modalità di attuazione..”.
Ai sensi degli artt. 71 e 72 della stessa l. 12/2005, fanno poi parte dei “servizi” che il relativo Piano deve considerare anche le “attrezzature di interesse comune destinate a servizi religiosi”, da pianificare “valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70”.
Quest’ultima norma, infine, considera confessioni religiose le cui istanze vanno valutate non solo la Chiesa cattolica, ma anche tutte le altre “confessioni religiose come tali qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune ove siano effettuati gli interventi disciplinati dal presente capo, ed i cui statuti esprimano il carattere religioso delle loro finalità istituzionali”. E’ poi del tutto manifesto che tali caratteri si riconoscono in una religione diffusa a livello mondiale come l’Islam.
La stessa norma richiama anche una “previa convenzione” fra le associazioni ed il Comune interessato, richiamo che però va interpretato in senso conforme alle norme che nel nostro ordinamento garantiscono la libertà di culto, ovvero l’art. 19 Cost., l’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in Italia per la l. 04.08.1955 n. 848 e l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza, 07.12.2000, che come è noto ha ora il medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13.12.2007.
In tali termini, la stipula di una convenzione deve ritenersi richiesta per realizzare opere con “contributi e provvidenze” pubblici, non già semplicemente per essere presi in considerazione come realtà sociale ai fini della programmazione dei servizi religiosi, perché a pensarla altrimenti ogni Comune potrebbe scegliere in modo discrezionale di promuovere o avversare una qualche confessione religiosa rispetto ad altre.
Ciò posto, e a prescindere dalla generica possibilità, allegata dal Comune, di realizzare altrimenti i servizi religiosi in base alle norme comuni sulla modifica della destinazione d’uso di immobili esistenti, possibilità secondo logica dipendente dalle norme di zona, è accertato quanto l’associazione afferma, ovvero che (v. doc. 12 ricorrente, copia catalogo servizi esistenti; doc. 11 ricorrente, copia relazione generale al PGT, p. 92 § 10) nel redigere il Piano dei servizi sono stati considerati soltanto i servizi religiosi collegati alla Chiesa cattolica. Per conto, la presenza in Brescia di comunità di cittadini di religione musulmana è dato notorio a livello locale e nazionale.
La delibera di approvazione del PGT va pertanto annullata nella parte in cui omette di apprezzare, attraverso una corretta e completa istruttoria, quali e quante realtà sociali espressione di religioni non cattoliche, in ispecie islamiche, esistano nel Comune, di valutare le loro istanze in termini di servizi religiosi e di decidere motivatamente se e in che misura esse possano essere soddisfatte nel Piano dei servizi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2013 n. 1176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Va ricordato il tenore dell’art. 13, comma 7, della l.r. 12/2005: “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo.”
L’effettivo significato della norma è controverso in giurisprudenza: si rinvia, in quanto necessario, alla sentenza TAR Lombardia Milano 7508/2010 di cui si è detto, che mette in dubbio l’effettiva portata del termine “inefficacia”.
Salva e impregiudicata la relativa questione, è però certo che la procedura è regolarmente conclusa allorquando la delibera di approvazione delle controdeduzioni e di approvazione del piano intervenga entro i prescritti novanta giorni “dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni”, che a sua volta, ai sensi del comma 4 dello stesso art. 13, è di trenta giorni dal deposito.

... per l’annullamento, previa sospensione, della deliberazione 19.03.2012 n. 57, pubblicata sul BURL il 24.10.2012, con la quale il Consiglio comunale di Brescia ha approvato in via definitiva le controdeduzioni al Piano di governo del territorio – PGT e il PGT stesso, nella parte in cui ha disposto sull’area denominata unità di intervento L 2 1 “Pietra Curva” di proprietà della ricorrente, non consentendo di realizzarvi una grande struttura di vendita;
...
- con il secondo motivo, corrispondente alla censura seconda alle pp. 29-30, deduce violazione dell’art. 13, comma 7, della l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12, per esser stato a suo dire superato il termine di 90 giorni accordato, sempre a suo dire a pena di decadenza di tutti gli atti, dalla norma suddetta per controdedurre alle osservazioni e approvare il PGT adottato;
...
Il secondo motivo di impugnazione è invece infondato in fatto.
Per chiarezza, va ricordato il tenore dell’art. 13, comma 7, della l.r. 12/2005: “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo.”
L’effettivo significato della norma, così come ricordato anche dal Comune resistente e riportato in premesse, è controverso in giurisprudenza: si rinvia, in quanto necessario, alla sentenza TAR Lombardia Milano 7508/2010 di cui si è detto, che mette in dubbio l’effettiva portata del termine “inefficacia”. Salva e impregiudicata la relativa questione, è però certo che la procedura è regolarmente conclusa allorquando la delibera di approvazione delle controdeduzioni e di approvazione del piano intervenga entro i prescritti novanta giorni “dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni”, che a sua volta, ai sensi del comma 4 dello stesso art. 13, è di trenta giorni dal deposito
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2013 n. 1168 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 52 del 27.12.2013, "Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’art. 9-ter della legge regionale 31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione) - Collegato 2014" (L.R. 24.12.2013 n. 19).
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Di particolare interesse, si leggano:
Art. 1 - (Disposizioni per la pianificazione dei comuni di nuova istituzione. Modifica alla l.r. 12/2005)
Art. 3 - (Misure di razionalizzazione della spesa per le comunità montane)
Art. 15 - (Disposizioni transitorie e finali)

URBANISTICA: Il comma 7 dell’art. 13 l.r. 12/2005 dispone che "Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
La norma in questione, alla lettera, prevede una sanzione di inefficacia degli “atti” assunti per adottare il PGT ove le relative osservazioni non vengano decise entro un termine.
Ad avviso del Collegio, però, l’interpretazione di detta norma -controversa in giurisprudenza anche in rapporto ai veri e propri atti di adozione, vedasi TAR Lombardia Milano sez. II 10.12.2010 n. 7508- non va estesa agli atti istruttori, per i quali una inefficacia non è a priori configurabile, trattandosi di atti endoprocedimentali, che di efficacia mancano per natura e potrebbero se mai essere colpiti, a somiglianza degli atti istruttori penali, da una inutilizzabilità, che però non è nella legge.

Il primo motivo del primo ricorso per motivi aggiunti va respinto.
La ricorrente invoca il comma 7 dell’art. 13 l.r. 12/2005, per cui “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena d’inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
La norma in questione, alla lettera, prevede una sanzione di inefficacia degli “atti” assunti per adottare il PGT ove le relative osservazioni non vengano decise entro un termine.
Ad avviso del Collegio, però, l’interpretazione di detta norma -controversa in giurisprudenza anche in rapporto ai veri e propri atti di adozione, vedasi TAR Lombardia Milano sez. II 10.12.2010 n. 7508, citata anche dal Comune (memoria 02.11.2013 p. 18)- non va estesa agli atti istruttori, per i quali una inefficacia non è a priori configurabile, trattandosi di atti endoprocedimentali, che di efficacia mancano per natura e potrebbero se mai essere colpiti, a somiglianza degli atti istruttori penali, da una inutilizzabilità, che però non è nella legge.
Nulla vietava quindi che il Comune riadattasse il Piano con la precedente istruttoria (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.12.2013 n. 1131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2013

URBANISTICA: La giurisprudenza interpreta la locuzione legislativa “procedure in corso alla data del 31.03.2010” (ex art. 26, comma 3-ter, l.r. 12/2005) ritenendo sufficiente l’avvio, a tale data, del procedimento di approvazione del piano, senza richiedere che sia intervenuta, alla ridetta data, la deliberazione del Consiglio comunale di adozione del piano, che dovrà essere successivamente approvato.
Tale interpretazione, oltre che avvalorata da un’interpretazione sistematica della richiamata normativa regionale, appare coerente con i principi generali sul procedimento amministrativo, di cui alla legge n. 241/1990, principi certamente applicabili alle procedure comunali di variante urbanistica (cfr. art. 29 della legge 241/1990).

L’art. 26 della legge regionale n. 12/2005, al co. 3-ter (introdotto dall’art. 21, comma 1, lett. b), della legge regionale 7/2010), prevede che: “Fatta comunque salva la conclusione, anche agli effetti di variante urbanistica, delle procedure in corso alla data del 31.03.2010, per i comuni che alla medesima data non hanno adottato il PGT non trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 25, comma 1,...” (norma che, come noto, permette a determinate condizioni l’approvazione di piani attuativi in variante al PRG).
La giurisprudenza interpreta la locuzione legislativa “procedure in corso alla data del 31.03.2010” ritenendo sufficiente l’avvio, a tale data, del procedimento di approvazione del piano, senza richiedere che sia intervenuta, alla ridetta data, la deliberazione del Consiglio comunale di adozione del piano, che dovrà essere successivamente approvato (cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 26.07.2011 n. 1992, che valorizza la previsione di cui all’art. 14 della l.r. n. 12/2005 -il quale prevede, per i piani attuativi di iniziativa privata, che l’istruttoria sia condotta dai competenti uffici comunali, i quali, in caso di esito positivo, propongono l’adozione del piano all’organo politico competente– onde inferirne che, la deliberazione di adozione da parte del Consiglio comunale non può che intervenire al termine della positiva istruttoria condotta dagli uffici, giacché, in caso contrario, la proposta di piano di iniziativa privata non sarebbe posta all’attenzione dell’organo consiliare).
Tale interpretazione, oltre che avvalorata da un’interpretazione sistematica della richiamata normativa regionale, appare coerente con i principi generali sul procedimento amministrativo, di cui alla legge n. 241/1990, principi certamente applicabili alle procedure comunali di variante urbanistica (cfr. art. 29 della legge 241/1990) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.10.2013 n. 2336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2013

EDILIZIA PRIVATALa l.r. lombarda n. 93/1980, nel disciplinare in modo puntuale i limiti dell'utilizzazione edilizia delle zone agricole, con l'individuazione tipologica degli interventi ammessi, la loro necessaria connotazione funzionale all'esercizio delle attività agricole, l'enucleazione di restrittivi indici fondiari ed edilizi, il collegamento imprescindibile con ineludibili requisiti soggettivi è ispirata ad una trasparente ratio tesa a evitare e minimizzare il c.d. consumo di suolo.
In tale prospettiva, mentre deve evidentemente escludersi che gli strumenti urbanistici possano modificare in senso ampliativo i predetti limiti e parametri, non può viceversa sostenersi che, sia pure con specifica e congrua motivazione, essi non possano, invece, introdurre limitazioni più penetranti, col limite ovvio di non poter precludere l'utilizzazione agricola, la conservazione dei manufatti esistenti, la loro ristrutturazione a fini e usi produttivi.
La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo di chiarire che "Nella regione Lombardia l'art. 2 l.r. 07.06.1980 n. 93, nel prevedere la normativa applicabile nei territori dei comuni per le zone agricole E, non ha precluso all'autorità urbanistica l'esercizio del più pieno potere di pianificazione del territorio anche in funzione di salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici, con la conseguenza che le disposizioni da esso introdotte si applicano in via sussidiaria ove manchino specifiche prescrizioni dello strumento urbanistico, e non rendono illegittime le scelte inerenti alla assoluta inedificabilità e immodificabilità delle aree agricole, ovvero quelle che subordinano l'identificazione delle possibili modifiche all'adozione di un piano attuativo, volto alla razionale gestione del territorio posto all'interno dell'istituendo parco".
L'art. 4 della legge, nello stabilire che "Le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 della presente legge sono immediatamente prevalenti sulle norme e sulle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e di igiene comunali che risultino in contrasto con esse", intende soltanto evidenziare che diverse e/o più favorevoli prescrizioni, condizioni, indici e parametri eventualmente previsti negli strumenti urbanistici e nei regolamenti comunali sono sostituiti in via diretta e automatica, previa doverosa disapplicazione, da quelli contemplati direttamente dalla legge regionale, che ha contenuti immediatamente precettivi e non richiede, quindi, l'avvio di alcuna procedura di recepimento mediante variante urbanistica.
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La legge regionale lombarda n. 12/2005, a differenza della legge regionale n. 93/1980, ha espressamente indicato e previsto che gli strumenti urbanistici comunali debbano recepire le prescrizioni ivi recate relative alle aree destinate all'agricoltura, dovendo assicurare la "conformità" della normativa d'uso, valorizzazione e salvaguardia di livello comunale con i requisiti, condizioni, limiti e parametri direttamente individuati dagli artt. 59 e 60.

Il giudice amministrativo lombardo muove, in effetti, da una erronea interpretazione dell'art. 4 della l.r. n. 93/1980 e più in generale sul rapporto tra le previsioni della predetta legge regionale e i poteri pianificatori comunali in assenza di strumenti di pianificazione intermedia con valenza anche paesistico-ambientale.
La legge regionale 07.06.1980, n. 93, nel disciplinare in modo puntuale i limiti dell'utilizzazione edilizia delle zone agricole, con l'individuazione tipologica degli interventi ammessi, la loro necessaria connotazione funzionale all'esercizio delle attività agricole, l'enucleazione di restrittivi indici fondiari ed edilizi, il collegamento imprescindibile con ineludibili requisiti soggettivi (riconosciuto pienamente legittimo dalla nota sentenza della Corte Costituzionale, 16.05.1995, n. 167) è ispirata ad una trasparente ratio tesa a evitare e minimizzare il c.d. consumo di suolo.
In tale prospettiva, mentre deve evidentemente escludersi che gli strumenti urbanistici possano modificare in senso ampliativo i predetti limiti e parametri, non può viceversa sostenersi che, sia pure con specifica e congrua motivazione, essi non possano, invece, introdurre limitazioni più penetranti, col limite ovvio di non poter precludere l'utilizzazione agricola, la conservazione dei manufatti esistenti, la loro ristrutturazione a fini e usi produttivi.
La giurisprudenza di questa Sezione ha già avuto modo di chiarire che "Nella regione Lombardia l'art. 2 l.r. 07.06.1980 n. 93, nel prevedere la normativa applicabile nei territori dei comuni per le zone agricole E, non ha precluso all'autorità urbanistica l'esercizio del più pieno potere di pianificazione del territorio anche in funzione di salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici, con la conseguenza che le disposizioni da esso introdotte si applicano in via sussidiaria ove manchino specifiche prescrizioni dello strumento urbanistico, e non rendono illegittime le scelte inerenti alla assoluta inedificabilità e immodificabilità delle aree agricole, ovvero quelle che subordinano l'identificazione delle possibili modifiche all'adozione di un piano attuativo, volto alla razionale gestione del territorio posto all'interno dell'istituendo parco" (Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.2007, n. 860).
L'art. 4 della legge, nello stabilire che "Le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 della presente legge sono immediatamente prevalenti sulle norme e sulle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e di igiene comunali che risultino in contrasto con esse", intende soltanto evidenziare che diverse e/o più favorevoli prescrizioni, condizioni, indici e parametri eventualmente previsti negli strumenti urbanistici e nei regolamenti comunali sono sostituiti in via diretta e automatica, previa doverosa disapplicazione, da quelli contemplati direttamente dalla legge regionale, che ha contenuti immediatamente precettivi e non richiede, quindi, l'avvio di alcuna procedura di recepimento mediante variante urbanistica.
In tale chiave interpretativa si comprende anche la previsione contenuta nell'art. 2, comma 7, della legge, a tenore della quale "Le disposizioni di cui al comma 2°, 3°, 4°, 5° e 6° del presente articolo si applicano fino all'approvazione del piano territoriale comprensoriale di cui alla sezione II, titolo II, della legge regionale 15.04.1975, n. 51", che ha inteso evidentemente demandare l'individuazione di una più articolata e specifica disciplina dell'utilizzazione delle zone agricole allo strumento di pianificazione intermedio di livello comprensoriale, al quale rimane affidata la funzione di dettare una normativa rapportata agli ambiti territoriali di riferimento, e quindi in grado di valutare e valorizzare le loro precipue caratteristiche.
In altri termini, se il piano territoriale comprensoriale (strumento rimasto inattuato, come pure riconosciuto dal giudice amministrativo lombardo, salvo che per la provincia di Lodi) avrebbe potuto introdurre nuovi, diversi, anche più ampliativi, limiti e parametri, non per questo ai comuni era precluso, nell'esercizio del potere di pianificazione, l'enucleazione di limiti e parametri più restrittivi, e ciò anche in vista di esigenze di tutela lato sensu ambientale e paesistica.
Non può infatti obliterarsi che l'art. 18, comma 1, n. 1) della stessa della legge regionale 15.04.1975, n. 51 (recante "Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia del patrimonio naturale e paesistico") demandava ai piani regolatori comunali, tra l'altro, di individuare "le aree agricole, di riserva naturale e di tutela dei beni paesaggistici", e che nella diversa forma del territorio possono essere e sono normalmente compresenti in una stessa area valenze produttive e connotazioni naturalistiche, ambientali e paesistiche.
Né ai fini della corretta interpretazione dell'art. 4 della l.r. n. 93/1980 può soccorrere, al contrario di quanto opinato dal giudice amministrativo bresciano, la disposizione dell'art. 61 della l.r. 11.03.2005, n. 12 (recante "Legge per il governo del territorio"), ossia la successiva legge urbanistica regionale, poiché la inderogabilità delle previsioni e prescrizioni di cui agli artt. 59 e 60 della medesima ivi si ricollega alla vincolante e specifica indicazione di cui al precedente art. 10, comma 4, lettera a), n. 1), secondo cui "Il piano delle regole: a) per le aree destinate all'agricoltura: 1) detta la disciplina d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia, in conformità con quanto previsto dal titolo terzo della parte seconda".
In altri termini, la legge regionale n. 12/2005, a differenza della legge regionale n. 93/1980, ha espressamente indicato e previsto che gli strumenti urbanistici comunali debbano recepire le prescrizioni ivi recate relative alle aree destinate all'agricoltura, dovendo assicurare la "conformità" della normativa d'uso, valorizzazione e salvaguardia di livello comunale con i requisiti, condizioni, limiti e parametri direttamente individuati dagli artt. 59 e 60 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.09.2013 n. 4848 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2013

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Approvazione P.G.T. e misure di salvaguardia (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo, risposta e-mail del 12.07.2013).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2013, "Testo coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»".

giugno 2013

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 21.06.2013, "Indirizzi per l’applicazione delle norme transitorie per la pianificazione comunale (l.r. 1/2013)" (circolare regionale 19.06.2013 n. 14).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 23 del 05.06.2013, "Disposizioni transitorie per la pianificazione comunale. Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)(L.R. 04.06.2013 n. 1).

maggio 2013

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Disposizioni transitorie per la pianificazione comunale. Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) (LCR n. 1 approvata nella seduta del 28.05.2013 in attesa di pubblicazione sul BURL - tratto da www.consiglio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia, proroga PGT: 31.12.2013 per l'adozione e 30.06.2014 per l'approvazione definitiva.
Termine ultimo fissato al 31.12.2013 per l'adozione e al 30.06.2014 per l'approvazione definitiva dei Piani di Governo del Territorio (PGT) nei Comuni che sono in ritardo sul varo del provvedimento urbanistico. E’ quanto ha deciso oggi il Consiglio regionale con 62 voti a favore e 9 contrari, approvando la legge che introduce anche sanzioni e penalizzazioni per quei Comuni che alle scadenze indicate dovessero risultare ancora inadempienti: a favore si sono espressi i gruppi PdL, Lega Nord, Maroni Presidente, Fratelli d’Italia, Pensionati, PD e Patto Civico Ambrosoli, contrari i soli rappresentanti del Movimento 5 Stelle.
La tempestività dimostrata in Commissione -ha commentato il relatore del provvedimento e presidente della Commissione Alessandro Sala (Maroni Presidente)- ci ha consentito oggi di licenziare un provvedimento importante e necessario, senza il quale i Comuni ancora inadempienti si troverebbero in una situazione di blocco totale legata a qualsiasi attività edilizia, con grave danno per i cittadini, per le imprese, per tutto il settore edilizio e per il relativo indotto, peraltro in un periodo di gravissima crisi economica e occupazionale. La nostra gente –ha concluso Alessandro Sala– vuole dalla politica tempi sempre più stretti per risolvere i problemi. Possiamo ben dire che la Commissione e questo Consiglio sono stati e sono oggi dalla parte del cittadino, e hanno messo al bando le lungaggini”.
Nello specifico, in caso di mancata adozione del PGT entro il 31.12.2013, i Comuni inadempienti saranno esclusi dall’accesso al patto di stabilità territoriale per l’anno 2014 e il mancato rispetto di tale scadenza costituirà un indicatore negativo nell’indice di virtuosità. In caso di mancata approvazione del PGT entro il termine del 30.06.2014, la Giunta regionale, previa diffida ad adempiere entro 60 giorni, nominerà un commissario ad acta il quale disporrà degli uffici tecnici comunali e regionali di supporto nonché dei poteri idonei a completare la procedura di approvazione del piano.
Nei Comuni che entro il 30.06.2014 non avranno approvato il PGT, dal 01.07.2014 e fino all’approvazione del PGT, sono ammessi unicamente i seguenti interventi:
a) nelle zone omogenee A, B, C e D individuate dal previgente PRG, interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) c)
b) nelle zone omogenee E e F individuate dal previgente PRG, gli interventi che erano consentiti dal PRG o da altro strumento urbanistico;
c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati e convenzionati entro il 30.06.2014, con convenzione non scaduta.
Via libera a due emendamenti similari presentati rispettivamente dal capogruppo del PdL Mauro Parolini e dal capogruppo della Lega Nord Massimiliano Romeo che consentono, ai soli Comuni che avevano già approvato il documento di piano entro il 2009, di poter apportare modifiche allo stesso documento di piano fino al 31.12.2014.
Un emendamento dell’assessore Viviana Beccalossi, approvato all’unanimità, prevede speciali deroghe per i Comuni terremotati. Pur preservando il regime di controlli e tutele alle varianti urbanistiche, saranno dimezzati i tempi per l’autorizzazione delle opere, al fine di garantire la partenza degli interventi di ricostruzione in modo più rapido e snello.
I Comuni che alla data di entrata in vigore della legge non hanno approvato il PGT non possono in ogni caso dar corso o seguito a procedure di variante al vigente PRG. È sempre ammessa l’approvazione di accordi di programma e dei programmi integrati di intervento nonché dei progetti di variante di cui allo sportello unico per le attività produttive.
Via libera infine anche a un ordine del giorno presentato dal capogruppo del Patto Civico Ambrosoli Lucia Castellano e dal Consigliere del PD Jacopo Scandella che chiede alla Giunta regionale di introdurre nuovi strumenti per incentivare la pianificazione d’area vasta che interessi in particolar modo i piccoli Comuni.
Apprezzamento e soddisfazione per l’approvazione del provvedimento è stata espressa dai Consiglieri Mauro Parolini del PdL, Roberto Anelli della Lega Nord, Riccardo De Corato di Fratelli d’Italia, Alessandro Alfieri del PD e Paolo Micheli del Patto Civico Ambrosoli, mentre il voto contrario del Movimento 5 Stelle è stato annunciato da Gianmarco Corbetta.
In Lombardia su 1544 Comuni sono 1007 quelli che hanno approvato definitivamente il PGT: 213 hanno solo avviato il piano e 324 lo hanno adottato. Mancano all'appello anche città capoluogo di provincia come Lecco e Varese, dove il PGT è stato solo avviato, e Como e Pavia, dove manca ancora l'approvazione definitiva (28.05.2013 - link a www.lombardiaquotidiano.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Pgt, sblocco 3000 cantieri, investimenti per 500 milioni.
"Con il Progetto di legge approvato oggi Regione Lombardia dispone di uno strumento di pianificazione con molti pregi: diamo tempo a tutti i Comuni di dotarsi entro giugno 2014 del loro Piano di governo del territorio e, fatto non irrilevante nel momento di crisi che stiamo vivendo, facciamo ripartire un settore fondamentale come quello edilizio, avviando 3.000 cantieri".
Questo il commento dell'assessore regionale al Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo dopo il via libera da parte del Consiglio regionale al Progetto di legge 28, che contiene le modifiche alla Legge 12 (Legge per il Governo del Territorio), con lo scopo di regolare la situazione dei circa 500 Comuni lombardi che ancora non hanno concluso l'iter del proprio Pgt. Con le nuove norme, i Comuni interessati dovranno approvarlo definitivamente entro il 30.06.2014.
GESTIONE EQUILIBRATA E SOSTENIBILE - "Le nuove regole -ha continuato l'assessore- garantiscono al territorio lombardo una gestione equilibrata e sostenibile. Allo stesso tempo, si torna a permettere di investire a chi vuole farlo, dagli imprenditori edili ai cittadini, che vogliono ristrutturare casa. Le stime parlano di un valore di 500 milioni di euro pronti ad essere spesi facendo ripartire i lavori".
ATTENZIONE A PICCOLI COMUNI - Tra i provvedimenti previsti ha particolare rilevanza quello pensato soprattutto per i Comuni più piccoli, in difficoltà con la predisposizione del proprio Pgt per carenza di strutture e competenze. A richiesta del sindaco, infatti, Regione Lombardia metterà a disposizione i propri tecnici, per supportare il Comune a chiudere la pratica.
EMENDAMENTO PER MANTOVA - Un emendamento molto atteso in provincia di Mantova, invece, prevede speciali deroghe ai Comuni terremotati. Pur preservando il regime di controlli e tutele alle varianti urbanistiche, saranno dimezzati i tempi per l'autorizzazione delle opere, al fine di garantire la partenza degli interventi di ricostruzione in modo più rapido e snello.
I DATI PER PROVINCIA - Di seguito la suddivisione per provincia dei Comuni sprovvisti di Pgt, i cantieri bloccati e il relativo valore economico (dati Ance - Associazione nazionale costruttori edili aggiornati al 01.03.2013):
Milano: 38 - 278 - 50.726.410 euro
Bergamo: 82 - 351 - 51.597.930 euro
Brescia: 45 - 313 - 42.586.606 euro
Como: 77 - 497 - 72.541.488 euro
Cremona: 13 - 34 - 3.490.894 euro
Lecco: 35 - 240 - 33.235.379 euro
Lodi: 21 - 56 - 6.573.495 euro
Mantova:17 - 92 - 8.929.792 euro
Monza: 14 - 171 - 35.940.973 euro
Pavia: 62 - 177 - 19.738.969 euro
Sondrio:41 - 236 - 30.274.536 euro
Varese: 67 - 689 - 108.306.882 euro (28.05.2013 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: applicazione art. 43, comma 2-bis e seguenti della l.r. 12/2005 (Regione Lombardia - Direzione Generale Agricoltura - Sviluppo di Sistemi Forestali, Agricoltura di Montagna, Uso e Tutela del Suolo Agricolo, nota 16.05.2013 n. 34319 di prot.).
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... con la presente si forniscono chiarimenti interpretativi in ordine all’applicazione della maggiorazione del contributo di costruzione nel caso di rilascio di titoli abilitativi relativi all’attuazione di piani di lottizzazioni, piani di intervento integrato o altre iniziative comunali, alla base dei quali vi sia una convenzione con l’operatore privato approvata dall’amministrazione comunale in data antecedente il 12.04.2009 (data di entrata in vigore della norma, ovvero tre mesi dal 12/01/2009 data di pubblicazione sul B.U.R.L. della d.g.r. n. 8757/2008). (... continua).

aprile 2013

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia - PGT, la Giunta propone come scadenza il 30.06.2014.
La Giunta regionale ha approvato la proposta di Progetto di legge che riguarda i Comuni della Lombardia che si trovano nella situazione di aver solo avviato (218) o adottato (337) il Piano di governo del territorio (Pgt).
Il documento, presentato dall'assessore al Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo Viviana Beccalossi, prevede che questi Comuni regolarizzino la loro situazione e indica nella data del 30.06.2014 il termine ultimativo per concludere le procedure.
Il Progetto di legge prevede altresì che, qualora lo ritengano necessario, i Comuni possano contare sul sostegno e la collaborazione dei tecnici della Regione o della loro Provincia per redigere il Pgt.
SUPPORTO TECNICO - Il Progetto di legge sarà differenziato secondo il 'grado' di avanzamento dell'iter del PGT dei Comuni. L'iter prevede, infatti, una prima fase di avviamento, l'approvazione e l'adozione. Terminati questi passaggi, il Piano di governo del territorio, che riguarda i 1.544 Comuni lombardi, può considerarsi effettivo.
UNIFORMITÀ DI METODO - "A tale proposito -ha sottolineato l'assessore Beccalossi- ho ritenuto importante e doveroso incontrare subito e personalmente gli assessori provinciali che si occupano di questa materia, per condividere un percorso, che abbia nella concretezza il motivo portante del nostro lavoro. Così come mi sono confrontata con l'Anci, l'Associazione nazionale Comuni italiani e con l'Ance, l'Associazione nazionale Costruttori edili, che hanno valutato positivamente il modo di procedere. Il nostro obiettivo principale è di regolarizzare la situazione complessiva e dotare tutti i Comuni di uno strumento di pianificazione moderno e omogeneo".
Ora il provvedimento passa al vaglio del Consiglio regionale, che dovrà valutarlo e approvarlo definitivamente.
NUOVA LINFA ALL'ECONOMIA - "Questa proposta -ha concluso l'assessore Beccalossi-, in un periodo di grave crisi come quello che stiamo vivendo, ha anche una valenza economica. Infatti nei Comuni interessati sarà possibile porre in essere una serie di interventi fino a oggi bloccati, che daranno una boccata d'ossigeno ai settori produttivi di competenza e al relativo indotto che gli stessi potranno generare sui singoli territori" (... continua) (16.04.2013 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: PROPOSTA DI PROGETTO DI LEGGE "MODIFICHE ALLA L.R. 12/2005 - 'LEGGE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO'" (deliberazione di G.R. 16.04.2013 n. 34 - tratto da www.anci.lombardia.it).

marzo 2013

EDILIZIA PRIVATAL'art. 25 della L.R. 12/2005, come modificato da ultimo dalla L.R. 21/2012, non sembra imporre un’automatica decadenza dei titoli edilizi ai sensi dell’art. 15, comma 4, del DPR 380/2001, quanto piuttosto una loro sospensione, in attesa della definitiva approvazione del Piano di Governo del Territorio (PGT).
... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento prot. 2647/13 del 14.01.2013;
- di ogni atto preordinato, conseguente e comunque connesso, con particolare riguardo all'ordine di sospensione dei lavori n. 396/13 del 21.01.2013, nonché ove occorra ai verbali della Polizia Locale di Como del 01.01.2013 e dell'11.01.2013;
...
Considerato che:
- dal momento del rilascio del permesso di costruire, l’esponente non è rimasta inerte, provvedendo alla notifica preliminare di inizio cantiere di cui all’art. 99 del D.Lgs. 81/2008, alla stipulazione del contratto d’appalto ed alla progettazione (cfr. i documenti dal n. 10 al n. 18 della ricorrente), sicché deve escludersi l’assenza di un idoneo intento costruttivo in capo alla ricorrente, visto anche il periodo di ferie natalizie successivo al rilascio del titolo;
- l’art. 25 della legge regionale 12/2005, come modificato da ultimo dalla legge regionale 21/2012, non sembra imporre un’automatica decadenza dei titoli edilizi ai sensi dell’art. 15, comma 4, del DPR 380/2001, quanto piuttosto una loro sospensione, in attesa della definitiva approvazione del Piano di Governo del Territorio (PGT);
- sono apprezzabili anche i profili del periculum in mora, visto che si tratta dell’unico intervento edilizio della società ricorrente, che sarebbe irrimediabilmente pregiudicata dall’esecuzione del provvedimento (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 25.03.2013 n. 363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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In merito alla suddetta ordinanza si legga un primo commento dell'Avv. Lorenzo Spallino:
Collegato Ordinamentale 2013 e titoli edilizi rilasciati ante 31.12.2012 (27.03.2013 - link a http://studiospallino.blogspot.it).

febbraio 2013

URBANISTICA: Lombardia, MONITORAGGIO DEI COMUNI CHE NON HANNO APPROVATO IL PGT ENTRO IL 31.12.2012 (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: U. Grella, Alcune volte il “sonno urbanistico” provoca incubi (a proposito della recente L.R. lombarda n. 21/2012 in materia di P.G.T.) (01.02.2013).

gennaio 2013

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L.R. n. 21 del 24.12.2012 – Decadenza PRG – Applicazione delle misure di salvaguardia (Fondazione de Iure Publico, Centro Studi Giuridici sulla Pubblica Amministrazione - tratto da www.deiurepublico.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Nuove disposizioni urbanistiche introdotte nella l.r. n. 12 del 2005 dalla l.r. n. 21 del 2012.
In materia di disciplina urbanistico-edilizia nei Comuni privi di PGT il legislatore regionale è intervenuto nelle scorse settimane dettando alcune disposizioni integrative dell'art. 25 della l.r. n. 12 del 2005; più precisamente, l'art. 4 della l.r. n. 21 del 24.12.2012 (pubblicata sul BURL, Supplemento n. 52 del 28.12.2012) ha inserito nel citato art. 25 della l.r. n. 12 del 2005 i commi 1-ter, 1-quater e 1-quinquies.
Con la sola eccezione dei Comuni terremotati e in dissesto finanziario dichiarato,
è confermata la perdita di efficacia dei previgenti PRG alla data prevista dal comma 1 del predetto art. 25, ovvero il 31.12.2012; sotto questo profilo, la soluzione inizialmente proposta dalla Giunta regionale, che intendeva diversificare tra Comuni che alla stessa data avessero adottato il PGT e Comuni che invece non l'avessero adottato, non è stata alla fine condivisa dal Consiglio regionale.
La scelta del legislatore regionale è stata piuttosto quella di precisare, per tutti i Comuni divenuti privi di strumentazione urbanistica, gli interventi possibili fino all'approvazione del PGT;
queste disposizioni (nuovo comma 1-quater) sono evidentemente sostitutive della disciplina generale statale stabilita per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, dettata dall'art. 9 del d.p.r. n. 380 del 2001 che, infatti, al comma 1 fa espressamente "salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali".
Si precisa che la declaratoria degli interventi ammessi (lett. a - b - c del comma 1-quater)
ha carattere esaustivo, come attestato dall'uso dell'avverbio "unicamente"; pertanto, sono da considerare precluse iniziative edificatorie diverse che non siano riconducibili agli interventi espressamente contemplati dalla norma; in particolare, non sono attivabili iniziative in variante al (non più vigente) PRG, come gli accordi di programma, i programmi integrati di intervento e i SUAP ex art. 97 della l.r. n. 12 del 2005, come pure gli interventi ex lege in deroga a specifiche previsioni di PRG (ad es. sottotetti, parcheggi pertinenziali, riconversione di coperture in cemento amianto, edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico).
Si rammenta che gli interventi in deroga previsti dalla disciplina a valenza temporanea del cosiddetto piano casa regionale (art. 3, 4, 5 e 6 della l.r. n. 4 del 2012) sono espressamente esclusi dal nuovo comma 1-quinquies dell'art. 25 della l.r. n. 12 del 2005, aggiunto dalla l.r. n. 21 del 2012.
Per quanto riguarda i cambi di destinazione d'uso, connessi o non a opere edilizie, sono da considerare in ogni caso preclusi, non potendo evidentemente essere verificata la conformità "alle previsioni urbanistiche comunali", richiesta dall'art. 52 della l.r. n. 12 del 2005.
Ovviamente, a seguito dell'adozione del PGT, intervenuta sia entro il 31.12.2012 sia successivamente, gli interventi ammessi secondo il nuovo comma 1-quater dell'art. 25 della l.r. n. 12 del 2005 devono essere altresì verificati con le previsioni adottate, operanti in regime di salvaguardia ex art. 13, comma 12, della stessa l.r. n. 12 del 2005.
Si precisa che nei casi in cui alla data del 31.12.2012 risulti intervenuta l'approvazione definitiva del PGT ma non ancora la relativa pubblicazione sul BURL che ne determina l'efficacia ex art. 13, comma 11, della l.r. n. 12 del 2005, nelle more di quest'ultimo adempimento e dunque anche oltre la predetta data, non viene meno l'efficacia dei PRG; a tale conclusione si deve addivenire sia in ragione del disposto per il quale le salvaguardie del PGT trovano applicazione per l'appunto fino alla "pubblicazione dell'avviso di approvazione degli atti di PGT" (cfr. art. 13, comma 12, della l.r. n. 12 del 2005), sia perché la sopra richiamata disciplina restrittiva di cui al comma 1-quater, che il legislatore regionale ha inteso dettare a fronte della sopravvenuta inefficacia del PRG, è stata dallo stesso legislatore espressamente riferita ai "Comuni che entro il 31.12.2012 non hanno approvato il PGT".
Per quanto riguarda le procedure edilizie in corso alla data del 31.12.2012, il nuovo comma 1-quinquies dell'art. 25 fa espressamente "salve le istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio attività presentate entro il 31.12.2012" relativamente agli interventi in deroga consentiti dal cosiddetto piano casa regionale (art. 3, 4, 5 e 6 della l.r. n. 4 del 2012). Non essendosi il legislatore regionale espresso nei medesimi termini relativamente ad altre iniziative edificatorie parimenti in corso di definizione,
tutti gli interventi non riconducibili alla declaratoria di cui al comma 1-quater (lett. a - b - c) sono da considerare preclusi a far tempo dal 01.01.2013, compresi quelli oggetto di istanze di permesso di costruire non definite con l'avvenuto rilascio del titolo entro il 31.12.2012, ovvero di denunce di inizio attività presentate successivamente al 01.12.2012.
Milano, il 16.01.2013 - Direzione Generale Territorio e Urbanistica (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: "Servizi religiosi" e normativa urbanistica.
Con sentenza 04.01.2013 n. 21 il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, si pronuncia sull’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005, che ammette la realizzazione di “nuove attrezzature per i servizi religiosi” esclusivamente nelle aree classificate a standard fino all’approvazione del piano dei servizi, giudicando indimostrato, nel caso di specie, che una richiesta di permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso avanzata da un’associazione di diritto privato per la realizzazione di un centro culturale possa rientrare in tale definizione ed essere sottoposta a tale disciplina.
L’Unione Comunità islamica valtellinese è un’associazione che ha come scopo statutario “la realizzazione di iniziative utili sia a promuovere la conoscenza dell’Islam in Italia che a rendere più autenticamente islamica la vita delle famiglie musulmane in Italia”.
Proprietaria di un immobile a Sondrio, presenta in Comune una richiesta di permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso “per l’adeguamento degli spazi attualmente destinati a palestra per la realizzazione di un centro culturale con relativi servizi”.
Il Comune, con preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. 241/1990, rappresenta la mancanza del parere di conformità alla normativa antincendio (ex art. 2 d.p.r. 37/1998), assimilando l’attività dell’associazione a quella dei “locali di spettacolo e trattenimento in genere con capienza superiore a 100 posti” (n. 83 dell’allegato al d.m. 16.02.1982).
Successivamente, il Comune comunica il diniego definitivo di permesso di costruire, fondato essenzialmente su ragioni di natura urbanistica, asserendo il contrasto del progetto con le previsioni di PRG relative alla zona B1 e la violazione dell’art. 72, co. 4-bis, della l.r. 12/2005.
Tuttavia, sostiene il TAR,
non è stato dimostrato che la destinazione richiesta dall’Associazione sia riconducibile alle “nuove attrezzature per i servizi religiosi” di cui all’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005 e, di conseguenza, non è possibile stabilire la compatibilità della destinazione richiesta con quelle ammesse nella zona di ubicazione dell’immobile da parte della pianificazione comunale.
In particolare, il giudice amministrativo rileva e censura la discrasia tra preavviso di diniego e diniego definitivo: quest’ultimo, come detto, fa riferimento a questioni urbanistiche di cui il preavviso di diniego non fa menzione, con ciò integrando una violazione dell’art. 10-bis l. 241/1990.
Scopo precipuo del preavviso di diniego, ove correttamente effettuato, è quello di garantire un apporto in funzione collaborativa da parte dell’interessato nel procedimento amministrativo. Nella vicenda in esame, invece, l’amministrazione (“in modo parziale e incompleto”) ha omesso di riferire in via preliminare sulle possibili problematiche di carattere urbanistico, pregiudicando così l’apporto collaborativo dell’Unione Comunità islamica valtellinese.
Un apporto del richiedente sarebbe stato sicuramente auspicabile e avrebbe potuto fare maggior chiarezza sulla natura dell’Unione, in funzione della corretta individuazione della normativa applicabile.
L’Associazione ricorrente, infatti, in quanto associazione di diritto privato non qualificabile come confessione religiosa, nega che, ai fini urbanistici, la sua attività e le sue strutture possano rientrare nel novero dei “servizi religiosi” ex art. 72, co. 4-bis. Tuttavia, nella richiesta di permesso di costruire, essa stessa si definisce a volte come “associazione culturale”, altre volte come “luogo di culto”.
Similmente il Comune, che a fini urbanistici considera l’associazione islamica alla stregua dei “servizi religiosi”, sotto il profilo della normativa antincendio assimila l’attività dell’Unione a quella dei “locali di spettacolo e trattenimento in genere”.
Il TAR accoglie pertanto il ricorso e annulla il diniego di permesso di costruire; sulla richiesta presentata dall’Unione islamica l’amministrazione “dovrà ripronunciarsi mediante riesercizio del potere previo il concreto coinvolgimento in sede procedimentale dell’Associazione”.
Resta così assorbito il motivo con cui la ricorrente chiedeva di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005 in riferimento agli artt. 17–20 Cost. (libertà di riunione, di associazione, libertà religiosa) (link a http://studiospallino.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, L.R. Lombardia 12/2005: le modifiche del collegato ordinamentale 2013 (link a www.studiospallino.it).

