ANNO 2022
ANNO 2021
ANNO 2020
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SINO
ALL'ANNO 2019
SINO
ALL'ANNO 2014
ANNO 2022 |
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per approfondimenti di vario genere vedi anche:
M.I.T. (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) - Servizio Contratti Pubblici - Supporto Giuridico
<--->
Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici
Ministero dell'Interno
Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica:
inquinamento acustico
<--->
interpelli ambientali su
Economia Circolare
<--->
interpelli ambientali su
Energia
<--->
interpelli ambientali su
Valutazioni ed autorizzazioni ambientali
* * * * *
Regione ABRUZZO <--->
Regione EMILIA ROMAGNA <--->
Regione FRIULI VENEZIA GIULIA <--->
Regione MARCHE <--->
Regione LAZIO <--->
Regione LIGURIA <--->
Regione LOMBARDIA <--->
Regione PIEMONTE <--->
Regione Valle d'Aosta
* * * * *
Comune di Roma Capitale
* * * * *
La Posta del Sindaco (Halley)
* * * * *
acque/scarichi <--->
ambiente ed istituzioni <--->
aree protette e tutela territorio
<--->
polizia giudiziaria ambientale <--->
rifiuti <--->
sanzioni amministrative ambientali |
aggiornamento al
30.01.2022 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
personale di questa Regione è venuto a conoscenza della situazione di una
dipendente risultata positiva al covid-19. La stessa, però non ha presentato
alcun certificato medico attestante la sua condizione.
Può lavorare da casa in smart working?
Tra i doveri del prestatore di lavoro sanciti sia dal Testo Unico del
Pubblico Impiego (D.Lgs. 30.03.2001, n. 165) sia dalla contrattazione
collettiva vi è sicuramente quello di dover informare il datore di lavoro
circa il proprio stato di salute qualora questo impedisca il regolare
svolgimento della prestazione lavorativa (malattia).
La dipendente, pertanto, aveva il dovere di comunicare tempestivamente il
suo stato di positività all'amministrazione e la mancata comunicazione la
espone al rischio di una infrazione disciplinare.
La possibilità di prestare la propria attività lavorativa in modalità agile
è oggi fortemente legata alle condizioni poste dal DM 08.10.2021 e vanno
distinti i casi di quarantena precauzionale e di positività conclamata al
Covid-19.
Fermo restando che anche con l'ultima Circ. 05.01.2022 congiunta del
Ministero della Funzione Pubblica e del Ministero del lavoro e delle
politiche sociali u.s. (rinvenibile
qui) i Ministri invitano a "usare al meglio la flessibilità già
consentita dalle regole vigenti", con il Msg. 09.10.2020, n. 3653 l'INPS
ha chiarito che, nei casi in cui il lavoratore in quarantena o in
sorveglianza precauzionale perché soggetto fragile continui a svolgere, in
accordo con il proprio datore di lavoro, l'attività lavorativa presso il
proprio domicilio, non è possibile ricorrere alla tutela previdenziale della
malattia ed in questi casi infatti non ha luogo la sospensione dell'attività
lavorativa con la correlata retribuzione.
Di contro, con riferimento agli eventi certificati come malattia conclamata
da Covid-19, (art. 26, comma 6, D.L. 17.03.2020, n. 18) le indicazioni
ricevute da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
autorizzano il riconoscimento della tutela della malattia secondo
l'ordinaria gestione pertanto sembra escluso che il dipendente positivo al
Covid-19 possa continuare a rendere la propria prestazione lavorativa in "smart
working".
Per ciò che concerne la peculiarità del pubblico impiego evidenziamo come
sia altresì da escludere che un dipendente possa essere collocato in
modalità agile per consentirgli di espletare la prestazione lavorativa nel
caso risulti positivo al COVID-19 in quanto le amministrazioni nel
programmare e consentire l'accesso al lavoro agile devono "garantire
un'adeguata rotazione del personale che può prestare lavoro in modalità
agile, dovendo essere prevalente, per ciascun lavoratore, l'esecuzione della
prestazione in presenza".
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Riferimenti normativi e contrattuali
Msg. 09.10.2020, n. 3653 dell’INPS - DM 08.10.2021 della Presidenza del
Consiglio dei Ministri Dip. funz. pubbl.
Documenti allegati
Circ. 05.01.2022 del Ministero della Funzione Pubblica e del Ministero del
lavoro e delle politiche sociali
(26.01.2022 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questo ufficio tecnico ha ricevuto una segnalazione di abuso
edilizio su un immobile datato oltre 50 anni ma appena ereditato dai figli
del de cuius.
L’ufficio tecnico comunale può emanare un provvedimento amministrativo che
ordina il ripristino dello stato dei luoghi o il reato è prescritto?
Come da giurisprudenza amministrativa consolidata, la fattispecie dell’abuso
edilizio ha natura permanente e ciò significa che l’intervento repressivo
dell’ufficio tecnico è sempre possibile, anche a distanza di molti anni (ad
esempio TAR Liguria, Sent. n. 907/2017).
Tanto premesso, e ritenuto che, secondo nella situazione proposta nel
quesito, la sanzione astrattamente prevedibile per la tipologia di abuso
sarebbe l’ordinanza di demolizione e la riduzione in pristino, dobbiamo
evidenziare come anche l’autorevole giurisprudenza del Consiglio di Stato
(Adunanza Plenaria, sent. n. 9/2017) ha affermato che “il provvedimento
con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile
abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione
non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione
intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare
attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
Nel caso de quo, il Consiglio di Stato ha affrontato il tema di un
abuso assai risalente nel tempo e che aveva comportato la condanna del
responsabile, in sede penale, per il reato di cui all’articolo 17, lettera
b), della L. 27.01.1977, n. 10 ‘Norme in materia di edificabilità dei
suoli').
Detto ciò, riteniamo che se viene constatato un abuso edilizio per il quale
è prevista la sanzione della demolizione, è irrilevante il tempo, anche
lungo o lunghissimo, che intercorre tra la data di realizzazione dell’abuso
e la data di azione del provvedimento, con la conseguenza che il
provvedimento è dovuto anche a distanza di decenni.
Pertanto, a nostro parere, e come sopra ampiamente descritto, l’ufficio
tecnico comunale dovrà provvedere con i susseguenti atti amministrativi.
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Riferimenti di giurisprudenza
TAR Liguria. Sez. I, Sent.,
05.12.2017, n. 907 - Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent., 17.10.2017, n. 9 (10.01.2022
- tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D.L.
172/2021. Estensione dell’obbligo vaccinale, come introdotto dal D.L.
172/2021, al personale della polizia locale.
L’obbligo vaccinale, come introdotto dalle recenti
disposizioni normative, è previsto soltanto per il personale che svolge
l’attività lavorativa, con la conseguenza che il predetto obbligo non
dovrebbe sussistere in tutte le situazioni di sospensione del rapporto
di lavoro (intervenute prima dell'entrata in vigore del citato obbligo), in
cui detta attività non viene svolta (come, ad esempio, nel caso di fruizione
del congedo straordinario per assistenza a disabili).
In base all'ordinamento regionale (cfr. l.r. 5/2021), il personale (di
categoria B-C o D) che svolge attività amministrative per la polizia locale,
non è “personale della polizia locale” in senso stretto, con la conseguenza
che allo stesso non si dovrebbe applicare l’obbligo vaccinale introdotto
dall’art. 2 del DL 172/2021.
L’Ente chiede alcuni pareri in ordine all’estensione dell’obbligo vaccinale,
come introdotto dal d.l. 26.11.2021, n. 172, anche ai dipendenti inseriti
nell’area della polizia locale. In particolare, gradirebbe conoscere se
l’Amministrazione sia tenuta ad invitare il dipendente, che sta usufruendo
di un congedo straordinario per assistenza a familiare con grave disabilità
ex art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001, a produrre la documentazione di
cui all’art. 4-ter, comma 3, secondo e terzo periodo, del d.l. 44/2021,
ovvero se tale richiesta debba essere inoltrata in occasione del rientro in
servizio dello stesso. Inoltre chiede conferma del fatto che l’obbligo
vaccinale non sussiste per il personale amministrativo della Polizia Locale,
inquadrato in altre categorie (B-C e D).
È doveroso premettere che allo stato attuale non sono state fornite dalle
Autorità competenti in materia interpretazioni univoche della normativa in
esame; pertanto, in assenza di una maggiore chiarezza e in attesa di un
definitivo chiarimento e in via meramente collaborativa, si esprimono le
seguenti considerazioni.
Com’è noto, l’art. 2, comma 1, del citato decreto ha inserito, dopo
l’articolo 4-bis del decreto legge 01.04.2021, n. 44, convertito, con
modificazioni, dalla legge 28.05.2021, n. 76, l’articolo 4-ter.
Detta norma, al comma 1, dispone che, dal 15.12.2021, l’obbligo vaccinale
per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 si applica a determinate
categorie di lavoratori, nel dettaglio individuate.
La lettera b) del comma in esame prevede espressamente che detto obbligo
riguardi il personale del comparto della difesa, sicurezza e soccorso
pubblico, nonché il personale della polizia locale.
Il successivo comma 2 stabilisce inoltre che la vaccinazione costituisce
requisito essenziale per lo svolgimento delle attività lavorative dei
soggetti obbligati ai sensi del comma 1.
Pertanto, stante la formulazione delle richiamate norme, l’obbligo vaccinale
è previsto soltanto per il personale che svolge l’attività lavorativa
[1], con la conseguenza
che il predetto obbligo non dovrebbe sussistere in tutte le situazioni di
sospensione del rapporto di lavoro, in cui detta attività non viene svolta.
Si consideri che in tale posizione rientra sicuramente anche chi usufruisce
del congedo per l’assistenza a familiari disabili gravi, come disciplinato
dall’art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001. A mente di quanto disposto anche
dall’art. 4, comma 2, della l. 53/2000, infatti, durante il periodo di
congedo per gravi e documentati motivi familiari, il dipendente conserva il
posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione (ma a un’indennità
corrispondente [2])
e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa.
Si aggiunge che, nelle fattispecie in cui la legge prevede in modo specifico
la sospensione del rapporto con diritto a conservare il posto di lavoro e a
percepire la retribuzione o (come nel caso del congedo straordinario) un
analogo compenso di natura indennitaria, ritenere che l’obbligo di
vaccinazione sussista anche durante il periodo di assenza dal servizio, con
applicazione delle conseguenti sanzioni in caso di inadempimento
[3], produrrebbe
conseguenze irragionevoli, atteso che di fatto risulterebbero vanificate le
disposizioni che stabiliscono espressamente ipotesi di sospensione
lavorativa legittima con diritto al mantenimento del trattamento
retributivo.
Per quanto concerne il secondo quesito formulato, si osserva che l’art. 20,
comma 5, della LR 5/2021 recita testualmente: “Al fine di favorire lo
svolgimento delle funzioni operative sul territorio, le attività
amministrative connesse allo svolgimento dei compiti di polizia locale sono
svolte dal personale amministrativo degli enti locali, salvo che,
eccezionalmente, ricorra almeno una delle seguenti condizioni:
a) le attività siano immediatamente correlate alle violazioni
accertate;
b) le attività riguardino l'acquisizione di dotazioni strumentali
dello stesso personale di vigilanza finalizzate allo svolgimento del
servizio".
Pertanto, in base al nostro ordinamento, il personale (di categoria B-C o D)
che svolge attività amministrative per la polizia locale, non è “personale
della polizia locale”, con la conseguenza che allo stesso non si
dovrebbe applicare l’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 2 del DL
172/2021.
Un tanto pare confermato anche dal tenore delle vigenti previsioni
contrattuali (ad esempio, l’art. 30 del CCRL del 01.08.2002), ove per “personale
della polizia locale” si intende propriamente “il personale
dipendente appartenente all’area della polizia locale”, articolato nelle
tre categorie PLA, PLB e PLC.
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[1] Conferma di un tanto si ricava anche da altre disposizioni contenute
nella norma in esame. Ad esempio, al comma 3 dell’art. 2 è previsto che
“l’atto di accertamento dell’inadempimento determina l’immediata sospensione
dal diritto di svolgere l’attività lavorativa…….; al successivo comma 4 si
fa riferimento allo “svolgimento dell’attività lavorativa in violazione
dell’obbligo vaccinale…..”.
[2] Ossia sospensione dal lavoro senza retribuzione né altro compenso o
emolumento, comunque denominati (art. 4-ter, comma 3, DL 44/2021).
[3] L’art. 42, comma 5-ter, del d.lgs. 151/2001 prevede che il dipendente,
durante il periodo di congedo, ha diritto a percepire un’indennità
corrispondente all’ultima retribuzione, con riferimento alle voci fisse e
continuative del trattamento
(28.12.2021 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
aggiornamento al
25.01.2022 |
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EDILIZIA PRIVATA: Da
accertamenti è emersa la realizzazione di un soppalco all'interno di una
abitazione con la presenza di posti letto aggiuntivi ed un locale ufficio.
Come si qualifica sotto il profilo edilizio questo intervento?
La realizzazione di un soppalco, in linea teorica, può essere qualificata
come attività edilizia che rientra nell'ambito degli interventi di restauro
o risanamento conservativo.
Tuttavia, la giurisprudenza ha sottolineato come tale intervento ricada
nella disciplina della ristrutturazione edilizia, qualora determini una
modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio
del carico urbanistico
Il D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3, lett. d), definisce infatti "interventi
di ristrutturazione edilizia", gli interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono
portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti
al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o
demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne
la preesistente consistenza.
L'elemento che, in linea generale, contraddistingue la ristrutturazione
dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione
del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura
fisica ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma,
in quest'ultimo caso, con ricostruzione, se non fedele, comunque rispettosa
della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
Gli interventi edilizi che alterano, anche sotto il profilo della
distribuzione, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportano
l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi,
non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o
risanamento conservativo, ma rientrano appunto nell'ambito della
ristrutturazione edilizia come il caso della realizzazione di un soppalco
con aumento del carico urbanistico.
La giurisprudenza penale ha sottolineato come gli interventi di "ristrutturazione
edilizia", la cui realizzazione senza il preventivo rilascio del
permesso di costruire integra il reato di cui all' art. 44, D.P.R.
06.06.2001, n. 380, comprendono l'esecuzione di lavori consistenti nel
ripristino o nella sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, ovvero nella eliminazione, modificazione e inserimento di
nuovi elementi ed impianti, e sono distinguibili dagli interventi di "risanamento
conservativo", i quali si caratterizzano per il mancato apporto di
modifiche sostanziali all'assetto edilizio preesistente, alla luce di una
valutazione compiuta tenendo conto della globalità dei lavori eseguiti e
delle finalità con questi perseguite.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. IV, 07.04.2015, n. 1763 - TAR Campania-Napoli Sez. IV,
05.02.2015, n. 869 - TAR Lazio-Roma Sez. I-quater, 12.01.2015, n. 347 -
Cons. Stato Sez. V, 05.12.2014, n. 5988 - Cass. pen. Sez. III, 06.11.2014,
n. 49221 (rv. 261216) - TAR Campania, sez. VII, 09.12.2013, n. 5641 - TAR
Lombardia-Milano, sez. II, 02.10.2003, n. 4502 (10.06.2015 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ANNO 2021 |
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aggiornamento al
31.12.2021 |
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COMPETENZE PROGETTUALI:
Oggetto: La competenza degli Architetti nell’edilizia cimiteriale
(15.01.2019 - tratto da www.architettilucca.it).
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La questione sottoposta alla mia attenzione è stata oggetto di alcune
pronunce amministrative che hanno originato un vivace dibattito, approdato a
diversi interventi -su sollecitazione di alcuni degli Ordini locali- da
parte del Consiglio Nazionale degli Architetti.
Darò, dunque, conto del dibattito maturato sul tema.
La sentenza che ha dato vita alla querelle tra i due ordini professionali
(ingegneri ed architetti) risale al 2000, quando il Consiglio di Stato con
la pronuncia della IV Sez. del 22.05.2000 n. 2938, disattendendo le pretese
avanzate da un Ordine degli architetti in riforma della decisione del Tar
Veneto, ha ritenuto che la realizzazione delle opere cimiteriali sia di
competenza esclusiva degli ingegneri, partendo dalla considerazione che la
progettazione di opere infrastrutturali (quali idrauliche, igieniche
sanitarie e viarie) che -non sono a servizio di un fabbricato di edilizia
civile- ricadono al di fuori delle competenze dell’architetto.
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Titoli edilizi rilasciati dal comune in assenza di autorizzazione
paesaggistica - applicabilità del divieto di sanatoria a immobili realizzati
ex ante (MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 16.01.2017 n. 1070 di prot.). |
aggiornamento al
29.11.2021 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nomina dipendente di altro ente componente commissione concorso.
DOMANDA
Alla luce delle novità introdotte dal decreto legge 30/12/2019, n. 162
(convertito in legge, con modificazioni, dalla Legge 28/02/2020, n. 8)
all'art. 3 della Legge 19/06/2019, n. 56, si chiede:
- quali siano le modalità per nominare un dipendente di altro Ente
pubblico come componente esterno di commissione concorsuale;
- se il compenso debba essere corrisposto direttamente al suddetto
componente esterno oppure all'Amministrazione di appartenenza;
- quale sia il trattamento fiscale e contributivo a cui è soggetto
il compenso;
- nel caso in cui sia l'Amministrazione di appartenenza a
riconoscere il compenso (dopo aver ricevuto il relativo importo
dall'Amministrazione che ha indetto il concorso), se l'Amministrazione di
appartenenza debba sostenere il costo aggiuntivo riguardante Cpdel e Irap a
proprio carico oppure se l'importo (pagato dall'Amministrazione che ha
indetto il concorso) sia al lordo di tutti gli oneri e quindi non vi sia
alcun costo aggiuntivo.
RISPOSTA
Per gli Enti locali una disposizione legislativa cardine è quella contenuta
nell'art. 70, comma 13, D.Lgs. n. 165 del 2001 secondo cui "In materia di
reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista
dal
D.P.R.
09.05.1994, n. 487, e successive modificazioni ed
integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli artt.
35 e
36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi
previsti, nell'ambito dei rispettivi ordinamenti".
Gli enti territoriali, nell’esercizio della potestà regolamentare degli enti
locali in materia di organizzazione dei propri uffici e servizi e del
reclutamento del personale attribuita prima dall’art. 6 della legge n.
127/1997 e poi dal nuovo assetto costituzionale introdotto dalla
legge
costituzionale n. 2/2001, fatto salvo l’obbligo di conformarsi ai meccanismi
oggettivi e trasparenti, necessari per la verifica del possesso dei
requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione
da ricoprire, possono disciplinare in modo autonomo l’organizzazione e lo
svolgimento dei concorsi rispetto a cui le disposizioni del
DPR n. 487/1994
e ss.mm.ii. costituiscono principi generali a cui attenersi.
Infatti, gli Enti pubblici diversi dalle Amministrazioni dello Stato a cui
la Costituzione o la legge attribuisce potestà legislativa o anche solo
normativa (statutaria o regolamentare) possono adottare proprie fonti che
disciplinino le procedure di reclutamento, nel rispetto della
L. 241/1990 e
del
D.lgs. n. 165/2001 e dei principi contenuti nel Regolamento nazionale
adottato con DPR 487/1994, recante norme sull'accesso agli impieghi nelle
pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei
concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi.
A tale riguardo l’art. 9 del citato DPR dispone che per gli enti locali
territoriali la presidenza delle commissioni di concorsi può essere assunta
anche da un dirigente della stessa amministrazione o di altro ente
territoriale; b) per i concorsi per la quinta e la sesta qualifica o
categoria: da un dirigente o equiparato, con funzioni di presidente, e da
due esperti nelle materie oggetto del concorso; le funzioni di segretario
sono svolte da un impiegato appartenente alla settima qualifica o categoria;
c) per le prove selettive previste dal capo terzo del presente regolamento,
relative a quei profili per il cui accesso si fa ricorso all'art. 16 della
legge 28.02.1987, n. 56 , e successive modifiche ed integrazioni: da
un dirigente con funzioni di presidente e da due esperti nelle materie
oggetto della selezione; le funzioni di segretario sono svolte da un
impiegato appartenente alla sesta qualifica o categoria.
La preferenza per personale interno, salvi casi di conflitto d’interesse, di
incompatibilità, di mancanza di specifica competenza in determinate materie
di concorso, è legata al principio di tutela della finanza pubblica in
ordine all’utilizzo delle risorse umane di cui la PA dispone atteso che come
affermato dalla giurisprudenza (cfr.
Tar Veneto, Sezione II, sentenza
700/2007), “la partecipazione alle commissioni giudicatrici per i componenti
interni rientra nell’ordinario contenuto del rapporto di impiego con
l’Amministrazione che ha indetto il concorso, il quale ben può comprendere
anche prestazioni lavorative occasionali (che, proprio per tale loro
specifica natura, non sono previste dalla contrattazione collettiva di
settore). Ed è evidente come, in tale contesto, quelle prestazioni
occasionali non possano che essere remunerate con la normale retribuzione se
svolte durante l’orario di servizio, ovvero, al di fuori di esso, con il
compenso aggiuntivo previsto per il lavoro straordinario”.
Il quadro normativo anzidetto si è arricchito delle novità introdotte dai
commi 11, 12, 13 dell’art. 3 della L. 56/2019, ma con la successiva
abrogazione del comma 12 da parte dell’art. 18, comma 1-ter, lett. b), del DL
162/2019 convertito con modificazioni dalla
legge 8/2020, per cui è venuta
meno la disposizione in base alla quale gli incarichi di presidente, di
membro o di segretario di una commissione esaminatrice di un concorso
pubblico per l'accesso a un pubblico impiego, anche laddove si tratti di
concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza e
ferma restando in questo caso la necessità dell'autorizzazione di cui
all'art. 53 d.lgs. n. 165/2001, si considerano ad ogni effetto di legge
conferiti in ragione dell'ufficio ricoperto dal dipendente pubblico o
comunque conferiti dall'amministrazione presso cui presta servizio o su
designazione della stessa.
Ciò premesso, si ritiene quanto segue:
- la nomina di un dipendente di un altro ente dovrebbe avvenire in presenza
delle condizioni prima evidenziate (conflitti, incompatibilità, mancanza di
competenza per materia di esame, componenti esperto assente nell’ente e
simili) attestate dal dirigente che nomina la commissione di concorso,
altrimenti si deve ricorrere a personale interno.
A seguito dell’abrogazione della citata disposizione, dovrebbe essere
ripristinato il precedente regime di compenso di collaborazione occasionale
per attività svolta al di fuori del rapporto di servizio con il proprio
ente, compenso soggetto solo a trattenuta irpef; per cui il componente
esterno al termine delle proprie attività consegnerà apposita notula di
pagamento all’amministrazione presso cui ha operato, fatte salve le
autorizzazioni preventive dell’ente di appartenenza e le comunicazioni
successive allo stesso dei compensi erogati ai sensi dell’art. 53 del d.lgs.
n. 165/2001 (12.06.2020 - tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
aggiornamento al
15.06.2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Una recente sentenza di Cassazione (Sez. VI penale,
sentenza 07.12.2020 n. 34776) ha confermato
che il visto contabile del responsabile finanziario non ha natura meramente
formale di copertura della spesa ma la normativa primaria prevede la
possibilità di opporsi alla liquidazione, espressione di un suo potere di
vigilanza e di legalità.
Si può chiarire l'espressione "potere di vigilanza e di legalità", cosa
vuole significare, in che consiste?
Si ritiene che dato il tenore della pronuncia della Corte di Cassazione
penale occorre soffermarsi sugli istituti che governano l'attività oggetto
della richiamata pronuncia.
Come evidenziato dalla sentenza, il Tuel prescrive che ogni Determinazione
dell'ente comunale che preveda un impegno di spesa da parte di quest'ultimo
devono essere svolti dei controlli fiscali e contabili in adempimento di
quanto previsto dal combinato disposto degli art. 49, comma 1 e 184, comma 4
del Testo Unico.
In particolare la giurisprudenza della corte Conti ha evidenziato che: "con
il "parere di regolarità contabile" il fine perseguito dal
legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di
ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio
dell'ente e, a tal fine, nell'esprimere tale parere egli dovrà tener conto,
in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel
tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica
rilasciato dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall'organo
proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e
progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di
gestione" (Corte dei Conti Calabria Sez. giurisdiz.
sentenza 27.05.2019 n. 185).
In sostanza chi ricopre funzioni di responsabile del servizio finanziario
all'interno dell'ente locale, attraverso l'esercizio del potere di firma,
deve svolgere un controllo formale e sostanziale sugli ordinativi di
pagamento; ciò in ragione del fatto che "..... le procedure di spesa
previste dalla legge, oltre che dal regolamento di contabilità degli enti
locali, sono volte ad assicurare il buon fine del pagamento, cioè che la
somma indicata sul mandato sia accreditata al legittimo beneficiario, e che
il pagamento stesso sia inequivocabilmente ricondotto all'ambito di una
determinata procedura di spesa pubblica e quietanzato come tale" (Corte
dei Conti Piemonte Sez. giurisdiz.
sentenza 06.09.2016 n. 248).
In conclusione, quindi, il potere di vigilanza e legalità va letto nel senso
che il responsabile del servizio contabile ha un obbligo
di controllo effettivo sulla legittimità degli atti comportanti l'impegno di
spesa.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49
- D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, 184
Riferimenti di giurisprudenza
Corte dei Conti Calabria Sez. giurisdiz. Delib., 27.05.2019, n. 185 - Corte
dei Conti Piemonte Sez. giurisdiz. Delib., 06.09.2016, n. 248 (17.12.2020
- tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sintesi/Massima
Deliberazioni di giunta immediatamente eseguibili. Sulla
materia il giudice amministrativo ha precisato che “… la
clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta
discrezionale dell’amministrazione, comunque pur sempre
correlata al requisito dell’urgenza, che deve ricevere
adeguata motivazione nell’ambito dello stesso atto” (TAR
Piemonte nella sentenza n. 460 del 2014).
Testo
Sono state esposte alcune doglianze in ordine alla
dichiarazione di immeditata eseguibilità delle deliberazioni
di giunta del comune in oggetto.
In particolare, è stato segnalato che le dichiarazioni di
immediata eseguibilità apposte alle delibere giuntali
risultano prive di specifica motivazione.
Sulla materia il giudice amministrativo ha precisato che “…
la clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta
discrezionale dell’amministrazione, comunque pur sempre
correlata al requisito dell’urgenza, che deve ricevere
adeguata motivazione nell’ambito dello stesso atto” (TAR
Piemonte nella sentenza n. 460 del 2014).
Al riguardo, si rappresenta che il vigente ordinamento, come
noto, non prevede poteri di controllo di legittimità sugli
atti degli enti locali in capo a questa Amministrazione.
Pertanto gli eventuali vizi di legittimità degli atti
adottati possono essere fatti valere solo nelle competenti
sedi, secondo le consuete regole vigenti in materia
(parere
03.01.2018 - link a https://dait.interno.gov.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sintesi/Massima
Art. 134, comma 4, decreto legislativo n. 267/2000.
Deliberazioni del Consiglio e della Giunta dichiarate
immediatamente eseguibili, nel caso di urgenza, con il voto
espresso dalla maggioranza dei componenti.
Il TAR Piemonte, nella sentenza n. 460 del 2014, ha ritenuto
che “… la clausola di immediata eseguibilità dipende da
una scelta discrezionale dell’amministrazione, comunque pur
sempre correlata al requisito dell’urgenza, che deve
ricevere adeguata motivazione nell’ambito dello stesso atto”.
Testo
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale è
stato chiesto un parere circa la necessità di una specifica
motivazione giustificativa della formula di “immediata
eseguibilità” delle deliberazioni del Consiglio e della
Giunta, ai sensi dell’art. 134, comma 4, del decreto
legislativo n. 267/2000.
Al riguardo si osserva che, in linea generale, in base alla
disposizione citata, la dichiarazione di immeditata
eseguibilità risponde all'esigenza di porre in essere le
deliberazioni urgenti quindi, limitatamente a tali casi,
deve scaturire da apposita separata votazione che la approvi
con il voto favorevole della maggioranza dei componenti del
collegio, non essendo sufficiente il voto della maggioranza
semplice dei votanti o dei presenti.
Siffatta decisione di attribuire ad una deliberazione la
connotazione dell'immediata eseguibilità assume autonoma
valenza rispetto all'approvazione del provvedimento cui si
riferisce, restandone logicamente distinta.
Si segnala in proposito come il TAR Liguria, sez. II, con
decisione n. 2/2007 ha affermato che in virtù dell'art. 134,
comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, la necessità
che la dichiarazione di immediata eseguibilità –per motivi
di urgenza– di una delibera di consiglio o di giunta, sia
oggetto di un'autonoma votazione, fa sì che tale
dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si
identifichi con essa.
Lo stesso Tribunale ha puntualizzato che il legislatore non
ha ritenuto la clausola di immediata eseguibilità quale
attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla
dipendere da una scelta discrezionale –basata sul requisito
dell'urgenza– dell'amministrazione procedente. Sullo
specifico quesito formulato, si ritiene di condividere le
osservazioni formulate dal TAR Piemonte nella sentenza n.
460 del 2014 circa la indefettibilità di una adeguata
motivazione giustificativa della dichiarazione di immediata
eseguibilità.
Nella citata pronuncia il giudice amministrativo ha ritenuto
che “… la clausola di immediata eseguibilità dipende da
una scelta discrezionale dell’amministrazione, comunque pur
sempre correlata al requisito dell’urgenza, che deve
ricevere adeguata motivazione nell’ambito dello stesso atto”
(parere
17.02.2017 - link a https://dait.interno.gov.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sintesi/Massima
Delibera di variazione di bilancio e delibera di
salvaguardia degli equilibri di bilancio – applicazione art.
134, coma 4, tuel n. 267/2000.
La dichiarazione di immeditata eseguibilità, per motivi di
urgenza, discende da una scelta discrezionale
dell’amministrazione procedente, con autonoma valenza
rispetto al provvedimento cui si riferisce.
Testo
E' stato chiesto un parere in merito alla regolarità di
adozione delle delibere specificate in oggetto non munite
della dichiarazione di immediata eseguibilità ai sensi
dell'art. 134, comma 4, TUEL.
In linea generale si evidenzia che in base alla disposizione
citata la dichiarazione di immeditata eseguibilità risponde
all'esigenza di porre in essere le deliberazioni urgenti
quindi, limitatamente a tali casi, deve scaturire da
apposita separata votazione che la approvi con il voto
favorevole della maggioranza dei componenti del collegio,
non essendo sufficiente il voto della maggioranza semplice
dei votanti o dei presenti.
Siffatta decisione, di attribuire ad una deliberazione la
connotazione dell'immediata eseguibilità, assume autonoma
valenza rispetto all'approvazione del provvedimento cui si
riferisce, restandone logicamente distinta, anzitutto perché
presidiata dalla maggioranza qualificata e comunque perché
ciascun componente dell'organo collegiale potrebbe esprimere
valutazioni differenziate sul merito del provvedimento e
sulla opportunità della sua immediata esecuzione.
Si segnala in proposito come il TAR Liguria, sez. II, con
decisione n. 2/2007 ha affermato che 'in virtù dell'art.
134 comma 4, del d.lgs.vo n. 267/2000, la necessità che la
dichiarazione di immediata eseguibilità –per motivi di
urgenza– di una delibera di consiglio o di giunta, sia
oggetto di un'autonoma votazione, fa si che tale
dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si
identifichi con essa'. Lo stesso Tribunale ha
puntualizzato che il legislatore non ha ritenuto la clausola
di immediata eseguibilità quale attributo necessario di ogni
delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta
discrezionale –basata sul requisito dell'urgenza–
dell'amministrazione procedente.
Proprio per tale scelta discrezionale, ad avviso della
scrivente, la situazione di urgenza, che per opportunità
dovrebbe essere indicata nel dispositivo del provvedimento,
scaturisce certamente da motivazioni che, rientrando
nell'ambito della sfera di valutazione afferente la
discrezionalità politica, comunque sono rilevabili
esclusivamente dall'organo deliberante il quale si assume la
responsabilità della decisione adottata.
Si evidenzia infine come il Consiglio di Stato con sentenza
n. 107/2009 ha chiarito che 'la pubblicazione dell'atto
amministrativo quando è prescritta, non costituisce
requisito di validità ma solo di efficacia del
provvedimento, la quale attiene al diverso fenomeno della
produzione degli effetti che si realizza quando si è
perfezionato l'iter procedimentale (estrinseco) previsto per
la formazione dell'atto'.
L'Alto Consesso ha puntualizzato, altresì, che con la
dichiarazione di immediata esecutività, viene rimosso ogni
impedimento estrinseco alla produzione degli effetti
dell'atto (ovvero della sua temporanea inefficacia –o
meglio– in operatività in pendenza dell'affissione).
Siffatte considerazioni possono certamente valere anche per
la deliberazione di salvaguardia degli equilibri di bilancio
che, consistendo nell'accertamento della permanenza del
pareggio di bilancio, di per sé può non richiedere il
requisito dell'urgenza.
Infatti, lo strumento previsto dal comma 2 dell'art. 193 per
assicurare il rispetto degli equilibri di bilancio nel corso
della gestione prevede la deliberazione del consiglio, il
quale deve provvedere, almeno una volta all'anno, e comunque
entro il 30 settembre, ad effettuare la ricognizione sullo
stato di attuazione dei programmi. Il corretto esercizio di
questo compito, che rientra nell'ambito delle funzioni di
indirizzo e controllo attribuite ai consigli dall'art. 42
del testo unico, presuppone un bilancio di previsione
annuale che sia stato elaborato nella logica della relazione
previsionale e programmatica e del bilancio pluriennale.
Il rilievo fondamentale degli adempimenti posti dalla citata
norma, volti a garantire una corretta gestione finanziaria,
emerge quindi dall'attribuzione al consiglio comunale della
competenza all'adozione della relativa delibera e dalla
circostanza che l'omissione dei provvedimenti di
riequilibrio, da adottare successivamente e separatamente
solo ove necessari in conseguenza della ricognizione
effettuata dall'organo consiliare, è equiparata 'ad ogni
effetto' alla mancata approvazione del bilancio di
previsione
(parere
13.10.2009 - link a https://dait.interno.gov.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sintesi/Massima
Le deliberazioni di Giunta o di Consiglio comunale
dichiarate immediatamente eseguibili con il voto della
maggioranza dei componenti in base all’articolo 134, comma
4, del d.lgs. n. 267/2000 sono eseguibili dal momento della
loro adozione.
Testo
E' stato chiesto se le deliberazioni di Giunta o di
Consiglio comunale dichiarate immediatamente eseguibili con
il voto della maggioranza dei componenti in base
all'articolo 134, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 siano
eseguibili dal giorno della loro adozione o della
pubblicazione e, quindi, se gli atti conseguenti possano
essere adottati, rispettivamente, dal giorno della adozione
o dal giorno della pubblicazione.
Al riguardo, si rappresenta che nel quadro della normativa
sopra citata, la dichiarazione di immediata eseguibilità
corrisponde all'esigenza di porre immediatamente in essere
le deliberazioni urgenti e che l'esecutività è 'in re
ipsa' per il solo fatto che la stessa venga votata dalla
maggioranza dei componenti del consiglio o della giunta.
L'immediata esecuzione delle delibere è, pertanto,
esclusivamente subordinata ad una dichiarazione in tal senso
da parte dell'organo collegiale con il voto espresso dalla
maggioranza dei componenti.
Peraltro, come affermato dal Consiglio di Stato con sentenza
n. 1070/2009 'la pubblicazione dell'atto amministrativo
quando è prescritta, non costituisce requisito di validità
ma solo di efficacia del provvedimento, la quale attiene al
diverso fenomeno della produzione degli effetti che si
realizza quando si è perfezionato l'iter procedimentale
(estrinseco) previsto per la formazione dell'atto'.
L'Organo giurisdizionale di secondo grado ha puntualizzato,
altresì, che con la dichiarazione di immediata esecutività,
viene rimosso ogni impedimento estrinseco alla produzione
degli effetti dell'atto (ovvero della sua temporanea
inefficacia –o meglio– inoperatività in pendenza
dell'affissione)
(parere
09.04.2009 - link a https://dait.interno.gov.it). |
aggiornamento al
30.04.2021 (ore 23,59) |
|
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Riscontro richiesta di parere della Direzione Tecnica del Municipio XV prot.
CU 97347 del 25.11.2020 (pervenuta al D.P.A.U. con prot. QI 138499 del
25.11.2020), inerente la richiesta di chiarimenti in merito alle “Tolleranze
costruttive” di cui all’art. 34-bis del D.P.R. 380/2001 (Comune di
Roma,
nota 11.12.2020 n. 148518 di prot.).
---------------
Si leggano, al riguardo, altri precedenti pareri collegati:
●
Oggetto: Riscontro richiesta di parere della Direzione Tecnica del
Municipio VII prot. Cl 146146 del 26.06.2018 (pervenuta al D.P.A.U. con prot.
Ql 113427 del 03.07.2018), inerente l'applicabilità dell'art. 34, comma
2-ter, dpr 380/2001 per la chiusura di una loggia
(Comune di Roma,
nota 08.08.2018 n. 135807 di prot.).
●
Oggetto: Riscontro richiesta parere U.O.T. Municipio III (ex IV) prot.
125685 del 14.12.2015 (acquisita al D.P.A.U. con prot. 207401 del
18.12.2015), inerente le intervenute modifiche al dpr 380/2001 con la Legge
106/2011 - art. 34, comma 2-ter
(Comune di Roma,
nota 15.02.2016 n. 26496 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con l'art. 34-bis, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 è stato introdotto
il concetto di "tolleranza esecutiva per le irregolarità geometriche".
Ora il caso riguarda un edificio residenziale di tre piani e 6 appartamenti
degli anni '60, che prevedeva per il soggiorno 2 finestre e una porta
finestra, mentre è stata realizzata una finestra e una porta finestra per
tutte e 6 le unità senza la presentazione di una variante; catastalmente è
regolare.
Considerato a mio avviso che la geometria di un edificio non riguarda
solamente la sagoma ma anche le proporzioni delle facciate, è ammissibile
pensare che l'eliminazione di una finestra possa essere considerata una
irregolarità geometrica?
Si precisa che il rapporto aero-illuminante è rispettato.
Si ritiene che al fine di dare adeguata risposta al quesito posto giovi
preliminarmente inquadrare lo stato dell'arte normativo.
In particolare, il D.L. 16.07.2020, n. 76 (c.d. "Decreto Semplificazioni"),
poi recepito con la legge di conversione L. 11.09.2020, n. 120, ha
introdotto una nuova e importante disciplina in merito alle tolleranze
costruttive in caso di parziali difformità rispetto al titolo edilizio
abilitativo, disponendo l'abrogazione del comma 2-ter, art. 34, D.P.R.
06.06.2001, n. 380 e introducendo una nuova disciplina con l'inserimento del
nuovo art. 34-bis, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 medesimo.
Giova quindi evidenziare come già la giurisprudenza formatasi sotto la
previgente normativa aveva trattato la c.d. tolleranza di cantiere del 2%, o
regime di franchigia, di cui all'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n.
380, disposizione in base alla quale "non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura
o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per
cento delle misure progettuali".
Il Consiglio di Stato Detta chiamato a pronunciarsi sul teme ha stabilito
che: "Si tratta, come appare evidente, di una disposizione di tolleranza
rivolta a disciplinare in senso, per dir così "liberalizzatorio", interventi
edilizi aventi una consistenza minima" (Cons. Stato Sez. VI, Sent.,
23.07.2018, n. 4504).
Da tali presupposti consegue che già sotto il previgente regime normativo un
intervento, in se parzialmente difforme, realizzato però entro il limite
della c.d. "tolleranza di cantiere", non fosse riconducibile nella
categoria della difformità parziale, ma rientrava nella irrilevanza ai fini
edilizi, con la conseguenza della sua non sanzionabilità anche sotto il
profilo di violazione minore (difformità o assenza di Scia o Pdc).
La modifica di recente introduzione quindi ha dettagliato un principio già
formatosi sulla scorta della interpretazione giurisprudenziale; pertanto
alla luce di quanto sopra si ritiene che la difformità descritta nel quesito
sia riconducibile alla nuova tipologia di tolleranza costruttiva e pertanto
possa giovarsi di quanto previsto al nuovo art. 34-bis.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 34-bis
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. VI, Sent.,
23.07.2018, n. 4504
(23.10.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
quesito che intendo sottoporre riguarda un ampliamento di volume in
sopraelevazione, di un edificio unifamiliare posto all'interno della fascia
di rispetto stradale, di cui al D.Lgs. 30.04.1992, n. 285.
Tale ampliamento, già realizzato, rispetta il 2% previsto dall'art. 34,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e pertanto è ammesso anche se è in zona di vincolo
paesaggistico, come riportato dal D.P.R. 13.02.2017, n. 31.
Dato che il Codice della Strada non contempla tolleranze, come invece
previsto dalle norme su citate, si chiede se il 2% in ampliamento, che non è
considerato ai fini edilizi come parziale difformità, può essere applicato,
per analogia, anche all'art. 16 del C.d.S. vigente.
L'avanzato quesito riguarda un'interessante fattispecie, coinvolgente
problematiche di natura edilizia e di disciplina delle distanze.
Precisamente, la concreta fattispecie può essere così sintetizzata:
- In un edificio unifamiliare, posto all'interno del vincolo della
fascia di rispetto stradale, come disciplinata dal Codice della strada (D.Lgs.
30.04.1992, n. 285), è stato realizzato un intervento edilizio, comportante
un ampliamento di volume, che si sviluppa in una sopraelevazione.
Siffatto ampliamento rispetta le cd. "tolleranze di cantiere",
disciplinate dall'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Conseguentemente, l'intervento, in quanto rientrante nelle predette "tolleranze",
non dà luogo ad alcuna difformità, neppure parziale, rispetto al titolo
edilizio che ha legittimato il medesimo intervento.
A questo punto, si chiede di sapere se il consentito ("tollerato")
ampliamento dei "distacchi", cioè della distanza fra due edifici
fronteggianti, trova una legittimazione anche sul versante della fascia di
rispetto stradale. In altri termini, si chiede di sapere se la prevista "tolleranza"
della costruzione edilizia, in termini di "distacchi", pari al 2%
delle misure progettuali, trova applicazione anche nei riguardi dei limiti
afferenti la fascia di rispetto stradale.
Primariamente, occorre ricordare che il richiamato art. 34, comma 2-ter,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, stabilisce quanto segue: "Ai fini
dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura
o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per
cento delle misure progettuali".
Siffatta disposizione normativa è stata aggiunta dall'art. 5, comma 2,
lettera "a", n. 5, D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito in L. 12.07.2011, n.
106. La disposizione (ricalcante la pregressa ed analoga prevista dall'art.
32, comma 1, L. 28.02.1985, n. 47) è destinata ad operare, unicamente, nei
rapporti con la Pubblica amministrazione, non potendo legittimare alcuna
lesione dei diritti dei terzi, specie in materia di distanze tra
costruzioni. In altri termini, anche se un ampliamento del 2% del fronte di
un fabbricato potrà non costituire un abuso edilizio, il vicino potrà sempre
chiedere al giudice ordinario l'arretramento del corpo di fabbrica, per
ripristinare le distanze eventualmente violate.
In buona sostanza, la disposizione normativa prende in considerazione
quattro elementi di possibile tolleranza da valutare in confronto alle
misure progettuali. Gli elementi sono:
- Distacchi: la distanza tra due edifici fronteggianti;
- Cubatura: la volumetria espressa in metri cubi;
- Superficie coperta: la proiezione orizzontale al suolo della
sagoma esterna del manufatto;
- Altezza degli edifici.
Orbene, occorre osservare che la "fascia di rispetto", ai sensi
dell’art. 3, comma 1, n. 22 del Codice della strada, costituisce una
striscia di terreno, esterna al confine stradale, sulla quale esistono
vincoli alla realizzazione, da parte dei proprietari del terreno, di
costruzioni, recinzioni, piantagioni, depositi e simili.
Le fasce di rispetto stradali, normate dal Codice della Strada e dal suo
Regolamento attuativo (D.P.R. 16.12.1992, n. 495), hanno lo scopo di
prevenire l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e la loro
potenziale pericolosità a costituire, per la prossimità alla sede stradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico ed alla incolumità delle persone.
Attraverso la fascia di rispetto, si garantisce un'area utilizzabile,
all'occorrenza, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri,
per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie,
senza limitazioni connesse alla presenza di costruzioni. Di regola, le fasce
di rispetto vengono istituite con l'approvazione del Progetto definitivo
dell'opera stradale e permangono per tutta la vita utile della strada
medesima.
All'interno delle fasce di rispetto, vige il vincolo di inedificabilità. Ed,
infatti, la giurisprudenza conferma che: "In materia edilizia il vincolo
delle fasce di rispetto stradale o viario è di inedificabilità assoluta,
traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le
aree site in fascia di rispetto stradale o autostradale, indipendentemente
dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di
accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la circolazione stradale;
detto divieto, inoltre, opera direttamente ed automaticamente, per cui una
volta attestata in concreto la violazione del vincolo di inedificabilità, il
parere dell'amministrazione sull'istanza di condono non può che essere
negativo” (TAR Campania Napoli Sez. II, 26.09.2019, n. 4584).
Dal vincolo di in edificabilità discende il conseguente corollario che non
sono previste, dalla normativa in materia, "tolleranze" o forme equivalenti.
Infatti, l'art. 16, del Codice della strada, in tema di fasce di rispetto
fuori dai centri abitati, non contempla alcuna tolleranza. Il comma 1° di
tale articolo rinvia, per la concreta tipologia dei divieti, al Regolamento
di esecuzione e di attuazione del Codice della strada (D.P.R. 16.12.1992, n.
495). Il Regolamento non prevede, agli articoli 26 e seguenti, alcuna forma
di tolleranza. Parimenti, l'art. 18 del Codice della strada, in tema di
fasce di rispetto nei centri abitati.
Pertanto, non appare possibile alcuna applicazione analogica della peculiare
disciplina delle cd. "tolleranze di cantiere". Ciò, anche per
un'altra ragione: l'indicata disciplina consacra l'irrilevanza degli
scostamenti, entro il limite del 2%, nella discrasia fra la precisione
teorica degli elaborati tecnici e la concreta esecuzione degli interventi
(Il comma 2-ter dell'art. 34, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, infatti, consente
di escludere dall'ambito delle difformità rilevanti ai fini sanzionatori
quelle che si verificano a causa di un fisiologico scarto tra la precisione
del disegno e la realizzazione, o dalla consistenza dei materiali, o dalla
necessità di modesti adeguamenti in sede esecutiva e, pertanto, non possono
che rilevare le misure effettive delle opere realizzate. Peraltro è la
stessa norma che espressamente correla la soglia del 2% alle "misure
progettuali"; TAR Veneto Venezia Sez. II, 20.09.2019, n. 1013).
In relazione alla fascia di rispetto stradale, non si pone alcun problema di
"scostamenti" fra quanto previsto e quanto effettivamente realizzato. Ragion
per cui l'analogia non può trovare spazio alcuno.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 28.02.1985, n. 47, art. 32 -
D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 3 - D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 16 -
D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 18 - D.P.R. 16.12.1992, n. 495, art. 18 -
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 34 - D.P.R. 13.02.2017, n. 31
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Campania Napoli Sez. II, 26.09.2019, n. 4584 - TAR Veneto, Sez. II,
20.09.2019, n. 1013
(20.02.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Indicazioni applicative in merito alle tolleranze costruttive,
alla verifica dello stato legittimo degli edifici da demolire, alla
sanatoria di immobili soggetti a vincolo paesaggistico e al divieto di
modificare la Modulistica Unificata Edilizia e di richiedere altra
documentazione (Regione Emilia Romagna,
nota 05.06.2018 n. 410371 di prot.).
---------------
La Circolare fornisce indicazioni applicative in merito alla tolleranza
costruttiva disciplinata dall’art. 19-bis, della L.R. n. 23 del 2004 sulla
vigilanza in materia edilizia.
In seguito alle importanti modifiche apportate dalla L.R. n. 12 del 2017 e
dalla L.R. n. 24 del 2017, si distinguono quattro fattispecie di opere
edilizie realizzate in parziale difformità dal titolo abilitativo che non
sono considerate violazioni edilizie e non comportano l’applicazione delle
relative sanzioni amministrative.
La circolare chiarisce le modalità per accertare e rappresentare nelle
pratiche edilizie le difformità tollerate.
Sono trattate, inoltre, la verifica dello stato legittimo degli edifici
interessati da demolizione e ricostruzione, la sanatoria degli abusi
commessi in immobili soggetti a vincolo paesaggistico e il divieto di
modificare la Modulistica Unificata Edilizia regionale e di richiedere altra
documentazione”. |
EDILIZIA PRIVATA: La
previsione dell'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per cui non
si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni
di altezza, distacchi, cubatura o sup. coperta che non eccedano il 2% delle
misure progettuale, può prescindere dalle norme igienico-sanitarie?
Ad esempio, potrebbe assentire la presenza di locali abitativi con altezza
inferiore ai canonici 270 cm minimi?
Il quesito in esame ha ad oggetto la non ignota questione delle cd. "tolleranze
costruttive o di cantiere", cioè le eventuali e possibili difformità
costruttive, che, in sede di esecuzione, si possono manifestare rispetto a
quanto previsto dai titoli edilizi rilasciati sui progetti approvati.
Nello specifico, il quesito pone in relazione l'attuale disciplina in
materia (art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) con la normativa
igienico-sanitaria. Precisamente, si chiede di sapere se le "tolleranze"
per le violazioni di altezza, attualmente consentite nella misura del 2%
delle misure progettuali, sono ammissibili anche nei riguardi delle altezze
minime interne (metri 2,70), previste dalla preesistente normativa del 1975.
Procediamo con ordine.
Il Decreto Ministero della sanità del 05.07.1975 ("Modificazioni alle
istruzioni ministeriali 20.06.1896 relativamente all'altezza minima ed ai
requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione"),
all'art. 1, stabilisce che "l'altezza minima interna utile dei locali
adibiti ad abitazione è fissata in m. 2,70, riducibili a m. 2,40 per i
corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli".
Trattasi di una norma avente natura tecnica, finalizzata a tutelare evidenti
interessi igienico-sanitari.
Il richiamato art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, stabilisce
quanto segue: "Ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha
parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di
altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per
singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali".
Siffatta disposizione normativa è stata aggiunta dall'art. 5, comma 2, lett.
a), n. 5, D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito in L. 12.07.2011, n. 106. La
disposizione (ricalcante la pregressa ed analoga prevista dall'art. 32,
comma 1, L. 28.02.1985, n. 47) è destinata ad operare, unicamente, nei
rapporti con la Pubblica amministrazione, non potendo legittimare alcuna
lesione dei diritti dei terzi, specie in materia di distanze tra
costruzioni. In altri termini, anche se un ampliamento del 2% del fronte di
un fabbricato potrà non costituire un abuso edilizio, il vicino potrà sempre
chiedere al giudice ordinario l'arretramento del corpo di fabbrica, per
ripristinare le distanze eventualmente violate.
In buona sostanza, la disposizione normativa prende in considerazione
quattro elementi di possibile tolleranza da valutare in confronto alle
misure progettuali. Gli elementi sono:
- Distacchi: la distanza tra due edifici fronteggianti;
- Cubatura: la volumetria espressa in metri cubi;
- Superficie coperta: la proiezione orizzontale al suolo della
sagoma esterna del manufatto;
- Altezza: riferita solo all'esterno dell'edificio od anche agli
ambienti interni.
Indubbiamente, l'ultimo elemento ("altezza") è quello che presenta
maggiore complessità ed ambiguità, non essendo chiaro se riguardi anche
l'altezza all'interno degli alloggi, in particolare i famigerati 2,70 metri
tra pavimento e soffitto necessari come altezza minima abitabile.
Quindi, ritornando al quesito in esame, la disposizione normativa, di cui
all'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, trova applicazione
anche per le altezze interne dei locali adibiti ad abitazione?
Al riguardo, occorre prendere atto di un'importante sentenza. Precisamente,
la sentenza n. 1061 del 26.06.2015, emessa dal Tar Piemonte, sez. II.
In tale pronuncia, i giudici amministrativi hanno esaminato un caso di
contestazione di diversi abusi, afferenti una costruzione di civile
abitazione, assentita con permesso di costruire. Uno di questa abusi
consisteva nel mancato rispetto delle altezze interne dei vani abitabili al
piano terreno (soggiorno, cucina, camera e cameretta), i quali, secondo la
contestazione del Comune, risultavano inferiori all'altezza minima di metri
2,70.
In merito a tale contestazione, il Tar ha statuito quanto segue: "Portata
assorbente assume il secondo motivo di gravame, incentrato sul principio
della c.d. tollerabilità di cantiere.
Anche prima dell'introduzione del nuovo comma 2-ter dell'art. 34, D.P.R.
06.06.2001, n. 380 (avvenuta con il D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito in L.
12.07.2011, n. 106), la giurisprudenza amministrativa aveva ritenuto che
lievi scostamenti rispetto alle misurazioni previste in progetto, i quali si
presentino plausibili nell'ambito della tecnica costruttiva utilizzata, non
possono considerarsi come difformità rispetto al titolo edilizio rilasciato
(Cons. Stato Sez. IV, 10.05.2007, n. 2253), dovendosi essi farsi rientrare
nel margine di tollerabilità consueto, legato sia alla difficoltà di
perfetta realizzazione delle previsioni di progetto sia ai limiti degli
strumenti di misurazione (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 28.07.2009, n.
4469).
E' appena il caso di aggiungere che quell'orientamento giurisprudenziale
poc'anzi citato è ormai divenuto legge per effetto del già richiamato art.
34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a norma del quale "non si ha
parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di
altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per
singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali": misura
che, nel caso di specie, è stata pacificamente rispettata".
