dossier INDUSTRIA INSALUBRE |
anno 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L’obbligo
di isolamento delle lavorazioni insalubri
non implica che le zone agricole limitrofe
debbano rimanere tali.
La presenza di un
allevamento non impedisce che siano rese
edificabili le aree poste all’interno dei
distacchi minimi previsti dal regolamento
locale di igiene.
Più precisamente, l’indicazione di principio
contenuta nell’art. 216 del RD 1265/1934,
secondo cui le lavorazioni insalubri di
prima classe, tra cui gli allevamenti (v. DM
05.09.1994, punto C-1), devono essere
isolate nelle campagne, non implica che le
zone agricole, o comunque inedificabili,
attorno agli allevamenti debbano rimanere
tali. La pianificazione urbanistica può
sempre espandere l’abitato verso le aree
libere. Sono poi le singole costruzioni a
subire le limitazioni causate dagli
allevamenti preesistenti, con esiti che
richiedono una valutazione caso per caso.
Del resto, l’art. 216, comma 5, del RD 1265/1934 consente che una
lavorazione insalubre di prima classe venga
esercitata in un contesto abitato, se con
“l'introduzione di nuovi metodi o speciali
cautele” è possibile evitare rischi per la
salute dei residenti. Reciprocamente,
quindi, le zone edificabili possono essere
avvicinate agli allevamenti, salva la
necessità di valutare poi, in relazione ai
singoli progetti, le soluzioni più adatte a
evitare interferenze.
Qui si inserisce il potere di deroga alle
norme sulle distanze minime, finalizzato
alla ricerca di una tutela equivalente della
salute delle persone. Nello specifico, il
potere di deroga, che costituisce
espressione di un principio generale, è
codificato nell’art. 3.10.8 del regolamento
locale di igiene.
Se dunque la variante al PGT
(nella parte in cui è stato previsto nei
pressi dell’allevamento, e a distanza
inferiore a quella minima, un Ambito di
Trasformazione destinato a servizi pubblici
e di interesse pubblico)
deve essere considerata
legittima, ricade sui singoli titoli edilizi
il compito di trovare un equilibrio in
concreto tra gli interessi meritevoli di
tutela.
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... per l'annullamento:
- del permesso a costruire n. 31/2019 di data 27.06.2019,
relativo ai lavori di manutenzione
straordinaria dell’allevamento suinicolo
situato lungo la strada consortile delle
Gavrine, nella parte in cui interdice la
possibilità di tenere gli animali, mancando
la distanza minima dalle zone edificate o
edificabili prevista dall'art. 3.10.5 del
regolamento locale di igiene;
- della deliberazione consiliare n. 29 di data 22.06.2016, con
la quale è stata approvata una variante al PGT, nella parte in cui è stato previsto nei
pressi dell’allevamento, e a distanza
inferiore a quella minima, l’Ambito di
Trasformazione 17, destinato a servizi
pubblici e di interesse pubblico;
...
1. I ricorrenti sono proprietari di un
allevamento suinicolo di circa 1.800 mq,
situato nel Comune di Manerbio. La struttura
è presente dagli anni Sessanta, e
inizialmente era gestita dal padre dei
ricorrenti.
2. In data 30.11.2006 i ricorrenti,
modificando e integrando un precedente
contratto, hanno nuovamente concesso in
affitto l’allevamento alla società agricola
La Fi.. In seguito, è stato stipulato un
contratto di affitto in data 11.02.2016 con l’azienda agricola De.So.. Quest’ultimo contratto è stato poi risolto,
dapprima parzialmente e poi integralmente
con effetto dal 28.02.2018.
3. All’allevamento gestito dalla società
agricola La Fi. la ASL di Brescia ha
attribuito il codice di identificazione n.
103BS038/1 dal 01.08.1997 al 30.04.2014. All’allevamento gestito dall’azienda
agricola De.So. la ATS di Brescia ha
attribuito il codice di identificazione n.
103BS038/2 dal 25.02.2016 al 04.07.2016, il codice di identificazione n.
103BS038/3 dall’11.07.2016 al 18.01.2017, e il codice di identificazione n.
103BS038/4 dal 19.01.2017 al 25.01.2018 (v. doc. 8 di parte ricorrente).
4. In data 12.04.2019 i ricorrenti hanno
chiesto al Comune il rilascio di un permesso
di costruire per interventi di manutenzione
straordinaria sulle strutture
dell’allevamento.
5. Il responsabile dell’Area Tecnica, con
nota di data 14.05.2019, ha comunicato
il preavviso di diniego, richiamando il
parere emesso dalla ATS di Brescia il 09.05.2019. Il suddetto parere si esprime
negativamente per le seguenti ragioni:
(a) le opere di manutenzione “in realtà sono destinate alla
costituzione di un nuovo ipotetico
allevamento (di cui non è stato indicato il
numero di capi e/o di peso vivo che si
intende allevare), in quanto il precedente,
intestato a Soc. Ag. «La Fi.»,
risulta dismesso dal 30.04.2014”;
(b) non è rispettata la disciplina sulle distanze, in quanto “si
rileva la presenza di un nucleo di edifici
per attività commerciali a distanza
inferiore a quelle previste dal decreto n.
173 del [19.03.2015] dell'ex ASL di Brescia:
tali edifici risultano preesistenti alla
prima formulazione del suddetto decreto
(delibera n. 797 del 17.11.2003), che
prevede delle distanze di almeno m. 200
(fino a un peso vivo max allevabile di 10 T)
o di 500 m. (oltre le 10 T) tra nuclei
residenziali, commerciali, attività
terziarie esistenti e nuovi allevamenti e/o
loro pertinenze, anche in senso reciproco”;
(c) il progetto inoltre è incompleto, in quanto “non è stata
presentata una relazione agronomica con
indicate almeno le modalità di raccolta,
stoccaggio e smaltimento degli effluenti di
allevamento che si intende attuare; in
particolare se si abbia intenzione di
smaltirli su suolo agricolo a scopo
agronomico, previa fermentazione aerobica in
vasche o, in alternativa, di conferirli in
maniera continua presso un impianto
autorizzato alla trasformazione in biometano
per fermentazione anaerobica, unica modalità
di smaltimento [degli] effluenti aziendali
che renderebbe sostenibile un eventuale
allevamento suinicolo”.
6. In seguito alle controdeduzioni dei
ricorrenti, la ATS di Brescia ha modificato
la propria posizione, rilasciando un parere
favorevole. I passaggi del nuovo
pronunciamento sono i seguenti:
(a) in base all’art. 3, comma 4, del Dlgs. 26.10.2010 n. 200
(Attuazione della direttiva 2008/71/CE
relativa all'identificazione e alla
registrazione dei suini), gli allevamenti
continuano a essere presenti nella BDN
finché non sono trascorsi tre anni
consecutivi dall'uscita o dalla morte
dell'ultimo animale detenuto;
(b) dopo la scadenza, nel 2014, del codice identificativo
rilasciato alla società agricola La Fi.,
è stato attribuito, nel 2016, un codice
identificativo anche all’allevamento gestito
dall’azienda agricola De.So. “su
presentazione contestuale di SCIA al
competente SUAP, [alla] quale non ha fatto
seguito l'espressione di un parere negativo
da parte di codesto Spett.le Comune”;
(c) su questi presupposti, “l'allevamento che i richiedenti Sigg.
Ge. intendono riattivare è da
considerare come esistente; pertanto sulla
richiesta del PdC in oggetto, per opere di
manutenzione straordinaria della struttura
edilizia esistente, che non rispetta le
distanze minime previste dal decreto n. 173
del 19.03.2015 dell'ex ASL di Brescia,
interamente recepito nel regolamento
comunale di codesto Comune, vale quanto
prescritto nello stesso decreto: «Nel caso
di aziende agricole esistenti che non
rispettino i limiti di distanza fissati per
i nuovi allevamenti, sono ammessi interventi
edilizi, purché tali opere non comportino
una diminuzione delle distanze già in
essere»".
7. Nonostante il parere favorevole della
ATS, il responsabile dell’Area Tecnica, nel
rilasciare il permesso a costruire n.
31/2019 di data 27.06.2019, con il quale
si autorizzano i lavori di manutenzione
straordinaria, ha escluso la possibilità di
tenere gli animali all’interno
dell’allevamento. Più precisamente, è stata
esclusa la possibilità di riattivare un
allevamento di suini, in quanto non è
possibile rispettare il distanziamento
minimo dalle zone edificabili stabilito
dall'art. 3.10.5 del regolamento locale di
igiene, nella versione approvata dalla ASL
di Brescia con decreto n. 173 di data 19.03.2015.
8. La ragione per cui non possono essere
mantenute le distanze minime dalle zone
edificabili (200 metri nel caso di
allevamenti suinicoli con peso vivo fino a
10 tonnellate; 500 metri nel caso di
allevamenti suinicoli con peso vivo
superiore) è costituita dalla variante al
PGT approvata in via definitiva con
deliberazione consiliare n. 29 di data 22.06.2016. La suddetta variante ha infatti
interessato un terreno posto a meno di 200
metri dall’allevamento, collocandovi
l’Ambito di Trasformazione 17, destinato a
servizi pubblici e di interesse pubblico
(protezione civile e impianti sportivi – v.
doc. 6 e 10 del Comune).
9. Il problema della preesistenza
dell’allevamento è stato in effetti preso in
considerazione nel corso della procedura di
redazione della variante al PGT, avviata con
deliberazione della giunta n. 61 di data 30.06.2014. Tuttavia, il Comune, quando ha
adottato la variante con deliberazione
consiliare n. 60 del 21.12.2015, ha
ritenuto che la struttura fosse ormai dismessa, in quanto la ASL di Brescia, con
nota di data 29.04.2015 (v. doc. 7 del
Comune), aveva comunicato che l'attività di
allevamento della società agricola La
Fiorita (codice di identificazione n.
103BS038/1) era cessata il 30.04.2014.
10. Contro il permesso di costruire, nella
parte relativa al divieto di riattivare
l’allevamento, e contro la variante al PGT,
nella parte relativa all’Ambito di
Trasformazione 17, i ricorrenti hanno
presentato impugnazione, formulando anche
domanda di risarcimento per il periodo in
cui non è stata possibile la stabulazione.
Le censure possono essere sintetizzate come
segue:
(i) travisamento, in quanto la variante al PGT ha ignorato la
presenza dell’allevamento, che invece,
rientrando tra le lavorazioni insalubri di
prima classe, avrebbe dovuto rimanere
isolato in campagna ai sensi dell’art. 216
del RD 27.07.1934 n. 1265;
(ii) violazione dell’art. 12 del DPR 06.06.2001 n. 380, in
quanto il permesso di costruire non dovrebbe
contenere condizioni limitative, essendo
subordinato unicamente alle previsioni degli
strumenti urbanistici;
(iii) difetto di istruttoria, in quanto non è stato valutato il
secondo parere della ATS di Brescia,
favorevole ai ricorrenti, che riconosce la
preesistenza e la continuità
dell’allevamento, e indica quella che
dovrebbe essere considerata la corretta
interpretazione dell’art. 3.10.5 del
regolamento locale di igiene (ammissibilità
di nuovi interventi edilizi, senza ulteriore
riduzione delle distanze).
11. Il Comune si è costituito in giudizio,
chiedendo la reiezione del ricorso.
12. Sulle questioni rilevanti ai fini della
decisione si possono svolgere le seguenti
considerazioni:
(a) preliminarmente, si osserva che l’impugnazione della variante
al PGT è tempestiva, in quanto proposta
unitamente all’impugnazione dell’atto
applicativo. Solo in questa fase, quando è
ormai pubblica l’interpretazione che
l’amministrazione intende dare alla
disciplina urbanistica, diventa attuale
l’interesse a proporre ricorso, per ottenere
l’annullamento dello strumento urbanistico,
o per far accertare la fondatezza di una
diversa interpretazione;
(b) nel caso in esame, non vi sono i presupposti per annullare la
previsione dell’Ambito di Trasformazione 17,
perché in realtà la nuova disciplina
urbanistica può essere interpretata secondo
i principi della materia, in modo che tutti
gli interessi coinvolti, pubblici e privati,
trovino composizione, subendo solo le
limitazioni strettamente necessarie;
(c) il punto di partenza è la continuità dell’allevamento nel
passaggio dalla gestione della società
agricola La Fi. alla gestione
dell’azienda agricola De.So.. Tra i
vari codici di identificazione non
intercorre mai un periodo superiore a tre
anni, e dunque appare rispettata la
condizione posta dall’art. 3, comma 4, del Dlgs. 200/2010 per ravvisare un allevamento
ancora insediato, sia pure momentaneamente
non attivo. Nell’intervallo dei tre anni era
perfettamente ammissibile la ripresa
dell’attività, con la stessa o una diversa
gestione, ma in ogni caso con la garanzia
della qualifica di allevamento esistente;
(d) nella redazione della variante al PGT è stato quindi commesso
un errore, in quanto la nota della ASL di
Brescia del 29.04.2015 sulla cessazione
dell'attività di allevamento della società
agricola La Fi. non avrebbe dovuto
essere intesa come certificazione della
cancellazione dell’allevamento prima della
decorrenza del termine triennale;
(e) si tratta però di un errore innocuo, in quanto la presenza di
un allevamento non impedisce che siano rese
edificabili le aree poste all’interno dei
distacchi minimi previsti dal regolamento
locale di igiene. Più precisamente,
l’indicazione di principio contenuta
nell’art. 216 del RD 1265/1934, secondo cui
le lavorazioni insalubri di prima classe,
tra cui gli allevamenti (v. DM 05.09.1994, punto C-1), devono essere isolate
nelle campagne, non implica che le zone
agricole, o comunque inedificabili, attorno
agli allevamenti debbano rimanere tali. La
pianificazione urbanistica può sempre
espandere l’abitato verso le aree libere.
Sono poi le singole costruzioni a subire le
limitazioni causate dagli allevamenti
preesistenti, con esiti che richiedono una
valutazione caso per caso;
(f) del resto, l’art. 216, comma 5, del RD 1265/1934 consente che una
lavorazione insalubre di prima classe venga
esercitata in un contesto abitato, se con
“l'introduzione di nuovi metodi o speciali
cautele” è possibile evitare rischi per la
salute dei residenti. Reciprocamente,
quindi, le zone edificabili possono essere
avvicinate agli allevamenti, salva la
necessità di valutare poi, in relazione ai
singoli progetti, le soluzioni più adatte a
evitare interferenze. Qui si inserisce il
potere di deroga alle norme sulle distanze
minime, finalizzato alla ricerca di una
tutela equivalente della salute delle
persone. Nello specifico, il potere di
deroga, che costituisce espressione di un
principio generale, è codificato nell’art.
3.10.8 del regolamento locale di igiene;
(g) se dunque la variante al PGT deve essere considerata legittima,
ricade sui singoli titoli edilizi il compito
di trovare un equilibrio in concreto tra gli
interessi meritevoli di tutela. Per questa
parte il ricorso deve essere accolto, in
quanto il permesso di costruire, vietando la
reintroduzione degli animali, trascura la
continuità dell’allevamento, che era stata
puntualmente segnalata nel secondo parere
della ATS. Di conseguenza, è stata negata
senza giustificazione la tutela riconosciuta
dall’art. 3.10.5 del regolamento locale di
igiene, che, come parimenti segnalato dalla
ATS, non vieta gli interventi edilizi
finalizzati alla prosecuzione dell’attività
di allevamento, ma si limita a prescrivere
che non siano ridotte le distanze esistenti;
(h) la clausola inibitoria contenuta nel permesso di costruire deve
quindi essere annullata, non perché in
astratto non si possano applicare al titolo
edilizio condizioni o limitazioni, essendo
queste ultime, al contrario, uno strumento
di ordinaria utilizzazione in un contesto
regolatorio complesso, ma perché sussiste in
capo ai ricorrenti il diritto di
ripristinare l’attività di allevamento
interrotta da meno di tre anni;
(i) entro quali limiti e con quali modalità sia possibile
riattivare l’allevamento dovrà essere
stabilito dalla ATS, a cui spetta il compito
di valutare le criticità evidenziate nel
primo parere, in particolare per quanto
riguarda le modalità di smaltimento degli
effluenti aziendali. Il permesso di
costruire non può definire autonomamente le
questioni propriamente igienico-sanitarie, e
deve quindi fare rinvio alle valutazioni
dell’autorità competente in materia;
(j) poiché la stabulazione degli animali richiede il chiarimento
preliminare di questi profili, non vi sono i
presupposti per risarcire un danno da
ritardo nella ripresa dell’attività di
allevamento. Occorre poi sottolineare che,
essendo stato rilasciato il titolo edilizio,
i lavori di sistemazione delle strutture
aziendali avrebbero comunque potuto essere
eseguiti, e dunque per questa parte un
rallentamento imposto ai ricorrenti non è
neppure ravvisabile.
13. In conclusione, il ricorso deve essere
parzialmente accolto, nel senso che viene
annullata la clausola del permesso di
costruire riguardante il divieto di
riattivare l’allevamento. Viene inoltre
accertato il diritto di riattivare
l’allevamento, subordinatamente alla
soluzione delle questioni igienico-sanitarie
sopra evidenziate. Sono invece respinte le
altre domande, sia impugnatorie sia
risarcitorie (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.05.2021 n. 403 - link
a www.giustizia-amministraiva.it). |
anno 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA: È
principio costantemente ribadito, tanto dalla legislazione
in materia (v. D.M. 12.02.1971, voce n. 35, e D.M.
23.12.1976, voce n. 31, nonché, soprattutto e da ultimo,
D.M. 05.09.1994, lett. C), n. 1) quanto dalla giurisprudenza
amministrativa, che gli allevamenti degli animali, qualunque
sia la loro consistenza numerica, sono inclusi tra le
lavorazioni insalubri di prima classe in considerazione dei
cattivi odori, rumori, rifiuti liquidi o solidi che essi
comportano.
Inequivocabile è, sul punto, il principio affermato da
questo Consiglio, sez. V, 04.09.2013, n. 4409.
Ma valga anche al riguardo richiamare quanto questo
Consiglio ha di recente stabilito, che, disattendendo la
tesi dell’appellante secondo cui l’allevamento di animali
–si trattava, nel caso di specie, proprio di stalla
ospitante meno di venti bovini– potrebbe essere oggetto di
catalogazione come industria insalubre solo ove abbia
caratteristiche, appunto, industriali per la quantità dei
capi e per il ciclo produttivo al quale essi sono
sottoposti, ha chiarito che, in generale, l’allevamento di
animali è considerato dal T.U.LL.SS. come industria
insalubre di prima classe e, quindi, deve essere comunque
isolato nelle campagne e tenuto lontano da abitazioni.