ANNO 2012
dicembre 2012

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 28.12.2012, "Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2013" (L.R. 24.12.2012 n. 21).
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Di interesse l'art. 4 ("Modifiche alla l.r. n. 12/2005") che introduce dopo l'art. 25, comma 1-bis, l.r. n. 12 del 2005 ("Legge per il governo del territorio") tre nuovi commi, che declinano la disciplina transitoria necessaria per il completamento del processo di totale rinnovamento della strumentazione urbanistica comunale, pur
senza modificare il termine di validità dei vecchi piani regolatori generali, fissato al 31.12.2012 dall'art. 25, comma 1, della l.r. n. 12 del 2005.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia - Pgt, Giovannelli: dal Consiglio la deroga per il sisma.
"Solamente per 7 Comuni colpiti dal terremoto lo scorso maggio (Borgoforte, Gonzaga, Pegognaga, Poggio Rusco, Rodigo, Serravalle a Po e Suzzara, tutti in provincia di Mantova) e per quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il 31.12.2012, rimane in vigore il Piano regolatore generale (Prg) fino al 31.12.2013. Per tutti gli altri che, come questi, non hanno approvato il Piano di governo del territorio (Pgt) è confermata l'inefficacia, dal 01.01.2013, dei vecchi Prg".
Lo precisa l'assessore al Territorio e Urbanistica Nazzareno Giovannelli, chiarendo che questo è ciò che il Consiglio regionale ha approvato (martedì 19 dicembre), modificando l'emendamento avanzato dall'Assessorato.
I Comuni che non avevano ancora adottato il Pgt ieri, 20 dicembre, erano ancora 388; mentre quelli che lo hanno adottato, ma non approvato (e che lo potrebbero quindi approvare entro i primi mesi dell'anno) erano 248.
COSA SUCCEDE AI COMUNI SENZA PGT - Il testo definisce anche gli interventi che i Comuni, sprovvisti di strumenti urbanistici, possono approvare.
- Nelle zone A-B-C-D (come individuate dai previgenti Prg), vale a dire sostanzialmente nei centri storici, nei centri urbanizzati consolidati, nelle zone a espansione e nelle aree produttive e commerciali, possono essere autorizzati esclusivamente interventi sull'esistente. Quindi di manutenzione ordinaria, straordinaria e di restauro/risanamento conservativo (no ristrutturazione, no nuova costruzione);
- nelle zone E-F, cioè quelle agricole e quelle destinate a servizi, gli interventi consentiti sono quelli previsti dal previgente Prg e da altri strumenti attuativi già consolidati (ad esempio, Piani particolareggiati e Piani di recupero);
- gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati entro la data di entrata in vigore della nuova Legge e la cui convenzione, stipulata entro il medesimo termine, sia in corso di validità.
Inoltre, rimane preclusa la possibilità di qualsiasi procedura di variante urbanistica e, per i Comuni che non avevano adottato il Pgt entro il 30.09.2011, di dar corso all'approvazione di piani attuativi del Prg.
IL PIANO CASA REGIONALE - Infine la norma stabilisce che nei Comuni che, al prossimo 31 dicembre, non avranno ancora approvato il Pgt, dal 01.01.2013 e fino all'approvazione del Pgt, non sono attivabili gli interventi in deroga previsti dal cosiddetto 'Piano casa regionale' (l.r. 4/2012), fatte salve le istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio attività presentate entro il 31.12.2012.
Anche questa disposizione, per i Comuni terremotati e in dissesto finanziario, troverà applicazione dal 01.01.2014 (21.12.2012 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAModifiche alla legge regionale n. 12 del 2005 per i Piani di Governo del Territorio dei Comuni.
Il Consiglio regionale nella seduta del 19.12.2012 ha approvato la legge regionale "Interventi normativi per l'attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizione legislative - Collegato ordinamentale 2013" (Legge Consiglio Regionale 19.12.2012 n. 057).
In particolare, l'art. 4 ("Modifiche alla l.r. n. 12/2005") introduce dopo l'art. 25, comma 1-bis, l.r. n. 12 del 2005 ("Legge per il governo del territorio") tre nuovi commi, che declinano la disciplina transitoria necessaria per il completamento del processo di totale rinnovamento della strumentazione urbanistica comunale, pur
senza modificare il termine di validità dei vecchi piani regolatori generali, fissato al 31.12.2012 dall'art. 25, comma 1, della l.r. n. 12 del 2005.
Solamente i Comuni terremotati e quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il 31.12.2012, con una disposizione di favor (comma 1-ter), potranno continuare ad attuare le previsioni del vigente PRG fino al 31.12.2013. La norma, nel contempo, chiarisce la disciplina da applicarsi qualora i suddetti Comuni non adottino il PGT entro il 31.12.2013. Per tutti gli altri Comuni, resta quindi confermato quanto già previsto ad oggi e cioè l'inefficacia, a far tempo dal 01.01.2013, dei vecchi PRG.
La norma (comma 1-quater), in ossequio a quanto stabilito dall'art. 9, comma 1, del d.p.r. n. 380 del 2001, che riconosce in capo alle Regioni la possibilità di prevedere norme più restrittive rispetto a quella generale statale stabilita per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, definisce quindi puntualmente gli interventi assentibili nelle more dell'approvazione del PGT, che sono:
nelle zone A-B-C-D, come individuate dal previgente PRG, esclusivamente interventi sull'esistente: manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria e restauro/risanamento conservativo (no ristrutturazione, no nuova costruzione);
nelle zone E-F, come individuate dal previgente PRG, gli interventi consentiti dal previgente PRG e da altri strumenti attuativi già consolidati (ad esempio, Piani Particolareggiati e Piani di Recupero);
gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati entro la data di entrata in vigore del collegato stesso e la cui convenzione, stipulata entro il medesimo termine, sia in corso di validità.
Inoltre, rimane preclusa la possibilità di qualsiasi procedura di variante urbanistica e, per i Comuni che non hanno adottato il PGT entro il 30.09.2011, di dar corso all'approvazione di piani attuativi del PRG.
Infine la norma (comma 1-quinquies), statuisce che nei Comuni che alla data del 31.12.2012 non hanno approvato il PGT, dal 01.01.2013 e fino all'approvazione del PGT, non sono attivabili gli interventi in deroga previsti dal c.d. "piano casa regionale" (artt. 3-4-5-6, l.r. n. 4 del 2012), fatte salve le istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio attività presentate entro il 31.12.2012; questa disposizione, per i Comuni terremotati e in dissesto finanziario, troverà applicazione dal 01.01.2014.
Milano, 21.12.2012
L'Assessore al Territorio e Urbanistica, Nazzareno Giovannelli
Il Direttore Vicario, Gian Angelo Bravo (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Nuova modalità di versamento al Fondo Aree Verdi.
Si segnala alle Amministrazioni interessate, che i versamenti al Fondo Aree Verdi (ex art. 43 legge 12/2005) dovranno avvenire unicamente a mezzo di contabilità speciale, presso la tesoreria Provinciale dello Stato - Sezione di Milano - Codice Ente (beneficiario): 30268.
Ulteriori istruzioni sulla compilazione del versamento sono riportate nelle pagine di questo sito dedicate al Fondo Aree Verdi.
Per un rapido accesso clicca qui.
(20.12.2012 - link a www.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Spallino, Legge Regione Lombardia n. 12/2005: la commissione licenzia una mini modifica all'articolo 25.
Nella saga delle proposte di modifiche all'articolo 25 della legge regionale n. 12/2005 della Lombardia, si inserisce l’emendamento approvato nella giornata del 13 dicembre in Commissione Bilancio. Il testo è ben lontano dal progetto di legge 26.10.2012 della Giunta regionale, il cui articolo 8 prevedeva che nei Comuni in cui è stato adottato il PGT entro il 31.12.2012, si continuino -fino al 31.07.2013- ad attuare le previsioni dei Piani regolatori urbanistici generali (PRUG). Il Consiglio regionale si terrà mercoledì 19 dicembre.
L'emendamento all'articolo 25 della L.R., a firma del gruppo della Lega Nord, dispone che alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) sono apportate le seguenti modifiche: ... (link a http://studiospallino.blogspot.it).

novembre 2012

URBANISTICA: Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2013 (Progetto di Legge 28.11.2012 n. 0199).
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L'ultimo regalo della Giunta Formigoni in materia di P.G.T., dapprima proposto con dgr 26.10.2012 n. 4300 e confluito nel PdL n. 0195/2012, è stato stralciato dall'originario PdL in Commissione Bilancio e riproposto col suddetto nuovo PdL n. 0199/2012.
Nel caso di specie, il nuovo articolo (che qui interessa) è il n. 4 che di seguito si ripropone:

Art. 4 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)
1. Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) sono apportate le seguenti modifiche:
a) dopo l’articolo 25 è aggiunto il seguente:
Art. 25-bis (Disposizioni transitorie a far tempo dal 1° gennaio 2013)
1. In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo periodo, i comuni terremotati inclusi nell’elenco di cui al decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 01.06.2012 e successive modificazioni e integrazioni, nonché quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il 31.12.2012 continuano ad attuare le previsioni del vigente PRG fino al 31.12.2013, fermo restando quanto disposto dall’articolo 26, comma 3-quater. In caso di mancata adozione del PGT entro il 31.12.2013, si applicano le disposizioni di cui ai commi 4 e 5.
2. In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo periodo, nei comuni che entro il 31.12.2012 hanno adottato il PGT si attuano le previsioni del vigente PRG, fermo restando quanto disposto dagli articoli 13, comma 12, e 26, comma 3-quater. Dal 1° gennaio 2013 i medesimi comuni non possono in ogni caso dar corso a procedure di variante al vigente PRG comunque denominate.
3. In caso di mancata approvazione del PGT entro il 31.07.2013 da parte dei comuni di cui al comma 2, primo periodo, si applicano le disposizioni previste ai commi 4 e 5.
4. Nei comuni che entro il 31.12.2012 non hanno adottato il PGT, dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, fermo restando quanto disposto dall’articolo 13, comma 12, sono ammessi unicamente i seguenti interventi:
   a) nelle zone omogenee B, C e D individuate dal previgente PRG, interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) e c);
   b) nelle zone omogenee A, E e F individuate dal previgente PRG, gli interventi che erano consentiti dal PRG o da altro strumento urbanistico comunque denominato;
   c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati e convenzionati entro il 31.12.2012, con convenzione non scaduta.
5.
Ai comuni di cui al comma 4, dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, non è consentito applicare le disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5 e 6 della legge regionale 13.03.2012, n. 4 (Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia); sono fatte salve le istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio attività presentate entro il 31.12.2012.”.

URBANISTICA: G. Vitella, Brevi osservazioni alla deliberazione di Giunta Regionale n. IX/4300, seduta 26.10.2012 (26.11.2012 - tratto da www.ordinearchitettivarese.it).

ottobre 2012

URBANISTICA: Oggetto: PROPOSTA DI PROGETTO DI LEGGE "LEGGE FINANZIARIA 2013” (della Lombardia) (deliberazione G.R. 26.10.2012 n. 4300).
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Ecco l'ultimo regalo della Giunta Formigoni in materia di P.G.T.. Di particolare interesse l'art. 8 il quale così recita:
Art. 8 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)
1. Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) sono apportate le seguenti modifiche:
a) dopo l’articolo 25 é aggiunto il seguente articolo:
Art. 25-bis (Disposizioni transitorie a far tempo dal 1° gennaio 2013)
1. In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo periodo, i comuni terremotati inclusi nell’elenco di cui al decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 01.06.2012 e successive modificazioni e integrazioni, nonché quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il 31.12.2012 continuano ad attuare le previsioni del vigente PRG fino al 31.12.2013, fermo restando quanto disposto dall’articolo 26, comma 3-quater. In caso di mancata adozione del PGT entro il 31.12.2013, si applicano le disposizioni di cui ai commi 4 e 5.
2. In deroga a quanto previsto dall’articolo 25, comma 1, primo periodo, nei comuni che entro il 31.12.2012 hanno adottato il PGT si attuano le previsioni del vigente PRG, fermo restando quanto disposto dagli articoli 13, comma 12, e 26, comma 3-quater. Dal 1° gennaio 2013 i medesimi comuni non possono in ogni caso dar corso a procedure di variante al vigente PRG comunque denominate.
3. In caso di mancata approvazione del PGT entro il 31.07.2013 da parte dei comuni di cui al comma 2, primo periodo, si applicano le disposizioni previste ai commi 4 e 5.
4. Nei comuni che entro il 31.12.2012 non hanno adottato il PGT, dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, fermo restando quanto disposto dall’articolo 13, comma 12, sono ammessi unicamente i seguenti interventi:
   a) nelle zone omogenee B, C e D individuate dal previgente PRG, interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) e c);
   b) nelle zone omogenee A, E e F individuate dal previgente PRG, gli interventi che erano consentiti dal PRG o da altro strumento urbanistico comunque denominato;
   c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati e convenzionati entro il 31.12.2012, con convenzione non scaduta.
5.
Ai comuni di cui al comma 4, dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, non è consentito applicare le disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5 e 6 della legge regionale 13.03.2012, n. 4 (Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia); sono fatte salve le istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio attività presentate entro il 31.12.2012.".

EDILIZIA PRIVATA: No al confinamento di kebab, money transfer e phone center.
No alla localizzazione di Kebab, money transfer e centri di telefonia fissa solo in specifiche zone urbane del territorio comunale. In quanto sono in contrasto con i principi di concorrenza e con la disciplina nazionale della liberalizzazione. L'ingresso di nuovi operatori non deve incontrare ostacoli di tipo normativo o amministrativo, diretti a predeterminare rigidamente limiti quantitativi alle possibilità di entrata nel mercato.
Questo è quanto espresso dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato all'interno del bollettino settimanale 17.09.2012 n. 35 – in ordine agli effetti distorsivi della concorrenza derivanti dalle disposizioni che regolano l'insediamento delle attività di «Kebap e simili, compresi gli esercizi ove vi è asporto e consumazione in loco di alimenti e bevande, centri di telefonia internazionale e simili, centri di trasferimento del denaro». Sotto osservazioni sono quattro delibere comunali degli anni 2009 e 2010 aventi ad oggetto la «Definizione di programma di localizzazione di particolari attività suscettibili di determinare situazioni di disagio sociale, viabilistico e di quiete pubblica ai fini del loro insediamento sul territorio di...».
Le richiamate deliberazioni introducono il divieto di insediamento delle attività sopra indicate in tutto il territorio comunale, ad eccezione di alcuni ambiti identificati, nei quali eventuali richieste di insediamento saranno valutate nell'ambito di una apposita procedura negoziale volta ad individuare «se la zona urbanistica può accogliere l'insediamento richiesto; le particolari prescrizioni a tutela della collettività insediata nella zona; gli eventuali standard qualitativi dettati dalla particolare attività in relazione alla situazione viabilistica ed urbana consolidata nella zona d'insediamento».
Le delibere, prevedendo un divieto di insediamento di esercizi di vendita di kebab, di telefonia in sede fissa e trasferimento del denaro e simili, ovvero limitandolo a specifiche zone, introducono un elemento di rigidità del sistema tale da tradursi, nei diversi mercati interessati, in una programmazione quantitativa dell'offerta, in contrasto con le esigenze di salvaguardia della concorrenza (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2012).

agosto 2012

EDILIZIA PRIVATA: Fondazione De Iure Publico, IL TRASFERIMENTO DEI DIRITTI EDIFICATORI DOPO LE MODIFICHE ALL’ ART. 2643 DEL CODICE CIVILE (ART. 5, COMMA 3, L.N. 106/2011) - LA “VEXATA QUAESTIO” DELLA NATURA GIURIDICA DI TALI DIRITTI (Geometra Orobico n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Fondazione De Iure Publico, IL TRASFERIMENTO DEI DIRITTI EDIFICATORI: PROFILI FISCALI (Geometra Orobico n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, ALLE VOLTE SI RI-CICLANO ANCHE LE LEGGI - CHE FATICA TENTARE DI SALVARE LE RISTRUTTURAZIONI FUORI SAGOMA! - Dopo aver rotto le uova il Consiglio Regionale lombardo ha cercato di riaggiustarle, ma è un’impresa disperata (AL n. 7-8/2012).

luglio 2012

EDILIZIA PRIVATA: Il TAR Milano, che in un primo momento (con ordinanza 11.05.2012 n. 664) aveva dichiarato che "non appare irrilevante né manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1°, della l.r. n. 7/2012", ci ripensa e non invia gli atti alla Consulta.
Nel caso in cui il Comune rilasci il titolo edilizio in applicazione di norme solo successivamente dichiarate incostituzionali, è da escludere che la declaratoria di incostituzionalità di una norma di legge renda di per sé nulli i provvedimenti amministrativi adottati in base ad essa.
Ai fini dell’esatta comprensione e decisione del primo mezzo di ricorso, occorre prendere le mosse dalla sentenza della Corte Costituzionale 23.11.2011, n. 309 (cfr. doc. 8 dei ricorrenti), con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di taluni articoli della legge della Regione Lombardia n. 12/2005 sul governo del territorio e segnatamente degli articoli 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo e dell’art. 103, oltre che dell’art. 22 della legge regionale 7/2010, laddove gli stessi annoveravano nel concetto di “ristrutturazione edilizia”, gli interventi di demolizione e ricostruzione degli edifici, senza rispetto del limite della sagoma.
In altri termini, le norme dichiarate incostituzionali consentivano, almeno in Lombardia, di qualificare come “ristrutturazione edilizia” anche le ipotesi di demolizione e ricostruzione di edifici, senza rispettare la sagoma dello stabile preesistente poi demolito.
La Corte ha ritenuto che le definizioni delle categorie degli interventi edilizi, contenute nella legge statale ed in particolare nell’art. 3 del DPR 380/2001 (Testo Unico sull’edilizia), costituiscono principi fondamentali della legislazione statale in materia di “governo del territorio” (materia riservata dall’art. 117, comma 3°, della Costituzione, alla potestà legislativa concorrente Stato-Regioni), che devono pertanto essere rispettati da parte delle Regioni nell’esercizio della loro funzione legislativa.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011 ha immediatamente posto il problema della sua applicazione ai rapporti giuridici pendenti al momento della sua pubblicazione (23.11.2011), posto che, per espressa disposizione dell’art. 136 della Costituzione, le norme dichiarate incostituzionali cessano <<di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione>>.
Con riguardo agli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale sui titoli edilizi o –meglio– sui rapporti giuridici nascenti dai titoli stessi (permesso di costruire, oppure DIA o SCIA, anche se questi ultimi non costituiscono provvedimenti amministrativi), è opinione diffusa, anche in dottrina, che le sentenze come quella di cui è causa possano esplicare effetti anche su titoli già rilasciati, purché l’attività edilizia sia ancora in corso e non siano ultimati i lavori assentiti, trattandosi di rapporti giuridici pendenti e non ancora esauriti o definiti (giacché solo in tale ultima ipotesi le sentenze del Giudice delle leggi non potrebbero trovare applicazione).
In Lombardia, il legislatore regionale ha ritenuto di dettare una specifica disciplina sulla sorte dei titoli edilizi, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011, attraverso l’art. 17 della legge regionale 18.04.2012, n. 7 (sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia 20.04.2012).
Ai sensi del comma 1° del citato art. 17, <<In relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 nonché le denunce di inizio attività esecutive alla medesima data devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012>>.
Nella presente fattispecie, la domanda di permesso di costruire indica espressamente che l’intervento è di ristrutturazione avverrà con modifica della sagoma (cfr. doc. 4 dei ricorrenti), ed il titolo edilizio è stato rilasciato il 21.11.2011, vale a dire due giorni prima del deposito della sentenza n. 309/2011.
Ciò premesso, si rimarca come nel primo mezzo di gravame si denuncia l’illegittimità del titolo edilizio, in quanto con lo stesso viene consentita una ristrutturazione senza limite di sagoma, in contrasto con la citata sentenza della Corte Costituzionale.
La difesa del controinteressato, dal canto suo, ha invocato a proprio favore l’art. 17, comma 1°, della legge regionale 7/2012, ritenuto applicabile al caso di specie, visto che il permesso di cui è causa è stato rilasciato prima del 30.11.2011.
Gli esponenti, di conseguenza, sia nella discussione orale all’udienza in camera di consiglio sia nelle successive memorie difensive, hanno chiesto al Tribunale di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 succitato, per violazione dell’art. 136 della Costituzione, avendo la norma regionale del 2012 di fatto prorogato gli effetti di una serie di norme dichiarate invece incostituzionali.
Il Collegio, nella propria ordinanza cautelare n. 664/2012, aveva ritenuto, seppure al termine di una cognizione sommaria, che la questione di costituzionalità dell’art. 17, comma 1°, fosse sia rilevante sia non manifestamente infondata, pur riservandosi un necessario approfondimento in sede di merito.
Orbene, tale approfondimento, assolutamente indispensabile vista la complessità della questione, induce ora il Tribunale alla conclusione che la questione di costituzionalità sia però priva, nel caso di specie, del necessario requisito della rilevanza (si ricordi che, ai sensi dell’art. 23 della legge 11.03.1953, n. 87, la questione è rilevante <<qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale>>).
Infatti, il permesso di costruire di cui è causa (cfr. doc. 1 dei ricorrenti), è stato rilasciato il 21.11.2011, prima (anche se di due soli giorni, ma ciò non rileva), del deposito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309 del 23.11.2011, quindi in vigenza della disciplina regionale poi dichiarata incostituzionale.
Il Comune di Sondrio, in altri termini, non ha dato certamente applicazione all’art. 17, comma 1°, né al momento del rilascio del titolo edilizio (non essendo allora ancora intervenuta la pronuncia della Corte), né successivamente, non risultando che l’Amministrazione, d’ufficio o su istanza di soggetti terzi, abbia mai adottato provvedimenti di esecuzione del citato art. 17 (come sarebbe avvenuto, ad esempio, se il Comune, a fronte di una diffida di soggetti interessati, si fosse rifiutato di inibire l’intervento edilizio richiamando la norma dell’art. 17).
La questione di costituzionalità, pertanto, seppure appare al Collegio non manifestamente infondata (non essendo possibile per il legislatore ordinario assicurare una sorta di ulteriore vigenza di norme dichiarate incostituzionali; cfr. fra le tante, Corte Costituzionale, sentenze n. 350/2010 e n. 223/1983), non può però reputarsi rilevante, visto che la valutazione della legittimità di un permesso di costruire rilasciato prima della sentenza della Corte, può –almeno nel caso di specie– prescindere dalla norma dell’art. 17 della LR 7/2012.
In conclusione, il primo mezzo di ricorso deve respingersi, avendo il Comune rilasciato il titolo in applicazione di norme solo successivamente dichiarate incostituzionali e dovendosi escludere che la declaratoria di incostituzionalità di una norma di legge renda di per sé nulli i provvedimenti amministrativi adottati in base ad essa (così la giurisprudenza amministrativa, a partire dalla nota decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 08.04.1963, n. 8), potendo semmai essere esercitato il potere di autotutela amministrativa da parte del Comune di Sondrio sul permesso di costruire di cui è causa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.07.2012 n. 2147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L. Spallino, Lombardia, Esiti della mancata approvazione dei PGT al 31.12.2012 (14.11.2011 aggiornato il 17.07.2012 - link a www.studiospallino.it).

maggio 2012

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: P. Mantegazza, Impianto generale della l.r. 4/2012 e rapporti con la legislazione urbanistica ed edilizia nazionale - Intervento a L.R. 13.03.2012, n. 4 - Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico–edilizia / Nuove questioni e quadro d'insieme del nuovo Piano Casa della Regione Lombardia.
● LEGGE REGIONALE 13.03.2012 N. 4 - Parte primaLegge sulla casa” (art. 1 – 6);
● LEGGE REGIONALE 13.3.2012 N. 4 - Parte secondaModifiche alla L.R. 11.03.2005 n. 12” (Legge per il Governo del Territorio) (30.05.2012 - tratto da
www.cameramministrativacomo.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Spallino, Quadro degli interventi derogatori eccezionali della l.r. 4/2012 - Nuove questioni e quadro d’insieme del nuovo Piano Casa della Regione Lombardia.
Quadro degli interventi derogatori eccezionali della l.r. 4/2012 (30.05.2012 - tratto da
www.cameramministrativacomo.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: La valutazione di compatibilità del PGT al PTCP non si configura affatto né come atto di indirizzo, né come espressione di un potere di controllo politico, ma tende alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale ed è, pertanto, riconducibile alle attribuzioni dirigenziali. 
La valutazione di compatibilità del P.G.T. rispetto al P.T.C.P. non può essere intesa come limitata ad un mero riscontro della conformità estrinseca del piano comunale alle previsioni ad efficacia prescrittiva e prevalente del piano provinciale.
Inteso in tal modo, infatti, non soltanto il rapporto di collaborazione istituzionale fra i due enti verrebbe del tutto svilito, ma neppure si comprenderebbe il senso della previsione contenuta nel comma di apertura dell’art. 18 della legge regionale n. 12/2005.
Detta prescrizione, infatti, pone in luce la portata, teleologicamente orientata, della valutazione che fa capo alla Provincia, nel senso di valorizzare l’accertamento dell’idoneità dell’atto comunale al raggiungimento degli obiettivi del piano di coordinamento.
Non va trascurato, poi, quanto già sostenuto da questo Tribunale, proprio facendo leva sul presupposto che sia istituzionalmente demandata alla provincia la tutela dei valori paesaggistici, cosicché non appare illegittimo:<<… che tale potere si esprima mediante raccomandazioni affinché il Comune riveda le proprie previsioni: e ciò perché tali raccomandazioni, indicazioni o inviti, ispirati alla tutela dei valori ambientali, ben si rapportano a quella funzione (ed efficacia) di orientamento, indirizzo e coordinamento che l’art. 2, quarto comma, della legge regionale citata attribuisce espressamente al piano territoriale regionale ed ai piani territoriali di coordinamento provinciali>>.
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Il Consiglio di Stato ha statuito che la lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Tale conclusione è perfettamente applicabile anche al caso in esame, in cui la Provincia è chiamata ad esprimere una “valutazione di compatibilità” tra due strumenti urbanistici di diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra le previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT) rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro che non implica alcuna di quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del consiglio provinciale, ex art. 42, primo comma, t.u.e.l., che definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”.
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la valutazione di compatibilità in questione sarebbe riservata al consiglio provinciale.
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L’art. 13, quinto comma, della legge regionale n. 12/2005 dispone che: “qualora il comune abbia presentato anche proposta di modifica o integrazione degli atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono assunte con deliberazione di giunta provinciale”.
Si desume da ciò che la competenza della giunta provinciale si prospetti nel solo caso in cui occorra delibare se la proposta di modifica sia o meno assentibile ai fini della sospensione ovvero del proseguimento della procedura di approvazione del PGT, secondo una delle opzioni previste dallo stesso comma, ferma restando comunque la competenza del consiglio provinciale per la “definitiva approvazione…. della modifica dell’atto di pianificazione provinciale”.
L’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.), d’altro canto, demanda alla giunta gli atti che non sono riservati al consiglio e che non rientrano nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono, tra l’altro (art. 107, secondo comma, lettera f), “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché (lettera h) “le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in questione mira esclusivamente a verificare, attraverso la comparazione del contenuto dei due piani, il rispetto del P.T.C.P. da parte del piano comunale di governo del territorio e non implica profili di discrezionalità, se si eccettuano quelli insiti nella valutazione della idoneità dell’atto al conseguimento degli obiettivi del piano (arg. ex art. 18 co. I cit.), se ne trae la conferma che essa non si configura affatto né come atto di indirizzo, né come espressione di un potere di controllo politico, ma tenda alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale, e sia, pertanto, riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
Con il primo motivo, la Società lamenta, in sintesi, la violazione di legge e l’eccesso di potere poiché, ai sensi degli artt. 13, co. V, e 18, co. II, della legge regionale Lombardia n. 12/2005, la Provincia avrebbe dovuto valutare esclusivamente la compatibilità del P.G.T con le previsioni prescrittive e vincolanti del proprio P.T.C.P., onde salvaguardare l’autonomia comunale in ambito pianificatorio. Si comprende, così, prosegue l’istante, l’illegittimità dell’operato provinciale, per avere violato l’ambito dei poteri pianificatori riservato al Comune, atteso che nessuna delle previsioni prescrittive del P.T.C.P. di Como riguarderebbe l’ambito di proprietà della Società.
Sul punto, la difesa comunale contro-deduce affermando che la Provincia, in sede di valutazione di compatibilità del P.G.T. col P.T.C.P., non dovrebbe affatto limitarsi al mero riscontro formale delle previsioni di cui all’art. 18, co. II cit., ma, in forza del co. I della stessa norma, dovrebbe valutare la compatibilità dell’intera struttura del piano urbanistico comunale con i principi ispiratori del P.T.C.P.
A supporto di tale tesi, il Comune cita il precedente giurisprudenziale di questo TAR n. 4301/2009.
Anche la Provincia di Como svolge analoghe difese, contro-deducendo ai motivi nn. 1, 2 e 10 (ritenuti connessi) con cui viene attaccato l’operato provinciale.
Così, a proposito della valutazione, di spettanza provinciale, di conformità al P.T.C.P., viene richiamata la sentenza del C.d.S. n. 24/2011, nonché l’art. 11 delle N.T.A. del P.T.C.P. il quale, nell’indicare le componenti essenziali della rete ecologica, menziona anche quelle zone che, pur non essendo cartograficamente comprese nella rete ecologica, rivestono la medesima valenza ambientale, assicurando una funzione di cuscinetto in vista e in aderenza ai principi dello sviluppo sostenibile.
Senza trascurare, poi, prosegue la Provincia, che il comparto de quo sarebbe interessato da un’area seppur marginale di pertinenza idraulica.
Da ultimo, la Provincia ribadisce come l’art. 18 della cit. legge reg. preveda che le valutazioni di compatibilità rispetto al P.T.C.P. concernano l’accertamento dell’idoneità dell’atto scrutinato ad assicurare il conseguimento degli obiettivi fissati dal piano, salvaguardando i limiti di sostenibilità ivi previsti. In tal senso, andrebbe valorizzata la previsione dell’art. 1 delle N.T.A. del P.T.C.P. di Como, che contemplerebbe fra gli obiettivi strategici proprio la tutela dell’ambiente e la valorizzazione degli ecosistemi, l’assetto idrogeologico e la difesa del suolo. Ed è in tale contesto, conclude la Provincia, che si collocherebbe la valutazione operata con la deliberazione impugnata in ordine all’area dell’esponente, i cui caratteri specifici ne giustificherebbero l’inserimento nel novero degli <<ambiti boschivi della rete ecologica locale>>, disciplinati dall’art. 41 del Piano delle Regole del P.G.T. del Comune.
Il motivo è infondato.
Al riguardo il Collegio ritiene, in primo luogo, di dover chiarire che la valutazione di compatibilità del P.G.T. rispetto al P.T.C.P. non può essere intesa, come vorrebbe parte ricorrente, come limitata ad un mero riscontro della conformità estrinseca del piano comunale alle previsioni ad efficacia prescrittiva e prevalente del piano provinciale.
Inteso in tal modo, infatti, non soltanto il rapporto di collaborazione istituzionale fra i due enti verrebbe del tutto svilito, ma neppure si comprenderebbe il senso della previsione contenuta nel comma di apertura dell’art. 18 della legge regionale n. 12/2005.
Detta prescrizione, infatti, pone in luce la portata, teleologicamente orientata, della valutazione che fa capo alla Provincia, nel senso di valorizzare l’accertamento dell’idoneità dell’atto comunale al raggiungimento degli obiettivi del piano di coordinamento.
Non va trascurato, poi, quanto già sostenuto da questo Tribunale, proprio facendo leva sul presupposto che sia istituzionalmente demandata alla provincia la tutela dei valori paesaggistici, cosicché non appare illegittimo:<<… che tale potere si esprima mediante raccomandazioni affinché il Comune riveda le proprie previsioni: e ciò perché tali raccomandazioni, indicazioni o inviti, ispirati alla tutela dei valori ambientali, ben si rapportano a quella funzione (ed efficacia) di orientamento, indirizzo e coordinamento che l’art. 2, quarto comma, della legge regionale citata attribuisce espressamente al piano territoriale regionale ed ai piani territoriali di coordinamento provinciali>> (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, n. 4301 del 06.07.2009).
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Con il quinto motivo si deduce il vizio di incompetenza del parere di compatibilità provinciale, in quanto adottato dal dirigente, anziché dagli organi politici.
In particolare, secondo l’istante qui si tratterebbe di un giudizio sugli strumenti urbanistici comunali, che fuoriesce dall’ambito prescrittivo del PTCP e, dunque, di una valutazione ampiamente discrezionale, che esulerebbe dalla competenza gestionale per radicarsi in quella degli organi di governo, deputati al controllo politico amministrativo.
Il motivo è infondato.
Il Collegio ritiene qui opportuno richiamare un precedente in cui, in una vicenda analoga, il Consiglio di Stato ha statuito (sentenza 28.05.2009 n. 3333, Sez. IV) che la lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Tale conclusione è perfettamente applicabile anche al caso in esame, in cui la Provincia è chiamata ad esprimere una “valutazione di compatibilità” tra due strumenti urbanistici di diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra le previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT) rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro che non implica alcuna di quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del consiglio provinciale, ex art. 42, primo comma, t.u.e.l., che definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” (cfr. in terminis, TAR Lombardia, Milano, II, 28.07.2009 n. 4468).
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la valutazione di compatibilità in questione sarebbe riservata al consiglio provinciale.
Si tratta ora, una volta esclusa -per le ragioni esposte al punto che precede- una riserva di competenza al consiglio provinciale, di esaminare la censura della Società secondo cui la competenza in materia apparterrebbe alla giunta provinciale, anch’essa “organo di governo dell’ente” (art. 36 t.u.e.l.).
Al riguardo, va osservato che, la cit. sentenza n. 3333/2009 del Consiglio di Stato, menzionata da parte ricorrente, non ha affermato (positivamente e definitivamente) la competenza della giunta provinciale, ma si è limitata ad escludere la riserva di competenza al consiglio, in una fattispecie in cui la valutazione di compatibilità -rispetto al sopraordinato PTCP- di un P.I.I. (programma integrato di intervento), adottato da altro comune in variante al PRG, era stata effettuata dalla giunta provinciale con provvedimento impugnato per incompetenza.
Non si può, dunque, trarre argomento, sic et simpliciter, dalla sentenza citata per desumerne tout court la competenza della giunta e l’incompetenza del dirigente.
In verità, ritiene il Collegio che al quesito di cui sopra (se cioè nella vicenda in esame sia stato invaso un ambito di attribuzioni riservato alla giunta provinciale) debba darsi risposta negativa, richiamando quanto già sostenuto da questo stesso Tribunale proprio nella cit. sentenza n. 4468/2009.
All’uopo, va considerato che l’art. 13, quinto comma, della legge regionale n. 12/2005 dispone che: “qualora il comune abbia presentato anche proposta di modifica o integrazione degli atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono assunte con deliberazione di giunta provinciale”. Si desume da ciò che la competenza della giunta provinciale si prospetti nel solo caso in cui occorra delibare se la proposta di modifica sia o meno assentibile ai fini della sospensione ovvero del proseguimento della procedura di approvazione del PGT, secondo una delle opzioni previste dallo stesso comma, ferma restando comunque la competenza del consiglio provinciale per la “definitiva approvazione…. della modifica dell’atto di pianificazione provinciale”.
L’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.), d’altro canto, demanda alla giunta gli atti che non sono riservati al consiglio e che non rientrano nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono, tra l’altro (art. 107, secondo comma, lettera f), “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché (lettera h) “le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in questione mira esclusivamente a verificare, attraverso la comparazione del contenuto dei due piani, il rispetto del P.T.C.P. da parte del piano comunale di governo del territorio e non implica profili di discrezionalità, se si eccettuano quelli insiti nella valutazione della idoneità dell’atto al conseguimento degli obiettivi del piano (arg. ex art. 18 co. I cit.), se ne trae la conferma che essa non si configura affatto né come atto di indirizzo, né come espressione di un potere di controllo politico, ma tenda alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale, e sia, pertanto, riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
In conclusione, quindi, le censure della ricorrente in punto di competenza sono prive di fondamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La fattispecie in esame, attinente alla sola qualificazione del contributo, deve essere invece riguardata alla luce del’art. 44 della citata l.r. n. 12 del 2005 che, stabilite le modalità di calcolo degli oneri di urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione non comportanti demolizione e ricostruzione”, prevede la disciplina per gli interventi di ristrutturazione, disponendo che “gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione, ridotti della metà.”
Deve quindi condividersi l’interpretazione data dal giudice di prime cure che ha notato come ciò comporti che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
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... per la riforma della sentenza 18.05.2010 n. 1566 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II;
...
4. - Con il terzo motivo di ricorso, viene infine censurata la ritenuta correttezza della qualificazione dell’intervento, come operata dall’amministrazione e condivisa dal TAR, con la quale le opere sono state ritenute di nuova costruzione e non di mera modificazione dell’esistente, tramite ristrutturazione edilizia.
Al contrario, l’appellante, ricostruita la serie di interventi realizzati, a decorrere da quelli autorizzati con DIA n. 72 del 03.12.2003 fino a raggiungere quelli indicati nella settima denuncia, rubricata al n. 68 del 21.12.2007, rimarca la natura di ristrutturazione edilizia del complesso edilizio, come emergente anche solo dalla descrizione delle opere contenute nei detti atti e dagli allegati grafici.
4.1. - La censura non può essere condivisa.
Occorre in via preliminare evidenziare come il TAR abbia incidentalmente, ma espressamente, sottolineato la natura particolarmente favorevole della disciplina contenuta nella legislazione regionale dove si dispone, da un lato, che “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica” (art. 27, comma 1, legge regionale 11.03.2005 n. 12) e, dall’altro, che “la ricostruzione dell’edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma” (art. 22 legge regionale 05.02.2010 n. 7).
Tuttavia, correttamente il giudice di prime cure ha riscontrato come tale profilo disciplinare attenga ad un fatto distinto, ossia l’ammissibilità degli interventi edilizi in relazione alla loro classificazione (vicenda che, qualora fosse stata sottoposta alla Sezione, avrebbe dovuto essere esaminata alla luce della sentenza della Corte costituzionale 23.11.2011 n. 309, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12, nella parte in cui esclude l'applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione; dell'art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui disapplica l'art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; e dell'art. 22 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7).
La fattispecie in esame, attinente alla sola qualificazione del contributo, deve essere invece riguardata alla luce del’art. 44 della citata legge regionale n. 12 del 2005 che, stabilite le modalità di calcolo degli oneri di urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione non comportanti demolizione e ricostruzione”, prevede la disciplina per gli interventi di ristrutturazione, disponendo che “gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione, ridotti della metà.”
Deve quindi condividersi l’interpretazione data dal giudice di prime cure che ha notato come ciò comporti che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
Poiché gli interventi in esame, e principalmente quelli indicati nelle due DIA rubricate rispettivamente al n. 41/2004 ed al n. 17/2005, sono effettivamente riconducibili all’ambito disciplinare indicato, in quanto si trattava, rispettivamente, della parziale demolizione del fabbricato esistente con costruzione di palazzine uffici in aderenza e nella parziale demolizione e innalzamento del fabbricato esistente (d.i.a. 17/2005), appare del tutto legittima la pretesa del Comune, che ha assoggettato l’intervento al contributo previsto per le nuove costruzioni.
Peraltro, dopo l’intervento della citata sentenza della Corte costituzionale, applicabile alla vicenda in questione nei limiti del non intervenuto esaurimento della lite, non appare più attuale neppure il distinguo operato dal TAR, in relazione ai diversi momenti di presentazione delle denunce di inizio di attività, rendendo così ancora più marcata la legittimità dell’operato del Comune.
5. - L’appello appare, quindi in conclusione, del tutto infondato, facendo così venir meno la fondatezza della pretesa risarcitoria avanzata, stante la legittimità dell’azione amministrativa e quindi il venir meno di un evento lesivo contrario al diritto.
6. - L’appello va quindi respinto. Sussistono peraltro motivi per compensare integralmente tra le parti le spese processuali, determinati dalla parziale novità della questione decisa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.05.2012 n. 2969 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non appare irrilevante né manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1°, della legge regionale n. 7/2012.
- considerato che, ad un primo sommario esame, non appare irrilevante né manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1°, della legge regionale n. 7/2012, salvo comunque l’approfondimento in sede di merito;
- ritenuto ancora di dover sospendere il provvedimento impugnato, per evitare che la definitiva realizzazione dell’opera possa pregiudicare irrimediabilmente le pretese dei ricorrenti,
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda) accoglie e per l'effetto:
a) sospende il provvedimento impugnato;
b) fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza pubblica del 12.07.2012 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 11.05.2012 n. 664 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 10.05.2012, "Testo coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»".

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Ristrutturazione edilizia senza vincolo di sagoma: la Regione Lombardia interviene sul passato (07.05.2012 - link a http://studiospallino.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 02.05.2012, "Aggiornamento dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite dall’art. 80 della legge regionale 11.03.2005, n. 12" (decreto D.G. 18.04.2012 n. 3410).

aprile 2012

URBANISTICA: L. Spallino, Approvazione dei PGT in Lombardia: nessuna proroga (17.04.2012 - link a http://studiospallino.blogspot.it).

marzo 2012

URBANISTICA: "Presa d'atto della comunicazione dell'Assessore Belotti avente ad oggetto: "PIANI DI GOVERNO DEL TERRITORIO - AGGIORNAMENTO E INDICAZIONI" (deliberazione G.R. 29.03.2012 n. 3211).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 16.03.2012, "Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia" (L.R. 13.03.2012 n. 4).
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Al riguardo, si leggano anche i seguenti commenti:
La legge sulla casa e sull'edilizia approvata a maggioranza;
I punti chiave della legge.

febbraio 2012

EDILIZIA PRIVATAE' illegittimo il permesso di costruire rilasciato in zona agricola per la costruzione di residenze dei figli dell'imprenditore agricolo.
Con il secondo motivo aggiunto, il WWF rileva che il permesso di costruire è stato rilasciato in assenza dei presupposti richiesti dall’art. 59 della L.R. n. 12/2005 per gli interventi in area agricola, che consente di costruire solo abitazioni da destinare alla residenza dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti, mentre le tre abitazioni assentite sono destinate alla residenza dei tre figli, i quali non costituiscono la forza lavoro dell’azienda, ma partecipano solo saltuariamente all’attività agricola.
La doglianza risulta fondata.
La legislazione regionale lombarda in tema di governo del territorio (L.R. 11.3.2005 n. 12), agli artt. 59, 60, 61 e 62, disciplina le modalità di edificazione in ambito agricolo. Con tali norme, riprendendo sostanzialmente i contenuti dell’ antecedente L. R. 07.06.1980 n. 93, in materia di edificazione nelle zone agricole, si persegue lo scopo di valorizzare e recuperare il patrimonio agricolo, limitare l'utilizzazione edilizia dei territori agricoli, assicurando il soddisfacimento delle esigenze degli imprenditori e dei lavoratori agricoli.
La giurisprudenza formatasi sulla L.R. n. 93 del 1980 aveva rilevato che tale disciplina non autorizzava il rilascio di concessioni ad altri che all'imprenditore agricolo, previo accertamento di effettiva esistenza e funzionamento dell'azienda agricola (art. 3); il che significa che sono ammessi soltanto opere o interventi attinenti all'agricoltura, mentre restano interdette le trasformazioni del territorio che non siano funzionali all'attività agricola (cfr. TAR Milano, Sez. 2, 25.01.1995 n. 90, TAR Brescia 04.10.1993 n. 798).
Ora l’art. 59 della L.R. 11.3.2005 n. 12, al c.1, dispone che in zona classificata agricola “sono ammesse esclusivamente le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e destinate alle residenze dell'imprenditore agricolo e dei dipendenti dell'azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive necessarie per lo svolgimento delle attività di cui all'articolo 2135 del codice civile quali stalle, silos, serre, magazzini, locali per la lavorazione e la conservazione e vendita dei prodotti agricoli secondo i criteri e le modalità previsti dall'articolo 60”.
Il secondo comma soggiunge che “La costruzione di nuovi edifici residenziali di cui al comma 1 è ammessa qualora le esigenze abitative non possano essere soddisfatte attraverso interventi sul patrimonio edilizio esistente”.
Può dunque affermarsi che la disciplina legislativa consente l’edificazione in zona agricola solo al ricorrere dei restrittivi e tassativi (“esclusivamente”) requisiti indicati
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.02.2012 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Regione Lombardia, Progetto di legge “MISURE PER LA CRESCITA, LO SVILUPPO E L’OCCUPAZIONE.
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La Giunta Regionale della Lombardia, venerdì 10.02.2012, ha approvato il Progetto di Legge n. 0146 "MISURE PER LA CRESCITA, LO SVILUPPO E L'OCCUPAZIONE".
Ora il progetto di legge inizierà l’iter nella commissione competente prima di approdare in Consiglio Regionale.
Di particolare interesse risultano essere i seguenti articoli:
● Art. 16 - (Modifiche all’articolo 10 della l.r. 21/2008 in tema di sale cinematografiche);
● Art. 17 - (Disciplina dei titoli edilizi di cui all’articolo 27, comma 1, lettera d), della l. r. 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio" a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011);
● Art. 18 - (Disposizioni in materia di semplificazione urbanistico-edilizia);
● Art. 21 - (Istituzione del fondo per la prevenzione del rischio idrogeologico);
● Art. 22 - (Modifiche agli articoli 29 e 30 della l.r. 26/2003 “Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche”. Programma energetico ambientale regionale (PEAR) e obiettivi in materia di fonti rinnovabili “FER”);
● Art. 23 - (Inserimento dell’articolo 9-bis nella l.r. 24/2006. Disposizioni in materia di efficienza energetica in edilizia);
● Art. 24 - (Modifiche al Titolo III della l.r. 26/2003 - Infrastrutture per la distribuzione di energia elettrica);
● Art. 26 - (Sostituzione dell’articolo 31 della l.r. 7/2010. Competenze regionali in materia di oli minerali);
● Art. 27 - (Modifiche all’articolo 10 della l.r. 11.12.2006, n. 24 "Norme per la prevenzione e la riduzione delle emissioni in atmosfera a tutela della salute e dell'ambiente". Sistemi geotermici a bassa entalpia a circuito aperto con prelievo di acqua dal sottosuolo);
● Art. 28 - (Inserimento dell’articolo 21-bis nella l.r. 26/2003. Incentivi per la bonifica di siti contaminati);
● Art. 29 - (Inserimento dell’articolo 8-bis nella l.r. 24/2006. Misure di semplificazione per le autorizzazioni alle emissioni in atmosfera);
● Art. 31 - (Modifiche all’articolo 11 della l.r. 24/2006. Impianti a biomassa);
● TITOLO V - Interventi per il governo del sottosuolo e per la diffusione sul territorio regionale della banda ultra-larga (artt. 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44);
● Art. 55 - (Appalti per favorire l’accesso alle micro, piccole e medie imprese).

gennaio 2012

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 19.01.2012, "Deliberazione di Giunta regionale 30.11.2011 n. IX/2616 “Aggiornamento dei ‘Criteri ed indirizzi per la definizione della componente geologica, idrogeologica e sismica del piano di governo del territorio, in attuazione dell’art. 57, comma 1, della l.r. 11.03.2005, n. 12’, approvati con d.g.r. 22.12.2005, n. 8/1566 e successivamente modificati con d.g.r. 28.05.2008, n. 8/7374”, pubblicata sul BURL n. 50 Serie ordinaria del 15.12.2012" (Errata Corrige ed integrale ripubblicazione).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 13.01.2012, "Criteri e procedure per l’esercizio delle funzioni amministrative in materia di beni paesaggistici in attuazione della legge regionale 11.03.2005, n. 12 - Contestuale revoca della d.g.r. 2121/2006" (deliberazione G.R. 22.12.2011 n. 2727).
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Nuovi criteri regionali per il paesaggio.
Da oggi in vigore i nuovi criteri e procedure per l’esercizio delle funzioni paesaggistiche approvati con la DGR n. IX/2727 del 22.12.2011.
Con la pubblicazione sul BURL n. 2 del 13.01.2012 del provvedimento regionale entrano in vigore, sostituendo quelli approvati nel 2006, i nuovi criteri regionali che costituiscono il riferimento per tutti gli Enti locali lombardi dettando criteri, indirizzi e procedure per il miglior esercizio delle competenze paesaggistiche.
Le principali novità sono costituite dalla complessiva maggior chiarezza espositiva, dall’illustrazione del percorso metodologico che tiene conto delle disposizioni del Piano Paesaggistico Regionale approvato nel 2010, dall’indicazione di criteri paesaggistici per alcune specifiche categorie di opere ed interventi, dalla chiara declinazione dell’attribuzione delle competenze paesaggistiche agli Enti locali, dalla rappresentazione, anche tramite l’utilizzo di diagrammi di flusso, delle fasi del percorso amministrativo per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, sia per la procedura “ordinaria” che per quella “semplificata”.
Infine costituiscono parte integrante del provvedimento regionale le appendici al documento che riportano la modulistica e la documentazione per la presentazione dei progetti (appendice A) e le schede degli elementi costituivi del paesaggio (appendice B).
Nelle prossime settimane i funzionari della Struttura Paesaggio saranno impegnati, con il supporto decisivo delle Sedi territoriali regionali, nella divulgazione dei contenuti di questo significativo provvedimento della Giunta regionale.
Per maggiori informazioni:
struttura_paesaggio@regione.lombardia.it
luisa_pedrazzini@regione.lombardia.it
sergio_cavalli@regione.lombardia.it
angelo_guasconi@regione.lombardia.it
francesco_solano@regione.lombardia.it
(13.01.2012 - link a www.regione.lombardia.it).