In buona sostanza, il Tribunale amministrativo piemontese, anche sulla base
di pregressi arresti giurisprudenziali, ha statuito i seguenti principi:
a) sussiste, in materia di variazioni intervenute in sede di
esecuzione, un generale principio di "tollerabilità di cantiere";
b) si tratta di un principio che conosce altri precedenti
giurisprudenziali, fondati sulla considerazione che occorre tener conto
delle difficoltà di perfetta realizzazione di un progetto, oltre che dei
limiti degli strumenti di misurazione;
c) siffatto principio è diventato legge, in quanto è stato recepito
dal già richiamato art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come
integrato nel 2011;
d) tale principio si applica anche nel caso di mancato rispetto di
altezze interne dei vani abitabili, nei limiti, ovviamente, dell'indicata
disciplina.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 34
- D.M. 05.07.1975, art. 1
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Piemonte, Sez. II, 26.06.2015, n. 1061 (20.03.2018 - tratto da
https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ANNO 2020 |
|
aggiornamento al
15.09.2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
dati dirigenti cessati.
Domanda
Nel nostro ente, il 31 agosto, è cessato dall’incarico un dirigente a
contratto, ex art. 110, comma 1, del TUEL 267/2000, al quale è stato
applicato un nuovo contratto triennale a far data dal 01 settembre.
I dati del dirigente vanno pubblicati nella sotto-sezione Personale >
Dirigenti cessati?
Risposta
L’articolo 14, comma 2, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella sua
ultima versione modificata dal d.lgs. 97/2016, prevede per i dirigenti
–posizioni organizzative, negli enti senza dirigenza– e per i titolari di
incarichi politici l’obbligo di mantenere pubblicati i rispettivi dati “per
i tre anni successivi dalla cessazione del mandato o dell’incarico”.
Nel caso prospettano nel quesito, in realtà, il dipendente assunto a tempo
determinato, con la qualifica dirigenziale, in applicazione ad una specifica
norma del Testo Unico degli Enti Locali, non cessa dall’incarico che,
infatti, prosegue, senza soluzione di continuità, per ulteriori tre anni.
L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) nei suoi documenti e Linee guida
ha sempre sostenuto –si veda ad esempio l’Atto di segnalazione n. 6 del
20.12.2017– che le P.A. debbano attenersi al divieto di duplicazione dei
dati riguardanti il medesimo soggetto, che devono trovare allocazione
all’interno della sezione Amministrazione trasparente, solamente una volta,
secondo le indicazioni contenute, per le pubbliche amministrazioni,
nell’allegato “1”, della delibera ANAC n. 1310, del 28.12.2016.
Medesima indicazione si rinviene nei documenti dell’Autorità Garante per la
protezione dei dati personali italiana, quali, ad esempio, le “Linee
guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e
documenti amministrativi effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza
sul web da soggetti pubblici e da altri soggetti obbligati”, contenute
nel provvedimento n. 243 del 15.05.2014.
Nel vostro caso, quindi, l’obbligo che si appalesa è quello contenuto
nell’articolo 14, commi 1 e 1-bis, del d.lgs. 33/2013. La pubblicazione dei
dati del dirigente a contratto devono, pertanto, essere pubblicati su
Amministrazione trasparente > Personale > Titolari di incarichi dirigenziali
(dirigenti non generali), magari aggiornati –entro tre mesi dall’inizio del
nuovo incarico– rispetto a quelli già pubblicati in precedenza, a seguito
del primo contratto di lavoro a tempo determinato.
Trascorso il nuovo triennio di incarico, qualora il dipendente cessi
effettivamente dall’incarico dirigenziale, i suo dati dovranno essere
trasferiti nella sotto-sezione Personale > dirigenti cessati, per la durata
di anni tre (15.09.2020
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TRIBUTI: La
modifica di aliquote e tariffe di tributi per gli enti che hanno gia’
approvato il bilancio di previsione 2020-2022.
Domanda
Il mio comune ha già approvato il bilancio di previsione 2020-2022 lo scorso
13 febbraio. E’ ancora possibile intervenire sulle aliquote tributarie?
Risposta
Come è ormai noto, la crisi da Covid-19 ha comportato l’ulteriore
differimento del termine per l’approvazione del bilancio di previsione
2020-2022 al 30 settembre prossimo. A farlo, da ultimo, è stato l’art. 106,
comma 3-bis, del d.l. 34/2020 aggiunto dalla legge di conversione n. 77 del
17.07.2020.
Il dubbio del lettore è condiviso –oggi come in passato– da molti
amministratori locali e responsabili finanziari. Su di esso è intervenuta
incidentalmente Ifel con propria nota del 7 agosto scorso (qui
il testo integrale della nota). Dopo aver analizzato nel
dettaglio gli effetti del differimento di detto termine sulla scadenza dei
termini per l’approvazione di regolamenti, tariffe e aliquote dei tributi
locali, la nota ha affrontato proprio il tema oggetto del quesito.
Ifel conferma il proprio orientamento ormai consolidato da anni secondo il
quale la proroga dei termini di legge per l’approvazione del bilancio di
previsione consente ai comuni, anche laddove la sua approvazione sia già
avvenuta, di modificare la propria disciplina tributaria. Ciò, a maggior
ragione nel caso di variazioni dettate da sopravvenute modifiche del quadro
normativo di riferimento o da situazioni di emergenza quale è proprio quella
derivante dal Covid-19.
La variazione di gettito conseguente alla determinazione di diverse aliquote
tributarie, rispetto a quelle a suo tempo approvate unitamente al bilancio
di previsione, dovrà essere accompagnata o seguita da una coerente
variazione di bilancio, debitamente motivata, senza che vi sia “alcun
obbligo di procedere alla ripetizione ex novo del processo di formazione del
bilancio”. Ricorda poi Ifel che allo stesso modo si è espresso a suo
tempo il MEF con propria risoluzione n. 1/DF del 02/05/2011 (qui
il testo integrale).
In quell’occasione il MEF, pur rilevando che le delibere di approvazione
delle tariffe ed aliquote costituiscono un allegato al bilancio di
previsione, dà atto che nel caso in cui questo sia già stato approvato,
l’ente può legittimamente approvare o modificare le delibere tariffarie,
unitamente alla contestuale variazione del bilancio di previsione medesimo,
senza necessità, appunto, di una sua riapprovazione integrale.
Sul tema, ricorda infine la nota IFEL, era intervenuta anche la VI
Commissione Finanze, con la risoluzione del 21.11.2013, nella quale si
afferma “(…) come il competente Ministero dell’Interno esprima l’avviso
che le eventuali modifiche da apportare al bilancio di previsione da parte
degli enti, che tengano conto delle intervenute novità introdotte nei
regolamenti riguardanti le entrate tributarie dell’ente, possano essere
recepite attraverso successive apposite variazioni al documento contabile
già approvato da parte dei comuni, senza che sia indispensabile l’integrale
approvazione di nuovo bilancio”.
Quindi, in conclusione: piena libertà per tutti gli enti (con bilancio già
approvato ovvero ancora da approvare) di intervenire sulle proprie aliquote
e tariffe tributarie entro il prossimo 30 settembre, naturalmente nel
rispetto degli equilibri di bilancio, ad esclusione di Icp e Dpa che devono
essere deliberate entro il 31 marzo. In caso di mancata adozione della
deliberazione, si intendono prorogate le tariffe vigenti (14.09.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Tempo
determinato oltre 36 mesi.
Domanda
È consentita la stipulazione tra il lavoratore ed il medesimo datore di
lavoro di contratti di lavoro a tempo determinato della durata superiore di
36 mesi, a seguito di selezioni concorsuali diverse?
Risposta
In generale, nel caso in cui un Ente decida, motivandolo adeguatamente, di
riutilizzare il lavoratore oltre il periodo di 36 mesi previsto dalla legge,
il Dipartimento della Funzione Pubblica, con nota n. 37.562/2012, ha
evidenziato che il superamento di un nuovo concorso pubblico a tempo
determinato consente di azzerare la durata del contratto precedente ai fini
del computo del limite massimo dei 36 mesi previsto dal d.lgs. 368/2001 (si
veda il primo paragrafo di pagina 4).
L’indicazione può ritenersi applicabile anche dopo l’adozione del D.Lgs. n.
81/2015, che non ha innovato o modificato le regole in materia già vigenti
in precedenza.
Non vi sono però norme di legge a supporto di tale interpretazione, né
indicazioni specifiche nell’art. 50 del CCNL del comparto “Funzioni
Locali” sottoscritto in data 21.05.2018 (10.09.2020
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TRIBUTI: Questo
Comune, ha confermato, nel proprio regolamento IMU aggiornato alla L.
27.12.2019, n. 160 appena approvato, la riduzione del 50% del tributo per
gli immobili concessi in comodato d'uso ai parenti in linea retta entro il
primo grado (come previsto dalla Legge di Stabilità 2016 - art. 1, comma 10,
L. 28.12.2015, n. 208).
Si chiede se, in base alla nuova normativa introdotta dal 01.01.2020, tale
agevolazione sia riconoscibile al dichiarante anche senza la registrazione
del contratto di comodato.
Per rispondere al quesito proposto non possiamo che riprendere testualmente
la previsione di cui all'art. 1, comma 747, Legge di Bilancio per il 2020 (L.
27.12.2019, n. 160) che ha istituito la c.d. "Nuova IMU" a decorrere
dal 01.01.2020 abrogando le previgenti disposizioni in materia di componente
IMU dell'Imposta Unica Comunale (IUC).
La richiamata disposizione infatti prevede che "la base imponibile è
ridotta del 50 per cento nei seguenti casi ….. c) per le unità immobiliari,
fatta eccezione per quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e
A/9, concesse in comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta
entro il primo grado che le utilizzano come abitazione principale, a
condizione che il contratto sia registrato e che il comodante possieda una
sola abitazione in Italia e risieda anagraficamente nonché dimori
abitualmente nello stesso comune in cui è situato l'immobile concesso in
comodato".
Pertanto, anche a seguito delle precisazioni offerte dal Dipartimento delle
finanze con propria Ris. 17.02.2016, n. 1/DF emanata sull'impianto normativo
della "vecchia IMU" (che sostanzialmente è ripreso dalla nuova
normativa), non possiamo che affermare che tale beneficio può essere
concesso, in materia di IMU, solamente nel caso in cui l'immobile venga
concesso in comodato d'uso tra parenti in linea retta entro il primo grado,
alle condizioni stabilite, soltanto previa stipula e registrazione di
apposito contratto di comodato, escludendo, al momento, altre possibilità di
riconoscere l'agevolazione di cui trattasi.
----------------
Riferimenti normativi e contrattuali
Ris. 17.02.2016, n. 1/DF -
Art. 1, comma 747, L. 27.12.2019, n. 160
(09.09.2020 - tratto da
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APPALTI: La
pena accessoria dell’incapacità a contrarre con la Pubblica Amministrazione.
Domanda
Al fine di verificare la moralità di un operatore ai sensi dell’art. 80, co.
1, del codice dei contratti, è sufficiente accertare l’insussistenza di uno
dei delitti elencati al citato comma?
Risposta
L’art. 80, co. 1, del d.lgs. 50/2016, individua una serie di delitti in
presenza dei quali l’esclusione dell’operatore economico costituisce un atto
dovuto, salvo i casi elencati al comma 3 del citato articolo
(depenalizzazione del reato, riabilitazione, estinzione della pena
accessoria o della condanna, completa effettiva dissociazione della condotta
penalmente sanzionata nei confronti dei cessati dalla carica), o a seguito
di adozione di misure di self cleaning di cui al co. 7, dell’art. 80,
oppure per la decorrenza del termine della pena accessoria dell’incapacità a
contrarre con la pubblica amministrazione.
Per completezza si riportano di seguito i delitti di cui al comma 1:
a) delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416
(Associazione per delinquere), 416-bis (Associazione di tipo mafioso) del
codice penale ovvero delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste
dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle
associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti, consumati
o tentati, previsti dall’art. 74 (Associazione finalizzata al traffico
illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope) del decreto del Presidente
della Repubblica 09.10.1990, n. 309, dall’articolo 291-quater (Associazione
per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri) del
decreto del Presidente della Repubblica 23.01.1973, n. 43 e dall’articolo
260 (Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti) del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152, in quanto riconducibili alla partecipazione
a un’organizzazione criminale, quale definita all’articolo 2 della decisione
quadro 2008/841/GAI del Consiglio;
b) delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 317
(Concussione), 318 (Corruzione per l’esercizio della funzione), 319
(Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio), 319-ter (Corruzione
in atti giudiziari), 319-quater (Induzione indebita a dare o promettere
utilità), 320 (Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio),
321 (Pene per il corruttore), 322 (Istigazione alla corruzione), 322-bis
(Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità,
corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle
Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri),
346-bis (Traffico di influenze illecite), 353 (Turbata libertà degli
incanti), 353-bis (Turbata libertà del procedimento di scelta del
contraente), 354 (Astensione dagli incanti), 355 (Inadempimento di contratti
di pubbliche forniture) e 356 (Frode nelle pubbliche forniture) del codice
penale nonché all’art. 2635 (Corruzione tra privati) del codice civile;
c) frode ai sensi dell’articolo 1 della convenzione relativa alla
tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee;
d) delitti, consumati o tentati, commessi con finalità di
terrorismo, anche internazionale, e di eversione dell’ordine costituzionale
reati terroristici o reati connessi alle attività terroristiche;
e) delitti di cui agli articoli 648-bis (Riciclaggio), 648-ter
(Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita) e 648-ter.1
(Auto riciclaggio) del codice penale, riciclaggio di proventi di attività
criminose o finanziamento del terrorismo, quali definiti all’articolo 1 del
decreto legislativo 22.06.2007, n. 109 e successive modificazioni;
f) sfruttamento del lavoro minorile e altre forme di tratta di
esseri umani definite con il decreto legislativo 04.03.2014, n. 24;
g) ogni altro delitto da cui derivi, quale pena accessoria
l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.
Con riferimento al quesito in premessa, e sulla base della disposizione
sopra evidenziata, non è sufficiente verificare la presenza nel certificato
del casellario giudiziale di uno dei delitti di cui all’art. 80, co. 1,
lettere da a) a f), ma occorre accertare l’assenza di differenti fattispecie
delittuose rispetto a quelle tassativamente elencate, che hanno comportato
l’incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione
Dal documento acquisito tramite AVCPass o altri canali tradizionali occorre
pertanto accertare la natura della fattispecie delittuosa, la pena
principale e la sua durata, nonché l’eventuale pena accessoria e la sua
durata (il tempo in cui l’operatore deve rimanere fuori dalle gare) (09.09.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aggiornamento
Codice di comportamento.
Domanda
Il codice di comportamento del nostro comune è stato adottato nel 2014. È
necessario predisporre un nuovo codice di comportamento di ente?
Risposta
La legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), all’articolo 1, comma 44, ha
sostituito l’intero articolo 54, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
ed ha stabilito, per la prima volta (comma 5), che le previsioni del codice
di comportamento nazionale, fossero integrate e specificate dai codici di
comportamento adottati dalle singole amministrazioni. Come tutti sappiamo,
il nuovo codice di comportamento nazionale venne, poi, approvato con decreto
del Presidente della Repubblica del 16.04.2013, n. 62, il quale,
all’articolo 1, comma 2, non poteva che ribadire l’obbligo per le P.A. di
dotarsi di un codice di comportamento di ente.
Così è stato fatto –tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014– dalla totalità
delle pubbliche amministrazioni italiane ed oggi, il codice nazionale e
quello di ente fanno buona mostra di sé, nei siti web di tutte le P.A. nella
sezione: Amministrazione trasparente> Disposizioni generali > Atti generali.
Per rendere più cogente l’obbligo, il legislatore nazionale intervenne
scrivendo l’articolo 19, comma 5, lett. b), del decreto-legge 90/2014, in
cui si stabiliva una sanzione pecuniaria da 1.000 a 10.000 euro per i
soggetti che omettevano la redazione del codice di comportamento di ente. L’ANAC
–nella sua fase di massimo “splendore creativo”– riuscì, con un
regolamento del 09.09.2014, ad allargare le maglie della legge, prevedendo
la medesima sanzione, anche per gli enti che avevano adottato un codice di
ente meramente riproduttivo del Codice di comportamento emanato con il
decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 o l’approvazione
di un provvedimento, il cui contenuto riproduca in modo integrale analoghi
provvedimenti adottati da altre amministrazioni, privo di misure specifiche
introdotte in relazione alle esigenze dell’amministrazione interessata.
Insomma: l’ANAC prometteva multe per tutti. Per chi non provvedeva, ma anche
per chi copiava la legge senza integrarla a sufficienza o per chi –complice
il web– aveva copiato dal vicino di banco.
Nel Piano Anticorruzione Nazionale (PNA) dell’anno 2019 –delibera n. 1074
del 21.11.2018– l’ANAC ha utilizzato tutto il paragrafo 8 per spiegarci che
aveva deciso “di condurre sul tema dei codici di comportamento un
notevole sforzo di approfondimento sui punti più rilevanti della nuova
disciplina e partendo dalla constatazione della scarsa innovatività dei
codici di amministrazione che potremmo chiamare “di prima generazione”, in
quanto adottati a valle dell’entrata in vigore del d.P.R. 63/2013 e delle
prime Linee Guida ANAC dell’ottobre del 2013. Tali codici, infatti, si sono,
nella stragrande maggioranza dei casi, limitati a riprodurre le previsioni
del codice nazionale, nonostante il richiamo delle Linee guida ANAC sulla
inutilità e non opportunità di una simile scelta”.
Sull’argomento, l’ANAC preannunciava –per i primi mesi del 2019–
l’emanazione di apposite (nuove) linee guida generali con le quali “si
daranno istruzioni alle amministrazioni quanto ai contenuti dei codici
(doveri e modi da seguire per un loro rispetto condiviso), al procedimento
per la loro formazione, agli strumenti di controllo sul rispetto dei doveri
di comportamento, in primo luogo in sede di responsabilità disciplinare”.
Le Linee guida non hanno visto la luce nel promesso anno 2019 (annus
horribilis per l’Autorità), ma in quello successivo, per il tramite della
delibera ANAC n. 177 del 19.02.2020, suddivisa in sedici paragrafi, per un
totale di 36 pagine.
In soldoni, le nuove linee guida ribadiscono che i codici di comportamento
di ente –quelli che sarebbero di “seconda generazione”– devono
integrare e specificare i contenuti del codice generale. Che la loro
adozione deve essere preceduta da una “procedura aperta alla
partecipazione” e che sulla stesura definitiva, occorre il parere
obbligatorio (ma non vincolante) dell’OIV o Nucleo di valutazione. Non
grandissime novità –potremmo dire– dal momento che si tratta di disposizioni
legislative note dal novembre del 2012.
Svolta questa lunga e forse inutile– premessa, si risponde al quesito
nel modo seguente:
a) Non è obbligatorio rifare il codice di comportamento di ente;
b) Non c’è una legge che lo preveda o un termine da rispettare;
c) Non ci sono sanzioni per chi decide di tenersi quello che ha
già, se funziona;
d) Può essere utile e, in alcuni casi necessario –dopo sei anni del
“vecchio codice”– prevedere un tagliando anche alla luce delle
esperienze maturate nell’ente, dell’applicabilità del vecchio codice, della
eventuale necessità di aggiornarlo e renderlo più chiaro ed efficace,
soprattutto per ciò che concerne i comportamenti, le dichiarazioni e
comunicazioni dei dipendenti (artt. 5, 6 e 13 codice generale) e la loro
tempistica;
e) Se il RPCT decide di metterci le mani –magari perché la misura è
stata anche prevista nel PTPCT 2020/2022– occorre fare riferimento alle
Linee guida ANAC, prestando una particolare attenzione ai paragrafi:
– 11. Procedura di formazione dei codici;
– 12. Struttura dei codici;
– 15. Formazione sui contenuti dei codici di comportamento;
– 16. Vigilanza sull’applicazione dei codici (08.09.2020
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EDILIZIA PRIVATA: L'ufficio
tecnico di questo Comune si trova ad analizzare progetti che contengono
strutture, definite in planimetria come volumi tecnici, senza poter reperire
una definizione normativa degli stessi.
A quali disposizioni occorre fare riferimento?
Con Circ. 31.01.1973, n. 2474 il Ministero dei lavori pubblici ha dato la
seguente definizione di "volumi tecnici" ai fini del calcolo della
cubatura degli edifici: "Devono intendersi per volumi tecnici, ai fini
della esclusione del calcolo della volumetria ammissibile, i volumi
strettamente necessari a contenere ed a consentire l'eccesso di quelle parti
degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di
parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono per esigenze tecniche di
funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo
dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche".
Tale definizione trova conferma e riscontro in un consolidato orientamento
giurisprudenziale che sottolinea come il volume tecnico è tale se:
- non impiegabile né adattabile ad uso abitativo;
- privo di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo
potenziale;
- strettamente necessario per contenere, senza possibili
alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta,
gli impianti tecnologici serventi una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali della medesima e non collocabili, per qualsiasi
ragione, all'interno dell'edificio.
L'importanza della qualificazione di un volume come "tecnico" sta nel
fatto che i volumi tecnici -purché in rapporto di funzionalità necessaria
rispetto alla costruzione cui ineriscono- non vanno computati nel calcolo
della volumetria massima consentita, in quanto per definizione essi non
generano autonomo carico urbanistico.
Tuttavia vi sono alcune limitazioni:
• nell'ambito della tutela paesaggistica il divieto di incremento
dei volumi esistenti si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante
creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico
ed altro tipo di volume, sia esso interrato o meno;
• la nozione di volume tecnico può essere applicata solo con
riferimento ad opere edilizie completamente prive di una propria autonomia
funzionale per impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non
possono essere ubicati all'interno di essa, connessi alla condotta idrica,
termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi
tecnici al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza giuridica ai
volumi comunque esistenti nella realtà fisica.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 32 - Circ. 31.01.1973, n. 2474 del Ministero
dei Lavori pubblici
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. IV, 07.07.2020, n. 4358 - Cons. Stato Sez. VI, 15.06.2020,
n. 3805 - Cons. Stato Sez. II, 01.04.2020, n. 2204 - Cons. Stato Sez. II,
12.03.2020, n. 1808 - Cons. Stato Sez. II, 25.10.2019, n. 7289 - Cons. Stato
Sez. II, 29.08.2019, n. 5981 - Cons. Stato Sez. VI, 23.04.2019, n. 2577 -
Cons. Stato Sez. VI, 29.03.2019, n. 2101 - Cons. Stato Sez. VI, 05.12.2018,
n. 6904
Riferimenti di dottrina
- Interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica e nuova procedura
semplificata, in Ambiente e sviluppo, 2017, 5, 343
- La tutela del patrimonio culturale nella giurisprudenza costituzionale e
amministrativa, in Giornale Dir. Amm., 2017, 1, 116 - Gabriele Sabato
- L'Autorizzazione paesaggistica in sanatoria e i volumi tecnici, in
Corriere Merito, 2013, 10 - Romani Francesca
- Le sanzioni conseguenti all'annullamento del titolo edilizio, tra
interpretazione letterale e principi generali, in Urbanistica e appalti,
2013, 6, 719 - Micalizzi Raffaele (02.09.2020 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Commissione consiliare statuto e regolamento. Atto di convocazione viziato.
Conseguenze.
L’avviso di convocazione di una seduta di commissione
comunale, completo di tutti i suoi elementi e pervenuto nei termini
richiesti, fatto da un soggetto non legittimato in base alla norma
regolamentare dell’Ente (in particolare, dal responsabile amministrativo
anziché del Presidente del consiglio comunale) non integra alcuna
fattispecie di invalidità.
Dalla previsione di cui al secondo comma, prima parte, dell’articolo
21-octies della legge 241/1990 deriva, infatti, l’irrilevanza della
violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto quando il
contenuto dispositivo dello stesso "non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Le consigliere comunali chiedono un parere in merito alla legittimità o meno
della convocazione di una seduta della commissione consiliare statuto e
regolamento viziata, secondo quanto dalle stesse sostenuto, essendo stata la
stessa convocata da un responsabile amministrativo del Comune invece che dal
Presidente della commissione, in conformità alla previsione del regolamento
sul funzionamento del consiglio comunale.
In via preliminare, si osserva che non compete a questo Ufficio esprimersi
in merito alla legittimità degli atti degli enti locali stante l’avvenuta
soppressione del regime dei controlli ad opera della legge costituzionale
3/2001. Di seguito, pertanto, si forniranno una serie di considerazioni
giuridiche che si ritiene possano risultare di utilità in relazione alla
problematica posta.
L’articolo 11 dello statuto comunale, al comma 1, prevede che: “Il
Consiglio comunale nomina la commissione consiliare per lo Statuto ed i
regolamenti nonché le altre commissioni previste come obbligatorie dalla
legge.” Il successivo comma 5 stabilisce, poi, che: “Le attribuzioni,
l’organizzazione, l’attività e le forme di pubblicità dei lavori delle
commissioni consiliari sono stabiliti dal regolamento per la disciplina ed
il funzionamento del Consiglio comunale”.
Quest’ultimo, all’articolo 13, disciplinante il funzionamento delle
commissioni consiliari, al comma 3, recita: “La prima convocazione delle
commissioni viene fissata dal Sindaco con avviso scritto da recapitarsi ai
componenti con un preavviso di almeno cinque giorni.” Il successivo
comma 5 dispone, poi, che: “Le successive riunioni della commissione sono
convocate dal rispettivo presidente, con le modalità di cui al comma 3. Su
espressa indicazione degli interessati, l’avviso stesso può essere
sostituito da comunicazione informatica”.
Nel caso di specie, l'avviso è stato fatto dal responsabile amministrativo
anziché dal Presidente, come previsto dal regolamento; di qui la necessità
di valutare le conseguenze eventualmente scaturenti da tale comportamento.
In particolare, ai fini della valutazione del tipo di vizio di cui si
sarebbe in presenza e delle eventuali conseguenze che dallo stesso
potrebbero scaturire si prende in considerazione il disposto di cui
all’articolo 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241, rubricato “Annullabilità
del provvedimento”, il quale, al comma 1, recita: “E' annullabile il
provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da
eccesso di potere o da incompetenza”.
Il successivo comma 2, tuttavia, stabilisce che: “Non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma
degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese
che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La
disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento
adottato in violazione dell'articolo 10-bis.”
A parere di chi scrive, avuto riguardo alla previsione del comma 2
dell’articolo 21-octies richiamato, nel caso di specie, non ricorrono le
circostanze per ritenere esistente una fattispecie di invalidità.
Dalla previsione di cui al secondo comma, prima parte, dell’articolo
21-octies della legge 241/1990 deriva, infatti, l’irrilevanza della
violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto quando il
contenuto dispositivo dello stesso "non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato” [1].
La novella dell'articolo 21-octies della legge sul procedimento
amministrativo codifica “quelle tendenze già emerse in giurisprudenza
mirate a valutare l'interesse a ricorrere, che viene negato ove il
ricorrente non possa attendersi, dalla rinnovazione del procedimento, una
decisione diversa da quella già adottata.” [2]
Nel caso in riferimento si verserebbe proprio in tale fattispecie, atteso
che l’avviso di convocazione, in caso di sua rinnovazione, manterrebbe un
contenuto analogo a quello in concreto adottato. Ne consegue che pare
risultare preclusa l’annullabilità, per incompetenza relativa, dell’avviso
di convocazione di cui trattasi e, dunque, anche degli eventuali
provvedimenti conseguenti, per invalidità derivata. [3]
Quanto detto sopra circa il fatto che l’avviso di convocazione, in caso di
sua rinnovazione, manterrebbe inalterato il suo contenuto -e per questo il
fatto che lo stesso sia stato comunicato da soggetto incompetente non
integra un vizio invalidante- è dovuto al fatto che detto atto possiede già
tutti i requisiti sostanziali necessari per raggiungere il proprio scopo che
è quello, proprio degli atti di convocazione in generale, di mettere i
consiglieri in condizione di partecipare ad una determinata seduta
esercitando i diritti inerenti il proprio munus pubblico.
In proposito si riportano alcune considerazioni espresse con riferimento
all'avviso di convocazione dei consigli comunali.
Afferma, al riguardo, la dottrina [4]
che “la funzione dell’avviso è quella di garantire una “preinformazione”
ai consiglieri comunali sugli argomenti in discussione senza pretendere di
entrare nel contenuto degli stessi: […] la comunicazione assolve una
funzione prestabilita di “informazione”; deve contenere gli argomenti posti
in discussione (oggetto sintetico); individua il luogo, il giorno, e l’ora
della seduta; va consegnata a “domicilio”; avviene in forma libera, non è
prevista la notificazione (ex art. 21-bis della Legge n. 241 del 1990). Si
deve, quindi, desumere che l’avviso di convocazione ha una funzione tipica
di “strumento di conoscenza”, con una natura “recettizia”, […] è importante
che il consigliere comunale sia posto nelle condizioni di conoscere tutti
gli elementi utili per la partecipazione ai lavori, e questa conoscenza può
essere aliunde dimostrata qualora si possa constatare che l’interessato ne
era reso edotto”.
Anche la giurisprudenza, ha rilevato che “l’avviso di convocazione delle
sedute consiliari è lo strumento indispensabile per il corretto e regolare
funzionamento dell'organo consiliare, consentendo ai consiglieri comunali,
diretti rappresentanti della comunità, non solo di essere informati delle
riunioni dell'assise cittadina, ma soprattutto di potervi partecipare
attivamente […].” [5]
Il Ministero dell’Interno [6],
relativamente ad una fattispecie afferente un avviso di convocazione recante
la data sia di prima che di seconda convocazione di una seduta consiliare,
non comunicato nei termini quanto alla prima convocazione, ha affermato che
“la irregolarità della convocazione del Consigliere comunale, come può
essere sanata attraverso la convalida, così costituisce motivo di
annullamento degli atti deliberativi adottati soltanto nel caso in cui alla
stessa possa essere riconosciuta una efficacia preclusiva della piena
capacità del Consigliere di esprimere il voto in seno al collegio di
appartenenza.” [7]
In conclusione, in relazione al contenuto dell’avviso di convocazione e alla
sua funzione, come esplicitati dagli orientamenti sopra riportati, ne deriva
che, come già affermato, nel caso in esame il vizio contestato non risulta
invalidante, in quanto il contenuto dell’avviso di cui si tratta non sarebbe
diverso in caso di rinnovazione e il fatto che l’avviso in questione
possiede tutti i requisiti funzionali al suo scopo porta ad escludere che
nel caso di specie possa ritenersi leso il diritto alla partecipazione dei
lavori della commissione consiliare dei consiglieri comunali, ai quali lo
stesso è stato comunicato nei termini e con i contenuti ad esso propri.
[8]
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[1] Benché l’articolo 21-octies della legge 241/1990, nella prima parte
del comma 2, circoscriva il rimedio alle ipotesi di atto vincolato,
tuttavia, come rilevato dalla dottrina “è però evidente che
un’interpretazione strettamente letterale dell’aggettivo “vincolato”
circoscriverebbe di molto, e senza una ragionevole spiegazione,
l’operatività della norma, stante la scarsità, in natura, di atti vincolati,
ossia privi di margini di discrezionalità.
Sotto questo profilo, appare perciò plausibile assumere che la disposizione
si rivolga, piuttosto che ai soli atti astrattamente privi di profili di
discrezionalità, a tutti quei provvedimenti che, muovendo da presupposti di
fatto e di diritto pacifici ed incontestati, possono dar luogo, nel
concreto, ad una sola scelta da parte dell’amministrazione” (così, R.
Porcelli, “Art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990. Analisi della
giurisprudenza”, in “Il diritto amministrativo, Rivista giuridica”, Anno XII,
n. 07 - Luglio 2020).
[2] TAR Lazio, Roma, sez. I, sentenza dell’08.06.2009, n. 5460.
[3] Peraltro, di difficile individuazione sarebbe l’atto “definitivo”
eventualmente suscettibile di impugnazione per invalidità derivata. Al
riguardo si ricorda che le commissioni consiliari si configurano come
articolazioni interne al consiglio comunale. Come rilevato dal Ministero
dell’Interno (parere del 03.04.2014) “esse non sono organi necessari
dell’ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua
struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto
tali, costituiscono componenti interne dell’organo assembleare, prive di una
competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita.
In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque
nell’ambito della competenza dei consigli”. Con specifico riferimento alle
competenze delle commissioni consiliari soccorre l’articolo 11, comma 4,
dello statuto dell’Ente il quale attribuisce alle stesse una funzione
istruttoria e consultiva nei confronti del consiglio comunale.
[4] M. Lucca, “Norma regolamentare per la convocazione, con strumenti
informatici, del consiglio comunale”, in www.segretarientilocali.it
[5] TAR Campania, Napoli, Sez. I, sentenza del 22.10.2018, n. 6129. Nello
stesso senso si veda, anche, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza del
14.09.2012, n. 4892.
[6] Ministero dell’Interno, parere del 18.03.2005.
[7] Nel caso esaminato dal Ministero dell’Interno, la prima seduta
consiliare, non comunicata nei termini previsti, era andata deserta. Atteso
che la mancata comunicazione nei termini dell’avviso di convocazione aveva
riguardato solo tre consiglieri il Ministero dell’Interno ha rilevato come
“in nessun caso l'assenza di detta irregolarità avrebbe potuto portare ad un
esito diverso della seduta, dal momento che, anche se i tre si fossero
presentati, l'adunanza avrebbe dovuto ugualmente essere dichiarata deserta.
In altri termini, poiché alla 'prova di resistenza' la irregolarità
riscontrata non risulta in grado di modificare l'esito della seduta,
cosicché il presupposto della 'seconda convocazione' (seduta deserta) non
può ritenersi ad essa condizionato, non sembra che il vizio della prima
convocazione si estenda alla seconda”.
[8] Nel caso di specie, sotto questo profilo, si osserva che mancherebbe
l’interesse a ricorrere stante la mancata lesione dello ius ad officium del
consigliere. Al riguardo, si osserva che, in linea generale, il consigliere
comunale è legittimato ad impugnare le sole deliberazioni emanate dal
consiglio quando esse ledano un suo interesse personale diretto.
La giurisprudenza, al riguardo, ha affermato che “il consigliere dell’ente
locale deve essere considerato di per sé privo della legittimazione ad agire
in giudizio, posto che quest’ultima non risiede nella semplice deviazione
dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, occorrendo
quanto meno che da tale deviazione derivi la compressione di una sua
prerogativa inerente all’ufficio (e salve le questioni inerenti l’effettiva
incidenza del vizio procedimentale sulla legittimità sostanziale dell’atto
emesso in sede collegiale); in quest’ottica è indispensabile aver riguardo
alla natura e al contenuto della delibera impugnata, e non alle norme
interne relative al funzionamento dell’organo, per cui è irrilevante ogni
altra violazione di forma e di sostanza nell’adozione di una deliberazione”
(Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.12.2015, n. 5459).
La dottrina, nel richiamare recente giurisprudenza sull’argomento (TAR
Campania, sez. I, sentenza del 05.06.2018, n. 3710) ha, ulteriormente,
precisato che “l’impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto
quando vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto
all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona
investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni
violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di
per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti
destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica
lesione dello ius ad officium” (03.08.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
aggiornamento al
31.08.2020 |
|
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Questo
Comune, nel corso dell'anno 2020, ha registrato alcune cessazioni di
personale riconducibili a diverse fattispecie (dimissioni volontarie,
pensionamento e mobilità).
Alla luce del Decreto Interministeriale del 17.03.2020, in attuazione del
D.L. 30.04. 2019, n. 34, si chiede un vostro parere sul fatto che l'Ente, a
prescindere dai valori soglia e dalla percentuale di assunzioni massima
stabilita dallo stesso decreto, possa procedere alla sostituzione del
personale cessato?
Per rispondere al quesito proposto segnaliamo come sul tema specifico sia
intervenuta la prima pronuncia della Magistratura Contabile con parere della
sezione regionale di controllo per la Regione Lombardia n. 93 del
30.07.2020.
La Corte dei Conti lombarda nel ricordare che la nuova normativa introdotta
dal legislatore fornisce un nuovo ambito di applicazione della c.d. capacità
assunzionale basato sulla "sostenibilità finanziaria" della spesa,
ossia sulla sostenibilità del rapporto tra spese di personale ed entrate
correnti, rimarca il fatto che la stessa sezione si è già espressa (con
deliberazione nella predetta Delib. 74/2020/PAR) anche sull'ambito temporale
di estensione nella nuova normativa per cui, secondo il c.d. principio del
tempus regit actum, per le assunzioni da effettuare dall'entrata in
vigore della nuova normativa, i nuovi spazi assunzionali sono legati alla
regola della sostenibilità finanziaria della spesa misurata attraverso i
valori soglia per come definiti nella disciplina normativa sopra richiamata.
Secondo la corte, infatti, la peculiarità del nuovo parametro è infatti da
ricercarsi nella "flessibilità che in una situazione fisiologica (e
dunque al netto di quella contingente, eccezionale e di emergenza)
responsabilizza l'ente sul versante della riscossione delle entrate il cui
gettito medio nel triennio potrà, se in aumento, offrire anche ulteriori
spazi assunzionali" e ne consegue il fatto che, in risposta alla domanda
odierna, che, per le procedure effettuate dal 20.04.2020 (termine dettato
dalla circolare esplicativa al DM assunzionale), i comuni non possono
procedere alla sostituzione del personale cessato nell'anno (per dimissioni
volontarie, pensionamento o mobilità), a prescindere dai valori soglia e
dalle percentuali assunzionali stabilite dal D.L. 30.04.2019, n. 34 e dalla
normativa di attuazione contenuta nel D.M. 17.03.2020 della Presidenza del
Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 30.04.2019, n. 34, art. 33 D.L. 34/2019 - D.M. 17.03.2020 della
Presidenza del Consiglio dei Ministri Dip. funz. pubbl.
Documenti allegati
Circ. 17.03.2020 del Ministero dell'Interno
(26.08.2020 - tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Congedo per i genitori con figli di età non superiore ai dodici anni, di cui
agli artt. 23 e 25 del D.L. 18/2020, convertito dalla L. 27/2020. Effetti
sulle ferie.
Poiché le norme disciplinanti lo speciale congedo
istituito al fine di consentire ai genitori di provvedere alla cura dei
minori di età non superiore ai dodici anni durante il periodo di sospensione
dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle
scuole, conseguente all’emergenza epidemiologica da COVID-19, non
chiariscono gli effetti sulle ferie della relativa fruizione, nelle more di
un auspicabile tempestivo chiarimento da parte dei competenti Uffici e
Organismi dello Stato, si ritiene che la questione possa essere risolta
estendendo al congedo in esame la disciplina legale dettata dall’art. 34,
comma 5, del D.Lgs. 151/2001 per i congedi parentali “ordinari”, in base
alla quale i periodi di fruizione dei congedi non sono utili ai fini della
maturazione delle ferie.
Il Comune chiede di conoscere se la fruizione del congedo previsto dall’art.
23 [1] del
decreto-legge 17.03.2020, n. 18 [2],
convertito, con modificazioni, dalla legge 24.04.2020, n. 27, incida sul
computo delle ferie spettanti al lavoratore e, in caso affermativo, con
quale modalità di calcolo esse vadano rideterminate.
Occorre premettere che il congedo di cui trattasi –fruibile dai dipendenti
del settore pubblico nei termini previsti dal successivo art. 25
[3], di cui si dirà in
seguito– riveste natura straordinaria e provvisoria, essendo stato istituito
al fine di consentire ai genitori di provvedere alla cura dei minori durante
il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle
attività didattiche nelle scuole, conseguente all’emergenza epidemiologica
da COVID-19.
L’art. 23 del D.L. 18/2020 prevede –per quanto qui rileva– che qualora
ricorrano le condizioni ivi stabilite, ciascun genitore lavoratore
dipendente del settore privato ha diritto a fruire, per un periodo
continuativo o frazionato comunque non superiore a trenta giorni, per la
cura dei figli di età non superiore ai dodici anni, fatto salvo quanto
previsto al comma 5 [4],
di uno «specifico congedo», per il quale è riconosciuta un’indennità
pari al cinquanta per cento della retribuzione [5].
La norma chiarisce che «I suddetti periodi sono coperti da contribuzione
figurativa» (comma 1).
La disposizione stabilisce, poi, che gli eventuali periodi di congedo
parentale, di cui agli artt. 32 [6]
e 33 [7] del
decreto legislativo 26.03.2001, n. 151 [8],
fruiti dai genitori durante il periodo di sospensione dei servizi educativi
per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole «sono convertiti
nel congedo di cui al comma 1 con diritto all’indennità e non computati né
indennizzati a titolo di congedo parentale» (comma 2).
L’art. 25, comma 1, del D.L. 18/2020, estendendo la disciplina del congedo
in esame ai lavoratori del pubblico impiego:
1) stabilisce una diversa ampiezza temporale per la sua fruizione
[9], rispetto a quanto
previsto per i dipendenti del settore privato [10];
2) sancisce che i genitori hanno diritto a fruire dello specifico
congedo e relativa indennità di cui all’art. 23, commi 1, 2, 4
[11], 5
[12], 6 [13]
e 7 [14], tranne
qualora «uno o entrambi i lavoratori stiano già fruendo di analoghi
benefici».
Il comma 2 del medesimo art. 25 stabilisce, poi, che «L’erogazione
dell’indennità, nonché l’indicazione delle modalità di fruizione del congedo
sono a cura dell’amministrazione pubblica con la quale intercorre il
rapporto di lavoro.».
Ciò posto, si osserva che la disciplina del congedo in argomento non
contiene alcuna indicazione circa gli effetti sulle ferie della fruizione
dello stesso, né tale questione risulta affrontata nei documenti
parlamentari concernenti il D.L. 18/2020 e la relativa legge di conversione
e neppure negli atti interpretativi e di indirizzo riguardanti il nuovo
istituto [15].
Considerato che:
a) gli eventuali periodi di congedo parentale “ordinario”,
di cui al già richiamato D.Lgs. 151/2001, fruiti dai genitori durante il
periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività
didattiche nelle scuole sono convertiti ex lege nello speciale
congedo oggetto di disamina;
b) ambedue le tipologie di assenza dal lavoro perseguono il
medesimo fine e fanno riferimento ai figli di età non superiore ai dodici
anni;
c) entrambi i congedi prevedono la corresponsione di un’indennità,
determinata in base al medesimo parametro [16]
e in misura inferiore [17]
rispetto alla retribuzione in godimento;
sembra che i due istituti possano ritenersi assimilabili.
Al riguardo, si segnala la posizione assunta dall’Istituto Nazionale
Previdenza Sociale (INPS) [18]
che, pur esprimendosi su questione diversa [19]
da quella oggetto di disamina, rileva che il “congedo COVID-19” si
ispira alla medesima ratio juris che caratterizza i congedi parentali
di cui agli artt. 32 e seguenti del D.Lgs. 151/2001, propendendo apertamente
per l’assimilazione dei due istituti e per l’estensione della normativa
disciplinante i congedi parentali al “congedo COVID-19”.
Occorre, pertanto, valutare la possibilità di risolvere il quesito posto
applicando al “congedo COVID-19” la disciplina dettata per il congedo
parentale “ordinario”.
Fermo restando che, trattandosi di norme statali, l’interpretazione delle
relative disposizioni compete esclusivamente agli Uffici e agli Organismi
dello Stato preposti alla trattazione della materia, nelle more di un
auspicabile tempestivo chiarimento da parte degli stessi, si formulano, in
via collaborativa, le seguenti considerazioni.
L’art. 34, comma 5, del D.Lgs. 151/2001 stabilisce che «I periodi di
congedo parentale sono computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli
effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica
natalizia.».
Come chiarito dall’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche
Amministrazioni (ARAN) [20]
la norma deve intendersi nel senso che i periodi di fruizione dei congedi
parentali non sono utili ai fini della maturazione delle ferie
[21], tranne qualora sia
diversamente stabilito da un’eventuale disciplina di maggiore tutela
[22], espressamente
consentita dall’art. 1, comma 2 [23],
del D.Lgs. 151/2001.
Poiché occorre individuare la regola utile a risolvere il quesito posto, si
ritiene che essa debba rinvenirsi nell’ordinaria disciplina legale, non
potendosi fare riferimento, per via analogica, ad un’eventuale disposizione
derogatoria della stessa [24].
Quanto al quesito volto a stabilire con quale modalità di calcolo vadano
rideterminate le ferie, si segnala che l’ARAN [25]
afferma che «relativamente alla particolare problematica della
determinazione dei giorni di ferie maturati mensilmente dal dipendente, in
presenza nel mese di periodi di assenza dal lavoro non utili a tal fine,
come già evidenziato in precedenti orientamenti applicativi, l’avviso della
scrivente Agenzia, in generale, è nel senso che, in mancanza di una regola
contrattuale espressa, una possibile soluzione, sulla base dei consueti
principi di logica e ragionevolezza, potrebbe essere quella di applicare in
materia un principio di stretta proporzionalità».
Pertanto, secondo l’ARAN, «si dovrebbe procedere alla individuazione
della quantità delle ferie spettanti per mese, tenendo conto dell’incidenza
in ciascuno di essi degli eventuali periodi di assenza che non danno luogo a
maturazione di ferie».
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[1] «Congedo e indennità per i lavoratori dipendenti del settore privato,
i lavoratori iscritti alla Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26
della legge 08.08.1995, n. 335, e i lavoratori autonomi, per emergenza
COVID-19».
[2] «Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno
economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza
epidemiologica da COVID-19».
[3] «Congedo e indennità per i lavoratori dipendenti del settore pubblico,
nonché bonus per l’acquisto di servizi di baby-sitting per i dipendenti del
settore sanitario pubblico e privato accreditato, per emergenza COVID-19».
[4] «Ferma restando l’estensione della durata dei permessi retribuiti di cui
all’articolo 24, il limite di età di cui ai commi 1 e 3 non si applica in
riferimento ai figli con disabilità in situazione di gravità accertata ai
sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 05.02.1992, n. 104, iscritti a
scuole di ogni ordine e grado o ospitati in centri diurni a carattere
assistenziale.».
[5] Calcolata ai sensi dell’art. 23, eccettuato il comma 2, del D.Lgs.
151/2001.
[6] «Congedo parentale (legge 30.12.1971, n. 1204, articoli 1, comma 4, e 7,
commi 1, 2 e 3)».
[7] «Prolungamento del congedo (legge 05.02.1992, n. 104, art. 33, commi 1 e
2; legge 08.03.2000, n. 53, art. 20)».
[8] «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e
sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della
legge 08.03.2000, n. 53».
[9] «A decorrere dal 05.03.2020, in conseguenza dei provvedimenti di
sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche
nelle scuole di ogni ordine e grado, di cui al Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 04.03.2020, e per tutto il periodo della sospensione
ivi prevista […]».
[10] «Per l’anno 2020, a decorrere dal 5 marzo e fino al 31 agosto […]».
[11] «La fruizione del congedo di cui al presente articolo è riconosciuta
alternativamente ad entrambi i genitori, per un totale complessivo di trenta
giorni, ed è subordinata alla condizione che nel nucleo familiare non vi sia
altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di
sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o altro genitore
disoccupato o non lavoratore.».
[12] Vedi nota n. 4.
[13] «In aggiunta a quanto previsto nei commi da 1 a 5, i genitori
lavoratori dipendenti del settore privato con figli minori di anni 16, a
condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario
di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione
dell’attività lavorativa o che non vi sia altro genitore non lavoratore,
hanno diritto di astenersi dal lavoro per l’intero periodo di sospensione
dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle
scuole di ogni ordine e grado, senza corresponsione di indennità né
riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e
diritto alla conservazione del posto di lavoro.».
[14] «Le disposizioni del presente articolo trovano applicazione anche nei
confronti dei genitori affidatari.».
[15] Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ministro per la Pubblica
Amministrazione, circolare n. 2/2020 del 01.04.2020; Istituto Nazionale
Previdenza Sociale: messaggio n. 1281 del 20.03.2020, circolare n. 45 del
25.03.2020, messaggio n. 1621 del 15.04.2020, messaggio n. 1648 del
16.04.2020, circolare n. 81 dell’08.07.2020; messaggio n. 2968 del
27.07.2020.
[16] L’art. 23, comma 1, primo periodo, del D.L. 18/2020 stabilisce che
l’indennità è «calcolata secondo quanto previsto dall’articolo 23 del testo
unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della
maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26.03.2001, n.
151, ad eccezione del comma 2 del medesimo articolo».
[17] Nel congedo “ordinario” l’indennità è pari al 30%, mentre nel congedo
“COVID-19” è pari al 50% della retribuzione.
[18] Messaggio n. 2968 del 27.07.2020, cit.
[19] Valutabilità dei periodi di assenza dal lavoro per fruizione del
“congedo COVID-19” ai fini delle prestazioni previdenziali di fine servizio
(TFS-TFR).
[20] Vedi, in particolare, gli orientamenti applicativi RAL 1950 e RAL 1951
del 06.11.2017.
[21] Si veda, per completezza, anche l’orientamento applicativo ARAN EPNE
146 del 02.08.2012.
[22] Che, in questo contesto territoriale, è recata dall’art. 5, comma 9,
della legge regionale 27.11.2006, n. 23, secondo il quale «Per il personale
degli enti locali, a decorrere dall’01.12.2005, nell’ambito del periodo di
astensione dal lavoro previsto dall’articolo 32 del decreto legislativo
26.03.2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di
tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo
15 della legge 08.03.2000, n. 53), per le lavoratrici madri o in alternativa
per i lavoratori padri, i primi sessanta giorni, computati complessivamente
per entrambi i genitori e fruibili anche frazionatamente, non riducono le
ferie, sono valutati ai fini dell’anzianità di servizio e sono retribuiti
per intero, con esclusione dei compensi per lavoro straordinario e le
indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute.».
La previsione è stata recepita dall’art. 20, comma 1, del Contratto
collettivo regionale di lavoro del personale non dirigente del Comparto
unico del pubblico impiego regionale e locale del Friuli Venezia Giulia del
07.12.2006 – Quadriennio normativo (II fase) 2002-2005 e biennio economico
2004-2005.
[23] «Sono fatte salve le condizioni di maggior favore stabilite da leggi,
regolamenti, contratti collettivi, e da ogni altra disposizione.».
[24] Un tanto ai sensi dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice
civile.
[25] Vedi, in particolare, gli orientamenti applicativi RAL 1871
dell’11.10.2016 e RAL 1889 del 18.11.2016 (17.08.2020 - link a
http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La
P.O. dell'area tecnica e RUP al fine di ottenere il compenso incentivante ai
sensi dell'art. 113, comma 2, D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 ha presentato una
"dichiarazione sulla corretta effettuazione delle attività e prestazioni
affidategli e sullo svolgimento delle stesse senza errori e/o ritardi" e
predisposto la relativa determina di liquidazione.
Tra gli appalti per i quali si chiede l'incentivo se ne riscontra uno in
particolare che ha dato avvio ad un lungo contenzioso con sentenza del
Consiglio di Stato che ha dato ragione al ricorrente.
Si chiede se sussistono elementi per non liquidare l'incentivo per il caso
in questione e chi può decidere nel merito (segretario/giunta).
Il quesito proposto trova risposta in una recente sentenza della Corte di
Cassazione Civile, Sez. lavoro n. 10222 del 28.05.2020.
Nel caso di specie è esaminata una vicenda in cui gli incentivi tecnici non
sono stati liquidati dall'Ente perché l'opera pubblica non è stata più
realizzata ma le conclusioni cui sono addivenuti i giudici sono assimilabili
al caso odierno.
Nello specifico, la Corte di Cassazione, sconfessando il Regolamento di cui
l'Ente si era dotato (che prevedeva appunto il pagamento degli incentivi
soltanto alla conclusione dell'opera) ha sancito il principio secondo il
quale "la sorte della retribuzione accessoria reclamata dai dipendenti
non può essere condizionata alla mancata conclusione delle successive fasi
(oppure nel caso di specie dalla soccombenza ad un contenzioso), tanto che
in mancanza di queste ultime verrebbero meno le precedenti attività pur
completate".
Tale conclusione è molto importante e deriva dal fatto che i citati
incentivi derogano alla disciplina generale del trattamento accessorio
dettata dal D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 (art. 45), in quanto il legislatore ha
previsto, in una logica premiale ed al fine di valorizzare le
professionalità esistenti all'interno delle pubbliche amministrazioni, un
compenso ulteriore, da attribuire, secondo le modalità stabilite dalle
diverse versioni della norma succedutesi nel tempo, al personale impegnato
nelle attività di progettazione interna agli enti oltre che in quelle di
esecuzione dei lavori pubblici.
A nostro parere, pertanto, l'incentivo è comunque da riconoscere e liquidare
al personale dell'Ente per le specifiche attività svolte, secondo le
previsioni del proprio regolamento comunale, fermo restando l'eventuale
accertamento (con conseguente mancata partecipazione alla ripartizione degli
incentivi), a carico dei dipendenti coinvolti, del mancato rispetto di
obblighi di legge e/o regolamentari o il mancato svolgimento dei compiti
assegnati secondo la dovuta diligenza richiesta (se previsto nel proprio
regolamento).
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 45 - D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 113
Riferimenti di giurisprudenza
Cass. Civ., Sez. lavoro, 28.05.2020, n. 10222 (17.08.2020 -
tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
URBANISTICA:
L'art. 103 con le modifiche di cui alla legge di conversione del
D.L. 17.03.2020, n. 18 (Cura Italia) dispone che "i termini dei relativi
piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, in scadenza
tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020, sono prorogati di novanta giorni" e che
tale proroga “si applica anche ai diversi termini delle convenzioni di
lottizzazione di cui all'art. 28, L. 17.08.1942, n. 1150, ovvero degli
accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale nonché dei
relativi piani attuativi che hanno usufruito della proroga di cui all'art.
30, comma 3-bis , D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dalla L. 09.08.2013, n. 98.".
Tale ultimo capoverso è da intendersi nel senso che sono prorogati i
"diversi" termini (rispetto a validità ed inizio e fine lavori di cui al
primo capoverso) previsti dalle convenzioni o dai piani attuativi che hanno
usufruito della proroga del Decreto del Fare?