Né deve trarre in inganno l’espressione “industria”, al
quale fa riferimento il T.U.LL.SS., essendo ben noto che,
nel linguaggio legislativo degli anni ’30 del secolo scorso,
il termine “industrie”, in aderenza, del resto, alla sua
radice etimologica latina, significasse semplicemente
“attività”, non necessariamente contraddistinta, come invece
vorrebbe l’appellante, da modalità intensive od
organizzative di sfruttamento tali da integrarne il
carattere industriale.
La premessa maggiore dalla quale muovono sia i provvedimenti
comunali che la sentenza del TAR –la qualificazione
dell’attività in parola come industria insalubre di prima
classe– è dunque corretta e, anzi, necessaria alla luce del
dato normativo.
Ne discendono, pertanto, due rilevanti conseguenze.
La prima è che il provvedimento comunale nessuna
dimostrazione doveva dare, come invece vorrebbe
l’appellante, delle esalazioni nocive o delle conseguenze
pregiudizievoli per la salute pubblica, posto che la
qualificazione come industria insalubre di prima classe era
in re ipsa, nella stessa attività di allevamento esercitata
dal ricorrente.
La seconda è che nessun affidamento il ricorrente
poteva riporre nell’esercizio di simile industria, così
predefinita dalla legge e per il principio ignorantia legis
non excusat, all’interno di un centro abitato, quale la
frazione di Mergnano San Savino e, comunque e anche se non
in origine o ab immemorabili, è divenuta incontestabilmente
nel tempo.
È anzi fuori discussione, come ha chiarito la costante
giurisprudenza di questo Consiglio, che ai sensi del più
volte richiamato art. 216 del r.d. 1265/1934 il sindaco,
titolare di una ampia potestà sulla tollerabilità o meno
delle industrie insalubri, può esercitarla «in qualsivoglia
tempo e, quindi, anche in epoca successiva all’attivazione
dell’impianto industriale».
E così, si è anche chiarito, nel caso in cui si accerti che
una stalla sia mancante della concimaia e dell’allaccio con
una fogna pubblica, legittimamente l’amministrazione
comunale ordina l’eliminazione della stalla e lo sgombero
degli animali ivi tenuti.
... per la riforma della sentenza del TAR MARCHE-ANCONA:
SEZIONE I n. 626/2014, resa tra le parti, concernente la
dismissione della stalla per l’allevamento dei bovini –
classificazione di industria insalubre
...
1. L’odierno appellante, A.R., è titolare di una impresa
agricola che esercita l’attività di allevamento di animali,
tra i quali bovini e bufale da latte, oltre all’attività di
coltivazione di cereali, girasoli, foraggi e altri
seminativi, nella frazione di Megnano San Savino del Comune
di Camerino.
2. Egli ha impugnato avanti al TAR Marche, chiedendone,
previa sospensione, l’annullamento, la deliberazione della
Giunta Comunale di Camerino n. 111 del 06.06.2013, avente ad
oggetto “Classificazione industria insalubre ai sensi
dell’art. 216 del T.U.LL.SS. e del D.M. 05/09/1994 – Azienda
Agricola R. Loc. Mergnano San Savino – Stalla per
allevamento bovini”, la quale ha dato atto che:
a) l’attività di stalla esercitata dal ricorrente dovesse
qualificarsi come insalubre di prima classe, ai sensi delle
citate disposizioni;
b) il parere dell’ASUR, favorevole al mantenimento della
stalla ma con talune prescrizioni, non era stato rispettato;
c) era quanto meno dubbia la sussistenza dei requisiti
igienico-sanitari affinché la stalla permanesse, nello stato
in cui si trova, all’interno dell’abitato della località
Mergnano San Savino;
d) il Sindaco, in virtù dell’art. 217 del r.d. 1265/1934,
quale massima autorità responsabile della salvaguardia della
sanità e dell’igiene pubblica locale, avrebbe provveduto ad
emanare gli atti necessari ad eliminare, ove ne ricorressero
i requisiti, la situazione di rischio per l’igiene e per la
salute pubblica.
...
15. L’analisi della sentenza e delle sue presunte lacune,
invece, è contenuta nel secondo motivo di appello (p. 10 e
ss. del ricorso), motivo però, per le ragioni, anche esse in
sintesi esposte, che si diranno, del tutto infondato.
15.1. L’appellante, con tale secondo motivo, sottopone a
serrata critica i diversi –e stringati– passaggi
motivazionali della sentenza, con dovizia di pregevoli
argomentazioni e con corredo di precedenti giurisprudenziali
che, tuttavia, non sembrano al Collegio convincentemente
suffragare il suo assunto.
15.2. Un primo decisivo punto, entrando nel merito delle
censure e nel vivo della materia, è quello inerente alla
classificazione dell’attività, svolta dall’appellante, quale
industria insalubre di prima classe ai sensi dell’art. 216
del r.d. 1265/1934 e del D.M. 05.09.1994, classificazione
che costituisce il presupposto delle due ordinanze sindacali
e dei connessi provvedimenti contestati in primo grado.
15.3. Il sig. R. contesta fermamente tale presupposto che
sarebbe stato, a suo avviso, affermato dal Comune senza una
verifica in concreto della sua attività, in fondo modesta
perché relativa all’allevamento di sedici bovini (pp. 14-15
del ricorso), e delle sue eventuali conseguenze nocive per
la popolazione in termini di vapori, gas o altre esalazioni
insalubri o di scoli, rifiuti solidi o liquidi (pp. 16-17
del ricorso).
16. Ma l’assunto dell’appellante è destituito di fondamento.
16.1. È principio costantemente ribadito, tanto dalla
legislazione in materia (v. D.M. 12.02.1971, voce n. 35, e
D.M. 23.12.1976, voce n. 31, nonché, soprattutto e da
ultimo, D.M. 05.09.1994, lett. C), n. 1) quanto dalla
giurisprudenza amministrativa, che gli allevamenti degli
animali, qualunque sia la loro consistenza numerica, sono
inclusi tra le lavorazioni insalubri di prima classe in
considerazione dei cattivi odori, rumori, rifiuti liquidi o
solidi che essi comportano.
16.2. Inequivocabile è, sul punto, il principio affermato da
questo Consiglio, sez. V, 04.09.2013, n. 4409.
16.3. Ma valga anche al riguardo richiamare quanto questo
Consiglio ha di recente stabilito nella sentenza della
Sezione V, 27.12.2013, n. 6264, che, disattendendo la tesi
dell’appellante secondo cui l’allevamento di animali –si
trattava, nel caso di specie, proprio di stalla ospitante
meno di venti bovini– potrebbe essere oggetto di
catalogazione come industria insalubre solo ove abbia
caratteristiche, appunto, industriali per la quantità dei
capi e per il ciclo produttivo al quale essi sono
sottoposti, ha chiarito che, in generale, l’allevamento di
animali è considerato dal T.U.LL.SS. come industria
insalubre di prima classe e, quindi, deve essere comunque
isolato nelle campagne e tenuto lontano da abitazioni.
16.4. Né deve trarre in inganno l’espressione “industria”,
al quale fa riferimento il T.U.LL.SS., essendo ben noto che,
nel linguaggio legislativo degli anni ’30 del secolo scorso,
il termine “industrie”, in aderenza, del resto, alla
sua radice etimologica latina, significasse semplicemente “attività”,
non necessariamente contraddistinta, come invece vorrebbe
l’appellante (p. 15 del ricorso), da modalità intensive od
organizzative di sfruttamento tali da integrarne il
carattere industriale.
16.5. La premessa maggiore dalla quale muovono sia i
provvedimenti comunali che la sentenza del TAR –la
qualificazione dell’attività in parola come industria
insalubre di prima classe– è dunque corretta e, anzi,
necessaria alla luce del dato normativo.
17. Ne discendono, pertanto, due rilevanti conseguenze.
17.1. La prima è che il provvedimento comunale
nessuna dimostrazione doveva dare, come invece vorrebbe
l’appellante (pp. 16-17 del ricorso), delle esalazioni
nocive o delle conseguenze pregiudizievoli per la salute
pubblica, posto che la qualificazione come industria
insalubre di prima classe era in re ipsa, nella
stessa attività di allevamento esercitata dal ricorrente.
17.2. La seconda è che nessun affidamento il
ricorrente poteva riporre nell’esercizio di simile
industria, così predefinita dalla legge e per il principio
ignorantia legis non excusat, all’interno di un
centro abitato, quale la frazione di Mergnano San Savino e,
comunque e anche se non in origine o ab immemorabili,
è divenuta incontestabilmente nel tempo.
17.3. È anzi fuori discussione, come ha chiarito la costante
giurisprudenza di questo Consiglio, che ai sensi del più
volte richiamato art. 216 del r.d. 1265/1934 il sindaco,
titolare di una ampia potestà sulla tollerabilità o meno
delle industrie insalubri, può esercitarla «in
qualsivoglia tempo e, quindi, anche in epoca successiva
all’attivazione dell’impianto industriale» (Cons. St.,
sez. V, 15.02.2001, n. 766).
17.4. E così, si è anche chiarito, nel caso in cui si
accerti che una stalla sia mancante della concimaia e
dell’allaccio con una fogna pubblica, legittimamente
l’amministrazione comunale ordina l’eliminazione della
stalla e lo sgombero degli animali ivi tenuti (Cons. Giust.
Amm. Sic., 05.12.1984, n. 170)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.06.2015 n. 2900 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
generale, gli allevamenti di animali costituiscono in ogni
caso industrie nocive di cui al D.M. 12.02.1971, oggi D.M.
05.09.1994.
L'allevamento avicolo, infatti, è qualificabile come
industria insalubre di prima classe, ai sensi dell'art. 216
t.u. leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265 del 1943 e
nell'elenco contenuto nel D.M. 05.09.1994, n. 1, lett. c), e
ciò indipendentemente dalla sua natura tradizionale o
intensiva.
Nella dizione <allevamenti di animali>, classificati tra le
industrie insalubri di 1 classe dai d.m. 12.02.1971 e
23.12.1976, sono compresi tutti i tipi di allevamento, anche
quelli di tipo “tradizionale” che danno sempre luogo ad
attività agricola (allevamenti di bestiame previsti
dall'art. 2135 c. c., intendendosi per bestiame solo i
bovini, ovini, caprini, equini e suini, ossia animali da
lavoro, carne, latte e lana), o quelli che possono
acquistare carattere agrario solo come attività connesse
all'agricoltura, se ed in quanto esercitate nell'ambito di
un'impresa di coltivazione del fondo, come gli allevamenti
degli animali da cortile e le altre attività di allevamento,
quali la coniglicoltura, la pollicoltura, l'apicoltura,
ecc..
Non vi è alcuna normativa nazionale che escluda l’ubicabilità
di allevamenti di animali costituenti industrie nocive ai
sensi del D.M. 12/02/1971 all’interno delle aree a
destinazione agricola.
L'art. 216 t.u. del 27.07.1934 n. 1265 impone unicamente che
le industrie insalubri della prima classe, vale a dire
quelle produttive di "vapori, gas o altre esalazioni
insalubri" pericolose per la salute umana, tra le quali sono
compresi gli allevamenti di bestiame (D.M. citato, lett. C,
n. 1), siano "isolate nelle campagne e tenute lontane dalle
abitazioni".
La prescrizione normativa nazionale non contiene, tuttavia,
alcuna fissazione di distanze minime, consentendo, anzi, che
quelle imposte dalla disciplina di legge o di piano
regolatore possano in ipotesi essere derogate se venga
dimostrato che l'esercizio dell'attività non reca pregiudizi
alla salute del vicinato.
Divieti e limitazioni all’istallazione di industrie
insalubri (tra cui allevamento zootecnici) in zona agricola
possono ben essere previste, tuttavia, negli strumenti
urbanistici in sede di pianificazione del territorio.
La prima censura è infondata.
Il Collegio evidenzia innanzitutto come le NTA e la delibera
comunale n. 20/2009, diano vita, sia per quanto riguarda la
tipologia di attività installabili nell’area, che per quanto
riguarda le distanze, a una disciplina di non piana
interpretazione, che lascia zone grigie non espressamente
disciplinate e fonte di possibile incertezza applicativa.
Detto ciò, il medesimo Collegio osserva che l’art. 17 delle
NTA prevede che le zone territoriali omogenee agricole E
siano “destinate prevalentemente all'esercizio diretto delle
attività agricole ed all'insediamento di nuclei, edifici e
attrezzature, necessari appunto all'esercizio di tali
attività”… “Tali zone sono destinate alla conduzione del
fondo e all’esercizio dell’attività agricola in generale”….
In essa è consentita la costruzione di: …. 6) Impianti per
allevamenti zootecnici…”.
Il medesimo articolo successivamente prevede che “dalle zone
agricole sono escluse le industrie nocive ai sensi del D.M.
12/02/1971”.
Il Collegio rileva come non sia corretto l’assunto di parte
ricorrente che, ai sensi delle NTA, un allevamento intensivo
come quello in questione non sia realizzabile in zona
agricola, rientrando tra le industrie nocive, in quanto la
previsione di cui al punto 6 dell’art. 17 delle NTA –che
espressamente contempla la realizzazione di allevamenti
zootecnici in zona agricola– si riferirebbe solo agli
allevamenti di tipo tradizionale (esclusi dal novero delle
industrie nocive), e non a quelli di tipo intensivo
assimilabili a impianti industriali.
Osserva in proposito il medesimo Collegio che, in generale,
gli allevamenti di animali costituiscono in ogni caso
industrie nocive di cui al D.M. 12.02.1971, oggi D.M. 05.09.1994.
L'allevamento avicolo, infatti, è qualificabile come
industria insalubre di prima classe, ai sensi dell'art. 216
t.u. leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265 del 1943 e
nell'elenco contenuto nel D.M. 05.09.1994, n. 1, lett.
c) (Cons. Stato, Sez. V, Sent., 04.09.2013, n. 4409), e ciò
indipendentemente dalla sua natura tradizionale o intensiva.
Nella dizione <allevamenti di animali>, classificati tra le
industrie insalubri di 1 classe dai d.m. 12.02.1971 e
23.12.1976, sono compresi tutti i tipi di allevamento,
anche quelli di tipo “tradizionale” che danno sempre luogo
ad attività agricola (allevamenti di bestiame previsti
dall'art. 2135 c. c., intendendosi per bestiame solo i
bovini, ovini, caprini, equini e suini, ossia animali da
lavoro, carne, latte e lana), o quelli che possono
acquistare carattere agrario solo come attività connesse
all'agricoltura, se ed in quanto esercitate nell'ambito di
un'impresa di coltivazione del fondo, come gli allevamenti
degli animali da cortile e le altre attività di allevamento,
quali la coniglicoltura, la pollicoltura, l'apicoltura, ecc.
(TAR Veneto, 08.05.1980, n. 325).
Non vi è alcuna normativa nazionale che escluda l’ubicabilità
di allevamenti di animali costituenti industrie nocive ai
sensi del D.M. 12/02/1971 all’interno delle aree a
destinazione agricola.
L'art. 216 t.u. del 27.07.1934 n. 1265 impone unicamente
che le industrie insalubri della prima classe, vale a dire
quelle produttive di "vapori, gas o altre esalazioni
insalubri" pericolose per la salute umana, tra le quali sono
compresi gli allevamenti di bestiame (D.M. citato, lett. C,
n. 1), siano "isolate nelle campagne e tenute lontane dalle
abitazioni" (TAR Piemonte Torino Sez. II, Sent.,
21/02/2009, n. 477; Cons. Stato, Sez. V, 08.06.1998, n.
778).
La prescrizione normativa nazionale non contiene, tuttavia,
alcuna fissazione di distanze minime, consentendo, anzi, che
quelle imposte dalla disciplina di legge o di piano
regolatore possano in ipotesi essere derogate se venga
dimostrato che l'esercizio dell'attività non reca pregiudizi
alla salute del vicinato (Cons. Stato, sez. IV, 15.12.2011, n. 6612; sez. V, 13.10.2004, n. 6648).
Divieti e limitazioni all’istallazione di industrie
insalubri (tra cui allevamento zootecnici) in zona agricola
possono ben essere previste, tuttavia, negli strumenti
urbanistici in sede di pianificazione del territorio.
In tal senso l’art. 17 delle NTA del PRG del Comune in
questione ha disciplinato l’utilizzo urbanistico delle zone
a destinazione agricola in apparente antinomia.
Da un lato, ha infatti, previsto la realizzabilità, in zona
a destinazione agricola, di impianti di allevamenti
zootecnici, senza porre alcuna limitazione qualitativa o
quantitativa.
Dall’altro, ha vietato nella medesima zona l’installazione
di industrie nocive (tra cui rientrano gli allevamenti di
animali).
L’apparente incongruenza deve essere risolta in termini di
rapporto di specialità tra norme, dove le industrie nocive
costituiscono la norma generale che disciplina, vietandone
l’installazione in zona agricola, la categoria generale
delle industrie nocive (produttive di vapori, gas o altre
esalazioni insalubri), mentre la previsione della
localizzabilità di allevamenti zootecnici nell’ambito della
medesima zona si pone in termini di
specialità/eccezionalità, prendendo specificamente in esame
la species degli allevamenti di animali nell’ambito del più
ampio genere delle industrie nocive per consentirne in via
d’eccezione la localizzazione in area agricola.
Diversamente opinando, non avrebbe avuto senso prevedere
nelle NTA la possibilità di installazione di allevamenti
zootecnici a fronte di un divieto generale di localizzazione
di industrie nocive.
Né risulta convincente l’interpretazione ipotizzata da parte
ricorrente che, come indicato, argomenta il divieto della
presenza dalle zone agricole dell’allevamento in questione
in base alla previsione della lettera H dell’art. 17 delle
NTA, che in riferimento agli allevamenti zootecnici
realizzabili in zona agricola, indica i parametri di
distanza minima, superficie minima del lotto, indice di
fabbricabilità fondiaria, altezza massima e quanto altro
“per la costruzione di allevamenti di tipo tradizionale
(ossia basati prevalentemente sull'utilizzazione degli
elementi della terra) di cui al n° 4 del presente articolo”.
Rileva il Collego come la circostanza che l’art. 17 delle
NTA nulla prescriva per gli allevamenti di tipo intensivo,
non significa che la previsione della lettera H sia
esaustiva rispetto alla tipologia di allevamenti
localizzabili in zona a destinazione agricola.
In particolare, la circostanza che la lettera H si limiti a
disciplinare le caratteristiche degli allevamenti basati in
via prevalente sull'utilizzazione degli elementi della terra
di tipo tradizionale non esclude la localizzabilità in zona
agricola di quelli di altro tipo.
Né, d’altra parte, è sostenibile che l’ubicazione di un
allevamento di tipo intensivo, per la sua assimilabilità ad
impianto di tipo industriale, debba trovare naturale
collocazione nell’ambito delle aree industriali del PRG
comunale.