ANNO 2011
dicembre 2011

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 29.12.2011, "Approvazione delle disposizioni attuative per la presentazione delle domande per l’accesso al Fondo Aree Verdi secondo procedure a sportello, in attuazione della d.g.r. 11297/2010 (l.r. 12/2005, art. 43, c. 2-bis e segg.)" (decreto D.G. 22.12.2011 n. 12754).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 15.12.2011, "Aggiornamento dei “Criteri ed indirizzi per la definizione della componente geologica, idrogeologica e sismica del piano di governo del territorio, in attuazione dell’art. 57, comma 1, della l.r. 11.03.2005, n. 12”, approvati con d.g.r. 22.12.2005, n. 8/1566 e successivamente modificati con d.g.r. 28.05.2008, n. 8/7374" (deliberazione G.R. 30.11.2011 n. 2616).

novembre 2011

EDILIZIA PRIVATACorte Costituzionale n. 309/2011: nessuna demolizione e ricostruzione senza rispetto della sagoma.
Nella seduta del 20.01.2010 della Commissione V ^Territorio^ della Lombardia il dott. Umberto Sala, alto funzionario regionale, ebbe a dichiarare che "da circa un anno sono intervenute sentenze dal TAR di Milano e di Brescia che hanno evidenziato un contrasto" la normativa nazionale e quella lombarda in tema di ristrutturazione, sull’assunto che la legge dello Stato porrebbe -in punto ricostruzione con vincolo di sagoma- una norma di principio che le regioni non potrebbero derogare. "Sarebbe auspicabile che il TAR, pur continuando ad eccepire, rimettesse la questione alla Corte Costituzionale", concludeva il dirigente.
Il dott. Sala é stato accontentato. Non solo -come noto- il TAR ha rimesso alla Corte la questione nel settembre 2010, ma con sentenza 23.11.2011 n. 309 questa ha dichiarato l'incostituzionalità:
1. dell’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nella parte in cui esclude l’applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione;
2. dell’art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui disapplica l’art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) (testo A);
3. dell’art. 22 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica ed integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2010),

confermando la fondatezza della eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal TAR Lombardia con l'ordinanza n. 5122 del 7.9.2010 (sul punto, v. Ristrutturazione edilizia: e alla fine il TAR ha rimesso alla Corte Costituzionale il rito lombardo), ossia che non c'é spazio per una definizione di ristrutturazione edilizia diversa da quella indicata dal legislatore nazionale nell'articolo 3 del DPR 380/2011.
Sugli esiti della decisione della Corte sui titoli rilasciati, v. La ristrutturazione edilizia in Lombardia alla luce della l.r. 7/2010 di interpretazione autentica dell'art. 27 l.r. 12/2005 pubblicato il 30.06.2010 all'indirizzo www.studiospallino.it/interventi/ristrutturazione.htm (link a http://studiospallino.blogspot.com).
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Sono da ricondursi nell’ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi: a fortiori sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali.
L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall’altro. La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.
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In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio preesistente –intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale– configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
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La linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi non può non essere dettata in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la cui «morfologia» identifica il paesaggio, considerato questo come «la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli».
Sul territorio, infatti, «vengono a trovarsi di fronte» –tra gli altri– «due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni». Fermo restando che la tutela del paesaggio e quella del territorio sono necessariamente distinte, rientra nella competenza legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi.
Se il legislatore regionale potesse definire a propria discrezione tale linea, la conseguente difformità normativa che si avrebbe tra le varie Regioni produrrebbe rilevanti ricadute sul «paesaggio […] della Nazione» (art. 9 Cost.), inteso come «aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale», e sulla sua tutela.
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L’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, come interpretato dall’art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7 del 2010, nel definire come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma, è in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di governo del territorio.
Parimenti lesivo dell’art. 117, terzo comma, Cost., è l’art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui, qualificando come «disciplina di dettaglio» numerose disposizioni legislative statali, prevede la disapplicazione della legislazione di principio in materia di governo del territorio dettata dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 con riguardo alla definizione delle categorie di interventi edilizi.

... nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, e 103 della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e dell’art. 22 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica ed integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2010), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sez. II, nel procedimento vertente tra C. B. ed altro e il Comune di Besozzo con ordinanza del 07.09.2010, iscritta al n. 364 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2010.
...
2. – La questione è fondata.
2.1. – Questa Corte ha già ricondotto nell’ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi (sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2 del Considerato in diritto): a fortiori sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali.
L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall’altro. La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.
2.2. – Tali categorie sono individuate dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, collocato nel titolo I della parte I del testo unico, intitolato «Disposizioni generali». In particolare, la lettera d) del comma 1 di detto articolo include, nella definizione di «ristrutturazione edilizia», gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all’edificio preesistente; la successiva lettera e) classifica come interventi di «nuova costruzione» quelli di «trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti».
In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio preesistente –intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale– configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
A conferma di ciò non sta solo il dato letterale dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 –che fa riferimento alla «stessa volumetria e sagoma» dell’edificio preesistente e ammette «le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica»– ma vi è anche la successiva legislazione statale in materia edilizia. L’art. 5, commi 9 e ss., del decreto-legge 13.05.2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12.07.2011, n. 106, infatti, nel regolare interventi di demolizione e ricostruzione con ampliamenti di volumetria e adeguamenti di sagoma, non ha qualificato tali interventi come ristrutturazione edilizia, né ha modificato la disciplina dettata al riguardo dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
2.3. – La linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi, d’altronde, non può non essere dettata in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la cui «morfologia» identifica il paesaggio, considerato questo come «la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli» (Relazione illustrativa della legge 11.06.1922, n. 778 «Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico», Atti parlamentari, Legislatura XXV, Senato del Regno, Tornata del 25.09.1920).
Sul territorio, infatti, «vengono a trovarsi di fronte» –tra gli altri– «due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni» (sentenza n. 367 del 2007, punto 7.1 del Considerato in diritto). Fermo restando che la tutela del paesaggio e quella del territorio sono necessariamente distinte, rientra nella competenza legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi.
Se il legislatore regionale potesse definire a propria discrezione tale linea, la conseguente difformità normativa che si avrebbe tra le varie Regioni produrrebbe rilevanti ricadute sul «paesaggio […] della Nazione» (art. 9 Cost.), inteso come «aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale» (sentenza n. 367 del 2007), e sulla sua tutela.
2.4. – In conclusione, l’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, come interpretato dall’art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7 del 2010, nel definire come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma, è in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di governo del territorio.
Parimenti lesivo dell’art. 117, terzo comma, Cost., è l’art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui, qualificando come «disciplina di dettaglio» numerose disposizioni legislative statali, prevede la disapplicazione della legislazione di principio in materia di governo del territorio dettata dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 con riguardo alla definizione delle categorie di interventi edilizi.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nella parte in cui esclude l’applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui disapplica l’art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) (testo A);
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 22 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica ed integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2010)
(Corte Costituzionale, sentenza 23.11.2011 n. 309).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALa finalità perseguita dal legislatore lombardo con la l.r. 93/1980 –confermata negli articoli da 59 a 62 della vigente legge regionale 12/2005– è quella di mantenere e conservare le zone agricole o a destinazione agricola della Regione, attraverso la limitazione degli usi residenziali, ammessi soltanto se a servizio dell’impresa agricola, per impedire la definitiva ed irrimediabile perdita delle porzioni territoriali a vocazione rurale.
Tale scopo è reso evidente dal particolare procedimento previsto per gli interventi edificatori in zona agricola (ora disciplinato dall’art. 60 della LR 12/2005), caratterizzato dalla presentazione al Comune di un impegno al mantenimento della destinazione, da trascriversi nei pubblici registri e costituente un vero e proprio vincolo sull’immobile.
Tale vincolo non può venire meno se non in caso di variazione urbanistica dell’area interessata (così l’art. 60 della LR 12/2005 ma anche la pregressa LR 93/1980), essendo pertanto indifferenti, sul regime del vincolo, le eventuali vicende personali dell’imprenditore agricolo o dei suoi aventi causa.
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Il vincolo di asservimento della residenza a servizio dell’impresa agricola non è nella disponibilità di chi pone in essere l’atto di impegno, né sussiste decadenza del vincolo per cessazione dell’attività agricola o vendita dell’immobile; il vincolo appare necessario per la piena salvaguardia del patrimonio agricolo della Regione; gli strumenti urbanistici possono ovviamente disporre un motivato cambio d’uso ma la signora ..., che ha realizzato di fatto tale mutamento in violazione dello strumento urbanistico, non ha alcuna pretesa tutelata a che il Comune, attraverso il PGT, adegui la situazione di diritto a quella di fatto illecitamente realizzata.
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Non appare né illogico né arbitrario che l’Amministrazione, nel confermare la vocazione agricola dell’area dell’esponente, abbia escluso di utilizzare lo strumento urbanistico quale improprio mezzo per realizzare una sorta di surrettizia sanatoria, che avrebbe finito così di fatto per eliminare l’abuso posto in essere dall’esponente.
E’ del resto escluso dallo stesso art. 36, citato dalla ricorrente, che la sola conformità dell’opera abusiva allo strumento urbanistico sopravvenuto consenta la sanatoria dell’abuso, essendo invece necessaria anche la conformità allo strumento vigente al momento di esecuzione dell’opera (c.d. doppia conformità).

La finalità perseguita dal legislatore lombardo con la l.r. 93/1980 –confermata negli articoli da 59 a 62 della vigente legge regionale 12/2005– è quella di mantenere e conservare le zone agricole o a destinazione agricola della Regione, attraverso la limitazione degli usi residenziali, ammessi soltanto se a servizio dell’impresa agricola, per impedire la definitiva ed irrimediabile perdita delle porzioni territoriali a vocazione rurale (su tale finalità, si veda TAR Lombardia, Milano, sez. II, 07.07.2011, n. 1843, oltre all’importante ordinanza della Corte Costituzionale n. 167/1995, di declaratoria della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 3 della legge regionale 93/1980).
Tale scopo è reso evidente dal particolare procedimento previsto per gli interventi edificatori in zona agricola (ora disciplinato dall’art. 60 della LR 12/2005), caratterizzato dalla presentazione al Comune di un impegno al mantenimento della destinazione, da trascriversi nei pubblici registri e costituente un vero e proprio vincolo sull’immobile.
Tale vincolo non può venire meno se non in caso di variazione urbanistica dell’area interessata (così l’art. 60 della LR 12/2005 ma anche la pregressa LR 93/1980), essendo pertanto indifferenti, sul regime del vincolo, le eventuali vicende personali dell’imprenditore agricolo o dei suoi aventi causa.
D’altronde, se così non fosse, la disciplina regionale sulla conservazione e sul mantenimento delle aree agricole sarebbe facilmente elusa, ad esempio attraverso la cessione dell’immobile dall’imprenditore agricolo ad un soggetto privo di tale qualità, oppure mediante la cessazione dell’attività di impresa agricola.
Non può pertanto configurarsi, contrariamente a quanto sostenuto dall’esponente, una sostanziale assimilazione fra la ordinaria destinazione abitativa e la residenza a servizio dell’impresa agricola.
Sul punto preme ancora ribadire –e si perdoni l’ovvietà– che non è certamente vietata in senso assoluto la trasformazione di una zona da agricola a residenziale; nel caso di specie tuttavia, l’esponente giustifica la propria pretesa all’accoglimento della sua osservazione al PGT, sulla base dell’intervenuto mutamento di destinazione realizzato in via di fatto, dopo l’acquisto dell’immobile.
Non pare certo al Collegio che la signora ... possa reputarsi titolata ad esigere un simile cambio d’uso, visto anche l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, che riconosce ai Comuni ampia discrezionalità nelle scelte urbanistiche –nel caso di specie si è trattato di confermare la destinazione agricola già esistente– scelte che richiedono una specifica motivazione solo in caso di affidamento qualificato del privato, rientrando in tale ultima ipotesi le situazioni di chi ha ottenuto un giudicato di annullamento di una precedente destinazione di zona ovvero di un diniego di titolo edilizio oppure ancora del silenzio-rifiuto formatosi su una domanda edilizia (si veda, sul punto, la ancora fondamentale decisione del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 08.01.1986, n. 1).
Alle situazioni sopra indicate, viene inoltre equiparata la condizione del privato che ha stipulato accordi vincolanti con la Pubblica Amministrazione, quale ad esempio una convenzione di lottizzazione (cfr. sul punto, fra le tante, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 24.02.2010, n. 452).
La posizione dell’esponente non rientra in nessuna di quelle sopra indicate, sicché la stessa non appare titolare di una particolare o qualificata posizione di affidamento nei confronti del Comune.
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Il vincolo di asservimento della residenza a servizio dell’impresa agricola non è nella disponibilità di chi pone in essere l’atto di impegno, né sussiste decadenza del vincolo per cessazione dell’attività agricola o vendita dell’immobile; il vincolo appare necessario per la piena salvaguardia del patrimonio agricolo della Regione; gli strumenti urbanistici possono ovviamente disporre un motivato cambio d’uso ma la signora ..., che ha realizzato di fatto tale mutamento in violazione dello strumento urbanistico, non ha alcuna pretesa tutelata a che il Comune, attraverso il PGT, adegui la situazione di diritto a quella di fatto illecitamente realizzata.
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Nel sesto ed ultimo motivo del gravame principale, viene denunciata la presunta violazione da parte del Comune dell’art. 36 del DPR 380/2001, in quanto, a detta dell’esponente, lo strumento urbanistico comunale potrebbe anche sanare un abuso edilizio.
Il mezzo non può però trovare accoglimento, in quanto –con specifico riferimento alla presente fattispecie– non appare né illogico né arbitrario che l’Amministrazione, nel confermare la vocazione agricola dell’area dell’esponente, abbia escluso di utilizzare lo strumento urbanistico quale improprio mezzo per realizzare una sorta di surrettizia sanatoria, che avrebbe finito così di fatto per eliminare l’abuso posto in essere dall’esponente.
E’ del resto escluso dallo stesso art. 36, citato dalla ricorrente, che la sola conformità dell’opera abusiva allo strumento urbanistico sopravvenuto consenta la sanatoria dell’abuso, essendo invece necessaria anche la conformità allo strumento vigente al momento di esecuzione dell’opera (c.d. doppia conformità).
Infine, in merito alla nota del legale del Comune dell’08.08.2001 (doc. 1 della ricorrente in data 01.09.2011), la stessa non avalla in alcun modo il comportamento dell’esponente, visto che il difensore dell’Amministrazione indica chiaramente a quest’ultima come appaia insuperabile il vincolo pattizio gravante sulla costruzione della ricorrente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2823 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2011

URBANISTICA: L. Spallino, Lombardia, Esiti della mancata approvazione dei PGT al 31.12.2012 (link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATAEDIFICI DI CULTO – SEDI DI ASSOCIAZIONI CULTURALI ISLAMICHE – PREVALENZA DELL’ATTIVITA’ DI PREGHIERA – DETERMINA MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO – NECESSITA’ DI PERMESSO DI COSTRUIRE - SUSSISTE.
In tema di edilizia cultuale, qualora un immobile non risulti utilizzato in via esclusiva quale luogo di culto, ma come sede di un’Associazione culturale islamica (nella specie ubicata in un negozio), in linea di principio non sarebbe possibile affermare la sussistenza di un’incompatibilità edilizio-urbanistica della destinazione d’uso dell’immobile medesimo, salvo che le circostanze di fatto non inducano a ritenere che l’attività ivi prevalentemente svolta sia quella della preghiera congregazionale, espressamente prevista dallo Statuto dell’Associazione culturale, e quest’ultima non sia in grado di provare il prevalente svolgimento di attività diverse da quelle proprie della preghiera.
LEGGE URBANISTICA DELLA LOMBARDIA – EDIFICI DI CULTO – NECESSITA’ DI PERMESSO DI COSTRUIRE ANCHE PER MUTAMENTI DI DESTINAZIONE D’USO SENZA OPERE – INCOSTITUZIONALITA’ PER DISCRIMINAZIONE – NON SUSSISTE.
L’art. 52, comma 3-bis della L.R. della Lombardia 11.03.2005 n. 12, che dispone la necessità del rilascio del permesso di costruire per i “mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali”, non si presta a dubbi di costituzionalità o di discriminazione, poiché esso, trovando applicazione in relazione all’intera categoria delle “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi … gli immobili (comunque) destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali”, si propone di controllare i mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione con riflessi di rilevante impatto urbanistico.

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La sentenza resa in primo grado va riformata e –per l’effetto– il ricorso ivi proposto va respinto.
Il Collegio ribadisce in tal senso che, come evidenziato anche nella recente ordinanza cautelare n. 2008 dd. 10.05.2011, se un immobile non risulta sia utilizzato in via esclusiva quale luogo di culto (diritto, questo, il cui esercizio è comunque garantito anche ai non cittadini a’ sensi e nei limiti dell’art. 19 Cost.), in linea di principio non è possibile affermare la sussistenza di un’incompatibilità edilizio-urbanistica della destinazione d’uso dell’immobile medesimo, il quale peraltro consterebbe sia a tutt’oggi nella specie adibito a “negozio”, anche se poi divenuto sede dell’Associazione Culturale Da’awa.
L’esame dello statuto di tale Associazione e delle circostanze di fatto documentate sino alla predetta data del 23.07.2011 convincono tuttavia il Collegio della circostanza che, a differenza del caso definito in sede cautelare da questa stessa Sezione mediante l’anzidetta ordinanza n. 2008 del 2001, nella fattispecie non risulta materialmente comprovato lo svolgimento da parte della Associazione medesima di attività diverse da quelle proprie della preghiera, nondimeno reputata in via del tutto apodittica dal TAR come accessoria e marginale nel contesto degli scopi statutari perseguiti da Da’awa.
In effetti, nell’estrema genericità dei pur commendevoli scopi di carattere generale enunciati dallo statuto di Da’awa (“rafforzare il legame di fratellanza umana tra comunità e i cittadini locali attraverso lo scambio culturale, la collaborazione sociale, la vicinanza civile all’interno di un quadro di rispetto e di integrazione”; “essere un elemento di una area di convivenza e di pace, promuovendo una condotta morale che porti alla pratica del bene”; “far rivivere gli insegnamenti del Profeta - Sunna e la rivelazione Divina - Corano”), la specifica attività di “organizzare preghiere individuali e collettive” assume all’evidenza un carattere non occasionale ma del tutto preminente: e ciò inderogabilmente impone, pertanto, l’applicazione nella specie dell’art. 52, comma 3-bis della L.R. 11.03.2005 n. 12 come introdotto dall’art. 1 della L.R. 14.07.2006 n. 12, laddove si dispone la necessità del rilascio del permesso di costruire per i “mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali”.
Né va sottaciuto che l’art. 70 e ss. della medesima L.R. 12 del 2005 reca una specifica disciplina urbanistica per i luoghi di culto e che, medio tempore, lo ius superveniens contenuto nell’art. 71, comma 1, lett. c–bis, della L.R. 11.03.2005 n. 12, così come inserito dall’art. 12 della L.R. 21.02.2011 n. 3, ha comunque ricondotto nella categoria delle “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi … gli immobili (comunque) destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali”.
In tale contesto, pertanto, la trasformazione –inoppugnabilmente avvenuta nella specie– del preesistente “negozio” in luogo preminentemente adibito a culto non poteva che richiedere, anche a prescindere dalla concomitantemente contestata realizzazione al piano seminterrato di un tavolato interno, il rilascio del titolo edilizio abilitante al mutamento della destinazione d’uso dei relativi locali.
Né la disciplina contenuta nel testé citato art. 52, comma 3-bis, della L.R. 12 del 2005 come introdotto dall’art. 1 della L.R. 12 del 2006 può reputarsi incostituzionale secondo la prospettazione svolta in tal senso dagli appellati.
Secondo questi ultimi, infatti, tale disciplina violerebbe:
- l’art. 2 Cost. (riconoscimento costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali; tra i diritti inviolabili dell’uomo vi è il diritto alla preghiera religiosa ed al culto);
- l’art. 3 Cost. (violazione del principio d’eguaglianza e ragionevolezza in quanto sarebbe chiara la discriminazione che la Regione Lombardia pone a coloro che vogliano destinare i locali, anche senza opere, a luogo di culto -necessità di operare con permesso di costruire- rispetto a tutti gli altri cittadini che vogliano effettuare un mutamento di destinazione d'uso d’altro genere -il permesso di costruire non necessita- è sufficiente la denuncia d’inizio attività, o la semplice comunicazione);
- l’art. 8 Cost. (libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge);
- l’art. 9 Cost. (promozione dello sviluppo della cultura);
- gli artt. 18 e 19 Cost. (a mezzo della contestata disciplina regionale si inciderebbe e si annullerebbe il diritto di associarsi liberamente ed il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa al fine di farne propaganda -anche a mezzo di associazioni culturali- ed anche per esercitare in pubblico ed in privato il proprio culto);
- l’art. 20 Cost. (si violerebbe il divieto costituzionale di non porre speciali limitazioni legislative per ogni forma d’attività dell’associazione con fine di culto);
- e, da ultimo, l’art. 21 Cost. (si inciderebbe e si annullerebbe il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero costituito anche dall’esercizio del culto.
Il Collegio a tale ultimo riguardo evidenzia che lo stesso giudice di primo grado ha convenuto che l’art. 52, comma 3-bis della L.R. 12 del 2005 per la sua collocazione e la sua ratio è palesemente volto al controllo di mutamenti di destinazione d’uso suscettibili, per l’afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come destinazione principale o esclusiva l’esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, le quali richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni: se non altro agli effetti dell’altrettanto necessario e conseguente rilascio del certificato di agibilità (cfr. art. 23 e ss. del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380) dell’immobile destinato al nuovo uso, nonché della parimenti necessaria e conseguente pratica di prevenzione incensi di cui al D.P.R. 12.01.1998 n. 37 di competenza dei Vigili del Fuoco.
Pertanto non sussiste, nel contesto del medesimo comma 3-bis, alcuna discriminazione di carattere politico-culturale e religioso, anche per il fatto che la disciplina sopradescritta è uniformemente applicata ad ogni luogo di culto, anche cattolico, nonché ad ogni centro sociale, di qualsivoglia tendenza socio-politica, al fine di salvaguardare l’incolumità di tutti coloro che frequentano tali luoghi di riunione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.10.2011 n. 5778 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comunicazione di eseguita attività (c.e.a.) ex art. 41, comma 2, L.R. n. 12/2005 ed esame impatto paesistico dei progetti (Regione Lombardia, Giunta Regionale, Direzione Generale Sistemi Verdi e Paesaggio, Progetti Integrati Paesaggio, Paesaggio, nota 20.10.2011 n. 21568 di prot.).

settembre 2011

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comunicazione di eseguita attività (c.e.a.) ex art. 41, comma 2, L.R. n. 12/2005 ed esame impatto paesistico dei progetti (Regione Lombardia, Giunta Regionale, Direzione Generale Sistemi Verdi e Paesaggio, Progetti Integrati Paesaggio, Paesaggio, nota 26.09.2011 n. 19762 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: La disposizione di cui all'art. 52, comma 3-bis, L.R. 12/2005 della Lombardia vuole evitare che -attraverso la liberalizzazione dei cambi di destinazione d'uso stabilita dall'art. 51 della LR 12/2005- siano realizzate innovazioni di grande impatto sul tessuto urbano senza un preventivo esame da parte dell'amministrazione.
Anche in presenza non di un luogo espressamente destinato all’esercizio del culto islamico, ma solo di un luogo di raduno di immigrati di religione islamica con finalità meramente culturali e non cultuali comunque trova applicazione (configurandosi alternativamente l’ipotesi del “centro sociale”, inteso come luogo di aggregazione di una cospicua entità di soggetti aventi interessi comuni) la suddetta norma regionale che richiede il rilascio di specifico titolo edilizio, nella specie non richiesto.

La L.R. 11.03.2005 n. 12, al comma 3-bis dell’art. 52 (recante la rubrica ”Mutamenti di destinazione d'uso con e senza opere edilizie”) espressamente dispone che: “I mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire”.
La Sezione (cfr. la sentenza 14.09.2010 n. 3522 ) ha già avuto modo di rilevare che tale disposizione vuole evitare che -attraverso la liberalizzazione dei cambi di destinazione d'uso stabilita dall'art. 51 della LR 12/2005- siano realizzate innovazioni di grande impatto sul tessuto urbano senza un preventivo esame da parte dell'amministrazione.
Va rilevato che quand’anche dovesse accedersi alla tesi di parte ricorrente, -secondo cui nella fattispecie non si sarebbe in presenza di un luogo espressamente destinato all’esercizio del culto islamico, ma solo di un luogo di raduno di immigrati di religione islamica con finalità meramente culturali e non cultuali- ciò non di meno comunque trova applicazione (configurandosi alternativamente l’ipotesi del “centro sociale”, inteso come luogo di aggregazione di una cospicua entità di soggetti aventi interessi comuni) la suddetta norma regionale che richiede il rilascio di specifico titolo edilizio, nella specie non richiesto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 22.09.2011 n. 1320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Art. 11, L.R. n. 12/2005 - Perequazione urbanistica - Riduzione delle volumetrie realizzabili rispetto alla disciplina urbanistica previgente - Possibilità.
2. Art. 11, L.R. n. 12/2005 - Perequazione urbanistica - Previsione del meccanismo perequativo solo per alcuni ambiti di trasformazione - Possibilità.

1. La norma di cui all'art. 11, comma 2, L.R. n. 12/2005, nel disporre che la P.A. -ove attribuisca alle aree del territorio comunale un identico indice di edificabilità territoriale, inferiore a quello minimo fondiario, differenziato per parti del territorio comunale- disciplini il rapporto con la volumetria degli edifici esistenti, in relazione ai vari tipi di intervento previsti, non pone affatto un obbligo di conservare la volumetria esistente: infatti, l'art. 11 prevede, espressamente, la conferma delle volumetrie degli edifici esistenti solo "se mantenuti".
La P.A., dunque, specie laddove -come nel caso di specie- muti la destinazione delle aree, ben può ridurre le volumetrie realizzabili rispetto a quanto previsto dalla disciplina urbanistica previgente.
2. E' legittima la decisione della P.A. di non estendere il meccanismo perequativo all'intero territorio comunale e prevederlo solo per alcuni ambiti di trasformazione: infatti, l'art. 11, L.R. n. 12/2005 -nel disporre che la P.A. possa attribuire un identico indice di edificabilità territoriale, inferiore a quello minimo fondiario, differenziato per parti del territorio comunale a tutte le aree del territorio comunale, con eccezione delle aree destinate all'agricoltura e di quelle non soggette a trasformazione urbanistica- attribuisce una facoltà alla P.A., facoltà che non deve essere necessariamente esercitata sull'intero territorio comunale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.09.2011 n. 2233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2011

URBANISTICAArt. 25, L.R. n. 12/2005 - Varianti urbanistiche - Approvazione - Applicabilità della procedura ex art. 2, L.R. n. 23/1997 - Piani attuativi in variante - Approvazione - Applicabilità della procedura ex art. 3, L.R. n. 23/1997 - Sussiste.
L'art. 25, L.R. n. 12/2005 consente alle Amministrazioni locali di approvare varianti urbanistiche con la procedura di cui all'art. 2 della LR 23/1997 e piani attuativi in variante con la diversa procedura di cui al successivo art. 3 della stessa legge (tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.07.2011 n. 1841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2011

EDILIZIA PRIVATAZona agricola - Opere realizzate in funzione della conduzione del fondo - Edificabilità - E' mera possibilità.
La L.R. n. 12/2005 prevedendo, all'art. 59, che nelle aree destinate all'agricoltura dal piano delle regole sono ammesse esclusivamente le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e destinate alle residenze dell'imprenditore agricolo e dei dipendenti dell'azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive necessarie per lo svolgimento delle attività di cui all'art. 2135 c.c., pone un limite alla tipologia di costruzioni che possono essere realizzate in zona agricola proprio a tutela di queste aree, ma non prevede affatto che debba essere sempre e comunque prevista la possibilità di realizzare tali costruzioni (tratto da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.06.2011 n. 1468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 07.06.2011, "Modalità per il sostegno finanziario degli enti locali e degli enti gestori delle aree regionali protette per l’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite (art. 79, comma 1, lett. b), l.r. 12/2005)" (deliberazione G.R. 31.05.2011 n. 1802).

maggio 2011

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 06.05.2011 "Testo coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»".

aprile 2011

URBANISTICA: GIORNATA DI STUDIO 08.04.2011 a Como: I nuovi strumenti della programmazione urbanistica, perequazioni, compensazioni e diritti edificatori (gli atti del convegno) (link a www.notaicomolecco.it).

marzo 2011

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Quesiti inerenti le possibilità di intervento in aree con destinazione agricola di cui agli artt. 59-62 della L.R. n. 12/2005. Richiesta parere circa la corretta interpretazione applicativa della norma (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, Programmazione e Pianificazione Territoriale, nota 30.03.2011 n. 9064 di prot.).

febbraio 2011

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della L.R. n. 12/2005: 5^ lezione (parte B) - Titoli abilitativi (Geometra Orobico n. 1/2011).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 8 del 25.02.2011, "Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2011" (L.R. 21.02.2011 n. 3).
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La presente legge modifica/integra numerose normative regionali in materia, tra l'altro, di:
- B.U.R.L. (cfr. art. 3);
- cementi armati (cfr. art. 9);
- opere pubbliche di interesse regionale (cfr. art. 10);
- legge regionale n. 12/2005 (cfr. art. 12);
- rifiuti (cfr. art. 15);
- inquinamento acustico (cfr. art. 16);
- emissioni in atmosfera (cfr. art. 17).

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Collegato ordinamentale 2011 Regione Lombardia: nuove modifiche alla legge 12/2005.
Nella seduta del 15.02.2001 il Consiglio Regionale della Lombardia ha approvato il cd. "Collegato ordinamentale 2011". Come si legge nel comunicato stampa regionale,
Tra le novità previste, una nuova proroga ai Comuni fino al 31.12.2012 per dotarsi definitivamente del piano di governo del territorio (PGT) e il via libera alle deroghe eccezionali ai limiti sull’inquinamento acustico oggi previste nel caso essi dovessero mettere a repentaglio lo svolgimento di eventi di rilievo internazionali, come ad esempio i grandi concerti.
Il “Collegato” equipara inoltre i Centri culturali a carattere religioso agli edifici di culto, prevedendo per la loro realizzazione uno specifico percorso di programmazione nei piani regolatori. Via libera anche alla norma che dà la possibilità ai Comuni di negare l’autorizzazione ad aprire attività commerciali nei centri storici se in contrasto con il “decoro pubblico” e le “tradizioni locali”.
Il “Collegato” recepisce inoltre la direttiva europea Bolkestein sul commercio e introduce norme di semplificazione burocratica nell’edilizia e per lo svolgimento di alcune attività, come ad esempio la certificazione energetica, un settore in espansione e al quale potranno accedere adesso ai corsi formativi anche i cittadini non iscritti a un albo.
Ancora una volta, dunque, l'ennesima applicazione di quel vizio di tecnica legislativa secondo cui con unica disposizione si apportano importanti modifiche a legislazioni del tutto diverse tra loro, senza nessuna attenzione ai complessi processi di implementazione della normativa vigente, verso cui la stessa Regione dichiara di voler prestare la massima attenzione (v. Analisi dell'attuazione delle leggi e valutazione degli effetti delle politiche regionali sul sito del Consiglio regionale).
Il collegato ordinamentale meriterebbe un'analisi a sé. In ogni caso, le modifiche relative alla legge n. 12 del 2005 sono contenute nell'articolo 12, tra le quali vanno segnalate:
- le modifiche dell'articolo 4 (Valutazione ambientale dei piani), anche attraverso l'introdzione del comma 3-bis, finalizzato a superare le note perplessità relative alle procedure di VAS e alla nomina dei relativi responsabili;
- la modifica dell'articolo 25 (Norma transitoria), dove la data del 31.03.2010 per l'approvazione dei PGT é differita al 31.12.2012;
- la modifica dell'articolo 26 (Adeguamento dei piani), cui dopo il comma 3-ter dell’articolo 26 é aggiunto il comma 3-quater, secondo cui "I comuni che alla data del 30.09.2011 non hanno adottato il PGT non possono dar corso all’approvazione di piani attuativi del vigente PRG comunque denominati, fatta salva l’approvazione dei piani già adottati alla medesima data”;
- l'introduzione dell'articolo 32-bis (Adempimenti del comune), a norma del quale "Nell’ambito delle procedure di cui ai capi II e III, il comune, dietro corresponsione dei diritti amministrativi e delle spese dovuti, è tenuto a corredare d’ufficio le domande di permesso di costruire o le denunce di inizio attività di tutti i certificati il cui rilascio è di sua competenza”;
- la sostituzione del secondo comma dell'articolo 41 (Interventi realizzabili mediante denuncia di inizio attività), il cui nuovo testo recita “2. Nel caso di interventi assentiti in forza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività, è data facoltà all’interessato di presentare comunicazione di eseguita attività sottoscritta da tecnico abilitato, per varianti che non incidano sugli indici urbanistici e sulle volumetrie, che non modifichino la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterino la sagoma dell’edificio e non violino le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Ai fini dell’attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini del rilascio del certificato di agibilità, tali comunicazioni costituiscono parte integrante del procedimento relativo al titolo abilitativo dell’intervento principale e possono essere presentate al comune sino alla dichiarazione di ultimazione dei lavori.”;
- l'integrazione dell'articolo 71, in materia di edifici di culto, cui dopo la lettera c) del comma 1 è aggiunta la disposizione c bis): "gli immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali”;
- la riscrittura del comma 1 dell’articolo 86, in materia di interventi sostitutivi in caso di inerzia o di ritardi nel rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, il cui nuovo testo dispone: "1. Qualora l’autorizzazione paesaggistica non venga rilasciata o negata dagli enti competenti nei termini di legge, l’interessato può richiederla in via sostitutiva, ai sensi dell’articolo 146, comma 10, del d.lgs. 42/2004. Nel caso di richiesta alla Regione, il Presidente della Giunta regionale o l’assessore competente, se delegato, provvede entro sessanta giorni dal ricevimento della stessa, anche mediante un commissario ad acta, scelto tra i soggetti iscritti all’albo di cui all’articolo 31.” (link a http://studiospallino.blogspot.com).

URBANISTICA: Pgt, termini prorogati fino a fine 2012. Belotti: ultima chiamata.
Il Consiglio regionale ha accolto la richiesta dell'assessore al Territorio e Urbanistica della Regione Lombardia Daniele Belotti di prorogare i termini per l'approvazione dei Pgt (Piani di Governo del Territorio).
Grazie alle modifiche recepite, attraverso il collegato, alla legge n. 12 del 2005 (Legge per il governo del territorio), i quasi 1100 Comuni che ancora non hanno approvato il Pgt, avranno tempo fino al 31.12.2012 per mettersi in regola.
Allo stesso tempo, al fine di incentivare la sollecita approvazione del nuovo strumento urbanistico, si è stabilito che quei Comuni che, entro il 30.09.2011, non abbiano adottato il Pgt non potranno dare corso all'approvazione di piani attuativi del vigente Prg (Piano Regolatore Generale).
"La legge regionale 12 -commenta l'assessore Belotti- ha completamente innovato il modo di approcciarsi alla pianificazione territoriale, ponendo al centro del provvedimento la tutela del territorio, al fine di poterlo consegnare alla generazioni future quanto più integro possibile". Alle amministrazioni comunali è affidata la responsabilità di tradurre in azioni concrete i principi e gli indirizzi dettati da Regione Lombardia, ecco il motivo per cui l'approvazione dei Piani di Governo del Territorio da parte dei Comuni è da ritenersi un atto di responsabilità assolutamente indifferibile e urgente.
La nuova e ampia proroga concessa alle amministrazioni comunali per l'approvazione dei Pgt ha il fine di escludere qualsiasi alibi o giustificazione alla loro mancata approvazione, ritenendo in tal modo improponibile la concessione di ulteriori proroghe.
La nuova legge regionale n. 12, così come modificata all'atto dell'approvazione del Collegato Ordinamentale, entrerà in vigore nei prossimi giorni, dopo la pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione (Burl) (Milano, 24.02.2011 - link a www.regione.lombardia.it).

URBANISTICA: Regione Lombardia - Art. 104 l.r. Lombardia n. 12/2005 - Adeguamento dei p.r.g. vigenti alla nuova disciplina - Disciplina transitoria - Varianti - Trasmissione alla provincia competente - Verifica della compatibilità con il piano territoriale di coordinamento.
L’art. 104, comma 1, lett. cc), della legge reg. Lombardia 2005 n. 12 ha disposto l’abrogazione espressa, tra l’altro, dell'art. 3, commi da 2 a 40, della legge regionale 05.01.2000, n. 1 “salvo per quanto previsto agli articoli 25, comma 1 e 92, commi 7 e 8, della presente legge” (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. III, 22.12.2009, n. 5962).
A sua volta l’art. 25, comma 1, della legge reg. 2005 n. 12 detta una disciplina transitoria, individuando, tra l’altro, quali procedure di variante urbanistica i Comuni possono utilizzare fino all’adeguamento dei piani regolatori generali vigenti alla nuova disciplina normativa introdotta in materia di governo del territorio.
Dal coordinamento tra le due norme citate deriva che, qualora l’amministrazione comunale approvi -nel periodo transitorio individuato dall’art. 25, comma 1, della legge reg. 2005 n. 12,- una delle varianti previste dall’art. 2, comma 2, della legge reg. 23.06.1997, n. 23, devono trovare applicazione le previsioni dell'art. 3, commi da 2 a 40, della legge reg. 05.01.2000, n. 1.
Pertanto, in questi casi deve essere applicato anche il comma 18 dell’art. 3 della legge reg. 2000 n. 1, ove si prevede che il comune debba trasmettere la variante adottata alla Provincia competente, al fine di consentire la verificazione della compatibilità della nuova disciplina urbanistica con il piano territoriale di coordinamento (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 18.02.2011 n. 499 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comuni chiedono l'accreditamento per il monitoraggio Fondo Aree Verdi.
I Comuni chiedono l'accreditamento per accedere al nuovo sistema informatizzato messo a disposizione delle amministrazioni per il monitoraggio del "Fondo Aree Verdi" (di cui all'art. 43 della Legge regionale n. 12/2005). Ecco i primi 10:
Arese - Barzanò - Bottanuco - Sala Comacina - Concesio - Grassobbio - Onore - Sotto il Monte Giovanni XXIII - Triuggio - Urgnano.
Dal 10.01.2011 è attivo il sistema alimentato tramite le maggiorazioni dei contributi di costruzione applicate agli interventi di nuova costruzione che sottraggono superfici agricole nello stato di fatto.
La trasmissione delle informazioni e il versamento dei proventi delle maggiorazioni riscosse avviene attraverso il sistema di monitoraggio informatico (front office) accessibile seguendo le indicazioni pubblicate sul sito della Direzione generale Sistemi Verdi e Paesaggio.
Le amministrazioni comunali potranno, successivamente, attraverso una procedura a domanda, richiedere a Regione Lombardia il prelievo delle risorse dal Fondo da destinare a interventi forestali a rilevanza ecologica e di incremento della naturalità.
Le risorse del Fondo potranno essere utilizzate, in particolare, per promuovere progetti di:
- costruzione di sistemi verdi e della rete ecologica;
- valorizzazione e incremento della naturalità nelle aree protette;
- valorizzazione del patrimonio forestale e del sistema rurale-paesistico-ambientale;
- rinaturalizzazione e incremento della dotazione del verde in ambito urbano, con attenzione al recupero delle aree degradate e alla connessione tra territorio rurale ed edificato (Milano, 17.02.2011 - link a www.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: Lombardia, Consiglio approva Collegato Ordinamentale 2011.

Il Consiglio regionale ha approvato oggi con 40 voti favorevoli e 29 contrari il “Collegato Ordinamentale”, una legge che modifica o integra le disposizioni legislative regionali.
Tra le novità previste, una nuova proroga ai Comuni fino al 31.12.2012 per dotarsi definitivamente del piano di governo del territorio (PGT) e il via libera alle deroghe eccezionali ai limiti sull’inquinamento acustico oggi previste nel caso essi dovessero mettere a repentaglio lo svolgimento di eventi di rilievo internazionali, come ad esempio i grandi concerti.
Il “Collegato” equipara inoltre i Centri culturali a carattere religioso agli edifici di culto, prevedendo per la loro realizzazione uno specifico percorso di programmazione nei piani regolatori.
Via libera anche alla norma che dà la possibilità ai Comuni di negare l’autorizzazione ad aprire attività commerciali nei centri storici se in contrasto con il “decoro pubblico” e le “tradizioni locali”.
Il “Collegato” recepisce inoltre la direttiva europea Bolkestein sul commercio e introduce norme di semplificazione burocratica nell’edilizia e per lo svolgimento di alcune attività, come ad esempio la certificazione energetica, un settore in espansione e al quale potranno accedere adesso ai corsi formativi anche i cittadini non iscritti a un albo. ... (comunicato 15.02.2011 - link a www.consiglio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Mutamento di destinazione d'uso - Divieto di introdurre limiti quantitativi alla presenza di destinazioni complementari a fianco di quelle principali - Illegittimità.
2. Mutamento di destinazione d'uso - Incremento di valore degli immobili - Stima dell'Agenzia del Territorio - E' atto endoprocedimentale - Conseguenze - Onere di impugnabilità della stima - Non sussiste.
1. In materia di disciplina dei mutamenti delle destinazioni d'uso degli immobili, ai sensi dell'art. 1, comma 2, L.R. 1/2001 -norma oggi abrogata, ma sostanzialmente confluita nell'art. 51, comma 1, lett. d), L.R. 12/2005- da un lato, è consentito ai comuni di escludere in toto determinate destinazioni: dall'altro, tuttavia, tale norma non può essere intesa come divieto di introdurre limiti quantitativi alla presenza di destinazioni complementari a fianco di quella o quelle identificate come principali.
2. In materia di rilevazioni di incremento di valore degli immobili nel passaggio da una destinazione d'uso ad un'altra, la stima dell'Agenzia del Territorio costituisce atto interno, non direttamente lesivo, e pertanto impugnabile solo unitamente al provvedimento che irroga la sanzione: ciò esclude la configurabilità dell'Agenzia del Territorio come contraddittore necessario (cfr. TAR Milano, sent. n. 1546/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.02.2011 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: TAR Milano: mutamento di destinazione d'uso, rimangono le percentuali.
Il TAR di Milano ha affermato che, pur nel regime della L.R. 12/2005, lo strumento urbanistico può prevedere limitazioni percentuali alle destinazioni d'uso ammissibili nelle diverse zone. Ciò alla luce di un'interpretazione estensiva dell'ultimo inciso contenuto nell'art. 51 primo comma della L.R. 12/2005: "salve quelle escluse dal PGT" significa che lo strumento urbanistico può derogare al principio per cui le destinazioni d'uso ammissibili (principali, complementari e accessorie), coesistono senza limitazioni percentuali.
L’art. 51 della legge regionale n. 12/2005 dispone (secondo e terzo comma): “I comuni indicano nel PGT in quali casi i mutamenti di destinazione d’uso di aree e di edifici, attuati con opere edilizie, comportino un aumento ovvero una variazione del fabbisogno di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale di cui all’articolo 9. Per i mutamenti di destinazione d’uso non comportanti la realizzazione di opere edilizie, le indicazioni del comma 2 riguardano esclusivamente i casi in cui le aree o gli edifici siano adibiti a sede di esercizi commerciali non costituenti esercizi di vicinato ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 31.03.1998, n. 114”.
Queste disposizioni -peraltro rivolte ai futuri PGT- riguardano i mutamenti di destinazione d’uso ammessi, non quelli esclusi dallo strumento urbanistico. Esse riproducono infatti l’art. 1, comma 3, della previgente l.r. n. 1 del 2001, che in termini pressoché identici recitava: “I comuni indicano, altresì, attraverso lo strumento urbanistico generale, in quali casi i mutamenti di destinazione d'uso di aree e di edifici, ammissibili ai sensi del comma 2, attuati con opere edilizie, comportino un aumento ovvero una variazione del fabbisogno di standard; per quanto riguarda i mutamenti di destinazione d'uso ammissibili, non comportanti la realizzazione di opere edilizie, le suddette indicazioni riguarderanno esclusivamente i casi in cui le aree o gli edifici vengano adibiti a sede di esercizi commerciali non costituenti esercizi di vicinato ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera d), del d.lgs. 31.03.1998, n. 114”.
Quanto all’art. 54 della legge regionale, il fatto che i mutamenti di destinazione che non determinino carenza di aree per servizi e attrezzature di interesse generale non costituiscano variazione essenziale, non esclude la sanzionabilità dei mutamenti di destinazione che si pongano in contrasto con lo strumento urbanistico (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.02.2011 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Monitoraggio per il Fondo Aree Verdi - Adempimenti comunali (Regione Lombardia, Direzione Generale Sistemi Verdi e Paesaggio, nota 07.02.2011 n. 2462 di prot.).

gennaio 2011

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 26.01.2011, "Approvazione della Circolare «L’applicazione della valutazione ambientale di piani e programmi - VAS nel contesto comunale»" (decreto D.S. 14.12.2010 n. 13071).

URBANISTICA: Oggetto: VAS - Sentenza Consiglio di Stato (Regione Lombardia, Assessore a Territorio e Urbanistica, nota 24.01.2011 n. 1798 di prot.).