Va innanzi tutto ricordato che la giurisprudenza del Consiglio di Stato in
più occasioni ha evidenziato come l 'art. 28, della predetta L. 17.08.1942,
n. 1150 ha dato un particolare rilievo al ruolo dei piani di lottizzazione
che sono divenuti oramai nella prassi gli strumenti urbanistici specifici di
maggior utilizzo ed alternativi rispetto ai piani particolareggiati.
Tale circostanza porta come diretta conseguenza che deve essere applicato in
via analogica, a questi ultimi l'applicabilità del termine massimo di
validità decennale entro il quale devono essere attuati previsto per i piani
particolareggiati (art. 16, comma 5, L. 17.08.1942, n. 1150) (cfr. Cons.
Stato Sez. IV, 03.11.1998, n. 1412; Cons. Stato Sez. IV, 25.07.2001, n.
4073).
Il Consiglio di Stato ha infatti evidenziato come "la durata massima dei
piani di lottizzazione, se ad essi non fosse applicabile il termine
decennale di efficacia dei piani particolareggiati, sarebbe quella,
indeterminata, degli strumenti urbanistici generali, invece di quella
decennale dello strumento urbanistico attuativo: il che costituirebbe di per
sé motivo di incoerenza" (Cons. Stato, sez. IV, 06.04.2012, n. 3969).
Pertanto si è consolidato il principio secondo cui la validità dei piani
urbanistici di cui all'art. 28, L. 17.08.1942, n. 1150 non è sine die
ma di durata decennale.
Successivamente con il D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito con la L.
09.08.2013, n. 98 (il cosiddetto decreto del Fare) si è introdotta una
disposizione, art. 30, comma 3-bis, volta ad ampliare le tempistiche per il
completamento degli interventi edilizi previsti nei piani di pianificazione
urbanistica ex art. 28, L. 17.08.1942, n. 1150, prevedendo una proroga
triennale di validità delle convenzioni urbanistiche medesime nonché dei
termini di inizio e fine lavori.
Detta norma si inserisce come una deroga speciale al principio della
validità decennale dei piani attuativi come già sopra richiamato.
La giurisprudenza ha ravvisato che la Deroga introdotta nel 2013 deve essere
interpretata come la proroga triennale dei soli piani attuativi non ancora
scaduti alla data di entrata in vigore (21.08.2013) della legge ciò in
ragione del consolidato principio secondo cui "la proroga dei termini di
efficacia stabiliti da un atto amministrativo, in generale, non è
ammissibile qualora l'atto la cui efficacia si intenda prolungare sia già
scaduto, richiedendosi cioè che il provvedimento da prorogare sia ad
"efficacia durevole" Cons. Stato Sez V, 18.09.2008, n. 4498.
Or bene venendo al caso che ci occupa si ritiene che la dicitura "diversi
termini" debba necessariamente riferirsi alla validità, inizio e fine
lavori, riferiti a quei piani attuativi che hanno beneficiato della proroga
disposta dal Decreto Del Fare, ciò in ragione del fatto che il Decreto del
Fare ha introdotto uno speciale regime di favore che si riferiva
espressamente ed esclusivamente alla validità, inizio e fine lavori dei
piani attuativi urbanistici.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 17.08.1942, n. 1150, art 28 - L. 09.08.2013, n. 98, art. 30
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez V, 18.09.2008, n. 4498 - Cons. Stato Sez. IV, 25.07.2001, n.
4073 - Cons. Stato Sez. IV, 03.11.1998, n. 1412
Documenti allegati
Cons. Stato Sez. IV, 06.04.2012 n. 3969 (07.05.2020 - tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In
un Comune, nella stessa area contabile-amministrativa, vi sono due
funzionari con inquadramento D3 e tre D2.
A prescindere dai requisiti soggettivi degli stessi, l'incarico di PO può
essere assegnato al dipendente di qualifica D2?
Alla luce di quanto si dirà nel prosieguo della risposta alla domanda del
gentile lettore, si ritiene sia possibile attribuire la P.O. ad un
dipendente con la qualifica di D2.
Il Quaderno ANCI, dal titolo "Regolamento sugli incarichi di posizione
organizzativa - aggiornamento al CCNL 21/05/2018" afferma che "L'istituzione
delle posizioni organizzative deve avvenire con riferimento a posizioni di
lavoro che presentino le caratteristiche della particolare complessità ed
elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa. In alternativa,
l'istituzione di posizioni organizzative può riguardare attività ad alto
contenuto professionale per le quali è richiesta una elevata competenza
specialistica (maturata o mediante titoli di livello universitario o
attraverso rilevanti e consolidate esperienze professionali, in posizioni di
responsabilità o di alta qualificazione professionale), che deve essere
verificata in sede di conferimento attraverso l'esame del curriculum.
I criteri generali devono da un lato dettagliare, per ciascuna posizione
organizzativa istituita, i requisiti culturali, le attitudini, la capacità
professionale e l'esperienza acquisita, e dall'altro considerare la natura e
le caratteristiche dei programmi da realizzare. Per il conferimento degli
incarichi gli Enti tengono conto:
- delle funzioni e attività da svolgere;
- della natura e caratteristiche dei programmi da realizzare;
- dei requisiti culturali posseduti,
- delle attitudini e della capacità professionale ed esperienza
acquisiti dal personale della categoria D (salva, ove possibile, la
possibilità di applicare la disciplina prevista dall'art. 13, comma 2, lett.
a), del CCNL);
- gli esiti delle valutazioni individuali in attuazione del D.Lgs.
27.10.2009, n. 150.
Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto
e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in
conseguenza di valutazione negativa della performance individuale. I
risultati delle attività svolte dai dipendenti cui siano stati attribuiti
gli incarichi di posizione organizzativa sono soggetti a valutazione annuale
in base al sistema a tal fine adottato dall'ente. La valutazione positiva dà
anche titolo alla corresponsione della retribuzione di risultato di cui
all'art. 15 del nuovo CCNL".
L'ARAN con la risposta "RAL_1547_Orientamenti Applicativi" alla
domanda relativa se ai fini dell'attribuzione dell'incarico di posizione
organizzativa, nell'ambito della categoria giuridica D, deve tenersi conto
del requisito del più elevato inquadramento economico di un dipendente
rispetto ad un altro (D4 in luogo di D2), ha affermato che "Nell'ambito
della vigente disciplina contrattuale (art. 8 e ss., CCNL del 31.03.1999),
gli incarichi di posizione organizzativa possono essere conferiti solo a
personale della categoria D, salvo che non si tratti di enti la cui
dotazione non preveda posti di categoria D; solo in tali ultimi enti,
l'incarico di posizione organizzativa può essere conferito a personale della
categoria C e B, in relazione alla propria grandezza demografica, e nel
rispetto delle generali regole in materia (art. 11, comma 3, CCNL
31.03.1999); ad avviso della scrivente Agenzia, tale regola vale anche per
gli eventuali incarichi di supplenza.
All'interno della categoria D, data la unitarietà della stessa, gli
incarichi di posizione organizzativa possono essere conferiti,
indifferentemente, sia a personale di tale categoria in possesso di profili
con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica
D1 sia a quello collocato in profili con trattamento stipendiale iniziale
corrispondente alla posizione economica D3. Pertanto, ove nel caso di specie
venga in considerazione un dipendente comunque inquadrato nella categoria D,
allo stesso potrà essere legittimamente conferito un incarico di posizione
organizzativa.
Quello che effettivamente rileva in materia è il rigoroso rispetto da parte
dell'Ente dei criteri di conferimento dallo stesso preventivamente adottati
nell'osservanza delle previsioni dell'art. 9, comma 2, CCNL 31.03.1999. Tale
clausola contrattuale, infatti, espressamente stabilisce "Per il
conferimento degli incarichi gli enti tengono conto -rispetto alle funzioni
ed attività da svolgere- della natura e caratteristiche dei programmi da
svolgere, dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della
capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale della categoria
D".
---------------
Documenti allegati
Quaderno ANCI, Regolamento sugli incarichi di posizione organizzativa -
Aggiornamento al CCNL 21.05.2018 - ARAN "RAL_1547_Orientamenti Applicativi"
(07.05.2020 - tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto:
Parere in merito all'applicazione delle misure di salvaguardia e possibilità
di rilasciare permessi di costruire a seguito dell'adozione del Piano
Regolatore Generale
(Regione Lazio,
nota 08.03.2006 n. 335 di prot.). |
aggiornamento al
24.08.2020 |
|
ATTI AMMINISTRATIVI: Questa
amministrazione regionale è regolarmente iscritta all'IPA ma non ha ancora
registrato l'indirizzo PEC nel "Reginde".
E' possibile eccepire la nullità
della notifica effettuata tramite PEC di atti, provvedimenti e soprattutto
ricorsi amministrativi avverso i propri atti?
Non è possibile o quantomeno è estremamente improbabile l'accoglimento di
tale eccezione e non corrisponderebbe ai criteri di buona fede nei rapporti
con il cittadino.
L'indice dei domicili digitali delle Pubbliche Amministrazioni e dei gestori
di pubblici servizi (IPA), gestito dall'Agenzia per l'Italia Digitale, è
l'elenco pubblico (attualmente disponibile liberamente su indicepa.gov.it)
di fiducia contenente i domicili digitali da utilizzare per le comunicazioni
e per lo scambio di informazioni e per l'invio di documenti validi a tutti
gli effetti di legge tra le pubbliche amministrazioni, i gestori di pubblici
servizi e i privati.
Esso è istituito dall'art. 6-quater, D.Lgs. 07.03.2005, n. 82 (CAD) "al
fine di assicurare la pubblicità dei riferimenti telematici delle pubbliche
amministrazioni e dei gestori dei pubblici servizi".
Lo stesso CAD rafforza l'obbligo di fornire i dati per implementare il
registro attraverso il comma 3 del citato articolo che dispone "3. Le
amministrazioni di cui al comma 1 e i gestori di pubblici servizi aggiornano
gli indirizzi e i contenuti dell'Indice tempestivamente e comunque con
cadenza almeno semestrale, secondo le indicazioni dell'AgID. La mancata
comunicazione degli elementi necessari al completamento dell'Indice e del
loro aggiornamento è valutata ai fini della responsabilità dirigenziale e
dell'attribuzione della retribuzione di risultato ai dirigenti responsabili".
Ciò premesso sono intervenute sul punto varie pronunce della giurisprudenza
(consolidata anche a livello di Consiglio di Stato) nelle quali si legge:
- "In materia di notificazioni al difensore, l'introduzione del
domicilio digitale che corrisponde all'indirizzo di posta elettronica
certificata che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell'Ordine di
appartenenza, preclude la possibilità che le comunicazioni o le
notificazioni possano essere fatte presso la cancelleria dell'ufficio
giudiziario innanzi al quale pende la lite".
- "La notifica di un ricorso effettuata all'amministrazione
pubblica a mezzo di posta elettronica certificata all'indirizzo tratto
dall'elenco presso l'Indice PA è pienamente valida ed efficace essendo
quest'ultimo un pubblico elenco ancora utilizzabile per le notificazioni
alla pubblica amministrazione soprattutto nel caso in cui la stessa sia
rimasta inadempiente all'obbligo di comunicare altro e diverso indirizzo di
posta elettronica certificata da inserire nell'elenco pubblico tenuto dal
Ministero della Giustizia".
- "Dopo l'entrata in vigore del Pat, la notificazione del
ricorso, a mezzo posta elettronica certificata, effettuata
all'amministrazione all'indirizzo tratto dall'elenco presso l'Indice PA è
pienamente valida ed efficace in quanto comunque effettuata presso un
domicilio telematico PEC contenuto in un elenco pubblico a tutti gli
effetti. D'altra parte, l'amministrazione, secondo i canoni di
autoresponsabilità e legittimo affidamento cui deve ispirarsi il suo leale
comportamento, non può trincerarsi -a fronte di un suo inadempimento- dietro
il disposto normativo che prevede uno specifico elenco da cui trarre gli
indirizzi PEC ai fini della notifica degli atti giudiziari, per trarne
benefici in termini processuali, così impedendo di fatto alla controparte di
effettuare la notifica nei suoi confronti con modalità telematiche".
Alla luce di tali orientamenti ne deriva l'obbligo per l'amministrazione di
tenere aggiornato l'indice e di considerare validamente notificati ogni tipo
di atti, compresi quelli di natura processuale, ricevuti da parte degli
interessati.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 07.03.2005, n. 82, art. 6-quater - D.Lgs. 02.07.2010, n. 104, art. 52
- D.P.C.M. 16.02.2016, n. 40 - L. 12.08.2016, n. 161, art. 1
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. IV, 04.09.2019, n. 6089 - Cons. Stato Sez. II, 05.06.2019,
n. 3805 - Cons. Stato Sez. V, 14.03.2019, n. 1687 - Cons. Stato Sez. III,
27.02.2019, n. 1379 - Cons. Stato Sez. V, 12.12.2018, n. 7026 - Cons. Stato
(Ad. Plen.), 19.09.2017, n. 6 (08.01.2020 - tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nell'ambito
della manovra dell'approvazione del bilancio di previsione, nella seduta del
consiglio comunale, posto che prima dell'approvazione del bilancio, nella
sequenza dell'ordine del giorno, si intende approvare una modifica ad un
regolamento tributario, questa delibera di modifica di regolamento che va ad
incidere sul bilancio stesso, può essere dichiarata immediatamente
eseguibile o le modifiche dei regolamenti non lo possono essere?
Il quesito in esame riguarda la declaratoria di "immediata eseguibilità",
relativa alle deliberazioni degli organi collegiali: Giunta e Consiglio.
Precisamente, si chiede di sapere se le deliberazioni consiliari di
modificazione di regolamenti in materia tributaria possano essere oggetto
dell'indicata declaratoria.
In via preliminare, occorre chiarire il concetto di "eseguibilità" e
ben distinguerlo da quello di "esecutività". Orbene, per "esecutività",
si intende la formale idoneità di un provvedimento a produrre effetti.
Viceversa, per "eseguibilità", si intende la concreta idoneità di un
provvedimento a produrre effetti. In altri termini, il provvedimento, seppur
non esecutivo, può essere attuato (posto in esecuzione) mediante la
dichiarazione di eseguibilità, che impone una precisa assunzione di
responsabilità. L'eseguibilità costituisce, quindi, un'anticipazione
dell'esecuzione, sulla base di una dichiarazione di assunzione di
responsabilità.
Chiarito il concetto, procediamo alla lettura dell'art. 134, comma 4, D.Lgs
18.08.2000, n. 267, il quale stabilisce quanto segue: "Nel caso di
urgenza le deliberazioni del consiglio o della giunta possono essere
dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza
dei componenti".
Il tenore letterale della disposizione normativa pone in essere un generico
riferimento alle deliberazioni del consiglio o della giunta, senza operare
alcuna limitazione. Dunque, in base ad un'interpretazione meramente
letterale appare facile desumere che, non sussistendo limitazioni espresse,
anche le deliberazioni modificative di regolamenti in materia tributaria
possono essere dichiarate immediatamente eseguibili.
Ed, infatti, la giurisprudenza, che si è più volte occupata dell'istituto,
non ha mai evidenziato limitazioni di "categorie" di provvedimenti
deliberativi o di "materia" eventualmente oggetto di declaratoria.
Precisamente, la giurisprudenza ha evidenziato quanto segue:
- La funzione della dichiarazione di immediata eseguibilità è
quella di garantire l'effettività delle decisioni assunte, nelle more della
pubblicazione dell'atto deliberativo: "Si tratta di una norma che tende a
salvaguardare l'effettività di quanto deciso dall'organo politico nelle more
della pubblicazione dell'atto, al fine di evitare uno spazio temporale (dal
giorno della deliberazione a quello dell'effettiva pubblicazione), che
potrebbe tradire l'obiettivo della delibera medesima in modo deleterio per
il pubblico interesse di volta in volta perseguito, così eliminando
l'"effetto annuncio" connaturato all'ordinaria regola di cui al terzo comma
dell'art. 134 (in base alla quale la delibera diventa ordinariamente
esecutiva solo trascorsi dieci giorni dalla sua pubblicazione)" (TAR
Piemonte Torino Sez. II, 14.03.2014, n. 460);
- Conseguentemente, la dichiarazione di immediata eseguibilità
accede alla deliberazione principale, ma non si identifica con essa, ed è
proprio la necessità di una votazione separata a rivelarne l'autonomia sotto
il profilo strutturale e funzionale (in tal senso: TAR Liguria Genova Sez.
II, 09.01.2007, n. 2);
- La dichiarazione di immediata eseguibilità costituendo una scelta
discrezionale dell'Amministrazione, deve essere ben motivata: "La
clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale
dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito
dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello
stesso atto" (TAR Liguria Genova Sez. II, 09.01.2007, n. 2).
- Non occorre la previa pubblicazione della deliberazione: "L'immediata
eseguibilità di una deliberazione consiliare o giuntale non presuppone la
previa pubblicazione dell'atto. In caso contrario il comma 4 dell'art. 134
avrebbe dovuto essere diversamente formulato, non potendosi lasciare nel
vago un profilo così rilevante" (TAR Marche Ancona Sez. I, 23.07.2014,
n. 713).
Orbene, in base ai riportati indirizzi giurisprudenziali, appare ben chiaro
che la dichiarazione di immediata eseguibilità non incontra alcun limite di
"categorie" o di "materia" e può anche trovare applicazione in
relazione alle deliberazioni consiliari di modifica di regolamenti
tributari. Ad ogni modo, occorre prestare la massima attenzione al profilo
motivazionale, corredando la dichiarazione di un'adeguata giustificazione,
esplicativa delle ragioni di urgenza. Ed, infatti, l'evidente necessità di
una congrua motivazione è ribadita anche da un parere reso dal Ministero
dell'interno: "La clausola di immediata eseguibilità dipende da una
scelta discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al
requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito
dello stesso atto" (parere 17.02.2017).
Ovviamente, la concreta ed effettiva produzione di effetti giuridici deve
essere coordinata con le vigenti disposizioni in materia di tributi locali,
tenendo conto, soprattutto, dell'art. 1, comma 169, L. 27.12.2006, n. 296,
il quale stabilisce che: "gli enti locali deliberano le tariffe e le
aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da
norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione. Dette
deliberazioni, anche se approvate successivamente all'inizio dell'esercizio
purché entro il termine innanzi indicato, hanno effetto dal 1° gennaio
dell'anno di riferimento. In caso di mancata approvazione entro il suddetto
termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs 18.08.2000, n. 267, art. 134
- L. 27.12.2006, n. 296, art. 1, comma 169
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Liguria Sez. II, 09.01.2007, n. 2 - TAR Piemonte Sez. II, 14.03.2014, n.
460 - TAR Marche Sez. I, 23.07.2014, n. 713
Documenti allegati
Parere 17.02.2017 del Ministero dell'Interno
(10.01.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: A
seguito di diverse criticità, afferenti la redazione del Rendiconto 2016, si
chiede di sapere se talune "condotte" (riferite al Responsabile Area
Finanziaria, al Revisore del Conto ed al Segretario Comunale) possano essere
considerate legittime, anche in relazione ai rapporti con il Consiglio
Comunale.
Le condotte possono essere così sintetizzate ed illustrate:
a) a fronte di riscontrate criticità relative al rendiconto, il
(nuovo) Responsabile Area Finanziaria ed il Revisore non vogliono formulare
il loro parere (come dovuto) in relazione alla proposta di approvazione del
rendiconto. Siffatta condotta di omissione è legittima? Quali sono le
conseguenze in relazione al concreto e agire del "agire" del Consiglio
Comunale?
b) se il Consiglio (rectius: il gruppo consiliare di maggioranza)
ritiene (dopo diffida ed adeguata motivazione) di dover procedere comunque
all'approvazione del Rendiconto, il Segretario Comunale, ritenendo la
decisione illegittima, può mettere a verbale la propria valutazione?
1) Relativamente alle condotte di cui al punto a), siamo in
presenza di "atti dovuti", che trovano il loro fondamento in diverse fonti
normative. Per tale ragione, occorre distinguere.
Per quanto riguarda il Responsabile del Settore Finanziario, l'art. 49,
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, stabilisce, al comma 1°, che: "Su ogni
proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia
mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola
regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora
comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria
o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla
regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione".
La "lettera" della prescrizione normativa non da adito ad alcun dubbio:
siamo in presenza di un obbligo, cioè di un "dovere di ufficio". Il
Responsabile deve (non può!) formulare il parere. L'obbligatorietà della
formulazione del parere è confermata dal fatto che il medesimo non vincola,
di certo, l'organo deliberante, il quale, come espressamente previsto dal
comma 4, laddove "non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente
articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione".
Tutto chiaro: il parere del Responsabile deve essere dato, ma questo non
vincola la Giunta o il Consiglio, che, se non condividono il parere,
possono, con adeguata motivazione, non conformarsi.
Tuttavia, residua il problema posto in quesito: cosa accade se il parere non
viene dato?
Fermo restando l'obbligatorietà del parere (che deve essere
sollecitato e richiesto anche attraverso un'espressa diffida!), in caso di
persistenza dell'omissione (che se continua può dar luogo ad un
inadempimento di prestazione lavorativa ed anche far configurare un fumus di
"omissione di atti d'ufficio", di cui all'art. 328 c.p.), si determina una
situazione che viene diversamente interpretata dalla giurisprudenza. Ed,
infatti, secondo l'orientamento assolutamente dominante, "la mancata
acquisizione dei pareri di regolarità tecnica e contabile non comporta
l'invalidità delle deliberazioni della giunta o del consiglio comunale, ma
la loro mera irregolarità, atteso che la disposizione posta dall'art. 49 del TUEL, ha l'unico scopo di individuare i responsabili in via amministrativa e
contabile delle deliberazioni, ma senza che l'omissione del parere incida
sulla validità delle deliberazioni stesse" (TAR Marche, Sez. I, n.
623/2015; poi: TAR Sardegna, Sez. II, n. 968/2015; Cons. di Stato, Sez.
V, n. 1663/2014).
Quindi, la deliberazione assunta in assenza del parere del responsabile è
pienamente valida, non costituendo il parere medesimo un requisito di
legittimità della deliberazione. Aderendo a questo indirizzo, il Consiglio
Comunale non avrebbe alcun problema a procedere.
Tuttavia, occorre tener
conto di un recente (ed invero minoritario) indirizzo espresso dalla Corte
dei Conti (parere n. 62/2017, espresso dalla sezione di controllo
dell'Emilia Romagna) in base al quale "la mancata acquisizione dei parere di
regolarità tecnica e contabile nelle deliberazioni di Giunta e di Consiglio
(che non siano meri atti di indirizzo) determina l'illegittimità degli atti".
E' evidente che, aderendo a tale indirizzo, cambia lo scenario complessivo,
nel senso che l'omessa formulazione del parere, dovuto da parte del
Responsabile, "blocca" l'organo deliberante, nel senso che gli impedisce di
assumere le proprie decisioni. Allora, a fronte di siffatti opposti
indirizzi, appare fortemente plausibile diffidare il Responsabile,
evidenziando che la normativa pone a suo carico un obbligo: il Responsabile
deve dare il parere, qualunque ne sia il contenuto. Poi, si potrebbe
valutare con attenzione e prudenza l'eventuale adesione al primo indirizzo e
deliberare comunque, evidenziando le ragioni di pubblico interesse sottese
all'approvazione del rendiconto, che deve essere posta in essere.
Per quanto riguarda il Revisore del Conto, occorre osservare che l'art. 239,
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 stabilisce che il medesimo deve redigere una
specifica "relazione" in merito alla proposta di deliberazione consiliare di
approvazione del rendiconto. Anche in questo caso si tratta di un atto
dovuto, per cui possono essere effettuate le medesime riflessioni in merito
alla "doverosità". Tuttavia, in caso di immotivata e colpevole inerzia del
Revisore, sembra che gli "spazi di azione" del Consiglio siano lievemente
più limitati rispetto a prima (omissione colpevole del Responsabile), in
quanto il comma 2, dell'art. 227, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, stabilisce
che il rendiconto viene deliberato "tenuto motivatamente conto della
relazione dell'organo di revisione".
Quindi, potrebbe insorgere il sospetto che, non essendoci la relazione (che
non è un semplice parere), il Consiglio non possa decidere in modo motivato.
Ad ogni modo, al fine di evitare gli effetti perniciosi della mancata
approvazione del Rendiconto, il Consiglio, dopo una adeguata illustrazione
della situazione creatasi, potrebbe considerare l'ipotesi di addivenire
comunque all'approvazione, in quanto la colpevole omissione del Revisore non
può impedire il legittimo esercizio dei poteri da parte del Consiglio.
In ogni caso, si raccomanda vivamente di diffidare il Responsabile ed il
Revisore, evidenziando loro le responsabilità, anche presuntivamente penali,
connesse all'omissione.
2) Rispetto alla condotta di cui al punto b), il Segretario
Comunale, ai sensi dell'art. 97, comma 4, lettera "a", "partecipa con
funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e
della giunta e ne cura la verbalizzazione". Secondo il consolidato indirizzo
della Corte dei conti (ex multis: Corte conti, sez. giurisdizionale
Lombardia, n. 324/2009), il Segretario ha il dovere di segnalare eventuali
illegittimità presenti nella deliberazione.
Ciò, in base, appunto, alla sua
funzione di "assistenza". Quindi, a questo punto, potrebbe svilupparsi un
proficuo "dialogo" preventivo fra il Segretario Comunale ed il Consiglio,
finalizzato a verificare se la mancanza dei pareri e della relazione
determina inevitabilmente l'illegittimità della deliberazione, oppure se
sussistono spazi motivazionali, per giustificare, comunque, un intervento di
approvazione del Consiglio, diretto, fra l'altro, ad evitare lo scioglimento
del medesimo, con tutti i conseguenti e negativi effetti sull'ente.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49 - D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art.
227 - D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 239
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Marche Ancona Sez. I, Sent., 20.08.2015, n. 623
Documenti allegati
Corte Conti, sez. controllo Emilia Romagna, 11.04.2017, n. 62/2017/PAR
(29.01.2018 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
comune di appartenenza fa parte di una Unione di comuni alla quale è stata
trasferita la gestione delle Risorse Umane.
Tutti gli atti afferenti il tema (assunzioni, cessazioni, mobilità, Fondo
premialità, Piano triennale fabbisogno, ecc..) vengono assunti con delibera
della giunta comunale del comune interessato e parere tecnico del
responsabile dell'area amministrazione, vista la bozza di atto istruita dal
Dirigente servizio Risorse Umane dell'Unione.
Non avendo il responsabile dell'area amministrazione alcuna competenza
professionale al riguardo, né risorse strumentali (umane ed economiche) di
cui disporre per formarsi un'idea in materia, si chiede se il parere apposto
sugli atti di giunta sia legittimo e valido.
Si tenga presente che a tali delibere di giunta fa seguito una
determinazione dirigenziale sempre del responsabile dell'area
amministrazione sulla base di bozza preparata dal servizio risorse umane
dell'unione di appartenenza.
Nella definizione delle procedure delegate all'Unione il Comune e l'Unione
possono definire forme di partecipazione dei relativi responsabili
nell'ambito dei procedimenti gestiti in forma associata.
In questa prospettiva appare legittima la previsione di un intervento del
Dirigente del settore competente del Comune nella predisposizione della
bozza di atto che poi sarà sottoposto all'approvazione della Giunta Comunale
e la previsione del suo parere di regolarità tecnica (parere obbligatorio e
non vincolante ai sensi dell'art. 49 del TUEL).
Ciò premesso, sotto il profilo strettamente giuridico, l'attribuzione della
competenza all'espressione del parere di regolarità tecnica non presuppone
un accertamento sulla competenza professionale specifica (che si presume con
la nomina a responsabile dell'area) né una verifica sul "carico di lavoro"
del servizio.
Tali aspetti sono rimessi all'autonoma valutazione dell'ente e se appare
ragionevole non inviare una richiesta di parere ad un soggetto privo di
specifica competenza o in difficoltà ad operare per carenza di adeguato
organico, ciò non influisce sulla procedura di approvazione dei relativi
atti.
Ciò a maggior ragione ove si consideri che è in ogni caso indispensabile
l'espressione di un parere di regolarità tecnica (come detto obbligatorio
anche se non vincolante) per l'approvazione degli atti dell'organo
collegiale comunale. E tale parere non può essere fornito dal Responsabile
dell'Unione, formalmente soggetto distinto dall'Ente Locale competente.
Da valutare è l'opportunità di rivedere la procedura attivata soprattutto in
relazione all'approvazione di atti di natura dirigenziale che potrebbero
essere assegnati direttamente all'Unione senza passare dalla previa delibera
di Giunta e, quindi, dal relativo parere di regolarità tecnica.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267,
art. 49
(14.09.2017 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Art.
49 TUEL: riflessi diretti e indiretti sulla situazione economico-finanziaria
o sul patrimonio dell'ente.
In caso di situazioni in cui non sono ben individuabili i riflessi
indiretti, si chiede se è opportuno che venga rilasciato comunque il parere
di regolarità contabile, oppure indicare la non rilevanza contabile.
In tale ipotesi, il non aver rilasciato il parere di regolarità contabile,
ma l'attestazione di non rilevanza contabile, può inficiare la
deliberazione?
Il quesito attiene al parere di "regolarità contabile", attualmente
disciplinato dall'art. 49, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (noto anche come Testo
Unico Enti Locali).
Al riguardo, occorre osservare che il parere in questione, fin dal suo
sorgere nel lontano 1990, ha conosciuto, attraverso le intervenute
modificazioni normative, un chiaro ampliamento del suo oggetto, significato
e funzione. Infatti, il vecchio art. 53, L. 08.06.1990, n. 142 non definiva
l'oggetto, ma si limitava a prescrivere quanto segue: "Su ogni proposta
di deliberazione sottoposta alla giunta ed al consiglio deve essere
richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica e contabile,
rispettivamente del responsabile del servizio interessato e del responsabile
di ragioneria, nonché del segretario comunale o provinciale sotto il profilo
di legittimità. I pareri sono inseriti nella deliberazione".
Successivamente, con il Testo Unico Enti Locali, il Legislatore ha
provveduto a dettagliare il contenuto del parere di regolarità contabile,
stabilendo, all'art. 49, che: "su ogni proposta di deliberazione
sottoposta alla giunta ed al consiglio che non sia mero atto di indirizzo
deve essere richiesto il parere in ordine alla sola regolarità tecnica del
responsabile del servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o
diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla
regolarità contabile".
Come si può facilmente desumere, con l'art. 49, il Legislatore ha inteso
collegare l'obbligo di parere ad ogni proposta deliberativa, comportante
effetti diretti sul bilancio dell'ente, o attraverso l'assunzione di un
impegno di spesa o attraverso una diminuzione di entrata.
Ora, tale ampliamento del concetto di parere di regolarità contabile ha
conosciuto un ulteriore sviluppo. Precisamente, con la riforma dei controlli
interni, introdotta dal D.L. 10.10.2012, n. 174, convertito in L.
07.12.2012, n. 213, l'art. 49 è stato rivisitato, assumendo la seguente ed
attuale veste prescrittiva: "Su ogni proposta di deliberazione sottoposta
alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere
richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del
responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente,
del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri
sono inseriti nella deliberazione. La giurisprudenza contabile è prontamente
intervenuta ad interpretare la novella normativa, precisando che la
fondamentale novità consiste essenzialmente nell'avere sostituito
l'espressione "qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata"
con "qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente" (C. Conti Marche Sez.
contr., 05.06.2013, n. 51).
La nuova formulazione comporta un ampliamento dei casi in cui è necessario
il parere di regolarità contabile, con l'assegnazione al responsabile
dell'Area Finanziaria di un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di
bilancio dell'ente. Tale interpretazione è rafforzata dall'introduzione del
comma 4, il quale, ferma restando la valenza non vincolante del parere, ha
significativamente previsto un onere di motivazione specifica del
provvedimento approvato in difformità dal parere contrario reso dai
responsabili dei servizi. Ad avviso della Corte, la nuova formulazione
dell'art. 49 consente di ritenere che nel concetto di "riflessi diretti"
siano ricompresi certamente gli effetti finanziari già descritti nella
disposizione previgente ("impegno di spesa o diminuzione di entrata"),
ma anche le variazioni economico-patrimoniali conseguenti all'attuazione
della deliberazione proposta.
Occorre osservare, venendo ad uno dei punti specifici del quesito, che il
parere di regolarità contabile deve essere rilasciato solo se sono
individuabili effetti diretti oppure indiretti, che la proposta di
deliberazione produce sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell'ente. Infatti, il riportato comma 1 utilizza la disgiunzione
esclusiva "o" e non la congiunzione "e": qualora comporti riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente.
Quindi, se si è in presenza di effetti diretti oppure (ipotesi alternativa
ed esclusiva della precedente) solo effetti indiretti (a maggior ragione se
sono presenti entrambi gli effetti), il parere deve essere rilasciato.
Ovviamente, se non sussiste una delle due tipologie di effetti viene meno
l'obbligo.
Invero, il problema si pone in caso di incerta individuazione, cui sembra
alludere il quesito. In tal caso, cioè in presenza di un'effettiva
situazione di incertezza o di ambiguità, al fine di dissipare possibili
equivoci in relazione alla condotta del Responsabile (eventualmente
censurabile per un'ipotetica omissione), appare fortemente opportuno che il
medesimo illustri le ragioni, secondo la sua prospettazione, che comprovano
l'assenza di uno degli effetti in questione. In altri termini, il
Responsabile deve indicare le motivazioni che lo inducono a non formulare il
parere, cioè deve giustificare che nessuno dei due cennati profili sussiste.
Ciò, si ribadisce, solo nei casi in cui sussista un'effettiva situazione di
incertezza.
A questo punto, nel quesito si afferma quanto segue: In tale ipotesi, il non
aver rilasciato il parere di regolarità contabile, ma l'attestazione di non
rilevanza contabile, può inficiare la deliberazione?
Orbene, l'attestazione di non rilevanza contabile, cioè l'indicazione delle
ragioni che inducono il Responsabile a non formulare il parere,
assolutamente non "inficia" la deliberazione, se, ovviamente, i
richiamati effetti diretti o indiretti non sussistono. Se, viceversa,
l'interpretazione fornita dal Responsabile appare errata, nel senso che gli
effetti in questione (anche uno solo dei due) sussistono, allora la
deliberazione è irregolare. In tal caso, il soggetto che contesterà
l'interpretazione fornita e scritta dal Responsabile ha l'onere di
dimostrare la non fondatezza dell'interpretazione medesima.
Si ribadisce che la deliberazione priva del parere di regolarità contabile
(laddove, ovviamente, necessario in base a quanto sinora detto) non comporta
illegittimità della medesima, ma solo irregolarità, come, da tempo, indicato
dalla giurisprudenza: La mancata acquisizione del parere di regolarità
contabile, ex art. 49 T.U.E.L., non comporta l'illegittimità della delibera,
avendo piuttosto lo scopo di individuare il soggetto che formalmente assume
la responsabilità sul riscontro della regolarità contabile della proposta di
provvedimento (TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 31.05.2011, n. 1385). In tal
senso, ancor più recentemente:
- La giurisprudenza sembra ormai consolidarsi sull'orientamento
secondo cui la mancata acquisizione dei pareri di regolarità tecnica e
contabile non comporta l'invalidità delle deliberazioni della giunta o del
consiglio comunale, ma la loro mera irregolarità, atteso che la disposizione
posta dall'art. 49 del TUEL, ha l'unico scopo di individuare i responsabili
in via amministrativa e contabile delle deliberazioni, ma senza che
l'omissione del parere incida sulla validità delle deliberazioni stesse (TAR
Marche Ancona Sez. I, Sent., 20.08.2015, n. 623; poi: TAR Sardegna Cagliari
Sez. II, Sent., 29.07.2015, n. 968).
- "I pareri, previsti per l'adozione delle deliberazioni
comunali (prima ex art. 53, L. 08.06.1990, n. 142, e poi ex art. 49, D.Lgs.
18.08.2000, n. 256), non costituiscono requisiti di legittimità delle
deliberazioni cui si riferiscono, in quanto sono preordinati
all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della
responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi
politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale
mancanza costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità
e la validità delle deliberazioni stesse. D'altra parte è appena il caso di
rilevare che la mancanza potrebbe tutt'al più rilevare sotto il profilo
della carenza istruttoria del provvedimento ovvero sulla corretta formazione
della volontà dell'amministrazione" (Cons. Stato Sez. V, 08.04.2014, n.
1663).
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49 - D.L. 10.10.2012, n. 174 - L.
07.12.2012, n. 213
(24.10.2016 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Si
premette che questo ente si trova in stato di dissesto finanziario
dichiarato nel 2015, che l'ultimo bilancio approvato risale al 2013 e che
non è stata approvata l'ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.
Il responsabile finanziario ha dato parere contrario di copertura
finanziaria al servizio di ricovero dei disabili psichici, motivandolo col
fatto che le entrate accertate non consentono la copertura della spesa ai
sensi dei nuovi principi di finanza armonizzata.
Posto che si tratta di un servizio obbligatorio per espressa previsione di
legge e che la spesa è stata ridotta di oltre il 20% rispetto al 2013 e che
comunque rientra nelle previsioni dell'ultimo bilancio approvato, nel pieno
rispetto dell'art. 250, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, come può la Giunta
Comunale adottare l'atto superando il parere contrario per scongiurare il
formarsi di un debito fuori bilancio?
La risoluzione del quesito in esame impone la focalizzazione di due
importanti e delicati istituti: il parere di regolarità contabile del
Responsabile del servizio finanziario e la gestione del bilancio dopo la
dichiarazione di dissesto finanziario e durante la procedura di risanamento.
Istituti che, nella concreta fattispecie, si intrecciano fra di loro, in
quanto il punto cruciale della vicenda medesima è il seguente: il
Responsabile del servizio finanziario ha dato parere contrario, circa la
regolarità contabile, in merito alla proposta di impegno di spesa correlato
al servizio di ricovero dei disabili psichici, per una chiara ragione:
mancano entrate accertate, idonee a finanziarie la copertura della spesa. A
fronte di tale obiezione, la Giunta evidenzia il fatto che si è in presenza
di un "servizio obbligatorio per legge" e che occorre evitare il formarsi di
un debito fuori bilancio.
Allora, per quanto concerne il parere, occorre ricordare che la nuova
versione dell'art. 49, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 stabilisce quanto
segue: "Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al
Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il
parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del
servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla
situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del
responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri
sono inseriti nella deliberazione".
La giurisprudenza contabile è
prontamente intervenuta ad interpretare la novella normativa, precisando che
la fondamentale novità consiste essenzialmente nell'avere sostituito
l'espressione "qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata"
con "qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente" (C. Conti Marche Sez.
contr., Delib., 05.06.2013, n. 51).
La nuova formulazione determina, dunque, un ampliamento dei casi in cui è
necessario il parere di regolarità contabile, con l'assegnazione al
responsabile dell'Area Finanziaria di un ruolo centrale nella tutela degli
equilibri di bilancio dell'ente. Tale interpretazione è rafforzata
dall'introduzione del comma 4°, il quale, ferma restando la valenza non
vincolante del parere, ha significativamente previsto un onere di
motivazione specifica del provvedimento approvato in difformità dal parere
contrario reso dai responsabili dei servizi. Ad avviso della Corte, la nuova
formulazione dell'art. 49 consente di ritenere che nel concetto di "riflessi
diretti" siano ricompresi certamente gli effetti finanziari già descritti
nella disposizione previgente ("impegno di spesa o diminuzione di entrata"),
ma anche le variazioni economico-patrimoniali conseguenti all'attuazione
della deliberazione proposta.
Quindi, appare ben chiaro che l'ambito di valutazione del Responsabile del
servizio finanziario, in sede di formulazione di parere di regolarità
tecnica, è ben ampio. Invero, nella concreta vicenda, il Responsabile ha
fondato il suo negativo parere su di un profilo, già da tempo indiscusso in
legislazione e dottrina: la carenza di copertura finanziaria della spesa
proposta. Tale profilo è ben chiaro e non merita ulteriori approfondimenti,
nel senso che il Responsabile lamenta una carenza primaria: l'insufficienza
delle entrate accertate a garantire la copertura della spesa.
Ora, "caliamo" tali principi nella problematica della gestione del bilancio
dopo la dichiarazione di dissesto finanziario e durante la procedura di
risanamento.
Tale delicata vicenda della "vita" dell'ente locale è espressamente
disciplinata dall'art. 250, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, il quale, al 2°
comma, stabilisce quanto segue: "Per le spese disposte dalla legge e per
quelle relative ai servizi locali indispensabili, nei casi in cui
nell'ultimo bilancio approvato mancano del tutto gli stanziamenti ovvero gli
stessi sono previsti per importi insufficienti, il consiglio o la giunta con
i poteri del primo, salvo ratifica, individua con deliberazione le spese da
finanziare, con gli interventi relativi, motiva nel dettaglio le ragioni per
le quali mancano o sono insufficienti gli stanziamenti nell'ultimo bilancio
approvato e determina le fonti di finanziamento. Sulla base di tali
deliberazioni possono essere assunti gli impegni corrispondenti. Le
deliberazioni, da sottoporre all'esame dell'organo regionale di controllo,
sono notificate al tesoriere".
La disposizione normativa è abbastanza chiara e può essere così
sintetizzata:
a) Se sussistono spese previste come obbligatorie dalla legge o
correlate a servizi indispensabili (come nella concreta fattispecie);
b) e mancano o sono insufficienti i relativi stanziamenti
nell'ultimo bilancio approvato (quello del 2013);
c) la Giunta (con successiva ratifica del Consiglio) deve
individuare la spesa correlata al servizio di ricovero dei disabili
psichici, che intende finanziare;
d) la Giunta deve, poi, indicare le ragioni (motivazione) per le
quali mancano o sono insufficienti gli stanziamenti nell'ultimo bilancio
approvato (quello del 2013);
e) la Giunta deve, soprattutto, "determinare le fonti di
finanziamento", cioè deve individuare le risorse finanziarie idonee a
coprire la prospettata spesa;
f) solo in tal modo, possono essere assunti gli impegni di spesa.
Appare evidente che il punto focale dell'illustrata disposizione normativa
(art. 250, comma 2) è costituito dal punto "e", cioè dalla necessità di
individuare le fonti di finanziamento. Questo è, purtroppo, il vero punto dolens della concreta vicenda. E' vero che il servizio è obbligatorio, è
vero che la Giunta può intervenire; ma, è parimenti vero che la medesima
Giunta, anche al di là del negativo parere del Responsabile, deve
determinare le fonti di finanziamento.
Ora, se il Responsabile, in sede di
parere di regolarità tecnica, afferma che la copertura finanziaria non
sussiste, la Giunta, se intende garantire l'obbligatorio servizio, non può
far altro che, anche fruendo della collaborazione del Responsabile medesimo,
cercare di individuare, reperire nell'ultimo bilancio approvato e sulla base
delle entrate accertate le fonti di finanziamento. Altrimenti, la decisione
di garantire il servizio non potrà che far configurare un debito fuori
bilancio.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49
- D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 250
Riferimenti di giurisprudenza
C. Conti Marche Sez. contr., Delib., 05.06.2013, n. 51
(21.04.2016 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nel
parere di regolarità contabile è da comprendere, oltre che la verifica
dell'esatta imputazione della spesa al pertinente capitolo di bilancio ed il
riscontro della capienza dello stanziamento relativo, anche la valutazione
sulla correttezza sostanziale della spesa proposta da parte del responsabile
del Servizio finanziario.
Si chiede un approfondimento del concetto di valutazione sulla correttezza
sostanziale della spesa, suffragato dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Il parere di regolarità contabile, fin dal suo sorgere nel lontano 1990, ha
conosciuto attraverso le intervenute modificazioni normative, un chiaro
ampliamento del suo oggetto, significato e funzione. Infatti, il vecchio
art. 53, L. 08.06.1990, n. 142 non definiva l'oggetto, ma si limitava a
prescrivere quanto segue: "Su ogni proposta di deliberazione sottoposta
alla giunta ed al consiglio deve essere richiesto il parere, in ordine alla
sola regolarità tecnica e contabile, rispettivamente del responsabile del
servizio interessato e del responsabile di ragioneria, nonché del segretario
comunale o provinciale sotto il profilo di legittimità. I pareri sono
inseriti nella deliberazione".
Successivamente, con il Testo Unico Enti Locali, cioè con il D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, il Legislatore ha provveduto a dettagliare il contenuto
del parere di regolarità contabile, stabilendo, all'art. 49, che: "su
ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta ed al consiglio che
non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine
alla sola regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e,
qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile
di ragioneria in ordine alla regolarità contabile".
Come si può facilmente desumere, con l'art. 49, il Legislatore ha inteso
collegare l'obbligo di parere ad ogni proposta deliberativa, comportante
effetti diretti sul bilancio dell'ente, o attraverso l'assunzione di un
impegno di spesa o attraverso una diminuzione di entrata. Ora, tale
ampliamento del concetto di parere di regolarità contabile ha conosciuto un
ulteriore sviluppo.
Precisamente, con la riforma dei controlli interni, introdotta dal D.L.
10.10.2012, n. 174, convertito in L. 07.12.2012, n. 213, l'art. 49 è stato
rivisitato, assumendo la seguente veste prescrittiva: "Su ogni proposta
di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto
di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità
tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti
riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla
regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione".
La giurisprudenza contabile è prontamente intervenuta ad interpretare la
novella normativa, precisando che la fondamentale novità consiste
essenzialmente nell'avere sostituito l'espressione "qualora comporti
impegno di spesa o diminuzione di entrata" con "qualora comporti
riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell'ente" (C. Conti Marche Sez. contr., 05.06.2013, n. 51).
La nuova formulazione comporta un ampliamento dei casi in cui è necessario
il parere di regolarità contabile, con l'assegnazione al responsabile
dell'Area Finanziaria di un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di
bilancio dell'ente. Tale interpretazione è rafforzata dall'introduzione del
comma 4°, il quale, ferma restando la valenza non vincolante del parere, ha
significativamente previsto un onere di motivazione specifica del
provvedimento approvato in difformità dal parere contrario reso dai
responsabili dei servizi.
Ad avviso della Corte, la nuova formulazione dell'art. 49 consente di
ritenere che nel concetto di "riflessi diretti" siano ricompresi
certamente gli effetti finanziari già descritti nella disposizione
previgente ("impegno di spesa o diminuzione di entrata"), ma anche le
variazioni economico-patrimoniali conseguenti all'attuazione della
deliberazione proposta.
Orbene, anche prima della riforma dei controlli interni, la giurisprudenza
aveva affermato che il parere di regolarità contabile deve dar luogo anche
ad una "valutazione sulla correttezza sostanziale della spesa proposta".
Precisamente, la giurisprudenza contabile è arrivata a tale ampliamento
dell'oggetto del parere di regolarità contabile, ponendosi, primariamente il
problema di definire il concetto di "contabilità pubblica", per poi
individuare il precipuo contenuto del parere di regolarità contabile.
La Corte dei conti, sez. giurisd. Sicilia, sviluppando precedenti arresti
giurisprudenziali anche propri (Sent. n. 1058 del 2011; C. Conti Puglia Sez.
giurisdiz., 01.03.2006, n. 207; Corte conti Toscana, Del. n. 114/2010/PRSE),
nella Sent. 24.04.2012, n. 1337, ha statuito quanto segue: "Ad avviso di
questo collegio, la norma che individua il vero principio fondamentale in
materia, individuando e distinguendo il controllo finanziario relativo nel
nostro caso all'attestazione della copertura finanziaria, da quello
contabile, è l'art. 20, R.D. 12.07.1934, n. 1214 TU Corte dei conti, ove si
prevede:
- La Corte vigila perché le spese non superino le somme stanziate nel
bilancio e queste si applichino alle spese prescritte, perché non si faccia
trasporto di somme non consentite per legge, e perché la liquidazione e il
pagamento delle spese siano conformi alle leggi e ai regolamenti. Tale norma
che si applica all'attività di controllo della Corte dei conti e definisce
il concetto di contabilità pubblica, per la sua ampia definizione, si
configura come riferimento fondamentale per i concetti di regolarità
finanziaria e contabile, tale che, per la sua generalità è estensibile a
qualsiasi organo pubblico che svolga tali funzioni. Nel parere di
"regolarità contabile" infatti, è da comprendere, oltre che la verifica
dell'esatta imputazione della spesa al pertinente capitolo di bilancio ed il
riscontro della capienza dello stanziamento relativo, anche la valutazione
sulla correttezza sostanziale della spesa proposta. Dunque per regolarità
contabile deve intendersi legittimità della spesa, ossia conformità di essa
alle leggi ed ai regolamenti".
Appare ben chiaro l'approdo ermeneutico, cui è pervenuta la giurisprudenza:
il parere di regolarità contabile ricomprende anche i profili di "correttezza
sostanziale" della spesa, cioè la sua conformità alla legge. Tale
asserzione trova la sua chiara conferma nella già indicata riforma dei
controlli interni. Infatti, il modificato art. 147-bis, D.Lgs. 18.08.2000,
n. 267, ha introdotto il nuovo controllo di regolarità amministrativa e
contabile, il quale, nella fase preventiva della formazione dell'atto, deve
estrinsecarsi attraverso il rilascio del parere attestante la regolarità e
la correttezza dell'azione amministrativa.
Quindi, il parere di regolarità contabile assume i chiari connotati di una
valutazione della correttezza dell'azione amministrativa. A sua volta, la
correttezza non può che colorarsi di profili sostanziali, divenendo,
appunto, "correttezza sostanziale". Questa afferisce al rispetto
della legge e dei regolamenti, con un ineludibile esito interpretativo: il
parere di regolarità contabile, anche in ragione della riforma dei controlli
interni, non può che comportare la verifica della correttezza sostanziale
della spesa proposta, cioè manifestarsi come parere preventivo di
legittimità della spesa, volto a garantire la sua conformità alle leggi ed
ai regolamenti.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 08.06.1990, n. 142, art. 53 - D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49 - D.L.
10.10.2012, n. 174 - L. 07.12.2012, n. 213
Riferimenti di giurisprudenza
C. Conti Marche Sez. contr., 05.06.2013, n. 51 - C. Conti Sicilia Sez.
giurisdiz., Sent., 24.04.2012, n. 1337
(11.03.2016 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'art.
49 del TUEL stabilisce, tra l'altro, che su ogni proposta di deliberazione
sottoposta alla Giunta e al Consiglio che comporta riflessi indiretti sulla
situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, deve essere
richiesto il parere del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile.
Si chiede di chiarire questo concetto anche con esempi concreti.
La ratio dell'art. 49 del TUEL (la cui formulazione era già
contenuta, per quanto interessa, nell'art. 53, L. 08.06.1990 n. 142) è
quella di garantire un vaglio di natura tecnica (obbligatoria) e finanziaria
(eventuale) a tutti i provvedimenti degli organi collegiali al fine di
ridurre i margini per l'adozione di provvedimenti illegittimi (irregolarità
tecnica) o non sorretti da adeguata copertura finanziaria.
La disposizione rappresenta una combinazione, coerente e ragionevole,
dell'autonomia dell'organo politico (titolare del potere decisorio) e del
rispetto del principio di legalità dell'azione amministrativa.
In ossequio al principio di separazione fra tecnica e politica, alla base
del TUEL, la normativa e la giurisprudenza hanno inoltre chiarito che i
dirigenti/funzionari che esprimono il parere rispondono in via
amministrativa e contabile dei pareri espressi (TAR Sardegna Cagliari Sez.
II, 19.05.2006, n. 1022).
In base allo stesso principio i pareri in questione sono obbligatori ma non
vincolati. Infatti il comma 4 dell'art. 49 dispone che "Ove la Giunta o
il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente
articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione".
In questo caso rispondono in via amministrativa e contabile i membri
dell'organo collegiale che hanno votato a favore della deliberazione
risultata poi illegittima.
L'art. 53, L. 08.06.1990 n. 142 disponeva "Su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla giunta ed al consiglio...deve essere richiesto
il parere in ordine alla sola regolarità tecnica del responsabile del
servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di
entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile".
La nuova formulazione dell'art. 49, come modificato dall'art. 3, comma 1,
lett. b), D.L. 10.10.2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla L.
07.12.2012, n. 213, non richiama più i concetti di "impegno di spesa"
o "diminuzione di entrata" (cioè la causa) ma fa esclusivo
riferimento agli "effetti" del provvedimento.
Quanto agli effetti "diretti" si può ritenere che essi coincidano con
il precedente riferimento all'impegno di spesa o alla diminuzione di
entrata.
Sugli effetti indiretti manca una ulteriore precisazione normativa e
pertanto si dovrà fare riferimento ai principi generali ed alla logica.
Ad avviso di chi scrive il legislatore ha inteso delineare un concetto "ampio"
di effetti delle delibere degli organi collegiali al fine di contrastare un
fenomeno, diffuso nella prassi amministrativa, di adozione di deliberazioni
di indirizzo politico che, direttamente, non comportano effetti sulle
finanze o sul patrimonio dell'ente, ma che, una volta attuate, possono avere
una rilevanza (anche significativa) sul bilancio.
Alcuni casi possono essere:
- delibere di accettazione di donazioni (di beni mobili o immobili)
- delibere di acquisizione gratuita di beni immobili al patrimonio
dell'ente (in conseguenza di abusi edilizi)
- delibere di concessione gratuita del patrocinio ad iniziative che
si svolgono sul territorio da cui seguono necessarie attività di intervento
dell'Ente (maggiore sorveglianza della Polizia Locale, provvedimenti sulla
circolazione stradale, pulizia delle aree ecc...)
- delibere di approvazione di disposizioni normative (regolamenti,
disciplinari ecc...) che comportano un facere per l'amministrazione.
In definitiva il compito dell'organo politico (anche tramite il supporto del
Segretario) dovrà essere quello di verificare attentamente (pena
l'illegittimità del provvedimento) se la delibera di indirizzo o di
approvazione di disposizioni normative che non producono effetti finanziari
diretti, possano essere la causa diretta immediata o mediata di effetti
finanziari (indiretti).