L’art. 22 delle medesime NTA nel disciplinare le Zone
industriali artigianali di tipo D1 non fa alcun cenno agli
allevamenti di tipo zootecnico mentre, in caso di
localizzazione ripartita tra allevamenti tradizionali e
allevamenti intensivi, tale articolo avrebbe ben dovuto
disciplinare disponendone l’inserimento in questa
destinazione di zona.
Inoltre, l’impianto in questione non avrebbe potuto trovare
spazio nell’area a destinazione industriale D1 che
espressamente esclude l’installazione di industrie nocive,
di talché non appare logica una interpretazione che, sulla
base del dato formale della previsione delle NTA (la lettera
H) che disciplina solo gli allevamenti tradizionali, intenda
dare alle norme un significato che rende impossibile la
realizzazione di un impianto di allevamento di tipo
intensivo nell’intero territorio comunale, non potendo lo
stesso essere localizzato né in zona agricola, né in zona
industriale.
L’interpreazione da accogliere , nella pur non chiara
formulazione del testo delle NTA, anche al fine di evitare
incongruenze e illogicità, è nel senso dell’inesistenza di
limitazioni tipologiche nella localizzazione di allevamenti
zootecnici in zona agricola.
Tale interpretazione è stata peraltro, quella concretamente
adottata nella prassi dall’amministrazione comunale che ha
nel tempo autorizzato tutti gli impianti di allevamento
avicoli in zona agricola senza operare alcuna distinzione.
La censura va quindi rigettata
(TAR Campania, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2762 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2014 |
|
EDILIZIA
PRIVATA: L'inserimento
di una determinata attività nell'elenco delle industrie
insalubri approvato, da ultimo, con i dd.mm. del 02.03.1987
e del 05.09.1994- assolve alla semplice funzione di
segnalare le potenziali fonti di rischio, fermo restando
pertanto il dovere dell'autorità amministrativa di accertare
direttamente in sede locale l'esistenza in concreto di
siffatta potenzialità.
L'astratta individuazione di un'attività produttiva come
insalubre non preclude infatti l'effettuazione di verifiche
in sede locale circa l'effettiva nocività di strutture e
impianti adibiti all'attività medesima, da valutarsi avendo
riguardo sia al contesto ambientale nel quale la predetta
attività si svolge, sia alla eventuale attivazione di
soddisfacenti misure di salvaguardia.
---------------
Secondo la giurisprudenza l’art. 216 del t.u.ll.ss.
stabilisce due classi di attività industriali insalubri:
l’inserimento nella prima, comporta l’obbligo di isolamento
nelle campagne l’insediamento lontano dalle abitazioni,
mentre solo la collocazione nella seconda prevede il
potere-dovere (a fronte della domanda di insediamento) di
valutare la pericolosità in concreto e di prescrivere le
eventuali cautele.
Ciò premesso, Collegio, deve confermare che la mera
iscrizione nella prima classe deriva da una valutazione
direttamente compiuta dalla scelta legislativa, che perciò
esclude ogni discrezionalità dell’amministrazione sul punto.
--------------
Con riferimento poi al carattere meramente accessorio
dell’attività insalubre esercitata occorre osservare che è
del tutto ininfluente il fatto che l’attività insalubre
abbia carattere accessorio nell’organizzazione di impresa
della ricorrente, essendo rilevante esclusivamente
l’idoneità dell’attività ad interferire con l’ambiente, a
maggior ragione se l’attività sia svolta in area
urbanizzata, come nel caso in decisione.
In merito alla classificazione delle industrie
insalubri di prima classe la giurisprudenza ha chiarito che
l'inserimento di una determinata attività nell'elenco delle
industrie insalubri approvato, da ultimo, con i dd.mm. del 02.03.1987 e del
05.09.1994- assolve alla semplice
funzione di segnalare le potenziali fonti di rischio, fermo
restando pertanto il dovere dell'autorità amministrativa di
accertare direttamente in sede locale l'esistenza in
concreto di siffatta potenzialità (TAR Lombardia, Milano,
22/04/1997 n. 488; Cons. Stato, sez. V, Sentenza 15.02.2001 n. 766).
L'astratta individuazione di un'attività
produttiva come insalubre non preclude infatti
l'effettuazione di verifiche in sede locale circa
l'effettiva nocività di strutture e impianti adibiti
all'attività medesima, da valutarsi avendo riguardo sia al
contesto ambientale nel quale la predetta attività si
svolge, sia alla eventuale attivazione di soddisfacenti
misure di salvaguardia.
--------------
Con riferimento invece al
carattere non pericoloso per la salute delle attività ivi
svolte occorre rilevare che secondo la giurisprudenza l’art.
216 del citato t.u. stabilisce due classi di attività
industriali insalubri: l’inserimento nella prima, comporta
l’obbligo di isolamento nelle campagne l’insediamento
lontano dalle abitazioni, mentre solo la collocazione nella
seconda prevede il potere-dovere (a fronte della domanda di
insediamento) di valutare la pericolosità in concreto e di
prescrivere le eventuali cautele. Ciò premesso, Collegio,
deve confermare che la mera iscrizione nella prima classe
deriva da una valutazione direttamente compiuta dalla scelta
legislativa, che perciò esclude ogni discrezionalità
dell’amministrazione sul punto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.03.2013 n. 1345).
Ne consegue che deve escludersi che il Comune dovesse dare
la prova della concreta pericolosità dell’attività svolta.
Con riferimento poi al carattere meramente accessorio
dell’attività insalubre esercitata occorre osservare che è
del tutto ininfluente il fatto che l’attività insalubre
abbia carattere accessorio nell’organizzazione di impresa
della ricorrente, essendo rilevante esclusivamente
l’idoneità dell’attività ad interferire con l’ambiente, a
maggior ragione se l’attività sia svolta in area
urbanizzata, come nel caso in decisione
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV,
sentenza 02.07.2014 n. 1704 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Inquinamento atmosferico. Industrie insalubri: quali i
poteri del Sindaco nel valutare la tollerabilità delle
emissioni?
Domanda
Quali sono i poteri di un Sindaco nel valutare la
tollerabilità delle emissioni delle industrie insalubri? Può
ordinarne la chiusura per impedire il pericolo per la salute
pubblica?
Risposta
Sulla base di quanto disposto dagli artt. 216 e 217 del
TULLSS spetta al sindaco la valutazione della tollerabilità
o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie
classificate insalubri.
L’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo,
anche dopo l’attivazione dell’impianto industriale, e si può
estrinsecare con l’adozione cautelativa di interventi
finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di
attività che presentano i caratteri di possibile
pericolosità, al fine di contemperare le esigenze di
pubblico interesse con quelle dell’attività produttiva.
L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria
classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a
condizione che l’esercizio non superi i limiti della più
stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure
specifiche per evitare esalazioni moleste: pertanto a
seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di
interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni,
il sindaco può disporre la revoca del nulla osta e,
pertanto, la cessazione dell’attività.
Inoltre, è legittimo il provvedimento sindacale volto a
sollecitare (sulla base del parametro della “normale
tollerabilità” delle emissioni) l’elaborazione di misure
tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti
provenienti da attività produttiva, anche a prescindere da
situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo
rilasciata, a condizione però che siano congruamente
dimostrati gli inconvenienti igienici.
La discrezionalità esercitata in questa materia è ampia:
l’art. 216 riferisce la valutazione ad un concetto (“lontananza”)
molto duttile, avuto riguardo, in particolare, alla
tipologia di industria di cui concretamente si tratta (02.01.2014
- tratto da www.ipsoa.it). |
anno 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
In base agli artt.
216-217 t.u. sanitario (r.d. 27.07.1934, n. 1265), non
modificati ma ribaditi dall'art. 32 d.P.R. 24.07.1977, n.
616 e dall'art. 32, comma 3, l. 28.12.1978, n. 833, spetta
al Sindaco, all'uopo ausiliato dalla struttura sanitaria
competente, il cui parere tecnico ha funzione consultiva ed
endoprocedimentale, la valutazione della tollerabilità, o
meno, delle lavorazioni provenienti dalle industrie
cosiddette "insalubri", l'esercizio della cui potestà
potendo avvenire in ogni tempo e potendo esplicarsi mediante
l'adozione, in via cautelare, di interventi finalizzati ad
impedire la continuazione o l'evolversi di attività aventi
carattere di pericolosità (per esempio, esalazioni, scoli,
rifiuti, ecc., specie se riguardanti l'allevamento di
animali).
Rientra, quindi, nei poteri del Sindaco, ex art. 216 t.u.
sanitario r.d. 27.07.1934, n. 1265 ingiungere ad un'impresa,
che esercita un'industria cosiddetta "insalubre", di
presentare un progetto preordinato ad eliminare un temuto
pericolo alla sanità pubblica e di mettere in funzione
l'impianto entro un dato termine, anche sulla scorta del
parere all'uopo reso dalla struttura sanitaria competente,
senza che ciò implichi di per sé alcun difetto di
motivazione o d'eccesso di potere.
Inoltre, in base agli art. 216 e 217 t.u. l. sanitaria, il
Sindaco è titolare di un'ampia potestà di valutazione della
tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle
industrie, classificate "insalubri" e può estrinsecarsi con
l'adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad
impedire la continuazione o l'evolversi di attività che
presentano i caratteri di possibile pericolosità, per
effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente
riguardanti gli allevamenti, ciò per contemperare le
esigenze di pubblico interesse con quelle pur rispettabili
dell'attività produttiva.
Peraltro, come ha già sancito questo Consiglio, gli art. 216
e 217 r.d. 27.07.1934, n. 1265, conferiscono al Comune ampi
poteri in materia di industrie insalubri, anche prescindendo
da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo
rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da
congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e
che si sia vanamente tentato di eliminarli; nel caso di
specie, in riferimento all’ampia ed articolata relazione
dell’ASL, sussistono le condizioni individuate dalla
giurisprudenza predetta per l’esercizio del potere
cautelativo qui in contestazione.
La tesi dell’appellante secondo la quale l’allevamento di
animali de quo, per le deiezioni e l’impatto ambientale che
produce, può essere oggetto di catalogazione come industria
insalubre soltanto ove abbia caratteristiche, appunto,
industriali per la quantità dei capi e per il ciclo
produttivo a cui essi sono sottoposti, è smentita dal fatto
che, in generale, l'allevamento di animali è considerato
dalle norme del testo unico delle leggi sanitarie industria
insalubre di prima classe e, pertanto, ai sensi dell'art.
216 t.u. 27.07.1934, n. 1265, l'allevamento deve comunque
essere isolato nelle campagne e tenuto lontano da
abitazioni.
Pertanto, non è sostenibile, sulla scorta dell’orientamento
giurisprudenziale surriferito, la tesi secondo cui la
nozione di allevamento di animali sarebbe stata utilizzata
per i grandi allevamenti che forniscono all’industria
alimentare la materia prima per le lavorazioni di prodotti
alimentari.
Peraltro, proprio perché si è in presenza di una stalla di
bovini con meno di venti capi, ovvero una tipica stalla
rurale, condotta dal coltivatore diretto unitamente alla
propria personale piccola azienda rurale, è stato consentita
la prosecuzione dell’attività, con il solo onere di
rispettare una serie di prescrizioni concrete, emanate dalla
competente autorità tecnica sanitaria (come afferma lo
stesso appellante in memoria), per consentire una
conciliazione fra le esigenze igienico-sanitarie e le
esigenze socio-economiche, anch’esse di indubbia valenza e
natura pubblica, prescrizioni da ritenersi ragionevoli e
compatibile con il potere di ordinanza come sopra descritto.
... per la riforma della sentenza del TAR MARCHE-ANCONA
n. 01654/2000, resa tra le parti, concernente chiusura
stalla per bovini.
...
Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche, con la
sentenza n. 1654 dell’11.12.2000, ha respinto il
ricorso proposto dall’attuale appellante per l’annullamento
dell’ordinanza 26.09.1998 con la quale era stata
ordinata l’immediata chiusura della stalla per bovini
ubicata in un fabbricato sito nella Frazione di Seppio di Pioraco.
Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente,
che la circostanza che l’immobile adibito a stalla (ed a
magazzino) fosse stato realizzato quando la destinazione
della zona era agricola e che solo nel 1980 il piano di
fabbricazione aveva reso possibile un’edificabilità di tipo
residenziale non poteva costituire motivo per giustificare
la gestione di una stalla di bovini, di una porcilaia e di
un letamaio a stretto ridosso di altre abitazioni, poiché
l’allevamento di bestiame rappresenta di per sé attività
potenzialmente pericolosa per la salute pubblica ed è
ricompresa nell’elenco delle industrie o lavorazioni
insalubri di prima classe di cui all’art. 216 R.D. 27.07.1934, n. 1265 (e classificazione decreto del Ministero della
Sanità 05.09.1994 che ha sostituito il D.M. 19.11.1981).
Pertanto, per il TAR, indipendentemente dall’essere
localizzate o meno in zona agricola, dette industrie
insalubri, in forza dell’art. 216 T.U.L.S., devono essere
tenute lontane dalle abitazioni e pertinente era, dunque, il
richiamo nel provvedimento all’art. 30 del regolamento
comunale d’igiene che si conforma ad una fonte d’ordine
sopraordinata.
Infine, per il TAR, non si poteva pretendere che
l’Amministrazione attendesse il verificarsi di una
situazione di danno concreto per la salute pubblica, essendo
sufficiente, per configurare il presupposto dell’urgenza,
una situazione di pericolo non fronteggiabile adeguatamente
e tempestivamente con misure ordinarie; tale situazione di
pericolo era, nella specie, obiettivamente esistente ed era
stata attestata dall’A.U.S.L. n. 10 nelle relazioni
richiamate nell'atto impugnato.
...
Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato.
Infatti, come ha già chiarito la giurisprudenza di questo
Consiglio, in base agli artt. 216-217 t.u. sanitario (r.d.
27.07.1934, n. 1265), non modificati ma ribaditi
dall'art. 32 d.P.R. 24.07.1977, n. 616 e dall'art. 32,
comma 3, l. 28.12.1978, n. 833, spetta al Sindaco,
all'uopo ausiliato dalla struttura sanitaria competente, il
cui parere tecnico ha funzione consultiva ed
endoprocedimentale, la valutazione della tollerabilità, o
meno, delle lavorazioni provenienti dalle industrie
cosiddette "insalubri", l'esercizio della cui potestà
potendo avvenire in ogni tempo e potendo esplicarsi mediante
l'adozione, in via cautelare, di interventi finalizzati ad
impedire la continuazione o l'evolversi di attività aventi
carattere di pericolosità (per esempio, esalazioni, scoli,
rifiuti, ecc., specie se riguardanti l'allevamento di
animali).
Rientra, quindi, nei poteri del Sindaco, ex art. 216 t.u.
sanitario r.d. 27.07.1934, n. 1265 ingiungere ad
un'impresa, che esercita un'industria cosiddetta
"insalubre", di presentare un progetto preordinato ad
eliminare un temuto pericolo alla sanità pubblica e di
mettere in funzione l'impianto entro un dato termine, anche
sulla scorta del parere all'uopo reso dalla struttura
sanitaria competente, senza che ciò implichi di per sé alcun
difetto di motivazione o d'eccesso di potere.
Inoltre, in base agli art. 216 e 217 t.u. l. sanitaria, il
Sindaco è titolare di un'ampia potestà di valutazione della
tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle
industrie, classificate "insalubri" e può estrinsecarsi con
l'adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad
impedire la continuazione o l'evolversi di attività che
presentano i caratteri di possibile pericolosità, per
effetto di esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente
riguardanti gli allevamenti, ciò per contemperare le
esigenze di pubblico interesse con quelle pur rispettabili
dell'attività produttiva.
Peraltro, come ha già sancito questo Consiglio (Consiglio di
Stato, sez. V, 19.04.2005, n. 1794), gli art. 216 e 217
r.d. 27.07.1934, n. 1265, conferiscono al Comune ampi
poteri in materia di industrie insalubri, anche prescindendo
da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo
rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da
congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e
che si sia vanamente tentato di eliminarli; nel caso di
specie, in riferimento all’ampia ed articolata relazione
dell’ASL, sussistono le condizioni individuate dalla
giurisprudenza predetta per l’esercizio del potere
cautelativo qui in contestazione.
La tesi dell’appellante secondo la quale l’allevamento di
animali de quo, per le deiezioni e l’impatto ambientale che
produce, può essere oggetto di catalogazione come industria
insalubre soltanto ove abbia caratteristiche, appunto,
industriali per la quantità dei capi e per il ciclo
produttivo a cui essi sono sottoposti, è smentita dal fatto
che, in generale, l'allevamento di animali è considerato
dalle norme del testo unico delle leggi sanitarie industria
insalubre di prima classe e, pertanto, ai sensi dell'art.
216 t.u. 27.07.1934, n. 1265, l'allevamento deve
comunque essere isolato nelle campagne e tenuto lontano da
abitazioni (cfr., anche, Consiglio di Stato, sez. V, 17.04.2002, n. 2008).
Pertanto, non è sostenibile, sulla scorta dell’orientamento
giurisprudenziale surriferito, la tesi secondo cui la
nozione di allevamento di animali sarebbe stata utilizzata
per i grandi allevamenti che forniscono all’industria
alimentare la materia prima per le lavorazioni di prodotti
alimentari.
Peraltro, proprio perché si è in presenza di una stalla di
bovini con meno di venti capi, ovvero una tipica stalla
rurale, condotta dal coltivatore diretto unitamente alla
propria personale piccola azienda rurale, è stato consentita
la prosecuzione dell’attività, con il solo onere di
rispettare una serie di prescrizioni concrete, emanate dalla
competente autorità tecnica sanitaria (come afferma lo
stesso appellante in memoria), per consentire una
conciliazione fra le esigenze igienico-sanitarie e le
esigenze socio-economiche, anch’esse di indubbia valenza e
natura pubblica, prescrizioni da ritenersi ragionevoli e
compatibile con il potere di ordinanza come sopra descritto.
Tali prescrizioni, che sono state il frutto di un’attività
amministrativa posteriore agli atti oggetto del presente
giudizio, non possono ritenersi inficianti di questi ultimi,
poiché logicamente e ragionevolmente il Comune ha in primis
disposto in via cautelare la chiusura della stalla per
bovini ubicata in un fabbricato sito nella Frazione di
Seppio di Pioraco, a tutela della salute e sulla base di
un’idonea istruttoria (parere della competente struttura
sanitaria); in seconda battuta, esaurita l’impellenza
cautelativa, ha emanato una serie di atti successivi per
consentire comunque il mantenimento dell’attività agricola,
in modo soddisfacente per le parti
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.12.2013 n. 6264 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimità ordine di chiusura di allevamento suinicolo.
L’originaria localizzazione
dell’allevamento (va ricordato, industria insalubre di prima
classe, in base, da ultimo, all’elenco allegato al d.m.