URBANISTICA: Anche per impugnare la VAS é necessario dimostrare l'interesse ad agire.
Con sentenza n. 133/2011 il Consiglio di Stato, sezione IV, depositata in Cancelleria il 12.01.2011, ha riformato in toto la sentenza n. 1526/2010 del TAR Lombardia in punto VAS.
In via preliminare -e al di là delle questioni di merito- pare importante segnalare che il Consiglio di Stato ha accolto la tesi degli appellanti secondo i quali il ricorrente in primo grado non avrebbe in alcun modo chiarito quale interesse specifico e qualificato assistesse le doglianze, il cui accoglimento ha determinato un generico effetto caducante del P.G.T. nel suo complesso.
Al contrario, il TAR aveva ritenuto sussistente in capo all’istante un interesse di natura “strumentale”, avente a oggetto le determinazioni future, ed eventualmente più favorevoli ai suoli in sua proprietà, che l’Amministrazione avrebbe dovuto assumere in sede di rielaborazione dello strumento urbanistico. Il punto fondamentale -sul quale peraltro ci si era già appuntati- è quindi quello secondo cui neppure la VAS sfugge al criterio generale dell'interesse ad agire, in difetto del quale (o comunque della dimostrazione della lesività del provvedimento) l'impugnazione é inammissibile. Afferma il C.S.:
"potrà anche condividersi in via di principio il rilievo per cui “laddove la VAS si concluda con un giudizio positivo (o positivo condizionato) il soggetto che subisca determinazioni lesive della sua sfera giuridica discendenti dall’accettazione (piena o condizionata) delle proposte pianificatorie sottoposte a VAS, ben potrà censurare anche queste determinazioni preliminari condizionanti, poiché è per effetto di questo giudizio di sostenibilità complessiva di queste scelte che le stesse possono tramutarsi in atti pianificatori negativi” (pagg. 68-69); tuttavia, proprio per evitare di pervenire a una legitimatio generalis del tipo di quella sopra indicata, occorre che le “determinazioni lesive” fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., e pertanto l’istante avrebbe dovuto precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà, ciò che non ha fatto.".
La decisione del Consiglio di Stato riallinea la giurisprudenza in materia. Si vedano, infatti:
- TAR Campania Napoli, sez. II, 20.04.2010, n. 2043, dove si afferma che considerate le indicate finalità della VAS non si deve ritenere che possa vantare un interesse giuridicamente rilevante a contestare l'eventuale carenza della VAS nel procedimento di approvazione della variante urbanistica impugnata, colui il quale ricorre per ottenere una destinazione non più agricola del fondo di sua proprietà;
- Consiglio di Stato, sez. V, 26.02.2010, n. 1134: in quel caso il provvedimento di VIA impugnato era stato censurato con specifico riferimento all'assenza di idonea istruttoria con riferimento all'impatto conseguente alla realizzazione dell'impianto autorizzato con riguardo ai fondi e alle attività dei ricorrenti: ma ciò non aveva esonerato il Consiglio di Stato dal verificare approfonditamente quale fosse la situazione di stabile e significativo collegamento dei ricorrenti rispetto all'area interessata dall'impianto e in che misura la VIA avesse, o meno, valutato l'incidenza dell'impianto sulle realtà esistenti (link a http://studiospallino.blogspot.com).

URBANISTICALombardia, VAS del PGT: il Consiglio di Stato annulla la sentenza del TAR Milano che, precedentemente, aveva annullato il PGT del Comune di Cermenate (CO).
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Le conclusioni raggiunte dal primo giudice, secondo cui l’autorità competente alla V.A.S. deve essere necessariamente individuata in una pubblica amministrazione diversa da quella avente qualità di “autorità procedente”, non trova supporto nella vigente normativa comunitaria e nazionale. In nessuna definizione del Testo Unico ambientale (D.Lgs. n. 152/2006) si trova affermato in maniera esplicita che debba necessariamente trattarsi di amministrazioni diverse o separate (e che, pertanto, sia precluso individuare l’autorità competente in diverso organo o articolazione della stessa amministrazione procedente).
Non risulta in linea con le richiamate disposizioni nazionali la scelta di individuare l’autorità competente alla V.A.S. ex post, in relazione al singolo e specifico procedimento di pianificazione, come avvenuto nel caso di specie (laddove –come già rilevato– la predetta autorità è stata individuata contestualmente alla comunicazione di avvio del procedimento stesso).

La Sezione osserva che il presupposto su cui si basano le conclusioni raggiunte dal primo giudice, secondo cui l’autorità competente alla V.A.S. deve essere necessariamente individuata in una pubblica amministrazione diversa da quella avente qualità di “autorità procedente”, non trova supporto nella vigente normativa comunitaria e nazionale.
Al riguardo, giova richiamare le definizioni oggi contenute nel citato d.lgs. nr. 152 del 2006, il cui art. 5, per quanto qui interessa, definisce:
- la “autorità competente” come “la pubblica amministrazione cui compete l’adozione del provvedimento di verifica di assoggettabilità, l’elaborazione del parere motivato, nel caso di valutazione di piani e programmi, e l’adozione dei provvedimenti conclusivi in materia di VIA, nel caso di progetti ovvero il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale, nel caso di impianti” (lettera p);
- la “autorità procedente” come “la pubblica amministrazione che elabora il piano, programma soggetto alle disposizioni del presente decreto, ovvero nel caso in cui il soggetto che predispone il piano, programma sia un diverso soggetto pubblico o privato, la pubblica amministrazione che recepisce, adotta o approva il piano, programma”.
Orbene, se dalle riferite definizioni risulta chiaro che entrambe le autorità de quibus sono sempre “amministrazioni” pubbliche, in nessuna definizione del Testo Unico ambientale si trova affermato in maniera esplicita che debba necessariamente trattarsi di amministrazioni diverse o separate (e che, pertanto, sia precluso individuare l’autorità competente in diverso organo o articolazione della stessa amministrazione procedente).
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La Sezione non condivide l’approccio ermeneutico di fondo della parte odierna appellata, che desume la necessaria “separatezza” tra le due autorità dal fatto che la V.A.S. costituirebbe un momento di controllo sull’attività di pianificazione svolta dall’autorità competente, con il corollario dell’impossibilità di una identità o immedesimazione tra controllore e controllato.
Siffatta ricostruzione, invero, è smentita dall’intero impianto normativo in subiecta materia, il quale invece evidenzia –come già accennato– che le due autorità, seppur poste in rapporto dialettico in quanto chiamate a tutelare interessi diversi, operano “in collaborazione” tra di loro in vista del risultato finale della formazione di un piano o programma attento ai valori della sostenibilità e compatibilità ambientale: ciò si ricava, testualmente, dal già citato art. 11, d.lgs. nr. 152 del 2006, che secondo l’opinione preferibile costruisce la V.A.S. non già come un procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma come un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi nell’espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima.
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Con riferimento all’individuazione delle autorità competenti in materia di valutazioni ambientali, e con richiamo all’assetto normativo sul riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni vigente all’epoca dell’adozione dei provvedimenti per cui è causa, vengono in rilievo:
- il comma 6 dell’art. 6 del d.lgs. nr. 152 del 2006, secondo cui l’autorità competente per la V.A.S. e la V.I.A. va individuata “secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle province autonome”;
- il successivo comma 7 del medesimo articolo, che del pari demanda a leggi e regolamenti regionali la determinazione delle “competenze” degli altri enti locali, ivi compresi i Comuni.
Dal complesso di tali disposizioni, ad avviso della Sezione, se da un lato emerge l’intento del legislatore nazionale di lasciare alle Regioni una certa libertà di manovra quanto alla delegabilità delle competenze agli enti locali e alle modalità della loro regolamentazione, tuttavia appare evidente la volontà di assicurare che la fissazione delle “competenze” sia compiuta a priori, con atti che individuino in via generale e astratta i soggetti, uffici o organi cui viene attribuita la veste di “autorità competente”.
Ne discende che non risulta in linea con le richiamate disposizioni nazionali la scelta di individuare l’autorità competente alla V.A.S. ex post, in relazione al singolo e specifico procedimento di pianificazione, come avvenuto nel caso di specie (laddove –come già rilevato– la predetta autorità è stata individuata contestualmente alla comunicazione di avvio del procedimento stesso) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.01.2011 n. 133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
§ § § § § § § § § § § § § § § §
NOTA DI COMMENTO: la sentenza del Consiglio di Stato ha risolto, definitivamente, gli interrogativi che attanagliavano gli Enti Locali lombardi?? Si può procedere ad adottare e/o approvare il P.G.T. in tutta tranquillità??
I termini del caso di specie.
Il comune di Cermenate (CO) si è visto impugnare -tra l'altro- da parte di un cittadino:
- le deliberazioni consiliari di controdeduzioni alle osservazioni ed approvazione del nuovo Piano di Governo del Territorio (P.G.T.);
- la delibera di Giunta Comunale recante avvio del procedimento di valutazione ambientale strategica per la formazione del P.G.T..
Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con sentenza 15.05.2010 n. 1526 ha accolto il ricorso annullando, tra l'altro, le deliberazioni sopra menzionate.
Nel merito, il TAR [annullando altresì la deliberazione G.R. 27.12.2007 n. 6420, limitatamente all'art. 3.2. dell'Allegato 1 (modello generale), relativa alla procedura per la Valutazione Ambientale di Piani e Programmi (denominata anche Valutazione Ambientale Strategica o VAS] ha statuito quanto segue:
"In tema di VAS l'autorità procedente, nella scelta dell'autorità competente, deve individuare soggetti pubblici che offrano idonee garanzie non solo di competenza tecnica e di specializzazione in materia di tutela ambientale, ma altresì garanzie di imparzialità e di indipendenza rispetto all'autorità procedente, allo scopo di assolvere la funzione di valutazione ambientale nella maniera più obiettiva possibile, senza condizionamenti -anche indiretti- da parte dell'autorità procedente: infatti, qualora l'autorità procedente individuasse l'autorità competente esclusivamente fra soggetti collocati al proprio interno, il ruolo di verifica ambientale perderebbe ogni efficacia, risolvendosi in un semplice passaggio burocratico interno, con il rischio di vanificare la finalità della disciplina sulla VAS.".
La suddetta pronuncia è stata appellata dinanzi al Consiglio di Stato il quale con sentenza 12.01.2011 n. 133 ha riformato la stessa accogliendo gli appelli della Regione Lombardia e del Comune di Cermenate.
Nello specifico, il CdS ha statuito quanto segue:
-- "La Sezione osserva che il presupposto su cui si basano le conclusioni raggiunte dal primo giudice, secondo cui l’autorità competente alla V.A.S. deve essere necessariamente individuata in una pubblica amministrazione diversa da quella avente qualità di “autorità procedente”, non trova supporto nella vigente normativa comunitaria e nazionale.
Al riguardo, giova richiamare le definizioni oggi contenute nel citato d.lgs. nr. 152 del 2006, il cui art. 5, per quanto qui interessa, definisce:
- la “autorità competente” come “la pubblica amministrazione cui compete l’adozione del provvedimento di verifica di assoggettabilità, l’elaborazione del parere motivato, nel caso di valutazione di piani e programmi, e l’adozione dei provvedimenti conclusivi in materia di VIA, nel caso di progetti ovvero il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale, nel caso di impianti” (lettera p);
- la “autorità procedente” come “la pubblica amministrazione che elabora il piano, programma soggetto alle disposizioni del presente decreto, ovvero nel caso in cui il soggetto che predispone il piano, programma sia un diverso soggetto pubblico o privato, la pubblica amministrazione che recepisce, adotta o approva il piano, programma”.

Orbene, se dalle riferite definizioni risulta chiaro che entrambe le autorità de quibus sono sempre “amministrazioni” pubbliche, in nessuna definizione del Testo Unico ambientale si trova affermato in maniera esplicita che debba necessariamente trattarsi di amministrazioni diverse o separate (e che, pertanto, sia precluso individuare l’autorità competente in diverso organo o articolazione della stessa amministrazione procedente).";
-- "La Sezione non condivide l’approccio ermeneutico di fondo della parte odierna appellata, che desume la necessaria “separatezza” tra le due autorità dal fatto che la V.A.S. costituirebbe un momento di controllo sull’attività di pianificazione svolta dall’autorità competente, con il corollario dell’impossibilità di una identità o immedesimazione tra controllore e controllato.
Siffatta ricostruzione, invero, è smentita dall’intero impianto normativo in subiecta materia, il quale invece evidenzia –come già accennato– che le due autorità, seppur poste in rapporto dialettico in quanto chiamate a tutelare interessi diversi, operano “in collaborazione” tra di loro in vista del risultato finale della formazione di un piano o programma attento ai valori della sostenibilità e compatibilità ambientale: ciò si ricava, testualmente, dal già citato art. 11, d.lgs. nr. 152 del 2006, che secondo l’opinione preferibile costruisce la V.A.S. non già come un procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma come un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi nell’espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima.";

-- "Con riferimento all’individuazione delle autorità competenti in materia di valutazioni ambientali, e con richiamo all’assetto normativo sul riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni vigente all’epoca dell’adozione dei provvedimenti per cui è causa, vengono in rilievo:
- il comma 6 dell’art. 6 del d.lgs. nr. 152 del 2006, secondo cui l’autorità competente per la V.A.S. e la V.I.A. va individuata “secondo le disposizioni delle leggi regionali o delle province autonome”;
- il successivo comma 7 del medesimo articolo, che del pari demanda a leggi e regolamenti regionali la determinazione delle “competenze” degli altri enti locali, ivi compresi i Comuni.
Dal complesso di tali disposizioni, ad avviso della Sezione, se da un lato emerge l’intento del legislatore nazionale di lasciare alle Regioni una certa libertà di manovra quanto alla delegabilità delle competenze agli enti locali e alle modalità della loro regolamentazione, tuttavia appare evidente la volontà di assicurare che la fissazione delle “competenze” sia compiuta a priori, con atti che individuino in via generale e astratta i soggetti, uffici o organi cui viene attribuita la veste di “autorità competente”.
Ne discende che non risulta in linea con le richiamate disposizioni nazionali la scelta di individuare l’autorità competente alla V.A.S. ex post, in relazione al singolo e specifico procedimento di pianificazione, come avvenuto nel caso di specie (laddove –come già rilevato– la predetta autorità è stata individuata contestualmente alla comunicazione di avvio del procedimento stesso).".

Per quanto sopra esposto, si può dedurre che il Comune di Cermenate s'è visto "salvare" il proprio P.G.T. ancorché il Consiglio di Stato abbia rilevato che "non risulta in linea con le richiamate disposizioni nazionali la scelta di individuare l’autorità competente alla V.A.S. ex post, in relazione al singolo e specifico procedimento di pianificazione, come avvenuto nel caso di specie (laddove –come già rilevato– la predetta autorità è stata individuata contestualmente alla comunicazione di avvio del procedimento stesso).
Il tema, per vero, è incidentalmente evocato negli scritti difensivi della parte odierna appellata, ancorché attraverso la formula non del tutto perspicua della “abrogazione” implicita delle disposizioni regionali in subiecta materia che si sarebbe realizzata con l’entrata in vigore del d.lgs. nr. 152 del 2006; tuttavia, la già più volte rilevata carenza di ogni interesse a sollevare censure sul punto esonera da ogni approfondimento in proposito
.".
I termini della questione non dibattuti in sede giurisdizionale.
Risulta verosimile che la stragrande maggioranza dei comuni lombardi (in disparte quelli di grandi dimensioni laddove sono presenti i dirigenti) abbiano operato uniformemente nell'individuazione delle due figure in ambito di VAS del PGT ovverosia:
- l'autorità procedente è stata individuata nel Sindaco;
- l'autorità competente per la VAS è stata individuata nel responsabile dell'Ufficio Tecnico.
Al riguardo, giova qui ricordare cosa dispone in merito la normativa regionale la quale, da ultimo, risulta essere la deliberazione G.R. 10.11.2010 n. 761 (pressoché confermativa della precedente normativa, per quanto qui interessa) laddove nell'ALLEGATO 1 è stabilito quanto segue:
"
3.1-ter Autorità procedente
È la pubblica amministrazione che elabora il P/P ovvero, nel caso in cui il soggetto che predispone il P/P sia un diverso soggetto pubblico o privato, la pubblica amministrazione che recepisce, adotta o approva il piano/programma.
E’ la pubblica amministrazione cui compete l'elaborazione della dichiarazione di sintesi.
Tale autorità è individuata all’interno dell’ente tra coloro che hanno responsabilità nel procedimento di P/P.
3.2 Autorità competente per la VAS

È la pubblica amministrazione cui compete l'adozione del provvedimento di verifica di assoggettabilità e l'elaborazione del parere motivato.
L’autorità competente per la VAS è individuata all’interno dell’ente con atto formale dalla pubblica amministrazione che procede alla formazione del P/P, nel rispetto dei principi generali stabiliti dai d.lgs. 16.01.2008, n. 4 e 18.08.2000, n. 267.
Essa deve possedere i seguenti requisiti:
a) separazione rispetto all’autorità procedente;
b) adeguato grado di autonomia nel rispetto dei principi generali stabiliti dal d.lgs. 18.08.2000, n. 267, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 29, comma 4, legge n. 448/2001;
c) competenze in materia di tutela, protezione e valorizzazione ambientale e di sviluppo sostenibile.".

Ebbene, in merito alla individuazione delle due figure come sopra indicate, la Regione Lombardia -con nota 01.07.2010 n. 15812 di prot. in risposta ad un quesito comunale relativamente alla sentenza del TAR Milano de qua- ha inequivocabilmente rilevato che:
"
1. dall'analisi della documentazione pubblicata sul sito web del Comune e nella scheda del sito regionale SIVAS (www.cartografia.regione.lombardia.it/sivas), si riscontrano alcune irregolarità nell'individuazione delle Autorità in quanto l'individuazione del Sindaco quale autorità procedente non è in ogni caso corretta, essendo data tale possibilità solo ai Comuni con meno di 5.000 abitanti (come previsto dal comma 23 dell'art. 53 della legge 23.12.2000, n. 388 modificato dal comma 4 dell'art. 29 della legge 28.12.2001, n. 448, previa assunzione delle disposizioni regolamentari ed organizzative): dovrebbe invece essere individuata all'interno dell'ente tra coloro che hanno responsabilità nel procedimento di PGT (ad es. il Responsabile Unico del Procedimento);
2. inoltre, l'Autorità competente per la VAS deve possedere i requisiti richiamati nel punto 3.2 dell'allegato 1a (ndr: della DGR 30.12.2009 n. 10971) e il dirigente del Settore Urbanistica ed Edilizia Privata del Comune di ..., nominato Autorità competente per la VAS, sembra avere competenze in materia di pianificazione e urbanistica piuttosto che in materia di tutela, protezione e valorizzazione ambientale e di sviluppo sostenibile;
3. si suggerisce, pertanto, di individuare all'interno dell'Ente le due Autorità con nuova deliberazione di Giunta Comunale, ai sensi della DGR n. 10971 del 30.12.2009; tali Autorità dovranno accompagnare il loro primo pronunciamento con un'esplicita determinazione di convalida delle attività precedentemente svolte nell'ambito della procedura di VAS e potranno proseguire nella stessa. ...".
Non solo, da ultimo la Regione Lombardia ha altresì licenziato il decreto D.S. 14.12.2010 n. 13071 avente per oggetto «APPROVAZIONE DELLA CIRCOLARE "L'APPLICAZIONE DELLA VALUTAZIONE AMBIENTALE DI PIANI E PROGRAMMI - VAS NEL CONTESTO COMUNALE"» ove al punto 5. INDIVIDUAZIONE AUTORITA' PROCEDENTE/COMPETENTE PER LA VAS conferma sostanzialmente quanto già anticipato con la nota suddetta di risposta al quesito comunale.
Ciò premesso, è chiaro come il Consiglio di Stato non sia intervenuto su questa questione, poiché non sollevata in sede di ricorso giurisdizionale. Ora, nel caso di specie qualche comune ha provveduto a convalidare gli atti già assunti siccome proposto -al precedente punto 3.- da parte della Regione Lombardia ma molti altri, forse la maggioranza, nulla ad oggi hanno fatto al riguardo.
A questo punto è lecito porsi una DOMANDA: i comuni che, dopo la sentenza del CdS sopra citata, continuano imperterriti nell'iter burocratico di adozione e/o approvazione del P.G.T. senza aver correttamente (e legittimamente) individuato preliminarmente sia l'autorità procedente sia l'autorità competente per la VAS siccome disposto dalla dGR e confermato dalla nota regionale sopra menzionate possono dormire sonni tranquilli??
E' reale -o meno- il rischio che un cittadino qualsiasi, che si veda penalizzato sull'edificabilità dei propri terreni in sede di P.G.T. e -quindi- abbia un interesse reale e concreto a ricorrere, impugni lo stesso dinanzi al TAR eccependo -tra l'altro- l'illegittima individuazione delle due figure come sopra argomentato col risultato di ottenere l'annullamento dell'intero PGT per vizio procedurale??

13.01.2011 - LA SEGRETERIA PTPL

URBANISTICA: VAS - Autorità competente - Amministrazione diversa o separata dall’autorità procedente - Necessità - Esclusione - Art. 5 d.lgs. n. 152/2006 - Modifiche ex d.lgs. n. 128/2010 - Distinzione tra parere motivato a conclusione della fase di VAS e provvedimento di VIA.
L’autorità competente alla V.A.S. non deve essere necessariamente individuata in una pubblica amministrazione diversa da quella avente qualità di “autorità procedente”; se dalle definizioni di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 152/2006 risulta infatti chiaro che entrambe le autorità de quibus sono sempre “amministrazioni” pubbliche, in nessuna definizione del Testo Unico ambientale si trova affermato in maniera esplicita che debba necessariamente trattarsi di amministrazioni diverse o separate (e che, pertanto, sia precluso individuare l’autorità competente in diverso organo o articolazione della stessa amministrazione procedente).
Tale conclusione appare confortata dalle modifiche apportate al d.lgs. nr. 152 del 2006 dal recentissimo decreto legislativo 29.06.2010, nr. 128, laddove già a livello definitorio si distingue tra il “parere motivato” che conclude la fase di V.A.S. (art. 5, comma 1, lettera m-ter) e il “provvedimento” di V.I.A. (art. 5, comma 1, lettera p): a conferma che solo nel secondo caso, e non nel primo, si è in presenza di una sequenza procedimentale logicamente e ontologicamente autonoma.
VAS - Art. 11 d.lgs. n. 152/2006 - VAS - Natura - Passaggio endoprocedimentale della procedura di pianificazione.
L’art. 11, d.lgs. nr. 152 del 2006 costruisce la V.A.S. non già come un procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma come un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi nell’espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima (Consiglio di Stato,  Sez. IV, sentenza 12.01.2011 n. 133 - link a www.ambientediritto.it).

ANNO 2010
dicembre 2010

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della L.R. n. 12/2005: 5^ lezione (parte A) - Titoli abilitativi (Geometra Orobico n. 6/2010).

URBANISTICA: Novità per la pubblicazione dei PGT dall’01.01.2011.
Dall’01.01.2011 il Bollettino Ufficiale di Regione Lombardia (BURL) sarà disponibile esclusivamente in formato digitale, pertanto a partire da questa data si modificano le procedure per la pubblicazione del PGT sul BURL.
In particolare:
1- per poter pubblicare l’avviso di approvazione definitiva del PGT sul BURL il comune deve aver ottenuto preventivamente un nulla osta alla pubblicazione;
2- il nulla osta, volto al controllo della completezza e della correttezza della fornitura digitale del PGT, viene rilasciato dalla DG Territorio e Urbanistica o dalla Provincia competente, previo accordo con Regione Lombardia, entro 15 giorni dalla data di registrazione;
3- una volta ricevuto il nulla osta alla pubblicazione il Comune inoltra l’avviso da pubblicare utilizzando il sito web www.bollettino.regione.lombardia.it;
4- l’applicativo di gestione infine provvederà a dare comunicazione formale via e-mail con gli estremi di pubblicazione.
Regione Lombardia comunicherà attraverso il web quali sono le Province con le quali ha provveduto alla stipula dei suddetti accordi.
Il PGT deve essere inviato alla DG Territorio e Urbanistica o alla Provincia competente in formato digitale secondo le indicazioni e con le modalità descritte sulle pagine web della DG Territorio e urbanistica dedicate al PGT .
Al momento dell’invio dei PGT alle autorità competenti per il rilascio dei pareri di compatibilità con PTCP e PTR è consigliabile l’utilizzo dello stesso formato onde evitare richieste di integrazioni e conseguenti rallentamenti della procedura.
Per ogni informazione sulla presentazione dei PGT consultare la pagina www.pgt.regione.lombardia.it (Milano 24.12.2010 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

URBANISTICA: 1. Disciplina urbanistica del territorio - Obbligo di puntuale motivazione - Non sussiste.
1. Art. 11, c. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 - Perequazione compensativa - Può essere prevista unicamente con riferimento ad aree esterne ai piani attuativi.

1. Non sussiste la necessità di una puntuale motivazione delle scelte urbanistiche che l'amministrazione compie per la disciplina del territorio, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione del piano regolatore.
2. La perequazione compensativa di cui all'art. 11, c. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 può essere prevista unicamente con riferimento ad aree esterne ai piani attuative, mentre per quelle disciplinate da piani attuativi o atti di programmazione negoziata con valenza territoriale, il Comune può prevedere il meccanismo perequativo disciplinato al comma 1 del medesimo articolo.
Si tratta, comunque, di una facoltà, rimessa alla scelta discrezionale dell'amministrazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.12.2010 n. 7674 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie inserzioni e concorsi n. 51 del 22.12.2010, "D.G. Territorio e Urbanistica – Comunicato congiunto Direzione Generale Territorio e Urbanistica e Direzione Centrale Affari Istituzionali e Legislativo – Rettifica e integrazione del comunicato 26.05.2008, n. 107 «Modalità di pubblicazione dell’avviso di approvazione dei Piani di Governo del Territorio», pubblicato nel BURL n. 23 Serie Ordinaria del 03.06.2008" (comunicato regionale 20.12.2010 n. 141).

URBANISTICA: 1. Piano Integrato d'Intervento - Artt. 87 e 88 L.R. n. 12/2005 - Finalità - Discrezionalità - Legittimità.
2. P.I.I. - Approvazione oltre il termine - Art. 14 L.R. n. 12/2005 - Inefficacia degli atti - Interpretazione - Artt. 2 e 2-bis L. n. 241/1990 - Non sussiste.
3. P.I.I. - Parere di compatibilità con il P.T.C.P. - Incompetenza della Giunta Provinciale - Art. 42 d.lgs. n. 267/2000 - Valutazione tecnica - Non sussiste.

1. Nel caso in cui il P.I.I. impugnato persegua delle chiare finalità di riorganizzazione dell'ambito urbano al fine di una riqualificazione urbana ed ambientale di aree produttive dismesse od obsolete sussistono i presupposti normativi di cui agli artt. 87 e 88 L.R. n. 12/2005, e visto che la scelta di approvare un P.I.I. risulta essere, nel rispetto degli ampi margini di legge, rimessa alla discrezionalità dell'Amministrazione, in mancanza di manifesta illogicità ed irrazionalità dell'azione amministrativa si deve ritenere che lo stessa sia legittima.
2. L'art. 14 L.R. n. 12/2005, secondo cui il P.I.I. deve essere approvato entro il termine di sessanta giorni dalla scadenza del termine delle osservazioni a pena dell'inefficacia degli atti assunti, deve essere interpretato in maniera da armonizzarlo con la legislazione statale concorrente e vincolante (per il legislatore regionale) in materia di governo del territorio ed in particolare con gli artt. 2 e 2-bis L. n. 241/1990 norme vincolanti per il legislatore regionale e per le Amministrazioni che impongono la conclusione del procedimento con un provvedimento espresso nonostante la scadenza del termine di sessanta giorni previsto dalla legge regionale (risultando peraltro aberrante che oltre tale termine l'Amministrazione non abbia altra scelta se non quella di abbandonare il procedimento o di rinnovarlo ex novo), salva l'eventuale responsabilità dell'Amministrazione o del dirigente incaricato del procedimento per il ritardo.
Conseguentemente l'inefficacia degli atti deve essere ricondotta, tenuta anche in considerazione la ratio della norma, alle sole ipotesi in cui l'Amministrazione comunale rimanga totalmente e colpevolmente inattiva per sessanta giorni dalla scadenza del termine per presentare le osservazioni oppure qualora il piano sia approvato senza alcuna decisione sulle osservazioni medesime.
3. Il parere provinciale di compatibilità del P.C.T.P. con il P.G.T. comunale o i suoi piani attuativi, anche in variante, non costituisce una manifestazione della generale potestà di pianificazione riconosciuta nel Testo Unico degli Enti Locali all'organo consigliare, quanto piuttosto una valutazione di ordine tecnico, non riservata al Consiglio, risultando conseguentemente competente la Giunta Provinciale ad adottare il parere di compatibilità del P.I.I. con il P.T.C.P. impugnato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.12.2010 n. 7614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICAIl parere di compatibilità di cui all’art. 13 della legge regionale n. 12/2005 non costituisce un atto di pianificazione generale, riservato alla competenza dell’organo consiliare ai sensi del citato D.Lgs. 267/2000, ma una mera valutazione sul rapporto fra gli atti di pianificazione comunale (PGT) e provinciale (PTCP), di natura essenzialmente tecnica e non certo espressione della generale potestà di pianificazione territoriale, riconosciuta dalla legge soltanto al Consiglio.
In ordine al ricorso 2887/2007, occorre dapprima esaminare lo specifico motivo (vale a dire il n. 7, vedesi pag. 19 dell’atto introduttivo), rivolto contro il provvedimento provinciale di compatibilità della pianificazione comunale con il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP).
Secondo l’esponente, la delibera di Giunta sarebbe viziata da incompetenza, in quanto il parere di compatibilità con il PTCP del piano comunale sarebbe riservato al Consiglio Provinciale, quale organo competente ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. b), del D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli enti locali).
La censura è infondata, visto che il parere di compatibilità di cui all’art. 13 della legge regionale n. 12/2005 non costituisce un atto di pianificazione generale, riservato alla competenza dell’organo consiliare ai sensi del citato D.Lgs. 267/2000, ma una mera valutazione sul rapporto fra gli atti di pianificazione comunale (PGT) e provinciale (PTCP), di natura essenzialmente tecnica e non certo espressione della generale potestà di pianificazione territoriale, riconosciuta dalla legge soltanto al Consiglio.
Alla conclusione sopra indicata, è ormai giunta la giurisprudenza amministrativa ed in tale senso è orientata anche la scrivente Sezione (si vedano le sentenze del TAR Lombardia, sez. II, n. 4303/2009 e n. 1221/2010, costituenti precedenti specifici ai quali si rinvia).
In conclusione, lo specifico mezzo di gravame rivolto contro la deliberazione provinciale deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7512 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sul termine ordinatorio e non perentorio dei 90 gg. entro cui bisogna approvare il PGT a pena di inefficacia degli atti assunti.
Il comma 7 dell’art. 13 L.R. n. 12/2005 dispone che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di p.g.t. le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la Provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
Il Collegio ritiene di non potere accedere ad una interpretazione letterale della previsione di cui al comma 7.
Una soluzione che individui la ratio dell’art. 13 nell’esigenza di dettare una rigida tempistica procedimentale a fini acceleratori correlando alla mera violazione del termine previsto dal comma 7 l’inefficacia degli atti del p.g.t., non è percorribile, in quanto conduce ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.
Difatti, qualora si ritenesse che all’inutile scadenza del termine entro il quale il Consiglio Comunale deve decidere sulle osservazioni consegua la perdita di efficacia del provvedimento di adozione del p.g.t., invero, l’attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la ratio acceleratoria sottesa alla norma.
Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera procedura amministrativa. Proprio il palese contrasto con i principi costituzionali già richiamati esclude la condivisibilità dell’interpretazione ora esaminata.
Questa interpretazione della norma non può, dunque, essere accolta, in quanto in netto contrasto con i principi costituzionali.
Il Collegio ritiene tuttavia che sia, comunque, possibile accedere ad una lettura della legge regionale in senso conforme alla Costituzione.
La norma così dispone: “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”.
La previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo e ciò consente di riferire la sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.
Pertanto, l’inefficacia integra una sanzione dettata non a tutela di adempimenti formali, come il mero rispetto della tempistica procedimentale, ma di esigenze sostanziali, emergenti nell’ipotesi in cui il piano di governo del territorio sia approvato in assenza di una decisione sulle osservazioni o non recepisca le osservazioni accolte.
Ecco, allora, che l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati.
Questa lettura sostanzialistica può essere riferita anche alle altre ipotesi in cui la legge regionale prevede la sanzione dell’inefficacia degli atti assunti.
Così, seguendo questa linea interpretativa, la seconda parte del comma 7 –secondo cui il Consiglio Comunale “contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”– punisce non la mera inosservanza del termine previsto nella prima parte dell’articolo ma la violazione dell’obbligo di adeguare il documento di piano alle incompatibilità ravvisate dalla Provincia con il proprio p.t.c.p..
Ugualmente, il comma 4 -secondo cui “entro novanta giorni dall’adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a pena di inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”- sanziona non tanto il mancato rispetto del termine per il deposito quanto una violazione sostanziale, consistente nel non lasciare gli atti del p.g.t. a disposizione degli interessati, per un periodo di trenta giorni, al fine di presentare le osservazioni.
In conclusione, dunque, la violazione del termine di novanta giorni previsto dall’art. 13, c. 7, che si è verificata nel caso di specie, non comporta alcuna conseguenza, dovendo lo stesso ritenersi meramente ordinatorio.
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E' legittimo il pgt dimensionato sulla base di un previsione decennale anziché quinquennale.
Invero, la norma richiamata (art. 8, c. 4, l. Regione Lombardia n. 12/2005) -nel prevedere che “il documento di piano ha validità quinquennale ed è sempre modificabile”- si riferisce unicamente al documento di piano e non all’intero pgt e non impedisce quindi che quest’ultimo abbia un orizzonte temporale più ampio, fermo restando l’obbligo per il Comune di provvedere all’approvazione di un nuovo documento di piano allo scadere del quinquennio.

Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 13, c. 7, l. Regione Lombardia n. 12/2005: l’amministrazione non avrebbe rispettato, nella decisione sulle osservazioni, il termine, ivi previsto, -di novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni- che scadeva il 20.01.2007, in quanto, oltre alla delibera del 19.01.2007, sarebbero state assunte due ulteriori delibere, il 22 gennaio ed il 24 gennaio dello stesso anno. La ricorrente deduce, inoltre, l’incongruenza e lo sviamento di potere per avere la p.a. approvato in data 19.01.2007 quanto esaminato e determinato in data successiva.
Nonostante il Comune non abbia effettivamente rispettato il termine previsto dalla legge regionale, la censura non può trovare accoglimento.
L’art. 13, c. 7, l. Regione Lombardia n. 12/2005 dispone che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di p.g.t.. le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”.
Nel caso di specie, gli atti del p.g.t. sono stati depositati presso la segreteria comunale sino al 22.09.2006, mentre il 22.10.2006 scadeva il termine per la presentazione delle osservazioni.
Il 20.01.2007 era, quindi, il termine ultimo entro il quale l’amministrazione comunale avrebbe dovuto decidere sulle osservazioni presentate.
Il Consiglio Comunale ha, invece, ultimato la decisione sulle osservazioni il 24.01.2007, e, pertanto, oltre la scadenza del termine previsto dalla legge regionale.
Il Collegio non condivide quanto prospettato dall’amministrazione comunale, laddove sostiene che, siccome la seduta del 19 gennaio sarebbe proseguita, senza nuove convocazioni, il 22 ed il 24 gennaio, le controdeduzioni alle osservazioni ed il p.g.t. sarebbero stati approvati con un processo deliberativo unitario che porta legittimamente la data dell’unica convocazione, ossia, il 19.01.2007.
La delibera n. 3 del 19.01.2007 dà atto che il Consiglio, il 19 gennaio, ha esaminato le osservazioni dalla n. 1 al n. 48, si è poi aggiornato il 22 gennaio e, in tale data, ha esaminato le osservazioni dalla n. 49 alla n. 106.
Infine, nella seduta del 24 gennaio, il Consiglio ha esaminato le osservazioni dalla n. 107 alla n. 148.
La data del 19.01.2007, indicata sulla delibera, è, dunque, palesemente erronea: l’amministrazione avrebbe difatti dovuto datare tale atto 24.01.2007, poiché solo in tale giorno il procedimento decisionale ha avuto termine, non potendo, certamente, avere deliberato il 19.01.2007 ciò che invece è stato deciso il 24 gennaio.
Prima di esaminare quali conseguenze derivino da tale violazione, occorre delineare la disciplina del procedimento di formazione del piano di governo del territorio, dettata dall’art. 13 della l. Regione Lombardia n. 12/2005.
Il Consiglio Comunale adotta il piano di governo del territorio dopo aver pubblicato l’avviso di avvio del procedimento e dopo aver acquisito suggerimenti e proposte da parte degli interessati ed i pareri delle parti economiche e sociali.
Successivamente, il comma 4 prevede che “entro novanta giorni dall'adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a pena di inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”.
Contemporaneamente, gli atti del p.g.t. sono trasmessi alla Provincia, la quale valuta la compatibilità del documento di piano con il proprio piano territoriale di coordinamento -entro il termine di centoventi giorni dal ricevimento della relativa documentazione, decorsi inutilmente i quali la valutazione si intende espressa favorevolmente- ed il documento di piano è trasmesso anche all'a.s.l. e all'a.r.p.a., che, entro i termini per la presentazione delle osservazioni di cui al comma 4, possono formulare osservazioni, rispettivamente per gli aspetti di tutela igienico-sanitaria ed ambientale, sulla prevista utilizzazione del suolo e sulla localizzazione degli insediamenti produttivi.
Il comma 7 dell’art. 13 dispone, poi, che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di p.g.t. le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la Provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
Infine, gli atti del p.g.t., definitivamente approvati, sono depositati presso la segreteria comunale ed inviati per conoscenza alla Provincia ed alla Giunta regionale ed acquistano efficacia con la pubblicazione dell’avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura del Comune.
Il Collegio ritiene di non potere accedere ad una interpretazione letterale della previsione di cui al comma 7.
Una soluzione che individui la ratio dell’art. 13 nell’esigenza di dettare una rigida tempistica procedimentale a fini acceleratori correlando alla mera violazione del termine previsto dal comma 7 l’inefficacia degli atti del p.g.t., non è percorribile, in quanto conduce ad esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, posto dall’art. 97 Cost.
Difatti, qualora si ritenesse che all’inutile scadenza del termine entro il quale il Consiglio Comunale deve decidere sulle osservazioni consegua la perdita di efficacia del provvedimento di adozione del p.g.t., invero, l’attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l’amministrazione di rinnovare l’intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la ratio acceleratoria sottesa alla norma.
Insomma, l’esigenza di celerità sarebbe, invero, del tutto vanificata ove il termine previsto dall’art. 13, c. 7, della legge regionale n. 12/2005 fosse sanzionato con la perdita di efficacia dell’atto di adozione del piano di governo del territorio, in quanto l’amministrazione dovrebbe reiterare l’intera procedura amministrativa. Proprio il palese contrasto con i principi costituzionali già richiamati esclude la condivisibilità dell’interpretazione ora esaminata.
Questa interpretazione della norma non può, dunque, essere accolta, in quanto in netto contrasto con i principi costituzionali.
Il Collegio ritiene tuttavia che sia, comunque, possibile accedere ad una lettura della legge regionale in senso conforme alla Costituzione.
La norma così dispone: “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”.
La previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo e ciò consente di riferire la sanzione della inefficacia alla inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della norma, ma di quanto stabilito nella seconda parte della disposizione, ossia alla violazione dell’obbligo di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del p.g.t. le conseguenti modificazioni.
Pertanto, l’inefficacia integra una sanzione dettata non a tutela di adempimenti formali, come il mero rispetto della tempistica procedimentale, ma di esigenze sostanziali, emergenti nell’ipotesi in cui il piano di governo del territorio sia approvato in assenza di una decisione sulle osservazioni o non recepisca le osservazioni accolte.
Ecco, allora, che l’inefficacia degli atti assunti si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati.
Questa lettura sostanzialistica può essere riferita anche alle altre ipotesi in cui la legge regionale prevede la sanzione dell’inefficacia degli atti assunti.
Così, seguendo questa linea interpretativa, la seconda parte del comma 7 –secondo cui il Consiglio Comunale “contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”– punisce non la mera inosservanza del termine previsto nella prima parte dell’articolo ma la violazione dell’obbligo di adeguare il documento di piano alle incompatibilità ravvisate dalla Provincia con il proprio p.t.c.p.
Ugualmente, il comma 4 -secondo cui “entro novanta giorni dall’adozione, gli atti di p.g.t. sono depositati, a pena di inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni”- sanziona non tanto il mancato rispetto del termine per il deposito quanto una violazione sostanziale, consistente nel non lasciare gli atti del p.g.t. a disposizione degli interessati, per un periodo di trenta giorni, al fine di presentare le osservazioni.
In conclusione, dunque, la violazione del termine di novanta giorni previsto dall’art. 13, c. 7, che si è verificata nel caso di specie, non comporta alcuna conseguenza, dovendo lo stesso ritenersi meramente ordinatorio.
Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 8, c. 4, l. Regione Lombardia n. 12/2005 in quanto il p.g.t. sarebbe stato dimensionato sulla base di un previsione decennale anziché quinquennale, in contrasto anche con quanto segnalato dall’a.r.p.a. nel parere del 23.10.2006.
La censura è infondata atteso che la norma richiamata -nel prevedere che “il documento di piano ha validità quinquennale ed è sempre modificabile”- si riferisce unicamente al documento di piano e non all’intero p.g.t. e non impedisce quindi che quest’ultimo abbia un orizzonte temporale più ampio, fermo restando l’obbligo per il Comune di provvedere all’approvazione di un nuovo documento di piano allo scadere del quinquennio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. PGT - Osservazioni dei privati - Termine ultimo per la decisione del Comune sulle osservazioni - Art. 13, comma 7, L.R. 12/2005 - Interpretazione letterale - Inammissibilità.
2. PGT - Osservazioni dei privati - Termine ultimo per la decisione del Comune sulle osservazioni - Art. 13, comma 7, L.R. 12/2005 - Inefficacia degli atti assunti fuori termine - Presupposti - Solo in caso di adozione atti non preceduta dalla decisione sulle osservazioni presentate dagli interessati.
3. PGT - Osservazioni dei privati - Termine ultimo per la decisione del Comune sulle osservazioni - Art. 13, comma 7, L.R. 12/2005 - Natura ordinatoria.
4. Scelte della P.A. in sede di PRG e sue varianti generali - Ampia discrezionalità - Sindacato del giudice amministrativo - Solo nei limiti di errori di fatto o di abnormi illogicità.
5. PGT - Destinazione a zona agricola - Utilizzo per coltivazione - Non necessita - Finalità di tutela ambientale - Legittimità.

1. Non è ammissibile un'interpretazione letterale della previsione di cui all'art. 13, comma 7, L.R. 12/2005, poiché individuando la ratio dell'art. 13 nell'esigenza di dettare una rigida tempistica procedimentale a fini acceleratori, correlando alla mera violazione del termine previsto dal comma 7 l'inefficacia degli atti del p.g.t., si otterrebbero esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell'azione amministrativa, posto dall'art. 97 Cost.; in particolare, qualora si ritenesse che all'inutile scadenza del termine entro il quale il Consiglio Comunale deve decidere sulle osservazioni consegua la perdita di efficacia del provvedimento di adozione del p.g.t., allora l'attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l'amministrazione di rinnovare l'intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la stessa ratio acceleratoria sottesa alla norma.
2. L'inefficacia prevista ex art. 13, comma 7, L.R. 12/2005 integra una sanzione dettata non a tutela di adempimenti formali, come il mero rispetto della tempistica procedimentale, bensì di esigenze sostanziali, emergenti nell'ipotesi in cui il piano di governo del territorio sia approvato in assenza di una decisione sulle osservazioni o non recepisca le osservazioni accolte, con la conseguenza che l'inefficacia degli atti assunti dal Comune si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati.
3. In materia di PGT, la mera violazione del termine di novanta giorni previsto dall'art. 13, comma 7, L.R. 12/2005, in caso di adozione di atti di pianificazione del territorio preceduta dalla decisione del Comune sulle osservazioni presentate dagli interessati, non comporta conseguenza alcuna, dovendo detto termine ritenersi meramente ordinatorio.
4. Le scelte effettuate dalla P.A. in sede di adozione-approvazione degli atti di pianificazione del territorio costituiscono apprezzamento di merito o, comunque, espressione di ampia potestà discrezionale, sottratto al sindacato di legittimità salvo che tali scelte non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2571/2007; TAR Milano, sent. n. 1093/2010, n. 1277/2006).
5. La destinazione di un'area a zona agricola a ragione può essere disposta a salvaguardia del paesaggio o dell'ambiente e non presuppone necessariamente che l'area stessa venga utilizzata ad uso agricolo (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 5478/2008; TAR Trento, sent. n. 41/2010; TAR Pescara, sent. n. 33/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Circolare Valutazione Ambientale Strategica - VAS nel contesto comunale.
In data 10.11.2010 la Giunta regionale con atto n. 9/761, ha approvato la “Determinazione della procedura di Valutazione ambientale di piani e programmi – VAS (art. 4, l.r. n. 12/2005; d.c.r. n. 351/2007) – Recepimento delle disposizioni di cui al d.lgs. 29.06.2010, n. 128, con modifica ed integrazione delle dd.g.r. 27.12.2008, n. 8/6420 e 30.12.2009, n. 8/10971“, pubblicata sul BURL n. 47, 2° SS del 25.11.2010.
Al fine di assicurare il necessario supporto operativo ai Comuni impegnati nella predisposizione dei PGT è stata predisposta ed approvata con decreto D.S. 14.12.2010 n. 13071 la circolare “L’applicazione della Valutazione ambientale di piani e programmi – VAS nel contesto comunale, che fornisce risposte concrete ai quesiti formulati agli uffici comunali.
Sul sito web regionale alla sezione VAS e sul sito sivas alla sezione normativa regionale, oltre alla circolare sopra citata è altresì disponibile il testo coordinato della deliberazione sulla Valutazione ambientale – VAS, comprendente tutti gli allegati e modelli approvati (comunicato 10.12.2010 - link a www.regione.lombardia.it).

novembre 2010

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 29.11.2010, "D.d.g. 15.11.2010 n. 11517 – Approvazione delle «Disposizioni tecniche per il monitoraggio del Fondo Aree Verdi di cui al punto 4 dell’allegato 1 alla d.g.r. 8757/2008 e note esplicative delle Linee guida approvate con dd.g.r. 8757/2008 e 11297/2010» – Pubblicato nel BURL n. 47 Se.O. del 22.11.2010" (Errata corrige n. 48/01-Se.O. 2010 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 47 del 25.11.2010, "Determinazione della procedura di Valutazione ambientale di piani e programmi – VAS (art. 4, l.r. n. 12/2005; d.c.r. n. 351/2007) – Recepimento delle disposizioni di cui al d.lgs. 29.06.2010, n. 128, con modifica ed integrazione delle dd.g.r. 27.12.2008, n. 6420 e 30.12.2009, n. 10971" (deliberazione G.R. 10.11.2010 n. 761 - link a www.infopoint.it).
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N.B.: per caso, la Regione Lombardia rivisita la disciplina della VAS prima che si pronunzi il Consiglio di Stato, il prossimo 07.12.2010, in merito alla sentenza TAR Lombardia-Milano che ha bocciato il PGT del Comune di Cermenate??