Nel dubbio si dovrà comunque propendere per l'acquisizione del parere di
regolarità contabile.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 08.06.1990 n. 142, art. 53 -
D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, art. 49 - D.L. 10.10.2012, n. 174, art. 3
Riferimenti di giurisprudenza
Cass. Pen. Sez. III Sentenza, 29.01.2013, n. 13746 - TAR Sardegna Cagliari
Sez. II, 19.05.2006, n. 1022
(01.10.2015 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'art.
49 del TUEL stabilisce, tra l'altro, che su ogni proposta di deliberazione
sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo,
deve essere richiesto il parere del responsabile di ragioneria in ordine
alla regolarità contabile.
Si chiede di chiarire questo concetto anche con esempi concreti.
La ratio dell'art. 49 del TUEL (la cui formulazione era già contenuta, per
quanto interessa, nell'art. 53, L. 08.06.1990 n. 142) è quella di garantire
un vaglio di natura tecnica (obbligatoria) e finanziaria (eventuale) a tutti
i provvedimenti degli organi collegiali al fine di ridurre i margini per
l'adozione di provvedimenti illegittimi (irregolarità tecnica) o non
sorretti da adeguata copertura finanziaria.
La disposizione rappresenta una combinazione, coerente e ragionevole,
dell'autonomia dell'organo politico (titolare del potere decisorio) e del
rispetto del principio di legalità dell'azione amministrativa.
In ossequio al principio di separazione fra tecnica e politica, alla base
del TUEL, la normativa e la giurisprudenza hanno inoltre chiarito che i
dirigenti/funzionari che esprimono il parere rispondono in via
amministrativa e contabile dei pareri espressi (TAR Sardegna Cagliari Sez.
II, 19.05.2006, n. 1022).
In base allo stesso principio i pareri in questione sono obbligatori ma non
vincolati. Infatti il comma 4 dell'art. 49 dispone che "Ove la Giunta o
il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente
articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione".
In questo caso rispondono in via amministrativa e contabile i membri
dell'organo collegiale che hanno votato a favore della deliberazione
risultata poi illegittima.
Ciò premesso appare dunque conseguente a tale impostazione il principio per
il quale, qualora la delibera abbia un contenuto che prescinde da profili
tecnici (in senso stretto) e non abbia riflessi diretti o indiretti di
natura finanziaria, non sussiste alcun margine per l'espressione del parere
da parte dei dirigenti/funzionari.
Pertanto il legislatore ha previsto che gli atti amministrativi che
costituiscono "mero atto di indirizzo" non sono soggetti ai citati
pareri.
Sul punto manca una casistica ufficiale o una casistica elaborata dalla
giurisprudenza salve rare pronunce fra cui quella che si riporta "La
ricapitalizzazione di una società partecipata incorsa in perdite reiterate è
comunque un atto a carattere discrezionale per l'ente partecipante. Come
tale, la relativa deliberazione deve essere adeguatamente motivata in
relazione alla prevalenza dei benefici sui correlativi costi e, non
rappresentando un mero atto di indirizzo, anche corredata dei pareri
obbligatori dei responsabili del servizio interessato e di quello
finanziario" (C. Conti Lombardia Sez. contr. Delibera, 05.03.2014, n.
96).
Da questa pronuncia si può ricavare il principio per il quale il mero atto
di indirizzo non coincide con gli atti "ampiamente discrezionali".
L'ampia discrezionalità non esclude il ricorso a criteri e meccanismi
tecnici di valutazione (nel caso indicato di natura economico-finanziaria).
Altro passaggio interessante è quello di questa sentenza "In quanto tale,
il parere di regolarità tecnica va acquisito anche sulla proposta di
delibera inerente la revoca del Presidente del Consiglio Comunale, in quanto
i presupposti di tale provvedimento sono rigorosamente disciplinati dalla
norma ed attengono esclusivamente alla violazione dei doveri di imparzialità
e degli altri doveri istituzionali connessi alla carica e pertanto la loro
sussistenza può essere valutata dal funzionario responsabile del
procedimento, anche a garanzia della trasparenza e della correttezza
dell'azione amministrativa a tutela degli stessi consiglieri comunali"
(TAR Sicilia Catania Sez. I Sent., 03.05.2007, n. 759).
Anche in questo caso si ritiene doverosa l'acquisizione del parere di
regolarità tecnica pur a fronte di un atto "politico" quale è la
revoca del Presidente del Consiglio Comunale, proprio per la presenza di
elementi normativi vincolanti a cui dover fare riferimento.
Alla luce di questa (scarna) casistica, e per esclusione, si può ritenere
che:
- la regola stabilita dal legislatore rimane quella dell'obbligo di
acquisizione del parere di regolarità
- in caso di dubbio si dovrà pertanto provvedere alla sua
acquisizione pena l'illegittimità del provvedimento (secondo la tesi
maggioritaria: TAR Campania, Napoli, Sez. I, 13.05.2004, n. 8718; Cons.
Stato, Sez. V, 15.02.2000, n. 808; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
09.01.1995, n. 26)
- per atto di mero indirizzo deve intendersi una manifestazione di
volontà politica, non vincolata da norme di settore (di natura tecnica o
finanziaria) né vincolante sull'azione successiva dell'apparato
amministrativo con il quale l'organo collegiale esprime la propria
valutazione in merito a determinati argomenti, problematiche o eventi.
La prassi mette in luce, spesso, un "abuso" nell'utilizzo degli atti
di mero indirizzo, spesso utilizzati per dare "direttive" o veri e
propri "ordini" a uffici o singoli dipendenti circa l'adozione di
conseguenti provvedimenti amministrativi. In questo caso non si tratta di
meri atti di indirizzo, ma di una invasione di competenze (spesso richiesta
da dirigenti e funzionari per "dare copertura" a decisioni difficili)
a discapito del citato principio di separazione.
Tali atti, che violano il principio di separazione fra tecnica e politica,
non solo non trovano fondamento nell'art. 49, ma appaiono addirittura ex
se illegittimi (o potenzialmente "disapplicabili").
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 08.06.1990 n. 142, art. 53 - D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, art. 49 - D.L.
10.10.2012, n. 174, art. 3
Riferimenti di giurisprudenza
Cass. Pen. Sez. III Sentenza, 29.01.2013, n. 13746 - C. Conti Lombardia Sez.
contr. Delibera, 05.03.2014, n. 96 - Cons. Stato, Sez. V, 15.02.2000, n. 808
- TAR Sicilia Catania Sez. I Sent., 03.05.2007, n. 759 - TAR Sardegna
Cagliari Sez. II, 19.05.2006, n. 1022 - TAR Campania, Napoli, Sez. I,
13.05.2004, n. 8718 - TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 09.01.1995, n. 26
(01.10.2015 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'art.
49 del TUEL recante "Pareri dei responsabili dei servizi", concerne i pareri
di regolarità tecnica e contabile sulle proposte di deliberazione della
Giunta e del Consiglio.
Al riguardo si chiede un approfondimento, supportato anche dalla
giurisprudenza, circa i concetti di "mero atto di indirizzo" e "riflessi
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio
dell'ente".
L'art. 49, comma 1, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, prima delle modifiche
apportate dall'art. 3, comma 1, lett. b), D.L. 10.10.2012, n. 174,
convertito con L. 07.12.2012, n. 213 stabiliva che "Su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla giunta ed al consiglio che non sia mero atto
di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla sola regolarità
tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti
impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in
ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione".
Per effetto del D.L. 10.10.2012, n. 174, la versione attuale dell'art. 49,
comma 1, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 recita come segue: "Su ogni proposta
di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto
di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità
tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti
riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla
regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione".
Evidente che le modifiche riguardano esclusivamente i presupposti
dell'obbligatorietà del parere del responsabile di ragioneria in ordine alla
regolarità contabile, avendo la novella sostituito l'espressione "impegno
di spesa o diminuzione di entrata" con il riferimento ai "riflessi
diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio
dell'ente".
Ai fini dell'interpretazione della norma de qua, può essere utile
richiamare Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per le Marche,
parere 05.06.2013 n. 51.
In merito al concetto di "mero atto di indirizzo", la Deliberazione
richiama alcune precedenti pronunce del giudice amministrativo. In
particolare, si segnalano:
1) TAR Campania, Salerno, Sez. II, 12.04.2005, n. 531, secondo cui
la categoria degli atti di mero indirizzo ricomprende "gli atti che,
senza condizionare direttamente la gestione di una concreta vicenda
amministrativa, impartiscono agli organi all'uopo competenti le direttive
necessarie per orientare l'esercizio delle funzioni ad essi attribuite in
vista del raggiungimento di obiettivi predefiniti";
2) TAR Piemonte, Torino, Sez. II, 14.03.2013, n. 326 che ha
qualificato mero atto di indirizzo una delibera in cui venivano compiute
scelte di programmazione della futura attività a fronte della drastica
riduzione delle risorse economiche sofferte dall'ente interessato, scelte
che peraltro necessitavano ulteriori atti di attuazione e di recepimento,
anche se di natura vincolata, da parte di altri organi e dirigenti dell'ente
stesso;
3) Cons. Stato Sez. VI, 10.10.2006, n. 6014 che ha escluso, nel
caso di specie, la qualificazione di un atto come atto di mero indirizzo
sulla base della motivazione che segue: "Peraltro, neppure si può parlare
di atto di indirizzo politico, che potrebbe consistere, nel caso, nella
manifestazione di una volontà tesa a porre obiettivi per l'attività di
livello normativo spettante ad organi comunali, perché il contenuto
dell'atto non pare in alcun modo correlabile con la prefissione di
obiettivi, in qualche modo dotati di astrattezza e generalità, per una
presunta e non identificabile attività normativa dell'organo consiliare o
della Giunta. Assorbente al riguardo è il rilievo che il contenuto dell'atto
consiste nella pretesa e conclamata volontà di tutelare un interesse
pubblico specifico con riferimento ad un caso concreto, con un'integrale
corrispondenza alla tipologia dell'atto amministrativo provvedimentale".
In merito alla seconda questione, relativa all'espressione "riflessi
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente",
la Deliberazione ha evidenziato che "non vi è dubbio che questa possa
ingenerare problemi applicativi, sotto il profilo della estensione del
rapporto "causa-effetto" astrattamente ipotizzabile tra il contenuto della
proposta di deliberazione sottoposta a parere e la situazione
economico-finanziaria o patrimoniale dell'ente. Il criterio interpretativo
deve pertanto essere incentrato sulla probabilità che certe conseguenze si
verifichino nell'esercizio finanziario in corso o nel periodo considerato
dal bilancio pluriennale. Ulteriore criterio utile a definire l'ambito di
applicazione della norma è il vincolo del rispetto dell'equilibrio del
bilancio, oggi costituzionalizzato nel novellato art. 119, comma 1, Cost.
(in vigore dal 2014)" (sottolineatura aggiunta).
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49
Riferimenti di giurisprudenza
C. Conti Marche Sez. contr., Delib., 05.06.2013, n. 51 - Cons. Stato Sez.
VI, 10.10.2006, n. 6014 - TAR Piemonte, Torino, Sez. II, 14.03.2013, n. 326
- TAR Campania, Salerno, Sez. II, 12.04.2005, n. 531
(08.10.2014 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Con
riferimento all'art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 e ss.mm.ii., si
chiedono chiarimenti, anche con esempi, in merito al parere richiesto al
responsabile di ragioneria, qualora la proposta di deliberazione da
sottoporre alla Giunta o al Consiglio, comporti riflessi indiretti sulla
situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente.
La Corte dei Conti, sezione regionale controllo Marche, con deliberazione n.
51 del 04.06.2013, ha reso un parere che ad oggi costituisce il più
autorevole sforzo interpretativo dell'art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267
come modificato dall'art. 3, comma 1, lett. b), D.L. 10.10.2012, n. 174,
convertito in L. 07.12.2012, n. 213.
La massima fondamentale, che innanzitutto va tratta per orientarsi nel
cogliere le novità introdotte nell'art. 49 in argomento, è che il
responsabile del servizio finanziario ha l'onere di valutare gli aspetti
sostanziali della deliberazione dai quali possano discendere effetti
economico-patrimoniali per l'ente.
Tale massima discende ex lege dall'esonero per il mero atto di
indirizzo, concetto nel quale rientrano le scelte di programmazione della
futura attività, che "necessitano di ulteriori atti di attuazione e di
recepimento" da adottarsi da parte dei dirigenti preposti ai vari
servizi, secondo le proprie competenze (cfr. TAR Piemonte Torino Sez. II,
Sent., 14.03.2013, n. 326; TAR Lombardia Milano Sez. III, Sent., 10.12.2012,
n. 2991).
Con siffatta scrematura, appare evidente, come del resto è fatto osservare
nel quesito, che il campo delle decisioni politiche prive di effetti diretti
ed indiretti sui conti dell'ente amministrato è assai ristretto.
Nulla quaestio, secondo la citata sezione regionale di controllo della Corte
dei conti, riguardo ai "riflessi diretti": la nuova formulazione
dell'art. 49 consente di ritenere che nel concetto siano ricompresi
certamente gli effetti finanziari già descritti nella disposizione
previgente ("impegno di spesa o diminuzione di entrata"), a cui vanno
aggiunte le variazioni economico-patrimoniali conseguenti all'attuazione
della deliberazione proposta.
Riguardo invece ai riflessi indiretti, concetto che sta generando i maggiori
dubbi applicativi, la Corte propende per un criterio interpretativo
incentrato sulla probabilità che certe conseguenze si verifichino
nell'esercizio finanziario in corso o nel periodo considerato dal bilancio
pluriennale; ulteriore criterio utile a definire l'ambito di applicazione
della norma è il vincolo del rispetto dell'equilibrio del bilancio, oggi
costituzionalizzato nel novellato art. 119, comma 1, Cost. (in vigore dal
2014).
Sostanzialmente i riflessi indiretti sono quelli potenziali in virtù
dell'adozione di un atto che (anche eventualmente) è soltanto preliminare o
prodromico ad altro atto che comporti effettiva nuova spesa, entrata o
variazione patrimoniale. Tale potrebbe essere l'atto di indirizzo di
ricognizione e valutazione del patrimonio immobiliare al fine della
successiva dismissione.
Riguardo alle modalità di espressione del parere, la Corte riconosce la
difficoltà di indicare un criterio uniforme, poiché il tema della
quantificazione degli oneri o delle conseguenze economico-patrimoniali
conseguenti all'esecuzione di un provvedimento amministrativo risente
dell'applicazione della normativa di natura sostanziale disciplinante una
determinata materia e, soprattutto, dell'ineliminabile scostamento tra la
mera previsione e la realizzazione effettiva di un dato fenomeno incidente
sugli equilibri di bilancio o patrimoniali.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49
Documenti allegati
C. Conti Marche Sez. contr., Delib., 04.06.2013, n. 51
(10.01.2014 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
un Comune di 9000 abitanti il titolare di U.O. (responsabile dell'area
economico-finanziaria) è inquadrato in cat. D3.
Il funzionario responsabile dei tributi nominato dalla Giunta comunale
secondo l'art. 11, comma 4, del D.Lgs. 30.12.1992, n. 504 e artt. 11, 54 e 74
del D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, oltre che responsabile IMU e TARES è un
dipendente appartenente alla stessa area, ma non è apicale in quanto in cat.
D2.
Si chiede chi dei due debba esprimere il parere tecnico sulle delibere che
riguardano i tributi ai sensi dell'art. 49 e 147-bis D.Lgs. 18.08.2000, n.
267.
Preliminarmente, si ricorda la normativa di riferimento per la risposta al
quesito:
- Art. 49, comma 1, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, avente ad oggetto
"Pareri dei responsabili dei servizi":
"Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che
non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine
alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e,
qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di
ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella
deliberazione";
- Art. 50, comma 10, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, avente ad oggetto
"Competenze del sindaco e del presidente della provincia":
"Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli
uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali
e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri
stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e
regolamenti comunali e provinciali";
- Art. 11 comma 4 del D.Lgs. 30.12.1992, n. 504, avente ad oggetto
"Liquidazione ed accertamento":
"Con delibera della giunta comunale è designato un funzionario cui sono
conferiti le funzioni e i poteri per l'esercizio di ogni attività
organizzativa e gestionale dell'imposta; il predetto funzionario sottoscrive
anche le richieste, gli avvisi e i provvedimenti, appone il visto di
esecutività sui ruoli e dispone i rimborsi".
Alla luce del quadro normativo sopra esposto, si può affermare che il
responsabile della gestione del tributo si configura come un referente
preciso, individuato dalla Giunta, per svolgere tutte le funzioni di
carattere organizzativo e gestionale in relazione ad ogni tributo (avvisi di
accertamento, di liquidazione, rimborsi, emissione di ruoli ecc...). Tale
ruolo, che di norma viene conferito al responsabile del servizio tributi,
può ben essere assegnato ad un dipendente interno al servizio stesso; in tal
caso, l'assunzione di atti a rilevanza esterna, diversi da quelli
individuati in capo al funzionario responsabile del tributo, competerà
esclusivamente al responsabile del servizio tributi.
A parere dello scrivente, stante quanto sopra ricordato, l'espressione del
parere tecnico sulle delibere inerenti la disciplina dei tributi non potrà
che competere al responsabile del servizio stesso, in ossequio all'art. 49
del T.U.E.L. sopra citato; quindi, nel caso specifico, il responsabile
inquadrato in categoria D2 di codesto Ente dovrà firmare il parere tecnico
solamente nel caso in cui sia stato nominato, con atto formale del Sindaco,
quale responsabile del servizio tributi; diversamente, se il dipendente
inquadrato in categoria D3, responsabile dell'area economico finanziaria, è
stato nominato anche responsabile del servizio tributi è allo stesso che
spetterà di firmare il parere tecnico sulle deliberazioni in materia,
indipendentemente dal fatto che altri soggetti siano stati nominati
funzionari responsabili.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267,
art. 49 - D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 50 - D.Lgs. 30.12.1992, n. 504,
art. 11 - D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, art. 11 - D.Lgs. 15.11.1993, n. 507,
art. 54 - D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, art. 74
(27.06.2013 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per
quali atti il responsabile del servizio finanziario deve rilasciare il
parere, alla luce delle disposizioni del D.L. n. 174/2012?
L'art. 3 del D.L. 10.10.2012, n. 174 convertito in legge, con modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, L. 07.12.2012, n. 213 ha sostituito l'art. 49 del
T.U.E.L. prevedendo che: "Su ogni proposta di deliberazione sottoposta
alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere
richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del
responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente,
del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri
sono inseriti nella deliberazione.
Omissis
I soggetti di cui al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile
dei pareri espressi.
Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al
presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della
deliberazione".
Il D.L. 10.10.2012, n. 174 ha ampliato la casistica degli atti per i quali è
obbligatorio acquisire il parere di regolarità contabile che deve essere
rilasciato, oltre che sugli atti che comportano impegni di spesa o
diminuzioni di entrata, come in precedenza, anche su tutti gli atti che
comportano riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente.
Qualora l'organo esecutivo o il Consiglio non intendano conformarsi al
parere del funzionario, a differenza di quanto disposto dalla suddetta
normativa prima della modifica, devono darne adeguata motivazione nel testo
del provvedimento.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49 - D.L. 10.10.2012, n. 174, art. 3
(26.06.2013 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Con
riferimento al novellato art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267 si chiede di
specificare l'esatta distinzione tra responsabilità amministrativa e
contabile e in che modo il responsabile di ragioneria risponde in via
amministrativa del citato parere.
In particolare si chiede se può rifiutarsi di apporre il parere di
regolarità contabile restituendo al proponente tecnico una proposta di
deliberazione, qualora constati irregolarità concernenti il parere tecnico
già apposto.
La recente giurisprudenza di alcune Sezioni giurisdizionali della Corte dei
Conti ha ribadito che il parere di regolarità contabile di cui all'art. 49
del T.U.E.L. non può limitarsi a verificare l'esistenza della copertura
finanziaria in relazione a provvedimenti deliberativi degli organi di
indirizzo politico-amministrativo, ma deve necessariamente operare una
verifica sulla legittimità della spesa.
In questo senso:
- Corte dei Conti Toscana Sezione Giurisdizionale Sentenza
25.03.2010, n. 114.
"Considerato, infatti, che l'art. 49, terzo comma, D.Lgs. 267/2000,
prevede che i responsabili dei servizi interessati e della ragioneria
rispondano, in via amministrativa e contabile, dei pareri di regolarità
tecnica e contabile previsti dal primo comma dello stesso articolo, è
evidente che, a fortiori, debba ritenersi che del danno conseguente agli
indebiti pagamenti effettuati in esecuzione di una delibera debba rispondere
il responsabile del servizio competente, omissis.... Se può certamente
convenirsi sul rilievo che il legislatore non attribuisce alcun potere
discrezionale e di merito al responsabile del servizio finanziario in sede
di espressione del parere di regolarità contabile, non può di converso
consentirsi sull'assunto difensivo per cui ne esulerebbe qualunque
accertamento sulla legittimità della spesa.
Contrariamente all'assunto difensivo, il parere di regolarità contabile
investa anche e soprattutto la legittimità della spesa. Depone, in tal
senso.... omissis .... la considerazione che, a termini dell'art. 184,
quarto comma, D.Lgs. 267/2000, il servizio finanziario -cui è preposto il
ragioniere cui il precedente l'art. 49 demanda l'espressione del parere di
regolarità contabile- deve effettuare "secondo i principi e le procedure
della contabilità pubblica, i controlli e riscontri amministrativi,
contabili e fiscali sugli atti di liquidazione", e che, come è dato evincere
dall'art. 147, primo comma, lett. a), D.Lgs. cit., in tema di controlli
interni, la regolarità amministrativa e contabile, oggetto dei controlli e
dei riscontri demandati al servizio finanziario, si identifica con "la
legittimità, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa", sicché
sarebbe evidentemente incongrua un'interpretazione per cui, in sede di
espressione del parere di regolarità contabile di cui all'art. 49 D.Lgs. cit.,
che si colloca a monte delle fasi di gestione della spesa pubblica, il
responsabile del servizio finanziario non fosse tenuto ad evidenziare
l'illegittimità della spesa oggetto della proposta di deliberazione.
...omissis ... Né, in contrario, può argomentarsi dalla circostanza che, ove
il parere di regolarità contabile investisse anche la legittimità della
spesa, potrebbe verificarsi (in specie nelle ipotesi in cui il responsabile
del servizio, competente ad esprimere il "parere di regolarità tecnica",
fosse investito di competenze più propriamente amministrative che tecniche)
una possibile "sovrapposizione di competenza", con le conseguenze .. di una
"confusione di ruoli e, soprattutto, di responsabilità" omissis ... Alla
luce delle suesposte considerazioni, deve ritenersi che il parere di
regolarità contabile investa necessariamente anche la legittimità delle
deliberazioni proposte".
- Corte dei Conti Puglia Sezione Giurisdizionale Sentenza
01.03.2006, n. 207;
- Corte dei Conti Sicilia Sezione Giurisdizionale Sentenza
23.03.2011, n. 1058.
In merito al secondo quesito, si precisa che il responsabile del servizio
finanziario risponde in via amministrativa per danni causati all'ente
nell'ambito del rapporto di lavoro, qualora ponga in essere una condotta
dolosa o gravemente colposa che abbia causato un danno all'erario, quindi
anche attraverso il rilascio di un parere contabile che avalli una spesa non
legittima, nel senso sopra riportato.
In merito al terzo quesito, si ritiene che il responsabile del servizio
finanziario debba rifiutarsi di rilasciare un parere contabile favorevole su
proposte tecniche che importino una spesa non legittima, anche qualora
riscontri la copertura finanziaria; ovviamente, ciò non implica un controllo
su tutti gli atti tecnici propedeutici all'adozione della proposta, ma solo
sugli aspetti legati alla legittimità della spesa (esempio: nell'atto di
impegno di spesa per la manutenzione di un'autovettura il responsabile del
servizio finanziario non avrà l'onere di verificare la correttezza della
procedura di gara con cui è stato scelto il soggetto che effettuerà la
manutenzione stessa, ma dovrà accertare, oltre all'ovvia esistenza della
copertura finanziaria, che l'atto non violi le limitazioni poste dalla legge
a tale tipologia di spesa dal D.L. 31.05.2010 n. 78).
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, art. 49
Riferimenti di giurisprudenza
Corte dei Conti Sicilia, Sez. Giurisdiz., sentenza 23.03.2011, n. 1058 -
Corte dei Conti Puglia, Sez. Giurisdiz., sentenza 01.03.2006, n. 207
Documenti allegati
Corte dei Conti Toscana, Sez. Giurisdiz., sentenza 25.03.2010, n. 114
(02.01.2013 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PUBBLICO IMPIEGO: Può
l'Amministrazione comunale ridurre i servizi assegnati ad una categoria
giuridica D3 (responsabile area economica e finanziaria - personale -
tributi) e creare un'altra area (tributi e personale) sotto la
responsabilità del Segretario comunale e della Giunta o si può considerare
demansionamento (infatti è da tener presente che il responsabile dell'area
amministrativa è stata sottoposta ad un intervento oncologico)?
Si chiede se tale atteggiamento è regolare visto che la delibera con cui è
stata modificata la pianta organica è stata approvata dalla Giunta senza la
preventiva informazione alle Organizzazioni sindacali e parere revisore dei
conti.
Ai sensi dell'art. 5 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, come modificato dal D.Lgs. 27.10.2009, n. 150 "Le amministrazioni pubbliche assumono ogni
determinazione organizzativa al fine di assicurare l'attuazione dei princìpi
di cui all'articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse
dell'azione amministrativa. Nell'ambito delle leggi e degli atti
organizzativi di cui all'articolo 2, comma 1, le determinazioni per
l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei
rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla
gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatta
salva la sola informazione ai sindacati, ove prevista nei contratti".
Pertanto, se la scelta di creare un'altra area risponde alle finalità di cui
all'art. 2, comma 1, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, codesto Ente può
legittimamente, nella piena autonomia, approvare una riorganizzazione dei
servizi, per la quale comunque, ai sensi dell'art. 7, comma 1, del CCNL
01.04.1999, occorreva informare le OO.SS. ed acquisire il parere del
collegio dei revisori, in quanto è stata riapprovata la dotazione organica
che, probabilmente, potrebbe determinare una maggiore spesa di personale. Si
fa presente, comunque, in merito alla scelta di affidare la responsabilità
della nuova area "al Segretario ed alla Giunta" il disposto dei seguenti
articoli:
- art. 49, comma 2, del TUEL;
- art. 97, comma 4, lettera d), del TUEL;
- art. 109, comma 2, del TUEL;
- art. 53, comma 23, della L. 23.12.2000, n. 388.
Qualora, invece, come pare di capire dal quesito, la nuova organizzazione
sia stata attuata in seguito alla malattia del soggetto che finora ha
ricoperto il ruolo di responsabile dei servizi indicati nella domanda, si
ritiene che, sulla base della ricostruzione dell'intera vicenda e di tutti
gli elementi di fatto e di diritto della stessa (di cui chi risponde non è a
conoscenza), il soggetto interessato potrebbe avviare una vertenza davanti
al Giudice del Lavoro per demansionamento; resta inteso, però, che
l'Amministrazione avrebbe comunque il diritto a riorganizzare i servizi,
togliendo la responsabilità di alcuni di essi ad un soggetto affetto da una
patologia tale che ne comprometta permanentemente la concreta possibilità di
gestione dei medesimi, perché, in tal caso, la scelta sarebbe motivata dal
superiore interesse pubblico.
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Riferimenti normativi e contrattuali
Acc. 01.04.1999, art. 7 - D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49 - D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, art. 97 - D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 109 - L.
23.12.2000, n. 388, art. 53 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 2 - D.Lgs.
30.03.2001, n. 165, art. 5
(31.03.2011 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
parere di regolarità tecnica su un atto deliberativo del Consiglio o della
Giunta deve essere congruamente motivato dal responsabile del servizio
competente?
I pareri di regolarità tecnica previsti dall'art. 49, D.Lgs. 18.08.2000, n.
267, (T.U.E.L.), non necessitano di motivazione, la quale è un requisito del
provvedimento, e non già degli atti prodromici.
Detta motivazione potrà esservi e potrà costituire un riferimento del
provvedimento finale ma non è elemento proprio ed indefettibile del parere
di regolarità.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 31.07.2006, n. 4704
(15.05.2009 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
aggiornamento al
17.08.2020 |
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EDILIZIA PRIVATA:
E' pervenuta al Comune una proposta progettuale concernente il
cambio di destinazione d'uso da deposito a distribuzione commerciale
all'ingrosso.
L'edificio oggetto della richiesta, avendo destinazione d'uso "deposito"
usufruisce dell'esenzione dal pagamento del costo di costruzione (art. 19,
comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) per le attività produttive/artigianali.
Si chiede se, ai sensi dell'art. 23-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e
dell'art. 4, L.R. Puglia 16.04.2015, n. 24, l'attività di commercio
all'ingrosso sia da considerarsi produttiva di un mutamento della categoria
funzionale di appartenenza (nella specie, da produttiva/artigianale a
commerciale, precisando, tra l'altro, che l'intervento proposto non sarebbe
urbanisticamente rilevante in quanto la superficie oggetto del cambio d'uso
è nettamente inferiore al 50% della superficie totale del capannone, che
resta ad uso deposito/logistica e quindi produttiva).
Al fine di dare adeguata risposta al quesito giova precisare quanto segue.
Preliminarmente occorre affrontare la questione di principio sottesa al
concetto di cambio di destinazione e per farlo pare opportuno richiamare
alcuni chiarimenti forniti dalla Giurisprudenza in materia.
Il cambio destinazione uso, anche se attuato senza la realizzazione di opere
edilizie, comporta l'obbligo di corrispondere al Comune il contributo di
costruzione di cui all'art. 16, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per la
quota-parte commisurata agli oneri di urbanizzazione ed in misura rapportata
alla differenza tra quanto dovuto per la nuova destinazione rispetto a
quella già in atto, allorquando la nuova destinazione sia idonea a
determinare un aumento quantitativo e/o qualitativo del carico urbanistico
della zona, inteso come rapporto tra insediamenti e servizi.
Il mutamento di destinazione uso comporta di per sé che la quota parte
relativa al costo di costruzione è comunque dovuta "...anche in presenza
di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica
di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi,
situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per
ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico" (Cons.
Stato, Sez. IV, 03.09.2014, n. 4483).
Pertanto, alla luce di quanto sopra, nel caso di specie è indubbio che il
cambio di destinazione d'uso da deposito a distribuzione commerciale
all'ingrosso "si rivela produttivo di vantaggi economici connessi"
(per usare l'espressione giurisprudenziale sopra citata) e quindi ad avviso
di chi scrive comporta l'obbligo di pagare il relativo importo afferente al
contributo di costruzione.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 16
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato, Sez. IV, 03.09.2014, n. 4483 (27.07.2020 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
LA LEGGE REGIONALE N. 18/2019 - MISURE DI
SEMPLIFICAZIONE E INCENTIVAZIONE PER LA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE
- Domande dei partecipanti e risposte della D.G. Territorio e Protezione
Civile della Regione Lombardia (21.07.2020 - tratto da https://architettibergamo.it).
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ANCE Bergamo, in collaborazione con gli ordini professionali, ha
organizza un convegno on-line sulla Legge Regionale n. 18/2019, che contiene
misure di incentivazione e semplificazione per la rigenerazione urbana e
territoriale ed ha l'obiettivo di favorire la riqualificazione di edifici e
aree, superando i fenomeni di degrado urbano e migliorando la qualità del
costruito con incentivi economici e volumetrici per il recupero. |
COMPETENZE GESTIONALI:
Organo competente al rilascio del permesso di costruire – art. 22, L.R. n.
19/2009; art. 107 del TUEL.
L'art. 107 del TUEL prevede il principio della
separazione tra competenze gestionali dei dirigenti e funzioni di indirizzo
politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente e in particolare
attribuisce ai dirigenti “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o
analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di
natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge,
dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le
autorizzazioni e concessioni edilizie” (comma 3, lett. f).
La giurisprudenza amministrativa ha osservato che la concessione edilizia è
un atto per sua natura vincolato, sicché rientra nell'ambito specifico della
gestione amministrativa.
L'art. 22, comma 1, L.R. n. 19/2009, nell'ambito della competenza primaria
della Regione, in materia di ordinamento degli enti locali e in materia
urbanistica, dispone che “Il permesso di costruire è rilasciato dal Sindaco
o dal dirigente o responsabile del competente ufficio comunale, in relazione
alle competenze individuate dallo statuto comunale...".
In assenza di previsione statutaria dell'ente al riguardo, si ritiene che la
competenza in ordine al rilascio del permesso di costruire sia del
dirigente/responsabile del servizio, in applicazione del principio di
separazione delle funzioni, di cui all'art. 107, del TUEL, riconducibile
all'art. 97 della Costituzione, come affermato dalla Corte costituzionale.
Il Comune chiede un parere in merito all'organo competente a rilasciare il
permesso di costruire, ai sensi dell'art. 22, L.R. n. 19/2009, tenuto conto
che lo statuto comunale nulla prevede al riguardo e considerate le
disposizioni di cui all'art. 107 del TUEL in ordine alla separazione tra
competenze gestionali dei dirigenti e funzioni di indirizzo
politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente.
Sentito il Servizio pianificazione paesaggistica, territoriale e strategica
della Direzione centrale infrastrutture e territorio, competente ad
esprimersi in particolare sull’interpretazione ed applicazione delle
disposizioni del Codice regionale dell'edilizia, si espongono le seguenti
considerazioni.
L'art. 22, comma 1, L.R. n. 19/2009, dispone che “Il permesso di
costruire è rilasciato dal Sindaco o dal dirigente o responsabile del
competente ufficio comunale, in relazione alle competenze individuate dallo
statuto comunale, in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
L'art. 107 del TUEL ha attribuito ai dirigenti tutti i compiti di attuazione
degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati
dagli organi di governo dell'ente (comma 3) e, in particolare, “i
provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel
rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti
generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e concessioni edilizie”
(comma 3, lett. f).
Sul piano dell'ordinamento statale, dunque, la competenza a rilasciare il
permesso di costruire spetta al dirigente comunale, nel rispetto delle
leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici.
In tal senso, si è espressa la giurisprudenza amministrativa secondo cui “poiché
il provvedimento di concessione edilizia non discende dall'esercizio di
poteri di indirizzo e controllo spettanti agli organi politici comunali e
non può, quindi, dirsi espressione dei loro compiti di definizione di
obiettivi e programmi o di determinazione di direttive generali, ma è un
atto, per sua natura vincolato, che rientra nell'ambito specifico della
gestione amministrativa, esso deve ritenersi sottratto alla competenza
dell'assessore delegato, appartenendo più propriamente alla sfera di
attribuzione del dirigente” [1].
Peraltro, l'art. 107, comma 4, del TUEL, consente la deroga alle
attribuzioni dei dirigenti e stabilisce che ciò può avvenire soltanto
espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative.
In proposito si osserva che, secondo l’orientamento della Corte
costituzionale, la separazione tra funzioni di indirizzo
politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa costituisce un
principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’art. 97
Cost. [2]. E in
particolare, la Consulta ha affermato che “l’individuazione dell’esatta
linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo
politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta
al legislatore. [3]”.
Il legislatore regionale, nell'ambito della sua competenza primaria in
materia di ordinamento degli enti locali e in materia urbanistica (art. 4,
comma 1-bis e comma 12, dello Statuto del Friuli Venezia Giulia) ha
previsto, all'art. 22 della L.R. n. 19/2009, che la competenza al rilascio
del permesso di costruire spetta al sindaco o al dirigente, in relazione
alle competenze individuate dallo statuto comunale.
Il legislatore regionale, con la disposizione richiamata, ha inteso
demandare allo statuto comunale –atto che stabilisce le norme fondamentali
dell’organizzazione dell’ente– la determinazione dell’organo competente in
relazione all’adozione del permesso di costruire.
Atteso che lo statuto di codesto Comune non contiene un’espressa indicazione
in ordine all’allocazione della competenza in argomento -fermo che spetta
all’ente l’interpretazione delle proprie disposizioni statutarie- si ritiene
che l’attribuzione di tale potere in capo al dirigente/responsabile del
servizio derivi dall’applicazione del principio generale di separazione
delle funzioni, di cui all’art. 107 del TUEL, espressione dell’art. 97 della
Costituzione.
Si suggerisce, comunque, in via collaborativa, di procedere all’inserimento
nello statuto di una disposizione che individui espressamente l’organo
competente a rilasciare il permesso di costruire.
---------------
[1] Consiglio di Stato, sez. IV, 01.04.2011, n. 2050 e sez. V,
09.10.2007, n. 5232; conformi: TAR Sicilia, Catania, 10.12.2018, n. 2360,
sulla natura vincolata di un provvedimento di diniego di concessione
edilizia in sanatoria; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.12.2007, n. 6674;
TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 05.12.2006, n. 1573.
[2] Si vedano Corte cost., sentenza 03.05.2013, n. 81 e le altre pronunce
della Consulta ivi citate.
[3] La Corte precisa, inoltre, che “a sua volta, tale potere incontra un
limite nello stesso art. 97 Cost.: nell’identificare gli atti di indirizzo
politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non
può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio
di separazione tra politica e amministrazione, ledano l’imparzialità della
pubblica amministrazione” (17.07.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Un dipendente di questo Comune ha fatto domanda di andare in
pensione anticipata.
E' stata adottata una determinazione del funzionario come atto
amministrativo per il riconoscimento dei requisiti per il diritto alla
pensione e per il collocamento a riposo.
Si chiede di sapere se l'adozione di tale sia corretta per la gestione del
rapporto di lavoro o se, ai sensi dell'art. 5, comma 2, D.Lgs. 30.03.2001,
n. 165 fosse più corretto adottare un atto datoriale.
L'adozione di uno o dell'altro atto sono altresì da ritenersi equivalenti ai
fini del riconoscimento della pensione?
Producono, nell'ambito del riconoscimento al diritto della pensione, degli
effetti giuridici differenti in termini di ricorso alle vie giurisdizionali?
Si ritiene che la questione vada letta alla luce di un recente pronuncia
della Suprema Cass. pen. Sez. IV Sent., 20.04.2018, n. 43829.
Detta pronuncia affronta in via incidentale la questione relativa
all'individuazione del datore di lavoro nell'ambito delle pubbliche
amministrazioni specie nell'ipotesi di delega di funzioni.
Nella citata sentenza infatti la Corte una volta definito il Datore di
lavoro come: "...Il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il
lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto
dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività,
ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in
quanto esercita i poteri decisionali e di spesa" individuando detta
definizione sulla scorta di quanto codificato dall'art. 2, lett. b), D.Lgs.
09.04.2008, n. 81, delinea poi gli aspetti specifici che contraddistinguono
detta figura all'interno della pubblica amministrazione".
La Corte quindi rileva che: "nelle pubbliche amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per
datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di
gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli
casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia
gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni
tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei
quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di
spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai
criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice
medesimo" precisando, altresì, che "...l'individuazione del dirigente
(o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è
demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con
l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di
autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita
implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad
articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel
settore specifico." .
Alla luce di quanto delineato dalla Corte quindi viene affermata la
necessità di un atto espresso da parte della pubblica amministrazione
mediante il quale il dirigente o il funzionario viene individuato nella
funzione di datore di lavoro con il conseguente conferimento dei relativi
poteri di autonomia gestionale.
In conclusione quindi nel caso che ci occupa l'atto del funzionario può
ritenersi legittimo ove quest'ultimo sia stato previamente individuato come
soggetto depositario della funzione di Datore di lavoro ovvero, ai sensi
dell'art. 17, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 sia stato delegato dal Dirigente
preposto al compimento di specifiche funzioni tra cui quella oggetto del
quesito.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 1
- D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 17 - D.Lgs. 09.04.2008, n. 81, art. 2
Riferimenti di giurisprudenza
Cass. pen. Sez. IV Sent., 20.04.2018, n. 43829 (06.07.2020 -
tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
aggiornamento al
05.08.2020 |
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INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Decorrenza
incentivi.
Domanda
Come noto la Corte dei Conti – Sezione Autonomie – con la delibera n.
26/2019, ha espresso l’indirizzo in merito agli incentivi tecnici di cui
all’art. 113, comma 2, del d.lgs. 50/2016 e tetto dei trattamenti accessori
di cui all’art. 1, comma 236, della l. 208/2015.
Come funziona l’esatto limite temporale?
Risposta
La nuova disciplina (svincolo dai tetti di spesa del personale), inizia ad
applicarsi alle procedure la cui programmazione della spesa è approvata dopo
il 01.01.2018, stante la intima compenetrazione sussistente tra tale
programmazione ed i relativi stanziamenti con accantonamento di risorse nel
Fondo costituito ai fini della successiva ripartizione e liquidazione dei
compensi incentivanti.
Per cui la nuova dimensione elastica, inizia ad applicarsi ai contratti
pubblici il cui progetto dell’opera o del lavoro siano stati approvati ed
inseriti nei documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 (cfr. Corte dei
Conti, sezioni regionali di controllo, Lazio n. 57/2018, Lombardia n. 258
del 27.09.2018 e n. 304 del 06.11.2018) (30.07.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Questo
Comune ha dichiarato il dissesto finanziario, ai sensi dell'art. 244 del
TUEL, nel corso dell'esercizio 2018.
Il Comune, per consentire la rilevazione della massa passiva, ha trasmesso
all'OSL (organo straordinario di liquidazione), nominato ed insediato nel
gennaio 2019, un elenco dei debiti fuori bilancio per fatti ed atti di
gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello
dell'ipotesi di bilancio riequilibrato, pur in mancanza della delibera
consiliare di riconoscimento prescritta dall’art. 194 del Tuel.
L'OSL ha eccepito che i predetti debiti, pur ricadendo nell'arco temporale
di propria competenza, necessitano della preventiva deliberazione del
Consiglio Comunale.
Si chiede se l'indicazione fornita dall'OSL sia corretta.
Il quesito proposto, a differenza di orientamenti consolidati da parte delle
Sezioni Regionali della Corte dei Conti che si erano quasi sempre espresse,
nella situazione di cui trattasi di Enti in dissesto finanziario ex art. 244
del TUEL, nel favor del preventivo riconoscimento dei debiti fuori bilancio
da parte dell'organo consiliare, ai sensi dell'art. 194 del TUEL (cfr.
parere Corte dei Conti Puglia Sez. contr. Delib., 14.11.2019, n. 104 e
parere Corte dei Conti Sicilia Sez. contr. Delib., 17.06.2019, n. 124), ha
trovato recente soluzione nella Corte dei Conti, sezione Autonomie Delib. n.
12/SEZAUT/2020/QMIG pubblicata lo scorso 20 luglio.
I magistrati contabili della sezione autonomie hanno pertanto,
contrariamente a quanto disciplinato in precedenza dai colleghi delle
sezioni regionali, sancito un principio fondamentale ovvero quello secondo
il quale "Per i debiti fuori bilancio rinvenienti da atti e fatti di
gestione verificatisi entro il 31 dicembre precedente a quello dell'ipotesi
di bilancio stabilmente riequilibrato, non assume carattere indefettibile la
previa adozione della deliberazione consiliare di riconoscimento, spettando
all'organo straordinario di liquidazione ogni valutazione sull'ammissibilità
del debito alla massa passiva".
La Corte dei Conti, infatti, ha stabilito che il discrimine fondamentale che
dirime la questione è la distinzione tra la "gestione ordinaria" e la
"gestione straordinaria" dell'Ente locale che si avvia con la
dichiarazione del dissesto finanziario ex art. 244 del TUEL creando un c.d.
"microsistema extra ordinem" al quale vanno ricondotte le
disposizioni che regolano, nel dettaglio, l'intera attività dell'organo
straordinario di liquidazione ed al quale va riconosciuto un proprio statuto
informato al principio della par condicio creditorum ed alla tutela
della concorsualità.
Di qui, dunque, la possibilità di operare un netto discrimen tra le
regole ordinarie che presidiano la gestione dell'Ente in bonis e quelle
proprie, eccezionali ed inderogabili applicabili alla gestione dissestata
che prevedono "non solo procedure straordinarie ad hoc per il dissesto,
ma anche competenze straordinarie ad hoc ed un organo straordinario ad hoc,
in funzione sostitutiva di quelli ordinari".
Sulla scorta di quanto detto, non può che affermarsi che, per gli Enti in
dissesto, al fine del riconoscimento dei debiti fuori bilancio rivenienti da
atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre a quello
dell'ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, la deliberazione di
Consiglio Comunale di riconoscimento di debiti fuori bilancio ex art. 194
del TUEL non è condizione necessaria per la rilevazione degli stessi nella
massa passiva da parte dell'organo straordinario di liquidazione che può
autonomamente procedere sulla valutazione dell'ammissibilità del debito di
cui trattasi.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art.
194 - D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 244 - D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art.
253 - D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 254
Riferimenti di giurisprudenza
Corte dei Conti Sicilia Sez. contr. Delib., 17.06.2019, n. 124 - Corte dei
Conti Puglia Sez. contr. Delib., 14.11.2019, n. 104
Documenti allegati
Corte dei Conti, sezione Autonomie Delib. n. 12/SEZAUT/2020/QMIG
(29.07.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Il
DURC dopo il decreto semplificazioni.
Domanda
È possibile richiamare la normativa che prevede la conservazione della
validità dei documenti scaduti nel periodo compreso tra il 31.01.2020 e il
31.07.2020, per i successivi novanta giorni alla dichiarazione di cessazione
dello stato di emergenza, anche con riferimento al DURC, ai fini
dell’aggiudicazione di un appalto?
Risposta
Con la pubblicazione del d.l. 19.05.2020 n. 34, ed in particolare con l’art.
81, co. 1, viene modificato l’art. 103, co. 2, primo periodo, del d.l.
17.03.2020 n. 18, convertito in legge 24.04.2020 n. 27, in materia di
sospensione dei termini nei procedimenti amministrativi, con l’inserimento
di una disposizione specifica relativa ai DURC, che si riporta in grassetto:
“Tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e
atti abilitativi comunque denominati, compresi i termini di inizio e di
ultimazione dei lavori di cui all’articolo 15 del testo unico di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, in scadenza tra
il 31.01.2020 e il 31.07.2020, conservano la loro validità per i novanta
giorni successivi alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza,
ad eccezione dei documenti unici di regolarità̀
contributiva in scadenza tra il 31.01.2020 ed il 15.04.2020, che conservano
validità̀ sino al 15.06.2020”.
In sede di conversione del decreto, con la legge 17.07.2020 n. 77, il sopra
citato comma 1 dell’art. 81, viene soppresso, e per l’effetto, come indicato
anche sui siti dell’Inail e dell’Inps, i durc con scadenza compresa tra il
31.01.2020 e il 31.07.2020 conservano la loro validità fino al 29.10.2020.
Disposizione che tuttavia non si applica, ai sensi dell’art. 8, co. 10, del
d.l. 16.07.2020 n. 76 c.d. “decreto semplificazioni” nel caso di verifiche
dell’operatore aggiudicatario di un appalto o per la stipula del contratto
[1].
Al momento sia l’Inail che l’Inps hanno riportato sui loro siti
esclusivamente un comunicato sulle diverse e vigenti disposizioni normative
con riferimento ai DURC, ma non hanno ancora emanato circolari operative
sulle differenti modalità di consultazione e/o richiesta degli stessi, in
base alle specifiche funzioni della certificazione.
È opportuno tuttavia segnalare che in questo periodo con riferimento alla
visualizzazione e rilascio dei DURC, i due siti, quello
dell’Inail e
quello dell’Inps, non sono allineati, tanto che alcuni
certificati sono visualizzabili in un sito ma non nell’altro. In attesa che
venga risolto il problema, per evitare ritardi nell’efficacia
dell’aggiudicazione e/o stipula dei contratti, si consiglia una doppia
consultazione.
----------------
[1] L’art. 8, co. 10. d.l. 76/2020 In ogni caso in cui per la selezione
del contraente o per la stipulazione del contratto relativamente a lavori,
servizi o forniture previsti o in qualunque modo disciplinati dal presente
decreto, è richiesto di produrre documenti unici di regolarità contributiva
di cui al decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
30.01.2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 125 del 01.06.2015,
ovvero di indicare, dichiarare o autocertificare la regolarità contributiva
ovvero il possesso dei predetti documenti unici, non si applicano le
disposizioni dell’articolo 103, comma 2, del decreto-legge n. 18 del 2020,
relative alla proroga oltre la data del 31.07.2020 della validità dei
documenti unici di regolarità contributiva in scadenza tra il 31.01.2020 e
il 31.07.2020 (29.07.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Procedure
connesse all’assunzione di incarichi extra istituzionali.
Domanda
Un dipendente comunale ha svolto nei mesi scorsi, per conto di una società
privata, alcuni incarichi retribuiti di docenza ed ora si è rivolto
all’ufficio personale dell’Amministrazione per poter essere autorizzato, ai
sensi dell’art. 53, comma 9, del d.lgs. 165/2001.
L’impiegato si è scusato dicendo di non conoscere la normativa e ha chiesto
di poter sanare nel timore di incorrere in sanzioni.
Come si deve regolare l’Amministrazione?
Risposta
In linea generale, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni possono
svolgere incarichi retribuiti conferiti da altri soggetti, pubblici o
privati, solo se autorizzati dall’amministrazione di appartenenza.
L’articolo 53, del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165, dispone, al comma
7, che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti
che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione
di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica
l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi…”
e, ai commi 8 e 9, precisa che, dal canto loro, le pubbliche
amministrazioni, gli enti pubblici economici e i soggetti privati non
possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa
autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi.
La tipologia di incarico in questione rientra fortunatamente in una delle
deroghe elencate nel comma 6 [1],
del medesimo art. 53; ai sensi della lettera f-bis), infatti, per le “attività
di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di
docenza e di ricerca scientifica”, non è necessario acquisire
l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza.
L’occasione è utile tuttavia per ricordare alcuni aspetti della disciplina
degli incarichi extraistituzionali e, in particolare, quali siano le
conseguenze in caso di violazione del divieto di cui al comma 7 e se sia
possibile acquisire la prescritta autorizzazione dopo lo svolgimento
dell’incarico.
In caso di inosservanza del divieto, il compenso dovuto per le prestazioni
svolte deve essere versato, a cura del soggetto che lo eroga o, in difetto,
del dipendente che lo percepisce, all’Amministrazione di appartenenza del
dipendente.
L’omissione del versamento delle somme percepite costituisce ipotesi di
responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti.
Resta ferma, altresì, la responsabilità disciplinare del dipendente che ha
svolto attività professionale non autorizzata (nonché, nel caso di
conferimento da parte di altra pubblica amministrazione, del funzionario
responsabile del procedimento).
Alla domanda se sia possibile, come richiesto dal dipendente del comune, che
l’autorizzazione venga rilasciata successivamente allo svolgimento
dell’incarico (con la formula: ora per allora), la giurisprudenza risponde
negativamente.
L’orientamento dei Tribunali Amministrativi Regionali [2]
era già nel senso che “sarebbe un controsenso autorizzare ex post un
incarico in base ad un potenziale conflitto di interessi, se si considera,
altresì, che il fondamento della disciplina della norma citata deve
rintracciarsi negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ovvero nelle
garanzie di imparzialità, efficienza e buon andamento dei pubblici impiegati
che sono a servizio esclusivo della Nazione. Sussiste in questa materia una
presunzione legale di carattere generale in relazione all’incompatibilità
degli incarichi esterni con i doveri d’ufficio…”.
Analogamente la Cassazione, in una recente pronuncia [3]
equipara l’autorizzazione “ora per allora” alla “autorizzazione
postuma” e nega la possibilità di concedere successivamente e con
efficacia sanante l’autorizzazione di cui all’art. 53, comma 7, del d.lgs.
165/2001.
Il Supremo Giudice afferma, infatti, che “Seppure, dunque, il principio
di tipicità degli atti amministrativi non impedisce che il momento di
esercizio del potere amministrativo possa essere spostato in avanti in tutti
i casi in cui sia ancora possibile effettuare le valutazioni che ne sono
alla base (come per le autorizzazioni postume in relazione ad attività
edilizie ovvero paesaggistiche: Cons. Stato, sez. VI, 30.03.2004, n. 1695),
ciò va escluso nell’ambito specifico degli incarichi dei pubblici
dipendenti, che consente che il dipendente medesimo, in presenza di una
specifica e preventiva autorizzazione rilasciata da parte
dell’amministrazione di appartenenza, possa eccezionalmente ricoprire
incarichi ulteriori al di fuori di quelli istituzionali. Invero,
l’autorizzazione postuma (id est, con riferimento allo specifico caso in
esame, l’autorizzazione “ora per allora”) risulta ontologicamente
incompatibile con la finalità dell’istituto della previa autorizzazione che,
in base al disposto di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, è
quella (come detto) di verificare, necessariamente ex ante, l’insussistenza
di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi.“.
In conclusione, non si pongono problemi con riferimento al caso proposto,
stante l’esclusione dall’obbligo della previa autorizzazione per gli
incarichi di docenza, ai sensi della lettera f-bis) dell’art. 53, comma 6.
Tuttavia, la circostanza che il dipendente affermi candidamente di non
conoscere la normativa, deve far riflettere l’Amministrazione e, in
particolare, il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza, in merito all’adeguatezza della strategia di prevenzione della
corruzione e del livello della formazione somministrata ai dipendenti.
Il RPCT dovrà probabilmente proporre, ai sensi dell’art. 1, comma 10, della
legge 06.11.2012, n. 190, una modifica del Piano Triennale di Prevenzione
della Corruzione e Trasparenza (PTPCT), implementando le misure di
informazione e formazione, in materia di conflitto di interessi, rivolte ai
dipendenti.