05.09.1994, attuativo dell’art. 216 del T.U.LL.SS.) in zona
agricola non esentava il ricorrente, ai sensi dell’art. 216,
cit., dal tenere l’azienda “isolata nella campagna” e
comunque “lontana dalle abitazioni”.
E’ stato infatti affermato che, in base agli artt. 216 e 217
del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32 del
d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge
833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità
sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno
delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate
“insalubri”, e l’esercizio di tale potestà può avvenire in
qualsiasi tempo e, quindi, anche in epoca successiva
all'attivazione dell’impianto industriale e può
estrinsecarsi con l’adozione in via cautelare di interventi
finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di
attività che presentano i caratteri di possibile
pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti,
specialmente riguardanti gli allevamenti, e ciò per
contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle
dell'attività produttiva
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 24.09.2013 n. 4687 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quali sono i poteri di un Sindaco nel valutare la
tollerabilità delle emissioni?
Il Sindaco può ordinare la chiusura di
un'industria insalubre per impedire il pericolo per la
salute pubblica? Il Consiglio di Stato ha precisato che
l'autorizzazione per l'esercizio di un'industria
classificata insalubre è concessa, e può essere mantenuta, a
condizione che l'esercizio non superi i limiti della più
stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure
atte a prevenire emissioni moleste: se il Sindaco constata
che l'impresa non ha adottato le misure richieste per
prevenire e impedire il danno da esalazioni, può disporre la
revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione
dell'attività.
Gli interrogativi
Quali sono i poteri di un Sindaco nel valutare la
tollerabilità delle emissioni delle industrie insalubri?
Può ordinarne la chiusura per impedire il pericolo per la
salute pubblica?
Sono i due interrogativi alla base della sentenza del
Consiglio di Stato (n. 4687/13), che nel confermare quanto
stabilito dal TAR, ha precisato che l’autorizzazione per
l’esercizio di un’industria insalubre è concessa, e può
essere mantenuta, a condizione che l’esercizio non superi i
limiti della più stretta tollerabilità e che siano adottate
tutte le misure atte a prevenire emissioni moleste: se il
Sindaco constata che l’impresa non ha adottato le misure
richieste per prevenire e impedire il danno da esalazioni,
può disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la
cessazione dell’attività.
Il caso
La vicenda trae origine da una serie di atti che il Sindaco
di un Comune ha adottato nei confronti di un’azienda
suinicola (industria insalubre di prima classe).
Sono tre sostanzialmente i motivi d’appello sottoposti
dall’azienda all’esame del Consiglio di Stato:
1. i provvedimenti impugnati sono stati adottati sulla base
di accertamenti tecnici effettuati dall’ASL ai fini
dell’adozione della precedente ordinanza, poi annullata dal
TAR; 2. l’ubicazione in zona agricola dell’azienda è idonea
ad evitare problemi di coesistenza con altri insediamenti;
3. gli interventi tecnici non sono congrui né idonei a far
fronte agli inconvenienti ambientali rilevati.
La validità degli accertamenti tecnici
In estrema sintesi, secondo l’appellante l’annullamento
avrebbe travolto anche gli atti istruttori.
Ad avviso del Consiglio di Stato, invece, la sorte del
precedente provvedimento, in quanto annullato dal TAR per
mancanza del presupposto costituito dall’esistenza di una
situazione di necessità ed urgenza, vale a dire in ragione
della errata qualificazione giuridica della situazione
oggettivamente riscontrata, non inficia il valore degli
accertamenti tecnici in sé considerati, che ben potevano
essere utilizzati ai fini dell’adozione di altro e diverso
(quanto ai presupposti giuridici) provvedimento.
L’ubicazione in
zona agricola
In relazione alla seconda contestazione, il Collegio ha
evidenziato che l’originaria localizzazione dell’allevamento
in zona agricola non esentava il ricorrente dal tenere
l’azienda “isolata nella campagna” e comunque “lontana
dalle abitazioni”; tanto più che l’area dell’allevamento
era stata riclassificata, dalla variante generale del PRG in
fase di adozione, quale zona D1 a destinazione
agricola-artigianale, proprio in accoglimento di
un’osservazione del ricorrente, il quale si era impegnato a
riconvertire in edifici artigianali le costruzioni
esistenti, dacché nell’area insistevano ormai altri
insediamenti produttivi (oltre che case sparse).
Le valutazioni
peritali di parte
In relazione al terzo motivo d’appello –che si è fondato su
una relazione peritale di parte– i giudici di Palazzo Spada
hanno osservato che alle valutazioni tecnico-discrezionali
espresse dagli organi pubblici preposti alla tutela
igienico-sanitaria ed ambientale non possono essere
sovrapposte le valutazioni peritali di parte di segno
contrario.
A meno che –si specifica– a carico delle prime non vengano
evidenziati vizi di logicità, contraddittorietà o
incompletezza per quanto concerne l’individuazione degli
elementi di fatto rilevanti e la scelta della regola tecnica
di riferimento o la sua applicazione: si tratta di un
principio valevole tanto più in un settore, come quello
delle emissioni olfattive, che è connotato da un’estesa
discrezionalità tecnica, che il giudice amministrativo può
sindacare solo in caso di manifesta irragionevolezza od
incoerenza sotto il profilo scientifico.
La discrezionalità tecnica Poteri del Sindaco
In base agli artt. 216 e 217 del TULLSS spetta al Sindaco,
all’uopo ausiliato dall’USL, la valutazione della
tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle
industrie classificate insalubri Tempistiche. L’esercizio di
tale potestà può avvenire in qualsiasi tempo: quindi anche
in epoca successiva all’attivazione dell’impianto
industriale
Modalità
Adozione in via cautelare di interventi finalizzati ad
impedire la continuazione o l’evolversi di attività che
presentano i caratteri di possibile pericolosità Limiti
dell’autorizzazione. Non devono essere superati limiti della
più stretta tollerabilità Devono essere adottate tutte le
misure, secondo la specificità delle lavorazioni, per
evitare esalazioni moleste
Diffida
È legittimo il provvedimento sindacale volto a sollecitare
(sulla base del parametro della “normale tollerabilità”
delle emissioni, ex art. 844 c.c., e con riferimento alle
funzioni attribuite dal DLgs 267/2000) l’elaborazione di
misure tecniche idonee a far cessare le esalazioni
maleodoranti provenienti da attività produttiva, anche a
prescindere da situazioni di emergenza e dall’autorizzazione
a suo tempo rilasciata, a condizione però che siano
dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli
inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di
eliminarli
Revoca
A seguito dell’avvenuta constatazione dell’assenza di
interventi per prevenire ed impedire il danno da esalazioni,
il Sindaco può disporre la revoca del nulla osta e,
pertanto, la cessazione dell’attività
Discrezionalità
È inevitabilmente ampia: il cit. art. 216 riferisce la
valutazione ad un concetto, quello di “lontananza”,
spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla
tipologia di industria di cui concretamente si tratta
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez.
III,
sentenza 24.09.2013 n. 4687 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base agli artt. 216 e
217 del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32
del d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge
833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità
sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno
delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate
“insalubri”, e l’esercizio di tale potestà può avvenire in
qualsiasi tempo e, quindi, anche in epoca successiva
all'attivazione dell’impianto industriale e può
estrinsecarsi con l’adozione in via cautelare di interventi
finalizzati ad impedire la continuazione o l’evolversi di
attività che presentano i caratteri di possibile
pericolosità, per effetto di esalazioni, scoli e rifiuti,
specialmente riguardanti gli allevamenti, e ciò per
contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle
dell'attività produttiva.
L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria
classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a
condizione che l’esercizio non superi i limiti della più
stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure,
secondo la specificità delle lavorazioni, per evitare
esalazioni “moleste”: pertanto a seguito dell’avvenuta
constatazione dell’assenza di interventi per prevenire ed
impedire il danno da esalazioni, il sindaco può disporre la
revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione
dell’attività.
Inoltre, è stato ritenuto legittimo il provvedimento
sindacale volto a sollecitare (sulla base del parametro
della “normale tollerabilità” delle emissioni, ex art. 844
c.c., e con riferimento alle funzioni attribuite dall’art.
13 del d.lgs. 267/2000) l’elaborazione di misure tecniche
idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti provenienti
da attività produttiva; ciò, anche prescindendo da
situazioni di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo
rilasciata, a condizione però che siano dimostrati, da
congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e
che si sia vanamente tentato di eliminarli.
Ne discende, come esposto, che la discrezionalità che si
esercita in questa materia è inevitabilmente ampia, anche
considerato che l’art. 216, cit. riferisce la valutazione ad
un concetto, quello di “lontananza”, spiccatamente duttile
avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di industria
di cui concretamente si tratta (allevamento suinicolo).
Con riferimento alle previsioni dell’art. 216 del T.U.LL.SS.,
l’obiettivo degli interventi indicati nell’ordinanza è
indubbiamente l’abbattimento delle “esalazioni insalubri”
(di tipo olfattivo) dell’allevamento, affinché esse non
risultino “di pericolo o di danno per la salute pubblica”;
detti interventi hanno concretizzato “le norme da
applicare per prevenire o impedire il danno e il pericolo”;
mentre la sanzione comminata in forza della mancata
realizzazione corrisponde al potere di assicurare “la
loro esecuzione ed efficienza”.
Non risultano specificamente normati (dal d.lgs. 372/1999,
vigente all’epoca; ma neanche dagli artt. 269-271, del
d.lgs. 152/2006) parametri e limiti di accettabilità di tale
tipo di effetti “odoriferi” delle emissioni; tuttavia
è pacifico, almeno a partire dal r.d. 1265/1934, che
anch’esse debbano essere contenute entro limiti di
tollerabilità e pertanto sottoposte al potere limitativo
dell’Amministrazione locale.
E’ stato infatti affermato che, in base agli artt. 216 e 217
del T.U.LL.SS. (non modificati, ma ribaditi dall’art. 32 del
d.P.R. 616/1977 e dall’art. 32, comma 3, della legge
833/1978), spetta al sindaco, all’uopo ausiliato dall’unità
sanitaria locale, la valutazione della tollerabilità o meno
delle lavorazioni provenienti dalle industrie classificate “insalubri”,
e l’esercizio di tale potestà può avvenire in qualsiasi
tempo e, quindi, anche in epoca successiva all'attivazione
dell’impianto industriale e può estrinsecarsi con l’adozione
in via cautelare di interventi finalizzati ad impedire la
continuazione o l’evolversi di attività che presentano i
caratteri di possibile pericolosità, per effetto di
esalazioni, scoli e rifiuti, specialmente riguardanti gli
allevamenti, e ciò per contemperare le esigenze di pubblico
interesse con quelle dell'attività produttiva.
L’autorizzazione per l’esercizio di un’industria
classificata insalubre è concessa e può essere mantenuta a
condizione che l’esercizio non superi i limiti della più
stretta tollerabilità e che siano adottate tutte le misure,
secondo la specificità delle lavorazioni, per evitare
esalazioni “moleste”: pertanto a seguito
dell’avvenuta constatazione dell’assenza di interventi per
prevenire ed impedire il danno da esalazioni, il sindaco può
disporre la revoca del nulla osta e, pertanto, la cessazione
dell’attività (cfr. Cons. Stato, V, 15.02.2001, n. 766);
inoltre, è stato ritenuto legittimo il provvedimento
sindacale volto a sollecitare (sulla base del parametro
della “normale tollerabilità” delle emissioni, ex
art. 844 c.c., e con riferimento alle funzioni attribuite
dall’art. 13 del d.lgs. 267/2000) l’elaborazione di misure
tecniche idonee a far cessare le esalazioni maleodoranti
provenienti da attività produttiva (cfr. Cons. Stato, V,
14.09.2010, n. 6693); ciò, anche prescindendo da situazioni
di emergenza e dall’autorizzazione a suo tempo rilasciata, a
condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria
istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia
vanamente tentato di eliminarli (cfr. Cons. Stato, V,
19.04.2005, n. 1794).
Ne discende, come esposto, che la discrezionalità che si
esercita in questa materia è inevitabilmente ampia, anche
considerato che l’art. 216, cit. riferisce la valutazione ad
un concetto, quello di “lontananza”, spiccatamente
duttile avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di
industria di cui concretamente si tratta (cfr. Cons. Stato,
V, 24.03.2006, n. 1533)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 24.09.2013 n. 4687 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego del Comune per
autorizzazione all’installazione, nella sede di produzione,
di un impianto di verniciatura a polveri.
E’ legittimo il diniego di autorizzazione all’esercizio di
un’attività industriale, ritenuta insalubre ex art. 216 del
T.U. n. 1265/1934. Infatti, l’art. 216 del T.U stabilisce
due classi di attività industriali insalubri, l’inserimento
nella prima, comporta l’obbligo di isolamento nella campagne
l’insediamento lontano dalle abitazioni, mentre solo la
collocazione nella seconda prevede il potere-dovere (a
fronte della domanda di insediamento) di valutare la
pericolosità in concreto e di prescrivere le eventuali
cautele.
Ciò premesso, la mera iscrizione nella prima classe, in
quanto derivante da una valutazione direttamente compiuta
dalla scelta legislativa, che perciò esclude ogni
discrezionalità dell’amministrazione sul punto, comporta il
dovere della stessa di rifiutare le autorizzazioni,
consentendo inoltre al Comune di varare, con riferimento a
determinati ambiti territoriali, norme di regolamentazione
urbanistica in senso preclusivo di dette attività.
Nel merito
l’appello, sostenuto dalle successive doglianze, è
meritevole di accoglimento.
Nell’accogliere il ricorso, in particolare, il giudice di
prime cure ha ritenuto che il divieto di attività rientranti
nell’elenco di prima categoria di rischio di cui all’art.
216 del T.U. n. 1265/1934, nella zona “de qua” –,
introdotto dalle fonti regolamentari applicate (art. 2/bis
del Regolamento per l’assegnazione delle aree P.I.P. e
nell’art. unico del Regolamento edilizio) per le industrie
insalubri di prima classe non integra ex se una pericolosità
sufficiente per bandirle in assoluto dal territorio. Ha
aggiunto il primo giudice che:
- “detta pericolosità infatti deve essere valutata non
già in astratto, bensì in concreto, avendo riguardo alle
misure ed alle cautele suggerite dal progresso tecnico che
possono essere tali da rendere innocua, grazie ad opportuni
accorgimenti, una attività potenzialmente nociva”;
- “la normativa comunale può anche essere molto più
rigorosa rispetto a quella statale, specie quando nello
specifico territorio comunale la salute pubblica ed anche
l’ambiente risultino particolarmente compromessi a causa di
insediamenti pericolosi e/o nocivi già esistenti”;
- “tuttavia, tale rigore normativo (in ipotesi
particolarmente giustificato da esigenze locali) non può
spingersi al punto da bandire in assoluto una qualsiasi
“lavorazione insalubre di 1^ classe” dall’intero territorio
comunale”.
In contrario rileva tuttavia il Comune appellante, ed in
effetti è sfuggito al giudice di prime cure, che l’art. 216
del citato t.u. stabilisce due classi di attività
industriali insalubri; l’inserimento nella prima, comporta
l’obbligo di isolamento nella campagne l’insediamento
lontano dalle abitazioni, mentre solo la collocazione nella
seconda prevede il potere-dovere (a fronte della domanda di
insediamento) di valutare la pericolosità in concreto e di
prescrivere le eventuali cautele, elementi cui si è
richiamato il primo giudice. Ciò premesso, Collegio,
all’opposto di quanto ritenuto dal TAR, deve confermare che
la mera iscrizione nella prima classe, in quanto derivante
da una valutazione direttamente compiuta dalla scelta
legislativa, che perciò esclude ogni discrezionalità
dell’amministrazione sul punto, comporta il dovere della
stessa di rifiutare le autorizzazioni, consentendo inoltre
al Comune di varare, con riferimento a determinati ambiti
territoriali, norme di regolamentazione urbanistica in senso
preclusivo di dette attività.
Pertanto, non essendo contestato che l’attività
dell’appellata rientrasse nella prima classe, sia
l’introduzione del divieto di insediamento che il diniego di
autorizzazione non costituiscono un’erronea applicazione
della normativa statale sopra menzionata
(massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.03.2013 n. 1345 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Non
esiste alcuna automaticità nel rilascio del certificato di
agibilità a seguito di concessione in sanatoria, dovendo,
pur sempre, il Comune verificare che al momento del rilascio
del certificato di agibilità siano osservate le disposizioni
normative sulle condizioni igienico–sanitarie.
Dunque, il rilascio di una sanatoria edilizia non comporta
necessariamente l’obbligo per l’autorità amministrativa di
emettere un provvedimento ugualmente positivo in ordine
all’agibilità con riguardo all’attività che vi deve essere
svolta, in quanto il rilascio di tale ulteriore licenza
implica, in capo all’autorità emanante, il preventivo
accertamento e la conseguente valutazione di elementi non
rilevanti in sede di rilascio della sanatoria che presuppone
la presenza di requisiti diversi e autonomi.
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L’attività di allevamento di animali (qual è quella che oggi
viene svolta all’interno del manufatto, essendo irrilevante
il numero di animali che attualmente vi sono custoditi)
rientra nell’elenco delle industrie insalubri di prima
classe di cui al D.M. 05.09.1994 e all’art. 216 del R.D.
1265/1934, che devono essere isolate nelle campagne e tenute
lontane dalle abitazioni..
In ogni caso, anche se nella concessione in
sanatoria si fa riferimento ad una destinazione a “pollaio”
non significa, come invece sostiene il ricorrente, che sia
stata implicitamente concessa l’agibilità per uso ricovero
animali del manufatto condonato. Licenza questa che, invece,
non è mai stata rilasciata.
Peraltro, non esiste alcuna
automaticità nel rilascio del certificato di agibilità a
seguito di concessione in sanatoria, dovendo, pur sempre, il
Comune verificare che al momento del rilascio del
certificato di agibilità siano osservate le disposizioni
normative sulle condizioni igienico–sanitarie (cfr. Corte
Cost. n. 256/1996; Cons. Stato n. 2140/2004).
Dunque, il rilascio di una sanatoria edilizia non comporta
necessariamente l’obbligo per l’autorità amministrativa di
emettere un provvedimento ugualmente positivo in ordine
all’agibilità con riguardo all’attività che vi deve essere
svolta, in quanto il rilascio di tale ulteriore licenza
implica, in capo all’autorità emanante, il preventivo
accertamento e la conseguente valutazione di elementi non
rilevanti in sede di rilascio della sanatoria che presuppone
la presenza di requisiti diversi e autonomi.
Nel caso di specie, l’amministrazione ha da ultimo rilevato,
nel corso di un apposito sopralluogo, che il manufatto
condonato era stato in concreto destinato ad un’attività,
quella di allevamento di maiali, che poteva influire sulle
condizioni di salubrità dell’ambiente circostante, essendo
situato in prossimità dell’abitazione dell’odierno
controinteressato.