EDILIZIA PRIVATA: 1. Zona agricola - Possibilità per Comune e Provincia di dettare disciplina differenziata - Sussiste.
2. Zona agricola - Indici edificatori - Possibilità di fissazione di limiti inferiori - Sussiste.

1. In materia di edificazione nelle zone agricole, la vigente L.R. 12/2005 sul governo del territorio consente al Comune di dettare una disciplina differenziata per le zone agricole, dal momento che essa demanda agli strumenti urbanistici comunali ed in particolare al piano delle regole, la definizione, per le aree destinate all'agricoltura, della relativa disciplina "d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia" (cfr. TAR Brescia, sent. n. 1/2009); analogo potere conformativo sulle aree agricole è attribuito alla Provincia, attraverso il piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP), dall'art. 15, comma 4, della L.R. 12/2005.
2. In ordine agli indici edificatori, ex art. 59, comma 3, L.R. 12/2005, è previsto soltanto un limite massimo di densità fondiaria, con conseguente possibilità di fissazione di limiti inferiori, nell'ambito della potestà di pianificazione urbanistica (cfr. TAR Brescia, sent. n. 1/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2010 n. 7305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2010, "Approvazione delle «Disposizioni tecniche per il monitoraggio del Fondo Aree Verdi di cui al punto 4 dell’allegato 1 alla d.g.r. 8757/2008 e note esplicative delle Linee guida approvate con d.g.r. 8757/2008 e 11297/2010»" (decreto D.G. 15.11.2010 n. 11514 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Modalità per il monitoraggio del Fondo Aree Verdi ex L.R. 12/2005.
Sono state approvate con decreto del Direttore Generale n. 11517 del 15.11.2010 (vedi allegato) le disposizioni tecniche per il monitoraggio del Fondo Aree Verdi.
Il decreto verrà pubblicato sul Burl Serie Ordinaria n. 47 del 22.11.2010.
Con questo atto vengono fornite le modalità e le specifiche tecniche secondo cui ciascuna Amministrazione comunale trasmetterà le informazioni necessarie per il monitoraggio di cui al paragrafo 4 della D.G.R. 2008/8757. Vengono inoltre comunicate indicazioni utili per l’operatività dei disposti normativi di cui all’art. 43, commi 2-bis, 2-bis1 e 2-bis2, della Legge regionale n. 12/2005 e dei successivi provvedimenti attuativi (D.G.R. 8757/2008 e D.G.R. 11297/2010).
Il monitoraggio del Fondo verrà effettuato attraverso un sistema informativo (front office) attivato entro il 10.01.2011.
Nelle more dell’avvio del sistema di monitoraggio informatico tutti i Comuni trasmettono a Regione Lombardia, Direzione Generale Sistemi Verdi e Paesaggio, le informazioni necessarie al monitoraggio secondo le modalità contenute al paragrafo 6. Versamenti e modalità di monitoraggio nelle more dell’esercizio del front office dell’Allegato A al d.D.G n. 11517 del 15.11.2010.
Le informazioni richieste riguardano ciascun titolo abilitativo che da luogo alle maggiorazioni previste dalla norma e ciascun progetto di intervento forestale di rilevanza ecologica e di incremento della naturalità attuato attraverso l’utilizzo delle suddette maggiorazioni.
In allegato puoi scaricare i seguenti file:
- Decreto del Direttore Generale 15.11.2010 n. 11517/2010;
- TABELLA MONITOR TITOLI ABILITATIVI;
- TABELLA MONITOR PROGETTI.
Per informazioni:
Struttura Sistemi Verdi Integrati
Agostino Marino, tel. 02.6765.8027
Aurelio Camolese, tel. 02.6765.5089
Franceso Monzani, tel. 02.6765.8000 (link a www.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di Costruire - D.I.A. in variante - Art. 41 L.R. n. 12/2005 - Interpretazione.
L'art. 41 L.R. n. 12/2005 deve essere interpretata nel senso che la facoltà di presentare D.I.A. senza interruzione dei lavori per le varianti minori non esclude comunque, nel rispetto del principio generale sull'alternatività tra D.I.A. e permesso di costruire di cui all'art. 41, c. 1, L.R. n. 12/2005, la facoltà per il titolare di permesso di costruire di presentare D.I.A. anche per varianti sostanziali, con la precisazione però che, non trattandosi dell'ipotesi di cui al comma 2 dello stesso articolo, per tali D.I.A. non è possibile la presentazione dopo l'ultimazione dei lavori, ma prima degli stessi, secondo il regime per così dire ordinario della denuncia di inizio attività (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.11.2010 n. 7236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2010

EDILIZIA PRIVATA: 1. Art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005 - Mutamenti di destinazione d'uso - Attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico - Necessità di verificare le dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni - Sussiste - Associazione culturale con fine religioso - Applicabilità dell'art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005 - Non sussiste, se il fine religioso è accessorio e marginale nel contesto degli scopi statutari.
2. Art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005 - Mutamenti di destinazione d'uso - Rilevanza ai fini urbanistici dell'uso di fatto dell'immobile - Non sussiste.

1. L'art. 52, comma 3-bis, L.R. n. 12/2005, per la sua collocazione e la sua ratio, è palesemente volto al controllo di mutamenti di destinazione d'uso suscettibili, per l'afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come destinazione principale o esclusiva l'esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni.
La norma non pare quindi applicabile nel caso in cui l'immobile venga utilizzato da un'associazione culturale in cui il fine religioso rivesta carattere di accessorietà e di marginalità nel contesto degli scopi statutari.
2. Non rileva di norma ai fini urbanistici l'uso di fatto dell'immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è libero di esplicare (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.10.2010 n. 7050 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione d'uso - Mancanza di conformità urbanistica.
E' respinto il ricorso per l'accertamento del silenzio formatosi sull'istanza con la quale è stata chiesta l'approvazione del cambio di destinazione d'uso di alcune unità immobiliari.
Sulla base dei chiarimenti forniti dal comune su una questione simile si ritiene che la mancanza di conformità urbanistica non può essere superata semplicemente richiamando la liberalizzazione dei cambi di destinazione d'uso prevista in via generale dall'art. 51, comma 1, della l.r. n. 12/2005 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 22.10.2010 n. 4109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 dell'11.10.2010, "Approvazione dell'aggiornamento dell'elenco, e pubblicazione dell'elenco completo, degli enti locali idonei all'esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite dall'art. 80 della l.r. 11.03.2005, n. 12" (decreto D.G. 24.09.2010 n. 9051 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: Istituzione delle commissioni regionali per i beni paesaggistici in attuazione del comma 1 dell'art. 78 della L.R. 11.03.2005, n. 12 "Legge per il Governo del Territorio" (deliberazione G.R. 06.10.2010 n. 572).

settembre 2010

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di opere manutentive, per allestire un "centro per la pace", occasionalmente utilizzato per le preghiere islamiche, non realizza un luogo di culto, soggetto ai rigidi dettami della normativa regionale lombarda.
Con il provvedimento impugnato, il Comune di Macherio ha ordinato la demolizione di opere realizzate senza titolo edilizio -consistenti principalmente nella realizzazione di impianti elettrici, igienico sanitari, disimpegni, tramezzature in cartongesso, controsofittature, pavimentazione, nel rivestimento di pilastri con pannelli in cartongesso e nella posa di altoparlanti– in quanto finalizzate alla realizzazione di un edificio completamente diverso dal preesistente e destinato a luogo di culto e per attività religiose, in contrasto con gli artt. 71 e 72 della l. Regione Lombardia n. 12/2005.
Ai sensi di quest’ultima disposizione “fino all’approvazione del piano dei servizi, la realizzazione di nuove attrezzature per i servizi religiosi è ammessa unicamente su aree classificate a standard nei vigenti strumenti urbanistici generali e specificamente destinate ad attrezzature per interesse comune”; la legge regionale definisce “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”:
a) gli immobili destinati al culto anche se articolati in più edifici compresa l’area destinata a sagrato;
b) gli immobili destinati all’abitazione dei ministri del culto, del personale di servizio, nonché quelli destinati ad attività di formazione religiosa;
c) nell’esercizio del ministero pastorale, gli immobili adibiti ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e similari che non abbiano fini di lucro
”.
Di per sé le opere realizzate non rivelano, in alcun modo, una destinazione del fabbricato ad “attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”, ai sensi dell’art. 71, l. Regione Lombardia n. 12/2005. Il fabbricato non può, difatti, essere qualificato, per effetto di tali interventi, quale immobile destinato al culto, all’abitazione dei ministri del culto o del personale di servizio, ovvero ad attività di formazione religiosa.
La fattispecie non rientra neppure nell’ipotesi di cui all’art. 71, c. 1, lett. c, della l. Regione Lombardia n. 12/2005: in essa sono, difatti, ricompresi “gli immobili adibiti ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e similari che non abbiano fini di lucro” unicamente se tali attività vengano svolte “nell’esercizio del ministero pastorale”. Il rifacimento di coperture di pavimentazione, il ripristino di intonaci, la sistemazione di pilastri in cartongesso, l’imbiancatura dei locali, la realizzazione di impianti igienico–sanitari ed elettrici non palesano, di per sé, in alcun modo, la realizzazione di un luogo di culto né l’esercizio nell’immobile un’attività connessa al ministero pastorale, attività che, oltretutto, non rientra tra quelle indicate nello statuto dell’associazione “Centro Culturale Pace”.
La stessa difesa dell’amministrazione comunale ammette che l’immobile non è una moschea ma “un luogo di riunione ed assistenza riservato alla comunità religiosa islamica”: il fatto che i servizi prestati dall’associazione siano rivolti ad una comunità appartenente ad una determinata confessione religiosa, ma dichiaratamente erogati al solo scopo di promuoverne l’integrazione e l’inserimento nella società, non rivela affatto una destinazione dei locali in cui essa ha la propria sede a luogo di culto o comunque ad attività connesse all’esercizio del ministero pastorale, come richiede l’art. 71 della l. Regione Lombardia n. 12/2005.
Parimenti, la circostanza che vi possa essere stato, in passato, un uso di fatto dell’immobile anche quale luogo di culto e di preghiera, non è, di per sé, indicativa di una modificazione della funzione originaria dell’immobile.
La modifica della destinazione d'uso -nel caso di specie ad “attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”- deve, invero, trovare una corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere realizzate e non può essere inferita dall’uso di fatto che possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. Tar Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.09.2010 n. 6416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d'uso - Creazione di luoghi di culto o centri sociali - Presupposti - Usi di fatto - Irrilevanza - Fattispecie.
La volontà di attuare una particolare destinazione d'uso -nel caso di specie ad "attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi"- deve trovare una corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere realizzate e non può essere inferita dall'uso di fatto che possa, in precedenza, essere stato posto in essere, tanto più quando l'istanza di sanatoria non faccia riferimento alcuno ad una destinazione di tipo religioso (cfr. TAR, Milano, sent. n. 4665/2009) -nel caso di specie il TAR ha annullato il diniego di rigetto di sanatoria del Comune ritenendo che le opere oggetto della domanda consistessero, principalmente, nel rifacimento della pavimentazione, nel ripristino degli intonaci, nel rivestimento dei pilastri con cartongesso, nella imbiancatura dei locali, nella realizzazione di impianti igienico-sanitari ed elettrici e non rivelassero, in alcun modo, la volontà dell'associazione ricorrente di attuare una destinazione del fabbricato ad "attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi", ai sensi dell'art. 71, l. Regione Lombardia n. 12/2005 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenze 23.09.2010 nn. 6415 e 6416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di pertinenza - Regione Lombardia - Art. 27, c. 1, lett. e-6 L.r. 12/2005 - Volume della pertinenza - Limite del 20% rispetto all’edificio principale - Mediazione degli strumenti urbanistici comunali.
Sul piano urbanistico le pertinenze sono una categoria di interventi individuata non attraverso la nozione civilistica di cui all’art. 817 c.c. ma in ragione della modesta rilevanza economica e del limitato peso per il territorio (v. CS Sez. IV 13.01.2010 n. 41; TAR Brescia Sez. I 13.10.2008 n. 1259).
Nella Regione Lombardia, l’art. 27, comma 1, lett. e-6, della LR 12/2005 esclude che si possa definire pertinenza una costruzione il cui volume sia superiore al 20% del volume dell'edificio principale. Al di sotto di questa soglia le costruzioni collegate ad altri edifici non sono comunque automaticamente qualificabili come pertinenze.
La predetta norma regionale (come la corrispondente norma statale) richiede infatti che la qualificazione delle pertinenze sia mediata dagli strumenti urbanistici comunali e dai regolamenti edilizi.
Dunque la deroga alle regole stabilite per le nuove costruzioni è ammissibile solo quando la disciplina comunale contenga un criterio idoneo a differenziare le pertinenze dal resto dell’attività edificatoria (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 22.09.2010 n. 3555 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICALombardia, sulla localizzazione dei luoghi di culto di diversa confessione religiosa e sul cambio della destinazione d'uso, anche senza opere, per ricavare un luogo di culto.
In sede di elaborazione degli strumenti urbanistici i comuni, qualora ricevano richieste di localizzazione di luoghi di culto, possono legittimamente porsi soltanto il problema dell’effettiva esigenza di queste infrastrutture in relazione al numero di soggetti interessati (anche su scala sovracomunale se per le ridotte distanze o per altri motivi risulti verosimile che il bacino potenziale è più ampio del territorio comunale: v. art. 72, comma 3, della LR 12/2005).
Una volta accertata l’esigenza di un luogo di culto la localizzazione deve essere necessariamente conforme alla proposta presentata, qualora i promotori del progetto abbiano la disponibilità degli immobili, in quanto una diversa soluzione, coinvolgendo diritti di terzi, equivarrebbe di fatto a un diniego arbitrario.
Un diniego legittimo deve basarsi invece sull’inidoneità del sito proposto, secondo le normali valutazioni urbanistiche. In questa fase la convenzione con i promotori del progetto non è necessaria, almeno in via generale, in quanto riguarda, come si è visto sopra al punto 14, le concrete modalità di realizzazione o sistemazione dell’edificio.
Niente impedisce naturalmente che già nel corso della stesura degli strumenti urbanistici si raggiungano intese per rimuovere eventuali ostacoli o per creare le condizioni per l’inserimento del luogo di culto nella programmazione urbanistica.
E' necessario esaminare le censure che si riferiscono specificamente al cambio di destinazione d’uso finalizzato alla realizzazione di un luogo di culto.
Si tratta delle censure contenute nel sesto e nel settimo motivo di ricorso, che richiedono una valutazione congiunta. Gli argomenti proposti non sono condivisibili per le ragioni esposte qui di seguito:
(a) innanzitutto non sono ravvisabili profili di illegittimità costituzionale nell’art. 52, comma 3-bis, della LR 12/2005, che impone l’obbligo del permesso di costruire solo per i cambi di destinazione d’uso relativi ad alcuni edifici particolari (luoghi di culto, centri sociali).
La norma vuole evitare che attraverso la liberalizzazione dei cambi di destinazione d’uso stabilita dall’art. 51 della LR 12/2005 siano realizzate innovazioni di grande impatto sul tessuto urbano senza un preventivo esame da parte dell’amministrazione.
L’obiettivo è ragionevole, e non appare discriminatorio proprio per l’indubbia rilevanza sociale di questo tipo di edifici, che rende preferibile il controllo preventivo all’eventuale remissione in pristino;
(b) è corretto quanto afferma la ricorrente circa la prevalenza delle qualificazioni del DPR 380/2001 (disciplina nazionale omogenea con riflessi penali) quando si tratta di applicare le misure repressive degli abusi edilizi.
Il fatto che l’art. 52 comma 3-bis della LR 12/2005 richieda il permesso di costruire anche per i cambi di destinazione d’uso senza opere non consente di equiparare l’abuso della ricorrente a quelli disciplinati dagli art. 31 e 33 del DPR 380/2001 (nuova costruzione, variazioni essenziali, ristrutturazione pesante).
A proposito della ristrutturazione pesante si osserva che in base all’art. 10, comma 1, lett. c), del DPR 380/2001 può essere considerato tale solo il cambio di destinazione d’uso negli immobili compresi nelle zone omogenee A;
(c) la repressione del cambio di destinazione d’uso operato dalla ricorrente non deve quindi partire dal dato formale (necessità del permesso di costruire) ma da quello sostanziale (si tratta di un intervento senza opere);
(d) anche con questa precisazione non è però possibile arrivare alla sanatoria disciplinata dall’art. 53, comma 2, della LR 12/2005. Questa norma stabilisce che il cambio di destinazione d'uso senza opere si può sanare con il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria anche quando risulti in contrasto con le previsioni urbanistiche comunali.
Il confronto con l’art. 52, comma 2, della LR 12/2005 chiarisce tuttavia che la sanatoria non è possibile quando manchi la conformità alla normativa igienico-sanitaria, il che è in effetti ragionevole se si considera il livello sovraordinato degli interessi pubblici collegati a quest’ultima (in particolare l’interesse alla salute e alla sicurezza collettiva);
(e) nel caso dei luoghi di culto, come si è visto sopra al punto 14, le questioni igienico-sanitarie sono una parte rilevante del contenuto della convenzione prevista dall’art. 70, comma 2, della LR 12/2005.
Un cambio di destinazione d’uso senza opere relativo a un luogo di culto non è quindi sanabile con il meccanismo ordinario dell’art. 53, comma 2, della LR 12/2005 proprio perché, mancando la convenzione, manca la regolamentazione che è considerata indispensabile per l’introduzione di un uso non solo diverso da quello precedente ma del tutto particolare e in grado di incidere in modo significativo sul contesto sociale;
(f) la convenzione potrebbe essere stipulata anche a posteriori con effetto sanante, ma appare comunque legittima la decisione del Comune di bloccare immediatamente gli effetti del cambio di destinazione d’uso per il tempo necessario a valutare la situazione e in attesa della presentazione di una richiesta di permesso di costruire da parte della ricorrente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.09.2010 n. 3522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, declaratoria dell'intervento di manutenzione straordinaria alla luce del d.l. n. 40/2010 convertito con legge n. 73/2010.
Un Comune lombardo ha posto alla regione Lombardia il quesito di seguito riportato.
DOMANDA: A seguito dell'entrata in vigore della legge 73/2010 (di conversione del d.l. n. 40/2010) ed in relazione al comunicato regionale 03.06.2010 (a firma dell'Assessore BELOTTI e del Direttore Generale MORI), ad oggi la declaratoria dell'intervento di manutenzione straordinaria cui attenersi, nell'istruttoria delle pratiche edilizie, è sempre quella di cui all'art. 27, comma 1, lett. b) oppure quella di cui all'art. 3, comma 1, lett. b) del DPR n. 380/2001?
RISPOSTA e-mail del 13.09.2010: Con riferimento alla Sua mail in data 14.07.2010, si precisa che, anche a seguito della legge n. 73/2010, di conversione del D.L. n. 40, la definizione degli interventi di manutenzione straordinaria rimane quella esplicitata all'art. 27, comma 1, lett. b), della L.R. n. 12/2005.
Come noto, quest'ultima disposizione non é meramente riproduttiva di quella contenuta nel T.U. statale, ovvero nell'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, norma quest'ultima espressamente dichiarata disapplicata dall'art. 103, comma 1, della L.R. n. 12/2005.
Peraltro, ai fini della corretta individuazione del regime giuridico degli interventi, occorre tener conto della sopraggiunta disposizione statale in materia di attività edilizia libera (art. 6 del D.P.R. n. 380, "riscritto" dal comma 1 dell'art. 5 del D.L. 25.03.2010, n. 40, come sostituito dalla relativa legge di conversione n. 73/2010), immediatamente operante anche in Regione Lombardia, come chiarito dal comunicato regionale in data 03.06.2010.
In altri termini, per beneficiare del regime semplificato (comunicazione con relazione tecnica e asseverazione), l'intervento di manutenzione straordinaria, fermi gli altri presupposti, dovrà rispettare i limiti previsti al comma 2, lett. a) del "nuovo" art. 6 sopra richiamato; più precisamente, non dovrà riguardare le parti strutturali dell'edificio, né comportare aumento del numero delle unità immobiliari né implicare incremento dei parametri urbanistici.
Un cordiale saluto.
Arch. Gian Angelo Bravo - Direttore Vicario Direzione Generale Territorio e Urbanistica - U.O. Programmazione e Pianificazione Territoriale.

EDILIZIA PRIVATA: 1. Attività di sbancamento - Attività edificatoria - Non sussiste.
2. Interventi edilizi - Definizione - Art. 3, d.P.R. n. 380/2001 - Derogabilità da parte del legislatore regionale - Non sussiste.
3. Ristrutturazione edilizia - Demolizione e ricostruzione - Limite della sagoma - Combinato disposto degli artt. 27, c. 1, lett. d), e 103, L.R. Lombardia n. 12/2005 e dell'art. 22, L.R. Lombardia n. 7/2010 - Contrasto con il principio fondamentale dell'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 - Sussiste - Violazione dell'art. 117, c. 3, della Costituzione - Sussiste - Rimette la questione alla Corte Costituzionale.

1. La realizzazione di mere operazioni di sbancamento non è sufficiente a configurare l'inizio di una vera e propria attività edificatoria.
2. L'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, recante la definizione degli interventi edilizi, costituisce un principio fondamentale della legislazione statale, non derogabile dal legislatore regionale.
3. Il combinato disposto degli artt. 27, c. 1, lett. d), ultimo periodo, della l.reg. Lombardia n. 12/2005, come interpretato dalla l. reg. n. 7/2010 -nella parte in cui esclude l'applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione- e 103 della l.reg. Lombardia n. 12/2005 -nella parte in cui prevede che, a seguito dell'entrata in vigore della legge 12/2005, cessi di avere diretta applicazione nella Regione la disciplina di dettaglio prevista, tra gli altri, dall'art. 3, d.P.R. n. 380/2001- si pone in aperto contrasto con il principio fondamentale della legislazione statale dettato dall'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 in materia di governo del territorio e viola, dunque, l'art. 117, c. 3, della Costituzione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.09.2010 n. 5122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia: e alla fine il TAR ha rimesso alla Corte Costituzionale il rito lombardo.
Come noto, in Regione Lombardia la ricostruzione dell’edificio per effetto della sua ristrutturazione é da intendersi senza vincolo di sagoma. In tal senso dispongono sia l'art. 27, c. 1, lett. d) e 103 l.reg. Lombardia n. 12/2005 (che non prevede la sagoma tra i parametri da rispettare) sia dell’art. 22, l.reg. Lombardia n. 7 del 05.02.2010 (che interpretando l'articolo 27 dichiara espressamente che il rispetto della sagoma non é necessario).
Con sentenza n. 5122 del 2010 la sezione seconda del TAR Lombardia, Milano, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 27, c. 1, lett. d) e 103 l.reg. Lombardia n. 12/2005 e dell’art. 22, l.reg. Lombardia n. 7 del 05.02.2010, in relazione all’art. 117, c. 3, della Costituzione.
Se la rimessione era più che attesa, può forse stupire -ma in realtà neppure più di tanto- il fatto che invece di censurare il contrasto tra funzione legislativa e funzione giurisdizionale (ossia la scelta della Regione di attribuirsi il potere di emanare norme di interpretazione autentica quando é palese l'illegittimità costituzionale della norma "interpretata"), il TAR -probabilmente prendendo atto della determinazione della stessa Regione nel senso di mantenere aperto il conflitto invece che di ricomporlo- ha rimesso alla Corte tanto la norma interpretata (articolo 27 l.r. 12/2005) che la sua interpretazione (art. 22 l.r. 7/2010).
Nell'attesa della decisione della Corte, diventano attuali i profili di riflessione in merito alle conseguenza di una pronuncia di incostituzionalità delle norme in questione. Sul punto v. Quid iuris nell'ipotesi di un pronuncia di incostituzionalità della legge interpretativa? in La ristrutturazione edilizia in Lombardia alla luce della l.r. 7/2010 di interpretazione autentica dell'art. 27 l.r. n. 12/2005 pubblicato il 30.06.2010 all'indirizzo http://www.studiospallino.it/interventi/ristrutturazione.htm (commento tratto da www.studiospallino.it).
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Come è noto, l’edilizia, pur se non prevista esplicitamente, rientra nell'ambito della materia «governo del territorio», che l'art. 117, terzo comma, della Costituzione attribuisce alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni (cfr. ex multis, Corte Cost., 25.09.2003, n. 303 e 19.12.2003, n. 362).
La Corte Costituzionale ha, difatti, affermato che “la materia dei titoli abilitativi ad edificare appartiene storicamente all'urbanistica che, in base all'art. 117 Cost., nel testo previgente, formava oggetto di competenza concorrente. La parola "urbanistica" non compare nel nuovo testo dell'art. 117, ma ciò non autorizza a ritenere che la relativa materia non sia più ricompresa nell'elenco del terzo comma: essa fa parte del “governo del territorio”. Se si considera che altre materie o funzioni di competenza concorrente, quali porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, sono specificamente individuati nello stesso terzo comma dell'art. 117 Cost. e non rientrano quindi nel “governo del territorio”, appare del tutto implausibile che dalla competenza statale di principio su questa materia siano stati estromessi aspetti così rilevanti, quali quelli connessi all'urbanistica, e che il “governo del territorio” sia stato ridotto a poco più di un guscio vuoto” (cfr. Corte Cost., 25.09.2003, n. 303).
Le Regioni esercitano, pertanto, in materia edilizia, una potestà legislativa concorrente, nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale.
In linea con tali dettami, la legge regionale lombarda n. 12/2005 precisa, all’art. 1, c. 1, che “la presente legge, in attuazione di quanto previsto dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione detta le norme di governo del territorio lombardo, definendo forme e modalità di esercizio delle competenze spettanti alla Regione e agli enti locali, nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento statale e comunitario, nonché delle peculiarità storiche, culturali, naturalistiche e paesaggistiche che connotano la Lombardia”.
Ad avviso del Collegio, l’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, recante la definizione degli interventi edilizi, costituisce un principio fondamentale della legislazione statale, non derogabile dal legislatore regionale.
Depongono in tal senso elementi di carattere letterale e sistematico, quale la rubrica della norma “Definizioni degli interventi edilizi” e la collocazione nel titolo I della parte I, recante “Disposizioni generali”.
La natura di principio fondamentale dell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, è, inoltre, desumibile dal complessivo impianto del testo unico dell’edilizia e dal rilievo centrale che in esso assumono le definizioni degli interventi edilizi.
La disciplina applicabile agli interventi edilizi è, difatti, legata alla loro qualificazione: si pensi, ad esempio, alla tipologia di titolo abilitativo -se permesso di costruire o denuncia di inizio attività– cui l’intervento è assoggettato, all’onerosità o meno dell’intervento o alla differente disciplina sanzionatoria.
In considerazione di tale valenza trasversale, le definizioni delle tipologie di intervento edilizio sono, quindi, indubbia espressione di un principio fondamentale.
Il carattere di principio fondamentale dell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, legato ad una esigenza di uniformità delle nozioni, è dimostrato, infine, dalla prevalenza delle definizioni in essa previste sulle eventuali diverse disposizioni contenute negli strumenti urbanistici generali e nei regolamenti edilizi (art. 3, c. 2, d.P.R. n. 380/2001).
L’art. 3, c. 1, lett. d) del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 definisce, quali interventi di ristrutturazione edilizia, “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
La prima formulazione della norma ricomprendeva tra gli interventi di ristrutturazione edilizia “quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
L'art. 1 del d.lgs. n. 27.12.2002, n. 301 ha modificato l'art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 eliminando la locuzione “fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche di materiali a quello preesistente” e l’ha sostituita con l’espressione “ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente” (art. 1, lett. a).
In mancanza dei requisiti previsti dall’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, l'intervento non può essere qualificato quale ristrutturazione edilizia, bensì quale nuova edificazione. La lettera e) dell’art. 3, comma 1, ricomprende infatti tra gli “interventi di nuova costruzione” quelli di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti.
Due sono, dunque, le ipotesi di ristrutturazione previste dall’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001: quella contemplata dalla prima parte della norma (c.d. intervento conservativo), che può comportare anche l’inserimento di nuovi volumi o modifiche della sagoma (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.10.2007, n. 5214; Cass. pen, 17.02.2010, n. 16393) e quella (c.d. intervento ricostruttivo) attuata mediante demolizione e ricostruzione, vincolata al rispetto di volume e sagoma dell’edificio preesistente.
Quanto al titolo abilitativo necessario per realizzare ristrutturazioni edilizie, l’art. 10 del d.P.R. n. 380/2001 subordina a permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione c.d. pesante, quelli cioè che portano alla realizzazione di un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente e consistente in un aumento delle unità immobiliari, in modifiche del volume, dei prospetti, della sagoma o delle superfici oppure, per gli immobili nella zona A, con mutamenti di destinazione d'uso (in alternativa, però, l'intervento può essere anche effettuato con denuncia di inizio attività sulla base del combinato disposto artt. 3, 10 e 22, comma 3, lett. a) del d.P.R. n. 380/2001).
In tutti le altre ipotesi di ristrutturazione, c.d. leggere -quelle cioè di portata minore– è sufficiente la previa presentazione della dichiarazione di inizio attività.
La ristrutturazione attuata mediante demolizione e ricostruzione è, quindi, soggetta alla sola dichiarazione di inizio attività solo se porta alla realizzazione di un organismo che abbia la stessa volumetria e la stessa sagoma di quello preesistente.
La giurisprudenza accoglie un’interpretazione restrittiva del concetto di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, sempre volta a cogliere gli elementi che differenziano tale tipologia di intervento da quello di nuova costruzione.
Ad un primo orientamento che escludeva la demolizione e ricostruzione dalla fattispecie di ristrutturazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 09.02.1996, n. 144), è seguito l'orientamento, trasfuso nel Testo Unico dell'edilizia, che ha compreso la fattispecie nella categoria della “ristrutturazione” purché “fedele”, in quanto modalità estrema di conservazione dell'edificio preesistente nella sua consistenza strutturale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.08.2000, n. 4397).
Per la giurisprudenza pressoché unanime, anche escludendo il superato criterio della fedele ricostruzione, esigenze di interpretazione logico-sistematica della nuova normativa inducono a ritenere che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma e volumi; diversamente opinando, sarebbe, difatti, sufficiente la preesistenza di un edificio per definire ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in luogo o sul luogo di quella preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 1177/2008; sez. V, n. 476/2004; n. 5310/2003; n, 4593/2003; 18.03.2008, n. 1177; 08.10.2007, n. 5214; 16.03.2007, n. 1276; 22.05.2006, n. 3006; Cass., sez. III, 26.10.2007, 18.03.2004).
Il legame con l’edificio preesistente, quanto a sagoma -intendendosi con tale concetto “la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale”, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (cfr. Cass. sez. III, 23.04.2004, n. 19034)- e a volumetria, costituisce, quindi, per unanime giurisprudenza, il criterio distintivo degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente dalle nuove costruzioni.
Le identità di volume e sagoma del nuovo edificio rispetto a quello originario giustificano, inoltre, il differente regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, l’intervento non è, difatti, subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.11.1996, n. 1359; Cons. Stato, sez. V, 28.03.1998 , n. 369; Cass. civ., sez. II, 12.06.2001, n. 7909; Tar Calabria, Reggio Calabria, 24.01.2001, n. 36; Puglia, Bari, sez. III, 22.07.2004 n. 3210) .
Delineato, così, il quadro della normativa statale, si passa all’esame della disciplina dettata, per la Regione Lombardia, dal legislatore regionale.
L’art. 27 della l.reg. Lombardia n. 12/2005, al comma 1, lett. d), prevede che “nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”.
A differenza dell’art. 3, d.P.R. n. 380/2001, che, come si è visto, pone un vincolo di identità di volumetria e di sagoma tra il nuovo edificio e quello preesistente, la norma regionale non menziona il limite della sagoma.
L’art. 103 della l.reg. Lombardia n. 12/2005, prevede, inoltre, che, a seguito dell’entrata in vigore della legge 12/2005, cessi di avere diretta applicazione nella Regione la disciplina di dettaglio prevista, tra l’altro, dall’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, con ciò escludendo implicitamente il carattere di principio fondamentale della norma recante le definizioni degli interventi edilizi.
Il Tar Lombardia ha ritenuto di poter accedere ad una lettura conforme alla Costituzione di queste disposizioni, nonostante l’art. 27, c. 1, lett. d), della l. reg. Lombardia n. 12/2005 non contenesse alcun riferimento al limite della sagoma dell’edificio.
Dapprima il Tar Lombardia, Brescia, con la sentenza 13.05.2008, n. 504, ha affermato che “il concetto di ristrutturazione previa demolizione come intervento che rispetta sia il volume sia la sagoma dell’edificio preesistente è ben fermo e ripetuto di frequente in giurisprudenza, sì che è poco credibile che il legislatore regionale, il quale intendesse abbandonarlo per proporre una innovazione, lo abbia fatto per implicito, senza palesare con termini espressi tale intento”. Ha ritenuto incongruo che l’esigenza del limite di sagoma “possa venire accantonata senz’altro dalle legislazione regionale” e, quindi, “seguendo il costante insegnamento della Corte costituzionale per cui sin quando è possibile una legge ordinaria va interpretata in modo conforme a Costituzione” ha concluso che “il limite della sagoma, attinente ad un principio, nella norma lombarda che non lo prevede espressamente, vada ricavato per via di interpretazione logica e sistematica”.
Successivamente, anche questo Tar ha sostenuto che l’art. 27, c. 1, l. d), della L.R. Lombardia 11.03.2005, n. 12 dovesse interpretarsi nel senso di prescrivere anche il rispetto della sagoma dell’edificio preesistente, in quanto tale requisito, previsto dall’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 380/2001, costituisce espressione di un principio generale che orienta anche l’interpretazione della legislazione regionale (Tar Lombardia Milano, sez. II, 16.01.2009, n. 153).
Una tale soluzione dell’antinomia tra le previsioni dell’art. 27, c. 11, lett. d), della l.reg. Lombardia n. 12/2005 ed il principio fondamentale dettato dall’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 non può però più essere accolta.
Con l’art. 22 della l. reg. n. 7 del 05.02.2010, il legislatore regionale ha, difatti, adottato una norma di interpretazione autentica, specificando che “nella disposizione di cui all’art. 27, c. 1, lett. d), ultimo periodo, della legge regionale 11.03.2005, n. 12 la ricostruzione dell’edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma”.
Ad avviso del Collegio, il combinato disposto degli artt. 27, c. 1, lett. d), ultimo periodo, della l.reg. Lombardia n. 12/2005, come interpretato dalla l.reg. n. 7/2010 -nella parte in cui esclude l’applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione- e 103 della l.reg. Lombardia n. 12/2005 -nella parte in cui prevede che, a seguito dell’entrata in vigore della legge 12/2005, cessi di avere diretta applicazione nella Regione la disciplina di dettaglio prevista, tra gli altri, dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001- si pone in aperto contrasto con il principio fondamentale della legislazione statale dettato dall’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 in materia di governo del territorio e viola, dunque, l’art. 117, c. 3 della Costituzione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.09.2010 n. 5122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2010

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della L.R. n. 12/2005: 4^ lezione (parte B) - I parcheggi pertinenziali (Geometra Orobico n. 4/2010).

URBANISTICA: P. Brambilla, V.A.S. E COMPETENZE - Il Consiglio di Stato non sospende la scure del Tar Milano abbattutasi sulla V.A.S. della Regione Lombardia (link a www.greenlex.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 32 del 12.08.2010 (link a www.infopoint.it):
- "Atto di indirizzo per l’aggiornamento del Database topografico e l’interscambio con le banche dati catastali (art. 3, l.r. 12/2005)" (deliberazione G.R. 28.07.2010 n. 338);
- "Approvazione del bando di finanziamento 2010 per lo «Sviluppo del Database topografico ai sensi della l.r. 12/2005»" (decreto D.S. 29.07.2010 n. 7571).

luglio 2010

URBANISTICA: Chiarimenti ai Comuni sull'applicazione della VAS a seguito della sentenza del TAR Lombardia (Regione Lombardia, nota 28.07.2010 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

URBANISTICA: M. Luraghi e V. Latorraca, La V.A.S. secondo il TAR Milano (link a www.lavatellilatorraca.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria 05.07.2010 n. 27, "Modalità di finanziamento agli Enti locali per lo sviluppo del Database Topografico, a supporto del SIT integrato per l’anno 2010" (deliberazione G.R. 23.06.2010 n. 160 -  link a www.infopoint.it).

URBANISTICAAncora sulla V.A.S. del P.G.T..
Ulteriori chiarimenti della Regione Lombardia sulla corretta individuazione dei soggetti quale Autorità procedente ed Autorità competente per la VAS.

La Regione Lombardia, in risposta ad un quesito del Sindaco di un comune con più di 5.000 abitanti, ha evidenziato alcune osservazioni -di interesse per tutti i Comuni lombardi- che si riportano di seguito:
"... In merito a quanto riportato nella Sua lettera si osserva quanto segue:
1. dall'analisi della documentazione pubblicata sul sito web del Comune e nella scheda del sito regionale SIVAS (www.cartografia.regione.lombardia.it/sivas), si riscontrano alcune irregolarità nell'individuazione delle Autorità in quanto l'individuazione del Sindaco quale autorità procedente non è in ogni caso corretta, essendo data tale possibilità solo ai Comuni con meno di 5.000 abitanti (come previsto dal comma 23 dell'art. 53 della legge 23.12.2000, n. 388 modificato dal comma 4 dell'art. 29 della legge 28.12.2001, n. 448, previa assunzione delle disposizioni regolamentari ed organizzative): dovrebbe invece essere individuata all'interno dell'ente tra coloro che hanno responsabilità nel procedimento di PGT (ad es. il Responsabile Unico del Procedimento);
2. inoltre, l'Autorità competente per la VAS deve possedere i requisiti richiamati nel punto 3.2 dell'allegato 1a
(ndr: della DGR 30.12.2009 n. 10971) e il dirigente del Settore Urbanistica ed Edilizia Privata del Comune di ..., nominato Autorità competente per la VAS, sembra avere competenze in materia di pianificazione  e urbanistica piuttosto che in materia di tutela, protezione e valorizzazione ambientale e di sviluppo sostenibile;
3. si suggerisce, pertanto, di individuare all'interno dell'Ente le due Autorità con nuova deliberazione di Giunta Comunale, ai sensi della DGR n. 10971 del 30.12.2009; tali Autorità dovranno accompagnare il loro primo pronunciamento con un'esplicita determinazione di convalida delle attività precedentemente svolte nell'ambito della procedura di VAS e potranno proseguire nella stessa. ..." (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, Programmazione e Pianificazione Territoriale, Strumenti per il Governo del Territorio, nota 01.07.2010 n. 15812 di prot.).

giugno 2010

URBANISTICA: W. Fumagalli, Lombardia, La perequazione: una facoltà o un obbligo? (AL n. 6/2010).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della L.R. n. 12/2005: 4^ lezione (parte A) - Edificazione nelle zone agricole (Geometra Orobico n. 3/2010).

URBANISTICA: Ambiente, il controllore va separato dal controllato. Tar Lombardia, principi in materia di valutazione strategica.
Il controllore non può essere allo stesso tempo anche il controllato. Si tratta di un principio di elementare civiltà giuridica che il Tar Lombardia ha desunto da una corretta interpretazione del dlgs 4/2008, che ha innovato le procedure Vas (Valutazione ambientale strategica) nel territorio nazionale, e che ha ora sancito nella sentenza della seconda sezione n. 1526/2010 depositata lo scorso 18.05.2010.