---------------
[1] … Gli incarichi retribuiti, di cui ai commi seguenti, sono tutti gli
incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio,
per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso. Sono esclusi i
compensi derivanti:
a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili;
b) dalla utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore
di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali;
c) dalla partecipazione a convegni e seminari;
d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle
spese documentate;
e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto
in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo;
f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a
dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita;
f-bis) da attività di formazione diretta ai dipendenti della
pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica
[2] Tar Emilia Romagna-Parma Sez. I, Sent., 17.07.2017, n. 263; Tar Emilia
Romagna-Parma, Sez. I, 05.06.2017, n. 191; Tar Calabria-Reggio
Calabria, sez. I, 14.03.2017, n. 195; Tar Lombardia-Milano, Sez. IV,
07.03.2013, n. 614
[3] Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 23/01/2020) 18.06.2020, n. 11811 (28.07.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI: Nessuna
rendicontazione per i contributi straordinari per emergenza da Covid-19.
Domanda
È prevista qualche forma di rendicontazione per i vari contributi
straordinari a favore degli enti locali a seguito dell’emergenza da
Covid-19? Se sì, con quali modalità?
Risposta
La domanda dell’attento lettore è di assoluto interesse per gli uffici
finanziari e per gli amministratori degli enti locali.
Da mesi ormai, questi si chiedono se i contributi straordinari previsti dai
vari provvedimenti normativi emanati a seguito dell’emergenza da Covid-19
siano da assoggettare o meno a qualche forma di rendicontazione circa il
loro effettivo utilizzo. E, in caso di utilizzo parziale, siano in qualche
modo da restituire per la parte eventualmente eccedente.
Pensiamo ai contributi per la solidarietà alimentare stanziati
dall’Ordinanza della Protezione civile n. 658/2020, o a quelli finalizzati
alla sanificazione dei locali e degli edifici previsti dal decreto legge n.
18/2020 (c.d. ‘Cura Italia’), o ancora a quelli per la riapertura dei
centri estivi previsti dal decreto legge n. 34/2020 (c.d. ‘Decreto
Rilancio’) e, da ultimo, a quelli per l’esercizio delle funzioni
fondamentali di cui all’art. 106 del medesimo provvedimento.
La risposta la troviamo nell’art. 112-bis del decreto legge n. 34/2020. Si
tratta di una norma introdotta ex novo, passata quasi in sordina, in
sede di conversione del decreto ‘Rilancio’, avvenuta con la legge n.
77 del 17/07/2020, pubblicata allo scadere dei sessanta giorni previsti
dalla Carta Costituzionale sulla Serie generale della G.U. n. 180 del
18/07/2020 (qui
il link al testo del decreto legge coordinato con le modifiche
introdotte durante il lungo iter parlamentare).
Vediamo nel dettaglio la norma, contenuta nel secondo periodo del comma 4 di
tale articolo.
Esso dispone che: “Per il medesimo anno [2020], l’articolo 158 del testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, non si applica in relazione alle risorse
trasferite agli enti locali ai sensi di norme di legge per fronteggiare
l’emergenza”.
L’art. 158 del Tuel, norma assai bistrattata e spesso dimenticata, dispone
infatti che:
1. Per tutti i contributi straordinari assegnati da amministrazioni
pubbliche agli enti locali è dovuta la presentazione del rendiconto
all’amministrazione erogante entro sessanta giorni dal termine
dell’esercizio finanziario relativo, a cura del segretario e del
responsabile del servizio finanziario.
2. Il rendiconto, oltre alla dimostrazione contabile della spesa,
documenta i risultati ottenuti in termini di efficienza ed efficacia
dell’intervento.
3. Il termine di cui al comma 1 è perentorio. La sua inosservanza
comporta l’obbligo di restituzione del contributo straordinario assegnato.
4. Ove il contributo attenga ad un intervento realizzato in più
esercizi finanziari l’ente locale è tenuto al rendiconto per ciascun
esercizio.
Nella sua formulazione essa risale addirittura al d.lgs. n. 77/1995 e nel
corso di questi venticinque anni non ha mai subito alcuna modifica da parte
del Legislatore. Ora, dalla lettura del combinato disposto delle due norme
emerge chiaramente come i contributi straordinari a favore degli enti locali
assegnati da amministrazioni pubbliche a seguito dell’emergenza da Covid-19
non sono soggetti ad alcun tipo di rendicontazione.
Si tratta senza dubbio di una norma di buon senso che ben si inserisce
nell’ottica di semplificazione che il Governo ha inteso intraprendere in
questa difficile fase emergenziale.
E’ del tutto evidente che essa non autorizza gli enti locali ad un uso
disinvolto di tali somme; essa ha invece l’indubbio pregio di sollevare gli
uffici finanziari da obblighi di rendicontazione spesso gravosi e complessi
che mal si coniugano con l’esigenza di celerità e semplificazione dei
procedimenti di spesa della Pubblica Amministrazione (27.07.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Riduzione
orario.
Domanda
Se la richiesta di un dipendente di trasformazione da full-time a part-time
non comporta la trasformazione del posto in dotazione organica e non ci sono
altre richieste di trasformazione in corso, è sufficiente la determinazione
del responsabile del settore oppure l’atto autorizzatorio è in ogni caso
competenza della giunta comunale?
Risposta
In relazione al quesito esposto si ricorda che la riforma Madia con il D.Lgs.
25.05.2017, n. 75 ha modificato l’art. 6 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165,
introducendo un sistema di dotazione organica flessibile, legata al concetto
di spesa massima potenziale (come somma del personale in servizio e di
quello di cui è programmata l’assunzione) confermato, altresì, dalle Linee
di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale
delle amministrazioni pubbliche pubblicate in Gazzetta Ufficiale il
27.07.2018.
Nella fattispecie concreta l’ente non si trova nella situazione di rivedere
il PTFP perché è mutato il proprio fabbisogno quantitativo e qualitativo del
personale, posto che le modifiche al PTFP sono consentite in corso d’anno a
fronte di situazioni nuove e imprevedibili che richiedono una adeguata
motivazione, ma semplicemente nel contesto di dare attuazione alla
disciplina contrattuale di comparto in materia, determinata dalla richiesta
del dipendente di trasformazione del rapporto di lavoro da full time a part-time.
Pertanto, non sarà necessario alcun atto autorizzatorio della giunta
comunale, considerato che la determinazione del responsabile del servizio di
appartenenza del dipendente interessato alla trasformazione de qua,
rientra tra le funzioni dirigenziali di cui all’art. 107, comma 3, lett. e),
del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, espletate previa verifica dei presupposti di
cui all’art. 53, comma 2 del CCNL 21/05/2018.
La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale
dovrà avvenire mediante accordo tra le parti risultante da atto scritto.
In tale accordo, le parti, in conformità alla disciplina di cui all’art. 53,
comma 12, del CCNL 21/05/2018 possono eventualmente concordare anche un
termine di durata per il rapporto di lavoro a tempo parziale che si va a
costituire (23.07.2020 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Un
dipendente di questo Ministero ha richiesto di poter usufruire dei permessi
ex art. 33, L. 05.02.1992, n. 104 dichiarando che nel medesimo giorno, il
coniuge assistito, lavoratore del settore privato, ne usufruisce al fine di
sottoporsi a terapie salvavita.
Si chiede se tale possibilità di utilizzo contemporaneo del medesimo
istituto sia contemplata dalla normativa vigente e/o dal CCNL Funzioni
Centrali.
Nel quesito proposto dobbiamo innanzitutto distinguere la portata delle due
diverse disposizioni normative, che vengono in contatto ma afferenti al
medesimo corpo legislativo, ovvero il comma 3 dell'art. 33, L. 05.02.1992,
n. 104 per ciò che concerne la situazione del dipendente Ministeriale ed il
successivo comma 6 del medesimo art. 33, L. 05.02.1992, n. 104 in
riferimento alle terapie salvavita del coniuge assistito.
A tale riguardo, si evidenzia come né la stessa L. 05.02.1992, n. 104 né la
contrattazione collettiva per il comparto Funzioni Centrali (CCNL
12.02.2018) prevedono preclusioni a riguardo dell'utilizzazione congiunta
dei due distinti istituti sopra elencati che anzi, a nostro parere dovrebbe
rappresentare la modalità ordinaria di utilizzo, consentendo al familiare di
prestare assistenza nel momento in cui il soggetto lavoratore in situazione
di handicap grave si assenta dal lavoro.
Infatti, per ciò che concerne la richiesta del vostro dipendente, il già
richiamato comma 3 dell'art. 33, L. 05.02.1992, n. 104 prevede tra i
presupposti oggettivi per la fruizione dei permessi in esame l'assenza di "ricovero
a tempo pieno" della persona assistita.
A tale riguardo, va richiamata la Circ. 03.12.2010, n. 155 dell'INPS in cui
si chiarisce che per "ricovero a tempo pieno" si intende quello, per
le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche
o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativa. Nella stessa
circolare si chiarisce altresì che tra le eccezioni a tale presupposto vi è
l'interruzione del ricovero a tempo pieno per necessità del disabile in
situazione di gravità di recarsi al di fuori della struttura che lo ospita
per effettuare visite e terapie appositamente certificate.
Riteniamo quindi che se le terapie salvavita non vengono svolte in regime di
ricovero a tempo pieno, o se l'interruzione del ricovero avviene secondo
quanto sopra specificato, non sussistono ostacoli alla concessione dei
permessi come nella situazione prospettata.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 05.02.1992, n. 104, art.
33 - CCNL 12.02.2018 Funzioni centrali - Circ. 03.12.2010, n. 155
(22.07.2020- tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: Commissione
giudicatrice – Adempimenti per la nomina.
Domanda
In una procedura di gara con offerta economicamente più vantaggiosa, per una
corretta nomina della commissione giudicatrice è sufficiente che il
Responsabile adotti il provvedimento di nomina, previa acquisizione dei soli
curriculum, e successiva pubblicazione dei citati atti su Amministrazione
trasparente, nella sezione Bandi – composizione della commissione
giudicatrice e curricula, oppure occorre acquisire ulteriore documentazione?
Risposta
La nomina della commissione giudicatrice in una procedura di gara è
possibile definirla come una fase dell’affidamento che richiede diversi
adempimenti e verifiche. Piuttosto corpose [1]
sono le disposizioni che disciplinano la costituzione della commissione,
così come numerose le pronunce giurisprudenziali sulla legittimità della
nomina e sull’operato di questo collegio.
In attesa di un definitivo superamento, almeno si auspica, dell’art. 77, co.
3, del codice, che riguarda la scelta dei commissari fra gli esperti
iscritti all’albo istituito presso ANAC (norma sospesa fino al 31.12.2020),
al momento, ai sensi dell’art. 216, co. 12, del d.lgs. 50/2016, la
commissione giudicatrice deve essere nominata dall’organo della stazione
appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del
contratto, secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente
individuate da ciascuna stazione appaltante.
Questa fase di individuazione dei commissari, non si esaurisce tuttavia nel
solo provvedimento di costituzione e pubblicazione dei curricula, ma
presuppone ulteriori diversi adempimenti che si differenziano a seconda che
i commissari siano scelti all’interno della Stazione Appaltante, ovvero
all’esterno della stessa, e in quest’ultimo caso distinguendo le ipotesi di
soggetti dipendenti pubblici piuttosto che liberi professionisti/altro:
Si riportano di seguito i principali adempimenti che riguardano la nomina
della Commissione giudicatrice:
• richiesta di autorizzazione alla pubblica amministrazione di
appartenenza nel caso di commissario esterno all’ente dipendente di una
pubblica amministrazione;
• acquisizione dichiarazione ex art. 53, co. 7 e 10, del d.lgs.
165/2001 della pubblica amministrazione di appartenenza nel caso di
commissario esterno all’ente;
• acquisizione dichiarazione ex art. 15, co. 1, del d.lgs. 33/2013
nel caso di commissario esterno NON dipendente di una pubblica
amministrazione (tale dichiarazione deve essere trasmessa all’ufficio
interno competente alla pubblicazione dei dati in Amministrazione
trasparente, sotto-sezione collaboratori e consulenti, anche tramite il link
ipertestuale del sistema PerlaPa)
• acquisizione dei Curriculum da pubblicarsi in Amministrazione
trasparente, sotto sezione Bandi di gara e contratti – composizione della
commissione giudicatrice e curricula, nonché sul Sistema Contratti Pubblici
del Ministero/Osservatorio regionale;
• attestazione da parte del Responsabile che procede alla nomina
dell’avvenuta verifica dell’insussistenza di situazioni anche potenziali di
conflitto di interesse ai sensi dell’art. 53, co. 14, del d.lgs. 165/2001
(da trasmettere all’ufficio interno competente alla pubblicazione dei dati
in Amministrazione trasparente, sotto-sezione collaboratori e consulenti,
anche tramite il link ipertestuale del sistema PerlaPa);
• acquisizione dichiarazione inesistenza cause di esclusione di cui
ai punti 3.1 e ss. delle linee guida n. 5, e cause di incompatibilità di cui
ai cc. 4, 5 e 6 dell’art. 77, del d.lgs. 50/2016 e contestuale accettazione
incarico, previa determinazione del compenso nel caso di commissario
esterno;
• acquisizione dichiarazione inesistenza cause di incompatibilità
di cui al co. 6 dell’art. 77, del d.lgs. 50/2016 del segretario
verbalizzante;
• adozione del provvedimento di nomina della Commissione
giudicatrice da pubblicarsi in Amministrazione trasparente, sotto sezione
Bandi di gara e contratti – composizione della commissione giudicatrice e
curricula, nonché sul Sistema Contratti Pubblici del Ministero/Osservatorio
regionale;
• verifica a campione delle dichiarazioni.
---------------
[1] Regolamento interno della stazione appaltante; Linee guida ANAC n. 5
“Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti
nell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni
giudicatrici” (cfr. art. 1, co. 1. lett.. c) del d.l. n. 32/2019 convertito
in L. 14.06.2019 n. 55 che sospende l’applicazione dell’art. 77, co. 3,
relativo all’obbligo di scegliere i commissari tra gli esperti iscritti
all’Albo fino al 31.12.2020); D.M. 12.02.2018 “Determinazione della tariffa
di iscrizione componenti delle commissioni giudicatrici e relativi compensi”
(Annullato dal TAR Lazio, sez. I, sent. 31.05.2019 n. 6926); Linee guida
ANAC n. 15 “Individuazione e gestione dei conflitti di interesse nelle
procedure di affidamento di contratti pubblici”; Delibera ANAC n. 25 del
15.01.2020 “Indicazioni per la gestione di situazioni di conflitto di
interesse a carico dei componenti delle commissioni di gara per
l’affidamento di contratti pubblici”; art. 15, co. 1, del d.lgs. 33/2013;
art. 29 del d.lgs. 50/2016 (22.07.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: È
illegittima la nomina di un RT diverso dal RPC?
Domanda
Nel nostro comune, il responsabile della trasparenza è figura diversa dal
responsabile della prevenzione della corruzione (segretario comunale). A un
corso di formazione ci hanno detto che tale situazione è illegittima.
È veramente così?
Risposta
L’articolo 43, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo
modificato dall’articolo 34, comma 1, lett. a), del decreto legislativo
25.05.2016, n. 97, prevede testualmente che: 1. All’interno di ogni
amministrazione il responsabile per la prevenzione della corruzione, di cui
all’articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190, svolge, di norma,
le funzioni di Responsabile per la trasparenza, di seguito «Responsabile», e
il suo nominativo è indicato nel Piano triennale per la prevenzione della
corruzione. Il responsabile svolge stabilmente un’attività di controllo
sull’adempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi di
pubblicazione previsti dalla normativa vigente, assicurando la completezza,
la chiarezza e l’aggiornamento delle informazioni pubblicate, nonché
segnalando all’organo di indirizzo politico, all’Organismo indipendente di
valutazione (OIV), all’Autorità nazionale anticorruzione e, nei casi più
gravi, all’ufficio di disciplina i casi di mancato o ritardato adempimento
degli obblighi di pubblicazione.
Come ben si comprende, l’indicazione del legislatore nazionale –dal 2016– è
quella di unificare sotto la stessa persona –negli enti locali “di norma”
il segretario comunale– i compiti di responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza, utilizzando, appunto, l’acronimo di RPCT.
Analoga posizione è stata poi assunta dall’Autorità Nazionale Anticorruzione
(ANAC), la quale –nella delibera n. 1310 del 28.12.2016, (di commento del
d.lgs. 97/2016)– sostiene che: “Ad avviso dell’Autorità, considerata la
nuova indicazione legislativa sulla concentrazione delle due responsabilità,
la possibilità di mantenere distinte le figure di RPCT e di RT va intesa in
senso restrittivo: è possibile, cioè, laddove esistano obiettive difficoltà
organizzative tali da giustificare la distinta attribuzione dei ruoli. Ciò
si può verificare, ad esempio, in organizzazioni particolarmente complesse
ed estese sul territorio e al solo fine di facilitare l’applicazione
effettiva e sostanziale della disciplina sull’anticorruzione e sulla
trasparenza. E’ necessario che le amministrazioni chiariscano espressamente
le motivazioni di questa eventuale scelta nei provvedimenti di nomina del
RPC e RT e garantiscano il coordinamento delle attività svolte dai due
responsabili, anche attraverso un adeguato supporto organizzativo”.
Il contenuto letterale della disposizione non prevede affatto, dunque,
l’obbligo di avere, in ogni ente e amministrazione, un unico responsabile
per la prevenzione della corruzione e trasparenza, quindi l’indicazione del
relatore circa la presunta illegittimità della nomina del RT appare non
ancorata a nessuna fonte normativa. Resta pertinente, invece, la
specificazione dell’ANAC, la quale raccomanda che l’atto di nomina emanato
dal sindaco sia debitamente motivato, circa le ragioni (legate a obiettive
difficoltà organizzative) del discostamento dal “di norma”.
Se l’ente intende confermare la propria posizione di avere due distinti
responsabili (RT e RPC), sarà poi necessario definire nel PTPCT gli ambiti
di collaborazione sinergica tra le due figure, tenendo comunque conto che la
redazione della proposta del PTPCT, compresa la sezione dello stesso
dedicata alla Trasparenza, compete esclusivamente al Responsabile della
prevenzione della corruzione, come previsto dall’articolo 1, comma 8, della
legge 190/2012. Stessa cosa vale per la relazione annuale recante i
risultati dell’attività svolta, prevista dal comma 14, del citato articolo
1, della Legge Severino.
Si ricorda, infine, che i dati relativi al Responsabile della trasparenza e
al Responsabile della prevenzione della Corruzione vanno pubblicati su
Amministrazione trasparente, all’interno della sotto-sezione: Altri
contenuti > Prevenzione della Corruzione (21.07.2020 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: L’ufficio
personale di un ente strumentale della Regione ha ricevuto le dimissioni di
un proprio dipendente di ruolo a tempo indeterminato per aver raggiunto i
requisiti per il collocamento a riposo con la c.d. "Quota 100".
Le suddette dimissioni sono state presentate in modalità cartacea, ma il
dipendente ha avvertito per le vie brevi che avrebbe proceduto
all'immissione delle stesse mediante l'applicativo informatico dedicato.
Si chiede se la forma di presentazione cartacea sia ancora valida e se
pertanto le dimissioni sono da considerare già efficaci.
Il D.M. 15.12.2015 (Ministro del Lavoro e delle politiche sociali) in
attuazione della previsione contenuta nel D.Lgs. 14.09.2015, n. 151, ha
previsto, che a partire dal 12.03.2016, le dimissioni volontarie e la
risoluzione consensuale del rapporto di lavoro devono essere effettuate in
modalità esclusivamente telematiche, tramite una semplice procedura on-line
accessibile dal sito Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (c.d.
ClicLavoro).
Il successivo D.Lgs. 24.09.2016, n. 185, all'art. 5, comma 6,, in modifica
dell'art. 26, D.Lgs. 14.09.2015, n. 151 sopra richiamato, recita che "le
disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai rapporti di
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo
1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165".
Nel ricordare che il decreto istitutivo del pensionamento anticipato con la
c.d. "Quota 100", prevede in capo ai Pubblici Dipendenti l'obbligo di
presentare le proprie dimissioni con un preavviso di almeno sei mesi (art.
14, D.L. 28.01.2019, n. 4), l'Ente Regionale rientra evidentemente a pieno
titolo tra le Amministrazioni Pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs.
30.03.2001, n. 165 (Per amministrazioni pubbliche si intendono …….le
Regioni, …….e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie,
gli Istituti autonomi case popolari, ……..tutti gli enti pubblici non
economici …... regionali) e pertanto è escluso dall'applicazione della
procedura on-line di cui trattasi.
Questo implica che, in riferimento al quesito posto, le dimissioni del
dipendente presentate al protocollo dell'Ente in modalità c.d. "cartacea"
sono immediatamente efficaci, fermo restando la verifica sui requisiti
dichiarati.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.09.2015, n. 151 - D.M. 15.12.2015 del Ministro del Lavoro e delle
politiche sociali - D.Lgs. 24.09.2016 n. 185 - D.L. 28.01.2019, n. 4
(15.07.2020 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: Pubblicità
legale e amministrazione trasparente.
Domanda
Per il raggiungimento delle finalità previste dalla pubblicità legale di
bandi o avvisi è sufficiente pubblicare nella sezione “Amministrazione
trasparente” ed in particolare nelle varie sotto-sezioni individuate in
base alla tipologia di prestazione?
Risposta
Con l’entrata in vigore del d.lgs. 14.03.2013 n. 33 “Riordino della
disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazione”, ed in particolare dell’art. 37 si sono
delineati due sistemi diversi di pubblicità in materia di contratti pubblici
di appalti e concessioni. Uno che attiene agli obblighi di pubblicità
legale, ed un altro legato al concetto di trasparenza quale strumento di
controllo da parte dei cittadini sull’attività amministrativa e
sull’utilizzo corretto delle risorse pubbliche, anche quale misura di
prevenzione della corruzione.
Tale articolo va collegato con le disposizioni codicistiche e con il decreto
del MIT del 02.12.2016 “Definizione degli indirizzi generali di
pubblicazione degli avvisi e dei bandi di cui gara di cui agli artt. 70, 71
e 98 del d.lgs. 50/2016”, operazione non particolarmente semplice per il
difetto di coordinamento di alcune disposizioni.
Nello specifico gli artt. 72, 73 e 98 del d.lgs. 50/2016 riguardano quella
forma di pubblicità che possiamo definire indispensabile per la validità
stessa delle procedure, essendo finalizzata a rendere le gare conoscibili e
accessibili per l’attuazione di quell’imprescindibile principio comunitario
in materia di appalti e concessioni, ossia la libera concorrenza.
Affinché tale forma di pubblicità produca gli ulteriori effetti giuridici
che gli sono propri, e quindi in base al valore delle procedure, la
decorrenza ad esempio dei termini per la partecipazione, nonché quelli
relativi all’impugnazione dei bandi di gara e/o avvisi, si ritiene che gli
stessi debbano essere pubblicati sul profilo committente, nella sezione
dedicata, denominata Bandi di gara, direttamente raggiungibile dalla home
page, con funzione appunto di albo on-line (cfr. art. 4 del d.P.C.M. del
26.04.2011 “Pubblicazione nei siti web di atti e provvedimenti su
procedure ad evidenza pubblica o di bilanci”).
Il richiamo al profilo committente, come sezione diversa rispetto
all’Amministrazione trasparente, di cui ovviamente si consiglia un link di
collegamento per evidenti ragioni di semplificazione, sembra ricavarsi anche
da una lettura combinata degli artt. 73, co. 4, 36, co. 9, del d.lgs.
50/2016, art. 2, co. 1 del D.M. 02.12.2016.
In “Amministrazione trasparente” vengono poi pubblicate sia le
informazioni in formato tabellare di cui all’art. 1, co. 32, della l.
190/2012, nonché tutte quelle previste dallo stesso codice dei contratti ed
in particolare dall’art. 29, come specificate nella delibera ANAC n. 1310
del 28.12.2016 “Prime linee guida recanti indicazione sull’attuazione
degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni
contenute nel d.lgs. 33/2013 come modificato da d.lgs. 97/2016”. Elenco
che richiama anche la pubblicazione di bandi, avvisi ed esiti, seppur per
finalità diverse.
Probabilmente la volontà del legislatore era quella di attribuire all’“Amministrazione
trasparente” la doppia funzione di pubblicità legale e di informazione
generale, tanto che molte amministrazioni hanno eliminato la sezione
dedicata di cui al sopra citato d.P.C.M. 26.04.2011.
Tuttavia, in assenza di un chiarimento a livello prudenziale si consiglia di
mantenere separate le due sezioni prevedendo nell’home page sia
quella denominata “Bandi di gara” ove pubblicare tutti i bandi, gli
avvisi e gli esiti, con un link diretto all’“Amministrazione trasparente”
e alle varie sotto-sezioni di riferimento (15.07.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: RPCT
e attestazione obblighi trasparenza.
Domanda
Sono un RPCT e nel mio comune l’OIV non mi ha coinvolto affatto nella
procedura per l’attestazione del corretto adempimento degli obblighi,
richiesta dalla delibera ANAC n. 213/2020, mentre il mio collega di un altro
ente locale mi riferisce di aver condotto le verifiche e predisposto le
griglie in totale autonomia, in quanto l’OIV non si è affatto interessato
della questione.
Vorrei sapere quale è la procedura corretta e se devo prendere qualche
iniziativa.
Risposta
L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ha adottato la delibera n. 213
del 04.03.2020, nell’esercizio delle funzioni di controllo di cui all’art.
45, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (c.d. “decreto
trasparenza”).
Per espressa formulazione, l’ANAC si rivolge sia alle Amministrazioni e agli
altri soggetti di cui all’art. 2-bis, ai quali si applica il decreto
trasparenza, sia ai rispettivi Organismi Indipendenti di Valutazione (OIV) o
organismi con funzioni analoghe, chiamati ad attestare l’assolvimento degli
obblighi di pubblicazione, ai sensi dell’art. 14, comma 4, lett. g), del
decreto legislativo 27.10.2009, n. 150.
Come noto, l’OIV rappresenta una figura di riferimento per l’ANAC, in merito
all’attuazione degli obblighi di trasparenza, analogamente al Responsabile
della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), che è un soggetto
interno all’amministrazione.
Più precisamente, ai sensi dell’art. 45, comma 2, del d.lgs. 33/2013, “L’autorità
nazionale anticorruzione controlla l’operato dei responsabili per la
trasparenza a cui può chiedere il rendiconto sui risultati del controllo
svolto all’interno delle amministrazioni. L’autorità nazionale
anticorruzione può inoltre chiedere all’organismo indipendente di
valutazione (OIV) ulteriori informazioni sul controllo dell’esatto
adempimento degli obblighi di trasparenza previsti dalla normativa vigente”.
Dal canto suo, il RPCT è la figura chiave in materia di trasparenza
all’interno dell’Amministrazione, dovendo svolgere un ruolo stabile di
promozione e controllo del rispetto degli obblighi di pubblicazione, ai
sensi dell’art. 43, del d.lgs. n. 33/2013 e, prima ancora, della “legge
Severino” (legge 06.11.2012, n. 190).
Premesso che, tra l’OIV e il RPCT deve instaurarsi, in materia di
trasparenza e in generale di prevenzione della corruzione, un rapporto di
piena e stretta collaborazione, va precisato che, con riferimento al caso
specifico –attività di verifica del corretto assolvimento degli obblighi– la
scelta in merito alle modalità di coinvolgimento del RPCT è rimessa alla
discrezionalità dell’OIV.
Ai sensi dell’8-bis, della legge 190/2012, infatti “l’Organismo medesimo
può chiedere al Responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza le informazioni e i documenti necessari per lo svolgimento del
controllo”.
Coerentemente con tale quadro normativo, nella delibera ANAC n. 213/2020, si
dice che, ai fini della predisposizione dell’attestazione, “gli OIV, o
gli altri organismi con funzioni analoghe, si possono avvalere della
collaborazione del RPCT il quale, ai sensi dell’art. 43, co. 1, del d.lgs.
33/2013, «svolge stabilmente un’attività di controllo sull’adempimento da
parte dell’amministrazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla
normativa vigente, assicurando la completezza, la chiarezza e
l’aggiornamento delle informazioni pubblicate», segnalando anche agli OIV «i
casi di mancato o ritardato adempimento degli obblighi di pubblicazione».”.
Non si può, dunque, stabilire a priori quale delle prassi adottate nei due
comuni sia corretta. È chiaro che la responsabilità di quanto riportato
nella attestazione è essenzialmente dell’OIV, il quale non può certo
disinteressarsi dell’istruttoria, dovendola recepire nella sottoscrizione
del documento di cui all’Allegato 1, della delibera 213/2020.
Le procedure e le modalità, seguite dall’OIV per la rilevazione, devono
essere indicate nella scheda di sintesi di cui all’Allegato 3, della
medesima delibera, nella quale si forniscono i seguenti suggerimenti:
“A titolo esemplificativo e non esaustivo, si indicano alcune modalità,
non alternative fra loro, che potrebbero essere seguite:
• verifica dell’attività svolta dal Responsabile della prevenzione
della corruzione e della trasparenza per riscontrare l’adempimento degli
obblighi di pubblicazione;
• esame della documentazione e delle banche dati relative ai dati
oggetto di attestazione;
• colloqui con i responsabili della trasmissione dei dati;
• colloqui con i responsabili della pubblicazione dei dati;
• verifica diretta sul sito istituzionale, anche attraverso
l’utilizzo di supporti informatici.”
È corretto d’altro canto che, qualora il RPCT non venga per nulla coinvolto
nell’attività di controllo, si chieda se e in che termini proporre all’OIV
la propria collaborazione, essendo legittimato senz’altro a prendere
l’iniziativa, ai sensi degli articoli 43 e 44, del d.lgs. 33/2013 e articolo
1, comma 7, della legge 190/2012.
Al di là dell’obbligo di segnalare eventuali disfunzioni o situazioni di
mancato o ritardato adempimento, resta inteso che il RPCT può trasmettere
all’OIV, in sede di attestazione annuale come anche in corso d’anno, le
proprie valutazioni positive, relazionando sulle modalità di assolvimento
degli obblighi di trasparenza e sul grado di attuazione di quanto previsto
nel Piano Triennale di Trasparenza e Prevenzione della Corruzione (14.07.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI FORNITURE: Imputazione
a bilancio delle fatture per conguaglio di utenze: il recente parere della
corte dei conti valdostana.
Domanda
A fine maggio ho ricevuto alcune fatture per conguagli delle utenze di luce
e acqua relative al 2019. Non avendo conservato alcun residuo passivo a
consuntivo, è possibile impegnarle sul 2020?
Risposta
Il tema posto dal lettore si presenta con una certa frequenza agli uffici
finanziari e agli uffici tecnici dei comuni e meriterebbe un più ampio
approfondimento. Molto spesso le fatture a conguaglio delle utenze
pervengono nell’anno successivo a quello di riferimento. Come comportarsi
allora?
Su di esso le sezioni regionali della Corte dei conti sono intervenute più
volte in passato. Di recente lo ha fatto la sezione Valle d’Aosta con il
parere 24.04.2020 n. 4 in risposta ad un quesito posto dal comune
di Saint-Vincent.
Il quesito posto atteneva a fatture relative a consumi dell’anno 2019 per le
quali non è stato possibile assumere il relativo impegno di spesa nel corso
dell’anno passato. Va evidenziato che in esso non si precisava se le fatture
fossero state emesse nel 2020 o nel 2019. La sezione regionale afferma che
quelle per utenze sono il tipico esempio di spese a carattere continuativo,
per le quali la somma da pagare non è determinata, bensì solo genericamente
determinabile a priori.
Il relativo impegno di spesa è pertanto inevitabilmente presunto. Qualora
poi, nel corso dell’esercizio emergano maggiori somme dovute rispetto a
quelle impegnate, l’ordinamento contabile prevede appositi strumenti di
copertura, quali la variazione di bilancio (art. 175 TUEL) o il prelevamento
dal fondo di riserva (artt. 166 e 176 TUEL), di competenza, rispettivamente,
dell’organo consiliare e dell’organo esecutivo dell’ente locale.
Per la sezione valdostana siamo in presenza di un debito fuori bilancio
riconoscibile ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL.
Diversamente, sostiene la Corte, verrebbe disatteso il principio per il
quale gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste il previo
impegno contabile, registrato sul competente programma del bilancio di
previsione e la relativa attestazione di copertura finanziaria.
Il bilancio di previsione è triennale ed autorizzatorio e, come tale
costituisce “(…) limite, partitamente per ciascuno degli esercizi
considerati, ai relativi impegni e pagamenti (…)”. Non è possibile,
conclude la Corte, “(…) allocare le maggiori somme maturate nel corso
dell’esercizio finanziario di competenza su impegni di spesa relativi a
programmi di bilancio di anni successivi (…)”.
Il parere sopra illustrato è tranchant e non lascia dubbi, né
alternative. Esso si pone però in netto contrasto con un parere reso nel
2015 dalla sezione Lombardia a fronte di analogo quesito. Con
proprio parere 23.02.2015 n. 82 essa era giunta a conclusioni
diametralmente opposte e ben più condivisibili.
Dopo un’interessante disamina degli strumenti del ‘debito fuori bilancio’
e delle ‘passività pregresse’, nonché delle distinte nozioni di ‘competenza
finanziaria’ e di ‘competenza economica’ che, afferma la Corte, “(…)
tendono a disallinearsi, vale a dire [che] l’imputazione temporale di un
costo è di norma diversa da quella che caratterizza l’esigibilità del
credito da parte del creditore (…)”, giunge alle seguenti conclusioni: “(…)
appare evidente che il debito in questione, relativo a conguagli per il
consumo di energia elettrica in esercizi finanziari differenti, è per
competenza finanziaria riferibile solo all’anno delle liquidazione degli
importi; pertanto, l’imputazione al bilancio non può che avvenire nell’anno
della comunicazione della fattura con la procedura ordinaria di spesa (art.
191 TUEL) mediante integrazione dell’impegno di spesa sino alla concorrenza
del dovuto e, in caso di incapienza dei capitoli, mediante le necessarie
variazioni di bilancio, sotto il controllo e il giudizio dell’organo
deputato ad autorizzare e controllare la spesa, vale a dire il Consiglio
comunale. Nel caso in cui, invece, al reperimento della fattura non sia
seguito nello stesso anno regolare impegno e correlativa formazione di
residui per gli anni successivi, esso costituirà debito fuori bilancio,
riconoscibile nei termini e alle condizioni di cui all’art. 194 TUEL (…)”.
Concludendo, il recente parere della sezione valdostana appare essere assai
più rigido di quello un po’ più datato, ma sicuramente più condivisile,
della sezione lombarda. Ancora una volta, sarebbe auspicabile un
orientamento univoco, che senz’altro darebbe maggiori certezze agli
amministratori e ai funzionari degli enti locali (13.07.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pausa
turnisti.
Domanda
Stiamo variando i turni del nostro personale che opera in una struttura
sanitaria. La programmazione prevede turni di 7 ore al giorno e turni di 7,5
ore al giorno.
Il dubbio riguarda la legittimità di un turno che supera le 6 ore e
l’obbligo della pausa.
Risposta
La disciplina contrattuale contenuta all’art. 26, CCNL 21.05.2018, enuclea
la regola generale per cui il personale ha diritto di fruire di una pausa di
almeno trenta minuti, quando la prestazione di lavoro giornaliero ecceda le
sei ore, purché si tratti di personale non inserito in una organizzazione
del lavoro per turni.
La nuova disposizione ha inteso salvaguardare quelle esigenze di continuità
nello svolgimento delle attività e di erogazione dei servizi che sono
collegati ad organizzazione di lavoro per turni. La deroga è, tuttavia,
limitata solo sotto il profilo della durata e consentita solo nelle
fattispecie considerate nell’art. 13 del CCNL 09.05.2006.
Ciò significa che l’obbligo di osservare una pausa per i lavoratori
turnisti, non può essere dichiarato rinunciabile in ragione della
formulazione contrattuale. Ciò che può essere operata è una compressione
temporale della durata della pausa che comunque non può valicare il limite
minimo fissato dalla fonte legale dei 10 minuti.
Detto in altri termini, l’ente può comprimere la sola durata della pausa
obbligatoria per i lavoratori turnisti, in ragione delle esigenze prevalenti
di servizio che richiedono di essere soddisfatte, ma non può tollerare il
mancato godimento della stessa nella misura minima fissata dalla fonte
legale. Non può nemmeno sopprimerla con atto unilaterale per evidente
contrasto con la legge e con il contratto collettivo nazionale e tanto meno
dichiarala rinunciabile dalla contrattazione integrativa non figurando
questo profilo tra le materie ad essa demandate dal contratto nazionale.
Il quadro è coerente con le logiche insite nel rapporto tra fonte legale e
fonte contrattuale così come enucleato nel testo unico del pubblico impiego.
Dopo il d.lgs. 75/2017, la formulazione dell’art. 2, comma 2, del d.lgs.
165/2001, significa un contratto che può derogare ad una norma di legge a
meno che la stessa non lo escluda. Tale possibilità, tuttavia, è limitata
esclusivamente alle materie sui cui il legislatore detta disposizioni che si
applicano esclusivamente al pubblico impiego, mentre il d.lgs. 66/2003 è una
norma che si applica a tutto il pubblico impiego.
È chiaro che nel caso in cui un reparto richieda la presenza minima in
servizio di un certo numero di operatori, la pausa obbligatoria va goduta
alternativamente e può evidentemente essere goduta anche prima dello
scoccare delle 6 ore continuative di servizio, garantendo in questo modo sia
il rispetto della norma che il godimento di quanto non si configura come
rinunciabile (09.07.2020 - link a www.publika.it). |
aggiornamento al
09.07.2020 |
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CONSIGLIERI COMUNALI: Questo
Comune sta continuando a svolgere le sedute di Giunta e Consiglio in
modalità remota, ma sono giunte alcune lamentele a riguardo della mancata
trasmissione via streaming delle sedute consiliari.
Il regolamento di funzionamento del Consiglio Comunale, essendo abbastanza
datato ed in procinto di essere modificato, non prevede una disciplina.
E’ possibile procedere?
L’art. 73, comma 1, del D.L. “Cura Italia” 17.03.2020 n. 18
denominato “semplificazioni in materia di organi collegiali” recita
testualmente che “al fine di contrastare e contenere la diffusione del
virus COVID-19 e fino alla data di cessazione dello stato di emergenza
deliberato dal Consiglio dei ministri il 31.01.2020, i consigli dei comuni,
delle province e delle città metropolitane e le giunte comunali, che non
abbiano regolamentato modalità di svolgimento delle sedute in
videoconferenza, possono riunirsi secondo tali modalità, nel rispetto di
criteri di trasparenza e tracciabilità previamente fissati dal presidente
del consiglio, ove previsto, o dal sindaco, purché siano individuati sistemi
che consentano di identificare con certezza i partecipanti, sia assicurata
la regolarità dello svolgimento delle sedute e vengano garantiti lo
svolgimento delle funzioni di cui all'articolo 97 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, nonché adeguata pubblicità delle sedute, ove previsto,
secondo le modalità individuate da ciascun ente”.
Pertanto, la normativa emergenziale che ha consentito lo svolgimento delle
sedute degli organi collegiali degli Enti Locali in modalità “da remoto”
anche in assenza di apposita regolamentazione dell’Ente pone una serie di
questioni e di paletti nella sua applicazione:
• tale possibilità, in assenza di regolamentazione, è valida fino
alla cessazione dello Stato di emergenza (attualmente al 31 luglio p.v.);
• i criteri, per ciò che concerne nello specifico lo svolgimento
del Consiglio Comunale, devono essere preventivamente fissati da apposito
decreto del Presidente del Consiglio (o del Sindaco se non previsto dalla
legge o dallo Statuto);
• deve essere garantita l’adeguata pubblicità delle sedute.
In linea generale, tanto la normativa sulla privacy (il garante si è
espresso con un parere abbastanza datato nel marzo 2002) che il Ministero
dell’Interno (con un primo parere del 20.12.2004 ed un successivo molto più
recente del 28.06.2018) hanno chiarito la possibilità della ripresa,
registrazione e diffusione delle immagini delle sedute consiliari, previa
l’adozione di apposita regolamentazione ed informativa resa ai presenti.
Il Ministero dell’Interno, nel primo parere più datato del 2004, addirittura
prevedeva, in assenza di regolamentazione, la possibilità di disciplinare la
fattispecie, volta per volta, da parte del Presidente del Consiglio.
Detto tutto ciò, possiamo affermare che, almeno fino alla cessazione dello
Stato di Emergenza ed in assenza di regolamentazione nonché di previsione
normativa specifica, il Presidente del Consiglio (o il Sindaco qualora
ricorra la fattispecie) può disciplinare con proprio decreto le specifiche
modalità di registrazione, trasmissione e diffusione delle sedute consiliari
che si svolgono con le modalità di cui al citato D.L. 18/2020 in modo da
garantire quei criteri di trasparenza e pubblicità dallo stesso richiamati
(es. diretta sul sito web del Comune, diretta facebook). Lo stesso decreto
potrà, ad esempio prevedere che la registrazione (e la conseguente
diffusione extra canali istituzionali) non possa essere effettuata in
proprio né dai consiglieri comunali e né dai cittadini che assistono
virtualmente alla seduta.
Successivamente, qualora l’Ente terminato lo Stato di Emergenza, decida di
dotarsi di apposita regolamentazione per lo svolgimento dei lavori anche in
modalità “da remoto”, potrà procedere alla registrazione,
trasmissione e diffusione delle immagini esclusivamente con le modalità che
saranno ivi disciplinate.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 17.03.2020. n. 18 -
Parere garante Privacy Marzo 2002 - Parere Ministero Interno 20.12.2004 -
Parere Ministero Interno 28.06.2018 (08.07.2020 -
tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: In
tema di margine di utile e fissazione di soglie nella legge speciale di gara.
Domanda
Nella predisposizione di alcuni appalti di servizi, come RUP, mi sto ponendo
la questione sul margine di utile spesso oggetto di contestazione che in
passato ha determinato frequenti richieste di accesso dei vari concorrenti.
A questo punto, volevo capire se nella legge speciale di gara (nelle lettere
di invito, per essere più chiaro), potevo inserire un margine minimo di
utile e se ciò sia corretto.
Risposta
La questione del margine dell’utile, evidentemente, rappresenta uno degli
aspetti più delicati nella analisi/scomposizione dell’offerta soprattutto,
poi, in fase di verifica della potenziale anomalia considerato che i vari
concorrenti (ed in particolare quelli ben posizionati nella gradutatoria
finale) possono presentare richieste di accesso agli atti per verificare la
“credibilità/congruità/sostenibilità” della proposta
tecnico/economica dell’aggiudicatario.
Venendo poi alla possibilità (o meno) del RUP di prevedere già in fase di
gara una percentuale di utile minimo indispensabile (che le varie proposte
economiche già debbano assicurare), pare di poter esprimere immediatamente
un parere negativo: non è possibile procedere con la fissazione formale
dell’utile minimo.
Però, a corredo, occorre fare un ulteriore ragionamento. E’ chiaro che nel
momento in cui il RUP procede con la “costruzione” della base d’asta,
un margine di utile deve pur prevederlo o meglio deve prevedere, al netto
dei vari costi, un minimo di margine di utilità per chi partecipa alla gara
visto che non sono nè serie né ammissibili partecipazione in perdita. Anzi,
queste sono sicuramente da respingere visto l’insidia costituita
dall’ottenimento di prestazioni assolutamente inaccettabili da parte della
stazione appaltante (prestazioni scadenti sotto vari profili).
Quindi, se nella costruzione della base d’asta il RUP deve tener conto di un
vantaggio economico (che costituisce anche incentivo a partecipare alla
competizione), è altrettanto vero che non può porre dei limiti visto che la
partecipazione può essere utile ed opportuna all’appaltatore anche per il
curriculum derivante dalla partecipazione alla competizione.
Tale considerazione è stata di recente ribadita dal Consiglio di Stato, sez.
III, con la sentenza del 25.06.2020 n. 4090 in relazione alla dinamiche che
il RUP deve presidiare nella verifica della congruità dell’offerta.
Il giudice di Palazzo Spada, ossequiando l’orientamento consolidato, ha
evidenziato che secondo le stabili indicazioni giurisprudenziali (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, n. 269 del 17.01.2018), “al di fuori dei casi
in cui il margine positivo risulti pari a zero, non è possibile stabilire
una soglia minima di utile al di sotto della quale l’offerta deve essere
considerata anomala, poiché anche un utile apparentemente modesto può
comportare un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé
dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la pubblicità, il
curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato
a termine un appalto pubblico”.
Paradossalmente un limite generico può essere individuato nell’utile pari a
zero: circostanza questa che solleciterà l’adeguata verifica di congruità
fermo restando che solo l’aggiudicazione di offerta in perdita deve essere
considerata assolutamente patologica ed in quanto tale inaccettabile
(08.07.2020 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Le
dichiarazioni del d.lgs. 39/2013: obblighi e verifiche.
Domanda
Le dichiarazioni in materia di inconferibilità e incompatibilità, previste
dall’articolo 20, del d.lgs. 39/2013, vanno presentate ogni anno?
E che obblighi di pubblicazione sono previsti?
Risposta
La materia del quesito è disciplinata dal decreto legislativo 08.04.2013, n.
39, recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità
di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati
in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge
06.11.2012, n. 190”.
L’art. 20, comma 1, del d.lgs. 39/2013, prevede che all’atto di
conferimento dell’incarico i dirigenti, il segretario comunale e le
posizioni organizzative negli enti senza dirigenti (ex
art. 2, comma 2, d.lgs. 39/2013), compresi gli incarichi conferiti ai sensi dell’art. 110,
del TUEL 267/2000, abbiano l’obbligo di presentare una dichiarazione sulla
insussistenza di una delle cause di inconferibilità del citato decreto
legislativo. Come aggiunge il comma 4, del medesimo articolo, la
dichiarazione è condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico.
Il comma 2, dell’articolo in trattazione, invece, prevede che i titolari
degli incarichi di cui sopra, annualmente debbano presentare una
dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di incompatibilità,
trattate nel d.lgs. 39/2013.
Le due dichiarazioni (comma 3), vanno pubblicate nel sito web del comune,
nella sezione Amministrazione Trasparente > Personale.
Se, come spesso accade nei comuni piccoli e medi, gli incarichi di posizione
organizzativa hanno durata annuale, risulta evidente che le due
dichiarazioni vanno rese simultaneamente, anche utilizzando un unico
modello, come da fac-simile, che si allega alla presente risposta.
All’ente, ricevute le dichiarazioni e pubblicatele nel sito, resta l’obbligo
di procedere alla verifica, anche a campione, come previsto dalla delibera
ANAC n. 833 del 03.08.2016, recante “Linee guida in materia di
accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi
amministrativi da parte del responsabile della prevenzione della corruzione.
Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’A.N.AC. in caso di
incarichi inconferibili e incompatibili”.
Pertanto, è opportuno prevedere nel Piano Triennale Prevenzione della
Corruzione e Trasparenza (PTPCT) delle idonee misure di verifica sulle
dichiarazioni rese dai soggetti che ne sono obbligati. Tra le più semplici
ed efficaci è prevista quella di richiedere il certificato penale e carichi
pendenti dei soggetti interessati, onde verificare la non presenza di
sentenza, anche non passate in giudicato, per uno dei reati previsti dal
capo I, del titolo II, del libro secondo del codice penale, anche nel caso
di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’articolo 444 del
codice di procedura penale (c.d. patteggiamento)
(07.07.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI: Rientrano
nel limite di indebitamento (art. 204 TUEL) le lettere di patronage
‘forte’ a meno che l’ente costituisca apposito accantonamento di
bilancio.
Domanda
Da pochi mesi sono responsabile finanziario del mio comune. Nei giorni
scorsi sono venuto a conoscenza di una lettera di patronge ‘forte’
sottoscritta dal sindaco a favore della società partecipata ‘X’. A bilancio
non ve n’è alcuna traccia.
E’ corretto?
Risposta
Il tema delle lettere di patronage rilasciate a favore di società
partecipate dagli enti locali è sempre di sicuro interesse. Anche per la
Corte dei conti, che non a caso nei propri questionari sui rendiconti di
esercizio ne chiede conto all’ente qualora ne ricorra la fattispecie. E, in
tal caso, chiede di fornire ogni dettaglio sui destinatari delle operazioni,
l’ammontare previsto, nonché il piano delle erogazioni ed il piano di
ammortamento distintamente per quota capitale e quota interessi. L’ente
dovrà altresì allegare le relative deliberazioni.
In più occasioni le singole sezioni regionali hanno fornito chiarimenti a
fronte di specifici quesiti posti da enti locali. Da ultimo lo ha fatto la
sezione Piemonte con deliberazione n. 36/2020/SRCPIE/PAR (qui
il testo integrale).
Nell’esaminare il caso sottoposto e richiamando la deliberazione della
Sezione Autonomie n. 30/2015, la sezione piemontese ricorda quanto disposto
in materia dal punto 3.17 dell’allegato n. 4/2 al d.lgs. n. 118/2011. In
particolare, evidenzia come la concessione di garanzie incida sulla capacità
complessiva di indebitamento degli enti, e soggiace necessariamente ai
limiti imposti dall’art. 119, ultimo comma, Cost. Questo, lo ricordiamo,
vieta il ricorso all’indebitamento per spese diverse da quelle di
investimento.
La vigente normativa in materia di garanzie prestate dagli enti locali trova
l’unico temperamento nella clausola di salvezza, contenuta nella parte
finale dell’art. 204, comma 1, del Tuel, laddove si prevede di escludere,
dal calcolo del limite quantitativo di indebitamento, le rate sulle garanzie
prestate, a condizione che l’ente abbia provveduto ad accantonare “l’intero
importo del debito garantito”.
Solo in tal modo si realizza un’idonea copertura degli oneri conseguenti
all’eventuale escussione del debito da parte del terzo, per il quale la
garanzia è stata concessa. Secondo la sezione Autonomie, prosegue quella
piemontese, il ricorso al termine “garanzie” di cui all’art. 204 del
Tuel, va inteso in senso ampio. Esso ricomprende infatti tutti i negozi
giuridici attualmente riconducibili a tale categoria, e pertanto non
soltanto i contratti aventi natura fideiussoria (art. 207 del Tuel) ma “ogni
negozio giuridico (es. contratto autonomo di garanzia, lettera di patronage
‘forte’) caratterizzato da finalità di garanzia e diretto a trasferire da un
soggetto ad un altro il rischio connesso alla mancata esecuzione di una
prestazione contrattuale (Cassazione, Sezioni unite, sentenza n. 3947/2010)”.
L’orientamento della Corte dei conti per cui le lettere di patronage
devono considerarsi una potenziale fonte di indebitamento, e come tali, da
assoggettare ai limiti dettati ai sensi dell’art. 204 del Tuel è ormai
consolidato. Ciò è vero anche nel caso in cui la sua sottoscrizione sia
avvenuta da parte di organo non competente (nel caso di specie: il sindaco
pro tempore: il che conferma, seppure indirettamente, che la
competenza alla loro sottoscrizione è della parte tecnica, sebbene si tratti
di pratica notoriamente disattesa).
Quindi, prosegue la sezione Piemonte, il riferimento va fatto al punto 5.5
del Principio contabile, il quale prevede che: “il trattamento delle
garanzie fornite dall’ente sulle passività emesse da terzi è il seguente: al
momento della concessione della garanzia, in contabilità finanziaria non si
effettua alcuna contabilizzazione”, giacché il debito in oggetto è solo
eventuale, e discende unicamente dall’ipotesi in cui la società partecipata
–debitore principale– risulti inadempiente o insolvente “(…) nel rispetto
del principio della prudenza, si ritiene opportuno che, nell’esercizio in
cui è concessa la garanzia, l’ente effettui un accantonamento tra le spese
correnti tra i “Fondi di riserva e altri accantonamenti”. Tale
accantonamento consente di destinare una quota del risultato di
amministrazione a copertura dell’eventuale onere a carico dell’ente in caso
di escussione del debito garantito”.
In mancanza, verrebbe compromessa la veridicità e l’attendibilità del
bilancio stesso, a meno che gli oneri per interessi, assunti con la lettera
di patronage, siano computati nel calcolo del limite stabilito dall’art. 204
del Tuel.
Si perviene pertanto alla conclusione che l’esclusione dal calcolo dei
limiti di indebitamento della quota interessi relativa alle garanzie
prestate dagli enti territoriali, è consentita, nel rispetto dell’art. 204
del Tuel, soltanto nelle ipotesi di accantonamento dell’intero importo del
debito garantito a “fondo rischi e passività potenziali”, vincolando
così una quota del medesimo importo dell’avanzo di amministrazione.
Ciò permetterà infatti all’ente di sopperire tempestivamente in caso di
riconoscimento (transattivo o giudiziale) della pretesa del terzo creditore.
Infine, conclude la Corte, l’opzione contabile di cui al punto 5.5
dell’Allegato 4/2 al d.lgs. n. 118/2011 non implica, nei confronti dei
terzi, un tacito riconoscimento della fondatezza della loro pretesa
(06.07.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aumento
ore part-time.
Domanda
Aumento delle ore di un dipendente a part-time o trasformazione a tempo
pieno: cosa cambia dal punto di vista delle capacità assunzionali?
Risposta
In base all’art. 3, comma 101, della l. 244/2007 la trasformazione del
rapporto di lavoro da part-time a full time può avvenire nel rispetto e
nelle modalità previste dalle disposizione vigenti in tema di assunzioni.
Secondo diverse pronunce della Corte dei Conti, un mero aumento orario del
rapporto di lavoro a tempo parziale, in assenza di trasformazione del
rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, non integra al contrario
una nuova assunzione, sempre che ciò non costituisca una manovra elusiva (ex
plurimis, Sez. controllo Lombardia n. 462/2012/PAR; Sez. controllo
Campania n. 20/2014/PAR; Sez. controllo Sicilia n. 68/PAR/2017; Sez.
controllo Sicilia n. 176/PAR/2017; Sez. controllo Molise n. 40/2017/PAR;
Sez. controllo Abruzzo n. 12/2017/PAR).
E’ stato, invece, ritenuto elusivo l’incremento orario del rapporto di
lavoro a tempo parziale a 35 ore settimanali (Sez. controllo Sardegna n.
67/2012/PAR; SS.RR. Sicilia, n. 96/2012/PAR; Sez. controllo Lombardia n.