Pertanto, la destinazione dell’annesso rustico a porcile,
costituendo una circostanza nuova e rilevante sul piano
igienico–sanitario, comporta la necessità del rilascio di
una specifica licenza di agibilità che, d’altra parte, non
sembra possa essere attualmente conseguita, stante
l’esistenza dell’abitazione di P.C. a distanza
inferiore a quella di trenta metri prevista dalle n.t.a. e
dal regolamento edilizio.
Va infatti evidenziato che l’attività di allevamento di
animali (qual è quella che oggi viene svolta all’interno del
manufatto, essendo irrilevante il numero di animali che
attualmente vi sono custoditi) rientra nell’elenco delle
industrie insalubri di prima classe di cui al D.M.
05.09.1994 e all’art. 216 del R.D. 1265/1934, che devono
essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle
abitazioni.
Ne consegue che sussistevano tutti i presupposti per
l’emissione del divieto di destinare a porcilaia l’annesso
rustico in questione e che la circostanza della preesistenza
o meno dell’annesso rustico all’abitazione di Pio Carretta
non è decisiva, in quanto ciò che conta è che l’attività ivi
esercitata non è mai stata regolarizzata e dunque oggi è
destinata a scontare la vicinanza della detta abitazione
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 28.02.2013 n. 289 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Industria insalubre
L’art. 216
t.u.l.s., nel consentire la permanenza delle industrie
insalubri nei centri abitati a certe condizioni e
accorgimenti tecnici, non ha autorizzato il Comune a
disporre una deroga al disposto della norma, tale da porre
nel nulla il precetto che vuole lontane dagli abitati le
lavorazioni insalubri. Al contrario, ha inserito una
prescrizione che si armonizza con le norme dello strumento
urbanistico e ha proprio il fine di allontanare quelle
lavorazioni a tutela della qualità della vita dei residenti.
Si tratta quindi di un ulteriore strumento di governo del
territorio che conferisce all’ente locale, nell’ambito del
generale potere pianificatorio, un’ampia potestà di
valutazione della tollerabilità o meno di quelle attività,
tanto ampia da comprendere anche l’interdizione
dall’esercizio delle attività stesse.
Del tutto pacificamente, la giurisprudenza evidenzia come
l’art. 216 t.u.l.s., nel consentire la permanenza delle
industrie insalubri nei centri abitati a certe condizioni e
accorgimenti tecnici, non ha autorizzato il Comune a
disporre una deroga al disposto della norma, tale da porre
nel nulla il precetto che vuole lontane dagli abitati le
lavorazioni insalubri. Al contrario, ha inserito una
prescrizione che si armonizza con le norme dello strumento
urbanistico e ha proprio il fine di allontanare quelle
lavorazioni a tutela della qualità della vita dei residenti.
Si tratta quindi di un ulteriore strumento di governo del
territorio che conferisce all’ente locale, nell’ambito del
generale potere pianificatorio, un’ampia potestà di
valutazione della tollerabilità o meno di quelle attività,
tanto ampia da comprendere anche l’interdizione
dall’esercizio delle attività stesse (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 22.01.2013 n. 364 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità diniego concessione edilizia
per adeguamento industria insalubre in difformità NTA del
PRG.
E’ legittimo il diniego del Comune alla richiesta di
concessione edilizia per l'adeguamento dell'impianto
industriale di preparazione di conglomerati cementiti, in
difformità delle N.T.A. del P.R.G. vigente in quanto
l'attività svolta dall'impianto rientra nell'elenco delle
industrie insalubri di cui all'art. 216 T.U. delle Leggi
sanitarie.
Infatti, l’art. 216 del T.U. delle Leggi
sanitarie (D.M. 05.09.1994 e succ. modif.) nel consentire la
permanenza delle industrie insalubri nei centri abitati a
certe condizioni e accorgimenti tecnici, non ha autorizzato
il Comune a disporre una deroga al disposto della norma,
tale da porre nel nulla il precetto che vuole lontane dagli
abitati le lavorazioni insalubri.
Al contrario, ha inserito
una prescrizione che si armonizza con le norme dello
strumento urbanistico e ha proprio il fine di allontanare
quelle lavorazioni a tutela della qualità della vita dei
residenti. Si tratta quindi di un ulteriore strumento di
governo del territorio che conferisce all’ente locale,
nell’ambito del generale potere pianificatorio, un’ampia
potestà di valutazione della tollerabilità o meno di quelle
attività, tanto ampia da comprendere anche l’interdizione
dall’esercizio delle attività stesse.
Del tutto pacificamente, la giurisprudenza evidenzia come
l’art. 216 t.u.l.s., nel consentire la permanenza delle
industrie insalubri nei centri abitati a certe condizioni e
accorgimenti tecnici, non ha autorizzato il Comune a
disporre una deroga al disposto della norma, tale da porre
nel nulla il precetto che vuole lontane dagli abitati le
lavorazioni insalubri. Al contrario, ha inserito una
prescrizione che si armonizza con le norme dello strumento
urbanistico e ha proprio il fine di allontanare quelle
lavorazioni a tutela della qualità della vita dei residenti.
Si tratta quindi di un ulteriore strumento di governo del
territorio che conferisce all’ente locale, nell’ambito del
generale potere pianificatorio, un’ampia potestà di
valutazione della tollerabilità o meno di quelle attività,
tanto ampia da comprendere anche l’interdizione
dall’esercizio delle attività stesse.
Non vi è quindi spazio per una lettura della norma nel senso
voluto dall’appellante, atteso che il citato 29 N.T.A. (dal
contenuto schiettamente urbanistico e non impugnato in
questa sede) non consente al comune il rilascio della
richiesta concessione edilizia nella zona ove si svolge
l’attività.
Per tali ragioni, le censure proposte dall’appellante, in
merito alla circostanza per cui l’impianto da realizzare non
sarebbe inquinante per l’alta tecnologia che lo
contraddistinguerebbe, sono del tutto inconferenti perché in
quella zona in nessun caso avrebbe potuto essere localizzato
secondo le N.T.A. all’epoca vigenti (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.01.2013 n. 364 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2012 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
Il solo dato della
mancanza dell’autorizzazione sanitaria non può giustificare
l’ordinanza di sospensione dell’attività già da tempo
intrapresa, senza un concreto accertamento di effettive
situazioni di pericolo o di danno per la salute pubblica.
Nel sistema delineato dagli art. 216 e 217 t.u. 27.07.1934
n. 1265 in materia di lavorazioni insalubri, il preventivo
conseguimento dell'autorizzazione sanitaria non costituisce
una condizione di legittimità o di liceità dell'esercizio
dell'attività classificata come insalubre; pertanto,
l'intervento repressivo sindacale non può basarsi sul mero
dato formale ed estrinseco del mancato conseguimento
dell'autorizzazione, ma presuppone un concreto accertamento
dell'esistenza di effettive situazioni di pericolo e di
danno per la salute pubblica, accertamento che tenga conto
anche delle particolari condizioni di luogo e delle
eventuali cautele adottabili.
Questo Collegio condivide infatti
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “il solo dato
della mancanza dell’autorizzazione sanitaria non può
giustificare l’ordinanza di sospensione dell’attività già da
tempo intrapresa, senza un concreto accertamento di
effettive situazioni di pericolo o di danno per la salute
pubblica. Nel sistema delineato dagli art. 216 e 217 t.u. 27.07.1934 n. 1265 in materia di lavorazioni insalubri, il
preventivo conseguimento dell'autorizzazione sanitaria non
costituisce una condizione di legittimità o di liceità
dell'esercizio dell'attività classificata come insalubre;
pertanto, l'intervento repressivo sindacale non può basarsi
sul mero dato formale ed estrinseco del mancato
conseguimento dell'autorizzazione, ma presuppone un concreto
accertamento dell'esistenza di effettive situazioni di
pericolo e di danno per la salute pubblica, accertamento che
tenga conto anche delle particolari condizioni di luogo e
delle eventuali cautele adottabili” (Cfr. TAR Lazio, sent.
n. 474/2010; TAR Lazio, sede di Latina, 20.07.2005 n.
621 e TAR Veneto, Sez. III, 26.04.2001 n. 1066).
Nel caso di specie, risulta pacifico, anche in relazione
alla documentazione versata in atti, che l’attività
industriale fosse già ben avviata all’epoca
dell’accertamento che ha dato luogo al provvedimento
impugnato, e che il comune convenuto non abbia graduato in
nessun modo l’esercizio del suo potere sanzionatorio né
abbia controllato in concreto, prima di disporre la
cessazione dell’attività, se il suo proseguimento potesse
anche solo potenzialmente recare danno alla comunità
rappresentata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.12.2012 n. 3155 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'impianto
di autolavaggio è incompatibile con aree classificate
urbanisticamente a "verde privato", anche se si tratta di
meri ampliamenti di attività artigianale esistente, perché
l'autolavaggio costituisce pur sempre attività insalubre di
seconda categoria.
Rileva il
Collegio che le osservazioni e prese statuizioni del primo
giudice sono in realtà il frutto di una lettura incompleta e
comunque non coordinata, oltreché non razionale, della
normativa complessivamente recata sul punto dallo strumento
urbanistico comunale che, ove correttamente intesa, induce a
rilevare il divieto di autorizzazione in area classificata a
verde privato di interventi costituiti dalla realizzazione
di un impianto di autolavaggio, come attività insalubre di
seconda categoria, quale che sia la sua collocazione in situ
e indipendentemente dalle sue dimensioni o dal fatto che
venga utilizzato al solo servizio dell’attività esistente o
a servizio di tutti gli utenti, indistintamente.
Invero, in relazione a quanto previsto dal citato art. 44 a
proposito degli edifici individuati con la lettera M o
comunque utilizzati con destinazione d’uso produttiva o
terziaria nelle norme tecniche del PRG, si fa espresso
riferimento alla disciplina recata dagli artt. 42 (zone B1)
e 39 (zone per insediamenti a prevalenza residenziali) lì
dove sulla scorta di tale ultima previsione il regolatore
comunale nel descrivere gli insediamenti ammessi ha
contestualmente ed espressamente escluso le lavorazioni
insalubri di 1^ e 2^ classe e l’impianto di lavaggio
costituisce ai sensi dell’art. 216 TULS, come integrato dal
D.M. 02.03.1987, stante la equiparazione con la categoria di
“stazioni per automezzi e motocicli”, attività
insalubre di seconda categoria.
E’ evidente che quest’ultima classificazione comporta
tout court la impossibilità di realizzare un nuovo
intervento costituito dalla installazione di un
autolavaggio: sia che lo si voglia definire come attività
industriale sia che lo si voglia intendere come attività
artigianale un siffatto impianto costituisce comunque
lavorazione insalubre e come tale non può essere realizzato
ex novo neanche come impianto satellite di altra
lavorazione artigianale e/o industriale.
D’altra parte la non compatibilità urbanistica
dell’autolavaggio nell’area de qua è rilevabile di per sé
dal solo esame delle finalità impresse alla zonizzazione a
verde privato, in base ai principi generali fissati dalla
materia urbanistica e alla disciplina concreta dettata dalle
norme tecniche di attuazione del PRG comunale nonché alla
luce della situazione dello stato dei luoghi che, per come
di fatto configurata, non ammette insediamenti del tutto
contrastanti con le caratteristiche tipologiche dei vicini
edifici e della connessa funzione residenziale.
Con la classificazione operata (verde privato) si è inteso
classificare una zona omogenea del territorio comunale
destinata ad un uso residenziale e nel contempo ad
assicurare esigenze di tutela ambientale , di talché non
appare concepibile permettere la realizzazione di “nuovi”
interventi che per le loro oggettive caratteristiche si
rivelano del tutto incompatibili con tali funzioni e
finalità, fatte salve, naturalmente, le preesistenze.
Ciò sta a significare che i titoli edilizi intervenuti a
seguito della presentazione di d.i.a finalizzata alla
realizzazione dell’impianto di autolavaggio per cui è causa
devono considerasi illegittimi in quanto preordinati a
permettere un intervento non consentito
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2012 n. 6022 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Aria. Ubicazione industrie
insalubri.
La ubicazione di uno stabilimento che
effettui lavorazioni insalubri a distanza
tale da escludere immissioni nocive ai sensi
dell'art. 216 TULS deve intendersi
realizzata quando lo stabilimento sia
ubicato in zona che la pianificazione
riservi alle attività industriali e che
pertanto deve ritenersi isolata da una
adeguata zona di rispetto dagli insediamenti
di tipo residenziale.
Ciò non significa che siano eluse le
esigenze di tutela della salute pubblica dei
residenti a ridosso dell’area in questione.
Ma a tale proposito soccorrono gli obblighi
di adottare ogni tipo di accorgimento
tecnico in concreto necessario ad evitare
rischi nel corso dello svolgimento della
attività produttiva (massima tratta da
www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 26.01.2012 n. 112 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2011 |
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
216 r.d. 27.07.1934 n. 1265, nel prescrivere
che le industrie insalubri di prima classe
devono essere isolate dalle campagne e
tenute lontane dall'abitazione, non fissa
specifiche distanze; pertanto, se il
titolare dimostra che, per l'introduzione di
nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio
dell'attività non reca nocumento alla salute
del vicinato, le distanze eventualmente
prescritte dal p.r.g. possono essere
derogate.
Gli art. 216 e 217 r.d. 27.07.1934 n. 1265
conferiscono al comune ampi poteri in
materia di industrie insalubri, anche
prescindendo da situazioni di emergenza e
dall'autorizzazione a suo tempo rilasciata,
a condizione, però, che siano dimostrati, da
congrua e seria istruttoria, gli
inconvenienti igienici e che si sia
vanamente tentato di eliminarli.
---------------
L'obbligo di motivazione del provvedimento
amministrativo non può ritenersi violato
quando, anche a prescindere dal tenore
letterale dell'atto finale, i documenti
dell'istruttoria offrano elementi
sufficienti ed univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter
motivazionale della determinazione assunta.
In sintesi: nel rilasciare un permesso di
costruire di un'attività quale "industria
insalubre", l’amministrazione comunale
sarebbe tenuta ad un obbligo di stringente
motivazione soltanto allorché intenda
discostarsi dal parere (sia esso di natura
favorevole, che negativo) reso dall’autorità
sanitaria, mentre, laddove ne condivida gli
approdi e ad essi intenda conformarsi,
potrebbe semplicemente richiamarlo.
Il parere della AUSL sotteso al
provvedimento reiettivo reso
dall’amministrazione comunale risulta
governato dalla disposizione di cui all’art.
216 del Regio Decreto 27.07.1934, n. 1265
(recante approvazione del testo unico delle
leggi sanitarie) che così dispone: “Le
manifatture o fabbriche che producono
vapori, gas o altre esalazioni insalubri o
che possono riuscire in altro modo
pericolose alla salute degli abitanti sono
indicate in un elenco diviso in due classi.
La prima classe comprende quelle che debbono
essere isolate nelle campagne e tenute
lontane dalle abitazioni; la seconda quelle
che esigono speciali cautele per la
incolumità del vicinato.
Questo elenco, compilato dal consiglio
superiore di sanità, è approvato dal
Ministro della sanità, sentito il Ministro
del lavoro e della previdenza sociale, e
serve di norma per l'esecuzione delle
presenti disposizioni.
Le stesse norme stabilite per la formazione
dell'elenco sono seguite per iscrivervi ogni
altra fabbrica o manifattura che
posteriormente sia riconosciuta insalubre.
Una industria o manifattura la quale sia
inscritta nella prima classe, può essere
permessa nell'abitato, quante volte
l'industriale che l'esercita provi che, per
l'introduzione di nuovi metodi o speciali
cautele, il suo esercizio non reca nocumento
alla salute del vicinato.
Chiunque intende attivare una fabbrica o
manifattura compresa nel sopra indicato
elenco, deve quindici giorni prima darne
avviso per iscritto al sindaco, il quale,
quando lo ritenga necessario nell'interesse
della salute pubblica, può vietarne
l'attivazione o subordinarla a determinate
cautele.
Il contravventore è punito con la sanzione
amministrativa da lire 40.000 a lire
400.000.”.
Come è agevole rilevare, il comma 5
della citata disposizione non vieta in
assoluto che una industria o manifattura del
genere di quelle per cui è causa sia
esercitata nell'abitato allorché si provi
che il suo esercizio non rechi nocumento
alla salute del vicinato.
Peraltro la giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato si è spinta in passato
ancora oltre, ed è pervenuta alla
significativa affermazione per cui “l'art.
216 r.d. 27.07.1934 n. 1265, nel prescrivere
che le industrie insalubri di prima classe
devono essere isolate dalle campagne e
tenute lontane dall'abitazione, non fissa
specifiche distanze; pertanto, se il
titolare dimostra che, per l'introduzione di
nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio
dell'attività non reca nocumento alla salute
del vicinato, le distanze eventualmente
prescritte dal p.r.g. possono essere
derogate.” (Consiglio Stato, sez. V,
13.10.2004, n. 6648).
...
Un punto deve essere chiarito in via
assolutamente preliminare: pur con le
precisazioni che verranno fatte di seguito,
devono comunque essere disattesi –laddove
intesi in termini categorici- gli argomenti
contenuti nell’appello secondo cui il comune
non avrebbe potuto in via assoluta
discostarsi dal parere preclusivo
dell’Azienda sanitaria (si veda, ex
multis, in materia di poteri comunali,
comunque sussistenti, in subiecta materia,
Consiglio Stato, sez. V, 19.04.2005, n.
1794, ma anche Sezione V 05.02.1985 n. 67,
01.04.1996 n. 338, 17.09.1992 n. 809).
Peraltro lo stesso parere preclusivo
dell’Azienda sanitaria (si veda l’ultima
pagina, in particolare), dava atto della
circostanza che il comune avrebbe potuto
eventualmente discostarsi dalle conclusioni
cui era giunta l’Azienda sanitaria medesima.
Ciò è certamente esatto perché,
infatti, in via di principio
l’amministrazione comunale mantiene proprie
potestà (si vedano in proposito le decisioni
prima richiamate) in subiecta materia
e potrebbe motivatamente discostarsi dalle
determinazioni rese dall’Autorità sanitaria.
L’affermazione, tuttavia, merita talune
importanti precisazioni.
Le suindicate decisioni del Consiglio di
Stato, ed il relativo consolidato
orientamento giurisprudenziale -che ha
costantemente affermato come gli art. 216 e
217 r.d. 27.07.1934 n. 1265 conferiscono al
comune ampi poteri in materia di industrie
insalubri, anche prescindendo da situazioni
di emergenza e dall'autorizzazione a suo
tempo rilasciata, a condizione, però, che
siano dimostrati, da congrua e seria
istruttoria, gli inconvenienti igienici e
che si sia vanamente tentato di eliminarli
(Consiglio Stato, sez. V, 19.04.2005, n.