Con questa sentenza – presidente M. Arosio, estensore G. Zucchini – la prima emessa in Italia in tema di Vas – il Tar della Lombardia assume una chiara posizione nei confronti della problematica della definizione dell'autorità competente nei procedimenti di valutazione ambientale strategica Vas relativi allo sviluppo urbanistico ed edilizio sul territorio.
Per effetto di questa anomalia riscontrata, il Tar ha annullato il Pgt del Comune di Cermenate (dove addirittura il tecnico comunale era anche co-firmatario del Pgt), ma i principi enunciati da questa sentenza –ricordiamo la prima in Italia in materia- valgono in tutto il territorio della Regione Lombardia ed anche italiano. A rischio di annullamento, quindi, si trovano ora tutti i Piano di governo del territorio o i Programmi integrati di intervento approvati senza rispettare la regola della terzietà dell'autorità competente Vas o anche in fase di approvazione, tra cui Milano, Como e moltissimi altri comuni.
Come noto nei procedimenti Vas –che per legge debbono precedere le scelte pianificatorie dei Pii e dei Pgt– l'autorità competente esercita una funzione di controllo sulle proposte pianificatorie, che l'autorità procedente intende portare ad approvazione.
Nel caso in esame, dove addirittura il tecnico comunale aveva insieme firmato il Pgt, firmato il parere relativo alla delibera approvativa del Pgt e aveva assunto il ruolo di autorità competente per la Vas, il Pgt di Cermenate è stato completamente annullato perché preceduto da un procedimento Vas illegittimo.
Così i giudici amministrativi lombardi di primo grado, nel rispetto della regola generale dell'imparzialità amministrativa ex art. 97 della Costituzione, hanno stabilito che autorità competente ed autorità procedente non possono appartenere alla medesima amministrazione comunale, ma debbono appartenere a due diverse e distinte amministrazioni pubbliche.
«Questa sentenza è una pietra miliare nella definizione del corretto procedimento Vas» commenta a ItaliaOggi l'avv. Umberto Sgrella, difensore della parte ricorrente e vincitrice in primo grado. «Le amministrazioni comunali dovranno rivolgersi ad altri enti pubblici esperti in materia ambientale per il ruolo di autorità competente, ponendo fine alla prassi illegittima della c.d. Vas fatte in casa che spesso si risolvevano solo in un mero passaggio burocratico interno, laddove i funzionari preposti si trovavano in una situazione difficile per l'esercizio delle loro potestà, in quanto dipendenti della stessa amministrazione che desiderava far approvare lo strumento urbanistico sottoposto a Vas» (articolo ItaliaOggi del 24.06.2010, pag. 43).

maggio 2010

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: W. Fumagalli, Le nuove modifiche della 44 Legge Regionale 12/2005 (AL n. 5/2010).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 31.05.2010, "Direzione Centrale Affari Istituzionali e Legislativo – Nomine e designazioni di competenza della Giunta regionale: Commissioni Regionali per il Paesaggio (rif. art. 78 della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»)" (comunicato regionale 26.05.2010 n. 69 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale scontano il contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
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... per l'annullamento del provvedimento 26/27.10.2007, prot. n. 17310, emesso dal responsabile dell’Area Tecnica, con cui il Comune ha rideterminato il contributo di costruzione per gli interventi edilizi eseguiti sull’area del complesso produttivo “ex Mellin” ed ha ingiunto alla ricorrente il pagamento di € 615.883,31 quale maggior somma dovuta a tale titolo; con la condanna del Comune al risarcimento del danno.
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16. Qui si tratta solo di vedere se la pretesa creditoria del Comune, fondata sulla diversa qualificazione dell’intervento (nuova costruzione, anziché ristrutturazione), senza alcuna contestazione che investa il computo aritmetico consequenziale, sia o no sia fondata; e d’altro canto, in questo come in ogni altro caso analogo, è innegabile, essendo in re ipsa -stante il danno erariale cui pur accenna l’atto impugnato- l’interesse pubblico alla riscossione delle somme dovute ex lege a titolo tributario o paratributario.
17. La tesi secondo cui la “rivisitazione” del contributo sarebbe preclusa dall’accordo sostitutivo non è condivisibile.
In primo luogo, perché gli accordi sostitutivi possono intervenire, ai sensi dell’art. 11 (primo comma) della legge n. 241 del 1990, “al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento”, e quindi non possono avere ad oggetto la liquidazione di un contributo che va determinato, in via del tutto vincolata, sulla base di presupposti di fatto e qualificazioni di diritto predeterminati da fonti normative, di rango legislativo o regolamentare.
18. In secondo luogo, perché l’accordo sostitutivo in questione non ha ad oggetto il contributo di concessione relativo alle d.i.a. presentate dalla Società per la realizzazione di interventi di ristrutturazione.
19. Vero è che nelle premesse dell’accordo si dà atto che l’amministrazione comunale, a seguito di una “verifica in autotutela circa la corretta quantificazione dei contributi concessori alla luce dell’effettiva qualificazione giuridica degli interventi oggetto di DIA” ... “ha accertato che il maggior [importo] dovuto da parte del soggetto attuatore a titolo di conguaglio del contributo concessorio dal medesimo autoliquidato è pari ad € 184.762,68 (cioè per un totale complessivo di € 225.015.62)”.
20. Tale premessa non è tuttavia idonea a rendere intangibile l’accertamento del dovuto: sia perché la qualificazione dell’intervento e la determinazione del contributo non possono essere oggetto di contrattazione; sia perché l’accordo, nel suo contenuto dispositivo, si propone di regolare tutt’altra cosa, vale a dire la realizzazione, a cura della Società (soggetto attuatore), della viabilità destinata a servire l’area di trasformazione edilizia e delle opere di manutenzione dell’edificio scolastico a scomputo del contributo concessorio.
21. Per quanto riguarda la qualificazione dell’intervento, reputa il Collegio che la pretesa creditoria del Comune, fondata sull’art. 44 della legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per il governo del territorio), sia fondata.
22. Qui non è in questione la legittimità delle d.i.a. e dell’intervento edilizio, ma la qualificazione dell’intervento ai fini del contributo concessorio.
23. Ora, è vero che, in sede di definizione degli interventi edilizi, la legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per il governo del territorio) dispone [art. 27, comma 1, lett. d)] che “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”.
24. Ed è altrettanto vero che, in sede di interpretazione autentica di questa disposizione, il legislatore regionale, in dissonanza da quanto stabilito dal testo unico in materia edilizia [art. 3, primo comma, lett. d): “Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”] ha stabilito (art. 22 legge regionale 05.02.2010 n. 7) che “la ricostruzione dell’edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma”.
25. Ma tutto ciò attiene all’ammissibilità -secondo gli strumenti urbanistici- degli interventi edilizi classificati in base ad una tipologia standard.
Ai fini del contributo, vale invece l’art. 44 della stessa legge regionale n. 12 del 2005; il quale, dopo avere stabilito (commi 8 e 9) le modalità di calcolo degli oneri di urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione non comportanti demolizione e ricostruzione”, dispone (comma 10) che “per gli interventi di ristrutturazione di cui al comma 8 gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione, ridotti della metà.”
Il che significa che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale scontano il contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
26. Nel caso in esame, come si evince dalle d.i.a. n. 41/2004 (in data 01.07.2004) e n. 17/2005 (in data 12.05.2005), gli interventi edilizi sono consistiti, rispettivamente, nella parziale demolizione del fabbricato esistente con costruzione di palazzine uffici in aderenza al corpo di fabbrica esistente sui fronti nord e sud (vedasi la relazione tecnica alla d.i.a. 41/2004, che parla di “nuove palazzine in progetto”) e nella parziale demolizione e innalzamento del fabbricato esistente (d.i.a. 17/2005).
27. Poiché si versa dunque in quella ipotesi di demolizione e ricostruzione che la legge regionale assoggetta al contributo previsto per le nuove costruzioni, la pretesa creditoria del Comune appare fondata.
E ciò non soltanto per la d.i.a. n. 17/2005 (presentata nel vigore della legge regionale n. 12/2005), ma anche per la d.i.a. 41/2004, presentata nel vigore del t.u. statale (d.p.r. n. 380/2001), che esclude dalla nozione di ristrutturazione gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino il vincolo della volumetria e della sagoma (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.05.2010 n. 1566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il TAR Lombardia-Milano ha annullato la D.G.R. 27.12.2007 n. 6420, limitatamente all'art. 3.2. dell'Allegato 1 (modello generale), relativa alla procedura per la Valutazione Ambientale di Piani e Programmi (denominata anche Valutazione Ambientale Strategica o VAS).
L
’individuazione dell’autorità competente per la VAS nell’ambito della stessa Amministrazione comunale tenuta all’approvazione del PGT è illegittima in quanto una struttura competente per la VAS completamente interna al Comune non offre sufficienti garanzie di imparzialità e terzietà nella valutazione ambientale, determinando una illegittima commistione fra funzioni di amministrazione attiva (approvazione PGT) e di controllo (valutazione ambientale), con la conseguenza di vanificare le finalità –previste dalla normativa comunitaria e da quella nazionale di attuazione– proprie della valutazione ambientale strategica.
Nel caso di specie il Comune di ..., in attuazione dell’art. 3.2 dell’allegato 1 alla delibera di Giunta del 27.12.2007, ha individuato l’autorità competente all’interno dello stesso Comune, scegliendo in particolare i Responsabili del Settore Urbanistica e del Settore Lavori Pubblici. Tale composizione dell’autorità competente, al di là di ogni valutazione sulla preparazione e sulla capacità professionale dei singoli operatori comunali, non appare in ogni caso rispettosa delle norme comunitarie e statali sopra riportate, in quanto appare assolutamente inidonea a garantire la necessaria imparzialità dell’autorità competente rispetto a quella procedente. Si aggiunga, inoltre, che il Responsabile del Settore Urbanistica del Comune, membro dell’autorità competente, risulta fra coloro che hanno contribuito alla predisposizione del documento di Piano, il che vale a rafforzare il convincimento del Collegio circa l’illegittimità della composizione dell’autorità competente, a causa dell’evidente commistione fra il ruolo di controllore e quello di controllato.
Nel secondo motivo, è denunciata la violazione, sotto molteplici profili, della normativa comunitaria, statale e regionale in materia di VAS (valutazione ambientale strategica) e a tale proposito l’esponente impugna, anche se solo in parte, la delibera di Giunta Regionale 27.12.2007 n. 8/6420 relativa alla procedura per la Valutazione Ambientale di Piani e Programmi (denominata anche Valutazione Ambientale Strategica o VAS).
Il Comune di ..., ai fini dell’obbligatoria sottoposizione del proprio PGT alla procedura di VAS, ha provveduto, con delibera di Giunta n. 38/2008 (doc. 6 del ricorrente), ad avviare il procedimento di valutazione ambientale strategica, individuando contestualmente la c.d. autorità competente per la VAS, costituta dal team composto da due dipendenti comunali, vale a dire il geom. ... ed il P.I.E. ..., rispettivamente Responsabile Settore Urbanistica e Sportello Unico Attività Produttive e Responsabile del Settore Lavori Pubblici.
Secondo il ricorrente, l’individuazione dell’autorità competente per la VAS nell’ambito della stessa Amministrazione comunale tenuta all’approvazione del PGT sarebbe illegittima, in quanto una struttura competente per la VAS completamente interna al Comune non offrirebbe sufficienti garanzie di imparzialità e terzietà nella valutazione ambientale, determinando una illegittima commistione fra funzioni di amministrazione attiva (approvazione PGT) e di controllo (valutazione ambientale), con la conseguenza di vanificare le finalità –previste dalla normativa comunitaria e da quella nazionale di attuazione– proprie della valutazione ambientale strategica.
Con riguardo a tale motivo, occorre dapprima evidenziare come sussista interesse ad agire in capo al ricorrente, visto che per effetto dell’accoglimento della censura sarebbe invalidato l’intero PGT, con obbligo per l’Amministrazione comunale di nuova adozione del Piano, nel rispetto però delle disposizioni in materia di VAS, sicché si configura in capo al geom. ... un interesse strumentale ad una riedizione del potere amministrativo, che potrebbe svolgersi in senso più favorevole al ricorrente (cfr. sul punto, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.01.2010, n. 188).
Preliminarmente, appaiono necessarie talune premesse relative alla valutazione ambientale strategica (VAS), alla luce della disciplina comunitaria e nazionale in materia.
La valutazione ambientale strategica è stata introdotta dalla direttiva 2001/42/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27.6.2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente. Lo scopo dichiarato della direttiva (art. 1), è quello di garantire un <<elevato livello di protezione dell’ambiente (...) all’atto dell’elaborazione e dell’adozione di piani e programmi al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile>>.
E’ stato peraltro notato, dalla dottrina, che l’istituto comunitario della VAS, unitamente a quello della valutazione di impatto ambientale-VIA, affonda le proprie radici in precedenti esperienze giuridiche statunitensi degli anni sessanta del secolo scorso ed anche in alcune iniziative delle Nazioni Unite per la protezione ambientale internazionale (si vedano a tale proposito i lavori della Commissione dell’ONU per l’ambiente e lo sviluppo, conclusi con il rapporto Brundtland del 1987, che enuncia per la prima volta il principio dello “Sviluppo Sostenibile”).
Tornando, ad ogni modo, alla disciplina comunitaria, si ricordi che la legge della Regione Lombardia n. 12/2005 sul governo del territorio, all’art. 4 (“Valutazione ambientale dei piani”), richiama espressamente la direttiva 2001/42/CE, rinviando a successive deliberazioni del Consiglio e della Giunta l’approvazione di indirizzi ed ulteriori adempimenti per la valutazione ambientale dei piani. In attuazione dell’art. 4 citato, il Consiglio Regionale ha approvato gli indirizzi generali per la valutazione suindicata, con deliberazione 13.03.2007 n. VIII/351, mentre con successiva delibera di Giunta 27.12.2007 n. 8/6420 è stata disciplinata la procedura per la VAS.
Lo Stato italiano ha dato compiuta attuazione alla direttiva 2001/42/CE con il decreto legislativo 16.01.2008 n. 4, quindi successivo alla regolamentazione regionale sopra richiamata.
Per effetto del citato decreto legislativo, è stata interamente riscritta la parte II del D.Lgs. 152/2006 (“Norme in materia ambientale”, c.d. Codice dell’ambiente) ed è stata dettata una specifica disciplina per la VAS agli articoli 4 e seguenti.
Tale disciplina è stata ritenuta costituzionalmente legittima ed espressione di potestà legislativa esclusiva statale, in quanto inerente alla materia della “tutela dell’ambiente”, che l’art. 117, comma 2°, lett. s), della Costituzione, riserva alla legislazione esclusiva dello Stato (cfr. Corte Costituzionale, 22.07.2009, n. 225).
L’art. 5, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 152/2006, definisce la VAS come valutazione ambientale di piani e programmi, comprendente lo svolgimento di una verifica di assoggettabilità, l’elaborazione di un rapporto ambientale e la conseguente valutazione del piano o programma.
Nell’ambito della procedura di VAS, l’art. 5 distingue l’autorità competente (lettera p) dall’autorità procedente (lett. q); quest’ultima è definita come la pubblica amministrazione che elabora il piano o programma, mentre la prima è la pubblica amministrazione a cui compete l’attività di valutazione ambientale. Ai fini dell’individuazione dell’autorità competente, il successivo art. 7, comma 6°, ha cura di specificare che, in sede regionale, l’autorità competente è la pubblica amministrazione con compiti di tutela, valorizzazione e protezione ambientale.
Le ulteriori disposizioni sulla VAS contenute nel Codice dell’ambiente confermano, con chiarezza, la necessità di separazione fra le due differenti autorità –quella procedente e quella competente– il cui rapporto nell’ambito del procedimento di valutazione ambientale strategica appare tutto sommato dialettico, a conferma dell’intendimento del legislatore di affidare il ruolo di autorità competente ad un soggetto pubblico specializzato, in giustapposizione all’autorità procedente, coincidente invece con il soggetto pubblico che approva il piano (cfr., fra gli altri, art. 11, comma 2°; art. 12, comma 4°; artt. 13, 14 e 15).
Viene poi confermata l’assoluta obbligatorietà della VAS, tanto è vero che i provvedimenti amministrativi di approvazione di piani e programmi adottati senza la VAS, dove prescritta, <<sono annullabili per violazione di legge>> (art. 11, comma 5°).
Dall’esame della disciplina legislativa suindicata –di recepimento della direttiva 2001/42/CE– si giunge alla conclusione, secondo lo scrivente Tribunale, per cui, nella scelta dell’autorità competente, l’autorità procedente deve individuare soggetti pubblici che offrano idonee garanzie non solo di competenza tecnica e di specializzazione in materia di tutela ambientale, ma anche di imparzialità e di indipendenza rispetto all’autorità procedente, allo scopo di assolvere la funzione di valutazione ambientale nella maniera più obiettiva possibile, senza condizionamenti –anche indiretti– da parte dell’autorità procedente.
Qualora quest’ultima, infatti, individuasse l’autorità competente esclusivamente fra soggetti collocati al proprio interno, legati magari da vincoli di subordinazione gerarchica rispetto agli organi politici o amministrativi di governo dell’Amministrazione, il ruolo di verifica ambientale finirebbe per perdere ogni efficacia, risolvendosi in un semplice passaggio burocratico interno, con il rischio tutt’altro che remoto di vanificare la finalità della disciplina sulla VAS e di conseguenza di pregiudicare la corretta applicazione delle norme comunitarie, frustrando così gli scopi perseguiti dalla Comunità Europea con la direttiva 2001/42/CE, come quello di salvaguardia e promozione dello “sviluppo sostenibile”, espressamente enunciato all’art. 1 della direttiva, come già sopra evidenziato (si ricordi che lo “sviluppo sostenibile” costituisce uno degli scopi dell’Unione Europea, espressamente enunciato all’art. 3, comma 3°, del Trattato dell’Unione Europea in vigore dal 01.12.2009).
A tale proposito, pare utile al Collegio rammentare l’obbligo del giudice nazionale di interpretare il diritto interno alla luce di quello comunitario (cfr., sul punto, Consiglio di Stato, sez. VI, 03.09.2009 n. 5197 e TAR Piemonte, sez. I, 05.06.2009, n. 1563), in modo da garantire il c.d. “primato” di quest’ultimo sugli ordinamenti difformi degli Stati membri (sul “primato” del diritto comunitario, si veda Corte di Giustizia CE, sez. III, 19.11.2009 n. 314).
Nel caso di specie il Comune di ..., in attuazione dell’art. 3.2 dell’allegato 1 alla delibera di Giunta del 27.12.2007, ha individuato l’autorità competente all’interno dello stesso Comune, scegliendo in particolare i Responsabili del Settore Urbanistica e del Settore Lavori Pubblici.
Tale composizione dell’autorità competente, al di là di ogni valutazione sulla preparazione e sulla capacità professionale dei singoli operatori comunali, non appare in ogni caso rispettosa delle norme comunitarie e statali sopra riportate, in quanto appare assolutamente inidonea a garantire la necessaria imparzialità dell’autorità competente rispetto a quella procedente.
Si aggiunga, inoltre, che il Responsabile del Settore Urbanistica del Comune, membro dell’autorità competente, risulta fra coloro che hanno contribuito alla predisposizione del documento di Piano, il che vale a rafforzare il convincimento del Collegio circa l’illegittimità della composizione dell’autorità competente, a causa dell’evidente commistione fra il ruolo di controllore e quello di controllato.
Sono quindi illegittimi sia il provvedimento comunale di designazione dell’autorità competente sia quello regionale ivi impugnato, che prevede la composizione della suddetta autorità con soggetti scelti all’interno della differente autorità procedente.
L’illegittimità della delibera regionale del 2007 non è esclusa neppure dalla lettura della legislazione regionale in materia, vale a dire l’art. 4 della L.R. 12/2005. L’articolo si limita, infatti, sotto il profilo dell’individuazione dell’autorità competente, a rinviare a successive deliberazioni del Consiglio o della Giunta Regionale, senza però altro dire. Si aggiunga –e si perdoni l’ovvietà– che in materia di VAS la Regione è in ogni caso rigidamente subordinata alla disciplina comunitaria, sicché non appare certo possibile per l’Ente regionale introdurre deroghe alla medesima.
Peraltro, la stessa Regione Lombardia non pare essere stata sempre coerente con la propria delibera del 27.12.2007, tenuto conto che, con parere espresso dalla Struttura Valutazione Ambientale Strategica e Programmazione Negoziata con nota del 06.04.2009 n. 6818, indirizzato al Comune di Campodolcino, la citata Struttura regionale escludeva che il Sindaco potesse assumere il ruolo di autorità competente, allorché l’autorità procedente era stata individuata nell’Amministrazione comunale.
Nel parere si ricorda il principio, desumibile dal D.Lgs. 4/2008 e assolutamente condiviso dallo scrivente Collegio, della separazione dell’autorità competente rispetto a quella procedente e, con riguardo alla prima, della necessità di un suo sufficiente grado di autonomia e di competenza in materia di ambiente e sviluppo sostenibile (cfr. il parere regionale, doc. 9 del ricorrente).
Ciò premesso, il motivo n. 2 del ricorso principale appare suscettibile di accoglimento, con conseguente annullamento non solo –seppure in parte qua – della delibera regionale impugnata, ma anche della delibera di Giunta Comunale n. 38/2008 di istituzione dell’autorità competente in materia di VAS e delle deliberazioni consiliari n. 12 e n. 13 del 2009, recanti approvazione di un PGT viziato nella sua totalità per l’illegittimità della procedura di VAS, come sopra indicato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2010 n. 1526 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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In merito alla citata sentenza, si legga la nota 25.05.2010 n. 344 di prot. dell'ANCI Lombardia.

URBANISTICA: PGT - VAS - Autorità competente - Autorità procedente - Distinzione - Art. 5, lett. p e q - Necessità di separazione.
Nell’ambito della procedura di VAS, l’art. 5 del d.lgs. n. 152/2006 distingue l’autorità competente (lettera p) dall’autorità procedente (lett. q); quest’ultima è definita come la pubblica amministrazione che elabora il piano o programma, mentre la prima è la pubblica amministrazione a cui compete l’attività di valutazione ambientale.
Ai fini dell’individuazione dell’autorità competente, il successivo art. 7, comma 6°, ha cura di specificare che, in sede regionale, l’autorità competente è la pubblica amministrazione con compiti di tutela, valorizzazione e protezione ambientale.
Le ulteriori disposizioni sulla VAS contenute nel Codice dell’ambiente confermano, con chiarezza, la necessità di separazione fra le due differenti autorità -quella procedente e quella competente- il cui rapporto nell’ambito del procedimento di valutazione ambientale strategica appare tutto sommato dialettico, a conferma dell’intendimento del legislatore di affidare il ruolo di autorità competente ad un soggetto pubblico specializzato, in giustapposizione all’autorità procedente, coincidente invece con il soggetto pubblico che approva il piano (cfr., fra gli altri, art. 11, comma 2°; art. 12, comma 4°; artt. 13, 14 e 15).
PGT - VAS - Obbligatorietà della VAS - Art. 11, c. 5, d.lgs. n. 152/2006 - Piani e programmi adottati senza la VAS - Annullabilità per violazione di legge.
L’art. 11, c. 5, del d.lgs. n. 152/2006 conferma l’assoluta obbligatorietà della VAS, tanto è vero che i provvedimenti amministrativi di approvazione di piani e programmi adottati senza la VAS, dove prescritta, <<sono annullabili per violazione di legge>>.
PGT - VAS - Autorità procedente - Scelta dell’autorità competente - Requisiti - Competenza tecnica e specializzazione - Imparzialità e indipendenza - Individuazione dell’autorità competente tra soggetti collocati all’interno dell’autorità procedente, legati da vincoli di subordinazione gerarchica - Illegittimità - Ragioni.
Nella scelta dell’autorità competente all’elaborazione della VAS, l’autorità procedente deve individuare soggetti pubblici che offrano idonee garanzie non solo di competenza tecnica e di specializzazione in materia di tutela ambientale, ma anche di imparzialità e di indipendenza rispetto alla stessa autorità procedente, allo scopo di assolvere la funzione di valutazione ambientale nella maniera più obiettiva possibile, senza condizionamenti -anche indiretti- da parte dell’autorità procedente.
Qualora quest’ultima, infatti, individuasse l’autorità competente esclusivamente fra soggetti collocati al proprio interno, legati magari da vincoli di subordinazione gerarchica rispetto agli organi politici o amministrativi di governo dell’Amministrazione, il ruolo di verifica ambientale finirebbe per perdere ogni efficacia, risolvendosi in un semplice passaggio burocratico interno, con il rischio tutt’altro che remoto di vanificare la finalità della disciplina sulla VAS e di conseguenza di pregiudicare la corretta applicazione delle norme comunitarie, frustrando così gli scopi perseguiti dalla Comunità Europea con la direttiva 2001/42/CE (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2010 n. 1526 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAPer "coperture stagionali" la l.r. n. 12/2005 della Lombardia non detta prescrizioni analitiche circa le dimensioni di tali coperture; tuttavia ragioni di ordine sistematico ed anche –in parte– letterale, inducono alla conclusione che debba trattarsi di dimensioni tutto sommato contenute, essendo tali opere destinate alla protezione delle colture e dei piccoli animali, quindi con dimensioni compatibili con la sola funzione di protezione e non con altre funzioni, quali ad esempio l’accesso delle persone –siano esse dipendenti dell’impresa o clienti della stessa– o l’esercizio nella struttura di attività commerciale di vendita.
Del resto, relativamente alla protezione degli animali, la legge regionale ha cura di specificare che si tratta di animali <<piccoli>> ed <<allevati all’aria aperta>>, con ciò stesso escludendo il ricorso alle coperture stagionali per la protezione di bestiame di grossa taglia –si pensi ad esempio ad un allevamento bovino– in quanto tali coperture finirebbero per assumere dimensioni tali da cagionare un rilevante impatto sul territorio, impatto che sarebbe incompatibile con il regime di totale liberalizzazione dell’attività edilizia di cui al comma secondo dell’art. 33 l.r. n. 12/2005.
Le colture e gli allevamenti da proteggersi attraverso le indicate "coperture stagionali" devono essere <<a pieno campo>> e tale espressione deve intendersi nel senso che le coperture devono svolgere una funzione di sola protezione e non altre di carattere produttivo o tanto meno commerciale.
Quanto al requisito della “stagionalità”, lo stesso non può che riferirsi ad un fenomeno relativo ad una sola parte dell’anno e quindi, nel caso di una copertura stagionale, quest’ultima deve essere collocata per una parte dell’anno solare e rimossa per la parte successiva. Al contrario, la permanenza dell’opera per l’intero anno, seppure con caratteristiche tecniche differenti al variare delle stagioni, esclude di per sé che possa parlarsi di “copertura stagionale”.
Devono escludersi per le strutture di cui è causa (n. 4 strutture aventi ognuna dimensioni di 8 metri x 22,80 metri, quindi una superficie di circa 180 metri quadrati ciascuna per un totale di quasi 800 metri quadrati) sia il carattere di semplice “copertura” sia quello di “stagionalità”, richiesti invece dall’art. 33 della legge regionale 12/2005.
La costruzione di una serra, anche se in astratto facilmente amovibile, presuppone il rilascio di concessione edilizia (ora, ovviamente, permesso di costruire), allorché la serra soddisfi stabilmente le esigenze di esercizio dell’impresa agricola e sia quindi destinata ad un indeterminata permanenza al suolo, modificando così definitivamente l’assetto urbanistico ed edilizio di una zona.
Ritiene il Collegio di esaminare in via prioritaria il motivo contrassegnato con la lettera C, relativo alla corretta classificazione giuridica delle strutture di cui è causa, che il Comune reputa essere “serre”, mentre la ricorrente vorrebbe qualificare come “coperture stagionali”, le quali, ai sensi dell’art. 33, comma 2, lett. d), della legge regionale 12/2005, possono essere realizzate senza alcun titolo edilizio.
La corretta qualificazione delle suddette strutture, infatti, assume rilevanza per la decisione di altri motivi di ricorso, fra cui in primo luogo quello contrassegnato con la lettera A, relativo al vincolo cimiteriale.
Ciò premesso, la pretesa della ricorrente di ricondurre alla figura delle “coperture stagionali” di cui al citato art. 33, le strutture dalla stessa realizzate, appare priva di pregio.
La lettera d) del secondo comma dell’art. 33, esclude la necessità di titolo edilizio per le <<coperture stagionali destinate a proteggere le colture ed i piccoli animali allevati all’aria aperta e a pieno campo, nelle aree destinate all’agricoltura>>.
Prescindendo dalla destinazione dell’area di cui è causa, occorre evidenziare come la legge regionale non detti prescrizioni analitiche circa le dimensioni di tali coperture; tuttavia ragioni di ordine sistematico ed anche –in parte– letterale, inducono alla conclusione che debba trattarsi di dimensioni tutto sommato contenute, essendo tali opere destinate alla protezione delle colture e dei piccoli animali, quindi con dimensioni compatibili con la sola funzione di protezione e non con altre funzioni, quali ad esempio l’accesso delle persone –siano esse dipendenti dell’impresa o clienti della stessa– o l’esercizio nella struttura di attività commerciale di vendita.
Del resto, relativamente alla protezione degli animali, la legge regionale ha cura di specificare che si tratta di animali <<piccoli>> ed <<allevati all’aria aperta>>, con ciò stesso escludendo il ricorso alle coperture stagionali per la protezione di bestiame di grossa taglia –si pensi ad esempio ad un allevamento bovino– in quanto tali coperture finirebbero per assumere dimensioni tali da cagionare un rilevante impatto sul territorio, impatto che sarebbe incompatibile con il regime di totale liberalizzazione dell’attività edilizia di cui al comma secondo dell’art. 33 citato.
Non si dimentichi poi, sempre con riguardo al dato letterale della norma, che le colture e gli allevamenti da proteggersi attraverso le indicate coperture devono essere <<a pieno campo>> e tale espressione deve intendersi nel senso, già sopra indicato, che le coperture devono svolgere una funzione di sola protezione e non altre di carattere produttivo o tanto meno commerciale.
Quanto al requisito della “stagionalità”, lo stesso non può che riferirsi ad un fenomeno relativo ad una sola parte dell’anno e quindi, nel caso di una copertura stagionale, quest’ultima deve essere collocata per una parte dell’anno solare e rimossa per la parte successiva. Al contrario, la permanenza dell’opera per l’intero anno, seppure con caratteristiche tecniche differenti al variare delle stagioni, esclude di per sé che possa parlarsi di “copertura stagionale”.
Si tratta, infatti, di quattro strutture, aventi ognuna dimensioni di 8 metri x 22,80 metri (cfr. doc. 6 e doc. 11 della ricorrente), quindi una superficie di circa 180 metri quadrati ciascuna per un totale di quasi 800 metri quadrati, destinate alla permanenza continua sul suolo, visto che le coperture sono sostituite semplicemente al cambio delle stagioni, come del resto ammesso nel ricorso (vedesi pag. 47 del medesimo, dove si parla di una <<duplice modalità di copertura>>, per la stagione estiva ed invernale), a nulla rilevando che, in presenza di particolari situazioni climatiche favorevoli, i teli siano eccezionalmente rimossi, per poi però essere nuovamente collocati, per agevolare il migliore sviluppo delle colture.
Del resto, la stessa documentazione fotografica di parte ricorrente (cfr. il suo doc. 25), evidenzia l’esistenza di strutture ampie, destinate non solo ad ospitare l’azienda florovivaistica, ma anche a consentire l’accesso del pubblico per l’esercizio dell’attività di vendita dei prodotti, visto che la signora Giani è titolare di autorizzazione regionale alla produzione ed al commercio di vegetali (doc. 4 ricorrente).
La documentazione fotografica del Comune (cfr. docc. 4, 5, 7 e 8 di quest’ultimo), mostra poi, con chiarezza, l’esistenza di ampie strutture, destinata alla coltivazione ed alla vendita, con accesso di pubblico.
Devono, di conseguenza, escludersi, per le strutture di cui è causa, sia il carattere di semplice “copertura” sia quello di “stagionalità”, richiesti invece dall’art. 33 della legge regionale 12/2005.
Neppure potrebbe sostenersi, come invece fatto in ricorso, che le quattro strutture sarebbero precarie e facilmente amovibili, per cui difetterebbe in capo alle stesso ogni requisito di stabilità, che presuppone il rilascio di un titolo abilitativo.
Si tratta, infatti, di opere infisse al suolo stabilmente, a nulla rilevando che le fondazioni in calcestruzzo riguardino non l’intero perimetro della struttura ma solo la parte in corrispondenza dell’ingresso, destinate a soddisfare esigenze di carattere continuativo, tanto è vero che le stesse sono presenti in loco ormai da tempo e che al loro interno è svolta senza soluzione di continuità l’attività imprenditoriale dell’esponente. Trattandosi poi di opere chiuse, salvo i limitatissimi periodi di scopertura per esigenze agricole, le stesse realizzano altresì nuovi volumi.
Pare corretta, di conseguenza, la loro qualificazione come vere e proprie “serre” e come tali necessitanti di un titolo abilitativo, conformemente al pacifico indirizzo giurisprudenziale, per il quale la costruzione di una serra, anche se in astratto facilmente amovibile, presuppone il rilascio di concessione edilizia (ora, ovviamente, permesso di costruire), allorché la serra soddisfi stabilmente le esigenze di esercizio dell’impresa agricola e sia quindi destinata ad un indeterminata permanenza al suolo, modificando così definitivamente l’assetto urbanistico ed edilizio di una zona (TAR Brescia, sez. I, 19.11.2009 n. 2223; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 19.11.2009 n. 2794; Consiglio di Stato, sez. IV, 06.03.2006 n. 1119; sez. V, 23.09.2002 n. 4832; sez. V, 08.06.2000 n. 3247; sez. V, 13.03.2000 n. 1299; Cassazione penale, sez. III, 10.01.2000)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.05.2010 n. 1234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: E' di competenza della giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di uno strumento urbanistico comunale, tenuto conto che l'art. 42 T.U. 267/2000 si riferisce solo ai pareri espressi (dal Consiglio) nell’ambito del procedimento di formazione dei suoi piani e dei suoi programmi, mentre esulano dalla previsione i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti.
L’ultimo motivo, in cui si rileva l’incompetenza della Giunta a rilasciare il parere di compatibilità con il PTCP ai sensi dell’art. 42 T.U. 267/2000, è infondato, alla luce della decisione del 28.05.2009 n. 3333 con cui il Consiglio di Stato (Sez. VI) ha ritenuto di competenza della giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di uno strumento urbanistico comunale, sull’assunto che la suddetta norma si riferisca solo ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione dei suoi piani e dei suoi programmi, mentre esulano dalla previsione i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.05.2010 n. 1221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2010

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 26.04.2010, "Approvazione del 3° aggiornamento dell'elenco degli Enti locali idonei all'esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite dall'art. 80 della legge regionale 11.03.2005 n. 12" (decreto D.G. 12.04.2010 n. 3539 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: 1. Art. 11, L.R. n. 12/2005 - Perequazione urbanistica - Principio della necessaria partecipazione di tutti i proprietari alla rendita edilizia - Sussiste - Obbligo di prevedere per tutte le aree del territorio comunale un identico indice di edificabilità territoriale, inferiore a quello minimo fondiario - Sussiste.
2. Impugnazione di strumento urbanistico recante nuove destinazioni - Affidamento generico del proprietario di un suolo edificabile alla reformatio in melius - Obbligo di motivazione specifica - Non sussiste, neppure in caso di preesistente possibilità edificatoria.
3. Impugnazione di strumento urbanistico recante nuove destinazioni - Affidamento generico del proprietario di un suolo edificabile alla reformatio in melius - Diniego di concessione edilizia espresso sulla base di una variante di piano annullata - Risarcibilità - Non sussiste - Danno da ritardo nell'adozione e approvazione di uno strumento urbanistico - Non sussiste.

1. L'istituto della perequazione di cui all'art. 11, L.R. n. 12/2005, richiede la previsione di un indice territoriale unico e di un indice fondiario minimo, il primo inferiore al secondo, di modo che i proprietari di aree edificabili (aree di trasformazione, ovvero aree "di atterraggio") siano tenuti ad acquisire la volumetria espressa dalle aree destinate a standard (aree "di decollo").
In altri termini, nel sistema perequativo legale la partecipazione di tutti i proprietari al mercato edilizio è necessaria e, nell'ambito della perequazione generalizzata ex art. 11, comma 2, L.R. 12/2005, il principio della necessaria partecipazione di tutti i proprietari alla rendita edilizia consegue all'obbligo di prevedere per tutte le aree del territorio comunale un "identico indice di edificabilità territoriale, inferiore a quello minimo fondiario".
2. L'affidamento generico alla reformatio in melius o alla non reformatio in pejus delle previsioni di uno strumento urbanistico non richiede una motivazione specifica delle nuove destinazioni urbanistiche oltre a quella che può evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione dello strumento, senza necessità di apposita motivazione riguardo alle destinazioni delle singole aree, neppure in caso di preesistente possibilità edificatoria, perché il mutamento di destinazione trova esauriente giustificazione, ai sensi dell'art. 10, comma 7, legge 17.08.1942, n. 1150, nelle sopravvenute ragioni che determinino la totale o parziale inattuabilità del piano o la convenienza di migliorarlo.
3. Laddove la posizione del proprietario di un suolo edificabile debba qualificarsi in termini di mera aspettativa, non sussistono i presupposti per l'instaurazione di un giudizio risarcitorio a seguito del diniego di concessione edilizia espresso sulla base di una variante di piano annullata, né è configurabile un danno da ritardo, anche solo in termini di chance, nell'adozione e approvazione di uno strumento urbanistico (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.04.2010 n. 1145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: E. Gariboldi, Programmazione negoziata: compensazione, perequazione ed incentivazione urbanistica (link a www.cameramministrativacomo.it).

marzo 2010

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Art. 35, comma 1, L.R. n. 12/2005 e art. 11, D.P.R. n. 380/2001 - Titolo per il rilascio del permesso di costruire - Diritto di proprietà e altri diritti reali o personali di godimento, purché con facoltà di attuare interventi sull'immobile - Necessità di accertamento del titolo da parte del Comune - Sussiste, limitatamente alla verifica di un titolo sostanziale idoneo a costituire la posizione legittimante.
Come noto, l'art. 35, comma 1, L.R. 12/2005 -riprendendo analoga formulazione dell'art. 11, D.P.R. n. 380/2001- stabilisce che il permesso di costruire venga rilasciato «al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo» e l'espressione legislativa «titolo per richiederlo» è stata intesa dalla giurisprudenza nel senso di posizione che civilisticamente costituisca titolo per esercitare sul fondo un'attività costruttiva.
Tale posizione soggettiva non coincide con il solo diritto di proprietà, ma anche con altri diritti reali o addirittura personali di godimento, purché attribuiscano al titolare la facoltà di attuare interventi sull'immobile.
Tenuto conto, pertanto, che la mancanza della proprietà o di altro titolo idoneo preclude il rilascio del permesso di costruire, l'Amministrazione comunale è chiamata allo svolgimento di un'attività istruttoria, per accertare la sussistenza del titolo legittimante.
Tuttavia, al Comune spetta soltanto la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la posizione legittimante, senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell'immobile, allegato da chi presenta istanza edilizia (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.03.2010 n. 842 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Interventi edilizi di manutenzione straordinaria.
Il decreto-legge 25.03.2010, n. 40, in vigore dal 26 marzo e principalmente dedicato a “disposizioni tributarie e finanziarie urgenti”, reca all’articolo 5 una nuova disciplina della cosiddetta “attività edilizia libera”.
Mediante la sostituzione dell’art. 6 del T.U. dell’edilizia (D.P.R. n. 380/2001), il legislatore statale procede ad una nuova individuazione degli interventi edilizi che possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo (DIA o permesso di costruire). L’innovazione principale consiste nel prevedere tra questi anche gli “interventi di manutenzione straordinaria … che non riguardino le parti strutturali dell’edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici”.
La nuova norma statale, contenuta nel D.L. n. 40, stabilisce tuttavia che sono fatte salve le “più restrittive disposizioni previste dalla disciplina regionale”. Ne consegue che essa, con particolare riferimento alla individuata fattispecie di manutenzione straordinaria, ad oggi non può trovare immediata applicazione in Lombardia, disponendo la nostra Regione di una disciplina più restrittiva, contenuta negli articoli 33 e 41 della L.R. n. 12/2005, che impone per questi interventi un previo titolo abilitativo (DIA piuttosto che permesso di costruire) (comunicato 31.03.2010 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 13 del 30.03.2010, "Il Piano Territoriale Regionale della Lombardia (2010) - Testo integrato degli elaborati approvati (d.c.r. del 19.01.2010, n. 951)" (comunicato regionale 15.03.2010 n. 37 - link a www.infopoint.it).
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Per vedere gli allegati del P.T.R. cliccare qui.

URBANISTICA: Lombardia, Fondo Regionale Aree Verdi, adempimenti per i comuni.
In attuazione dell’art. 43, comma 2-bis, della l.r. n. 12/2005, così come modificato dalla l.r. n. 7/2010, le Direzione Generali Territorio ed Urbanistica ed Agricoltura hanno istituito un fondo regionale da alimentarsi mediante le maggiorazioni dei contributi di costruzione applicate agli interventi di nuova costruzione che sottraggono superfici agricole nello stato di fatto. Tali interventi sono infatti assoggettati ad una maggiorazione percentuale del contributo di costruzione, determinata dai comuni entro un minimo dell’1,5 ed un massimo del 5 per cento, da destinare obbligatoriamente a interventi forestali a rilevanza ecologica e di incremento della naturalità.
Regione Lombardia aveva a suo tempo, con D.g.r. n. 8757 del 22/12/2008 “Linee guida per la maggiorazione del contributo di costruzione per il finanziamento di interventi estensivi delle superfici forestali” richiesto ai Comuni di individuare le “aree agricole nello stato di fatto” a cui applicare la maggiorazione. In assenza di specifiche determinazioni comunali in materia si intendono ad oggi valide le aree individuate nello strato DUSAF 2.0 – Uso del suolo 2005-2007, scaricabili dal geoportale regionale.
In data 10/02/10, la Giunta regionale, con D.g.r. n. 11297 ha approvato specifiche linee guida relative all’applicazione delle disposizioni di cui al comma 2-bis e le modalità di gestione di un fondo finanziario denominato “Fondo Aree Verdi”, attualmente in fase di avanzata definizione, la cui finalità è sostenere la realizzazione di interventi che perseguano obiettivi di sviluppo territoriale e di salvaguardia e valorizzazione del sistema rurale-paesistico-ambientale, in particolare mediante la valorizzazione dei contesti agricoli, forestali, naturali e paesaggistici e con attenzione al recupero delle aree degradate.
Il Fondo sarà alimentato da:
a) risorse regionali;
b) proventi delle maggiorazioni dei contributi di costruzione derivanti da interventi in aree ricadenti in:
- accordi di programma o programmi integrati di intervento di interesse regionale;
- comuni capoluogo di provincia;
- parchi regionali e nazionali;
c) proventi delle maggiorazioni che i comuni non capoluogo di provincia decidano di destinare al fondo.
Si rammenta ai Comuni l’obbligatorietà di attivarsi al fine di dare attuazione alla norma suddetta in vigore dal 12/04/2009.
La Regione predisporrà a breve le modalità e le specifiche tecniche secondo cui ogni Amministrazione dovràcomunicare:
- le aree agricole nello stato di fatto interessate da interventi che hanno dato titolo alla maggiorazione;
- le entrate determinate;
- gli interventi attuati attraverso l’utilizzo dei suddetti contributi (comunicato 29.03.2010 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 12 del 25.03.2010, "Testo coordinato della L.R. 11.03.2005 n. 12 «Legge per il governo del territorio»" (testo coordinato L.R. 11.03.2005 n. 12 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Concessione edilizia - Permesso di costruire - Procedimento - Scadenza termine per conclusione rilascio - Intervento sostitutivo
2. Procedimento - Osservazioni - Onere di risposta - Non necessità.

1. Per la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire l'infruttuoso decorso del termine complessivo di 75 giorni dalla presentazione della domanda costituisce presupposto per l'eventuale richiesta dell'intervento sostitutivo disciplinato dal successivo art. 39 l.r. 12/2005, e in particolare per la nomina di un commissario ad acta da parte della provincia: la presenza di un meccanismo sostitutivo esclude che il silenzio possa essere qualificato in senso favorevole al privato.
2. L'onere di cui all'art. 10, l. 07.08.1990 n. 241, non comporta la confutazione analitica dei rilievi, essendo sufficiente ai fini della giustificazione del provvedimento adottato la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso.
La norma deve essere letta in chiave sostanziale alla luce della ratio di consentire al privato di far valere le proprie ragioni nell'iter procedimentale, consentendo allo stesso quell'apporto partecipativo in grado di orientare in senso a lui favorevole il provvedimento finale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.03.2010 n. 1217 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Recupero sottotetti - Ratio - Praticabilità - Presupposto - Non sussiste.
In base alla ratio della l.r. 12/2005 di favorire la creazione di nuove residenze attraverso il razionale recupero dei sottotetti, evitando per tale via un ulteriore consumo territorio la ridotta dimensione e la non praticabilità del sottotetto da recuperare e la scarsa ampiezza del volume non sono elementi preclusivi alla realizzazione dell'opera, al punto che la novella del 1999 ha autorizzato l'innalzamento delle quote di gronda e di colmo per raggiungere le caratteristiche di abitabilità (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 10.03.2010 n. 1152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: LOMBARDIA: legge per il governo del territorio - Art. 26, comma 3-ter, L.R. n. 12/2005.
La recente l.r. 05.02.2010 n. 7 con l’art. 21, comma 1, lett. b), ha introdotto il comma 3-ter all’art. 26 della l.r. n. 12/2005 il quale ha posto dei dubbi -alle amministrazioni comunali- in ordine alle "procedure in corso alla data del 31.03.2010" dei piani attuativi in variante al P.R.G..
In merito, si è avuto in data 16.03.2010 l'intervento chiarificatore dal parte dell'Ing. Mario Nova, Direttore della D.G. Territorio e Urbanistica della Regione Lombardia, il quale è stato preceduto (in tempi non sospetti) da un autorevole commento di un noto legale milanese e, non appena di dominio pubblico, ha avuto una breve ed interessante replica dissimile nei contenuti interpretativi.

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, Serie Inserzioni e Concorsi n. 9 del 03.03.2010, "Direzione Generale Territorio e Urbanistica - Piani di Governo del Territorio: indicazioni ai Comuni a seguito dell'approvazione del Piano Territoriale Regionale" (comunicato regionale 25.02.2010 n. 29 - link a www.infopoint.it).

febbraio 2010

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord, al n. 8 del 26.02.2010, "Modifiche alla l.r. 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e alla l.r. 05.01.2010, n. 1 (Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31.03.1998, n. 112 «Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15.03.1997, n. 59»" (L.R. 22.02.2010 n. 12 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 22.02.2010, "Determinazioni inerenti la modalità di erogazione di contributi ai Comuni per la formazione dei Piani di Governo del Territorio in attuazione della l.r. n. 12/2005 «Legge per il governo del territorio»" (deliberazione G.R. 10.02.2010 n. 11364 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 22.02.2010, "Linee guida relative all'applicazione delle disposizioni di cui al comma 2-bis, art. 43, l.r. n. 12/2005 e modalità di gestione del fondo di cui al comma 2-bis 1, art. 43, l.r. n. 12/2005 («Fondo aree verdi»)" (deliberazione G.R. 10.02.2010 n. 11297 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: Lombardia, Indicazioni ai Comuni in seguito all'entrata in vigore del PTR.
Il Consiglio Regionale ha approvato con deliberazione del 19.01.2010, n. 951 (pubblicata sul 3° S.S. al BURL n. 6, del 11.02.2010) il Piano Territoriale Regionale.
Il Piano acquista efficacia, ai termini del comma 6 dell’art. 21 della l.r. 12/2005 “Legge per il governo del territorio” a seguito della pubblicazione dell’avviso di approvazione sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, prevista sul BURL, Serie Inserzioni e Concorsi del 17.02.2010 ... (link a www.territorio.lombardia.it).

URBANISTICA: Lombardia, Approvato il Piano Territoriale Regionale (PTR).
Il Consiglio Regionale della Lombardia ha approvato in via definitiva il Piano Territoriale Regionale con deliberazione del 19/01/2010, n. 951, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia n. 6, 3° Supplemento Straordinario dell'11.02.2010.
Con la chiusura dell’iter di approvazione del Piano, formalmente avviato nel dicembre 2005, si chiude il lungo percorso di stesura del principale strumento di programmazione delle politiche per la salvaguardia e lo sviluppo del territorio della Lombardia ... (link a www.territorio.lombardia.it).

URBANISTICA: Lombardia, Approvato il PTR, nuovi adempimenti per i Comuni.
Il 17.02.2010 con la pubblicazione dell'avviso di approvazione sul BURL S.I. entra in vigore il Piano Territoriale Regionale (PTR), quadro di riferimento per la pianificazione territoriale in Lombardia e di orientamento per le politiche di settore ... (link a www.territorio.lombardia.it).

gennaio 2010

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia: la Regione Lombardia alla prova di forza con il TAR (link a http://studiospallino.blogspot.com).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 3° suppl. straord. al n. 6 dell'11.02.2010, "Approvazione delle controdeduzioni alle osservazioni al Piano Territoriale Regionale adottato con d.c.r. n. 874 del 30.07.2009 - Approvazione del Piano Territoriale Regionale (articolo 21, comma 4, l.r. 11.03.2005 n. 12 «Legge per il governo del territorio»" (deliberazione C.R. 19.01.2010 n. 951 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 6 dell'08.02.2010, "Interventi normativi per l'attuazione della programmazione regionale e di modifica ed integrazione di disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2010" (L.R. 05.02.2010 n. 7 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 dell'11.01.2010, "Direzione Centrale Affari Istituzionali e Legislativo - Nomine e designazioni di competenza della Giunta regionale: Commissioni Regionali per il Paesaggio (rif. art. 78 l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il Governo del Territorio»" (comunicato regionale 04.01.2010 n. 1 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: 1. P.G.T. - Delibera di approvazione definitiva - Notifica alla Provincia - Necessità - Non sussiste - Pianificazione urbanistica - Natura - Procedimento esclusivamente comunale.
2. P.G.T. - Delibera di approvazione definitiva - Coinvolgimento della Provincia - Necessità - Solo in caso di piano territoriale di coordinamento adottato dalla Provincia.
3. P.G.T. - Osservazioni dei privati - Natura collaborativa - Limiti al potere comunale o regionale di apportare le modifiche ritenute necessarie al piano adottato - Non sussiste.
4. Aggiornamento della cartografia di piano con funzione meramente ricognitiva - Obbligo di ripubblicazione - Non sussiste.
5. Zone agricole - Rapporto tra L.R. 12/2005 e P.R.G. - Portata.
6. Zone agricole - Rapporto tra L.R. 12/2005 e P.R.G. - Computo dei volumi realizzabili - N.T.A. con ulteriori limiti volumetrici alle attrezzature ed alle infrastrutture produttive di cui all'art. 59, L.R. 12/2005 - Illegittimità.
7. Giustizia amministrativa - Onere della prova - Criterio generale - Applicabilità nel giudizio amministrativo-risarcitorio - Sussiste.