462/2012/PAR).
Quindi, si ritiene che, ad esempio, un incremento da 15 a 20 ore del
rapporto di lavoro a tempo determinato di un dipendente, nel rispetto dei
vincoli in materia di spesa di personale e di reclutamento con rapporti
flessibili, non debba seguire le procedure previste per una nuova assunzione
(02.07.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
personale di questo Comune, con riferimento alla previsione di cui all'art.
87, comma 4-bis, D.L. 17.03.2020 n. 18 ed alla possibilità di cessione, tra
pubblici dipendenti, delle ferie e dei riposi maturati (c.d. ferie
solidali), chiede di chiarire la portata di tale disposizione, con
particolare riferimento ai termini di fruizione di tale istituto nonché
all'eventuale applicabilità anche alle ferie pregresse derivanti da
annualità precedenti.
L'art. 87, comma 4-bis, D.L. 17.03.2020 n. 18 (c.d. Decreto "cura Italia")
convertito, con modificazioni dalla L. 24.04.2020 n. 27 ha testualmente
disciplinato che "fino al termine stabilito ai sensi del comma 1 (n.b. fino
alla cessazione dello stato di emergenza al momento fissato al 31 luglio), e
comunque non oltre il 30.09.2020, al fine di fronteggiare le particolari
esigenze emergenziali connesse all'epidemia da COVID-19, anche in deroga a
quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali vigenti, i dipendenti
delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, possono cedere, in tutto o in parte, i
riposi e le ferie maturati fino al 31.12.2019 ad altro dipendente della
medesima amministrazione di appartenenza, senza distinzione tra le diverse
categorie di inquadramento o ai diversi profili posseduti.
La cessione avviene in forma scritta ed è comunicata al dirigente del
dipendente cedente e a quello del dipendente ricevente, è a titolo gratuito,
non può essere sottoposta a condizione o a termine e non è revocabile.
Restano fermi i termini temporali previsti per la fruizione delle ferie
pregresse dalla disciplina vigente e dalla contrattazione collettiva".
Tale disciplina, pertanto, è andata ad integrare per il periodo di emergenza
sanitaria legata alla diffusione del Coronavirus, l'istituto delle c.d.
ferie solidali recepito, ad esempio, dall'art. 30 del nuovo CCNL del
Comparto delle Funzioni locali per il triennio 2016/2018 (in vigore dal
21.05.2018 ed a seguito dell'introduzione di tale istituto nella normativa
giuslavoristica con l'art. 24, D.Lgs. 14.09.2015, n. 151).
Premessa la disciplina normativa dell'istituto di cui trattasi, possiamo
procedere a definire la portata applicativa in merito ai quesiti che sono
stati posti all'attenzione, evidenziando innanzitutto che non sono stati
registrati interventi esplicativi in materia, ad eccezione delle personale
della Polizia di Stato per il quale si è espresso il Ministero dell'Interno,
Direzione centrale per le risorse umane con una propria nota 27.05.2020 n.
333/A che comunque è possibile parzialmente mutuare quale riferimento. Sulla
scorta di quanto innanzi possiamo tranquillamente affermare che tale nuova
disposizione amplia in buona sostanza la possibilità di cessione delle ferie
ai colleghi ed in particolare:
- non vi è un limite di giorni cedibili
- non vi sono causali vincolanti
- riguarda tutte le ferie ed i riposi maturati alla data del
31.12.2019 e pertanto si estende anche ai riposi per il recupero
psicofisico, ai quattro giorni all'anno di festività soppresse, e a quelli
compensativi, ad esempio dello straordinario.
I vincoli da rispettare, pertanto, sono unicamente quelli imposti dalla
contrattazione collettiva (ai sensi dell'ultimo capoverso dell'articolo in
analisi) e dai quali dobbiamo snodare l'analisi per rispondere compiutamente
a quanto richiesto e capire quindi quali siano i c.d. "giorni cedibili".
Secondo la disciplina contrattuale, infatti:
- le ferie non richieste nell'anno di maturazione possono essere
fruite entro il 30 aprile di quello successivo, fatte salve eccezionali
ragioni organizzative in presenza delle quali la fruizione può essere
procrastinata dal datore di lavoro fino al 30 giugno;
- i riposi compensativi dello straordinario confluito in banca ore
sono utilizzabili entro l'anno successivo a quello di maturazione, mentre i
riposi compensativi maturati per il lavoro straordinario non retribuito
vanno goduti compatibilmente con le esigenze di servizio.
L'interpretazione letterale della norma, pertanto, comporterebbe che possano
essere ceduti solo quanto maturato nel 2019.
A tal uopo viene in aiuto all'odierna analisi e partendo dal concetto che le
ferie maturate comunque non si perdono (in quanto destinate al recupero
psicofisico del lavoratore), l'orientamento applicativo 795-18115 dell'Aran,
secondo cui, nelle ipotesi (patologiche) di mancata fruizione delle ferie
entro i termini di legge, il dipendente può fruirne anche al di là dei
termini fissati ma è l'amministrazione, eventualmente, a fissare i periodi
di fruizione, in applicazione dell'art. 2109 c.c. (le ferie sono assegnate
dal datore di lavoro tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli
interessi del lavoratore).
Per quanto esposto, si ritiene dunque che tale disciplina normativa consenta
di cedere a propri colleghi anche le ferie derivanti da annualità
precedenti.
Per ciò che concerne invece i termini di fruizione di tale istituto, in
assenza come detto di una qualsiasi specificazione da parte degli organi
competenti, non possiamo che rifarci alla letteralità della norma ove è
previsto che "….entro il 30 settembre….i dipendenti….possono cedere…".
Tale termine del 30 settembre, pertanto, non può che riferirsi alla data
limite entro la quale debba essere quantomeno manifestata l'intenzione (o
ancor meglio concluso il procedimento con l'accettazione della controparte)
di cedere i propri giorni di riposo maturati e non già quella entro la quale
gli stessi debbano essere fruiti (anche per via del fatto che la norma
recita che la cessione non può essere sottoposta a termine o condizione).
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.09.2015, n. 151, art. 24
- CCNL del Comparto delle Funzioni locali per il triennio 2016/2018, art. 30
- D.L. 17.03.2020 n. 18, art. 87 - L. 24.04.2020 n. 27 - Nota 27.05.2020 n.
333/A del Ministero dell'Interno
Documenti allegati
Orientamento applicativo n. 795-18115 dell'ARAN
(01.07.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: Costo
della manodopera e piattaforma Mepa.
Domanda
E’ possibile richiedere in una RDO su Mepa l’indicazione obbligatoria da
parte dell’operatore economico dei costi sulla manodopera di cui all’art.
95, co. 10, del d.lgs. 50/2016 direttamente in piattaforma, senza prevedere
un allegato all’offerta economica?
Risposta
Sulla mancata indicazione dei costi della manodopera in sede di offerta
economica ai sensi dell’art. 95, co. 10, del d.lgs. 50/2016, la recente
giurisprudenza si è pronunciata in modo differente, sulla base delle diverse
modalità di costruzione della gara nelle piattaforme telematiche, nonché del
contenuto stesso della lex specialis.
Indipendentemente dall’esito delle decisioni, quello che rileva è il
richiamo nelle varie pronunce alla decisione del giudice comunitario del
02.05.2019 C-309/18, che con riferimento allo specifico obbligo di
indicazione dei costi della manodopera ha ritenuto “che i principi di
certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza, quali
contemplati nella direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo devono essere
interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale secondo
la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera in
un’offerta economica presentata nell’ambito di una procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l’esclusione della medesima
offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui
l’obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato
nella documentazione della gara d’appalto, sempre che tale condizione e tale
possibilità di esclusione siano chiaramente previsti dalla normativa
nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente
richiamata in detta documentazione (sul punto tale obbligo discende
chiaramente dal combinato disposto degli artt. 95, co. 10 e 89, co. 9, del
d.lgs. 50/2016). Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non
consentono agli offerenti di indicare i costi in questione nelle loro
offerte economiche, i principi di trasparenza e di proporzionalità devono
essere interpretati nel senso che essi non ostano alla possibilità di
consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e di ottemperare agli
obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia entro un termine
stabilito dall’amministrazione aggiudicatrice”.
Fatta questa opportuna premessa, si riportano i passaggi da seguire in sede
di costruzione di una RDO su Mepa per consentire agli operatori
l’inserimento del proprio costo della manodoepra direttamente in
piattaforma, in alternativa all’allegato all’offerta economica, ovviamente
per quelle procedure di appalto diverse dalle forniture senza posa in opera,
dai servizi di natura intellettuale e dagli affidamenti ai sensi dell’art.
36, co. 2, lett. a).
(... continua)
(01.07.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Amministrazione
trasparente: le sezioni sono obbligatorie?
Domanda
Sulla base del gestionale informatico che è stato acquistato di recente,
abbiamo notato che nella sezione Amministrazione trasparente, compare anche
la sotto-sezione "Strutture sanitarie private accreditate".
Essendo un ente locale (comune sotto 10.000 abitanti) è possibile eliminare
la sotto-sezione dall’Albero?
Risposta
Come previsto nell’articolo 48, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013,
n. 33, modificato dall’articolo 39 del d.lgs. 97/2016, all’Autorità
Nazionale Anticorruzione (ANAC) viene demandato il compito di definire i
criteri, i modelli e gli schemi standard per l’organizzazione, la
codificazione e la rappresentazione dei documenti, delle informazioni e dei
dati oggetto di pubblicazione obbligatoria, ai sensi della normativa
vigente, nonché relativamente all’organizzazione della sezione
«Amministrazione trasparente».
L’ANAC ha provveduto, da ultimo, a svolgere il compito assegnatole dal
legislatore nazionale, mediante l’adozione dell’Allegato “1” alla delibera
n. 1310 del 28.12.2016, dove sono state previste n. 26 sotto-sezioni di
Livello 1, tra le quali, figura tutt’ora la sotto-sezione “Strutture
sanitarie private accreditate” a cui si fa riferimento nel quesito.
Come ben specificato nel comma 4, dell’articolo 41, del d.lgs. 33/2013,
l’obbligo riguarda la pubblicazione annuale dell’elenco delle strutture
sanitarie private accreditate. Devono essere, inoltre, pubblicati gli
accordi con esse intercorsi.
L’articolo 41, del decreto Trasparenza è, appunto, rubricato “Trasparenza
del servizio sanitario nazionale”.
Tra i svariati compiti e funzioni riservati ai comuni dalle leggi nazionali
e regionali non compare la competenza per l’accreditamento delle strutture
sanitarie, compito che, come sappiamo, è svolto dalle regioni.
Chiarito, pertanto, che i comuni non sono soggetti a nessuna pubblicazione
nella sotto-sezione in parola, resta da definire se è possibile eliminare la
sotto-sezione dall’alberatura.
A parere di chi scrive, la risposta è negativa dal momento che il d.lgs.
33/2013, all’art. 48, comma 4, prevede che gli standard e i modelli
dell’Alberto della Trasparenza debbano assicurare “la soddisfazione delle
esigenze di uniformità delle modalità di codifica e di rappresentazione
delle informazioni e dei dati pubblici”.
In aggiunta, si ricorda che l’Allegato A, del d.lgs. 33/2013, ben specifica
che le sotto-sezioni devono essere denominate esattamente come indicato in
Tabella 1, lasciando chiaramente intendere che la struttura di
Amministrazione trasparente non è modificabile a piacere dai singoli enti.
La stessa ANAC, a conferma di quanto sopra, suggerisce che non è
consigliabile lasciare le sotto sezioni vuote. L’Autorità considera questi
casi specifici, infatti, come omessa pubblicazione. Meglio inserire una
dicitura (o un documento) che dia conto delle motivazioni della mancanza dei
contenuti. Nel caso del vostro comune la dicitura che si consiglia di
inserire è la seguente: “Disposizione non applicabile al comune. La
sezione è di esclusiva competenza delle amministrazioni facenti capo al
Servizio Sanitario Nazionale”.
Chiudiamo con un piccola curiosità.
Per formulare la presente risposta ci è capitato di consultare numerosi siti
web, sezione Amministrazione trasparente di alcune pubbliche
amministrazioni. Tra queste, per esempio, il sito della presidenza del
Consiglio dei ministri, il Ministero della Salute, Ministero Interno,
Giustizia, MIT, MIUR, Esteri e Ministero dello sviluppo economico (MISE).
Oppure, restando ai comuni, quelli di Milano, Bologna, Roma e Napoli. Come
verifica finale abbiamo pensato di andare a consultare l’Albero della
Trasparenza di ANAC (se non lo sanno loro…)
Ebbene, in nessuno di questi siti, nella sezione Amministrazione
Trasparente, compare il link “Strutture sanitarie private accreditate”,
che risulta presente, invece, nei siti web del Garante privacy italiano,
CNEL, ANCI (Ass. Comuni Italiani), Ministero della Difesa, AGID-Agenzia per
l’Italia Digitale, Corte dei Conti, comune Trento, comune Catanzaro, Camera
Commercio Padova, Le Gallerie degli Uffizi, eccetera eccetera.
Quindi, la risposta, revisionata, al quesito diventa la seguente “fate
come volete”
(30.06.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI:
Dal 1° luglio scatta l’obbligo di inserire nei mandati di pagamento (OPI) la
scadenza delle fatture.
Domanda
Se non ricordo male, sul finire del 2019 si parlava di nuovi adempimenti nel
corso del 2020 a carico dei comuni per i mandati di pagamento di fatture
elettroniche.
Di cosa si tratta? Mi potete aiutare?
Risposta
La novità oggetto del quesito è quella prevista dall’art. 50, comma 3, del
d.l. n. 124/2019, come modificato dall’art. 1, comma 855, della legge n.
160/2019. Vediamo di cosa si tratta.
Tale norma prevede che: “Entro il 01.07.2020 le amministrazioni pubbliche
di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196, che si
avvalgono dell’Ordinativo Informatico di Pagamento (OPI) (…), sono tenute ad
inserire nello stesso Ordinativo la data di scadenza della fattura.
Conseguentemente, a decorrere dalla suddetta data, per le medesime
amministrazioni viene meno l’obbligo di comunicazione mensile di cui
all’articolo 7-bis, comma 4, del decreto-legge 08.04.2013, n. 35,
convertito, con modificazioni, dalla legge 06.06.2013, n. 64”.
Quindi il nuovo obbligo, che decorre dal prossimo primo luglio (termine così
anticipato dalla Legge di bilancio 2020 in luogo del precedente termine
inizialmente fissato dal decreto legge n. 124/2019 al 01/01/2021), è proprio
quello di inserire nei mandati di pagamento la data di scadenza delle
fatture pagate. Essa dovrà essere inserita nel campo «data_scadenza_pagam_siope»
del file XML dell’ordinativo di pagamento informatico.
Le software house che forniscono i gestionali della contabilità ai
comuni dovrebbero essersi già adeguate da tempo, visto che la norma risale
allo scorso anno, prevedendone l’automatismo. L’unica attività da svolgere
in questi giorni è verificare se tale adeguamento sia già stato effettuato
oppure no. In quest’ultimo caso si dovrà sollecitare la propria ditta
fornitrice del software affinché vi provveda con la massima celerità. La
data di scadenza viene ricavata dalla fattura elettronica che l’ente riceve
dal fornitore attraverso lo SDI.
D’ora in poi, e ancora più che in passato, diviene fondamentale verificarne
la correttezza da parte degli uffici ragioneria. Sono infatti frequenti i
casi in cui la data di scadenza indicata in fattura dalla ditta creditrice
non rispetti il dettato normativo di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 231/2002
(ovvero, di norma: trenta giorni dalla data di ricevimento da parte del
debitore della fattura).
Spesso infatti essa coincide con la data di emissione della stessa fattura
che, talora, è addirittura antecedente alla stessa data di ricezione da
parte dell’ente destinatario. In tali casi è necessario modificarla
manualmente all’interno del proprio gestionale in modo che essa venga
correttamente riportata sull’OPI all’atto del suo pagamento. Viceversa,
all’interno della PCC rimarrebbe la data di scadenza errata, a cui
erroneamente potrà corrispondere un pagamento tardivo da parte dell’ente.
Ciò produrrebbe riflessi negativi sull’indicatore di tempestività dei
pagamenti dei propri debiti commerciali, con importanti conseguenze in vista
dell’avvio –dal 2021– della disciplina del nuovo Fondo garanzia pagamento
debiti commerciali (FGDC) di cui ai commi 859 e seguenti della L. 145/2018.
Ricordiamo infatti che quest’ultima obbliga gli enti che sono in ritardo nel
pagamento dei propri debiti commerciali ad accantonare somme in tale Fondo.
L’importo dell’accantonamento è crescente al crescere del ritardo con cui
vengono pagate le fatture rispetto ai termini di legge stabiliti dall’art. 4
del d.lgs. 231/2002.
La stessa norma contenuta nel d.l. 124/2019 prevede inoltre che sempre a
partire dal 01.07.2020 venga meno l’obbligo di comunicazione mensile di cui
all’art. 7-bis, comma 4 del d.l. 35/2013. Di cosa si trattava?
Tale norma si riferiva all’obbligo per le amministrazioni pubbliche di
comunicare entro il 15 di ciascun mese alla stessa PCC i dati relativi ai
debiti non estinti, certi, liquidi ed esigibili per somministrazioni,
forniture e appalti e obbligazioni relative a prestazioni professionali, per
i quali, nel mese precedente, fosse stato superato il termine di decorrenza
degli interessi moratori di cui all’articolo 4 del suddetto d.lgs. 231/2002.
La ragione di tale abrogazione è evidente: visto che d’ora in poi la PCC ‘vede’
in autonomia la scadenza delle fatture, non avrà più bisogno che sia l’ente
a comunicarle i pagamenti tardivi. Questi ultimi emergeranno automaticamente
dal semplice confronto fra la data di scadenza della fattura e la data di
emissione del mandato di pagamento
(29.06.2020 - link a www.publika.it). |
aggiornamento al
25.06.2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Congedo dei
padri.
Domanda
Spettano anche nel 2020 i giorni di congedo obbligatorio e congedo
facoltativo dei papà? Sono congedi utilizzabili anche dai neopapà dipendenti
pubblici?
Risposta
La Legge di Bilancio 2020, all’art. 1, comma 342, si è occupata di
modificare la Legge di disciplina dei congedi oggetto del quesito,
prorogando e ampliando i congedi obbligatori in giorni 7 per l’anno 2020 e
confermando in 1 giorno, il congedo facoltativo.
La legge di prima introduzione dei congedi è la Legge Fornero n. 92 del
28.06.2012 la quale ha inteso dare attuazione alla Direttiva 18/UE del
Consiglio dell’Unione Europea dell’8 marzo 2010.
La Direttiva 2010/18 è stata abrogata e sostituita dalla Direttiva 2019/1158
del 20.06.2019, nella quale si invitano gli stati membri, entro il 2022, in
relazione ai congedi di paternità, di adottare le misure necessarie a
garantire al padre (secondo genitore) un congedo di paternità di 10 giorni
lavorativi da fruire in occasione della nascita di un figlio.
Sin dal 2012, tuttavia, detti congedi non possono essere goduti dai neo papà
lavoratori pubblici.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con nota del 20.02.2013, ha
chiarito infatti che la disciplina non è direttamente applicabile ai
rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e nessuna
novità è intervenuta nel merito.
Questo a significare evidentemente che l’elemento di discriminazione tra
lavoro femminile e maschile, quando riferito alla maternità, appare
maggiormente tutelato nel pubblico impiego rispetto al modo privato.
L’obbligo di fruire di un congedo obbligatorio da parte del padre, entro i
primi 5 mesi di vita del bambino, si prefigura infatti di contenere un
diverso e discriminante trattamento nel rapporto di lavoro tra uomini e
donne.
Il dettaglio della disciplina rispetto alle corrette modalità di utilizzo
dei congedi è contenuto nel decreto del Ministero del Lavoro e delle
Politiche sociali, del 22.12.2012.
Nel 2020, quindi, i neo papà lavoratori privati, avranno diritto:
• 7 giorni di congedo obbligatorio
• 1 giorno di congedo facoltativo
Le interferenze con il pubblico impiego riguardano la sola ipotesi in cui il
padre goda del congedo facoltativo, in quanto, mentre il congedo
obbligatorio si rappresenta come aggiuntivo rispetto ai congedi della madre,
il congedo facoltativo è sostituivo e va ad inficiare la durata del periodo
di astensione obbligatoria della madre.
L’ipotesi è quella di un padre lavoratore privato, e di una madre (dello
stesso figlio) lavoratrice pubblica. Nel caso in cui il padre goda del
giorno di congedo facoltativo, la madre lavoratrice pubblica, terminerà il
periodo di astensione obbligatoria un giorno prima del previsto.
Il messaggio INPS n. 679 del 21.02.2020 recepisce il contenuto della Legge
di bilancio e conferma le istruzioni di compilazione delle domande valevoli
per i soggetti privati (25.06.2020
- link a www.publika.it). |
TRIBUTI:
L'ufficio Tributi di questo Comune intende procedere alla
notifica dei c.d. "accertamenti esecutivi" durante il periodo di sospensione
"Covid".
Quale è l'attuale disciplina con riferimento al termine attuale fissato al
31 agosto?
Per rispondere al quesito proposto occorre innanzitutto ripercorrere le
tappe fondamentali della normativa di cui trattasi.
In primis, fu il comma 1 dell'art. 67, D.L. 17.03.2020, n. 18,
convertito, con modificazioni, dalla L. 24.04.2020, n. 27 a stabilire la
sospensione, dall'8 marzo al 31.05.2020, dei termini relativi alle attività
di liquidazione, di controllo, di accertamento, di riscossione e di
contenzioso, da parte degli uffici degli enti impositori, ivi compresi
quelli degli enti locali. È bene sottolineare che comunque questa
disposizione non sospende l'attività degli enti impositori ma prevede
esclusivamente la sospensione dei termini di prescrizione e decadenza delle
predette attività nel periodo individuato.
Il comma 1 dell'art. 68 dello stesso D.L. 17.03.2020, n. 18 dispone invece,
con riferimento alle entrate tributarie e non tributarie, la sospensione dei
termini dei versamenti, scadenti nel periodo dall'08.03. al 31.08.2020,
derivanti da cartelle di pagamento emesse dagli agenti della riscossione,
nonché dagli avvisi previsti dagli artt. 29 e 30, D.L. 31.05.2010, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla L. 30.07.2010, n. 122 (avvisi di
accertamento e riscossione emessi rispettivamente dall'Agenzia delle Entrate
e dall'Inps).
Il successivo comma 2, poi, stabilisce che la sospensione in discorso si
applica anche alle ingiunzioni di cui al R.D. 14.04.1910, n. 639, emesse
dagli enti territoriali, nonché agli atti di accertamento esecutivo di cui
all'art. 1, comma 792, L. 27.12.2019, n. 160.
Per completezza di analisi bisogna citare in ultimo anche la norma di cui
all'art. 12, D.Lgs. 24.09.2015, n. 159 ("Sospensione dei termini per
eventi eccezionali"), richiamata nel comma 1 dell'art. 68: nel periodo
di sospensione in parola l'agente della riscossione non procede alla
notifica delle cartelle di pagamento, come disposto dal comma 3 del medesimo
art. 12. A chiarire però la portata di tali disposizioni, che a prima
lettura sembrerebbero includere "nella scure" della sospensione anche
la nuova fattispecie dell'accertamento esecutivo, è intervenuto, nei giorni
scorsi, il Ministero dell'Economia e delle Finanze - Dipartimento delle
finanze con la propria Ris. 15.06.2020, n. 6/DF.
Tale documento, per ciò che concerne la fattispecie tributaria che si sta
analizzando, ovvero quella dell'accertamento esecutivo, sottolinea che tale
atto, di cui all’art. 1, comma 792, L. 27.12.2019, n. 160, racchiude in sé
due distinti atti che prima della riforma caratterizzavano la riscossione,
vale a dire l'avviso di accertamento o l'atto finalizzato alla riscossione
delle entrate patrimoniali e la cartella di pagamento o l'ingiunzione
fiscale.
Sulla scorta di ciò, il Ministero ritiene che, nell'ambito dell'applicazione
del richiamato art. 68, D.L. 17.03.2020, n. 18, tale atto possa rientrare
solo dopo che lo stesso sia divenuto esecutivo ai sensi della lett. b),
dello stesso comma 792, con la conseguenza che gli enti locali e i soggetti
affidatari non possono attivare procedure di recupero coattivo né adottare
misure cautelari, in accordo a quanto disposto dal comma 3 dell'art. 12,
D.Lgs. 24.09.2015, n. 159, mentre, al contempo e per effetto dello stesso
art. 68, per il contribuente è prevista la sospensione dei versamenti.
Pertanto, sulla scorta di quanto specificato dal MEF nella propria
risoluzione, l'ufficio tributi è legittimato a procedere alla notifica degli
atti di accertamento esecutivo anche durante il periodo di sospensione,
individuato dall'art. 68, D.L. 17.03.2020, n. 18, che termina il 31.08.2020,
in quanto tali atti racchiudono al loro interno sia l'atto di accertamento
sia quello esecutivo.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 24.09.2015, n. 159, art. 12 - L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma
792 - D.L. 17.03.2020, n. 18, art. 67 - D.L. 17.03.2020, n. 18, art. 68 -
D.L. 17.03.2020, n. 18 - R.D. 14.04.910, n. 639 - L. 24.04.2020, n. 27 - Ris.
15.06.2020, n. 6/DF del Ministero dell'Economia e delle Finanze -
Dipartimento delle finanze (24.06.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: Consorzio
e consorziate – onere di dichiarazione requisiti generali.
Domanda
Nel caso di consorzio di produzione e lavoro costituito a norma della legge
25.06.1909 n. 422 di cui all’art. 45, co. 2, lett. b), del d.lgs. 50/2016,
in sede di gara è necessario richiedere e verificare i requisiti generali di
tutte le consorziate, ancorché non indicate quali esecutrici della
prestazione?
Risposta
I consorzi di cooperative di produzione e lavoro costituiti a norma della
legge 25.06.1909 n. 422 si presentano come organismi con scopo mutualistico
che acquisiscono appalti per conto delle consorziate, a cui forniscono un
supporto tecnico oltre che economico. In particolare ai citati consorzi è
consentita la partecipazione alle procedure di affidamento ai sensi
dell’art. 45, co. 2, lett. b), del d.lgs. 50/2016, con indicazione in sede
di offerta delle consorziate per le quali concorrono (art. 48, co. 7, del
d.lgs. 50/2016).
La giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi più volte sulla
qualificazione del consorzio, come autonomo soggetto distinto dalle
consorziate che lo compongono, orientamento sintetizzato da ultimo nella
sentenza del C.d.S. 14.04.2020 n. 2387, che nel richiamare la propria
decisione n. 6632 del 23.11.2018 ha rilevato:
• che detti consorzi partecipano alla procedura di gara utilizzando
requisiti loro propri, e nell’ambito di questi, facendo valere i mezzi nella
disponibilità delle cooperative che costituiscono articolazioni organiche
del soggetto collettivo, e cioè i suoi interna corporis;
• ciò significa che il rapporto organico che lega le cooperative
consorziate, ivi compresa quella incaricata dell’esecuzione dei lavori, è
tale che l’attività compiuta dalle consorziate è imputata unicamente al
consorzio;
• il concorrente è quindi solo il consorzio, mentre non assumono
tale veste le sue consorziate, nemmeno quella designata per l’esecuzione
della commessa.
Il Consiglio di Stato ha dato una definizione del rapporto organico
esistente tra il consorzio e le singole consorziate, quale situazione che
non comporta un assorbimento della soggettività delle stesse, ma mero
modello organizzativo che regola, per il caso di specie, la loro
partecipazione alle procedure di gara.
In particolare il soggetto che presenta offerta è solo il consorzio di
cooperative di produzione e lavoro, e non le consorziate, neppure quelle
indicate per l’esecuzione delle prestazioni. Consorzio che ai sensi
dell’art. 47, co. 1, del d.lgs. 50/2016 deve comprovare il possesso dei
requisiti di idoneità tecnica e finanziaria secondo le modalità previste dal
codice, nonché i requisiti generali di cui all’art. 80. Tale dichiarazione
deve essere resa anche dalla/e consorziata/e esecutrice/i quale diretta
conseguenza dell’esecuzione, proprio per evitare che l’ente collettivo
diventi uno strumento di copertura per la partecipazione di soggetti privi
dei requisiti generali di cui all’art. 80 del codice.
Pertanto, sulla base di questa condividibile sentenza non è necessario in
sede di gara, richiedere e verificare il possesso dei requisiti generali in
capo alle consorziate non esecutrici (24.06.2020
- link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Diffusione
nominativi defunti covid-19 e tutela dei dati personali.
Domanda
Nel nostro Comune, da molti giorni non si registrano più nuovi contagi, ma
il bollettino delle vittime purtroppo è stato elevato.
In occasione della cerimonia per festa del Patrono, il sindaco avrebbe
intenzione di ricordare pubblicamente i nostri concittadini deceduti in
conseguenza del COVID-19, ma vorremmo sapere se ci sono problemi di privacy.
Risposta
Il quesito posto richiede una premessa relativa al trattamento dei dati
personali delle persone decedute.
Il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del
27.04.2016 (GDPR), non contempla una disciplina specifica in merito,
rinviando alla legislazione degli Stati membri. La clausola di salvaguardia
contenuta nel Considerando 27, prevede che il presente regolamento non si
applica ai dati personali delle persone decedute. Gli Stati membri possono
prevedere norme riguardanti il trattamento dei dati personali delle persone
decedute?
Il decreto legislativo 30.06.2003, n. 196 (Codice Privacy italiano), come
ampiamente modificato dal decreto legislativo 10.08.2018, n. 101,
disciplina, all’art. 2-terdecies, i diritti riguardanti le persone decedute,
disponendo, al comma 1, che i diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del
Regolamento riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono
essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela
dell’interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari
meritevoli di protezione. Da ciò deduce che i dati personali del defunto
meritano tutela sia nell’interesse del defunto stesso che dei suoi
familiari.
Sul punto si espresso chiaramente il Garante per la protezione dei dati
personali (Garante Privacy italiano)
il 10.02.2019, con riferimento ad un diniego di accesso da parte
di una azienda sanitaria al percorso clinico di un paziente, affermando che
“ai dati personali concernenti le persone decedute continuano ad
applicarsi le tutele previste dalla disciplina in materia di protezione dei
dati personali”.
Nel caso di specie occorre, peraltro, tener conto della circostanza che si
tratta di persone decedute per contagio da COVID-19.
Come noto il Garante privacy, sin dall’inizio dell’emergenza sanitaria, ha
ritenuto ammissibili le limitazioni del diritto alla privacy soltanto se
giustificate dall’esigenza di contenere il contagio e dunque nella misura
strettamente necessaria alla tutela del diritto alla salute della
collettività
Il Comune detiene i nominativi dei soggetti colpiti da COVID-19 per finalità
connesse alla gestione dell’emergenza e non può farne un uso diverso.
Inoltre, la diffusione di dati relativi alla salute è vietata espressamente
dall’art. art. 2-septies, comma 8 del Codice Privacy.
Il Garante Privacy ha ricevuto segnalazioni e reclami con i quali viene
lamentata, da parte dei familiari, la diffusione sui canali social e sugli
organi di stampa, anche on-line, di dati personali riguardanti soggetti
risultati positivi al Covid 19. Nello stigmatizzare questo comportamento
degli organi di stampa,
il Garante precisa che l’obbligo di rispettare la dignità e la
riservatezza dei malati vige anche per gli utenti dei social, a cominciare
da alcuni amministratori locali, che spesso diffondono dati personali di
persone decedute o contagiate senza valutarne interamente le conseguenze per
gli interessati e per i loro famigliari.
Seppure l’iniziativa del comune finalizzata semplicemente a celebrare la
memoria dei propri concittadini, considerate le circostanze della malattia e
del decesso, è possibile che i parenti delle vittime vogliano mantenere il
silenzio. A fronte di tale iniziativa, pertanto, non si può escludere il
rischio di denunce nei confronti del comune per cui si consiglia, quanto
meno, di acquisire il consenso dei familiari (23.06.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Durata turni.
Domanda
In caso di lavoro articolato in turni, ritenete che un turno di lavoro che
va dalle 18.00 alle 23.00 possa essere considerato turno notturno?
In particolare, tenuto conto della durata (5 ore) e della fascia oraria che
copre?
Risposta
La disciplina contrattuale contenuta all’art. 23 del CCNL 21.05.2018,
individuando i criteri distintivi il lavoro in turno, rinvia a prestabilite
articolazioni giornaliere effettuate in orario antimeridiano, pomeridiano e,
se previsto, notturno, non precisando alcunché circa la durata minima o
massima dei diversi turni di lavoro.
È del tutto evidente che la durata della prestabilita articolazione
giornaliera dovrà tenere conto delle primarie esigenze di servizio da
soddisfare e di quanto indicato al comma 3 del medesimo articolo di
contratto:
3. Per l’adozione dell’orario di lavoro su turni devono essere osservati
i seguenti criteri:
a) la ripartizione del personale nei vari turni deve avvenire sulla
base delle professionalità necessarie in ciascun turno;
b) l’adozione dei turni può anche prevedere una parziale e limitata
sovrapposizione tra il personale subentrante e quello del turno precedente,
con durata limitata alle esigenze dello scambio delle consegne;
c) all’interno di ogni periodo di 24 ore deve essere garantito un
periodo di riposo di almeno 11 ore consecutive;
d) i turni diurni, antimeridiani e pomeridiani, possono essere
attuati in strutture operative che prevedano un orario di servizio
giornaliero di almeno 10 ore;
e) per turno notturno si intende il periodo lavorativo ricompreso
dalle ore 22 alle ore 6 del giorno successivo; per turno notturno-festivo si
intende quello che cade nel periodo compreso tra le ore 22 del giorno
prefestivo e le ore 6 del giorno festivo e dalle ore 22 del giorno festivo
alle ore 6 del giorno successivo.
Alla luce di quanto sopra precisato non si rinviene alcun divieto nel
prevedere un turno di lavoro della durata di 5 ore a condizione ovviamente
che il debito orario derivante dall’obbligazione contrattuale venga
interamente assolto.
Per quanto attiene al secondo quesito, la disciplina delle turnazioni
contenuta all’art. 23 del CCNL 21.05.2018 non individua le fasce orarie del
turno antimeridiano e pomeridiano, limitandosi a delineare un turno diurno
dalle ore 6 alle ore 22 ciò in quanto tale distinzione non assume rilevanza
dal punto di vista della quantificazione dell’indennità, dal momento che in
entrambi i casi si applica il compenso per il turno diurno stabilito nella
maggiorazione oraria del 10%.
L’articolazione dei turni risponde a precise esigenze organizzative e
funzionali del servizio da svolgere e l’assegnazione ad essi del personale,
in linea con la disciplina contrattuale, dovrà rispondere a criteri di
rotazione, equilibrio e avvicendamento.
La norma di legge che perimetria un limite non valicabile è l’art. 7 del
d.lgs. 66/2003 dove individua nelle 11 ore di riposo consecutivo ogni 24
ore, un diritto indisponibile non rinunciabile, fatte salve le attività
caratterizzate da periodi di lavoro frazionati.
Questo significa che il “negativo” del riposo giornaliero si
rappresenta in un intervallo temporale di 13 ore (24h – 11h), in linea
teorica lavorabili dai dipendenti.
La fonte contrattuale intende e realizza di contenere la durata della
prestazione giornaliera all’art. 38 del CCNL 14.09.2000, comma 6, dove
dispone che la prestazione individuale di lavoro, a qualunque tritolo resa
non può, in ogni caso, superare, di norma, un arco massimo giornaliero di 10
ore.
Premesso quanto sopra, risulta legittimo un turno di lavoro di 10 ore
consecutive ma solo a condizione che venga rispettato il disposto dell’art.
26 del CCNL 21.05.2018, ovvero che il lavoratore, dopo 6 ore continuative di
servizio, effettui una pausa non inferiore ai 10 minuti.
Pausa indisponibile, non rinunciabile e oggetto di timbratura (18.06.2020
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APPALTI:
Verifiche dei requisiti speciali tramite AVCPass.
Domanda
Al fine di verificare l’operatore economico aggiudicatario, in particolare
per i requisiti generali, ricorro all’AVCPass.
È possibile utilizzare tale sistema anche per l’acquisizione d’ufficio
dell’attestazione di regolare esecuzione di un servizio prestato presso
altra pubblica amministrazione e dichiarato in sede di gara?
Risposta
L’AVCPass è uno strumento che attraverso un sistema di cooperazione
applicativa con gli enti certificanti, consente alle pubbliche
amministrazioni di acquisire i certificati a comprova del possesso dei
requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario dichiarati in sede di gara, ai fini della successiva
stipula di un contratto pubblico.
Il presupposto affinché il RUP possa procedere alle verifiche attraverso
questa modalità è la richiesta del CIG mediante SIMOG, nonché la
specificazione in sede di definizione dello stesso, che trattasi appunto di
una procedura non esclusa dall’acquisizione obbligatoria dei requisiti ai
fini dell’AVCpass.
Si precisa che la richiesta del CIG nella forma del SIMOG è possibile anche
per importi inferiori ad euro 40.000,00; modalità tra l’altro suggerita per
ogni affidamento di valore superiore ad € 5.000,00, in ragione della
tempestività del rilascio di alcuni dei certificati da richiedersi a
comprova dei requisiti dichiarati in sede di gara.
È consigliato, inoltre, l’utilizzo dell’AVCPass anche per l’acquisizione
d’ufficio dell’attestazione e/o certificazione o mera dichiarazione di
regolare esecuzione di un servizio prestato presso una pubblica
amministrazione, proprio per la pronta collaborazione degli enti coinvolti a
fronte di una richiesta presentata per il tramite dell’Autorità Nazionale
Anticorruzione.
Da un punto di vista operativo sul portale dell’ANAC, anche in assenza della
specifica riga relativa al requisito di ordine
speciale-tecnico-professionale, è sempre possibile inviare una pec verso
ente non in cooperazione (nello specifico un’altra pubblica
amministrazione), selezionando una riga qualsiasi dei requisiti di ordine
generale (cfr. immagine).
Quindi:
• AVANTI
• ALTRI DOCUMENTI
• Ricercare nelle pagine a video la riga NON CLASSIFICATO – PEC
VERSO ENTE NON IN COOPERAZIONE e selezionarla (cfr.
immagine)
• AVANTI
• Completare gli spazi indicando l’indirizzo pec del destinatario,
l’indirizzo pec del richiedente , l’indirizzo pec a cui inviare la risposta,
l’oggetto della richiesta e il testo della richiesta
• Invia Richiesta (cfr.
immagine) (17.06.2020
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APPALTI: Questo
Comune, in data 10.05.2020, ha verificato ai sensi dell'art. 48-bis, D.P.R.
29.09.1973, n. 602 l'inadempienza di una ditta creditrice dell'Ente al
momento dell'emissione di un mandato di pagamento dell'importo imponibile di
euro 7.900.
Non avendo a tutt'oggi ricevuto alcuna notifica di pignoramento dall'agente
della riscossione, a seguito dell'inadempienza, ci chiediamo come sia
necessario procedere in tale situazione?
Come giustamente segnalato nel quesito proposto, l'art. 153, D.L.
19.05.2020, n. 34 (pubblicato in pari data sul supplemento ordinario n. 21
della Gazzetta Ufficiale n. 128) c.d. "Decreto rilancio" ha
testualmente previsto che "nel periodo di sospensione di cui all'articolo
68, commi 1 e 2-bis, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.04.2020, n. 27 non si applicano le
disposizioni dell'articolo 48-bis del decreto del Presidente della
Repubblica 29.09.1973, n. 602".
Tale disposizione implica pertanto due diverse disposizioni:
• per tutte le Pubbliche Amministrazioni, la sospensione
dall'08.03. al 31.08.2020, delle verifiche di inadempienza da effettuarsi,
ai sensi dell'art. 48-bis, D.P.R. 29.09.1973, n. 602, prima di disporre
pagamenti -a qualunque titolo- di importo superiore a cinquemila euro;
• la sospensione decorre dal 21.02.2020 per i soli
contribuenti che, alla medesima data, avevano la residenza, la sede legale o
la sede operativa nei comuni della c.d. "zona rossa" (allegato 1 DPCM
01.03.2020).
Lo stesso art. 153, nel secondo periodo, disciplina che "Le verifiche
eventualmente già effettuate, anche in data antecedente a tale periodo, ai
sensi del comma 1 dello stesso articolo 48-bis del decreto del Presidente
della Repubblica n. 602 del 1973, per le quali l'agente della riscossione
non ha notificato l'ordine di versamento previsto dall'articolo 72-bis, del
medesimo decreto restano prive di qualunque effetto e le amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, nonché le società a prevalente partecipazione pubblica,
procedono al pagamento a favore del beneficiario".
L'espressione letterale che prevede che "l'inadempimento resti privo di
qualunque effetto se l'Agente di riscossione non ha notificato l'ordine di
pagamento" comporta pertanto che tale sospensione si applichi anche a
tutte le verifiche già effettuate nelle settimane passate e per cui,
nonostante sul sistema di verifica risulti "un blocco" derivante
dall'inadempimento, questo non debba essere considerato se, alla data di
entrata in vigore del citato D.L. 19.05.2020, n. 34 (19.05.2020) l'Agente
della riscossione non abbia notificato all'amministrazione procedente
l'ordine di versamento della somma dovuta in luogo del pagamento in favore
della ditta creditrice.
Per tutto quanto sopra esposto, si può affermare che nel caso di cui
trattasi, l'Amministrazione potrà procedere all'emissione del mandato di
pagamento in favore della ditta creditrice in quanto quest'ultima, seppur
risultata inadempiente alla verifica di cui all'art. 48-bis, D.P.R.
29.09.1973, n. 602, l'Agente della riscossione non ha notificato l'ordine di
pagamento entro la data di entrata in vigore della disposizione richiamata
introdotta dal D.L. "Rilancio" (19 maggio u.s.).
----------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 48-bis - D.L. 17.03.2020, n. 18, art. 68 -
L. 24.04.2020, n. 27 - D.L. 19.05.2020 n. 34, art. 153 (17.06.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Indicizzazione
dei dati: quando è vietata.
Domanda
Il nostro Nucleo di Valutazione ci ha fatto notare che nell’attestazione da
compilare per la rilevazione di quest’anno sugli obblighi di pubblicazione
in Amministrazione Trasparente, c’è una novità riferita alle modalità
adottate dall’ente per indicizzare o meno i dati pubblicati.
Cosa riguarda? Cosa dobbiamo fare?
Risposta
Il principale riferimento normativo rispetto a quanto l’Autorità Nazionale
Anti Corruzione (ANAC) chiede di dichiarare nel documento di attestazione, a
cura degli Organismi Indipendenti di Valutazione –OIV– (o dei Nucleo di
Valutazione), in occasione della rilevazione 2020 sulle pubblicazioni di
Amministrazione Trasparente, è il cosiddetto decreto Milleproroghe (n. 162
del 30.12.2019), che prevede lo slittamento di una serie di termini
legislativi in materia finanziaria, di organizzazione di pubbliche
amministrazioni e magistrature.
Tra le varie disposizioni sostanziali, il Milleproroghe, l’articolo 1, comma
7-ter, nel testo introdotto dalle legge di conversione n. 8 del 28.02.2020,
stabilisce che “non è comunque consentita l’indicizzazione dei dati e
delle informazioni oggetto del regolamento di cui al comma 7”,
diversamente da quanto dispone in merito il decreto Trasparenza (d.lgs.
33/2013) che evidenzia, invece, l’obbligo di indicizzazione in due
specifiche norme:
• all’articolo 9, comma 1;
• articolo 7-bis, introdotto dal decreto legislativo n. 97/2016.
Il regolamento interministeriale citato con riguardo ai dati non
indicizzabili, non è ancora stato adottato (lo sarà entro il 31.12.2020,
salvo proroghe) e si riferisce, in particolare, ai dati e alle informazioni
relativi ai titolari di incarichi politici, di direzione e di governo, oltre
ai dirigenti e alle posizioni organizzative con funzioni dirigenziali, così
come evidenziati dall’articolo 14, comma 1, del d.lgs. 33/2013, come
modificato dal d.lgs. 97/2016. Tale regolamento, avrà lo scopo di
individuare con precisione i dati e le informazioni –riguardanti i soggetti
citati– che saranno oggetto di pubblicazione nella sezione di
Amministrazione Trasparente del sito web istituzionale, sulla base di
determinati criteri, secondo il (giusto) principio della “graduazione
dell’obbligo”.
Pertanto, possiamo rappresentare il quadro normativo nel modo seguente:
1. il decreto Trasparenza prevede l’obbligo generale di indicizzare
i dati, evitando di disporre filtri o altre soluzioni tecnico–informatiche
che impediscono ai motori di ricerca di rintracciare dati e informazioni
pubblicate nella sezione del sito web istituzionale di Amministrazione
Trasparente, permettendo, quindi, il loro riutilizzo nel rispetto dei
principi sul trattamento dei dati personali;
2. il decreto Milleproroghe introduce una misura di tutela
disponendo, invece, che non siano indicizzabili i soli dati relativi ai
titolari di incarichi politici, di direzione e di governo, oltre ai
dirigenti e alle posizioni organizzative con funzioni dirigenziali.
È importante evidenziare che fino al 31.12.2020 –data ultima in cui il
regolamento interministeriale dovrà essere adottato– risultano sospese le
sanzioni disposte dal decreto Trasparenza (articoli 46 e 47) per la mancata
pubblicazione dei dati e delle informazioni citate sopra al punto 2), nelle
more dell’adozione di provvedimenti che chiariscano la questione sollevata
dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 20 del 23.01.2020.
Comunque, gli obblighi di pubblicazione di tali dati continuano a permanere!
È stata temporaneamente sospesa solamente l’applicazione delle sanzioni.
Tornando a quanto riportato sul documento di attestazione, che deve essere
compilato dall’Organismo Indipendente di Valutazione –OIV– (o dal Nucleo di
Valutazione) in occasione della rilevazione 2020 sull’adempimento degli
obblighi di pubblicazione in Amministrazione Trasparente, l’ente deve
dichiarare, quindi, di essersi o meno già allineato alla normativa,
comunicando all’OIV (o al Nucleo) se ha o meno adottato filtri e/o altre
soluzioni tecniche, allo scopo di impedire ai motori di ricerca web di
indicizzare ed effettuare ricerche che abbiano per oggetto i dati e le
informazioni che il legislatore ha individuato come non rintracciabili (16.06.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Questo
Comune ha avviato due procedure concorsuali a dicembre 2019 ma, a seguito
della sospensione per l’emergenza coronavirus, non si sono ancora concluse.
Dopo l’emanazione del Decreto Interministeriale 17.03.2020 è ora possibile
procedere alla conclusione delle suddette procedure con l’assunzione dei
vincitori sulla scorta della programmazione del fabbisogno di personale
2019-2021?
Il Decreto Interministeriale 17.03.2020, emanato in attuazione dell’art. 33
del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.06.2019, n. 58 (c.d. Decreto “Crescita”), non ha
testualmente previsto alcuna disposizione transitoria per le procedure
assunzionali già avviate prima dell’emanazione dello stesso.
Nelle scorse settimane, è divenuta pubblica una “bozza” di circolare
esplicativa del Ministero della Funzione Pubblica (che però non è stata mai
effettivamente emanata e pubblicata) che faceva salve dall’applicazione dei
nuovi calcoli assunzionali tutte le procedure assunzionali per le quali,
alla data di pubblicazione del suddetto Decreto Interministeriale in
Gazzetta Ufficiale (27.04.2020), era stata avviata la procedura di mobilità
obbligatoria ai sensi dell’ art. 34–bis del D.Lgs. 165/2001 ed era stata
prenotata in bilancio la relativa spesa.
Nei giorni scorsi, però, in attesa della quanto mai attesa circolare
esplicativa del Ministero, è intervenuta, con un proprio parere, la
magistratura contabile della Corte dei conti, sezione regionale di controllo
della Lombardia (parere 29.05.2020, n. 74) che non può che essere
attualmente l’unico riferimento da utilizzare per rispondere al quesito
proposto.
Nel suddetto parere, i giudici contabili hanno sottolineato il fatto che,
non essendo stata prevista nel decreto alcuna disciplina transitoria per le
procedure in essere, l'applicazione delle disposizioni dettate dall'articolo
33, comma 2, del decreto legge n. 34/2019 (cosiddetto decreto Crescita) come
attuato dal decreto 17.03.2020 avviene de plano su tutte le assunzioni non
ancora concluse alla data di emanazione del decreto stesso.
La conseguenza di tale parere per gli Enti, è sicuramente quella di dover
procedere alla riapprovazione dei piani triennali di fabbisogno di personale
almeno per quei comuni in cui il decreto interministeriale 17.03.2020
consente minori spazi assunzionali rispetto a quelli previsti dal precedente
sistema.
Secondo i giudici lombardi, infatti, il piano triennale del fabbisogno
“essendo preliminare e distinto dalla procedura assunzionale, non può
segnare con la sua adozione la data per l'individuazione della normativa da
applicare a detta procedura, e segnatamente ai criteri di determinazione
della relativa spesa, sottoposta, invece, sulla base del principio tempus
regit actum, alla normativa vigente al momento delle procedure di
reclutamento”.
Pertanto, sulla scorta di quanto detto, la risposta a quesito non può essere
che orientata in tal senso: al fine di procedere alla conclusione delle
procedure concorsuali in essere l’Ente dovrà innanzitutto calcolare la “propria
posizione/capacità assunzionale” sulla base dei nuovi parametri
individuati dal Decreto Interministeriale e se tale calcolo posizionasse
l’Ente al di sopra delle soglie individuate lo stesso vedrà necessariamente
una compressione della propria capacità assunzionale per dover rientrare nei
parametri prescritti (entro il 2024) con l’immediata conseguenza di poter
procedere alla conclusione delle prove concorsuali e alla conseguente
assunzione dei vincitori solamente dopo aver proceduto all’approvazione del
nuovo piano triennale del fabbisogno di personale sulla scorta dei nuovi
parametri individuati dal Decreto Interministeriale e pertanto ritenendo
ormai “superata” la programmazione 2019-2021 sulla scorta della quale
le procedure sono state avviate.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
Decreto Interministeriale 17.03.
2020 - D.L. 30.04.2019, n. 34, art. 33 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art.
34–bis
Documenti allegati
Corte dei Conti Lombardia Sez. contr., Delib. 28.05.2020, n. 74
(10.06.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: MATERIALI
DI RIPORTO.
Sono titolare di un’impresa edile che ha presentato al
Comune un progetto che prevede la demolizione di alcuni vecchi edifici e la
costruzione di una serie di villette, con la previsione della realizzazione
di opere di urbanizzazione primaria a scomputo degli oneri anche su un
terreno di proprietà del Comune.
Sennonché, ho scoperto che su tale terreno esiste una contaminazione storica
in relazione al parametro amianto; inoltre è stata accertata la presenza
saltuaria di piccoli frammenti contenenti amianto in matrice compatta. Ho
quindi presentato un progetto di bonifica del terreno, ma il Comune l’ha
respinto.
Come mai?
La questione è spinosa, e non conoscendo altri dati dalla vicenda (se non
che esiste una “contaminazione storica” non meglio precisata) posso
dirle quanto segue.
Partiamo dal quadro normativo.
Il Codice dell’ambiente disciplina, nella Parte Quarta, la gestione dei
rifiuti e la bonifica dei siti contaminati.
L’art. 185, in particolare, esclude dall’applicazione della normativa sui
rifiuti:
- “il terreno (in situ), inclusi il suolo contaminato non
scavato e gli edifici collegati permanentemente al terreno, fermo restando
quanto previsto dagli artt. 239 e ss. relativamente alla bonifica di siti
contaminate” nonché
- “il suolo non contaminato e altro materiale allo stato
naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che
esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello
stesso sito in cui è stato escavato”.
La disposizione in parola è stata oggetto d’interpretazione autentica, in
base alla quale “i riferimenti al suolo” ivi contenuti “si
interpretano come riferiti anche alle matrici materiali di riporto di cui
all’Allegato 2 alla Parte IV del medesimo decreto legislativo, costituite da
una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e
scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte
stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e
stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito, e utilizzate per
la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri”.
Inoltre, l’art. 183 TUA pone delle definizioni rilevanti, sempre ai fini
dell’applicazione della normativa sui rifiuti, chiarendo tra l’altro che
sono da considerarsi rifiuti speciali “i rifiuti derivanti dalle attività
di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti che derivano dalle attività di
scavo”.
Alla luce di questo quadro normativo, il punto fondamentale per risolvere la
questione è se sia o meno possibile ricondurre l’amianto presente nel suolo
ai materiali di riporto e, quindi, assoggettarli all’intervento di bonifica
(e non alla disciplina dei rifiuti che ne imporrebbe lo smaltimento).
Secondo una recente sentenza del TAR Milano (n. 2691/2019) il fatto che i
materiali contenenti amianto (MCA) siano ex lege assimilabili alle
matrici materiali di riporto (MMR) non comporta l’automatico assoggettamento
alla disciplina sulle bonifiche, dovendo essere dimostrata, caso per caso,
la riconducibilità in concreto dei residui di amianto a tale categoria di
materiali: deve esserci una prova, a valle di un’indagine sull’origine e
sulle caratteristiche merceologiche dei materiali in questione.
A mero titolo di esempio, l’accatastamento del materiale e la sua
provenienza dalla demolizione delle case preesistenti sono due aspetti che,
secondo la giurisprudenza, fanno propendere per l’inquadramento dei MCA come
rifiuti.
Inoltre, a parere della giurisprudenza, quando l’amianto perde la sua
destinazione d’uso e rischia di disperdere fibre nell’ambiente in
concentrazioni superiori a quelle ammesse dall’art. 3, Legge n. 257/1992 può
essere oggetto soltanto di smaltimento e non più di bonifica.