1794)- hanno in realtà esaminato la
situazione (speculare a quella odierna) in
cui, pur a fronte di una determinazione
favorevole dell’autorità sanitaria,
l’amministrazione comunale era addivenuta
all’emissione di una ordinanza contingibile
ed urgente di natura inibitoria resa
necessitata dal permanere di una grave
situazione igienico-sanitaria.
Affermata la persistenza di
discrezionalità valutativa del comune in
materia, appare ovvio che essa possa e debba
riscontrarsi anche in senso inverso (id
est: quello invocato dall’appellata
società, ampliativo rispetto ad un parere
negativo rilasciato dall’autorità
sanitaria).
Ma, affermato in via di principio detto
potere, è evidente che il comune (che non
possiede né strumenti né competenze per
accertare “in proprio” le condizioni
sanitarie di una industria insalubre) possa
esercitarlo –così discostandosi dal parere
negativo reso dall’Autorità sanitaria- in
ipotesi che configurano veri e propri casi
limite e che potrebbero sinteticamente
indicarsi in una compresenza di due
condizioni: l’assoluta insufficienza,
carenza, approssimazione del parere negativo
reso dall’azienda sanitari, e la
contemporanea sussistenza di allegazioni di
parte –o comunque acquisite
dall’amministrazione comunale- che provino
oltre ogni dubbio l’inattendibilità del
parere negativo e la sussistenza di
comprovati elementi che escludano
inconvenienti sanitari ascrivibili
all’azienda.
Soltanto in presenza di tale coacervo di
condizioni l’amministrazione comunale
potrebbe motivatamente discostarsi dal
parere reso dall’autorità che ha competenza
in materia (e possiede le professionalità
necessarie).
Di converso, è ovvio che, laddove non
si riscontrino tali condizioni,
l’amministrazione comunale è tenuta ad
attenersi alle prescrizioni dell’autorità
sanitaria e dalle stesse -laddove
espressione di discrezionalità tecnica
ragionevolmente esercitata– non si possa
discostare senza stravolgere l’ordine delle
competenze e macchiare, a propria volta, di
illegittimità la propria azione
amministrativa.
Puntualizzati tali principi, ritiene il
Collegio di interrogarsi in ordine ai doveri
dell’amministrazione comunale allorché
-trovatasi al cospetto di un parere negativo
(rectius: diniego di autorizzazione)
reso dall’autorità sanitaria, che non appaia
né irragionevole, né abnorme, ed in
relazione al quale non siano stati acquisiti
al procedimento elementi che inducano a
metterne in discussione le conclusioni-
decida di attenervisi.
Appare evidente che in una simile
evenienza la “motivazione” del
diniego di permesso di costruire non farebbe
che richiamare il contenuto del parere
negativo dell’autorità sanitaria e l’assenza
di elementi che inducano a discostarsene.
La “motivazione” della reiezione, in
un simile caso, a ben guardare, riposerebbe
in una semplice esternazione della
circostanza che non ci si intende discostare
dal parere negativo e, al di là della forma
più o meno diffusa, e delle espressioni
assertive od enfatiche utilizzate, non
consisterebbe in altro che nel richiamo
delle risultanze del parere e della
insussistenza di emergenze procedimentali
con lo stesso collidenti.
Se così è, ed esclusa la condivisibilità di una visione meramente
meccanicistica e formale dell’obbligo
generale di motivazione, ben le ragioni del
convincimento reiettivo (a propria volta
reso in conformazione al parere negativo)
potrebbero desumersi dagli atti istruttori
sottesi al procedimento: il Collegio
condivide pienamente infatti la consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
secondo cui “l'obbligo di motivazione del
provvedimento amministrativo non può
ritenersi violato quando, anche a
prescindere dal tenore letterale dell'atto
finale, i documenti dell'istruttoria offrano
elementi sufficienti ed univoci dai quali
possano ricostruirsi le concrete ragioni e
l'iter motivazionale della determinazione
assunta.” (Consiglio Stato, sez. V,
20.05.2010, n. 3190).
In sintesi: ritiene il Collegio che
l’amministrazione comunale sarebbe tenuta ad
un obbligo di stringente motivazione
soltanto allorché intenda discostarsi dal
parere (sia esso di natura favorevole, che
negativo) reso dall’autorità sanitaria,
mentre, laddove ne condivida gli approdi e
ad essi intenda conformarsi, potrebbe
semplicemente richiamarlo (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.12.2011 n. 6612 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In sede di applicazione sinergica della
norma igienico-sanitaria di cui all'art. 216, R.D. n. 1265
del 1934 e della norma urbanistica demandata al Comune, ciò
che rileva è la dimostrazione da parte dell'imprenditore che
l'esercizio dell'industria insalubre, per l'introduzione di
nuovi metodi o speciali cautele, non arrechi nocumento alla
salute del vicinato e non tanto la formale osservanza di una
determinata distanza imposta dalla medesima norma
urbanistica.
È legittimo il provvedimento di concessione edilizia
rilasciato dal Comune ad un insediamento di un complesso
artigianale esercente attività di industria insalubre di
prima classe avente ad oggetto il collocamento dello stesso
ad una distanza inferiore ai 150 metri dagli insediamenti
abitativi qualora non recante alcun pregiudizio agli
abitanti della zona, preso atto delle tecniche di
lavorazione all'interno del complesso. La circostanza
ricorre, in particolare, nella fattispecie concreta, laddove
la competente ASL ha ritenuto che le attività di cui alla
concessione edilizia contestata (ossia rifinitura di lastre
di marmo e deposito delle stesse) sono ammissibili da un
punto di vista igienico-sanitario, stante l'intervenuta
prova da parte dell'interessato, che l'esercizio
dell'attività, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali
cautele, non reca nocumento alla salute del vicinato.
Come avvertito dalla più
recente giurisprudenza, l'installazione nell'abitato di una
industria insalubre non è di per sé vietata in assoluto, dal
momento che l'art. 216 T.U.LL.SS. n. 1265 del 1934 lo
consente se la stessa installazione è accompagnata
dall'introduzione di particolari metodi produttivi o cautele
in grado di escludere qualsiasi rischio di compromissione
della salute del vicinato (cfr. TAR Umbria Perugia, sez. I,
04.09.2007, n. 661), tenuto conto che l'inclusione di
un'attività nell'elenco delle industrie insalubri non
comporta automaticamente il diniego dell'autorizzazione
richiesta, atteso che la pericolosità per la salute di
talune attività produttive deve essere considerata non già
in astratto, bensì in concreto, avendo riguardo alle misure
e alle cautele suggerite dal progresso tecnico -e
concretamente dispiegate dall'imprenditore- che possono
essere tali da rendere innocua, grazie ad opportuni
accorgimenti, anche un'attività potenzialmente nociva (cfr.
TAR Trentino Alto Adige, Sezione di Trento, n. 241
dell'08.07.2006).
Peraltro, induce il Collegio a confermarsi nel convincimento
sin qui espresso l’avviso ricavabile sempre dalla
giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. sez. V, n. 1794 del
19.04.2005) alla stregua del quale gli art. 216 e 217 del
T.U.LL.SS., che non fissano una determinata distanza da
osservare, conferiscono al Comune, ben vero, ampi poteri in
materia di industrie insalubri, anche prescindendo da
situazioni di emergenza, a condizione però che siano
dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli
inconvenienti igienico-sanitari che eventualmente
impediscano l’installazione di un tale tipo di industria.
Nel caso in esame, l’attività industriale esercitata
dall’appellante Società può ritenersi correttamente
autorizzata in quanto, allo stato, essa è supportata dal
parere positivo espresso dalla competente Autorità
sanitaria, avendo preordinato l’imprenditore specifiche
cautele tecniche (cfr. parere citato) e, quindi, della
sussistenza delle condizioni individuate, a ben vedere, non
solo dalla norma statuale citata, ma anche da quella
urbanistica, se sinergicamente interpretate per il comune
scopo perseguito.
In conclusione, come già osservato da ulteriore
condivisibile giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Sez.
V, 13.10.2004, n. 6648), ciò che rileva in sede di
applicazione sinergica della norma urbanistica e della norma
igienico-sanitaria di legge è proprio la dimostrazione da
parte dell'imprenditore che l'esercizio dell'industria
insalubre, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali
cautele, non arrechi nocumento alla salute del vicinato e
non tanto la formale osservanza di una determinata distanza
(Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 02.09.2011 n. 4952 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Industria
insalubre - Localizzazione in centro abitato
- Possibilità - Presupposti - Verifica
compatibilità con salute dei residenti.
Ai sensi dell'art. 216, comma 5, R.D.
1265/1934 è consentita la permanenza di
un'industria insalubre di prima classe
nell'abitato, allorché sia provato che il
suo esercizio, per le speciali cautele
introdotte, non rechi danno alla salute dei
residenti: pertanto, l'insediamento di
un'attività insalubre nell'ambito di centri
abitati o di aree paesaggisticamente
sensibili non è vietato in assoluto, essendo
subordinato alla verifica di compatibilità
dell'impianto con il contesto di riferimento
(cfr. TAR Brescia, sent. n. 420/2010 e n.
671/2008)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2150 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In linea di principio non può
considerarsi legittima l’esclusione a priori per tutto il
territorio comunale della possibilità di "insediamento di
nuove attività classificate insalubri di prima classe dal
D.M. 05.09.1994”, in base ad una norma di pianificazione
generale.
L'art. 216 r.d. 27.07.1934 n. 1265 pone, con il secondo
comma, il canone della preclusione relativa per
l'insediamento di tali lavorazioni nocive all'interno degli
abitati a salvaguardia e tutela delle buone condizioni di
vita e di salute per la popolazione residenziale; in deroga
al precedente principio, il quinto comma consente tuttavia
al gestore dell’impianto di dimostrare l’esclusione di
qualsiasi rischio di compromissione della salute e
dell'incolumità del vicinato, attraverso il ricorso a nuovi
metodi produttivi o di peculiari cautele concretamente
efficaci.
Posto che, in linea generale, l’indicazione generale
programmatica per la pianificazione urbanistica impone di
allocare le industrie in aree non residenziali, per cui
nell'esercizio dei propri poteri di gestione del territorio,
lo strumento urbanistico comunale può escludere, in via
preventiva, a tutela della salute e dell'igiene della
popolazione, la realizzabilità di industrie insalubri
nondimeno tale facoltà può essere esercitata solamente in
determinate zone del territorio comunale di carattere
prettamente storico o residenziale, ovvero in considerazione
di aree che siano già in condizioni particolarmente
difficili sul piano ambientale. In ogni caso, dunque, le
prescrizioni limitative all'insediamento di determinate
tipologie industriali in zone non possono però ricomprendere
l’intero territorio.
---------------
Il carattere dichiaratamente insalubre dell'impianto
industriale, di per sé solo, non può costituire un motivo
sufficiente per emettere –sede di compatibilità urbanistica-
un parere negativo ai sensi dell’art. 7 secondo comma del
cit. D.P.R. n. 203/1988, adottato senza procedere ad una
istruttoria ed ad una valutazione in concreto di tutte le
diverse problematiche di competenza comunale coinvolte dalla
domanda, relative all’impatto territoriale per rumori e
vibrazioni, fumi e vapori; ai profili paesistico e
paesaggistici, alle conseguenze sul traffico, ed alle
disponibilità idriche, ecc..
La Sezione
ritiene che, come esattamente affermato da TAR, in linea di
principio non possa considerarsi legittima l’esclusione a
priori per tutto il territorio comunale della possibilità di
"insediamento di nuove attività classificate insalubri di
prima classe dal D.M. 05.09.1994”, in base ad una norma
di pianificazione generale.
Se infatti, per ipotesi, si volesse ammettere una tale
possibilità per tutti i comuni d’Italia si finirebbe, in via
di fatto, per impedire la realizzazione di industrie
insalubri di prima classe in tutto il territorio nazionale
con gravi danni al sistema produttivo nazionale, sotto il
profilo economico, occupazionale, ed anche ambientale perché
impedirebbe lo sviluppo di una moderna industria (connotata
cioè dalla progressiva applicazione delle migliori tecniche
disponibili, c.d. BAT, peraltro attualmente in corso di
aggiornamento da parte della Commissione Europea ai sensi
dell’Art.13, 3 par., lett. c) e d), della Direttiva sulle
Emissioni Industriali n. 2010/75/EU).
In tale contesto l'art. 216 r.d. 27.07.1934 n. 1265,
mantiene comunque intatta l’attualità in quanto:
- pone, con il secondo comma, il canone della preclusione
relativa per l'insediamento di tali lavorazioni nocive
all'interno degli abitati a salvaguardia e tutela delle
buone condizioni di vita e di salute per la popolazione
residenziale (cfr. Consiglio Stato , sez. V, 07.09.2004, n.
5854);
- in deroga al precedente principio, il quinto comma
consente tuttavia al gestore dell’impianto di dimostrare
l’esclusione di qualsiasi rischio di compromissione della
salute e dell'incolumità del vicinato, attraverso il ricorso
a nuovi metodi produttivi o di peculiari cautele
concretamente efficaci.
Ciò premesso si deve ancora annotare che l'art. 216, t.u. n.
1265 del 1934 non costituisce in realtà un limite
all'attività edilizia, ma opera sul distinto versante della
tutela sanitaria della popolazione.
Pertanto posto che, in linea generale, l’indicazione
generale programmatica per la pianificazione urbanistica
impone di allocare le industrie in aree non residenziali,
per cui nell'esercizio dei propri poteri di gestione del
territorio, lo strumento urbanistico comunale può escludere,
in via preventiva, a tutela della salute e dell'igiene della
popolazione, la realizzabilità di industrie insalubri
nondimeno tale facoltà può essere esercitata solamente in
determinate zone del territorio comunale di carattere
prettamente storico o residenziale, ovvero in considerazione
di aree che siano già in condizioni particolarmente
difficili sul piano ambientale (cfr. Consiglio Stato, sez.
V, 26.03.2001, n. 1719).
In ogni caso dunque le prescrizioni limitative
all'insediamento di determinate tipologie industriali in
zone non possono però ricomprendere l’intero territorio
(cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 22.03.2005, n. 1190).
Ciò posto, se in molte realtà la progressiva scomparsa di
aree non antropizzate rende la disposizione di non semplice
applicazione pratica, nondimeno la norma implica non già un
divieto assoluto di svolgere lavorazioni insalubri, ma
impone la verifica caso per caso delle situazioni e delle
condizioni perché esse si possano svolgano senza pregiudizio
per la salute pubblica.
In conseguenza, nell'ambito della destinazione di un'area
del territorio comunale a zona industriale non possono
essere aprioristicamente ed astrattamente inibite
particolari tipologie di insediamenti produttivi posto che
una simile scelta di PRG non rientrerebbe nell'ambito della
disciplina urbanistica, ma concreterebbe un illegittimo
esercizio delle ben diverse funzioni di igiene pubblica da
parte del Consiglio comunale, in luogo di altri soggetti
istituzionalmente competenti.
Il PRG deve identificare le zone industriali nelle quali è
astrattamente possibile l’insediamento di industrie
insalubri di prima classe fermo restando che le sue
emissioni siano autorizzabili e non siano concretamente
incompatibili, sul piano del rischio di incidente rilevante,
con quelli già esistenti.
---------------
Il carattere dichiaratamente insalubre dell'impianto
industriale, di per sé solo, non può costituire un motivo
sufficiente per emettere –sede di compatibilità urbanistica-
un parere negativo ai sensi dell’art. 7 secondo comma del
cit. D.P.R. n. 203/1988, adottato senza procedere ad una
istruttoria ed ad una valutazione in concreto di tutte le
diverse problematiche di competenza comunale coinvolte dalla
domanda, relative all’impatto territoriale per rumori e
vibrazioni, fumi e vapori; ai profili paesistico e
paesaggistici, alle conseguenze sul traffico, ed alle
disponibilità idriche, ecc..
Si deve rilevare che l’art. 6
del D.P.R. 24.05.1988 n. 203, concernente norme in materia
di qualità dell'aria, relativamente a specifici agenti
inquinanti, e di inquinamento prodotto dagli impianti
industriali:
- al primo comma, prevedeva che la domanda di autorizzazione
per un impianto industriale andava inoltrata all’Autorità
competente (nel caso della Toscana la Regione delegata) “….corredata
dal progetto nel quale sono comunque indicati il ciclo
produttivo, le tecnologie adottate per prevenire
l'inquinamento, la quantità e la qualità delle emissioni,
nonché il termine per la messa a regime degli impianti“.
- al secondo comma, la norma di preoccupava di precisare che
“copia della domanda di cui al comma 1 deve essere
trasmessa al Ministro dell'ambiente, nonché allegata alla
domanda di concessione edilizia rivolta al sindaco".
La predetta disciplina (peraltro definitivamente abrogata
dall'articolo 21 del D.Lgs. 13.08.2010, n. 155, fatte salve
solo le disposizioni di cui il decreto legislativo
03.04.2006, n. 152) strutturava dunque due procedimenti
certamente paralleli, ma in realtà sostanzialmente disgiunti
ed autonomi tra loro.
Il procedimento di autorizzazione alle emissioni in
atmosfera concerne profili del tutto differenti ed
indipendenti dalle problematiche di tipo
edilizio-urbanistico, che attengono alla specifica
valutazione dei metodi e delle cautele prospettati
nell’istanza ed implica la verifica, da parte dall’Autorità
preposta all’autorizzazione delle emissioni, della certezza
della non-nocività dell’impianto, con riferimento ai limiti
di emissione fissati dalle migliori tecnologie di settore
disponibili (c.d. BREF)
(Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 13.07.2011 n. 4243 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Il vicino, autore di un esposto o di una
denuncia, non assume la veste di controinteressato nel
giudizio contro l'annullamento di un determinato
provvedimento amministrativo, anche se all'esposto ed al suo
autore la p.a. faccia espresso riferimento nel provvedimento
impugnato, poiché il disposto annullamento, effettuato
nell'esercizio del potere di autotutela, costituisce un
provvedimento d'ufficio, emesso per il raggiungimento di
finalità di pubblico interesse.
L'annullamento del provvedimento illegittimo non può essere
disposto per la sola esigenza di ristabilire la legalità
dell'azione amministrativa, posto che tale interesse, pur
rilevante, deve essere comparato con altri interessi posti a
tutela della stabilità delle relazioni giuridiche, anche se
basate su provvedimenti illegittimi. L'annullamento
d'ufficio è, dunque, un provvedimento discrezionale, che può
essere disposto quando sussistano ragioni di pubblico
interesse all'eliminazione del provvedimento.