1. In caso di impugnazione di deliberazione del consiglio comunale che approvi in via definitiva atti di P.G.T. ai sensi della L.R. 11.03.2005 n. 12, la mancata notificazione del ricorso alla Provincia è eccezione che non merita accoglimento in quanto, a seguito dell'entrata in vigore della stessa L.R. 12/2005, la pianificazione urbanistica non si svolge più attraverso atti complessi, ma si configura come procedimento concentrato nell'ambito del Comune, in capo al quale l'art. 3, comma 20, L.R. 12/2005 prevede soltanto la trasmissione alla Provincia -per conoscenza- del piano regolatore approvato.
2. In materia di approvazione di P.G.T., il coinvolgimento della Provincia nel procedimento è solo eventuale in quanto si verifica esclusivamente se l'ente sovracomunale si è dotato di piano territoriale di coordinamento vigente (art. 13, comma 5, L.R. 12/2005): peraltro, la Provincia valuta esclusivamente la compatibilità del documento di piano con il proprio piano territoriale di coordinamento, svolgendo una funzione di coordinamento tra i vari livelli di pianificazione e non una partecipazione alle decisioni di pianificazione territoriale comunale.
3. In tema di adozione e approvazione di P.G.T., le osservazioni dei privati interessati hanno natura collaborativa e non costituiscono un rimedio in senso proprio che possa limitare il potere del Comune di apportare le modifiche ritenute necessarie al piano adottato, senza necessità di specifica motivazione con riferimento a tutte le richieste del privato (cfr. TAR Milano, sent. n. 4106/2008).
4. L'aggiornamento della cartografia di piano con funzione meramente ricognitiva non costituisce una modifica del piano tale da comportare una profonda modificazione dei criteri posti a base del piano stesso e pertanto non rende necessaria una nuova pubblicazione, con la conseguente raccolta delle nuove osservazioni (cfr. TAR Torino, sent. n. 2074/2008; TAR Pescara, sent. n. 30/2009; TAR Brescia, sent. n. 1318/2009; TAR Milano, sent. n. 4671/2009).
5. La potestà pianificatoria comunale preesiste alla disciplina legislativa e concorre con quella e con la potestà pianificatoria provinciale a dettare la disciplina delle aree agricole, così come confermato dall'art. 10, comma 4, lett. a), della L.R. 12/2005 che attribuisce al Piano delle Regole il compito di dettare, per le aree destinate all'agricoltura la disciplina d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia, in conformità con quanto previsto dal titolo terzo della parte seconda (art. 59 ss. L.R. 12/2005).
6. Il potere comunale di disciplinare le aree agricole, seppur non cancellato dalle previsioni della legge regionale di governo del territorio, trova comunque un limite nelle previsioni tassative stabilite dalla stessa L.R. 12/2005.
In particolare, in materia di computo dei volumi realizzabili, come stabilito dall'art. 59, comma 4, L.R. 12/2005, nel calcolo non devono essere sono conteggiate le attrezzature e le infrastrutture produttive di cui al comma 1, le quali non sono sottoposte a limiti volumetrici bensì solo a limiti di copertura che possono essere disciplinati dalla normativa comunale: è pertanto illegittima la norma delle n.t.a. comunali nella parte in cui contenga una disciplina dell'attività agricola che imponga limiti volumetrici alle attrezzature ed alle infrastrutture produttive previste dalla norma.
7. La regola generale dell'onere probatorio, secondo cui spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti su cui fonda la pretesa avanzata, trova integrale applicazione nel processo amministrativo in tutti i casi nei quali siano nella piena disponibilità della parte gli elementi atti a sostenere la fondatezza della domanda giudiziale azionata (cfr. C.d.S., sent. n. 551/1998): e ciò è tanto più valevole in sede di giudizio risarcitorio, nel quale non ricorre quella diseguaglianza di posizioni tra P.A. e privato che giustifica l'applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo (cfr. TAR Napoli, sent. n. 1794/2006) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.01.2010 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2009
dicembre 2009

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della L.R. n. 12/2005: 3^ lezione - Cambi di destinazione d'uso (Geometra Orobico n. 6/2009).

EDILIZIA PRIVATA: "Approvazione del secondo aggiornamento dell'elenco degli enti locali idonei all'esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite dall'art. 80 della legge regionale 11.03.2005 n. 12" (decreto D.G. 30.12.2009 n. 14545 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Comma 3-bis dell'art. 52 della L.R. n. 12/2005 introdotto dall'art. 1, comma 1, lett. m), della L.R. n. 12/2006 - Efficacia retroattiva - Non sussiste.
2. Intervento di manutenzione straordinaria realizzato senza DIA - Acquisizione al patrimonio del Comune - Non sussiste.

1. Il comma 3-bis dell'art. 52 della L.R. n. 12/2005 è stato introdotto con L.R. n. 12/2006 (art. 1, comma 1, lett. m) e non è applicabile, in virtù di quanto previsto dall'art. 11 delle preleggi, prima della sua entrata in vigore.
2. L'assenza di DIA per gli interventi qualificati come manutenzione straordinaria non dà luogo ad acquisizione, da parte del Comune, dell'immobile interessato da tali interventi realizzati senza il suddetto titolo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.12.2009 n. 6226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'esecuzione di opere edilizie finalizzate a mutare la destinazione d'uso di un laboratorio artigianale a centro sociale nonché ad attività di culto.
In seguito a sopralluogo il Comune ha contestato: la formazione di una nuova parete a tutta altezza in cartongesso, lunga 3,60 metri, che divide il locale principale dai servizi igienici; il posizionamento all’esterno del fabbricato, sul fronte che prospetta sulla pubblica via, di due unità esterne di climatizzazione ad un’altezza di m. 2,75; il cambiamento d’uso dell’immobile, destinato a centro sociale nonché ad attività di culto, che si svolgono ogni settimana il venerdì.
Ritenuto che le opere abusive configurino un intervento di manutenzione straordinaria, che l’installazione delle unità esterne di condizionamento non sia regolamentare (dovendo le medesime essere sistemate sulla copertura), e che il cambio di destinazione d’uso richieda il rilascio del permesso di costruire (ex art. 52, comma 3-bis, legge regionale n. 12 del 2005), il Comune, con ordinanza 26.08.2009 n. 109, preceduta da avviso di avvio del procedimento cui l’Associazione ha dato seguito con proprie osservazioni, ha ingiunto la demolizione delle opere abusive e il ripristino della destinazione d’uso artigianale antecedente l’attuale destinazione a luogo di culto, con preavviso di acquisizione dell’immobile in caso di inottemperanza.
Il ricorso, cui resiste il Comune, è fondato.
Va esaminata in via prioritaria, per ragioni logiche, la questione se il cambio di destinazione d’uso richiedesse o meno, nel caso de quo, il permesso di costruire.
L’art. 52, comma 3-bis, della legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge sul governo del territorio) stabilisce che “I mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire”.
Il comma 3-bis è stato introdotto dalla legge regionale 14.07.2006 n. 12 (art. 1, comma 1, lett. m), e non è applicabile prima della sua entrata in vigore.
Nel caso in esame, sebbene non vi sia prova della data in cui sono state eseguite le opere contestate dal Comune, e sebbene solo il contratto di locazione stipulato in data 14.04.2008 (e non anche quello antecedente, stipulato nell’ottobre 2005) preveda la destinazione dell’immobile a “circolo ricreativo”, è verosimile che tale destinazione risalga a data anteriore all’introduzione della norma, come si desume dalla nota del 29.10.2005 con la quale il Comune, nell’interloquire con il ricorrente, che aveva formulato una richiesta di utilizzo del campo sportivo, indirizzava la propria risposta al Centro, nella sede di piazza Dante 7.
Ne consegue che la norma de qua non è applicabile al caso in esame.
Gli abusi edilizi commessi dal ricorrente (realizzazione di un tramezzo e posizionamento irregolare delle unità esterne di condizionamento), in quanto finalizzati al mutamento di destinazione d’uso, vanno riguardati e valutati dunque sotto un’altra prospettiva, tenendo conto:
(a) che la disciplina regionale in materia distingue il regime dei mutamenti di destinazione d’uso secondo che siano conformi o non conformi alle previsioni urbanistiche (cfr. artt. 52 e 53 legge regionale n. 12 del 2005);
(b) che lo stesso Comune ha qualificato le opere abusive come opere di manutenzione straordinaria;
(c) che le opere di manutenzione straordinaria richiedono una semplice d.i.a., la cui mancanza non può dar luogo all’acquisizione dell’immobile (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.12.2009 n. 6226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 14.12.2009, "Modalità di istituzione delle commissioni regionali per i beni paesistici in attuazione del comma 1, art. 78, della l.r. 12/2005" (deliberazione G.R. 02.12.209 n. 10725 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATAFattispecie in materia di ristrutturazione - Demolizione e ricostruzione integrale in Lombardia (l.r. 12/2005).
In caso di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, lo spostamento di volumetria non può, dunque, ritenersi ammissibile –pena lo sconfinamento nella differente ipotesi della nuova costruzione– laddove vada ad incidere sul requisito della identità di sagoma, superfici e volumi richiesto dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001.
Il T.U. dell'edilizia ha ricompreso tra gli interventi di ristrutturazione edilizia “quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
L'art. 1 del decreto legislativo 27.12.2002, n. 301 ha modificato l'art. 3, in parte qua, eliminando la locuzione “fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche di materiali a quello preesistente” e l’ha sostituita con l’espressione “ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente” (art. 1, lett. a).
Anche escludendo il superato criterio della fedele ricostruzione, esigenze di interpretazione logico-sistematica della nuova normativa inducono tuttavia a ritenere che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi (fra le tante Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2008, n. 1177) (massima tratta da www.studiospallino.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.12.2009 n. 5268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Permesso di Costruire - Ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione - Nuova costruzione - Qualificazione intervento edilizio - Art. 3 D.P.R. n. 380/2001.
2. Permesso di costruire - Ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione - Spostamento di volumetria - Illegittimità.

1. L'art. 3 D.P.R. n. 380/2001 ricomprende tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quello consistente nella demolizione e ricostruzione che riproduca, tuttavia, le precedenti linee fondamentali dell'edificio preesistente quanto a sagoma, superfici e volumi perché ciò che la contraddistingue dalla nuova edificazione è, dunque, la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica, ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita ma, in quest'ultimo caso, con ricostruzione comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
2. In caso di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, lo spostamento di volumetria non può ritenersi ammissibile in quanto incide sul requisito della identità di sagoma, superfici e volumi richiesto dall'art. 3 D.P.R. n. 380/2001, risultando in tal caso l'intervento non qualificabile come ristrutturazione edilizia (mediante demolizione e ricostruzione) bensì quale nuova costruzione e, conseguentemente, illegittimo il permesso di costruire abilitativo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.12.2009 n. 5268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa 3^ sentenza, in materia di ristrutturazione edilizia, che sconfessa nuovamente il legislatore lombardo (L.R. n. 12/2005).
La ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi.
Con riferimento alla sagoma, nel caso di specie, non sussiste identità tra l’edificio oggi esistente e quello originario. Per tale ragione l’intervento non può qualificarsi quale ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione bensì quale nuova costruzione.
In caso di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, lo spostamento di volumetria non può, dunque, ritenersi ammissibile –pena lo sconfinamento nella differente ipotesi della nuova costruzione– laddove vada ad incidere sul requisito della identità d
i sagoma, superfici e volumi richiesto dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001.
Ai sensi dell’art. 3, c.1, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001 sono “interventi di ristrutturazione edilizia” (…) “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.”.
Il permesso di costruire impugnato ha ad oggetto un intervento di “demolizione e ricostruzione, su un medesimo sedime con ristrutturazione dell’esistente, spostamenti volumetrici nonché formazione di autorimesse interrate”.
Il concetto di ristrutturazione edilizia, quale enunciato dall'art. 31, lett. d), l. 05.08.1978, n. 431 (”interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono anche portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”), ha subito nel tempo diversificate interpretazioni e diffuse incertezze soprattutto riguardo alla ristrutturazione per demolizione e ricostruzione, nella ricerca degli elementi che distinguessero la fattispecie dalla ristrutturazione.
Ad un primo orientamento che escludeva la demolizione e ricostruzione dalla fattispecie di ristrutturazione (Cons. St., sez. V, 09.02.1996, n. 144), è seguito l'orientamento trasfuso nel Testo Unico dell'edilizia che ha compreso la fattispecie nella categoria della “ristrutturazione” purché “fedele” in quanto modalità estrema di conservazione dell'edificio preesistente nella sua consistenza strutturale, essendosi ritenuto che “la ricostruzione di un preesistente fabbricato senza variazione o alterazione della superficie, volumetria e destinazione d'uso, non incide sul carico urbanistico già esistente e non è pertanto assoggettato ad oneri né al rispetto degli indici sopravvenuti” (Cons. St., sez. V, 10.08.2000, n. 4397).
In recepimento degli indirizzi giurisprudenziali formatisi in materia, il T.U. dell'edilizia ha ricompreso tra gli interventi di ristrutturazione edilizia “quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
L'art. 1 del decreto legislativo 27.12.2002, n. 301 ha modificato l'art. 3, in parte qua, eliminando la locuzione “fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche di materiali a quello preesistente” e l’ha sostituita con l’espressione “ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente” (art. 1, lett. a).
Anche escludendo il superato criterio della fedele ricostruzione, esigenze di interpretazione logico-sistematica della nuova normativa inducono tuttavia la giurisprudenza a ritenere che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi (fra le tante Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2008, n. 1177).
Questa sezione ha, al riguardo, recentemente affermato, che "la previsione di cui al’art. 27 c. 1 l. d) della L.R. Lombardia 11.03.2005, n. 12 -che ricomprende tra gli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente- deve interpretarsi nel senso di prescrivere anche il rispetto della sagoma dell’edificio preesistente” in quanto tale requisito, previsto dall’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 380/2001, costituisce espressione di un principio generale che orienta anche l’interpretazione della legislazione regionale (TAR Lombardia Milano, sez. II, 16.01.2009, n. 153).
Ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è, dunque, la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un «insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente»), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non «fedele» (termine espunto dall'attuale disciplina), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente (Consiglio Stato, sez. VI, 16.12.2008, n. 6214).
Nel caso di specie, quantomeno con riferimento alla sagoma, come evincibile dall’allegato P alla consulenza tecnica esperita dinanzi al Tribunale di Monza nella causa intentata dalla Cascina Paolina s.r.l. nei confronti della Doma s.r.l., non sussiste identità tra l’edificio oggi esistente e quello originario.
Per tale ragione l’intervento non può qualificarsi quale ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione bensì quale nuova costruzione; sono state, pertanto, violate le disposizioni delle n.t.a. relative alle nuove edificazioni.
In caso di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, lo spostamento di volumetria non può, dunque, ritenersi ammissibile –pena lo sconfinamento nella differente ipotesi della nuova costruzione– laddove vada ad incidere sul requisito della identità di sagoma, superfici e volumi richiesto dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.12.2009 n. 5268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2009

EDILIZIA PRIVATAIndici della presenza di una ristrutturazione (anziché di restauro e risanamento conservativo) sono l’importanza dell’intervento (criterio quantitativo) e l’aggiunta di nuovi elementi non finalizzati al recupero dell’esistente (criterio qualitativo).
La ristrutturazione è un concetto non sovrapponibile a quello di superficie lorda di pavimento, nel senso che può esservi la prima anche quando le norme comunali escludano la presenza della seconda. Parimenti la superficie utilizzata per il calcolo del contributo di costruzione nella ristrutturazione non corrisponde necessariamente alla superficie lorda di pavimento.
Per stabilire se vi sia ristrutturazione (e quindi se l’intervento edilizio sia oneroso) occorre infatti valutare le opere nel loro complesso indipendentemente dal fatto che si realizzi un guadagno di superficie lorda di pavimento.
L’art. 27, comma 1, lett. d), della LR 11.03.2005 n. 12 (che codifica ora la materia riprendendo per questa parte nozioni consolidate) individua la ristrutturazione in un insieme sistematico di opere che possono portare a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Indici della presenza di una ristrutturazione (anziché di restauro e risanamento conservativo) sono l’importanza dell’intervento (criterio quantitativo) e l’aggiunta di nuovi elementi non finalizzati al recupero dell’esistente (criterio qualitativo).
Nel caso in esame le demolizioni e ricostruzioni (che hanno interessato in modo coordinato i tre piani di proprietà del ricorrente) e la chiusura dell’altana (che ha permesso di aggiungere un nuovo locale funzionalmente e strutturalmente collegato a quelli dei piani inferiori) corrispondono alla descrizione di un intervento di ristrutturazione. Il fatto che il nuovo locale sia accessorio nella destinazione è irrilevante, in quanto deve essere preso in considerazione per l’utilità aggiuntiva che apporta al resto dell’unità abitativa. Nella sostanza quindi la decisione del Comune sull’onerosità del titolo edilizio appare corretta (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 02.11.2009 n. 1785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2009

URBANISTICA: Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della L.R. n. 12/2005: 2^ lezione - parte B (gli atti di programmazione negoziata) (Geometra Orobico n. 5/2009).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: W. Fumagalli, Le nuove norme sul Governo del Territorio (AL n. 5/2009).

settembre 2009

URBANISTICA: Zone agricole - Rapporto tra le previsioni della L.R. 12/2005 e del P.R.G. - Portata.
Le previsioni della L.R. 12/2005 che disciplinano le zone agricole non preclusono all'autorità urbanistica l'esercizio del più pieno potere di pianificazione del territorio, anche in funzione di salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici.
Le predette disposizioni della L.R. si applicano dunque in via sussidiaria, solo ove manchino specifiche prescrizioni dello strumento urbanistico, e non rendono illegittime le scelte inerenti alla assoluta inedificabilità e immodificabilità delle aree agricole, ovvero quelle che subordinano l'identificazione delle possibili modifiche all'adozione di un piano attuativo, volto alla razionale gestione del territorio posto all'interno dell'istituendo parco (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.09.2009 n. 4749 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: EDIFICABILITA' NELLE AREE AGRICOLE.
1.- Attività edilizia - Limitata - Per le zone agricole "E" - Normativa applicabile - Art. 2, L.R. Lombardia n. 93/1980 - In via sussidiaria alla pianificazione urbanistica comunale.
2.- Autorizzazione - Alla escavazione di un pozzo - Tutela affidamento privato alla successiva realizzazione di un edificio - Non sussiste.
3.- Zone agricole "E" - Poteri comunali - Sussistenza - Delimitazione - In relazione alla L.R. Lombardia n. 12/2005.
4.- Edificabilità su aree agricole - Art. 59, co. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 - Limiti massimi - Potere comunale - Esercitabile - Entro i limiti.
5.- Edificabilità in aree agricole - Art. 59, L.R. Lombardia n. 12/2005 - Criteri di riferimento per individuare i soggetti legittimati a costruire.

1.- L'articolo 2 della L.R. n. 93/1980, nel prevedere la normativa applicabile nei territori dei Comuni per le zone agricole "E", non ha precluso all'autorità urbanistica l'esercizio del più pieno potere di pianificazione del territorio, anche in funzione di salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici.
Le disposizioni dell'art. 2 della legge regionale si applicano in via sussidiaria, solo ove manchino specifiche prescrizioni dello strumento urbanistico, e non rendono illegittime le scelte inerenti alla assoluta inedificabilità e immodificabilità delle aree agricole, ovvero quelle che subordinano l'identificazione delle possibili modifiche all'adozione di un piano attuativo, volto alla razionale gestione del territorio.
2.- Nessuna tutela dell'affidamento può derivare da atti diretti a scopi diversi ed aventi ad oggetto beni diversi da quelli che il privato si aspetta di acquisire dall'amministrazione. Non è possibile ritenere che l'autorizzazione all'escavazione di un pozzo possa costituire implicita manifestazione di assenso alla realizzazione di edifici in zona agricola in quanto si tratta di atto relativo semplicemente alla conduzione agricola del fondo indipendentemente dalle sue modalità.
3.- La L.R. n. 12/2005 (che ha sostanzialmente riprodotto le disposizioni della L.R. 07.06.1980 n. 93 - Norme in materia di edificazione nelle zone agricole) demanda alla strumentazione urbanistica comunale (oggi Piano delle regole) oltre all'individuazione delle aree destinate all'agricoltura, la definizione della relativa "disciplina d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia" (art. 10, co. 4, lett. a, punto 1), in conformità con quanto previsto dagli artt. 59 ss. della stessa legge regionale.
4.- Con riferimento, alle costruzioni con finalità (anche) residenziale, occorre evidenziare che l'art. 59, co. 3, L.R. n. 12/2005 stabilisce indici edificatori che costituiscono per il pianificatore comunale solo un limite massimo.
Tale inciso, letto in correlazione con i nuovi poteri pianificatori comunali di cui all'art. 10, co. 4, lett. a) punto 1 e con il principio di sussidiarietà verticale di cui all'art. 118, co. 1, Cost., porta alla conclusione che se il Comune non può prevedere limiti superiori a quelli contenuti nell'art. 59 (in forza della norma di prevalenza ex art. 61) non per questo allo stesso è sottratto il potere di stabilire limiti inferiori od altri tipi di limiti, nel rispetto delle altre fonti normative e dei principi generali dell'azione amministrativa.
In sostanza la previsione di uno "statuto" della disciplina edificatoria nelle aree agricole, determinato direttamente con legge, mediante una disciplina edificatoria inderogabile e direttamente applicabile sull'intero territorio regionale, pare volto a dettare una disciplina uniforme nei limiti massimi, diretta a tutelare, piuttosto che le esigenze edificatorie dell'agricoltura intesa come produzione, la funzione generale di contenimento dell'attività edilizia in zona agricola anche prevalendo su norme più permissive introdotte a livello locale.
Ne consegue che tale disciplina non impedisce al Comune di individuare altri interessi di valore preminente che, riguardando anche le zone agricole, comportino l'adozione di una disciplina più restrittiva dell'edificabilità agricola.
5.- L'articolo 59 della L.R. n. 12/2005 prevede che l'azienda costituisca il criterio di riferimento per individuare i soggetti legittimati a costruire in zona agricola (l'imprenditore agricolo ed i dipendenti dell'azienda) e correla i limiti volumetrici per le attrezzature e le infrastrutture produttive alla superficie aziendale.
Il riferimento contenuto nell'art. 12.4 delle n.t.a. al complesso aziendale per disciplinare l'edificabilità costituisce quindi un criterio che trova fondamento nello statuto delle aree agricole stabilito dalla legge regionale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.09.2009 n. 4749 - link a
http://mondolegale.it).

EDILIZIA PRIVATA: Piano attuativo - Incompetenza - Dirigente comunale - Sussiste.
Nel regime transitorio di cui all'art. 25 della legge regionale 12/2005 che dispone che sino all'adeguamento degli strumenti urbanistici alle disposizioni dell'articolo della L.R. 12/2005 i piani attuativi sono approvati con la procedura di cui all'articolo 3 della l.r. 23/1997 è illegittimo il provvedimento del dirigente comunale di diniego definitivo dell'approvazione del piano attuativo, trattandosi di competenza espressamente riservata dalla legge al consiglio comunale (il TAR ha tuttavia precisato che il responsabile dell'istruttoria è pienamente titolato a rilevare eventuali ragioni di contrasto tra la proposta di piano attuativo e la normativa urbanistica, e chiudere l'istruttoria con un atto negativo e che, pertanto, ove tale atto determini un arresto procedimentale, esso è immediatamente impugnabile dinanzi al giudice amministrativo, al quale non è precluso di conoscere anche delle censure di carattere sostanziale rivolte contro il medesimo) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.09.2009 n. 4745 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’utilizzo della propria residenza per riunioni di adepti, a scopo religioso, culturale, associativo in genere, non è di per sé sufficiente a configurare un illecito edilizio suscettibile di essere sanzionato ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. n. 380 del 2001 (t.u. edilizia); né lo è lo svolgimento saltuario di pratiche di culto in un luogo strutturato e destinato ad abitazione.
Il ricorrente, proprietario di una casa con giardino, in cui risiede con la famiglia, premesso che il vicino avrebbe adibito a tempio buddista, mutandone la destinazione, l’unità immobiliare adiacente, anch’essa posta in zona residenziale B2, ha chiesto al Comune (istanze 30.07.2007 e 22.09.2008) di accertare e sanzionare con le misure appropriate il cambio di destinazione d’uso dell’immobile.
L’art. 52 della legge regionale n. 12/2005 (legge per il governo del territorio) stabilisce [comma 3-bis, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. m), legge regionale 14.07.2006 n. 12] che “i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire”.
Nel caso in esame è pacifico che l’immobile in questione ha destinazione residenziale, è strutturato per tale funzione e non ha subito alcun intervento edilizio volto ad adibirlo, con modifiche strutturali, ad una funzione diversa.
Si tratta di vedere se lo svolgimento delle attività denunciate dal ricorrente integri quella diversa destinazione d’uso che richiederebbe, secondo la norma regionale, il rilascio di un titolo edilizio.
Ritiene il Collegio che al quesito debba darsi, nel caso in esame, risposta negativa.
Il mutamento di destinazione rilevante ai fini in discorso è quello che altera, sia pure senza opere, la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa. In tal caso l’immobile perde la destinazione originariamente assentita per assumere la funzione diversa che gli viene assegnata.
Altra cosa è l’uso di fatto dell’immobile in relazione alle molteplici attività umane che il titolare è libero di esplicare. La destinazione d'uso impressa a determinati locali dal titolo autorizzativo non riguarda, infatti, le attività umane che vi si svolgono, ossia i c.d. usi di fatto (cfr. Cons. Stato V 23.02.2000 n. 949, 28.01.1997 n. 77). Ove detti usi e attività diano luogo a comportamenti illeciti (immissioni non consentite, schiamazzi, ecc.), ben possono essere oggetto di sanzioni penali, civili, ed amministrative, incidenti sulla condotta dei responsabili, laddove l’applicazione di sanzioni edilizie coinvolgenti (anche) le strutture (rimessione in pristino e, in caso di inottemperanza, acquisizione al patrimonio comunale) postula un quid pluris, che nella specie non è dato ravvisare.
Considerate le risultanze dell’istruttoria effettuata dal Comune, non sono ravvisabili infatti elementi idonei a configurare un mutamento di destinazione d’uso rilevante sotto il profilo edilizio.
L’utilizzo della propria residenza per riunioni di adepti, a scopo religioso, culturale, associativo in genere, non è di per sé sufficiente a configurare un illecito edilizio suscettibile di essere sanzionato ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. n. 380 del 2001 (t.u. edilizia); né lo è lo svolgimento saltuario di pratiche di culto in un luogo strutturato e destinato ad abitazione.
Se ciò di cui il ricorrente si duole è il disturbo derivante dalle pratiche di culto (cfr. istanza 11.05.2009) ovvero la “intollerabile immissione di rumori eccedenti i limiti imposti dalla legge e dalla convivenza civile” (cfr. diffida 07.03.2007 indirizzata al vicino), resta ovviamente salva la facoltà di adire il giudice ordinario qualora, in relazione all’afflusso di persone e al disturbo cagionato in occasione delle suddette cerimonie religiose, si registrino immissioni moleste che eccedono la normale tollerabilità (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.09.2009 n. 4665 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2009

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 34 del 25.08.2009, "Adozione del Piano Territoriale Regionale (art. 21 l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il Governo del Territorio»)" (deliberazione C.R. 30.07.2009 n. 874 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: Lombardia, Il Piano Territoriale Regionale (PTR) adottato dal Consiglio: breve presentazione dei contenuti (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 10.08.2009, "Modalità per il sostegno finanziario degli Enti locali e degli Enti gestori delle aree regionali protette per l'esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite (art. 79, l.r. n. 12/2005)" (deliberazione G.R. 29.07.2009 n. 9964 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATALombardia, 300.000 euro agli enti locali per la gestione delle competenze paesaggistiche.
Anche per il 2009 Regione Lombardia assegnerà contributi per 300.000 euro agli enti locali per la gestione delle competenze paesaggistiche (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 10.08.2009, "Disposizioni per l'esercizio dei poteri sostitutivi regionali per l'avvio del procedimento di approvazione del PGT (art. 26, comma 3, l.r. n. 12/2005) - Modifica della d.g.r. n. 41493/99 in materia di criteri, modalità, formazione, gestione e articolazione dell'albo dei commissari ad acta" (deliberazione G.R. 29.07.2009 n. 9963 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICALombardia, Piani di governo del territorio, commissari per i Comuni inadempienti (link a www.territotio.regione.lombardia.it).

URBANISTICA: Lombardia, Adottato il Piano Territoriale Regionale (PTR) (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

URBANISTICAIndicazioni operative sulla verifica della componente geologica dei P.G.T. da parte delle Province (regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, nota 03.08.2009 n. 15628 di prot.).

URBANISTICA: Lombardia, Corso di specializzazione sull'applicazione della L.R. n. 12/2005: 2^ lezione - parte A (diritti edificatori) (Geometra Orobico n. 4/2009).

luglio 2009

URBANISTICA: Sull’accesso agli atti di adozione del PGT nella Regione Lombardia.
La mancata previsione nella legislazione urbanistica del "diritto degli interessati" non solo "di prendere visione", ma anche "di estrarre copia di documenti amministrativi" (art. 22, comma 1, legge n. 241 del 1990), non può ritenersi in contrasto con i principi di trasparenza e di partecipazione, sottesi alla legge generale sul procedimento amministrativo.
La fattispecie, oggetto dello scrutinio dei Giudici di Palazzo Spada (ndr: che conferma TAR Lombardia-Brescia, sentenza 08.04.2009 n. 814), concerne la pretesa d’accesso agli atti del procedimento di adozione dello strumento urbanistico di pianificazione comunale denominato “Piano di governo del territorio” (PGT), previsto dall’art. 7 della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 e s.m..
Il GA, preliminarmente, ricorda che l’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n. 241 del 1990 e s.m., secondo cui "il diritto di accesso è escluso…nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione", esclude espressamente dall’ambito di applicazione delle norme generali sull’accesso quelle attività dell’amministrazione rivolte anche all’adozione ed all’approvazione degli strumenti di pianificazione urbanistica.
In tal caso, quindi, la trasparenza degli atti -volti all’emanazione degli strumenti urbanistici- continua ad essere disciplinata dalle norme speciali che la regolavano, prevalenti su quelle generali, secondo il criterio risolutore di antinomie normative previsto dal principio di specialità (che, nella materia urbanistica, è interpretato dalla giurisprudenza amministrativa in termini di prevalenza esclusiva e non di mera integrazione tra fonti di produzione del diritto; cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6436/2002 e sez. V n. 1479/1998).
Con particolare riguardo all’esercizio del diritto d’accesso nei confronti degli atti dei procedimenti di adozione di strumenti urbanistici, è applicabile l’art. 9, 1° comma, della legge urbanistica n. 1150 del 1942, che testualmente dispone: "il progetto di piano regolatore generale del Comune deve essere depositato nella Segreteria comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha facoltà di prendere visione. L'effettuato deposito è reso noto al pubblico nei modi che saranno stabiliti nel regolamento di esecuzione della presente legge".
Pertanto, gli atti dei procedimenti amministrativi, volti all’approvazione degli strumenti di piano, sono accessibili agli interessati nelle seguenti forme:
- deposito al pubblico del progetto di piano con relativi elaborati;
- pubblicazione dell’avvenuto deposito;
- visione dello stesso da parte di ogni soggetto interessato.
Non è previsto, invece, un diritto di effettuare copia dei documenti che compongono il piano in corso di approvazione.
Infatti, l’art. 13 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 e s.m., rubricato Approvazione degli atti costituenti il piano di governo del territorio, al comma 4° dispone che "entro novanta giorni dall'adozione, gli atti di PGT sono depositati, a pena di inefficacia degli stessi, nella segreteria comunale per un periodo continuativo di trenta giorni, ai fini della presentazione di osservazioni nei successivi trenta giorni. Del deposito degli atti è fatta, a cura del comune, pubblicità sul Bollettino ufficiale della Regione e su almeno un quotidiano o periodico a diffusione locale".
In particolare, la Sez. IV ritiene che la ragione per cui la legge n. 241 del 1990 ha escluso dall'ambito di applicazione delle norme generali sull'accesso i procedimenti di pianificazione generale, compresi quelli in materia urbanistica, sta nel fatto che, trattandosi di procedimenti con destinatari non determinati e astrattamente illimitati, finalizzati ad incidere su intere collettività, per essi non può ammettersi un diritto di estrazione di copia che rischierebbe, attesa la potenziale moltitudine di richiedenti, di vanificare il correlato e paritario principio costituzionale di buon andamento, nei suoi contenuti precettivi dell’azione amministrativa di economicità, celerità ed efficacia (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.07.2009 n. 4838 - link a www.altalex.com).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: E' illegittimo che la provincia valuti la compatibilità del documento di piano del P.G.T., con il proprio piano territoriale di coordinamento (P.T.C.P.), mediante provvedimento della Giunta/Consiglio anziché con determina dirigenziale.
La lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Nel caso in esame, la Provincia è chiamata appunto ad una “valutazione di compatibilità” tra due strumenti urbanistici di diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra le previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT) rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro al quale sono estranee valutazioni di merito; a maggior ragione esso non implica alcuna di quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del consiglio provinciale ex art. 42, primo comma t.u.e.l., che definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”.
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Dall’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.), si desume che la giunta compie gli atti che non sono riservati al consiglio, e che non rientrano nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono tra l’altro (art. 107, secondo comma, lettera f) “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché (lettera h) “le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in questione (a) mira esclusivamente a verificare, attraverso la mera comparazione del contenuto dei due piani, il rispetto del PTCP da parte del piano comunale di governo del territorio, e (b) non implica, come osservato, profili di discrezionalità, se ne trae che essa non si configura come atto di indirizzo, ma tende alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale, ed è pertanto riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.

Il Comune di Vertemate con Minoprio ha adottato (delibera consiliare 29.07.2008 n. 27) il piano di governo del territorio (PGT), e lo ha trasmesso alla Provincia di Como -ex art. 13, comma 5, legge regionale lombarda 11.03.2005 n. 12- per la valutazione di compatibilità con il piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP).
Con provvedimento 16.12.2008, assunto dal Dirigente del Settore pianificazione territoriale, la Provincia di Como ha attestato la compatibilità del PGT col PTCP a condizione che venissero recepite determinate prescrizioni e apportate al PGT le conseguenti modifiche.
Il Comune ha controdedotto alle osservazioni dei privati e alle valutazioni della Provincia, approvando il PGT con delibera consiliare 15.01.2009 n. 1.
Per quanto riguarda la valutazione di compatibilità effettuata dalla Provincia, il Comune ha ritenuto il provvedimento dirigenziale viziato da “difetto assoluto di attribuzione”, qualificandolo come tale “inidoneo a produrre gli effetti della valutazione di compatibilità del PGT con il PTCP”. Ha peraltro controdedotto, “ad abundantiam”, con apposito documento, alle valutazioni della Provincia “anche a sostegno delle scelte urbanistiche effettuate dal consiglio comunale”.
Nel contempo, peraltro, il Comune ha impugnato il provvedimento dirigenziale col ricorso n. 460/2009, deducendo i seguenti motivi:
- incompetenza del dirigente, dovendo il parere di compatibilità essere reso dal consiglio provinciale; il provvedimento sarebbe anzi nullo, ex art. 21-septies legge n. 241/1990, per difetto assoluto di attribuzioni, essendosi il dirigente arrogato un potere di indirizzo e di controllo politico-amministrativo riservato all’organo di governo dell’ente;
- violazione dell’art. 13 legge regionale n. 12 del 2005, eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione, contraddittorietà e travisamento dei presupposti di fatto e di diritto: anziché limitarsi ad effettuare la valutazione di compatibilità tra PGT e PTCP, lasciando al Comune il potere di individuare le possibili soluzioni per ricomporre il contrasto tra i due strumenti urbanistici, la Provincia avrebbe -con le prescrizioni dettate alle pagg. 19~22 del provvedimento impugnato- imposto modificazioni sostanziali al PGT adottato, individuando le destinazioni funzionali che il Comune sarebbe tenuto a recepire a pena di inefficacia degli atti assunti; le singole prescrizioni sarebbero poi illegittime per i motivi esposti nelle controdeduzioni comunali, riprodotte in ricorso quale parte integrante e sostanziale.
...

La questione di competenza, sollevata dal Comune con il primo motivo del ricorso n. 460/2009, è infondata.
L’art. 13 della legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per il governo del territorio) disciplina la procedura di approvazione degli atti costituenti il piano di governo del territorio.
Il quinto comma [nel testo modificato dall'art. 1, comma 1, lett. u), della l.r. 14.03.2008, n. 4], stabilisce testualmente: “5. Il documento di piano, il piano dei servizi e il piano delle regole, contemporaneamente al deposito, sono trasmessi alla provincia se dotata di piano territoriale di coordinamento vigente. La provincia, garantendo il confronto con il comune interessato, valuta esclusivamente la compatibilità del documento di piano con il proprio piano territoriale di coordinamento entro centoventi giorni dal ricevimento della relativa documentazione, decorsi inutilmente i quali la valutazione si intende espressa favorevolmente. Qualora il comune abbia presentato anche proposta di modifica o integrazione degli atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono assunte con deliberazione di giunta provinciale. In caso di assenso alla modifica, il comune può sospendere la procedura di approvazione del proprio documento di piano sino alla definitiva approvazione, nelle forme previste dalla vigente legislazione e dalla presente legge, della modifica dell’atto di pianificazione provinciale di cui trattasi, oppure richiedere la conclusione della fase valutativa, nel qual caso le parti del documento di piano connesse alla richiesta modifica della pianificazione provinciale acquistano efficacia alla definitiva approvazione della modifica medesima. In ogni caso, detta proposta comunale si intende respinta qualora la provincia non si pronunci in merito entro centoventi giorni dalla trasmissione della proposta stessa”.
Il Comune sostiene che la competenza ad esprimere la valutazione di compatibilità del PGT con il PTCP spetterebbe al consiglio provinciale, ai sensi dell’art. 42, secondo comma, lett. b), del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), il quale, nel disciplinare le attribuzioni dei consigli (comunali e provinciali) stabilisce che “il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: …. b) programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”.
La valutazione di compatibilità di cui trattasi sarebbe appunto oggetto di un parere riservato al consiglio provinciale, cui spetterebbe di valutare la compatibilità del piano comunale con il proprio piano territoriale di coordinamento, quale strumento urbanistico sovraordinato e, per taluni profili, prevalente.
La tesi non può essere, alla stregua della giurisprudenza più recente, condivisa.
Sia pure in una vicenda in cui era stata contestato, per incompetenza, un provvedimento emesso in materia non da un dirigente, ma dalla giunta provinciale, il Consiglio di Stato ha statuito (sentenza 28.05.2009 n. 3333, Sez. IV) che la lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”, sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Nel caso in esame, la Provincia è chiamata appunto ad una “valutazione di compatibilità” tra due strumenti urbanistici di diverso livello, al fine di verificare, dal riscontro tra le previsioni dell’uno e dell’altro, se quello sottordinato (PGT) rispetti le previsioni del piano sovraordinato (PTCP).
Si tratta di un riscontro al quale sono estranee valutazioni di merito; a maggior ragione esso non implica alcuna di quelle scelte di indirizzo che radicano la competenza del consiglio provinciale ex art. 42, primo comma t.u.e.l., che definisce il consiglio come “organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”.
Tanto basta a disattendere la tesi secondo cui la valutazione di compatibilità in questione sarebbe riservata al consiglio provinciale.
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Sempre a sostegno della censura di incompetenza, il Comune denuncia la violazione dell’art. 107 del t.u.e.l., per avere il dirigente provinciale “invaso le attribuzioni riservate agli organi di governo dell’Ente”: il che comporterebbe -secondo l’assunto comunale- nullità dell’atto (ex art. 21-septies legge n. 241/1990) per difetto assoluto di attribuzioni, o quanto meno annullabilità dello stesso per violazione dell’ordine delle competenze.
Ora, una volta esclusa -per le ragioni esposte al punto che precede- una riserva di competenza al consiglio provinciale, si deve esaminare se la censura del Comune possa avere fondamento sotto un diverso profilo, nel senso cioè che la competenza in materia appartenga alla giunta provinciale, anch’essa “organo di governo dell’ente” (art. 36 t.u.e.l.): tesi sulla quale punta la difesa comunale, dopo avere preso atto -nella memoria depositata il 19.06.2009- della recente statuizione del giudice di appello.
Al riguardo va osservato che la menzionata sentenza n. 3333/2009 del Consiglio di Stato non ha affermato (positivamente e definitivamente) la competenza della giunta provinciale, ma si è limitata ad escludere la riserva di competenza al consiglio in una fattispecie in cui la valutazione di compatibilità -rispetto al sopraordinato PTCP- di un P.I.I. (programma integrato di intervento), adottato da altro comune in variante al PRG, era stata effettuata dalla giunta provinciale con provvedimento impugnato per incompetenza.
Non si può trarre dunque argomento, sic et simpliciter, dalla sentenza citata per desumerne tout court la competenza della giunta e l’incompetenza del dirigente.
Ciò premesso, ritiene il Collegio che al quesito di cui sopra (se cioè nella vicenda in esame sia stato invaso un ambito di attribuzioni riservato alla giunta provinciale) debba darsi risposta negativa, alla luce sia della normativa regionale di settore, sia della disciplina generale delle attribuzioni dirigenziali.
L’art. 13, quinto comma, della legge regionale n. 12/2005 (di cui si è riportato il testo al precedente punto 5.) dispone che “qualora il comune abbia presentato anche proposta di modifica o integrazione degli atti di pianificazione provinciale, le determinazioni in merito sono assunte con deliberazione di giunta provinciale”: il che lascia arguire che la competenza della giunta provinciale insorga nel solo caso in cui occorra delibare se la proposta di modifica sia o meno assentibile ai fini della sospensione ovvero del proseguimento della procedura di approvazione del PGT, secondo una delle opzioni previste dallo stesso comma, ferma restando comunque la competenza del consiglio provinciale per la “definitiva approvazione…. della modifica dell’atto di pianificazione provinciale”.
Dall’art. 48 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (t.u.e.l.), si desume, d’altro canto, che la giunta compie gli atti che non sono riservati al consiglio, e che non rientrano nelle competenze del presidente o nelle attribuzioni dei dirigenti.
A questi ultimi, l’art. 107, secondo comma, del t.u. assegna “tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente” (secondo comma), nonché (terzo comma) “l’attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati” dagli organi di governo.
Ai dirigenti competono tra l’altro (art. 107, secondo comma, lettera f) “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”; nonché (lettera h) “le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza”.
Se si considera che la valutazione di compatibilità in questione (a) mira esclusivamente a verificare, attraverso la mera comparazione del contenuto dei due piani, il rispetto del PTCP da parte del piano comunale di governo del territorio, e (b) non implica, come osservato, profili di discrezionalità, se ne trae che essa non si configura come atto di indirizzo, ma tende alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale, ed è pertanto riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
In conclusione, le censure del Comune in punto di competenza sono prive di fondamento; mentre appaiono fondate le (speculari) censure della Provincia circa l’erroneità del presupposto (incompetenza del dirigente) sulla cui base il Comune ha ritenuto di disattendere la valutazione di compatibilità del PGT
(
TAR Lombardia-Milano, Sezione II, sentenza 28.07.2009 n. 4468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: La verifica di compatibilità del PGT al PTCP è di competenza del dirigente, mentre le prescrizioni di stralcio della Provincia non hanno carattere precettivo ma sono finalizzate a consentire, se recepite, l’approvazione immediata del PGT.
1.
Se si considera che la valutazione di compatibilità del piano di governo del territorio al piano territoriale di coordinamento provinciale mira esclusivamente a verificare, attraverso la mera comparazione del contenuto dei due piani, il rispetto del PTCP da parte del PGT, e non implica profili di discrezionalità, se ne trae che essa non si configura come atto di indirizzo, ma tende alla mera attuazione degli obiettivi della pianificazione provinciale, ed è pertanto riconducibile alle attribuzioni dirigenziali.
2. Nell’ambito del procedimento di verifica di compatibilità del piano di governo del territorio al piano territoriale di coordinamento provinciale, le prescrizioni della Provincia, nella parte in cui prevedono (anche) le destinazioni degli ambiti da stralciare, non hanno carattere precettivo, e non escludono la possibilità di destinazioni diverse: esse, in altri termini, devono intendersi unicamente finalizzate a consentire l’approvazione immediata del piano regolatore senza ulteriori passaggi procedimentali; nel senso che, se il Comune recepisce le prescrizioni di stralcio con la rispettiva destinazione, il piano può essere approvato e produrre i suoi effetti tout court, mentre una destinazione diversa da quella suggerita imporrebbe il ritorno del piano alla Provincia per una nuova verifica di compatibilità, ovvero l’attivazione del procedimento di modifica o integrazione del PTCP (TAR Lombardia-Milano, Sezione II, sentenza 28.07.2009 n. 4468 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 4° suppl. straord. al n. 29 del 24.07.2009, "Approvazione del bando di finanziamento 2009 per «la produzione di basi cartografiche attraverso Data base topografici» ai sensi della l.r. 12/2005" (decreto D.U.O. 08.07.2009 n. 6973 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 13.07.2009, "Approvazione del primo elenco degli enti locali idonei all'esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite dall'art. 80 della legge regionale 11.03.2005 n. 12" (decreto D.G. 03.07.2009 n. 6820 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 06.07.2009, "Modalità per il finanziamento agli enti locali per lo sviluppo del Data base topografico, a supporto del Sistema Informativo Territoriale Integrato - Anno 2009 (art. 3, l.r. n. 12/2005)" (deliberazione G.R. 19.06.2009 n. 9664 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: La zonizzazione è ammessa anche con i PGT.
Il fatto che la legge regionale lombarda n. 12 del 2005 non preveda più espressamente la ripartizione del territorio in zone omogenee non esclude affatto la possibilità che il PGT (Piano di Governo del Territorio) preveda aree contigue aventi diversa destinazione funzionale, né rende illegittima la zonizzazione del territorio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.07.2009 n. 4305 - link a
www.cameramministrativacomo.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: Rientra nella competenza della giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di uno strumento urbanistico comunale con il P.T.C.P.
Non può, al riguardo, invocarsi l’art. 42, c. 2, lett. b), d.lgs. n. 267/2000: tale norma -che attribuisce alla competenza consiliare i “programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”- si riferisce, difatti, “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”.