È necessario, pertanto, valutare caso per caso e verificare, in concreto, la
riconducibilità dei MCA ai materiali di riporto, anche attraverso un’analisi
dei “paletti” che la giurisprudenza ha messo nel tempo
(Ambiente & Sicurezza n. 5/2020). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: ETERNIT,
INERZIA DEL SINDACO, OMISSIONE ATTI D’UFFICIO.
Sono anni che segnalo al Sindaco la presenza nel cortile
del mio vicino di lastre di eternit già sgretolate ed in pessime condizioni,
ma il Comune non si è mai mosso.
Il Sindaco non è tenuto a fare qualcosa?
Assolutamente sì, specie in casi nei quali sono investiti aspetti sanitari.
Il Sindaco risponde infatti del reato di omissione di atti d’ufficio (art.
328 cod. pen.) se, a fronte di reiterate denunce di organi pubblici nonché
di privati cittadini, omette di assumere qualunque iniziativa atta ad
imporre al proprietario dell’amianto lo smaltimento dello stesso.
Il Sindaco avrebbe dovuto (dovrebbe ... non so se sia già stato indagato)
emettere un’ordinanza contingibile e urgente per imporre al proprietario di
intervenire con un progetto di rimozione e smaltimento, al fine di
determinare la cessazione del pericolo di contaminazione delle aree
territoriali limitrofe.
Ed è indubbia la sussistenza del pericolo per l’incolumità pubblica: la
pericolosità dell’amianto consiste, infatti, come noto, nella capacità dei
materiali da esso composti di rilasciare fibre potenzialmente inalabili,
laddove contenute in materiali friabili.
Sostanzialmente in questi termini si è espressa, di recente la Corte di
cassazione penale (sentenza n. 1657/2019), relativa ad un caso analogo a
quello da lei sinteticamente delineato nel suo quesito, riguardante lastre
di eternit accatastate alla rinfusa, all’aperto, su un terreno privato.
La Cassazione ha rigettato il ricorso avverso la condanna ribadendo che
trattasi di reato a consumazione istantanea che può, tuttavia, palesarsi
sotto forma di rifiuto implicito, ovvero di persistente inerzia omissiva,
senza che quindi lo si possa inquadrare come reato permanente.
In definitiva, in caso di mancata adozione da parte del Sindaco di atti del
suo ufficio in situazioni “potenzialmente pregiudizievoli per l’igiene e
la salute pubblica è opportuno affermare con nettezza che il reato è
consumato ogni volta che l’imputato ha rifiutato di intervenire a fronte di
formali sollecitazioni prospettanti la sussistenza di quella particolare
situazione concreta”
(Ambiente & Sicurezza n. 5/2020). |
aggiornamento all'11.06.2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Modalità
fruizione festività soppresse.
Domanda
La l. 937/1977 ha stabilito che qualora le 4 giornate di festività soppresse
non siano fruite, per motivate esigenze inerenti all’organizzazione dei
servizi, nel corso dell’anno solare le stesse vengono retribuite.
L’Ente può inserire nel proprio regolamento la modalità di richiesta di
queste giornate?
Risposta
In relazione al quesito formulato si evidenzia che sin dall’art. 18 del CCNL
del 06.07.1995 la cui disciplina oggi è stata trasfusa nell’art. 28, comma
6, del CCNL 21/05/2018, sono stati contrattualizzati gli effetti della l.
937/1977, stabilendo che il dipendente ha diritto a fruire nel corso
dell’anno solare, in aggiunta ai giorni di ferie, anche a ulteriori quattro
giorni di riposo, da utilizzare ai sensi ed alle condizioni stabilite nella
citata l. 937/1977.
Il predetto comma 6 dispone quanto segue: «6. A tutti i dipendenti sono
altresì attribuite quattro giornate di riposo da fruire nell'anno solare
ai sensi ed alle condizioni previste dalla menzionata legge n. 937/77. E’
altresì considerato giorno festivo la ricorrenza del Santo patrono della
località in cui il dipendente presta servizio, purché ricadente in un giorno
lavorativo.»
Il tenore letterale della disposizione in esame consente di affermare che,
sulla base della normativa, i giorni di riposo devono essere fruiti
esclusivamente nell’anno di riferimento e che, conseguentemente, non è
possibile in alcun modo la trasposizione di quelli maturati in un anno
nell’anno successivo.
Nel caso di mancata fruizione nell’anno di maturazione, imputabile solo a
ragioni di servizio, il lavoratore in passato aveva diritto alla
monetizzazione degli stessi, nella misura stabilita dall’art. 52, comma 5,
del CCNL del 14.09.2000, come sostituito dall’art. 10 del CCNL del
09.05.2006.
Quanto sopra deve ormai ritenersi superato a seguito dell’entrata in vigore
delle disposizioni contenute nell’art. 5, comma 8, della l. 135/2012 (cd. “Spending
Review”) che hanno stabilito il divieto della monetizzazione delle ferie
non godute dei pubblici dipendenti, incidendo, in modo riduttivo, sulla
disciplina prevista in materia dall’allora art. 18, comma 16, del CCNL del
06.07.1995 (oggi art. 28 CCNL 21/05/2018).
Pertanto, l’ente potrà sicuramente disciplinare modalità di fruizione delle
quattro giornate de quo, tali da garantirne il godimento entro l’anno
solare.
Potrà, ad esempio, disciplinare che i primi giorni di assenza (ad eccezione
delle assenze individuate da istituti specifici, ad esempio permesso per
motivi personali, concorsi ed esami, ecc.) vengano imputati al godimento
delle quattro giornate di festività soppresse.
In tal modo, si garantirà l’effettuazione delle stesse entro l’anno,
tutelando sia il dipendente (che altrimenti non usufruendo delle stesse
entro l’anno ne perderebbe il diritto al godimento) sia l’amministrazione
medesima (per eventuali situazioni di contenzioso) (11.06.2020
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APPALTI: Omissione
sottoscrizione digitale da parte della mandante.
Domanda
In sede di apertura di una gara telematica il documento d’offerta generato
dal sistema Sintel Regione Lombardia non risulta firmato digitalmente dalla
mandante di un operatore economico che partecipa in raggruppamento.
È corretto procedere all’esclusione del raggruppamento?
Risposta
La questione evidenziata nel quesito, in assenza di indicazioni precise
sulla modalità di costruzione della procedura di gara, non è di facile
soluzione, stante, tra l’altro, le differenti posizioni assunte dalla
giurisprudenza.
Occorre in primo luogo fare una distinzione tra “offerta economica”
in senso stretto e “documento d’offerta generato” da un sistema
telematico.
Nel primo caso, ovvero offerta economica in senso stretto, si ritiene di
aderire all’orientamento del C.d.S. sez. III, sent. n. 2542 del 25.05.2017
che, relativamente alla partecipazione da parte di un RTI da costituirsi,
rileva come l’offerta debba essere sottoscritta digitalmente dai legali
rappresentanti dei singoli operatori associati, pena la mancanza di un
elemento essenziale dell’offerta stessa, non sanabile ex post a mezzo
del c.d. soccorso istruttorio.
È opportuno evidenziare come sul punto la giurisprudenza non sia
assolutamente unanime, consentendo talvolta la “soccorribilità” nel
caso di carenza di sottoscrizione da parte della mandante. Trattasi,
tuttavia, di procedure che richiamando situazioni caratterizzate da
specificità particolari, non credo possano ritenersi tali da rappresentare
massime giurisprudenziali di applicazione generale (cfr. TAR Toscana,
Firenze sent. n. 288 del 06.03.2020, TAR Calabria, Catanzaro, sent. 836 del
07.05.2020).
Diverso è il caso dell’eventuale carenza di sottoscrizione del documento
d’offerta generato in automatico dal sistema telematico. Per quanto riguarda
il Mepa ad esempio, tralasciando la questione dell’eventuale raggruppamento,
il TAR Calabria, Catanzaro sent. n. 08.11.2019 n. 458, ha ritenuto che la
presentazione di un’offerta, firmata digitalmente, redatta senza utilizzare
il file generato direttamente dal sistema telematico, ma mediante la
compilazione di un proprio modello, non sia causa di esclusione, a nulla
rilevando la mancata sottoscrizione e allegazione della bozza di offerta
generata in automatico dallo strumento informatico.
Con riferimento al quesito in premessa, ed in particolare alla gestione
della piattaforma Sintel, il RTI dovrà essere escluso qualora il documento
offerta (generato dal sistema) costituisca l’unico atto in cui l’operatore
economico fa proprie le dichiarazioni riportate a video, quali ad esempio
offerta economica, costi della sicurezza interna e della manodopera ex art.
95, co. 10, del d.lgs. 50/2016. In questo caso, solo con la firma del
documento d’offerta l’operatore assume la paternità delle dichiarazioni
rese, come effettiva espressione di una manifestazione di volontà, e come
tale da sottoscriversi digitalmente, a pena di esclusione, dalla capogruppo
e delle mandanti.
Qualora invece il Documento d’offerta generato dal sistema sia meramente
riepilogativo di dichiarazioni regolarmente presentate in altri step, ovvero
nella Busta Amministrava, Busta Tecnica e Busta Economica, secondo il Tar
Lombardia Milano sez. I 24.03.2020 n. 555, trattasi di una mera “formula
di sintesi”, connessa alla peculiarità della procedura e che non integra
e/o modifica o sostituisce la volontà negoziale dell’operatore economico, la
cui irregolarità è meritevole di essere sanata tramite il soccorso
istruttorio (10.06.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
dati personali dei dipendenti (telefono privato) in emergenza da Covid-19.
Domanda
Nell’ambito del lavoro agile, è consentito al comune di pubblicare le utenze
telefoniche personali (telefono cellulare) dei dipendenti, per favorire la
prenotazione di appuntamenti da parte dei cittadini e utenti dei servizi?
Risposta
Le vigenti disposizioni normative per il contenimento e la gestione
dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 hanno chiaramente stabilito
l’obbligo di limitare, quanto più possibile, la presenza del personale
dipendente negli uffici pubblici, mediante il ricorso, in via prioritaria,
al lavoro agile, così come stabilito all’articolo 87, comma 1, lettera a)
del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 e relativa legge di conversione
24.04.2020, n. 27.
Più di recente, l’art. 263, comma 1, del decreto-legge 19.05.2020, n. 34
(cd: decreto Rilancio), nel riconfermare le disposizioni del decreto Cura
Italia (d.l. 18/2020), ha anche previsto che le pubbliche amministrazione
devono adeguare le previgenti disposizioni alle esigenze della progressiva
riapertura di tutti gli uffici pubblici e a quelle dei cittadini e delle
imprese, connesse al graduale riavvio delle attività produttive e
commerciali.
Per tale finalità il lavoro dei dipendenti e l’erogazione dei relativi
servizi, devono essere organizzati:
• introducendo una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro;
• rivedendo l’articolazione giornaliera e settimanale;
• introducendo modalità di interlocuzione programmata, anche
attraverso soluzioni digitali e non in presenza con l’utenza.
La norma si conclude, illustrando che ulteriori modalità organizzative
potranno essere individuate tramite appositi decreti del Ministro della
pubblica amministrazione.
Alla luce delle disposizioni sopra citate, dunque, è possibile prevedere che
le attività di ricevimento o di erogazione diretta dei servizi al pubblico
–in questo periodo emergenziale– siano garantite con modalità telematica o
comunque con modalità tali da limitare la presenza fisica negli uffici (ad
es. appuntamento telefonico o assistenza virtuale), ovvero, predisponendo
accessi scaglionati, anche mediante prenotazioni di appuntamenti.
Nel rispetto dei principi di protezione dei dati [articolo 5, Regolamento
(UE) 2016/679], la finalità di fornire agli utenti recapiti utili a cui
rivolgersi per assistenza o per essere ricevuti presso gli uffici, può
essere utilmente perseguita pubblicando i soli recapiti dell’ufficio di
riferimento (numero di telefono, e-mail e indirizzo PEC) e non quelli dei
singoli funzionari preposti agli uffici. Ciò, anche, in conformità agli
obblighi di pubblicazione concernenti l’organizzazione delle pubbliche
amministrazioni, previste nell’articolo 13, comma 1, lettera d), del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, il quale stabilisce l’obbligo di pubblicate
l’elenco dei numeri di telefono nonché delle caselle di posta elettronica
istituzionali e delle caselle PEC dedicate, cui il cittadino possa
rivolgersi per qualsiasi richiesta inerente i compiti istituzionali.
In periodo di smart working e di presenza non continuativa in ufficio
dei dipendenti, una soluzione molto utile –largamente praticata e rispettosa
delle normative in materia di tutela dei dati personali– risulta essere
quella di attivare il servizio di trasferimento di chiamata dal numero fisso
dell’ufficio al numero di utenza telefonica mobile (privato) del dipendente.
L’operazione richiede il preventivo assenso dell’interessato e la garanzia
che l’utente che chiama il numero dell’ufficio non sia in condizione di
vedere, né memorizzare il numero dell’utenza mobile che risponde alla
chiamata (09.06.2020
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CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso
agli atti C.E.C..
Domanda
In vista della campagna elettorale delle prossime elezioni comunali, un
consigliere attualmente in carica –delegato di una lista– chiede di avere
copia degli atti di approvazione delle liste dei candidati alle scorse
elezioni comunali, esaminate dalla Commissione elettorale circondariale.
È possibile dare parere positivo a questa istanza di accesso e concedere le
copie di quanto richiesto?
Risposta
L’art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000 prevede che: “2. I consiglieri comunali
e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti,
tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento
del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente
determinati dalla legge.”
Gli articoli 22 e seguenti della legge 241/1990 regolano il diritto di
accesso agli atti amministrativi.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale del Consiglio di Stato, i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti
gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle loro funzioni,
ciò anche al fine di permettere di valutare –con piena cognizione– la
correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e
per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che
spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
In base a quanto sopra citato il consigliere in questione ha, credo
indubbiamente, diritto ad accedere ai dati richiesti. Peraltro anche il
Garante della Privacy si è più volte espresso in materia, ritenendo
legittimo l’accesso.
A mio modo di vedere però la richiesta di accesso deve essere inoltrata alla
Commissione Elettorale Circondariale, che è l’organo competente all’esame ed
all’ammissione delle liste e che detiene la documentazione in questione.
Perché è vero che l’art. 22 della legge 241/1990 parla di accessibilità dei
documenti “detenuti” dalla pubblica amministrazione, ma lo stesso
articolo, al comma 6, chiarisce che il diritto di accesso è esercitabile
fino a quando la pubblica amministrazione “ha l’obbligo di detenere”
i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere.
Nell’ambito della presentazione delle liste per le elezioni comunali, la
procedura dettata dal D.P.R. 16.05.1960, n. 570, prevede che i documenti
siano presentati alla segreteria comunale nelle date stabilite dalla legge.
Il segretario comunale però deve immediatamente inoltrare il tutto alla
Commissione elettorale circondariale, organo competente ad effettuare
l’ammissione vera e propria.
Secondo il mio punto di vista l’obbligo giuridico di detenere i documenti è
della Commissione elettorale circondariale, che resta l’unico organo
competente per le attività sopra descritte (05.06.2020
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ENTI LOCALI - VARI:
Legittimazione passiva del Comune in un giudizio per mancata e/o irrituale
notifica di cartella di pagamento per violazione del codice della strada.
Il diritto di credito per somme dovute per violazione
del codice della strada si prescrive in cinque anni dalla violazione
commessa, salvo atti interruttivi (art. 209, D.Lgs. n. 285/1992; art. 28, L.
n. 689/1981).
In caso di affidamento dell’attività di riscossione all’agente di
riscossione, questi, in forza del ruolo ricevuto dall’ente impositore,
redige la cartella di pagamento e la notifica al debitore (artt. 25 e 26,
D.P.R. n. 602/1973).
La cartella notificata oltre il quinquennio è nulla in quanto ha ad oggetto
un credito prescritto; allo stesso modo, i successivi atti dell’esattore
–intimazioni di pagamento– devono intervenire entro i cinque anni dalla
cartella notificata nei termini, altrimenti sono invalidi in quanto riferiti
ad una cartella già prescritta.
D’altro canto, la cartella notificata oltre i due anni dalla consegna del
ruolo è nulla per decadenza dei termini di notifica (art. 1, c. 153, L. n.
244/2007), ma se non sono ancora passati cinque anni dalla violazione, il
credito non è ancora prescritto e potrà essere fatto valere in via
giudiziaria (ma non più attraverso la cartella a mezzo agente di
riscossione).
Ove il soggetto sanzionato contesti, in un giudizio promosso contro l’ente
creditore e il concessionario, la mancata e/o irrituale notifica della
cartella di pagamento, assumendo che questo abbia determinato la
prescrizione del credito, si osserva –sotto il profilo della legittimazione
passiva in giudizio– che la Corte di Cassazione riconduce l’azione per
mancata notifica della cartella a un’azione di accertamento negativo del
credito, inerente al merito della pretesa, in quanto volta a negare che la
prescrizione sia stata interrotta dalla notifica della cartella, per cui
legittimato passivo è l’ente creditore (mentre il concessionario è
legittimato passivo in relazione alla contestazione della sola irritualità
della notifica della cartella).
Con riferimento all’ipotesi in cui la prescrizione del credito sia
riconducibile alla responsabilità del concessionario della riscossione, per
ritardi o irregolarità nell’attività esattoriale, la Corte di Cassazione,
argomentando dalla riconducibilità dell’affidamento della riscossione allo
schema del mandato con rappresentanza ex lege, ha affermato che
l’assicurazione della salvaguardia del diritto di credito rispetto
all'estinzione per prescrizione rientra a pieno titolo, ai sensi dell’art.
1710 c.c., nell'ambito della responsabilità del concessionario incaricato.
Il Comune riferisce di aver irrogato nel 2010 una sanzione per violazione
del codice della strada e, non essendo intervenuta la riscossione bonaria,
di averla inoltrata per l’attività di riscossione coattiva all’Agenzia delle
entrate competente per territorio, in base alla residenza del soggetto
sanzionato. In relazione alla suddetta contravvenzione, il privato
interessato ha promosso giudizio di opposizione, con atto di citazione
notificato all’Ente e al concessionario della riscossione
[1], con riferimento al quale il
Comune chiede un parere sull’opportunità di costituirsi, considerato che
vengono contestati atti dell’esattore.
Si premette che l’attività di consulenza di questo Servizio è volta a
rappresentare agli enti locali un quadro giuridico generale sulle questioni
poste, che possa essere loro di aiuto per valutare, nella loro autonomia, la
soluzione più opportuna nel caso concreto, in relazione alle sue
specificità. Per cui in via collaborativa si esprimono le seguenti
considerazioni.
Nell’atto di citazione in opposizione, l’istante chiede di accertare e
dichiarare la nullità del ruolo e della relativa cartella esattoriale
[2], in quanto sostiene
che la mancata e/o irrituale notifica della cartella [3]
ha determinato la prescrizione del credito [4].
Inoltre, l’opponente osserva che la cartella, anche se gli fosse stata
regolarmente notificata nel 2013, sarebbe comunque prescritta, essendo da
allora passati cinque anni.
Su questi rilievi si esprimono alcune considerazioni in generale sulla
prescrizione del credito da contravvenzione, lungi da ogni valutazione di
merito sulla pretesa dell’opponente e sulla fondatezza delle argomentazioni
addotte.
La prescrizione riguarda il diritto di credito e produce la conseguenza che
il credito non può più essere preteso né con riscossione né tramite azione
giudiziale.
In generale, in tema di sanzioni amministrative per la violazione del codice
della strada, ai fini dalla riscossione delle somme dovute a tale titolo, si
applica la prescrizione quinquennale, di cui all’art. 28, L. n. 689/1981,
richiamato dall’articolo 209 del Codice della strada (D.Lgs. n. 285/1992)
[5].
La cartella di pagamento notificata oltre il quinquennio è nulla in quanto
ha ad oggetto un credito prescritto; allo stesso modo, i successivi atti di
riscossione –come le intimazioni di pagamento [6]–
devono rispettare il termine di prescrizione di 5 anni dalla notifica della
cartella: in caso contrario, se cioè vengono notificati oltre i 5 anni, gli
stessi sono invalidi in quanto riferiti ad una cartella già prescritta e la
loro invalidità può essere fatta valere, innanzi al Giudice competente,
assieme alla nullità della cartella prescritta e all’estinzione del credito.
Cosa diversa dalla prescrizione è la decadenza della cartella, che riguarda
l’azione di riscossione.
Ai sensi dell’art. 1, c. 153, L. n. 244/2007 [7],
le somme dovute per una sanzione per violazione del codice della strada non
possono essere incassate dall’agente di riscossione se sono trascorsi più di
due anni dalla ricezione del ruolo da parte del Comune che ha irrogato la
multa.
La cartella notificata dopo due anni dalla consegna del ruolo è dunque
nulla, ma se non sono ancora passati 5 anni dalla violazione, il credito non
è ancora prescritto e potrà essere fatto valere in via giudiziaria (ma non
più attraverso la cartella a mezzo agente di riscossione).
Nel caso di specie, emerge che la cartella è stata notificata nel 2013, per
cui in relazione alla data di trasmissione del ruolo al concessionario,
l’Ente potrà valutare se siano stati rispettati dall’agente della
riscossione i termini di decadenza.
Tornando all’atto di citazione in giudizio, l’opponente da un lato sostiene
la prescrizione del debito per mancata e/o irrituale notifica della cartella
esattoriale, dall’altro lato afferma che, anche in caso di rituale notifica
della cartella, il credito sarebbe comunque prescritto essendo passati 5
anni dal 2013, anno di notifica (presunta, a suo dire) della cartella.
A questo proposito –nel ribadire l’estraneità di questo Servizio ad ogni
valutazione sul merito della questione– si può solo prendere atto che il
Comune riferisce che successivamente alla cartella, sono state emanate due
intimazioni di pagamento, nel 2015 e nel 2019, di cui non viene fatto cenno
nell’atto di citazione in opposizione.
Di tali intimazioni di pagamento, che interromperebbero la prescrizione, il
Comune ha fatto richiesta all’Agenzia delle entrate Riscossione, al fine di
poter difendere la posizione dell’Ente e valutare la sua costituzione in
giudizio, in relazione alla correttezza dell’iter seguito dal
concessionario.
In proposito –fermo restando quanto detto sopra sulla verifica del rispetto
dei termini di decadenza da parte del concessionario– si esprimono delle
considerazioni, muovendo dal fatto che l’opponente deduce la mancata e/o
irrituale notifica della cartella di pagamento e la prescrizione del
credito.
Al riguardo, si riportano le considerazioni della Corte di Cassazione a
Sezioni unite [8]
espresse con riferimento all’ipotesi in cui la mancata notifica della
cartella di pagamento –atto dell’esattore– sia stata dedotta per far valere
la nullità dell’intimazione di pagamento, successivo atto dell’esattore.
La cartella di pagamento ha la funzione di portare a conoscenza
dell’interessato la pretesa tributaria iscritta nei ruoli: ha valore di vero
e proprio atto di esercizio del potere impositivo, essendo il primo atto
notificato al contribuente in relazione alla pretesa erariale, e costituisce
il presupposto dell’avviso di mora [9].
Il "vizio" dell’omessa notifica della cartella di pagamento non può
essere ridotto alla (mera) dimensione di "vizio proprio dell'atto",
come se fosse, ad esempio, analogo ad un vizio riferito alla (pretesa)
difformità del contenuto dell'atto rispetto allo schema legislativo: si
tratta di un vizio procedurale più rilevante che determina l'illegittimità
dell'intero processo di formazione della pretesa tributaria, la cui
correttezza è assicurata mediante il rispetto dell'ordinato progredire delle
notificazioni degli atti, destinati, con diversa e specifica funzione, a
portare quella pretesa nella sfera di conoscenza del contribuente e a
rendere possibile per quest'ultimo un efficace esercizio del diritto di
difesa, sicché la legittimazione passiva resta in capo all'ente titolare del
diritto di credito [10].
Sulla scia di questa pronuncia, e al di là della situazione in cui la
mancata notifica venga dedotta per far valere la nullità dell’atto
consequenziale, la Suprema Corte ha affermato in generale che lamentare
l’omessa notifica della cartella esattoriale è funzionale a far valere
l'eccezione di prescrizione, cioè a negare che la prescrizione stessa sia
stata interrotta (dalla notifica della cartella): si tratta cioè di
un’azione di accertamento negativo del credito; in questo senso, la
contestazione della mancata notifica è pur sempre funzionale ad una
questione inerente al merito della pretesa creditoria [11].
La Suprema Corte riconduce l’azione per mancata notifica della cartella a
un’azione di opposizione all’esecuzione, che altro non è che un’azione di
accertamento negativo del credito; mentre ricorre un’azione di opposizione
agli atti esecutivi quando viene in rilievo, esclusivamente, la sola
irritualità della notifica della cartella e non anche la mancata notifica
del titolo esecutivo [12].
La Suprema Corte precisa altresì che l’azione relativa al merito della
fondatezza dell’obbligo di pagamento va notificata all'ente creditore e
quella relativa alla regolarità formale della cartella al concessionario
della riscossione, che è il soggetto cui è affidato l'esercizio dell'azione
esecutiva [13].
Nel caso di specie, l’opponente contesta “la mancanza e/o irritualità
della notifica della cartella esattoriale” che “non può che
determinare l’estinzione e/o prescrizione del presunto credito vantato”
e chiede di accertare e dichiarare la nullità del ruolo e della cartella
esattoriale del credito vantato, perché prescritto: valuti, dunque, l’Ente
l’opportunità di costituirsi o meno in relazione alle suesposte
considerazioni.
Un tanto, fermo restando quanto detto sopra circa la verifica del rispetto
dei termini di decadenza da parte del concessionario: in caso di mancata
notifica della cartella entro due anni dalla ricezione del ruolo, non solo
si sarebbe determinata la decadenza dall’azione di riscossione, ma sarebbe
altresì preclusa la possibilità di far valere il credito per le vie
giudiziali, in quanto oramai prescritto.
In proposito, si esprimono alcune considerazioni sulla possibilità dell’ente
impositore (creditore) di ottenere il ristoro del danno qualora si accerti
che la prescrizione del credito sia riconducibile alla responsabilità del
concessionario della riscossione, per ritardi o irregolarità nell’attività
esattoriale.
La Corte di Cassazione, sez. lavoro, 26.10.2018, n. 27218, ha affermato che
con l’affidamento in riscossione, il concessionario diviene legittimato a
ricevere validamente il pagamento per conto del creditore, il quale libera
il debitore ed estingue l’obbligazione sottostante, secondo lo schema di cui
all’art. 1188 c.c.
Inoltre, l’affidamento della riscossione assume i connotati del mandato con
rappresentanza ex lege a compiere quanto necessario affinché il
pagamento possa avvenire spontaneamente o coattivamente.
In particolare, il diligente e tempestivo compimento degli atti esecutivi di
tale complesso mandato è in sé in grado di comportare la salvaguardia del
diritto rispetto all'estinzione per prescrizione e dunque anche
l'assicurazione di tale effetto rientra a pieno titolo, ai sensi dell’art.
1710 c.c., nell'ambito della responsabilità del concessionario incaricato.
La Suprema Corte ha osservato, peraltro, che il Giudice di merito,
ricostruendo in toto la vicenda inerente all'incarico di riscossione, può
valutare se ricorrano o meno elementi di colpa concorrente, rilevanti ex
art. 1227 c.c., in capo all'ente mandante.
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[1] L’art. 10 del D.Lgs. 31.12.1992 n. 546 (recante “Disposizioni sul
processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta
nell'art. 30 della legge 30.12.1991, n. 413”), indica, tra le parti del
processo tributario, gli enti impositori e l’agente della riscossione.
[2] Ai sensi dell’art. 10, D.P.R. n. 602/1973, il concessionario è il
soggetto cui è affidato in concessione il servizio di riscossione (lett. a);
il ruolo è l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato
dall’ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario (lett. b);
ai sensi del successivo art. 12, il ruolo è sottoscritto dal titolare
dell’ufficio o da un suo delegato e con la sottoscrizione diviene esecutivo.
(In giurisprudenza, v. Cass. Civ, Sez. Un., 02.10.2015, n. 19704, secondo
cui il ruolo è atto proprio ed esclusivo dell’ente creditore impositore –mai
del concessionario della riscossione– e costituisce titolo esecutivo).
Il concessionario della riscossione, in forza del ruolo ricevuto, redige la
cartella di pagamento che, per l’art. 25, c. 2, D.P.R. n. 602/1973,
“contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il
termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in
mancanza, si procederà ad esecuzione forzata” e provvede (ai sensi del
successivo art. 26) alla “notificazione della cartella di pagamento” al
debitore.
Ai sensi dell’art. 21, c. 1, D.Lgs. n. 546/1992, “la notificazione della
cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo”.
L’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992 indica gli atti impugnabili nel processo
tributario: per quanto concerne gli atti esecutivi, fra gli altri: il ruolo
e la cartella di pagamento (comma 1, lett. d); l’avviso di mora (comma 2,
lett. e).
[3] L’opponente sostiene di aver preso conoscenza del debito da
contravvenzione a suo carico da un estratto di ruolo rilasciato dall’Agenzia
delle entrate su sua richiesta motivata dal voler conoscere la propria
posizione per delle operazioni commerciali.
[4] Nelle premesse del ricorso, l’opponente afferma altresì che andrà
dimostrata la regolarità formale degli atti se notificati.
[5] Ai sensi dell’art. 209, D.Lgs. n. 285/1992, “La prescrizione del diritto
a riscuotere le somme dovute a titolo di sanzioni amministrative pecuniarie
per violazioni previste dal presente codice è regolata dall’art. 28 della
legge 24.11.1981, n. 689”.
Ai sensi dell’art. 28, L. n. 689/1981, “Il diritto a riscuotere le somme
dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel
termine di 5 anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione” (comma
1). “L’interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice
civile” (comma 2).
Per l’applicazione del termine quinquennale di prescrizione, v. in
giurisprudenza Cass. Civ., sez. II, 14.10.2009, n. 21881; Cass. Civ.,
20.02.2008, n. 4375.
[6] L’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, indica, tra gli atti impugnabili nel
processo tributario, il ruolo e la cartella di pagamento (comma 1, lett. d);
l’avviso di mora (comma 2, lett. e).
Per avviso di mora, si intende ora l’avviso di intimazione, ai sensi
dell’art. 50, D.P.R. n. 602/1073 e successive modifiche e integrazioni (cfr.
Scuola di alta formazione Luigi Martino, Ordine dei dottori commercialisti e
degli esperti contabili Milano, Mediazione e processo tributario, Processo
tributario, Gli atti impugnabili, 02.12.2013, Milano).
In particolare, ai sensi dell’art. 50, D.P.R. n. 602/1073, una volta
notificata la cartella esattoriale per multa, il contribuente ha 60 giorni
per effettuare il pagamento, decorso il quale l’agente della riscossione può
procedere con l’espropriazione forzata (comma 1). Se l'espropriazione non è
iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento,
l'espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica, da effettuarsi
con le modalità previste dall'articolo 26, di un avviso che contiene
l'intimazione ad adempiere l'obbligo risultante dal ruolo entro cinque
giorni (comma 2).
[7] Il citato comma 153 ha aggiunto il comma 35-bis all’articolo 3 del
decreto-legge 30.09.2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge
02.12.2005, n. 248, il quale recita: “A decorrere dal 01.01.2008 gli agenti
della riscossione non possono svolgere attività finalizzate al recupero di
somme, di spettanza comunale, iscritte in ruoli relativi a sanzioni
amministrative per violazioni del codice della strada di cui al decreto
legislativo 30.04.1992, n. 285, per i quali, alla data dell’acquisizione di
cui al comma 7, la cartella di pagamento non era stata notificata entro due
anni dalla consegna del ruolo”.
[8] Cass. Civ. Sez. Un., 25.07.2007, n. 16412. Conformi, tra le tante: Cass.
Civ., sez. V, 30.06.2009, n. 15310; Cass. Civ., sez. VI, 02.02.2012, n.
1532.
[9] La notifica dell’avviso di mora –osservano le Sezioni Unite– è, a
differenza della notificazione della cartella, meramente eventuale, essendo
prevista per il caso in cui il contribuente, reso edotto dell'imposta
dovuta, non ne abbia eseguito spontaneamente il pagamento nei termini
indicati dalla legge.
[10] Cass. Civ., Sez. Un., n. 16412/2007 cit.
[11] Cass. Civ, sez. lav., 19.06.2019, n. 16425.
[12] Cass. Civ., sez. lav., 08.11.2018, n. 28583.
[13] Cass. Civ. n. 16425/2019 cit. (04.06.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Diritto
precedenza disabili.
Domanda
Come si applica nel caso il diritto di precedenza per le assunzioni dei
lavoratori disabili?
Si chiede di chiarire quali siano le modalità operative in cui si concreta
il diritto di precedenza, ovvero se sia necessario effettuare un concorso
per assunzione personale categorie protette all’esito del quale, qualora
risultato idoneo, il soggetto avrebbe la precedenza sugli altri in
graduatoria, oppure se la precedenza operi nell’ambito dell’assunzione
tramite Centro per l’Impiego.
Risposta
Posto che per assunzioni di qualifiche e profili per i quali è richiesto il
solo requisito della scuola dell’obbligo, l’Ente procede alle assunzioni
mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento, si precisa
che, relativamente all’assunzione di personale disabile, la Pubblica
Amministrazione, benché non sia prevista la chiamata nominativa, potrebbe
procedere attraverso le seguenti modalità:
1. convenzione di cui all’art. 11 L. 68/1999;
2. richiesta di avviamento, con precisazione del diritto di
precedenza a favore del dipendente.
Sul punto, si precisa infatti che con nota congiunta tra Ministero del
Lavoro, Anpal e Dipartimento della funzione pubblica 10.07.2018, n. 7571, in
merito a “Comunicazione ex articolo 39-quater d.lgs. 165/2001 –
Monitoraggio sull’applicazione della legge 12.03.1999, n. 68”, è stata
evidenziata infatti l’utilizzabilità delle convenzioni di cui al citato art.
11, ove consente che siano stabiliti i tempi e le modalità delle assunzioni
che il datore di lavoro si impegna ad effettuare.
Tra le modalità che possono essere convenute vi sono anche la facoltà della
scelta nominativa, lo svolgimento di tirocini con finalità formative o di
orientamento, l’assunzione con contratto di lavoro a termine, lo svolgimento
di periodi di prova più ampi di quelli previsti dal contratto collettivo,
purché l’esito negativo della prova, qualora sia riferibile alla menomazione
da cui è affetto il soggetto, non costituisca motivo di risoluzione del
rapporto di lavoro.
Detto strumento permetterebbe pertanto all’Ente di inserire il diritto di
precedenza nell’atto convenzionale, specificando altresì il percorso fino ad
oggi svolto e prevedendo così la stipula di un contratto a tempo
indeterminato fatto salvo l’esito positivo di un breve periodo formativo.
Resta inteso, tuttavia, che anche attraverso la richiesta di avviamento sarà
possibile far valere il diritto di precedenza.
Questo poiché il diritto in esame è fattispecie derogatoria rispetto alle
disposizioni generale di cui all’art. 8 della L. n. 68/1999 ove prevede che,
presso gli uffici competenti sia istituito un elenco, con unica graduatoria,
dei disabili che risultino disoccupati e che l’elenco e la graduatoria siano
pubblicati e formati sulla base dei criteri indicati nell’atto di indirizzo
e coordinamento di cui all’art. 1 comma 4 della su indicata legge (04.06.2020
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APPALTI: Appalti
e diritto di accesso.
Domanda
Sono sempre numerosi i quesiti in tema di accesso agli atti della procedura
di appalto, sia della fase pubblicistica sia della fase esecutiva (in quest’ultima
l’istanza di accesso, normalmente, poggia sulla esigenza di consentire
all’appaltatore, non aggiudicatario, di verificare se l’esecuzione del
contratto avvenga o meno secondo quanto proposto in sede di offerta).
Appare opportuno, quindi, elaborare un “riscontro cumulativo” che
riassume le varie istanze presentate soprattutto alla luce delle recenti
indicazioni giurisprudenziali in tema di accesso.
Risposta
Al netto delle indicazioni contenute nella disciplina specifica in tema di
accesso agli atti dell’appalto, come declinate nell’articolo 53 del Codice
in cui si prevede la possibiltà di un differimento –nella fase di
espletamento della gara fatti salvi gli atti già adottati, si pensi alla
fase formale di verifica dei documenti-, l’accesso è generalmente consentito
al netto degli aspetti afferenti i segreti commerciali/aziendali che,
innanzi al ricorso devono comunque essere consentiti.
Il tema dell’accesso trova però una sua compiuta definizione con l’affermata
ammissibiltà dell’applicazione dell’accesso civico generalizzato o
universale agli atti dell’appalto (sia della fase pubblicistica sia della
fase esecutiva) come chiarito dalla sentenza del Consiglio di Stato in
Adunanza Plenaria n. 10/2020.
L’Adunanza Plenaria ha affermato il diritto ad ottenere gli atti della fase
esecutiva del contratto ai fini (potenziali) della risoluzione del contratto
e successivo scorrimento della graduatoria o riedizione della gara “purché
tale istanza non si traduca in una generica volontà da parte del terzo
istante di verificare il corretto svolgimento del rapporto contrattuale”.
In sostanza, che richiede gli atti deve avere già gli elementi per
dimostrare che l’esecuzione non sta avvenendo secondo quanto stabilito con
la proposta contrattuale aggiudicata.
Non solo, quindi, il RUP è tenuto a produrre gli atti richiesti –al netto di
elementi afferenti ai segreti commerciali/aziendali ex art. 5-bis comma 2,
lett. c) (che possono essere oscurati se il RUP ha effettivamente constatato
che si tratta di dati che non possono essere “ostesi”)-, ma è tenuto
ad interpretare l’eventuale nota generica, quanto a riferimento normativo
richiamato, che si limitasse a richiedere atti e dati relativi agli appalti
già espletati in senso “collaborativo” e non escludente. Nel senso
che non può respingere l’istanza per i solo fatto che questa non contenga un
preciso richiamo normativo. In questo caso il RUP andrà ad interpretare la
richiesta alla luce delle varie disposizioni in tema e, soprattutto, alla
luce dell’art. 5, comma 2, del decreto legislativo 33/2013 (e quindi sotto
il profilo dell’accesso civico generalizzato/universale).
È questo il caso recentemente affrontato dal Tar Abruzzo, Pescara, sez. I,
con la recentissima sentenza del 23.05.2020 n. 162.
Nella sentenza –a fronte di una istanza tesa ad ottenere dati e
provvedimenti relativi all’invito degli appaltatori in procedure sotto i
40mila euro e nel sotto soglia con conseguente rigetto (errato) della
stazione appaltante– si puntualizza che il diritto di accesso ai documenti
amministrativi costituisce un “autonomo diritto all’informazione”
rappresentando quindi esso stesso un “bene alla vita accordato per la
tutela nel senso più ampio e onnicomprensivo del termine e, dunque, non
necessariamente ed esclusivamente in correlazione alla tutela
giurisdizionale di diritti ed interessi giuridicamente rilevanti”.
Per effetto di quanto, l’istanza può trovare legittimazione anche nel fine “di
assicurare la trasparenza e l’imparzialità dell’azione amministrativa; tale
diritto all’informazione, oltre ad essere funzionale alla tutela
giurisdizionale, consente agli amministrati di orientare i propri
comportamenti sul piano sostanziale per curare o difendere i loro interessi
giuridici, con l’ulteriore conseguenza che il diritto stesso può essere
esercitato in connessione ad un interesse giuridicamente rilevante, anche se
non sia ancora attuale un giudizio nel cui corso debbano essere utilizzati
gli atti così acquisiti”.
È bene ricordare che il ricorso in giudizio può essere finalizzato non solo
ad ottenere una “giustizia”, per così dire, immediata con l’annullamento
della procedura e l’eventuale subentro ma anche ad ottenere confermata una
pretesa risarcitoria qualora emergesse che la stazione appaltante abbia
agito contra ius (03.06.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale
ed Organizzazione.
L'ufficio personale di questo Ente (ente pubblico
regionale) deve riprendere le prove concorsuali sospese nel periodo
emergenziale.
E' possibile svolgere le prove con la presenza di candidati in sede con il
segretario verbalizzante ed i membri della Commissione in collegamento da
remoto?
Per rispondere al quesito posto all'attenzione, occorre in prima battuta
rimarcare come il termine del 16 maggio riguardante la conclusione della
sospensione dello svolgimento delle procedure concorsuali "in sede"
(definito dal D.L. 17.03.2020 n. 18 "Cura Italia" e dalla seguente
legge di conversione L. 24.04.2020 n. 27) non è stato ulteriormente
reiterato e pertanto è possibile per le Pubbliche Amministrazioni, procedere
alla programmazione delle prove concorsuali sospese nel rispetto,
evidentemente, delle norme sanitarie di contenimento della diffusione del
Coronavirus quali il distanziamento sociale, il divieto di assembramento e
la sanificazione dei locali.
Il Decreto Legge c.d. "Rilancio" D.L. 19.05.2020 n. 34, ha poi
previsto alcune possibili novità in merito alle modalità di svolgimento
delle prove concorsuali, valide de plano per i concorsi unici gestiti dal
Ripam (art. 247) ma i cui principi e criteri generali, riguardanti lo
svolgimento delle prove in modalità decentrata ed attraverso l'uso della
tecnologia digitale, nonché di svolgimento dell'attività delle commissioni
esaminatrici e di presentazione della domanda di concorso possono essere
adottati da tutte le singole pubbliche amministrazioni (art. 249).
Venendo alla questione posta all'attenzione, in merito alla possibilità di
svolgimento dei lavori della commissione esaminatrice (in particolare la
presenza alla prova) in videoconferenza (o comunque in collegamento da
remoto), il comma 7 del già richiamato art. 247 prevede espressamente che "la
commissione esaminatrice e le sottocommissioni possono svolgere i propri
lavori in modalità telematica garantendo comunque la sicurezza e la
tracciabilità delle comunicazioni".
Tale principio, pertanto, secondo il successivo art. 249 può essere mutuato
dalle pubbliche amministrazioni per lo svolgimento delle proprie prove
concorsuali (tanto per i concorsi già in essere di cui sia stata svolta "anche
una sola delle prove previste", ai sensi della previsione di cui
all'art. 248, che dei concorsi futuri nel rispetto comunque del termine
ultimo del 31.12.2020).
A ben vedere, la genericità dell'espressione utilizzata dal legislatore nel
predetto articolo, conferisce, alle Amministrazioni procedenti, un ampio
ventaglio di possibilità in merito all'organizzazione dei lavori delle
commissioni esaminatrici fermo restando i principi di sicurezza e
tracciabilità delle comunicazioni. Infatti, l'aver usato la locuzione "svolgere
i propri lavori in modalità telematica" contiene in sé, tutte le
attività di competenza della commissione dal suo insediamento sino alla
valutazione conclusiva da rimettere al Responsabile del procedimento (fermo
restando eventuali circolari esplicative da parte del Ministero della
Funzione Pubblica che al momento non sono state emanate).
Nel caso proposto, si potrebbe tranquillamente dare atto che la sicurezza e
la tracciabilità dei lavori della commissione viene garantita tramite
collegamento audio/video con l'aula di svolgimento della prova concorsuale.
Consigliamo, però, all'Amministrazione di informare preventivamente i
candidati di tale eventuale decisione (che spetta al responsabile del
procedimento) con apposito avviso da pubblicarsi nelle modalità di legge
(sito istituzionale, albo pretorio ed Amministrazione trasparente - sezione
concorsi) unitamente all'avviso che, la sorveglianza sul corretto
svolgimento della prova, sarà garantito da apposito personale munito di
tesserino identificativo.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 17.03.2020, n. 18, art. 103 - D.L. 19.05.2020 n. 34, art. 247 (03.06.2020
- tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PATRIMONIO:
Le locazioni nella fase dell'emergenza Covid-19.
DOMANDA:
Questa Amministrazione ha concesso in locazione i locali di un bar
unitamente alla licenza per 6 anni, dal 04.02.2020 al 03.02.2026. A seguito
dell'emergenza COVID il bar ha chiuso l'attivita nei mesi di marzo, aprile e
per la prima metà di maggio. Sta riaprendo ora con tutte le limitazioni
dettate dalla necessità di contenimento del contagio.
Il gestore ha fatto pervenire richiesta di azzeramento del canone per i
periodi di chiusura e di riduzione per il periodo in cui dovranno giocoforza
servire meno clienti a causa delle regole di distanziamento.
Considerato che il decreto "Cura Italia" contiene delle disposizioni
in merito agli affitti privati mentre noi non ne abbiamo trovate per questo
tipo di attività, chiediamo se sia possibile aderire alla richiesta di
azzeramento e sulla base di quale normativa, per non incorrere nel caso di
danno erariale, se un azzeramento comporti una necessità di proroga del
contratto nella misura corrispondente ai mesi di chiusura e, infine, se sia
configurabile una diminuzione del canone.
Si tenga presente che l'attività era molto vitale e che il bar in questione
era un centro di ritrovo utile alla comunità
RISPOSTA:
L’art. 65 del D.L. n. 18/2020 convertito con Legge n. 27/2020 (cd. “Decreto
Cura Italia”) ha previsto che, al fine di contenere gli effetti negativi
derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all’emergenza
epidemiologica da Covid19, venga riconosciuto ai soggetti esercenti attività
d’impresa, per l’anno 2020, un credito d’imposta nella misura del 60%
dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di
immobili rientranti nella categoria catastale C/1.
Il credito d’imposta è utilizzabile esclusivamente in compensazione e non si
applica alle attività che sono state identificate come essenziali (es.
farmacie, parafarmacie, punti vendita di generi alimentari di prima
necessità, ecc.). Detto credito d’imposta, non concorre alla formazione del
reddito ai fini dell’Ires e dell’Irap.
Fatta eccezione per tale vantaggio fiscale, nel nostro ordinamento non
esiste una norma specifica che permetta al conduttore di ottenere la
sospensione o la riduzione del canone di locazione nel caso si verifichino
cause imprevedibili o di forza maggiore.
La possibilità di modificare il canone è dunque demandata alle parti del
contratto. Sarà pertanto possibile chiedere al locatore la sospensione o la
riduzione del canone, ma il medesimo non è in alcun modo obbligato ad
accettare una revisione.
Nel caso del verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili che rendono
eccessivamente onerosa la prestazione oggetto del contratto di locazione, il
conduttore può chiedere la risoluzione del contratto ai i sensi dell’art.
1467 C.c.. Tale norma prevede infatti che “nei contratti a esecuzione
continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di
una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di
avvenimenti straordinari e imprevedibili la parte che deve tale prestazione
può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti
dall’articolo 1458”.
Con specifico riguardo ai contratti di locazione di immobili adibiti ad
attività industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico
l’art. 27 della Legge n. 392/1978 prevede che “indipendentemente dalle
previsioni contrattuali il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può
recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi
da comunicarsi con lettera raccomandata”.
Il rispetto delle misure di contenimento relative all’emergenza
epidemiologica da “Covid-19” potrebbe aver creato al conduttore un
danno economico-finanziario tale da incidere significativamente
sull’andamento dell’attività, causandogli uno squilibrio finanziario che non
rende più sostenibile il pagamento del canone di locazione, ovvero
l’utilizzo dell’immobile.
In proposito è opportuno ricordare che l’art. 91 del Decreto “Cura Italia”
sopra citato ha aggiunto il comma 6-bis all’art. 3 del D.L. n. 6/2020
convertito con Legge n. 13/2020, in base al quale il rispetto delle misure
di contenimento relative all’emergenza epidemiologica da “Covid-19” è
sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli
artt. 1218 e 1223 del Cc., della responsabilità del debitore, anche
relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a
ritardati o omessi adempimenti.
Pertanto, nel caso in cui il conduttore sia impossibilitato ad adempiere
correttamente alle scadenze di pagamento dei canoni a causa dell’emergenza “Covid–19”,
il medesimo potrà chiedere la sospensione dei pagamenti, senza che ciò
costituisca presupposto per la decadenza del contratto o l’applicazione di
interessi moratori. Rimane comunque nella discrezionalità del locatore la
decisione se accettare o meno tale richiesta.
Premesso quanto sopra e tenuto conto degli strumenti giuridici che il nostro
ordinamento mette a disposizione del conduttore, il medesimo potrà quindi
richiedere la risoluzione del contratto oppure una sospensione del canone di
locazione sino al termine del periodo di emergenza.
Nulla osta, ovviamente, alla possibilità per le parti di procedere alla
rinegoziazione del canone di locazione al posto della risoluzione del
contratto, anche tenuto conto che in base allo stesso articolo 1467 C.c. “la
parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di
modificare equamente le condizioni del contratto”.
In proposito si aggiunga quanto previsto dall’art. 1464 C.c. in base al
quale “quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente
impossibile, l'altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della
prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non
abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale”.
In caso di impossibilità parziale della prestazione, dunque, la norma
richiamata consente alla parte che subisce la detta impossibilità di
richiedere la riduzione della prestazione da essa dovuta oppure, in
alternativa, il recesso dal contratto.
Rientrano, pertanto, nella sfera di applicabilità della norma da ultimo
richiamata, tutti i casi in cui una prestazione sia diventata parzialmente
impossibile per cause non addebitabili al locatore
(tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incremento
indennità PO.
Domanda
A seguito dell’entrata in vigore
del CCNL del 21/05/2018, abbiamo operato una rivalutazione delle indennità
di posizione, avvalendoci dell’art. 11-bis del d.l. 135/2018, convertito
nella l. 12/2019, senza tuttavia graduarle al livello massimo consentito (di
16.000,00 euro).
Ciò premesso, si chiede se sia possibile effettuare una nuova rivalutazione,
nei limiti del comma 557 della l. 296/2006, fino al massimo di 16.000,00
euro, senza computare la spesa nel conteggio del salario accessorio.
Risposta
L’art. 11-bis, comma 2, del d.l. 135/2018, convertito in l. 12/2019, afferma
quanto segue: “Fermo restando quanto previsto dai commi 557-quater e 562
dell’articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per i comuni privi di
posizioni dirigenziali, il limite previsto dall’articolo 23, comma 2, del
decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, non si applica al trattamento
accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e
seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al
personale del comparto funzioni locali – Triennio 2016-2018, limitatamente
al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di
risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e
l’eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente
stabilito dagli enti ai sensi dell’articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo
CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all’utilizzo parziale
delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a
tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente
valore finanziario.“.
Dal tenore letterale della norma sopra riportata si individua, nel rispetto
dei presupposti per l’applicazione (il contenimento delle spese di personale
con riferimento al valore medio del triennio 2011-2013 e con riferimento
all’anno 2008), per gli enti di piccole dimensioni (privi di personale
dirigenziale), la possibilità di aumentare il salario accessorio delle
medesime posizioni organizzative, stabilito prima dell’entrata in vigore del
CCNL 21/05/2018 (anno riferimento 2017), in deroga al limite di cui all’art.
23, comma 2, del d.lgs. 75/2017, rinunciando, per il differenziale relativo,
a quote di facoltà assunzionali.
Tale possibilità è concessa agli enti solo in sede di prima applicazione del
nuovo sistema di pesatura delle posizioni organizzative, previsto dal CCNL
21/05/2018, e non, invece, per ogni incremento deciso dall’amministrazione
sullo stanziamento a bilancio, riferito alla retribuzione di posizione e
risultato delle posizioni organizzative.
Se, quindi, l’amministrazione intende aumentare lo stanziamento a bilancio
per la voce de quo dovrà procedere alla riduzione di altre voci del salario
accessorio.
In particolare, l’art. 7, comma 4, lett. u), del CCNL 21/05/2018, prevede
l’attivazione della contrattazione con le parti sindacali per l’incremento
delle risorse di cui all’art. 15, comma 5, destinate alla corresponsione
della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni
organizzative, ove implicante, ai fini dell’osservanza dei limiti previsti
dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017, una riduzione delle risorse del
fondo di cui all’art. 67 (28.05.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI: Il
decreto rilancio e le disposizioni rilevanti in materia di appalti.
Domanda
Con riferimento al decreto rilancio, quali sono le principali disposizioni
che presentano una certa rilevanza sui contratti pubblici?
Risposta
La c.d. fase di “rilancio” vede pubblicato nella G.U. n. 128/2020 il
decreto legge n. 34 del 19.05.2020 “Misure urgenti in materia di salute,
sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse
all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, composto da 266 articoli
oltre che allegati (a cui seguiranno i conseguenti decreti attuativi).
Provvedimento che nell’attuale stesura è entrato in vigore immediatamente,
ma che potrà subire modifiche a seguito della successiva conversione in
legge, entro i 60 giorni dalla pubblicazione in gazzetta ufficiale.
L’impatto per i destinatari è sempre devastante, dato il profluvio di norme,
spesso di difficile interpretazione oltre che applicazione. Per quanto
attiene alle stazioni appaltanti di seguito si riportano alcune disposizioni
che si ritiene possano avere una certa rilevanza sugli appalti pubblici:
Art. 65 Esonero temporaneo contribuiti ANAC
Si riporta il testo dell’articolo.
“Le stazioni appaltanti e gli operatori economici sono
esonerati dal versamento dei contributi di cui all’articolo 1, comma 65,
della legge 23.12.2005, n. 266 all’Autorità nazionale anticorruzione, per
tutte le procedure di gara avviate dalla data di entrata in vigore della
presente norma e fino al 31.12.2020”.
Cfr.
Comunicato del Presidente dell’ANAC del 20.05.2020:
Art. 81 Modifiche all’articolo 103 in materia di
sospensione dei termini nei procedimenti amministrativi ed effetti degli
atti amministrativi in scadenza (Validità del DURC)
Si riporta il testo dell’art. 103, co. 2, primo periodo, d.l. 17.03.2020 n.
18, convertito in legge 24.04.2020 n. 27, come modificato.
“Tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni,
autorizzazioni e atti abilitativi comunque denominati, compresi i termini di
inizio e di ultimazione dei lavori di cui all’articolo 15 del testo unico di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, in
scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020, conservano la loro validità per
i novanta giorni successivi alla dichiarazione di cessazione dello stato di
emergenza, ad eccezione dei documenti unici di regolarità̀ contributiva in
scadenza tra il 31.01.2020 ed il 15.04.2020, che conservano validità̀ sino
al 15.06.2020”.