Il Collegio, conformemente al costante orientamento
giurisprudenziale, sottolinea che il vicino, autore di un
esposto o di una denuncia, non assume la veste di
controinteressato nel giudizio contro l'annullamento di un
determinato provvedimento amministrativo, anche se
all'esposto ed al suo autore la p.a. faccia espresso
riferimento nel provvedimento impugnato, poiché il disposto
annullamento, effettuato nell'esercizio del potere di
autotutela, costituisce un provvedimento d'ufficio, emesso
per il raggiungimento di finalità di pubblico interesse
(cfr., ex multis, TAR Lazio-Latina, 16.03.2010, n.
293; TAR Puglia-Bari, sez. I, 21.02.2006, n. 558).
---------------
L’art. 21-nonies della l. n.
241 del 1990 subordina l’esercizio del potere di
annullamento d’ufficio a specifici presupposti.
Primo fondamentale presupposto è costituito dalla
sussistenza di ragioni di interesse pubblico le quali,
tuttavia, devono essere diverse ed ulteriori rispetto al
mero ripristino della legalità.
Ciò in quanto non sono da escludere ipotesi nelle quali
l’atto illegittimo sia funzionale al perseguimento
dell’interesse pubblico ovvero la permanenza dell’atto e
della sua efficacia si giustifichi in rapporto alla tutela
degli affidamenti.
L’interesse pubblico inoltre, deve essere apprezzato nella
sua configurazione attuale; ciò implica la necessità di
procedere ad una nuova istruttoria nella quale esaminare e
comparare tanto l’interesse primario quanto gli altri
interessi coinvolti, pure considerati nell’attuale loro
consistenza, come anche gli eventuali ulteriori interessi
non considerati in primo grado.
Nella valutazione circa la sussistenza delle ragioni di
interesse pubblico l’amministrazione è, altresì, tenuta a
rispettare i principi che governano l’esercizio
dell’attività amministrativa tra i quali, in particolare, il
principio di proporzionalità, che impone canoni di stretta
necessità, in rapporto alle situazioni giuridiche soggettive
ascrivibili in capo ai privati.
Nella fattispecie oggetto di giudizio emerge, da un attento
esame del provvedimento di annullamento d’ufficio gravato,
la radicale assenza di motivazione in ordine all’interesse
pubblico concreto, attuale e prevalente alla base della sua
adozione.
Emblematiche, sul punto, risultano le locuzioni utilizzate
dall’amministrazione; nel suddetto provvedimento si afferma,
infatti, che l’annullamento d’ufficio è stato disposto a
motivo della ritenuta “attualità del contrasto dell’atto
amministrativo rilasciato con la normativa richiamata e
quindi l’esigenza del ripristino della legalità per le
richiamate superiori esigenze pubbliche”.
Il provvedimento di annullamento in autotutela pone, dunque,
a proprio fondamento esclusivamente l’esigenza di ripristino
della legalità violata.
Tale motivazione, tuttavia, per le ragioni sopra esposte,
non può ritenersi adeguata; come evidenziato dalla
consolidata giurisprudenza, l'annullamento del provvedimento
illegittimo non può essere disposto per la sola esigenza di
ristabilire la legalità dell'azione amministrativa, posto
che tale interesse, pur rilevante, deve essere comparato con
altri interessi posti a tutela della stabilità delle
relazioni giuridiche, anche se basate su provvedimenti
illegittimi. L'annullamento d'ufficio è, dunque, un
provvedimento discrezionale, che può essere disposto quando
sussistano ragioni di pubblico interesse all'eliminazione
del provvedimento (cfr., ex multis, Cons. St., sez.
VI, 30.07.2009, n. 4812).
Tali ragioni di interesse pubblico non sono affatto
indicate, né argomentate né articolate nel provvedimento
gravato che si limita apoditticamente ad affermare la
prevalenza dell’interesse pubblico “al rispetto delle
condizioni di igiene e salubrità dei cittadini ed in
particolare dei futuri abitanti dell’edificio da ritenersi
interesse pubblico superiore non sopprimibile”.
E’ di tutta evidenza che, nella fattispecie, è mancata una
ponderazione attenta e doverosa dei vari interessi coinvolti
e lo stesso interesse pubblico non è stato assolutamente
individuato nella sua concretezza e attualità.
Non ignora il Collegio l’esistenza di talune fattispecie in
relazione alle quali l’interesse pubblico all’annullamento
viene considerato in re ipsa. Ciò ricorrente, ad
esempio, nell’ipotesi di ottemperanza ad una decisione del
giudice ordinario passata in giudicato nel caso in cui abbia
proceduto alla disapplicazione dell’atto ritenendolo
illegittimo; di decisione negativa dell’autorità di
controllo alla quale non compete direttamente il potere di
annullamento; di annullamento di un atto consequenziale come
necessaria conseguenza dell’annullamento dell’atto
presupposto.
La fattispecie oggetto di giudizio non rientra in alcuno dei
suddetti casi.
La difesa dell’amministrazione resistente non manca, invero,
di sostenere, appellandosi ad un consolidato indirizzo
interpretativo, che nella fattispecie de qua assume primario
rilevo la natura dell’interesse pubblico che entra in
considerazione –tutela della salute– con la conseguenza che
l’onere di motivazione può ritenersi adempiuto anche in
forma sintetica, non avendo gli interessi configgenti la
stessa dignità.
Al fine di corroborare tale assunto parte resistente
sottolinea la natura di industria insalubre dell’allevamento
condotto dall’Azienda Iseo e la possibilità, sulla base di
tale presupposto, di ricorrere ad una presunzione assoluta
di nocività e pericolosità.
In tale quadro la difesa dell’amministrazione evidenzia,
ancora, la particolare valenza delle norme del regolamento
di igiene, delle quali la giurisprudenza ammette finanche
l’applicazione retroattiva.
Le deduzioni della difesa dell’amministrazione,
condivisibili ed apprezzabili in linea generale e di
principio, non possono essere, tuttavia, considerate
pertinenti nella fattispecie oggetto di giudizio.
Il Collegio osserva, in primo luogo, che il pregiudizio per
la salute non risulta, nella fattispecie che ne occupa,
evidente come, invece, la difesa dell’amministrazione
pretende di sostenere.
Ciò, in specie, considerando le circostanze di fatto; la
distanza dell’allevamento del complesso immobiliare
edificato non può essere ritenuta irrisoria, soprattutto ove
si consideri che la distanza prescritta risulta rispettata
in relazione ai locali di stabulazione ed il contrasto con
la disposizione contenuta nel regolamento di igiene emerge
solo in relazione ai locali accessori (sala mungitura e
deposito latte).
Già tale dato induce a ritenere insufficiente il mero
riferimento alla disposizione violata ed alla sua natura per
sostenere che l’interesse pubblico sia implicitamente
sussistente.
Il Collegio deve anche evidenziare che lo stesso art. 96 del
Regolamento di Igiene fa salva la facoltà del Sindaco di
fissare caso per caso le condizioni ritenute opportune per
la salvaguardia della pubblica igiene, con ciò, dunque,
ammettendo, la possibilità di valutazioni specifiche in
relazione alle peculiarità della fattispecie di volta in
volta considerata.
Deve essere altresì sottolineato che solo in esito ad una
laboriosa attività interpretativa la disposizione suddetta
si presta ad essere interpretata nel senso di affermare la
reciprocità mentre, ad un primo esame, la ratio ad
essa sottesa sembra essere quella di impedire l’insediamento
di nuovi allevamenti con conseguente creazione del pericolo
e non anche quella di escludere l’accettazione di disagi
connessi all’edificazione di edifici residenziali in
prossimità degli allevamenti stessi.
Tali considerazioni, unitamente agli ulteriori specifici
elementi desumibili dalla documentazione versata in atti,
inducono a ritenere che, nella fattispecie, emerge, al più,
una situazione di disagio e non già di vero e proprio
pericolo per la salute, con la conseguenza che, per quanto
in questa sede rileva, l’amministrazione comunale non era
esonerata dall’obbligo di adeguatamente e doverosamente
rappresentare, con concretezza ed esaustività, le ragioni di
interesse pubblico alla base del provvedimento di
annullamento d’ufficio. Come pure non era esonerata
dall’obbligo di procedere alla comparazione tra l’interesse
pubblico e quello privato, nel rispetto, peraltro, del
principio di proporzionalità
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.05.2011 n. 682 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2010 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
L'installazione nell'abitato (o in
prossimità di questo) di una industria insalubre non è di
per sé vietato in assoluto, dal momento che lo stesso art.
216 del T.U.L.S. n. 1265 del 1934, lo consente in
determinate circostanze ed in particolari condizioni, se
accompagnato dall'introduzione di particolari metodi
produttivi o cautele in grado di escludere qualsiasi rischio
di compromissione della salute del vicinato.
La valutazione dell'attività produttiva sotto il profilo
sanitario non può essere compiuta aprioristicamente vietando
in modo generalizzato determinati insediamenti produttivi
nel centro abitato o ad una prestabilita distanza dallo
stesso, in quanto tale valutazione deve essere compiuta sul
caso specifico da parte dell'autorità sanitaria, che deve
accertare la presenza delle condizioni indispensabili
affinché essa si svolga senza pregiudizio per la salute
pubblica.
Risulta, quindi, del tutto apodittico escludere la
possibilità della continuazione dell’esercizio della
attività sulla scorta della sola considerazione di una
pretesa incompatibilità urbanistica, che non trova
fondamento nella normativa di riferimento che, al contrario,
impone una valutazione in concreto della sussistenza delle
condizioni prescritte per il permanere dell’attività stessa
in zona residenziale.
Né si ritiene che tali conclusioni possano porsi in
contrasto con il precedente di questo Tribunale,
rappresentato dalla sentenza del 12.04.2005, n. 311.
Diversamente da quanto riportato negli scritti di parte
ricorrente, in tale pronuncia si legge: “che secondo il
consolidato orientamento della giurisprudenza,
l'installazione nell'abitato (o in prossimità di questo) di
una industria insalubre non è di per sé vietato in assoluto,
dal momento che lo stesso art. 216 del T.U.L.S. n. 1265 del
1934, lo consente in determinate circostanze ed in
particolari condizioni, se accompagnato dall'introduzione di
particolari metodi produttivi o cautele in grado di
escludere qualsiasi rischio di compromissione della salute
del vicinato (C.G.A., 28.11.1996, n. 450; Cons. Stato, Sez.
IV, 31.07.2000, n. 4214; TAR Lombardia, Brescia, 27.04.2000,
n. 366; TAR Emilia Romagna, Parma, 09.02.2001, n. 60; TAR
Marche, 23.11.2001 n. 1201; TAR Lombardia, Brescia,
16.07.2003, n. 1095)”.
A ben vedere, quindi, la sentenza richiamata afferma proprio
il principio più sopra riportato e a cui il Collegio ha
ritenuto di conformarsi, secondo cui “la valutazione
dell'attività produttiva sotto il profilo sanitario non può
essere compiuta aprioristicamente vietando in modo
generalizzato determinati insediamenti produttivi nel centro
abitato o ad una prestabilita distanza dallo stesso, in
quanto tale valutazione deve essere compiuta sul caso
specifico da parte dell'autorità sanitaria, che deve
accertare la presenza delle condizioni indispensabili
affinché essa si svolga senza pregiudizio per la salute
pubblica (Cfr. anche TAR Lombardia Milano, Sez. III,
29.09.1990, n. 4)”.
Ne discende l’illegittimità dell’aprioristico diniego del
nullaosta in ragione della mera valutazione della
destinazione dell’area in cui si trova l’immobile in cui è
esercitata l’attività artigianale in questione (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 27.05.2010 n. 2152 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il
concetto di “molestia”, cui si riferiva già
l’originaria destinazione dell’area di
proprietà di parte ricorrente, sulla quale
si è richiesta l’autorizzazione all’apertura
di un forno discontinuo a camera stitica per
l’incenerimento di animali di piccola taglia
e successiva consegna delle ceneri ai
proprietari, è molto più ampio di quello di
“insalubrità”, comprendendo qualunque
situazione di fastidio, disagio o disturbo
alle persone, determinato da qualsiasi tipo
di emissione o immissione. In altre parole,
un’industria insalubre è sicuramente
un’impresa molesta, rientrante, quindi,
nell’originario divieto.
---------------
Le scelte dell'Amministrazione nell'adozione
dello strumento urbanistico sono connotate
da alta discrezionalità e non necessitano di
specifica motivazione, e, a fronte di
aspettative di mero fatto, le scelte di
natura, tanto ambientale quanto urbanistica
rimesse all'Amministrazione nell'interesse
generale, sono di regola sufficientemente
motivate con l'indicazione dei profili
generali e dei criteri che hanno sorretto la
previsione in variante, senza necessità di
una motivazione puntuale e mirata.
Le scelte urbanistiche in variante
richiedono puntuale motivazione
esclusivamente quando incidono su zone
territorialmente circoscritte, ledendo
legittime aspettative dei privati
proprietari, in conseguenza di statuizioni
giurisdizionali passate in giudicato, nonché
di accordi con l'ente locale e di
convenzioni di lottizzazione.
Peraltro, il principio secondo il quale in
sede di pianificazione generale non è
necessaria una specifica motivazione delle
scelte urbanistiche, che non sia quella dei
criteri posti a base del piano e desumibile
dall'insieme dello stesso, non trova
applicazione nel solo caso delle varianti
limitate o ad oggetto specifico non coerenti
con quella della pianificazione generale,
come ad esempio nel caso in cui una
specifica industria insalubre di prima
classe, ai sensi dell'art. 216 r.d. n. 1265
del 1934 e del d.m. 02.03.1987, fosse
obbligata a trasferirsi altrove.
---------------
L'art. 216 t.u.l.s., approvato con r.d.
27.07.1934, n. 1265, che indica le
manifatture o fabbriche che producono
vapori, gas o altre lavorazioni insalubri o
che possono riuscire in qualche modo
pericolose alla salute degli abitanti, va
letto tenendo conto delle modifiche
legislative intervenute in materia di
pianificazione del territorio, in base alle
quali non risulta più possibile applicare la
disposizione che impone alle industrie
insalubri di prima classe di essere isolate
nelle campagne, dato che non è più
consentita la realizzazione di edifici anche
industriali, al di fuori delle zone
destinate dai piani regolatori alla
edificazione; conseguentemente, quindi, le
suindicate industrie insalubri possono
essere realizzate soltanto nelle parti del
territorio classificate da P.R.G., in sede
di zonizzazione, quali aree omogenee
destinate ad impianti industriali o ad essi
assimilabili, alla cui categoria generale
sono appunto riconducibili.
Si deve rilevare, preliminarmente, che il
concetto di “molestia”, cui si
riferiva già l’originaria destinazione
dell’area di proprietà di parte ricorrente,
sulla quale si è richiesta l’autorizzazione
all’apertura di un forno discontinuo a
camera stitica per l’incenerimento di
animali di piccola taglia e successiva
consegna delle ceneri ai proprietari, è
molto più ampio di quello di “insalubrità”,
comprendendo qualunque situazione di
fastidio, disagio o disturbo alle persone,
determinato da qualsiasi tipo di emissione o
immissione (cfr., ad esempio, le ipotesi di
cui agli artt. 674 c.p., 844 e 1170 c.c.,
come osserva correttamente parte
resistente).
Pertanto, sulla base di tale definizione di
“impresa molesta”, l’area in esame
era già oggetto di un divieto ai sensi
dell’originaria formulazione della norma di
piano impugnata, divieto comprendente
indubitabilmente anche tutte le attività che
possono essere definite insalubri, tra cui
quelle di cui all’art. 216, t.u.l.s. n. 1265
del 1934, che impone di tenere le industrie
insalubri di prima classe lontane dalle
abitazioni.
In altre parole, un’industria insalubre è
sicuramente un’impresa molesta, rientrante,
quindi, nell’originario divieto.
---------------
Come è noto, le
scelte dell'Amministrazione nell'adozione
dello strumento urbanistico sono connotate
da alta discrezionalità e non necessitano di
specifica motivazione, e, a fronte di
aspettative di mero fatto, le scelte di
natura, tanto ambientale quanto urbanistica
rimesse all'Amministrazione nell'interesse
generale, sono di regola sufficientemente
motivate con l'indicazione dei profili
generali e dei criteri che hanno sorretto la
previsione in variante, senza necessità di
una motivazione puntuale e mirata.
Le scelte urbanistiche in variante
richiedono puntuale motivazione
esclusivamente quando incidono su zone
territorialmente circoscritte, ledendo
legittime aspettative dei privati
proprietari, in conseguenza di statuizioni
giurisdizionali passate in giudicato, nonché
di accordi con l'ente locale e di
convenzioni di lottizzazione (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV, 21.12.2009, n. 8514), il
che non si verifica nel caso di specie,
atteso che parte ricorrente, come emerge in
parte narrativa, non svolgeva alcuna
attività di impresa di tipo insalubre e,
dunque, non poteva vantare alcuna legittima
aspettativa al mantenimento di tale attività
che, come detto, non sussisteva.
Peraltro, il principio secondo il quale in
sede di pianificazione generale non è
necessaria una specifica motivazione delle
scelte urbanistiche, che non sia quella dei
criteri posti a base del piano e desumibile
dall'insieme dello stesso, non trova
applicazione nel solo caso delle varianti
limitate o ad oggetto specifico non coerenti
con quella della pianificazione generale,
come ad esempio nel caso in cui una
specifica industria insalubre di prima
classe, ai sensi dell'art. 216 r.d. n. 1265
del 1934 e del d.m. 02.03.1987, fosse
obbligata a trasferirsi altrove (cfr. TAR
Emilia Romagna, Parma, 24.09.2002, n. 632).
---------------
Nel caso di
specie (variante al vigente PRG) si vietano
solo nuovi insediamenti, conservando
preesistenti e consentendone, come detto,
gli ampliamenti.
Tale norma appare coerente con il recente
principio giurisprudenziale secondo cui
l'art. 216 t.u.l.s., approvato con r.d.
27.07.1934, n. 1265, che indica le
manifatture o fabbriche che producono
vapori, gas o altre lavorazioni insalubri o
che possono riuscire in qualche modo
pericolose alla salute degli abitanti, va
letto tenendo conto delle modifiche
legislative intervenute in materia di
pianificazione del territorio, in base alle
quali non risulta più possibile applicare la
disposizione che impone alle industrie
insalubri di prima classe di essere isolate
nelle campagne, dato che non è più
consentita la realizzazione di edifici anche
industriali, al di fuori delle zone
destinate dai piani regolatori alla
edificazione (cfr. TAR Toscana, sez. II,
13.09.2005, n. 4417); conseguentemente,
quindi, le suindicate industrie insalubri
possono essere realizzate soltanto nelle
parti del territorio classificate da P.R.G.,
in sede di zonizzazione, quali aree omogenee
destinate ad impianti industriali o ad essi
assimilabili, alla cui categoria generale
sono appunto riconducibili
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 15.02.2010 n. 944 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Industria insalubre - intervento
sindacale - art. 216 TULS- presupposti - eliminazione di
inconvenienti igienici.