Come ha di recente affermato il Consiglio di Stato con la sentenza 28.05.2009 n. 3333, rientra nella competenza della giunta provinciale emettere pareri di compatibilità di uno strumento urbanistico comunale (si trattava, nel caso esaminato, di un programma integrato di intervento) con il P.T.C.P.
Non può, al riguardo, invocarsi l’art. 42, c. 2, lett. b), d.lgs. n. 267/2000: tale norma -che attribuisce alla competenza consiliare i “programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”- si riferisce, difatti, “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)”. (Cons. Stato, sez. IV, 28.05.2009, n. 3333) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.07.2009 n. 4303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2009

URBANISTICA: Un P.L. è stato adottato nell'agosto del 2008 dalla G.C.. Nel frattempo, la L.R. 12/2005 è stata modificata sicché la competenza ad approvare i piani attuativi è stata riportata in capo ai Consigli Comunali.
Si chiede di conoscere se il piano adottato in questione possa essere approvato ancora dalla Giunta oppure debba necessariamente passare al vaglio del Consiglio Comunale (Regione Lombardia, risposta e-mail del 09.06.2009).

URBANISTICA: L. Spallino, La gestione del territorio in Regione Lombardia sino ai P.G.T.: le novità della legge regionale n. 5 del 2009 (link a www.studiospallino.it).

URBANISTICA: Lombardia, Bando di finanziamento per la produzione di Data base topografici.
A seguito della delibera VIII/9664 del 19.06.2009 con cui sono state definite i criteri per la concessione di finanziamenti agli enti locali per lo sviluppo del Data base topografico (DBT), con decreto n. 6973 dell’08.07.2009, il Dirigente dell’Unità Organizzativa Infrastruttura per l’Informazione Territoriale della DG Territorio e Urbanistica ha approvato il bando di finanziamento 2009 per la “Produzione di basi cartografiche attraverso Data base topografici” ai sensi della legge di governo del territorio (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

URBANISTICA: Disponibile on-line il Rapporto 2008 sulla pianificazione in Lombardia.
Il “Rapporto 2008 sullo stato della pianificazione in Lombardia", frutto dell’attività dell’Osservatorio Permanente della Programmazione Territoriale, è stato assunto dalla Giunta Regionale, con la preso d’atto della Comunicazione del Presidente Formigoni, di concerto con l’assessore Boni, con la DGR n. 9622/2009.
L’Osservatorio Permanente della Programmazione Territoriale è stato costituito, in attuazione dell’articolo 5 della l.r. 12/2005 e successive modifiche, presso l’Assessorato Territorio e Urbanistica.
A gennaio 2009 sono state definite le modalità operative di funzionamento del’Osservatorio e avviate ufficialmente le relative attività (decreto del Direttore Generale Direzione Generale Territorio e Urbanistica n. 321/2009).
L’Osservatorio redige annualmente, a conclusione della propria attività, una Relazione che fornisce dati e elementi di conoscenza delle dinamiche territoriali e di valutazione degli effetti derivanti dall’attuazione dei nuovi strumenti di pianificazione. Il Rapporto rappresenta pertanto un utile strumento di conoscenza delle dinamiche territoriali in Lombardia per l’orientamento delle politiche regionali sul territorio, con l’obiettivo di favorirne l’efficacia e rispondere all’esigenza di realizzare uno sviluppo equilibrato e sostenibile (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quesiti sulla gratuità ovvero onerosità degli interventi edilizi.
Lombardia, l'interpretazione autentica della l.r. n. 12/2005 circa il versamento degli oneri di urbanizzazione e costo di costruzione in relazione ad alcune fattispecie edilizie (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, nota 09.06.2009 n. 11538 di prot.).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 dell'01.06.2009, "Determinazioni inerenti le modalità di erogazione di contributi ai Comuni per la formazione dei Piani di Governo del Territorio" (deliberazione G.R. 20.05.2009 n. 9481 - link a www.infopoint.it).

maggio 2009

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 18.05.2009, "Determinazioni in merito alle modalità per l'approvazione dei Programmi Integrati di Intervento in variante, non aventi rilevanza regionale, da osservarsi fino all'approvazione dei Piani di Governo del Territorio (art. 25, comma 7, l.r. 12/2005 e s.m.i." (deliberazione G.R. 06.05.2009 n. 9413 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: "Determinazioni in merito alle modalità per l'approvazione dei Programmi Integrati di Intervento in variante, non aventi rilevanza regionale, da osservarsi fino all'approvazione dei Piani di Governo del Territorio (art. 25, comma 7, l.r. 12/2005 e s.m.i." (deliberazione G.R. 06.05.2009 n. 9413 - in attesa di pubblicazione sul B.U.R.L.).

URBANISTICALombardia, via libera ai Piani Integrati Strategici di intervento.
La Giunta regionale ha approvato, su proposta dell'assessore al Territorio e Urbanistica, Davide Boni, i criteri e le modalità per disciplinare l'approvazione da parte dei Comuni di nuovi Programmi integrati di intervento (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

URBANISTICA:  L. Spallino, Modifiche alla legge regione Lombardia n. 12/2005 (L.R. 5/2009): P.I.I. in variante e termine per l'avvio del procedimento di approvazione dei p.g.t. (link a www.studiospallino.it).

aprile 2009

URBANISTICA: Indicazioni operative sulla verifica della componente geologica del P.G.T. da parte delle Province (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, nota 27.04.2009 n. 8483 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Articolo 41, comma 2, della L.R. n. 12/2005 e succ. mod. ed int. - Varianti minori realizzabili senza necessità della previa acquisizione del titolo abilitativo edilizio - Applicazione - Sussiste - Potere dell'Amministrazione di chiedere integrazioni documentali e pagamenti degli oneri - Sussiste.
L'articolo 41, comma 2, della L.R. n. 12/2005, che ricalca quanto previsto dall'art. 22 del T.U. Edilizia, deve essere interpretato nel senso che permette, nel caso di modeste modifiche da apportare ad opere già assentite in forza di permesso di costruire, di non interrompere i lavori e di acquisire il relativo titolo anche dopo la loro realizzazione.
La speciale procedura, che sicuramente deroga al principio della necessità della previa acquisizione del titolo per l'esecuzione di ogni lavoro edilizio, si giustifica in relazione alla natura degli interventi che non comportano un mutamento dei caratteri essenziali dell'intervento, ma non impedisce all'Amministrazione, nella fase di controllo, di chiedere eventuali integrazioni documentali, nonché il pagamento degli oneri se dovuti a seguito delle modifiche apportate (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.04.2009 n. 3584 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 20.04.2009, "Determinazione in merito ai criteri di concessione dei contributi a Comuni e Province per studi e approfondimenti geologici e idrogeologici ai sensi della l.r. 12/2005 - Modifica d.g.r. n. 876/2005" (deliberazione G.R. 08.04.2009 n. 9284 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 14.04.2009, "Approvazione delle «Modalità per la segnalazione a regione Lombardia delle modifiche da apportare allo strato informativo aree agricole nello stato di fatto ex art. 43 della l.r. 12/2005 e ss.mm.ii." (decreto D.U.O. 18.03.2009 n. 2609 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, l'interpretazione autentica della l.r. n. 12/2005 circa l'intervento di ristrutturazione edilizia -inteso come demolizione/ricostruzione- se debba rispettare o meno il volume esistente (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, nota 01.04.2009 n. 6466 di prot.).

marzo 2009

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 13 del 31.03.2009, "Testo coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio», entrata in vigore il 31.03.2005" (testo coordinato L.R. 11.03.2005 n. 12 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia, legge regionale n. 5/2009 di modificazione/integrazione alla l.r. n. 12/2005 (link a www.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia, Aree agricole nello stato di fatto: modalità segnalazione modifiche (link a www.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 10 del 13.03.2009, "Disposizioni in materia di territorio e opere pubbliche - Collegato ordinamentale" (L.R. 10.03.2009 n. 5 - link a www.infopoint.it).
Modificazioni/integrazioni alla L.R. n. 12/2005.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia, LEGGE CONSIGLIO REGIONALE N. 121/2009.
"Disposizioni in materia di territorio e opere pubbliche – collegato ordinamentale" approvata dal Consiglio Regionale nella seduta del 03.03.2009 in  attesa di pubblicazione sul B.U.R.L..
Posticipa di 1 anno (entro il 31.03.2010) il termine entro cui dotarsi del PGT con modificazioni/integrazioni varie alla L.R. n. 12/2005.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Approvate le modifiche alla legge urbanistica lombarda n. 12/2005 (comunicato stampa 03.03.2009 - link a www.consiglio.regione.lombardia.it).

gennaio 2009

EDILIZIA PRIVATALombardia, l'interpretazione autentica della l.r. n. 12/2005 circa il versamento degli oneri di urbanizzazione sia nel caso di permesso di costruire sia nel caso di d.i.a. (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, nota 29.01.2009 n. 1983 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA Anche in Lombardia la ristrutturazione edilizia, intesa come demolizione/ricostruzione di fabbricato esistente, deve rispettare, oltre al volume della costruzione preesistente, anche la sagoma.
Le regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico (DPR 380/2001).

L’art. 27, c. 1, lett. d), della L.R. 11.03.2005, n. 12 prevede che “nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”. La norma tace in particolare in merito al profilo della sagoma lasciando il dubbio in merito alla sorte di questo elemento. In considerazione del fatto che l’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 380/2001 stabilisce che nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione purché mantengano la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.

Occorre chiarire quindi se in caso di demolizione e ricostruzione il rispetto della sagoma previsto dall’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 380/2001 costituisca espressione di un principio generale che orienti anche l’interpretazione della legislazione regionale. In primo luogo occorre chiarire che all’utilizzo a tale scopo dell’art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 380/2001 non osta la sua disapplicazione ad opera dell’art. 103 della legge regionale 11.03.2005, n. 12, in quanto la norma in questione è sicuramente, in tutto o in parte, norma di principi in quanto contiene le definizioni degli interventi edilizi, che costituiscono l’architrave di tutto l’impianto normativo del D.P.R. 380/2001 (vedi TAR Abruzzo, Pescara 14.04.2005 n. 185; TAR Abruzzo, Pescara, 20.12.2002, n. 1182; TAR Abruzzo, L’Aquila, 22.09.2008 n. 1114 in materia di ristrutturazione edilizia).

Tali principi prevalgono sulla normativa regionale, così come previsto dal comma 1 dell’art. 2 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "le regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico" (vedi in merito Cons. Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 07.04.2008 n. 2).

Il D.P.R. 380/2001 ha “positivizzato” la distinzione degli interventi di ristrutturazione edilizia in due tipologie principali, sottoposte a differente disciplina:

a) le ristrutturazioni che non comportino demolizione e ricostruzione, per le quali sono ammesse anche modifiche di volumetria e di sagoma (c.d. intervento conservativo);

b) le ristrutturazioni con demolizione e ricostruzione, soggette al vincolo del rispetto delle precedenti volumetria e sagoma (c.d. intervento ricostruttivo).

In questo secondo caso il rispetto della sagoma è richiesto perché, eliminati tutti gli elementi materiali dell’edificio preesistente, la sagoma è il solo elemento fisico che permette di individuare quel collegamento con l’edificio abbattuto che costituisce la ratio della qualificazione di un intervento come di ristrutturazione edilizia.

In secondo luogo il suo ampliamento oltre i limiti del volume e della sagoma comporterebbe il venir meno della finalità della normativa statale e regionale, che è quello del recupero del patrimonio esistente mediante la liberalizzazione degli interventi sul patrimonio immobiliare, al fine di migliorare e ammodernare i fabbricati più vecchi e malridotti. Come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, l’art. 3 del D.P.R. 380/2001, c. 1, lett. d), così come modificato dall'art. 1, D.Lgs. 27.12.2002, n. 301, “è norma di principio ………, in base alla sua logica ………… che è quella di fornire uno strumento per il recupero del patrimonio esistente: abbandonando il limite della sagoma preesistente, tale obiettivo non verrebbe più raggiunto, nel senso che si realizzerebbe un nuovo edificio di volume identico al preesistente, che certo ne mantiene il carico urbanistico, ma non ne conserva necessariamente alcuno dei valori estetici e funzionali. Appare allora incongruo che tale esigenza possa venire accantonata senz’altro dalla legislazione regionale” (TAR Lombardia, Brescia, 13.05.2008 n. 504).

Ulteriori perplessità in ordine all’ampliamento del concetto di ristrutturazione fino a comprendervi anche le modifiche di sagoma, deriva dal regime giuridico connesso agli interventi di ristrutturazione. Infatti è opinione comune della giurisprudenza (Cass. civ., sez. II, 12.06.2001, n. 7909; TAR Calabria, Reggio Calabria, 24.01.2001, n. 36; Cons. Stato, sez. V, 14.11.1996, n. 1359; Puglia, Bari, sez. III, 22.07.2004 n. 3210) che per la ristrutturazione edilizia, anche mediante ricostruzione dell'edificio demolito, restano ferme le norme urbanistiche vigenti al tempo in cui venne rilasciato l’originario titolo edilizio, con la conseguenza che non sono applicabili le prescrizioni ed i vincoli imposti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti.

La ratio di questa disciplina tipica della ristrutturazione edilizia è quello di favorire l’attuazione di tutti quegli interventi migliorativi del patrimonio edilizio esistente che lasciano inalterato il tessuto urbanistico ed architettonico preesistente, ancorché difformi dalle nuove norme che regolano l’attività di trasformazione del territorio.
La modifica senza alcun limite della sagoma delle costruzioni è chiaramente elemento che modifica fortemente il tessuto urbano e dà vita ad una trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio che, secondo la legislazione statale (art. 3, c. 1, lett. e), D.P.R. 380/2001) e regionale (art. 27, c. 1, lett. e), L.R. 12/2005), è effetto tipico delle nuove costruzioni e richiede che sia disciplinato dalla normativa urbanistica ed edilizia vigente.

E’ il caso, come quello in decisione, nel quale si verifica un aumento del carico urbanistico. Infatti nel progetto presentato dalla ricorrente il volume che costituiva piano interrato doveva essere utilizzato per creare un nuovo piano fuori terra, con conseguente aumento del carico urbanistico. In tal caso l’aumento del peso insediativo creato dall’immobile richiede la necessaria valutazione dei servizi da realizzare e dell’impatto sul tessuto urbanistico esistente, di competenza degli strumenti di pianificazione comunale.

In quest’ottica, inoltre, il superamento delle prescrizioni e dei vincoli imposti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, costituisce un vulnus della competenza comunale in materia urbanistica che dev’essere interpretato restrittivamente, giustificando così, anche sotto questo aspetto, un’interpretazione della nozione di ristrutturazione dettata in sede regionale in senso conforme a quella nazionale.

Deve quindi ritenersi condivisibile la considerazione fatta in giurisprudenza (TAR Lombardia, Brescia, 13.05.2008 n. 504) secondo la quale “il concetto di ristrutturazione previa demolizione come intervento che rispetta sia il volume sia la sagoma dell’edificio preesistente è ben fermo e ripetuto di frequente in giurisprudenza, sì che è poco credibile che il legislatore regionale, il quale intendesse abbandonarlo per proporre una innovazione, lo abbia fatto per implicito, senza palesare con termini espressi tale intento (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.01.2009 n. 153).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 12.01.2009, "Linee guida per la maggiorazione del contributo di costruzione per il finanziamento di interventi estensivi delle superfici forestali (art. 43, comma 2-bis, l.r. n. 12/2005)" (deliberazione G.R. 22.12.2008 n. 8757 - link a www.infopoint.it).

ANNO 2008

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, l'interpretazione autentica circa la portata del termine "ristrutturazione edilizia" di cui all'art. 27, comma 1, lett. d), della L.R. n. 12/2005 in relazione alla possibilità -o meno- di demolire/ricostruire sullo stesso sedime (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, nota 01.12.2008 n. 23187 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Giurisprudenza e legge sul governo del territorio: oscillazioni interpretative (link a www.www.lavatellilatorraca.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 27.10.2008, "Costituzione dell'Osservatorio permanente della programmazione territoriale, articolo 5 della legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)" (deliberazione C.R. 30.09.2008 n. 703 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 4° suppl. straord. al n. 43 del 24.10.2008, "Approvazione del 2° bando di finanziamento 2008 per la «Produzione di basi cartografiche attraverso Data base topografici» ai sensi della l.r. 12/2005" (decreto D.U.O. 14.10.2008 n. 11321 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Zona agricola - Permesso di costruire - Rilascio - Normativa - Ratio.
2. Zona agricola - Permesso di costruire - Rilascio - Azienda Agricola - Esistenza - Interpretazione.

1. La ratio delle disposizioni che regolano il rilascio del permesso di costruire nelle zone agricole è quella di far sì che l'edificazione in tali zone venga accordata solo all'imprenditore agricolo e per la sola realizzazione di opere funzionali alla conduzione del fondo o comunque strumentali all'attività produttiva. Tale funzionalità all'attività agricola è dunque il parametro base con cui interpretare l'obbligo del Sindaco di verificare l'effettiva esistenza ed il funzionamento dell'azienda agricola.
2. L'accertamento da parte del Sindaco dell'effettiva esistenza e funzionamento dell'attività agricola di cui all'art. 3 della legge regionale n. 93/1980, le cui disposizioni sono oggi confluite nell'art. 60 della legge regionale n. 12/2005 deve soffermarsi sull'effettiva destinazione funzionale dei manufatti progettati all'attività di produzione agricola, indipendentemente dalla preesistenza sull'area di un'azienda agricola, essendo sufficiente l'esistenza dell'azienda agricola sia pure agli inizi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.10.2008 n. 5151).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia serie ordinaria n. 42 del 13.10.2008 "Determinazioni in merito al Piano di Governo del Territorio dei comuni con popolazione compresa tra 2001 e 15000 abitanti (art. 7, comma 3, l.r. n. 12/2005"  (deliberazione G.R. 01.10.2008 n. 8138 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 29.09.2008, "Criteri per la definizione degli ambiti destinati all'attività agricola di interesse strategico dei Piani Territoriali di Coordinamento provinciale (comma 4 dell'art. 15 della l.r. 12/2005) - Approvazione" (deliberazione G.R. 19.09.2008 n. 8059).

URBANISTICALe disposizioni lombarde in materia agricola sonno immediatamente prevalenti sulla normativa comunale.
Le disposizioni della legge regionale in materia di edificazione in zone agricole sono immediatamente prevalenti sugli strumenti urbanistici comunali (nonché sui regolamenti edilizi e sui regolamenti di igiene). La clausola di prevalenza è espressamente prevista dall’art. 4 della LR 93/1980 e dall’art. 61 della LR 12/2005. Attraverso questa clausola è garantita l’uniformità dell’utilizzazione agricola del territorio su base regionale ed è assicurato un trattamento paritetico ai soggetti con la qualifica di imprenditore agricolo. La finalità della norma è di permettere l’insediamento di strutture produttive e di abitazioni residenziali in forma omogenea senza gli effetti antieconomici derivanti dalla frammentazione della disciplina a livello comunale. Per questo motivo la disciplina di legge non solo si sostituisce (senza bisogno di recepimento) alle disposizioni contenute negli strumenti urbanistici comunali esistenti ma non accetta neppure di essere derogata da uno strumento urbanistico comunale adottato o approvato successivamente. Le restrizioni che possono essere introdotte in ambito locale sono unicamente quelle giustificate da esigenze di tutela ambientale accertate nella programmazione sovracomunale e in particolare nel PTCP (v. TAR Brescia 15.02.2007 n. 170).
Il passaggio dai PRG ai PGT stabilito dalla LR 12/2005 non ha cambiato il significato della clausola di prevalenza, che opera nei confronti di qualunque strumento urbanistico comunale, indipendentemente dalla denominazione, dalla tipologia e dal tempo di approvazione. Una conferma può essere rinvenuta nell’art. 62-bis comma 1 della stessa LR 12/2005, introdotto dall'art. 1, comma 1, lett. r), della LR 14.07.2006 n. 12, il quale stabilisce che fino all’approvazione dei PGT la disciplina legislativa regionale (compresa evidentemente la clausola di prevalenza) si intende riferita alle aree classificate dagli strumenti urbanistici comunali vigenti come zone agricole (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 25.07.2008 n. 839 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda la presentazione della DIA si ritiene che l’espressione utilizzata dall’art. 42, comma 1, della LR 12/2005 (“il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività”) individui oltre al proprietario altre due categorie di soggetti.
In primo luogo coloro che dispongono di un diritto reale diverso dalla proprietà che conferisca il potere di modificare l’immobile attraverso interventi edilizi. Accanto a questi si possono considerare legittimati quanti dispongano di un diritto di natura personale da cui derivino aspettative edificatorie.
La promessa di vendita, e in generale il preliminare di compravendita, costituiscono sotto questo profilo titoli idonei, purché non vi sia una clausola con un divieto espresso che riservi al promittente venditore la facoltà di definire le questioni edilizie in attesa del contratto definitivo.
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8. Con il primo motivo di ricorso viene in rilievo la questione della legittimazione del geom. Fr.Da. a presentare la DIA.
Questo problema è alla base sia della censura del ricorrente, che lamenta la violazione dell’art. 42, comma 1, della LR 12/2005, sia dell’eccezione di inammissibilità formulata dai controinteressati, i quali sostengono che il ricorso avrebbe dovuto essere instaurato nei confronti della società Ed. 90 snc.
9. Per quanto riguarda la presentazione della DIA si ritiene che l’espressione utilizzata dall’art. 42, comma 1, della LR 12/2005 (“il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività”) individui oltre al proprietario altre due categorie di soggetti.
In primo luogo coloro che dispongono di un diritto reale diverso dalla proprietà che conferisca il potere di modificare l’immobile attraverso interventi edilizi. Accanto a questi si possono considerare legittimati quanti dispongano di un diritto di natura personale da cui derivino aspettative edificatorie. La promessa di vendita, e in generale il preliminare di compravendita, costituiscono sotto questo profilo titoli idonei (v. CS Sez. VI 03.12.2004 n. 7847), purché non vi sia una clausola con un divieto espresso che riservi al promittente venditore la facoltà di definire le questioni edilizie in attesa del contratto definitivo.
Nel caso in esame la promessa di vendita contiene tra i patti speciali una dichiarazione di disponibilità del promittente venditore a “firmare l’eventuale documentazione necessaria all’inoltro della pratica edilizia al Comune” e il consenso all’effettuazione di misurazioni e rilievi da parte del promissario acquirente. Queste formule possono essere interpretate come manifestazioni della volontà di trasferire immediatamente al promissario acquirente ogni potere circa l’edificazione: del resto la vendita di un lotto edificabile ha come finalità intrinseca, nota alle parti, proprio la realizzazione di un intervento edilizio.
Di conseguenza la disponibilità a firmare la documentazione va intesa come impegno del promittente venditore a favorire una rapida conclusione della procedura edilizia: a tale scopo il promittente venditore si impegna a presentare a proprio nome (o a controfirmare) una richiesta di permesso di costruire (o una DIA) nell’eventualità che l’amministrazione non accetti una simile richiesta formulata dal solo promissario acquirente.
In conclusione non vi è nella promessa di vendita alcun elemento che privi il promissario acquirente della legittimazione a presentare una DIA. Occorre poi sottolineare, trattandosi di promessa per persona da nominare, che qualora l’effettivo acquirente sia un terzo è comunque applicabile l’istituto della ratifica ex art. 2032 cc. e conseguentemente il nuovo proprietario può consolidare a proprio vantaggio gli effetti del titolo edificatorio. In concreto la funzione della ratifica è stata svolta dalla volturazione della DIA su richiesta della società Ed. 90 snc (v. sopra al punto 3)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.07.2008 n. 830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA:  DIA - Presentazione - Categorie di soggetti - Legittimità.
Ai fini della presentazione della DIA, la L.r. n. 12/2005 individua oltre al proprietario altre categorie di soggetti: coloro che dispongono di un diritto reale diverso dalla proprietà che conferisca il potere di modificare l'immobile attraverso interventi edilizi; quanti dispongono di un diritto di natura personale da cui derivino aspettative edificatorie. La promessa di vendita, e in generale il preliminare di compravendita, costituiscono titoli idonei salvo clausola con divieto espresso che riservi al promettente venditore la facoltà di definire le questioni edilizie in attesa del contratto definitivo. (CDS sez. VI, n. 7847/2004)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia, sentenza 19.07.2008 n. 830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, Lombardia, la nuova riforma della legge per il Governo del territorio (AL n. 6/2008).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 24 del 12.06.2008, "Aggiornamento dei «Criteri ed indirizzi per la definizione della componente geologica, idrogeologica e sismica del Piano di Governo del Territorio, in attuazione dell'art. 57, comma 1, della l.r. 11.03.2005, n. 12», approvati con d.g.r. 22.12.2005, n. 8/1566" (deliberazione G.R. 28.05.2008 n. 7374 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 03.06.2008, "Comunicato congiunto Direzione Generale Territorio e Urbanistica e Direzione Centrale Affari Istituzionali e Legislativo  - Modalità di pubblicazione dell'avviso di approvazione dei PGT" (comunicato regionale 26.05.2008 n. 107 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 03.06.2008, "Modalità per il finanziamento agli Enti locali per lo sviluppo del Data base topografico, a supporto del SIT integrato, per l'anno 2008 (art. 3, l.r. 12/2005)" (deliberazione G.R. 19.05.2008 n. 7306 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche in Lombardia, dopo la l.r. n. 12/2005, la demolizione/ricostruzione di un fabbricato (intesa come ristrutturazione edilizia) deve rispettare la sagoma esistente.
L'art. 103 della l.r. lombarda n. 12/2005 non può disapplicare l'art. 3 del T.U. dell'edilizia per cui le disposizioni dell’art. 27 della l.r. prevarrebbero sull’art. 3 del T.U. nazionale: la legge regionale, pur dopo la riforma del titolo V parte II della Costituzione, incontra pur sempre una serie di limiti rispetto alla legge statale, e non può derogarvi a piacimento. Il concetto di ristrutturazione delimitato dalla legge nazionale è una norma di principio ai sensi dell’art. 117 Cost..
Il Collegio è dell’avviso che di norma di principio si debba parlare, in base alla sua logica come sopra ricostruita, che è quella di fornire uno strumento per il recupero del patrimonio esistente: abbandonando il limite della sagoma preesistente, tale obiettivo non verrebbe più raggiunto, nel senso che si realizzerebbe un nuovo edificio di volume identico al preesistente, che certo ne mantiene il carico urbanistico, ma non ne conserva necessariamente alcuno dei valori estetici e funzionali. Appare allora incongruo che tale esigenza possa venire accantonata senz’altro dalla legislazione regionale. In tali termini, seguendo il costante insegnamento della Corte costituzionale, per cui sin quando possibile una legge ordinaria va interpretata in modo conforme a Costituzione, si deve concludere che il limite della sagoma, attinente ad un principio, nella norma lombarda che non lo prevede espressamente, vada ricavato per via di interpretazione logica e sistematica
Nella normativa nazionale, gli interventi di ristrutturazione edilizia sono definiti dall’art. 3, comma 1, lettera d), del T.U. 06.06.2001 n. 380, come “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”. La norma poi prosegue affermando che “nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.”
La norma in questione, peraltro di per sé non oscura, è interpretata dalla giurisprudenza costante nel senso che per aversi la ristrutturazione contemplata dalla sua seconda parte, ovvero sia la ristrutturazione che passa per la previa demolizione dell’esistente, non si possa prescindere dal rispetto, nella successiva ricostruzione del manufatto, sia della volumetria sia della sagoma dell’edificio preesistente, osservandosi che in caso contrario la distinzione fra ristrutturazione e costruzione nuova svanirebbe di fatto, potendosi altrimenti definire ristrutturazione qualsiasi edificio nuovo sorto là dove preesisteva qualunque altro edificio con lo stesso volume (C.d.S. sez. IV 22.03.2007 n. 1388 e 16.03.2007 n. 1276, nonché C.d.S. sez. V 19.02.2007 n. 827, per non citare che le più recenti).
La ragione ultima di tale scelta legislativa è spiegata, in termini che il Collegio condivide, nell’ampia motivazione di C.d.S. sez. V 30.08.2006 n. 5061, ove si ricorda che antecedente storico dell’art. 3 citato è l’art. 31 della l. 457/1978, volta a disciplinare nel loro complesso gli “interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente”: in tale contesto, la demolizione rappresenta un caso limite, quello in cui per recuperare un dato edificio, compromesso in modo serio, è necessario abbatterlo e rifarlo dalle fondamenta; è quindi intesa come uno strumento, se pure riservato a casi particolari, per raggiungere il fine di riportare l’esistente alla primitiva condizione, il che ovviamente non si avrebbe se il nuovo edificio avesse una sagoma diversa.
Per completezza si osserva come l’art. 3 citato preveda alla lettera d) due distinte ipotesi di ristrutturazione: quella appena descritta, per la quale si demolisce, e quella prevista dalla prima parte della norma, che può comportare anche l’inserimento di nuovi volumi, ed anche modifiche della sagoma che ad essi possono ben conseguire, ma dall’esistente non prescinde, perché lo altera senza distruggerlo. Ciò posto, è ben comprensibile come il successivo art. 10 del T.U. distingua, prevedendo per taluni interventi di ristrutturazione, fra i quali appunto quelli che modificano il volume, il più oneroso titolo abilitativo costituito dal permesso di costruire. Ciò tuttavia, come correttamente osservato dalla difesa del Comune, non comporta una contraddizione in termini definitori, ma solo una diversa disciplina dei titoli abilitativi all’interno di una stessa categoria, che ad altri fini, tra i quali la stessa possibilità di procedervi a norma del Piano che qui rileva, rimane unitaria.
In tale contesto, l’art. 27, comma 1, della l.r. Lombardia 11.03.2005 n. 12 definisce, così come fa l’art. 3 del T.U. nazionale, i vari interventi edilizi, con norme che, ai sensi del successivo art. 103, si dichiarano prevalenti sulla normativa nazionale, e alla lettera d) considera interventi di ristrutturazione edilizia “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.”
La lettera della norma differisce da quella dell’art. 3 perché nella seconda parte, sempre relativa alla ristrutturazione che passa per la demolizione, di rispetto della sagoma non si parla. Si tratta allora di stabilire se il limite in parola sia scomparso, e la ristrutturazione previa demolizione in Lombardia sia tale sol che sia rispettato il volume preesistente, come sostiene il ricorrente, ovvero se il limite rimanga implicito, e vada desunto in via interpretativa, come ritiene il Comune.
Il Collegio è per la seconda alternativa. Si osserva preliminarmente, in termini generali, che il concetto di ristrutturazione previa demolizione come intervento che rispetta sia il volume sia la sagoma dell’edificio preesistente è ben fermo e ripetuto di frequente in giurisprudenza, sì che è poco credibile che il legislatore regionale, il quale intendesse abbandonarlo per proporre una innovazione, lo abbia fatto per implicito, senza palesare con termini espressi tale intento.
Va poi osservato che non è decisivo sul punto l’art. 103 citato della stessa l.r., per cui le disposizioni dell’art. 27 prevarrebbero sull’art. 3 del T.U. nazionale, comportandone la disapplicazione: la legge regionale, pur dopo la riforma del titolo V parte II della Costituzione, incontra pur sempre una serie di limiti rispetto alla legge statale, e non può derogarvi a piacimento. Occorre pertanto chiedersi se una deroga consimile sia o non sia consentita dalla Costituzione, ovvero in termini più espliciti se il concetto di ristrutturazione delimitato dalla legge nazionale sia o non sia una norma di principio ai sensi dell’art. 117 Cost.
Il Collegio è dell’avviso che di norma di principio si debba parlare, in base alla sua logica come sopra ricostruita, che è quella di fornire uno strumento per il recupero del patrimonio esistente: abbandonando il limite della sagoma preesistente, tale obiettivo non verrebbe più raggiunto, nel senso che si realizzerebbe un nuovo edificio di volume identico al preesistente, che certo ne mantiene il carico urbanistico, ma non ne conserva necessariamente alcuno dei valori estetici e funzionali. Appare allora incongruo che tale esigenza possa venire accantonata senz’altro dalla legislazione regionale. In tali termini, seguendo il costante insegnamento della Corte costituzionale, per cui sin quando possibile una legge ordinaria va interpretata in modo conforme a Costituzione, si deve concludere che il limite della sagoma, attinente ad un principio, nella norma lombarda che non lo prevede espressamente, vada ricavato per via di interpretazione logica e sistematica (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 13.05.2008 n. 504 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, non rientra nell'accezione di "ristrutturazione edilizia" la demolizione e ricostruzione di un fabbricato con traslazione dell'area di sedime.
Una ristrutturazione realizzata con traslazione totale dell’area di sedime in un sito completamente diverso è di dubbia legittimità, essendo il concetto di ristrutturazione ancorato ad una preesistenza in situ.
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per l’annullamento dei provvedimenti 28.06.2007, prot. 6196 [ricorso] e 08.01.2008 prot. n. 84 [motivi aggiunti], con cui il Comune ha negato il permesso di costruire un’edificio da destinare a residenza dell’imprenditore agricolo; e per la condanna del Comune al risarcimento del danno.
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Premesso che:
   - il diniego impugnato col ricorso introduttivo è stato rimosso dal Comune nell’esercizio dei poteri di autotutela;
- il diniego impugnato con motivi aggiunti è motivato per relationem al preavviso di diniego: il quale rileva, in primo luogo, che l’art. 59, secondo comma, della legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per il governo del territorio) ammette la costruzione in zona agricola di nuovi edifici residenziali per l’imprenditore a agricolo e i dipendenti dell’azienda “qualora le esigenze abitative non possano essere soddisfatte attraverso interventi sul patrimonio edilizio esistente”, e che la residenza dell’imprenditore, nel caso in esame, potrebbe essere localizzata nell’immobile denominato Cascina Guastone, suscettibile di ristrutturazione anche con interventi di demolizione e ricostruzione; in secondo luogo, che la diversa area interessata dal progetto edilizio (sita nei pressi della Cascina Merlo) sarebbe compresa tra gli ambiti agricoli di pregio da non sottrarre alla coltivazione a norma del PTCP (piano territoriale di coordinamento provinciale);
Considerato che sul secondo profilo della motivazione non sono rinvenibili specifiche censure e che, quanto al primo profilo della motivazione, una ristrutturazione realizzata con traslazione totale dell’area di sedime in un sito completamente diverso (secondo la tesi svolta nel settimo motivo di ricorso) è di dubbia legittimità, essendo il concetto di ristrutturazione ancorato ad una preesistenza in situ
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 09.04.2008 n. 547).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 3° suppl. straord. al n. 17 del 24.04.2008, "Testo coordinato della l.r. 11 marzo 2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»" (testo coordinato L.R. 11.03.2005 n. 12 - link a www.infopoint.it).
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 17 del 22.04.2008, "Aggiornamento delle specifiche tecniche in materia di Data base topografico a supporto del Sistema Informativo Territoriale Integrato" (deliberazione G.R. 20.02.2008 n. 6650 - link a www.infopoint.it).
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 21.04.2008, "Determinazioni in merito ai contributi ai Comuni per la formazione dei Piani di Governo del Territorio (l.r. n. 12/2005)" (deliberazione G.R. 09.04.2008 n. 7050 - link a www.infopoint.it).
URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 14.04.2008, "Proroga al 31.01.2009 dei termini per la consegna della documentazione necessaria per l'erogazione del saldo della quota di contributo concessa ai Comuni per la formazione dei Piani di Governo del Territorio e dei documenti di inquadramento ai sensi della d.g.r. n. 2323 del 05.04.2006" (decreto D.S. 27.03.2008 n. 3053 - link a www.infopoint.it).
EDILIZIA PRIVATA Oneri concessori - Parificazione degli oneri dovuti in relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione con quelli inerenti agli interventi edilizi di nuova costruzione - Possibilità - Non sussiste.
E' irragionevole la parificazione degli oneri dovuti in relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, con quelli dovuti in relazione agli interventi edilizi di nuova costruzione, dal momento che nelle aree in cui si intendono realizzare interventi di nuova costruzione è necessario prevedere la dotazione, ovvero il potenziamento (ove già esistenti), delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria a servizio delle opere edilizie prima non esistenti, al contrario dei casi di ristrutturazione edilizia (anche previa demolizione), in cui si tratta di interventi su una volumetria comunque già presente nell'area interessata e già dotata (si suppone) delle relative opere di urbanizzazione. Né a favore di tale parificazione può essere invocato il disposto del comma 10 dell'art. 44 della L.R. n. 12/2005, il quale sebbene preveda che per gli interventi di ristrutturazione non comportanti demolizione e ricostruzione "gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione, ridotti della metà", non consente tuttavia di accomunare nel medesimo regime tariffario le opere di ristrutturazione previa demolizione a quelle di nuova costruzione
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.04.2008 n. 928 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 12 del 17.03.2008, "Ulteriori modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)" (L.R. 14.03.2008 n. 4 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: Procedimenti di Valutazione Ambientale Strategica. Coinvolgimento Soprintendenze di settore (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia, nota 18.03.2008 n. 3787 di prot.).

URBANISTICARaccordo verifica Valutazione Ambientale Strategica (VAS) e Valutazione di Incidenza (VIC) sugli atti di pianificazione (Regione Lombardia, Direzione Generale Qualità dell'Ambiente, nota 15.01.2008 n. 1383 di prot.).

ANNO 2007

EDILIZIA PRIVATAPROCEDIMENTO PER IL RILASCIO DI PERMESSO DI COSTRUIRE EX L.R. LOMBARDIA N. 12/2005 - ART. 38 (link a www.studiospallino.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 13.08.2007, "Approvazione del bando di finanziamento per l'anno 2007: «Formazione dei Piani di Governo del Territorio e Strumenti di Programmazione» ai sensi della legge regionale 11.03.2005 n. 12" (decreto Dirigente U.O. 02.08.2007 n. 8921 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICAB.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 30.07.2007, "Criteri per l'erogazione di contributi agli Enti Locali per la formazione dei Piani di Governo del Territorio e strumenti di programmazione con valenza territoriale (l.r. n. 12/2005)" (deliberazione G.R. 18.07.2007 n. 5126 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 09.07.2007, "Approvazione del bando di finanziamento 2007: «Produzione di basi cartografiche attraverso Data base topografici» ai sensi della l.r. 12/2005" (decreto D.U.O. 26.06.2007 n. 6942 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICAB.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 02.07.2007, "Definizione dei criteri di finanziamento agli Enti locali per lo sviluppo del Data base topografico, a supporto del SIT integrato per l'anno 2007 (in attuazione dell'art. 3 della l.r. 12/2005)" (deliberazione G.R. 15.06.2007 n. 4937 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 30.04.2007 - pag. 1264, "Criteri e modalità per l'erogazione agli enti locali di contributi per l'attuazione della l.r. 11.03.2005 n. 12, «"Legge per il Governo del Territorio», art. 24" (deliberazione G.R. 18.04.2007 n. 4589 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 02.04.2007, "Indirizzi generali per la valutazione di piani e programmi  (articolo 4, comma 1, l.r. 11.03.2005, n. 12)" (deliberazione C.R. 13.03.2007 n. 351).

EDILIZIA PRIVATA:  B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 3 del 16.01.2007, "Aggiornamento delle specifiche tecniche in materia di Database Topografici e adozione di nuove specifiche in materia di Ortofoto digitali e repertorio dei dati territoriali a supporto del Sistema Informativo Territoriale integrato (ll.rr. 29/1979 e 12/2005)" (deliberazione G.R. 20.12.2006 n. 3879 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA:  B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.2007 - pag. 189, "Indirizzi inerenti l'applicazione di riduzione degli oneri di urbanizzazione in relazione a interventi di edilizia bioclimatica o finalizzati al risparmio energetico (l.r. n. 12/2005 art. 44)" (deliberazione G.R. 27.12.2006 n. 3951 - link a www.infopoint.it).

ANNO 2006
EDILIZIA PRIVATAAree destinate all'agricoltura - Art. 62 della L.R. n. 12/2005 - Assenza di PGT - Applicazione PRG.
Sebbene l'art. 62 della L.R. n. 12/2005 disponga che gli interventi di ristrutturazione e ampliamento da realizzarsi in zone destinate all'agricoltura non sono soggetti al titolo III della predetta legge, titolo recante la disciplina in materia di edificazione nelle aree destinate all'agricoltura, ma sono regolati dal PGT, in assenza di quest'ultimo, si applicano le norme del PRG che nel caso di specie non consentono tali tipi di interventi edilizi (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.12.2006 n. 3014 - massima tratta da www.solom.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: W. Fumagalli, Il nuovo testo della Legge per il Governo del Territorio (AL n. 11/2006)

URBANISTICAB.U.R. Lombardia 3° suppl. straord. al n. 47 del 24.11.2006 "Approvazione delle linee guida per la realizzazione degli strumenti del SIT integrato per la pianificazione locale ai sensi dell'art. 3 della l.r. 12/2005" (decreto Dirigente U.O. 10.11.2006 n. 12520 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA Autorizzazione paesaggistica.
Sottoscritto in data 04.08.2006 l'accordo tra Regione Lombardia e Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Semplificazione della documentazione per le istanze di autorizzazione (link a www.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:  B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 30 del 25.07.2006, "Testo coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio" (a seguito delle modifiche apportate dalle ll.rr. 27.12.2005 n. 20, 03.03.2006 n. 6, 14.07.2006 n. 12 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAB.U.R. Lombardia, 2° suppl. ord. al n. 29 del 21.07.2006, "ERRATA CORRIGE N. 29/I-S.O. 2006 - L.R. 14.07.2006, n. 12 «Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio», pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia n. 29 I Supplemento Ordinario del 18.07.2006" (link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAB.U.R. Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 29 del 18.07.2006, "Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»" (L.R. 14.07.2006 n. 12 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA:  B.U.R. Lombardia, 1° suppl. straord. al n. 25 del 20.06.2006, "Approvazione del bando di finanziamento per la «Produzione di basi cartografiche attraverso Data base topografici» ai sensi della l.r. 12/2005" (decreto Dirigente U.O. 08.06.2006 n. 6451 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICA:  B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 18.04.2006, "Criteri per le misure di sostegno finanziario agli enti locali in attuazione della l.r. n. 12 «Legge per il governo del territorio»" (deliberazione G.R. 05.04.2006 n. 2323 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA:  B.U.R. Lombardia, 3° suppl. straord. al n. 13 del 31.03.2006, "Criteri e procedure per l'esercizio delle funzioni amministrative in materia di tutela dei beni paesaggistici in attuazione della legge regionale 11.03.2005, n. 12" (deliberazione G.R. 15.03.2006 n. 2121 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATAB.U.R. Lombardia, 1° suppl. ord. al n. 10 del 07.03.2006, "Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa" (L.R. 03.03.2006 n. 6 - link a www.infopoint.it).
La suddetta legge aggiunge l'art. 98-bis alla l.r. n. 12/2005 (Legge per il governo del territorio).

EDILIZIA PRIVATAPrimi indirizzi interpretativi - repertorio di pareri sulla nuova legge urbanistica della Regione Lombardia.
I pareri giuridici (espressi in forma di massima) sono frutto dell'attività di chiarimento e di interpretazione svolta fin dall'entrata in vigore della legge regionale per il governo del territorio (31.03.2005), in riferimento ai quesiti sull'applicazione della l.r. 12 formulati dagli Enti locali.
Con questa rassegna l'Assessorato regionale al Territorio e Urbanistica intende offrire un primo aiuto alla lettura della l.r. 12 agli Enti locali e agli operatori del settore (link a www.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:  B.U.R. Lombardia, 3° suppl. straord. al n. 5 del 03.02.2006, "Testo coordinato della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio», modificata dalla l.r. 27.12.2005, n. 20 «Modifiche alla l.r. 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), in materia di recupero abitativo dei sottotetti esistenti»" (testo coordinato L.R. 11.03.2005 n. 12 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, 2° suppl. straord. al n. 4 del 26.01.2006 "Modalità per la pianificazione comunale (l.r. 12/2005, art. 7)" (deliberazione G.R. 29.12.2005 n. 1681 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICAB.U.R. Lombardia, 3° suppl. straord. al n. 3 del 19.01.2006 "Criteri ed indirizzi per la definizione della componente geologica (GEO), idrogeologica e sismica del Piano di Governo del Territorio, in attuazione dell'articolo 57, comma 1, della l.r. 11.03.2005, n. 12" (deliberazione G.R. 22.12.2005 n. 1566 - link a www.infopoint.it).

URBANISTICAB.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 16.01.2006, pag. 265, "Modalità di coordinamento ed integrazione delle informazioni per lo sviluppo del Sistema Informativo Territoriale integrato (SIT) (L.R 2005 n. 12, art. 3)" (deliberazione di G.R. 22.12.2005 n. 1562 - link a www.infopoint.it).

ANNO 2005

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia 1° suppl. ord. al n. 52 del 30.12.2005 "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), in materia di recupero abitativo dei sottotetti esistenti" (L.R. 27.12.2005 n. 20 - link a www.infopoint.it).

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, I Piani regolatori vanno (un po’ per volta) in pensione (AL n. 1-2/2006)

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, Le attrezzature religiose (AL n. 11/2005).

URBANISTICA: W. Fumagalli, Perequazione, compensazione e incentivazione urbanistiche (AL n. 8-9/2005).

URBANISTICA: L. Spallino, Perequazione, compensazione e incentivazione nella l.r. Lombardia 12/2005 (articolo 13.04.2005 - link a www.studiospallino.it).