2. Industria insalubre - centro abitato - verifica
compatibilità con salute dei residenti.
1.
L'art. 216 del T.U. delle leggi conferisce al Comune il
potere di precludere l'esercizio dell'attività insalubre,
prescindendo da situazioni di emergenza e
dall'autorizzazione rilasciata, a condizione però che siano
dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli
inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di
eliminarli.
2.
L'insediamento di una industria insalubre nell'ambito di
centri abitati o di aree paesaggisticamente sensibili non è
vietato in assoluto, ma subordinato alla verifica di
compatibilità dell'impianto con il contesto di riferimento:
ex art. 216 comma 5, r.d. n. 1265 del 1934, è consentita la
permanenza di un'industria insalubre di prima classe
nell'abitato, allorché sia provato che il suo esercizio, per
le speciali cautele introdotte, non rechi danno alla salute
dei residenti (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 29.01.2010 n. 420 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Industrie insalubri - Art. 216 r.d. n.
1265/1934 - Comuni - Preclusione dell’attività insalubre -
Condizioni.
L’art. 216 del T.U. delle leggi sanitarie ha conferito ai
Comuni la possibilità di precludere l’esercizio
dell’attività insalubre, anche prescindendo da situazioni di
emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo rilasciata, a
condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria
istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia
vanamente tentato di eliminarli (in tal senso TAR
Sicilia-Palermo, sez. I, 04.07.2008, n. 882).
Industrie insalubri - Art. 216 r.d. n.
1265/1934 - Insediamento nell’ambito di centri abitati o
aree paesaggisticamente sensibili - Preclusione assoluta -
Inconfigurabilità - Verifica di compatibilità.
L'insediamento di una industria insalubre nell'ambito di
centri abitati o di aree paesaggisticamente sensibili non è
vietato in assoluto, essendo subordinato alla verifica di
compatibilità dell'impianto con il contesto di riferimento:
ai sensi dell'art. 216, comma 5, r.d. n. 1265 del 1934, è
consentita la permanenza di un'industria insalubre di prima
classe nell'abitato, allorché sia provato che il suo
esercizio, per le speciali cautele introdotte, non rechi
danno alla salute dei residenti (cosi TAR Lombardia-Brescia,
sez. I, 16.06.2008, n. 671) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 29.01.2010 n. 420 - link a
www.ambientediritto.it). |
anno 2009 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Per la definizione di impresa
artigiana non può che farsi ricorso alla
specifica normativa di settore, cioè, più
precisamente, agli artt. 2, 3 e 4 della
legge-quadro per l’artigianato 08.08.1985 n.
443 che, nel qualificare come imprenditore
artigiano “colui che esercita personalmente,
professionalmente e in qualità di titolare,
l’impresa artigiana, assumendone la piena
responsabilità … e svolgendo in misura
prevalente il proprio lavoro, anche manuale,
nel processo produttivo”, stabiliscono che
l’impresa è artigiana quando sia esercitata
da un imprenditore artigiano, sia contenuta
in determinati limiti dimensionali ed abbia
per scopo la produzione di beni o servizi
(indipendentemente, dunque, dall’entità dei
risultati della produzione), consentendo che
sia esercitata anche presso l’abitazione
dell’imprenditore. Parametri, questi, la cui
sussistenza nel caso in esame è certa e,
peraltro, nemmeno è oggetto di
contestazione.
Il fatto che si tratti di artigianato e non
di industria esclude di per sé la
qualificazione dell’attività ai fini della
conformità urbanistica come “industria”
insalubre di seconda classe di cui al n. 16
della lett. c) dell’apposito elenco previsto
dall’art. 216 del testo unico delle leggi
sanitarie approvato con r.d. 27.07.1934 n.
1265. Pertanto, giustamente il TAR ha
escluso l’operatività del divieto e, nel
contempo, la necessità che il Comune
svolgesse istruttoria sul punto.
La Sezione è dell’avviso che il divieto di
localizzazione di industrie e la limitazione
dell’assentibilità alle sole attività
artigianali poste dall’art. 32 delle
richiamate N.T.A. non possano che essere
letti in coerenza con il significato
tecnico-giuridico delle dizioni utilizzate,
senza che sia consentito all’interprete di
estendere a queste ultime la preclusione
dettata in ordine le prime sulla base di
eventuali elementi non contemplati all’uopo.
In particolare, per la definizione di
impresa artigiana non può che farsi ricorso
alla specifica normativa di settore, cioè,
più precisamente, agli artt. 2, 3 e 4 della
legge-quadro per l’artigianato 08.08.1985 n.
443 che, nel qualificare come imprenditore
artigiano “colui che esercita
personalmente, professionalmente e in
qualità di titolare, l’impresa artigiana,
assumendone la piena responsabilità … e
svolgendo in misura prevalente il proprio
lavoro, anche manuale, nel processo
produttivo”, stabiliscono che l’impresa
è artigiana quando sia esercitata da un
imprenditore artigiano, sia contenuta in
determinati limiti dimensionali ed abbia per
scopo la produzione di beni o servizi
(indipendentemente, dunque, dall’entità dei
risultati della produzione), consentendo che
sia esercitata anche presso l’abitazione
dell’imprenditore. Parametri, questi, la cui
sussistenza nel caso in esame è certa e,
peraltro, nemmeno è oggetto di
contestazione.
Infine, il fatto che si tratti di
artigianato e non di industria esclude di
per sé la qualificazione dell’attività ai
fini della conformità urbanistica come “industria”
insalubre di seconda classe di cui al n. 16
della lett. c) dell’apposito elenco previsto
dall’art. 216 del testo unico delle leggi
sanitarie approvato con r.d. 27.07.1934 n.
1265. Pertanto, giustamente il TAR ha
escluso l’operatività del divieto e, nel
contempo, la necessità che il Comune
svolgesse istruttoria sul punto.
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Sotto altro ed alternativo aspetto,
l’appellante ribadisce che, anche ove
l’attività tipografica in parola possa
configurarsi come artigianale, ugualmente la
norma urbanistica ne porrebbe il divieto
laddove richiede che i relativi impianti non
producano rumori od odori pur semplicemente
“molesti” che, invece,
caratterizzerebbero la stessa attività.
Ma a tal proposito soccorre l’istruttoria
compiuta dal Comune mediante l’acquisizione
del parere favorevole, condizionato
all’installazione dei pannelli
fonoassorbenti e dei serramenti isolanti
descritti nella relazione tecnica,
dell’Azienda Usl territorialmente e
funzionalmente competente, che esclude
l’automatica qualificazione come “moleste”
(ossia percepibili sensorialmente) delle
immissioni, il resto rilevando eventualmente
a fini privatistici per il caso del
superamento di fatto della “normale
tollerabilità, anche avuto riguardo alla
condizione dei luoghi” di cui all’art. 844
cod. civ..
Del resto, opinare diversamente
significherebbe precludere pressoché
totalmente in zona residenziale la
localizzazione di laboratori artigiani,
quali officine, lavanderie, gelaterie,
panifici, pasticcerie, ecc.. Infine, quanto
alla nocività (che è cosa ben diversa dalla
“molestia”) delle stesse immissioni,
è questione che esula dalla conformità
dell’impugnata concessione alla rispettiva
normativa locale e nazionale e, dunque,
dalla competenza comunale, sicché al
riguardo nulla può addebitarsi all’Ente
concedente (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.12.2009 n. 8877 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
l'art. 216 r.d. 27.07.1934 n. 1265 le
industrie insalubri di prima classe devono
essere di regola isolate nelle campagne e
tenute lontane dalle abitazioni. Il d.m. del
Ministero della Sanità 05.09.1994 classifica
gli allevamenti di animali tra le industrie
insalubri di prima classe e, quindi,
legittima l’applicazione alle stalle della
prescrizione del t.u. sanitario sopra
citata.
La preesistenza di una stalla è situazione
ostativa all’edificazione di un edificio
residenziale, poiché “l'art. 216 r.d.
27.07.1934 n. 1265, nel prescrivere che le
industrie insalubri di prima classe devono
essere isolate dalle campagne e tenute
lontane dall'abitazione, non fissa
specifiche distanze; pertanto, se il
titolare dimostra che, per l'introduzione di
nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio
dell'attività non reca nocumento alla salute
del vicinato, le distanze eventualmente
prescritte dal p.r.g. possono essere
derogate".
---------------
Il d.m. 05.09.1994, che definisce le
industrie insalubri, si limita ad indicare
come tale sia l’allevamento di animali che
la stalla di sosta per il bestiame senza
fissare un numero minimo di animali perché
si possa integrare la definizione in parola.
Né si può sostenere che questa limitazione
si ricava dal linguaggio comune, atteso che
in esso non si è formata alcuna accezione
nel senso che tre animali non costituiscano
stalla.
Le asprezze della normativa in parola sono
state, in effetti, temperate dalla
giurisprudenza che, per evitare di incorrere
in situazioni aberranti, ha ritenuto che “la
tenuta di pochi capi "da cortile" e "da
compagnia" in un'area recintata a fianco
dell'abitazione del ricorrente non
costituisce violazione del locale
regolamento di igiene che vieta di tenere
animali che arrechino pregiudizio alla
salubrità e alla tranquillità delle
abitazioni e disturbo al vicinato quando gli
animali siano in ottima salute, in numero
trascurabile in rapporto all'entità e al
tipo di area in cui vengono tenuti e a una
distanza congrua dagli edifici ad uso
abitativo della borgata, per cui risulta
illegittima per carenza dei presupposti
normativi l'ordinanza assessorile che ne
impone l'allontanamento” .
Il secondo motivo di ricorso, in cui
si afferma che la esistenza della stalla non
è di ostacolo alla costruzione di un
edificio destinato a residenza perché il
regolamento d’igiene vieterebbe
l’edificazione di nuove stalle vicine ad
abitazioni preesistenti ma non (viceversa)
di nuove abitazioni vicine a stalle
preesistenti, non è fondato.
Il punto di partenza è la prescrizione
contenuta nell'art. 216 r.d. 27.07.1934 n.
1265 secondo cui le industrie insalubri di
prima classe devono essere di regola isolate
nelle campagne e tenute lontane dalle
abitazioni.
Il d.m. del Ministero della Sanità
05.09.1994 classifica gli allevamenti di
animali tra le industrie insalubri di prima
classe, e quindi legittima l’applicazione
alle stalle della prescrizione del t.u.
sanitario sopra citata.
La norma del regolamento d’igiene del Comune
di Selvino è quindi applicazione di un
principio generale espresso dalla fonte
normativa primaria.
Nella lettura che ne dà la ricorrente essa
non recherebbe divieto di installazione di
nuove abitazioni in prossimità ad una stalla
preesistente. Ma tale lettura, che nega
significato alla preesistenza di un
edificio, comporterebbe come conseguenza
che, una volta insediata la residenza ed
effettuata la valutazione di compatibilità
tra l’insediamento residenziale autorizzato
e la stalla preesistente, qualora l’esito di
tale accertamento sia negativo, sia la
stalla a doversi allontanare in quanto
industria insalubre.
In realtà, la preesistenza di una stalla è
situazione ostativa all’edificazione di un
edificio residenziale, poiché “l'art. 216
r.d. 27.07.1934 n. 1265, nel prescrivere che
le industrie insalubri di prima classe
devono essere isolate dalle campagne e
tenute lontane dall'abitazione, non fissa
specifiche distanze; pertanto, se il
titolare dimostra che, per l'introduzione di
nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio
dell'attività non reca nocumento alla salute
del vicinato, le distanze eventualmente
prescritte dal p.r.g. possono essere
derogate” (CdS, IV, 6648/2004).
Ne consegue che, al più, il ricorrente, una
volta ricevuto nei 30 gg. dalla
presentazione della d.i.a. l’inibizione a
svolgere l’attività, lungi dal poter
contestare tout court il
provvedimento impugnato, avrebbe dovuto
dimostrare l’inesistenza di una situazione
di incompatibilità ed attivare un dialogo
con l’amministrazione che (in astratto)
avrebbe potuto anche portare alla
edificazione dei quattro edifici
residenziali in progetto.
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Nel terzo motivo di ricorso si deduce
che, in realtà, non vi sarebbe alcuna stalla
nelle vicinanze ma solo la tenuta di un
allevamento di pochi animali (segnatamente,
3 mucche) non classificabile peraltro come
stalla.
In realtà, nella normativa non vi sono
appigli utili per sostenere tale tesi. Il
d.m. 05.09.1994, che definisce le industrie
insalubri, si limita ad indicare come tale
sia l’allevamento di animali che la stalla
di sosta per il bestiame (allegato A,
lettera C, numeri 1 e 2) senza fissare un
numero minimo di animali perché si possa
integrare la definizione in parola.
Né si può sostenere che questa limitazione
si ricava dal linguaggio comune, atteso che
in esso non si è formata alcuna accezione
nel senso che tre animali non costituiscano
stalla.
Le asprezze della normativa in parola sono
state, in effetti, temperate dalla
giurisprudenza che, per evitare di incorrere
in situazioni aberranti, ha ritenuto che “la
tenuta di pochi capi "da cortile" e "da
compagnia" in un'area recintata a fianco
dell'abitazione del ricorrente non
costituisce violazione del locale
regolamento di igiene che vieta di tenere
animali che arrechino pregiudizio alla
salubrità e alla tranquillità delle
abitazioni e disturbo al vicinato quando gli
animali siano in ottima salute, in numero
trascurabile in rapporto all'entità e al
tipo di area in cui vengono tenuti e a una
distanza congrua dagli edifici ad uso
abitativo della borgata, per cui risulta
illegittima per carenza dei presupposti
normativi l'ordinanza assessorile che ne
impone l'allontanamento” (Tar Parma
02.07.1996, n. 215).
Nel caso in esame, peraltro, non si versa
però nella situazione che la giurisprudenza
amministrativa ha individuato come limite
all’applicazione della normativa del testo
unico delle leggi sanitarie in quanto non si
può sostenere che tre mucche costituiscano
capi “da cortile” e “da compagnia”.
Senza obliterare la circostanza che il
numero di mucche tenute può anche cambiare
nel corso degli anni, ciò che è decisivo è
che vi siano –come nel caso in esame non è
contestato- locali appositamente apprestati
per ospitarle in modo stabile
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 19.11.2009 n. 2217 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima l'ordinanza sindacale in
materia d'igiene che ingiunge al proprietario di un'azienda
agricola familiare, la cui attività principale è
l’allevamento di bovini, di disattivare immediatamente il
relativo impianto sol perché esso, a distanza di anni dalla
sua installazione, determina una situazione inaccettabile
per la salute dei soggetti che, consapevolmente, hanno a suo
tempo deciso di costruire il loro edificio nelle immediate
vicinanze della porcilaia.
Come evidenziato anche dal Consiglio di Stato in un’ipotesi
assai simile a quella in questione (avente ad oggetto un
impianto di ventilazione di un’azienda di allevamento di
suini) “è illegittima l'ordinanza sindacale in materia
d'igiene che, immotivatamente e senza curarsi di verificare
le situazioni alternative proposte …, ingiunge al
proprietario … di disattivare immediatamente il relativo
impianto … sol perché esso, a distanza di anni dalla sua
installazione, determina, ad avviso della p.a. emanante, una
situazione inaccettabile per la salute dei soggetti che,
consapevolmente, hanno a suo tempo deciso di costruire il
loro edificio nelle immediate vicinanze della porcilaia, in
quanto non è conforme ai principi di buona amministrazione
scaricare sul titolare dell'azienda la pregressa incauta
scelta della p.a. emanante di autorizzare o tollerare
insediamenti abitativi vicini ad industrie insalubri”
(C.d.S., sez. V, 22/06/1998 , n. 909) (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 03.09.2009 n. 2237 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Articoli
102 e 103 R.D. 45/1901 - Provvedimento di classificazione di
industria insalubre - Competenza della Giunta municipale -
Sussiste - Provvedimento adottato dal Sindaco -
Incompetenza.
Ai sensi degli artt. 102 e 103, comma 1, del R.d. 03.02.1901
n. 45, compete alla Giunta municipale l'emanazione dei
provvedimenti di classificazione delle industrie insalubri,
sulla base dell'elenco approvato dal Ministero della Salute,
e ciò anche dopo l'entrata in vigore degli artt. 216 e 217
t. u. 27.07.1934 n. 1265, che hanno attribuito al sindaco il
potere di adottare i concreti atti intesi ad eliminare
situazioni di rischio o di pericolo per la salute pubblica
derivanti da tali lavorazioni e anche dopo la legge di
riforma sanitaria 23.12.1978 n. 833 (cfr., fra le tante, TAR
Lombardia, sez. I, 24.11.1999, n. 3921; TAR Lombardia, sez.
Brescia, 30.05.1994, n. 289; TAR Lombardia, sez. Brescia,
09.09.1991 n. 595, TAR Friuli Venezia Giulia 21.10.1982 n.
235).
Ne deriva l'illegittimità per invalidità derivata
dell'ordinanza sindacale impugnata, emessa sul presupposto
della classificazione (da parte dell'USSL) dell'attività
esercitata dalla ricorrente quale industria insalubre di
prima classe (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.07.2009 n. 4539 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2008 |
|
EDILIZIA
PRIVATA:
1. Trasferimento
attività - Equiparabilità all'apertura di nuova attività -
Sussiste.
2. Ricorso giurisdizionale - Impugnazione N.T.A. - Mancata
impugnazione concessione edilizia - Inammissibilità ricorso
- Sussiste.
1.
Il trasferimento di un'attività da un luogo ad un altro,
dotato di una specifica destinazione urbanistica, è
equiparabile all'apertura di una nuova attività
nell'immobile di destinazione; inoltre, il riconoscimento
della legittimità dello svolgimento dell'attività insalubre
di prima classe in un luogo limitrofo, effettuato dal
Giudice Amministrativo, non può legittimare il suo
trasferimento in altro luogo in contrasto con le specifiche
destinazioni urbanistiche ed edilizie.
2.
Qualora venga impugnata una norma delle N.T.A. di un P.R.G.
sulla base della quale sia stata rilasciata una concessione
edilizia, ma non venga unitamente impugnata anche la
concessione edilizia, il ricorso è inammissibile (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.05.2008 n. 1827
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2000 |
|
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: S.
Di Rosa,
Attivazione di una industria insalubre: il preventivo avviso
scritto - gennaio 2000 (tratto da
www.dirosambiente.it). |
anno 1994 |
|
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.
10.12.1994 n. 288, suppl. ord., "Elenco
delle industrie insalubri di cui all'art.
216 del testo unico delle leggi sanitarie"
(Ministero della Sanità,
decreto 05.09.1994). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.
20.09.1994 n. 220, suppl. ord., "Elenco
delle industrie insalubri di cui all'art.
216 del testo unico delle leggi sanitarie"
(Ministero della Sanità,
decreto 05.09.1994). |
|