Art. 109 Servizi delle pubbliche amministrazioni
• L’art. 48 del d.l. 17.03.2020 n. 18, convertito in legge
24.04.2020 n. 27 (Prestazioni individuali domiciliari) viene sostituto.
• All’articolo 92, comma 4-bis, primo periodo, del d.l. 17.03.2020
n. 18, convertito in legge 24.04.2020 n. 27 (Disposizioni in materia di
trasporto) le parole: “e di trasporto scolastico” sono soppresse.
Art. 153 Sospensione delle verifiche ex art. 48-bis DPR
n. 602 del 1973 (Verifiche sui pagamenti)
Si riporta il testo dell’articolo.
1. Nel periodo di sospensione di cui all’articolo 68, commi
1 e 2-bis, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.04.2020, n. 27 non si applicano le
disposizioni dell’articolo 48-bis del decreto del Presidente della
Repubblica 29.09.1973, n. 602. Le verifiche eventualmente già effettuate,
anche in data antecedente a tale periodo, ai sensi del comma 1 dello stesso
articolo 48-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973,
per le quali l’agente della riscossione non ha notificato l’ordine di
versamento previsto dall’articolo n-bis, del medesimo decreto restano prive
di qualunque effetto e le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le società a
prevalente partecipazione pubblica, procedono al pagamento a favore del
beneficiario.
2. Agli oneri derivanti dal presente articolo valutati in 29, l
milioni di euro per l’anno 2020 che aumentano, ai fini della compensazione
degli effetti in termini di indebitamento netto e di fabbisogno in 88,4
milioni di euro, si provvede ai sensi dell’articolo 265.
Art. 207 – Disposizioni urgenti per la liquidità delle
imprese appaltatrici (Anticipazione)
Si riporta il testo dell’articolo.
1. In relazione alle procedure disciplinate dal decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, i cui bandi o avvisi, con i quali si indice
una gara, sono già stati pubblicati alla data di entrata in vigore del
presente decreto, nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi
o avvisi, alle procedure in cui, alla medesima data, siano già stati inviati
gli inviti a presentare le offerte o i preventivi, ma non siano scaduti i
relativi termini, e in ogni caso per le procedure disciplinate dal medesimo
decreto legislativo avviate a decorrere dalla data di entrata in vigore del
presente decreto e fino alla data del 30.06.2021, l’importo
dell’anticipazione prevista dall’articolo 35, comma 18, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, può essere incrementato fino al 30 per
cento, nei limiti e compatibilmente con le risorse annuali stanziate per
ogni singolo intervento a disposizione della stazione appaltante.
2. Fuori dei casi previsti dal comma 1, l’anticipazione di cui al
medesimo comma può essere riconosciuta, per un importo non superiore
complessivamente al 30 per cento del prezzo e comunque nei limiti e
compatibilmente con le risorse annuali stanziate per ogni singolo intervento
a disposizione della stazione appaltante, anche in favore degli appaltatori
che hanno già usufruito di un’ anticipazione contrattualmente prevista
ovvero che abbiano già dato inizio alla prestazione senza aver usufruito di
anticipazione. Ai fini del riconoscimento dell’eventuale anticipazione, si
applicano le previsioni di cui al secondo, al terzo, al quarto e al quinto
periodo dell’articolo 35, comma 18, del decreto legislativo 18.04.2016,
n. 50 e la determinazione dell’importo massimo attribuibile viene effettuata
dalla stazione appaltante tenendo conto delle eventuali somme già versate a
tale titolo all’appaltatore (27.05.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Emergenza
epidemiologica Covid-19: test sierologici sui dipendenti e tutela dei dati
personali.
Domanda
In vista della ripresa dell’attività in sede, alcuni dipendenti chiedono che
l’Amministrazione effettui test sierologici per il COVID-19.
L’amministrazione condivide le preoccupazioni dei dipendenti e vorrebbe
rendere obbligatori tali test per tutti i dipendenti, al fine di individuare
eventuali casi di contagio e limitarne la diffusione, ritenendo che la
tutela della salute sia una priorità.
Si può adottare questa misura o è necessario sempre il consenso degli
interessati? La misura va concordata con il medico del lavoro?
Risposta
La posizione che ha assunto il Garante per la protezione dei dati personali,
sin dall’inizio dell’emergenza Coronavirus, è stata quella di contemperare
il diritto alla privacy con l’esigenza di contenere il contagio. Il diritto
alla privacy è un diritto di libertà e, in quanto tale, può essere compresso
solo nella misura strettamente necessaria alla tutela del diritto alla
salute della collettività.
Altro punto che troviamo nelle indicazioni del Garante è che i dati sanitari
devono essere trattati soltanto dai soggetti a ciò istituzionalmente
preposti, le istituzioni sanitarie e la protezione civile.
In particolare, con riferimento all’ambito lavorativo, occorre bilanciare
l’interesse alla riservatezza dei dati personali dei lavoratori, con
l’interesse alla salute e sicurezza sul lavoro. È, dunque, comprensibile che
il datore di lavoro (sia esso pubblico o privato) si preoccupi di assicurare
che nei propri uffici non si verifichino situazioni di contagio.
Occorre però mettere qualche paletto.
Così il Garante ha chiarito che, anche nell’attuale emergenza sanitaria,
resta fermo il ruolo svolto dal medico competente (in coerenza con la
disposizione dell’art. 41, del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81 in
tema di sorveglianza sanitaria) e il datore di lavoro non deve comunicare i
nominativi dei contagiati al rappresentate dei lavoratori per la sicurezza.
Restano fermi, infatti, i princìpi di proporzionalità e di minimizzazione
dei dati, sanciti nell’articolo 5 del Regolamento (UE) 2016/679, in materia
di tutela dei dati personali.
Con un
comunicato del 02.03.2020 l’Autorità si era pronunciata
relativamente alla possibilità o meno, per datori di lavoro pubblici e
privati, di acquisire una “autodichiarazione” da parte dei dipendenti
in ordine all’assenza di sintomi influenzali, e vicende relative alla sfera
privata.
A tal proposito il Garante aveva precisato che i datori di lavoro devono
astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato,
anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non
consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del
lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera
extra lavorativa e che la finalità di prevenzione dalla diffusione del
Coronavirus deve essere svolta da soggetti che istituzionalmente esercitano
queste funzioni in modo qualificato.
Pertanto invitava ad attenersi scrupolosamente alle indicazioni fornite dal
Ministero della salute e dalle istituzioni competenti per la prevenzione
della diffusione del Coronavirus, senza effettuare iniziative autonome che
prevedano la raccolta di dati anche sulla salute di utenti e lavoratori che
non siano normativamente previste o disposte dagli organi competenti
A fronte del mutare degli strumenti a disposizione per limitare il contagio,
il Garante fornisce ulteriori indicazioni con riferimento proprio alla
questione dei test sierologici.
Con il
Comunicato del 14 maggio si precisa che:
• nell’ambito del sistema di prevenzione e sicurezza sui luoghi di
lavoro o di protocolli di sicurezza anti-contagio, il datore di lavoro può
richiedere ai propri dipendenti di effettuare test sierologici solo se
disposto dal medico competente o da altro professionista sanitario in base
alle norme relative all’emergenza epidemiologica;
• le visite e gli accertamenti, anche ai fini della valutazione
della riammissione al lavoro del dipendente, devono essere posti in essere
dal medico competente o da altro personale sanitario, e, comunque, nel
rispetto delle disposizioni generali che vietano al datore di lavoro di
effettuare direttamente esami diagnostici sui dipendenti;
• la partecipazione agli screening sierologici promossi dai
Dipartimenti di prevenzione regionali nei confronti di particolari categorie
di lavoratori a rischio di contagio, come operatori sanitari e forze
dell’ordine, può avvenire solo su base volontaria.
Tale impostazione assicura il rispetto del l’art. 5 dello Statuto dei
lavoratori che vieta accertamenti sanitari da parte del datore di lavoro.
Pertanto, con riferimento al quesito proposto, si ritiene che
l’Amministrazione non possa procedere autonomamente all’effettuazione di
test sierologici a tappeto sui propri dipendenti, tanto meno senza il
consenso degli interessati. La misura deve essere disposta dalle autorità
competenti e i dati personali possono essere trattati soltanto dalle
medesime autorità, per disporre le misure di contenimento epidemiologico
previste dalla normativa d’urgenza in vigore (es. isolamento domiciliare).
Si raccomanda invece di attenersi alle disposizioni contenute nel
Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il
contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro
tra Governo e parti sociali del 24.04.2020, recepito
nell’Allegato 6, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del
26.04.2020 (26.05.2020 - link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Regolamento comunale per la disciplina del diritto di accesso dei
consiglieri comunali ai documenti amministrativi.
I regolamenti comunali in tema di diritto di accesso
agli atti da parte dei consiglieri comunali devono uniformarsi ai principi
elaborati dalla giurisprudenza, secondo i quali detti amministratori vantano
un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere
d’utilità all’espletamento delle loro funzioni.
Tale diritto non incontra alcuna limitazione derivante dalla eventuale
natura riservata dei documenti richiesti, in quanto il consigliere è
vincolato al segreto d'ufficio (fanno eccezione gli atti coperti da segreto
in base a specifiche disposizioni di legge, come quelle che tutelano il
segreto delle indagini penali o la segretezza della corrispondenza e delle
comunicazioni). L’esercizio del diritto di accesso deve comunque avvenire
con modalità tali da non recare pregiudizio all’attività degli uffici
amministrativi.
Fermo che eventuali norme limitative dell’accesso dei consiglieri contenute
nei regolamenti comunali devono essere interpretate ed applicate alla luce
dei predetti principi, competerebbe unicamente all’autorità giudiziaria
amministrativa, eventualmente adita, annullare le determinazioni
amministrative illegittime.
Il Capogruppo consiliare chiede un parere in merito alla legittimità del
regolamento adottato dal consiglio comunale, relativo alla disciplina del
diritto di accesso agli atti da parte dei consiglieri comunali.
In via preliminare, si ricorda che non compete a questo Ufficio esprimersi
in merito alla legittimità degli atti degli enti locali, stante l’avvenuta
soppressione del regime dei controlli ad opera della legge costituzionale
3/2001. Di seguito, pertanto, si forniranno una serie di considerazioni
giuridiche in ordine al diritto di accesso agli atti dei consiglieri
comunali, che si ritiene possano risultare di utilità in relazione alla
fattispecie prospettata.
L’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recita:
“I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli
uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro
aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al
segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Come affermato, in diverse occasioni, dalla giurisprudenza “i consiglieri
comunali vantano un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che
possano essere d’utilità all’espletamento delle loro funzioni; ciò anche al
fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e
l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere,
anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai
singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.”
[1].
Anche il Ministero dell’Interno, ha avuto modo di precisare che «il
diritto dei consiglieri ha una ratio diversa da quella che contraddistingue
il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla
generalità dei cittadini (ex articolo 10 del richiamato decreto legislativo
n. 267/2000) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto
e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l'accesso (ex art. 22 e ss. della
legge 07.08.1990, n. 241)» [2].
E, ancora, in altra occasione, sempre il Ministero ha osservato che: “Fermo
restando che l’Ente dovrebbe comunque disporre di apposito regolamento per
la disciplina di dettaglio per l’esercizio di tale diritto, si osserva che
la maggiore ampiezza di legittimazione all’accesso rispetto al cittadino
(art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del
particolare munus espletato dal consigliere comunale. Infatti, il
consigliere deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena
cognizione di causa, la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde potere esprimere un giudizio consapevole sulle
questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di
garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata. A tal
fine, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro
delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il
nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate
da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi
espletato” [3].
Con riferimento ai limiti opponibili alle richieste di accesso dei
consiglieri comunali, sulla scorta dei pronunciamenti giurisprudenziali
intervenuti su tale tema è dato distinguere alcuni casi che costituiscono
dei limiti formali alla richiesta di accesso da altri che, invece,
riguardano il contenuto dell’eventuale documento richiesto
dall’amministratore locale.
Sotto il primo profilo si segnala l’irricevibilità di richieste di accesso
eccessivamente generiche o che per la loro mole possano recare pregiudizio
all’attività degli uffici amministrativi. In questo senso si riporta una
recente sentenza del giudice amministrativo la quale afferma che: “Le
richieste di accesso agli atti fatte dai consiglieri comunali devono essere
formulate in maniera specifica e dettagliata, recando l'indicazione degli
estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora tali elementi
non siano noti al richiedente, almeno di quelli che consentano
l'individuazione degli atti medesimi, in modo da comportare il minore
aggravio agli uffici che dovranno esitare la richiesta, secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo
corrente, e quindi senza pregiudizio per la corretta funzionalità
amministrativa” [4].
Interessante, al riguardo, è anche una sentenza del Supremo giudice
amministrativo il quale ha affermato che: “La giurisprudenza in tema di
diritto di accesso ai documenti da parte dei consiglieri comunali e
provinciali, e, per estensione, anche regionali, ne ha ravvisato il limite
proprio nell'ipotesi in cui lo stesso si traduca in strategie
ostruzionistiche o di paralisi dell'attività amministrativa con istanze che,
a causa della loro continuità e numerosità, determinino un aggravio notevole
del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato
generale sull'attività dell'amministrazione. L'accesso, in altri termini,
deve avvenire in modo da comportare il minore aggravio possibile per gli
uffici comunali, e non deve sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche o meramente emulative” [5].
Il Ministero dell’Interno, nel fare proprie le considerazioni espresse dalla
giurisprudenza e sopra riportate, ha al riguardo precisato che, tuttavia, i
limiti di cui sopra non possono comportare ingiustificate compressioni
all’esercizio del diritto di accesso da parte dei consiglieri, con la
conseguenza che non devono essere introdotte surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso, determinandosi altrimenti un illegittimo
ostacolo al concreto esercizio della funzione dell’amministratore locale,
che è quella di verificare che il Sindaco e la Giunta municipale esercitino
correttamente la loro funzione.
Al riguardo si riporta un parere nel quale il Ministero ha richiamato le
considerazioni espresse dalla Commissione per l’accesso ai documenti
amministrativi [6],
la quale ha specificato che “in conformità al consolidato orientamento
giurisprudenziale amministrativo (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V,
22.05.2007, n. 929), riguardo le modalità di accesso alle informazioni e
alla documentazione richieste dai consiglieri comunali ex art 43 TUEL, il
diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale -nell'esercizio del
proprio munus publicum- non può subire compressioni di alcun genere, tali da
ostacolare l'esercizio del suo mandato istituzionale, con l'unico limite di
poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità)
secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre
attività di tipo corrente” [7].
Con riferimento alla documentazione ostensibile ai consiglieri comunali, si
ribadisce l’ampiezza che caratterizza le richieste di accesso avanzate dagli
stessi: come rilevato dal Consiglio di Stato, “il diritto del consigliere
comunale ad ottenere dall'ente tutte le informazioni utili all'espletamento
delle funzioni non incontra neppure alcuna limitazione derivante dalla loro
eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto
d'ufficio” [8].
Tuttavia, fermo il principio di cui sopra, la giurisprudenza ha negato
l’accesso a degli amministratori locali relativamente a documentazione
coperta da segreto istruttorio: “I consiglieri hanno l’incondizionato
diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità
all’espletamento del loro mandato, al fine di permettere loro di valutare
–con piena cognizione– la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione […]; diverso discorso è invece da farsi relativamente
agli ulteriori atti di indagine penale, eventualmente delegata, che
rientrano nel segreto istruttorio regolato dall’art. 329 c.p.p. e rispetto
ai quali non può esercitarsi l’accesso se non nelle forme consentite dalla
partecipazione al procedimento penale cui essi ineriscono”
[9].
Nello stesso senso si è espresso anche il Ministero dell’Interno
[10] il quale, nel fare
proprie due pronunce del Consiglio di Stato [11]
ha osservato che: «L'Alto Consesso ha ritenuto che la posizione dei
consiglieri comunali non possa essere talmente privilegiata da consentire
loro l'accesso a tutti i documenti, anche segreti, dell'amministrazione,
assumendo solo l'obbligo di non divulgare le relative notizie. […] Se ne
deduce, così, che il diritto di accesso del consigliere comunale, da
esercitarsi riguardo ai dati effettivamente utili all'esercizio del mandato
ed ai soli fini di questo, deve essere coordinato con altre norme vigenti,
come quelle che tutelano il segreto delle indagini penali o la segretezza
della corrispondenza e delle comunicazioni […]».
Concludendo, si ritiene che i regolamenti comunali debbano uniformarsi ai
principi elaborati dalla giurisprudenza sopra illustrati e che eventuali
norme limitative dell’accesso dei consiglieri comunali debbano comunque
essere interpretate ed applicate alla luce dei predetti principi.
In ogni caso, si rappresenta che, come tra l’altro affermato anche dal
Ministero dell’Interno [12]
e dalla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi
[13], entrambi
interpellati su una questione analoga a quella in esame
[14], “l’autorità competente ad
annullare eventuali determinazioni amministrative illegittime è solo il Tar
[…] salve le iniziative di modifica rimesse alla autonoma valutazione
consiliare”.
---------------
[1] TAR Sardegna Cagliari, sez. I, sentenza del 28.11.2017, n. 740; nello
stesso senso, tra le altre, Consiglio di Stato, sentenza del 05.09.2014, n.
4525.
[2] Ministero dell’Interno, parere del 27.09.2018.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 06.04.2017.
[4] TAR Campania Salerno, sez. II, sentenza del 04.04.2019, n. 545. Nello
stesso senso si veda anche TAR Sardegna Cagliari, sez. I, sentenza del
13.02.2019, n. 128.
[5] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.03.2018, n. 1298.
[6] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, “L’accesso ai
documenti amministrativi”, anno 2011, sedute dell'11.10. e dell'08.11.2011.
[7] Ministero dell’Interno, parere del 18.05.2017.
[8] Consiglio di Stato, sez. V, sentenze del 29.08.2011, n. 4829 e del
04.05.2004, n. 2716.
[9] TAR Trento, sez. I, sentenza del 07.05.2009, n. 143. Nello stesso senso
si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.10.2016, n. 4537; TAR
Sicilia, Catania, sentenza del 25.07.2017, n. 1943; TAR Potenza, sentenza
del 14.12.2005, n. 1028.
[10] Ministero dell’Interno, parere del 13.02.2004.
[11] Rispettivamente Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.04.2001, n.
1893 e Consiglio di Stato, sentenza del 26.09.2000, n. 5105.
[12] Ministero dell’Interno parere del 18.05.2017, già citato in nota 7.
[13] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, “L’accesso ai
documenti amministrativi”, anno 2011, seduta dell'08.11.2011.
[14] In entrambi i casi si trattava della richiesta di parere in ordine alla
legittimità del Regolamento per il diritto di accesso agli atti di un
Comune, che si riteneva lesivo delle prerogative in materia di accesso
stabilite per i consiglieri comunali (08.05.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: COMPETENZE
PROFESSIONALI – COMPETENZA DEL GEOMETRA IN MERITO ALLA CERCHIATURA DI UN
VANO PORTA PER UNA COSTRUZIONE IN MURATURA - RICHIESTA PARERE.
Viene richiesto parere al Consiglio Nazionale sulla
possibilità per i Geometri di progettare la cerchiatura metallica per la
modifica di un vano finestra a vano porta di accesso per i disabili, per una
costruzione in muratura (o se, al contrario, trattasi di “competenza
specifica dell’Ingegnere”).
Si precisa inoltre che l’intervento riguarda un edificio in muratura con una
superficie coperta di mq. 250,00 circa, che si sviluppa per n. 4 piani in
zona sismica.
Sulla questione si osserva quanto segue.
In primo luogo, in via generale, si rammenta che non spetta al Consiglio
Nazionale, bensì al Ministero della Giustizia e al Ministero
dell’Università, fornire interpretazioni ufficiali delle competenze
professionali ai sensi del DPR 05/06/2001 n. 328 (“Modifiche ed
integrazioni della disciplina dei requisiti per l’ammissione all’esame di
Stato e delle relative prove per l’esercizio di talune professioni, nonché
della disciplina dei relativi ordinamenti”).
Il Consiglio Nazionale, pertanto, può soltanto esprimere il proprio parere
non vincolante, tramite formule generali, spettando poi all’Amministrazione
chiamata ad esaminare il singolo progetto, di volta in volta, procedere ad
applicare al caso concreto i principi e le regole generali, tramite una
analisi puntuale e non astratta ed aprioristica delle caratteristiche dello
specifico intervento.
Fermo restando quanto sopra –e dunque la necessità di una valutazione caso
per caso, senza limitarsi ad una sintetica descrizione– al fine di fornire
un ausilio e una indicazione di massima all’Ordine territoriale, in funzione
di collaborazione istituzionale, si esprime l’avviso che, sul piano teorico,
le attività sommariamente descritte nella nota trasmessa appaiano
riconducibili alla competenza professionale (propria) dell’Ingegnere.
La progettazione di una cerchiatura si lega infatti ad una serie di
considerazioni di merito su aspetti e questioni tecniche implicanti
valutazioni di equivalenza di rigidezza, di resistenza della struttura e
dunque di valutazione della sicurezza, sia pure di tipo locale.
Entrano in gioco, cioè, valutazioni che interagiscono necessariamente con la
stabilità ed il comportamento strutturale del fabbricato e la sicurezza in
generale.
Non a caso, nella circolare esplicativa delle NTC, si legge che l’intervento
sulle costruzioni esistenti, proprio in forza della necessità di garantire
la pubblica incolumità, determina “una particolare complessità delle
problematiche coinvolte ed una difficile standardizzazione dei metodi di
verifica e di progetto e dell’uso delle numerose tecnologie di intervento
tradizionali e moderne oggi disponibili” (ivi).
Ebbene, a parere del Consiglio Nazionale, la progettazione di una
cerchiatura metallica per la modifica di un vano, da vano-finestra a vano di
una porta di accesso per disabili, all’interno di una costruzione in
muratura e avente una superficie coperta di mq. 250.00 circa, che si
sviluppa per 4 piani in zona sismica, non rientra –in linea generale e fatti
salvi, come anticipato, gli approfondimenti comunque necessari sul caso
concreto (1)–
nelle prerogative dei professionisti Geometri, esigendo la fattispecie una
preparazione ed un percorso di studi di livello superiore e conoscenze
approfondite (proprie della laurea specialistica o magistrale e dunque
dell’Ingegnere e dell’Architetto).
Il tutto tenendo presente che per gli interventi in zona sismica la
necessità di una valutazione caso per caso, che tenga conto in concreto
dell’opera prevista e delle metodologie di calcolo utilizzate, dovrà essere
“tanto più rigida e preclusiva, allorché l’area sia classificata con un
maggiore rischio sismico” (Consiglio di Stato, 09/02/2012 n. 686).
In questi termini è il parere richiesto, salvo eventuale diverso avviso
delle Autorità Ministeriali competenti.
Confidando di avere fornito i chiarimenti di pertinenza del Consiglio
Nazionale, e restando impregiudicate le autonome valutazioni e
considerazioni del Consiglio dell’Ordine territoriale, si inviano cordiali
saluti.
---------------
(1) Ricordiamo, infatti, che secondo la sentenza del
Consiglio di Stato, 09/02/2012 n. 686, “la ricorrenza del criterio
legittimante previsto ex lege –costruzioni civili semplici, con l’uso di
metodologie standardizzate– non può essere aprioristicamente escluso sempre
e comunque, necessitando di una valutazione caso per caso” (ovvero: occorre
sempre analizzare le caratteristiche del caso concreto, con motivazione
concernente il singolo progetto; attività che ovviamente non è possibile
compiere da parte del CNI, il quale si limita a rendere un parere di
massima, di carattere generale, sulla base dei dati e degli elementi a
disposizione). La pronuncia citata del Consiglio di Stato è analizzata nella
circolare CNI 27/02/2012 n. 23
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
parere 30.12.2019 n.
8748 di prot. - link a www.cni-online.it). |
aggiornamento al
25.05.2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ri-assunzione
tempo determinato.
Domanda
Una dipendente a tempo determinato finisce il suo incarico a settembre. Ha
ormai fatto 3 anni e anche l’anno aggiuntivo previsto dal Job act.
L’amministrazione vorrebbe dare un altro incarico sempre per lo stesso
lavoro.
Come potrebbe fare?
Risposta
L’art. 50 del CCNL 21.05.2018 stabilisce che:
• un contratto a tempo determinato non può durare più di 3 anni;
• non è possibile superare i 3 anni nemmeno sommando più contratti
tra le stesse parti per le stesse mansioni, salva la possibilità di
stipulare un ulteriore contratto di 12 mesi nei casi di cui al comma 11;
• tra un contratto e l’altro ci deve essere un intervallo di tempo
da 5 a 20 giorni a seconda dei casi e salve le eccezioni di cui al comma 12.
Dato che ci deve essere uno stacco, prima e dopo il periodo di interruzione
si svolgono due distinti rapporti di lavoro, per l’accesso ai quali si
devono necessariamente applicare le procedure previste per il reclutamento a
tempo determinato nelle pubbliche amministrazioni: ad ogni assunzione si
applicano le regole previste per l’accesso al pubblico impiego
(principalmente: art. 97, comma 2, della Costituzione, d.lgs. 165/2001,
regolamenti dei singoli enti sull’accesso all’impiego), comprese le regole
previste dal bando di concorso di cui si tratta e dagli accordi tra gli enti
coinvolti circa l’utilizzo condiviso delle graduatorie e circa le modalità
del loro scorrimento.
Nel caso in cui, in applicazione di tali regole, venisse individuato lo
stesso lavoratore che ha già prestato servizio a tempo determinato per lo
stesso ente e per le stesse mansioni, è necessario rispettare l’intervallo
di stacco.
Nel caso in cui, in applicazione di tali regole, venisse individuato un
lavoratore che non ha già prestato servizio a tempo determinato per lo
stesso ente per le stesse mansioni, non ci sono intervalli da rispettare,
dato che non si verificano le circostanze con riferimento alle quali il CCNL
richiede lo stacco.
Quindi, la riassunzione dello stesso lavoratore dopo lo stacco non è esclusa
a priori, ma dipende quale è il canale di reclutamento utilizzato e le
regole che lo disciplinano.
Nel caso descritto dal quesito è ipotizzabile anche il ricorso alla
somministrazione di lavoro a tempo determinato, nel rispetto della
disciplina di legge, contrattuale (art. 52 CCNL 21.05.2018), e contenuta nei
regolamenti dell’ente: si vedano in modo particolare i regolamenti dell’ente
per quanto riguarda la scelta dell’agenzia di somministrazione e per la
scelta del lavoratore tra quelli proposti dall’agenzia (21.05.2020
- link a www.publika.it). |
APPALTI SERVIZI:
Trasporto scolastico e pagamento prestazioni non rese.
Domanda
In qualità di RUP e direttore dell’esecuzione dell’appalto relativo al
servizio di trasporto scolastico a seguito dei vari provvedimenti
ministeriali di contenimento dell’epidemia da Covid-19, ai sensi dell’art.
107 del d.lgs. 50/2016, ho disposto la sospensione del servizio da
riattivarsi al termine dell’emergenza e secondo le modalità e condizioni che
saranno disposte a livello statale. L’operatore ci chiede comunque il
pagamento del corrispettivo nonostante il servizio non sia stato prestato.
È legittima la richiesta avanzata?
Risposta
La questione riportata nel quesito riguarda i commi da 4-bis a 4-quater del
d.l. 17.03.2020 n. 18 c.d. “Cura Italia”, aggiunti nel corso
dell’esame al Senato al fine di tutelare le società che svolgono i servizi
di trasporto pubblico locale e regionale e di trasporto scolastico, per
contenere gli effetti negativi dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, e
approvati in via definitiva dalla Camera nella seduta del 24.04.2020.
In particolare il comma 4-bis dell’art. 92 del d.l. 17.03.2020 n. 18,
convertito in legge 24.04.2020 n. 27 stabilisce: “Al fine di contenere
gli effetti negativi dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 e delle
misure di contrasto alla diffusione del virus sui gestori di servizi di
trasporto pubblico locale e regionale e di trasporto scolastico, non possono
essere applicate dai committenti dei predetti servizi, anche laddove
negozialmente previste, decurtazioni di corrispettivo, né sanzioni o penali
in ragione delle minori corse effettuate o delle minori percorrenze
realizzate a decorrere dal 23.02.2020 e fino al 31.12.2020”.
La disposizione si riferisce genericamente ai “gestori di servizi”
prevedendo quindi un ambito di applicazione che prescinde dal sistema di
esecuzione (appalto, concessione, in house).
Pertanto, sulla base della citata norma, non solo non possono essere
applicate dai committenti, neppure se negozialmente previste, sanzioni o
penali in ragione delle minori corse o minori percorrenze effettuate, ma i
Comuni sono tenuti a corrispondere all’appaltatore quanto contrattualmente
previsto per i servizi di trasporto scolastico, ancorché non realizzato per
l’inevitabile sospensione della prestazione scolastica.
Tale obbligo di pagamento del corrispettivo non è immediatamente disponibile
in quanto il comma 4-quater del citato articolo, subordina l’efficacia della
disposizione normativa all’autorizzazione della Commissione europea ai sensi
dell’art. 108, paragrafo 3, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione
Europea, che prevede appunto che siano comunicati alla Commissione europea
progetti diretti a istituire o modificare aiuti.
Tuttavia l’articolo 116, comma 1, lettera b), del nuovo decreto c.d.
Rilancio, in procinto di essere pubblicato in gazzetta ufficiale, modifica
il comma 4-bis sopra citato permettendo di fatto tali riduzioni con
riferimento ai gestori del servizio di trasporto scolastico:
”all’articolo 92, comma 4-bis, primo periodo, le parole: “e di trasporto
scolastico” sono soppresse” (20.05.2020
- link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Adempimenti approvazione PTPCT.
Domanda
È possibile conoscere quali adempimenti dobbiamo svolgere dopo che la Giunta
del nostro comune ha approvato il Piano Triennale Anticorruzione? Il Piano
va spedito alla Funzione pubblica e all’ANAC?
Risposta
La legge anticorruzione (legge 06.11.2012, n. 190), all’articolo 1, comma 8,
prevede che le pubbliche amministrazioni, entro il 31 gennaio di ogni anno,
debbano approvare il Piano Triennale Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT) e ne curano la trasmissione all’Autorità Nazionale
Anticorruzione (ANAC).
L’articolo 10, comma 8, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd:
decreto Trasparenza) prevede che ogni amministrazione ha l’obbligo di
pubblicare sul proprio sito istituzionale nella sezione: “Amministrazione
trasparente”, il Piano Anticorruzione.
L’ANAC, in vari suoi documenti e da ultimo nel Piano Nazionale
Anticorruzione 2019, approvato con delibera n. 1064 del 13.11.2019
(Paragrafo 6), ha specificato che nessun piano –contrariamente a quanto
previsto nella legge Severino– deve essere inviato all’ANAC.
Per non disattendere completamente la disposizione legislativa, l’Autorità,
in collaborazione con due università italiane, ha sviluppato una piattaforma
on-line sul sito web istituzionale. La piattaforma è attiva dal 01.07.2019
ed è finalizzata alla rilevazione delle informazioni sulla predisposizione
dei PTPCT e sulla loro attuazione.
Al momento, la piattaforma ha carattere sperimentale e, nella prima fase, è
stata delimitata l’operatività della stessa unicamente alle amministrazioni
pubbliche, di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (quindi, anche
agli enti locali), agli enti pubblici economici, agli ordini professionali e
alle società in controllo pubblico.
Con un comunicato datato 22.04.2020 –pubblicato nel sito web dell’ANAC il
04.05.2020– l’Autorità ha chiarito che l’acquisizione dei dati sui PTPCT,
tramite la piattaforma, avviene esclusivamente mediante la compilazione di
specifici moduli predisposti dall’Autorità e mai attraverso l’invio o il
caricamento di documenti. In aggiunta, viene specificato che i dati sui
PTPCT riferiti al triennio 2020-2022, non vanno ancora inseriti sulla
piattaforma. L’Autorità fornirà, prossimamente, sul sito istituzionale
specifiche informazioni in merito alle modalità di acquisizione di tali
dati.
Chiarito il quadro complessivo, si risponde allo specifico quesito,
illustrando che:
a) Il PTPCT 2020/2022 deve essere pubblicato, entro un mese
dall’adozione (sostiene l’ANAC, ma non la legge) nel sito web dell’ente,
nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Prevenzione
della corruzione. Il Piano va pubblicato anche nella sottosezione
Disposizioni generali > Piano Triennale per la prevenzione della corruzione
e trasparenza, dove, per evitare inutili duplicazioni, è possibile inserire
un link che apra la prima sottosezione;
b) è opportuno, ma non previsto da alcuna disposizione, che il
Piano, approvato con deliberazione della Giunta, venga altresì trasmesso: al
Responsabile Anticorruzione dell’ente e ai suoi referenti; ai dirigenti o
posizioni organizzative (figure apicali), ai componenti dell’OIV o Nucleo di
Valutazione.
Il PTPCT comunale, dunque, NON va trasmesso all’ANAC, né al dipartimento
della Funzione pubblica, come previsto, invece, per le (sole) pubbliche
amministrazioni centrali (art. 1, comma 5, legge 190/2012). Per il
caricamento dei dati riferiti al Piano 2020/2022 nella Piattaforma ANAC
occorre attendere le ulteriori disposizioni che l’Autorità emanerà (19.05.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità
e scorrimento graduatoria COVID-19.
Domanda
Mobilità e scorrimento graduatorie. Cosa si può fare e cosa è sospeso
durante l’emergenza sanitaria?
Risposta
In merito a quanto esposto si ritiene di proporre delle considerazioni
generali.
Per quanto riguarda la procedura di mobilità, la stessa non può ritenersi
inclusa tra le procedure sospese per effetto dell’emergenza epidemiologica,
trattandosi di espressione del dirigente/responsabile quale privato datore
di lavoro e quindi la stessa potrebbe essere portata a compimento mediante
colloquio telematico con gli aspiranti.
Per l’utilizzo delle graduatorie di un altro ente, tra l’altro da esperirsi
mediante una scambio di lettere tra responsabili (no convenzione), si
ricorda che è necessario procedere alla richiesta ex art. 34-bis del d.lgs.
165/2001 ed attendere poi i 45 giorni previsti dalla norma, che decorreranno
dal 15.05.2020 per effetto della sospensione di cui all’art. 103 del d.l.
18/2020.
Infatti il dipartimento della Funzione Pubblica ha indicato, tra i
procedimenti per i quali intende siano sospesi i termini, anche quello
legato alla verifica degli esuberi ex articolo 34-bis del TUPI.
Quindi, i 45 giorni che gli enti debbono concedere al Dipartimento per
effettuare le verifiche sono attualmente bloccati fino al 15 maggio
compreso.
La previsione delle assunzioni in parola, se non già effettuato, dovrà
essere inserita nel piano triennale di fabbisogno di personale (14.05.2020
- link a www.publika.it). |
APPALTI: Presidente
di commissione di gara e RUP.
Domanda
Nell’attuale situazione è configurabile la convivenza dei ruoli di RUP e
presidente di commissione di gara? Si potrebbe avere una definitiva
delucidazione del problema?
Risposta
La giurisprudenza è intervenuta –in particolare quella di primo grado– in
numerose occasioni sul tema della compatibilità dei ruoli RUP/presidente di
commissione di gara e della stessa possibilità, più in generale, del
responsabile unico del procedimento di far parte della commissione di gara.
Occorre evidenziare che per effetto della recente legge 55/2019 (Sblocca
Cantieri) l’operatività dell’Albo dei commissari (in realtà mai venuta in
essere) è stata sospesa fino alla fine dell’anno (31/12/2020) e, soprattutto
con l’ANCI, diverse sono le proposte di ulteriore proroga.
Tale sospensione abilita sicuramente la stazione appaltante alla nomina di
commissari interni da inserire nel collegio. Anzi, si deve ritenere che
prioritariamente il RUP (quale soggetto che predispone la proposta di nomina
della commissione di gara) debba procedere con l’individuazione rivolgendo
prioritaria attenzione ai funzionari della propria stazione appaltante per
poi ampliare l’orizzonte delle verifiche a dipendenti degli enti limitrofi
(con i quali si condivide l’adesione, ad esempio, ad una unione dei comuni),
per proseguire con le verifiche nell’ambito di soggetti operanti nella
pubblica amministrazione.
In sostanza, solo in via residuale (per appalti complessi) l’attenzione del
RUP potrebbe essere rivolta a professionisti esterni sempre da nominare in
modo trasparente ed oggettivo (magari con avviso pubblico e/o richiesta di
almeno una terna di nominativi agli ordini su cui poi innestare il
sorteggio).
In relazione alla partecipazione del RUP come componente e/o addirittura
come presidente del collegio, si devono esprimere alcune perplessità.
Pur vero che dalla giurisprudenza emergono anche legittimazioni di tali
modalità operative è altrettanto vero che l’ultimo orientamento, anche
quello del Consiglio di Stato, si è espresso in senso contrario. Per
semplificare, si può evidenziare che dalla complessiva giurisprudenza
emergono orientamenti che ammettono tale prerogativa/possibilità ed
orientamenti che la negano in modo assoluto.
Pertanto, si è indotti a ritenere che sia meglio evitare che il RUP venga
individuato presidente del collegio (anche se dovesse coincidere con il
dirigente/responsabile del servizio, rammentando che la funzione della
presidenza è una funzione dirigenziale) per evitare a monte possibili
contenziosi che, anche a prescindere dalla posizione espressa dal giudice,
hanno l’effetto deleterio di ostacolare lo svolgimento fisiologico della
procedura.
Pur vero che, con le censure il ricorrente deve dimostrare la concreta “incompatibilità”
è altrettanto vero, però, che l’aver predisposto le regole della gara (o
averle approvate come nel caso del dirigente/responsabile del servizio)
viene considerata una incompatibilità (da ultimo si veda Consiglio di Stato,
sez. V, sentenza del 17.04.2020 n. 2471 che afferma l’esistenza di un
principio di terzietà nel procedimento amministrativo contrattuale).
Analoga considerazione deve essere espressa sulla partecipazione del
responsabile unico (nonostante il comma 4 dell’articolo 77) è preferibile
–almeno fino al consolidamento di un orientamento giurisprudenziale
definitivo– che il RUP non faccia parte del collegio se non nel ruolo di
segretario verbalizzante (13.05.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rilevazione
della temperatura corporea dei dipendenti e tutela dei dati personali.
Domanda
Nel nostro comune, al momento dell’entrata in servizio, in assenza di
termoscanner, è stato predisposto un foglio con i nomi di tutti i dipendenti
in cui è necessario dichiarare di non avere sintomi influenzali e una
temperatura corporea inferiore a 37,5°.
La dichiarazione viene completata con la firma del dipendente e i colleghi
la possono consultare trattandosi di un documento unico per tutti. Il
foglio, con le dichiarazioni, viene ritirato durante la mattinata da un
addetto del servizio personale.
Ci si chiede: la procedura rispetta le vigenti disposizioni in materia di
privacy?
Risposta
Per fronteggiare l’aggravarsi dello scenario, legato all’emergenza
epidemiologica, si sono susseguiti, in modo ravvicinato e, a volte, non
sempre coordinato, numerosi interventi normativi e conseguenti atti di
indirizzo tutti finalizzati a individuare misure urgenti in materia di
contenimento e gestione dell’emergenza da Covid-19.
Tra le varie misure previste per i datori di lavoro, la più recente è il
Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il
contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro
tra Governo e parti sociali, sottoscritto –nell’ultima versione– il
24.04.2020. Il Protocollo è stato poi trasfuso nel decreto Presidente
Consiglio dei ministri (dpcm) del 26.04.2020, dove ha preso le sembianze
dell’Allegato n. 6.
In particolare, il citato Protocollo prevede la rilevazione della
temperatura corporea del personale dipendente per l’accesso alla sede
aziendale (cfr. Paragrafo 2 del Protocollo rubricato “Modalità di
ingresso in azienda”).
Sulla base delle vigenti norme in materia di tutela della privacy, la
rilevazione in tempo reale della temperatura corporea –quando è associata
all’identità dell’interessato– costituisce un trattamento di dati personali
[ex articolo 4, Paragrafo 1, 2) del Regolamento (UE) 2016/679] e, per ciò
stesso, non è ammessa la registrazione del dato relativo alla temperatura
corporea rilevata o, come nel caso del quesito, dichiarata dal dipendente.
A tal riguardo il Garante Privacy suggerisce:
1. di rilevare la temperatura e non registrare il dato acquisito. È
possibile identificare l’interessato e registrare il superamento della
soglia di temperatura solo qualora sia necessario a documentare le ragioni
che hanno impedito l’accesso ai locali aziendali;
2. fornire al dipendente l’informativa (ex art. 13 Regolamento UE)
sul trattamento dei dati personali. Si ricorda che l’informativa può
omettere le informazioni di cui l’interessato è già in possesso e può essere
fornita anche oralmente;
3. definire le misure di sicurezza e organizzative adeguate a
proteggere i dati. In particolare, sotto il profilo organizzativo, occorre
individuare i soggetti preposti al trattamento e fornire loro le istruzioni
necessarie;
4. in caso di isolamento momentaneo dovuto al superamento della
soglia di temperatura, assicurare modalità tali da garantire la riservatezza
e la dignità del lavoratore.
Per tutto quanto sopra e nel rispetto del principio di “minimizzazione”,
così come disciplinato nell’articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del
regolamento UE citato, si ritiene che la procedura adottata nel comune, non
risulti conforme alle vigenti disposizioni in materia di tutela dei dati
personali e dovrebbe, pertanto, essere sostituita da altra procedura più
rispettosa delle norme vigenti.
A completamento informativo, si consiglia di consultare le FAQ pubblicate
nel sito web del Garante Privacy italiano al
seguente link
e applicare le disposizioni del Paragrafo 2, e Nota 1, del Protocollo,
riportato nel dpcm del 26.04.2020, allegato 6 (12.05.2020 - link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
regolamento comunale sull'Ordinamento Generale degli Uffici, adottato dalla
Giunta Municipale, prevede che, in presenza di determinate condizioni, i
Dirigenti possano delegare al personale appartenente alla carriera direttiva
le funzioni dirigenziali per un periodo massimo di sei mesi.
Ciò premesso, si chiede se detta previsione regolamentare possa presentare
profili di illegittimità considerato che manca un'esplicita previsione
statutaria sull'argomento, nel senso che lo statuto comunale, nel
disciplinare la dirigenza, nulla dice sulla possibilità di delegare le
funzioni dirigenziali.
Per rispondere al quesito si fa riferimento a quanto disposto dal D.Lgs
18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.) specificamente all'art. 7 che disciplina
l'adozione dei regolamenti comunali "nel rispetto dei principi fissati
dalla legge e dallo statuto".
E' evidente che la mancanza di disposizioni statutarie non è d'ostacolo alla
previsione regolamentare della disciplina della delega di funzioni
dirigenziali là dove il regolamento sia conforme a legge.
Infatti, l’art. 17, comma 1-bis, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 rubricato "Funzioni
dei dirigenti" stabilisce che "I dirigenti, per specifiche e
comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di tempo
determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese
nelle funzioni di cui alle lettere b), d) ed e) del comma 1 a dipendenti che
ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad
essi affidati. Non si applica in ogni caso l'articolo 2103 del codice civile".
Pertanto, nei limiti stabiliti dalla norma primaria, e quindi, in presenza
di specifiche e comprovate ragioni di servizio, anche in assenza di
disposizioni statutarie, deve considerarsi legittima la previsione
regolamentare che consenta al dirigente di delegare determinate funzioni a
dipendenti apicali, ben potendo quindi il regolamento prevedere il termine
di 6 mesi come termine massimo di durata.
Deve poi farsi necessariamente riferimento alla materia delle mansioni
superiori ai sensi dell'art. 52, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 i cui parametri
devono essere comunque rispettati per evitare condotte rilevanti sotto il
profilo erariale e disciplinare.
Infatti, l'art. 52, co. 2, stabilisce che "2. Per obiettive esigenze di
servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della
qualifica immediatamente superiore:
a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei
mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per
la copertura dei posti vacanti come previsto al comma 4;
b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto
alla conservazione del posto, con esclusione dell'assenza per ferie, per la
durata dell'assenza. 3. Si considera svolgimento di mansioni superiori, ai
fini del presente articolo, soltanto l'attribuzione in modo prevalente,
sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri
di dette mansioni".
Evidente pertanto che la delega di funzioni dirigenziali a funzionari
apicali deve essere connotata da una quantificazione, sotto il profilo
qualitativo e temporale, inferiore alle mansioni proprie della qualifica
direttiva che fanno ordinariamente capo al dipendente. In altre parole le
funzioni delegate non devono essere quantitativamente superiori a quelle
ordinariamente svolte dal dipendente e proprie della sua qualifica.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs 18.08.2000, n. 267,
art. 110 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 7 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165,
art. 17 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 52
(11.05.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Svolgimento
colloquio COVID-19.
Domanda
Abbiamo in corso una procedura di mobilità fra enti ex art. 30 del D.L.vo n.
165/2001. La Commissione dovrebbe ascoltare (colloquio) l’unico candidato
partecipante ed ammesso.
Come possiamo procedere in questo tempo di emergenza sanitaria?
Risposta
L’art. 87, comma 5, del d.l. 18/2020, disciplina “lo svolgimento delle
procedure concorsuali per l’accesso al pubblico impiego”, prevedendo
apposite misure di tutela e salvaguardia della salute pubblica. L’art. 4,
comma 1, del d.l. 22/2020, ha chiarito che la sospensione (per 60 giorni)
riguarda esclusivamente le prove concorsuali e non le procedure concorsuali,
intese in senso lato.
Chiarito il quadro normativo in cui ci si muove, si ritiene che il colloquio
dell’unico candidato per una procedura di mobilità tra enti (ex art. 30,
d.lgs. 165/2001) non rientri nella categoria di “prove concorsuali”
per l’accesso al pubblico impiego, trattandosi di una cessione di contratto
(trasferimento) di un dipendente che è già all’interno del perimetro della
P.A.
Detto ciò, restano, comunque, da rispettare le disposizioni urgenti per la
prevenzione del fenomeno epidemiologico da COVID-19, che obbligano i datori
di lavoro privati e quelli della P.A. ad adottare idonee misure che non
pongano a rischio la salute dei componenti della commissione e dell’unico
candidato.
Per garantire tale passaggio, e consentirvi di concludere la procedura di
mobilità (che non è un concorso), si individuano due possibili soluzioni:
a) svolgere il colloquio in una sala ampia, alla presenza della
commissione, eventuale segretario verbalizzante e candidato, debitamente
distanziati, con uso di mascherine e guanti monouso. Nella sala (ampia) si
può prevedere la presenza di eventuale pubblico stabilendo prima il numero
massimo (per esempio tre o cinque persone). Lo sede e l’orario di
svolgimento del colloquio e il numero dei posti riservati al pubblico
dovranno essere comunicati via web in anticipo;
b) in assenza di luogo idoneo, la commissione può svolgere il
colloquio da remoto, con collegamento on-line. In questo caso il candidato
può utilizzare un dispositivo (PC, tablet, smartphone) di sua proprietà. Il
colloquio può essere registrato e, qualora richiesto da chi ne fosse
interessato, può essere resa disponibile la registrazione. Il candidato
dovrà essere previamente informato che il colloquio viene registrato. Il
giorno e l’ora di svolgimento del colloquio e il fatto che la prova sarà
registrata e eventualmente resa pubblica, può essere comunicato con apposito
avviso da pubblicarsi nel sito web dell’ente (07.05.2020 - link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'assunzione
del libero professionista vincitore di concorso.
DOMANDA:
L'Ente è in procinto di assumere alcuni dipendenti a tempo determinato, per
due anni, inquadrandoli in cat. D. Uno degli interessati esercita la libera
professione di avvocato ed è quindi titolare di partita IVA.
L'avvocato ha posto il problema di poter ricevere alcuni crediti che
comunque si manifesteranno non nell'immediato ma in futuro, come, ad
esempio, quelli derivanti de sentenze favorevoli oltre a quelli per i quali
non ha ancora emesso fattura, pur avendo svolto una ponderosa attività
legale. Infatti, anche a voler anticipare la fatturazione per molte cause
per cui aveva il mandato, per altre gli è impossibile emettere la relativa
nota di addebito a causa dell'attuale indeterminatezza del credito che solo
in futuro potrà essere fissato in maniera certa.
A tal fine, l'interessato ha chiesto se possa far rimanere aperta la sua
posizione con partita IVA al solo fine di poter emettere le relative fatture
quando i crediti saranno esigibili, senza effettuare alcuna attività
ulteriore di difesa ma solo per poter estinguere le sue obbligazioni attive.
Diversamente, chiede come poter affrontare e risolvere il problema senza che
ciò comporti una rinuncia ai crediti maturati.
RISPOSTA:
L’Agenzia delle Entrate ad un quesito analogo a quello di specie, ovvero se
sia possibile mantenere aperta la partita IVA per il tempo strettamente
necessario alla riscossione dei crediti afferenti alla pregressa attività
professionale e maturati prima dell’assunzione, ha risposto che “il
professionista che non svolge più l’attività professionale non può cessare
la partita IVA in presenza di corrispettivi per prestazioni rese in tale
ambito ancora da fatturare ai propri clienti. L’attività del professionista
non si può considerare cessata fino all’esaurimento di tutte le operazioni,
ulteriori rispetto all’interruzione delle prestazioni professionali, dirette
alla definizione dei rapporti giuridici pendenti, ed, in particolare, di
quelli aventi ad oggetto crediti strettamente connessi alla fase di
svolgimento dell’attività professionale. La cessazione dell’attività per il
professionista non coincide, pertanto, con il momento in cui egli si astiene
dal porre in essere le prestazioni professionali, bensì con quello,
successivo, in cui chiude i rapporti professionali, fatturando tutte le
prestazioni svolte e dismettendo i beni strumentali. Fino al momento in cui
il professionista, che non intenda anticipare la fatturazione rispetto al
momento di incasso del corrispettivo, non realizza la riscossione dei
crediti, la cui esazione sia ritenuta ragionevolmente possibile l’attività
professionale non può ritenersi cessata” (Agenzia entrate Risposte alle
istanze di consulenza giuridica n. 20 del 29/11/2019).
L’Agenzia non si è invece espressa, non avendone la competenza,
sull’applicazione della disciplina delle inconferibilità e incompatibilità
riguardanti il rapporto di pubblico impiego. In altri termini,
nell’evidenziare che, per la riscossione dei crediti, è necessario per il
professionista mantenere aperta la P.iva, non si è invece pronunciata
sull’aspetto principale del quesito, ossia se mantenendola aperta, sia
possibile essere assunto come dipendente pubblico.
La disciplina del pubblico impiego esclude che un pubblico dipendente, a
meno che non sia a tempo parziale non superiore al 50%, possa svolgere
attività industriali, commerciali e professionali, cioè le attività
imprenditoriali di cui all’articolo 2082 cod. civ. e le attività libero
professionali per il cui esercizio è necessaria l’iscrizione in appositi
albi o registri. Perché, in tali casi, sarebbe violato l’obbligo di
esclusiva nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza. L’apertura e
il mantenimento di una partita iva presuppone invece l’esercizio abituale e
prevalente di una qualsiasi attività economica, e quindi è in conflitto con
il vincolo di esclusività sancito dall’art. 53 del d.lgs. 165/2001.
Va però evidenziato che, in merito alla possibilità per il professionista di
cessare l’attività professionale prima di avere incassato tutti i compensi,
nel corso degli anni si sono alternati orientamenti diversi.
A quello sopra richiamato, contenuto già nella circolare n. 11/E del
16.02.2007 e nella risoluzione 232/E/2009 e ribadito dalla Corte di
Cassazione con la sentenza n. 8059 del 21.04.2016, se ne è contrapposto un
secondo, con cui l’Agenzia ha chiarito invece che laddove un contribuente “cessi
l’attività quando ancora esistono compensi fatturati e non ancora
riscossi……. è rimessa alla scelta del contribuente la possibilità di
determinare il reddito relativo all’ultimo anno di attività tenendo conto
anche delle operazioni che non hanno avuto in quell’anno manifestazione
finanziaria” (circolare 17/E/2012, paragrafo 5.1).
Adottando questa interpretazione, seguita anche nella prassi, appare
possibile procedere alla fatturazione di tutti i compensi, compresi quelli
ancora non riscossi e, successivamente, cessare l’attività professionale,
computando nell’ultima dichiarazione annuale Iva anche le operazioni per le
quali si è anticipata l’esigibilità dell’imposta rispetto al momento
dell’effettivo incasso. Quest’ultima soluzione -che appare preferibile per
gli specialisti del settore- prospetta la possibilità di cessare l’attività
professionale “anticipatamente” rispetto alla manifestazione
finanziaria delle operazioni in essere ed evita problemi di incompatibilità
nell’ambito del pubblico impiego
(tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI: La
modifica del contratto di appalto.
DOMANDA:
Il comune ha un contratto di pulizia degli uffici e delle palestre comunali
triennale che scade il 30.05.2022. Con l'intervento dell'emergenza è stata
interrotta la pulizia delle palestre fino alla ripresa dell'attività nelle
stesse (si immagina a settembre). Viene mantenuta regolarmente la pulizia
degli uffici comunali.
Preso atto che risulta difficile prorogare la pulizia delle palestre
indipendentemente dalla pulizia degli uffici si è pensato, per non recare
danno alla ditta e per utilizzare le risorse in modo congruo, di convertire
le somme destinate al canone di pulizia palestre dei mesi di marzo, aprile
eccetera alla sanificazione degli uffici e delle stesse palestre prima
dell'apertura, utilizzando come riferimento normativo l'art. 48 D.L.
18/2020.
Si chiede se l'operazione sia fattibile con questo o altri riferimenti
normativi(si tratta di una somma di circa 25mila euro) o se si debba
procedere alla proroga e con quali modalità.
RISPOSTA:
I contratti di appalto e di concessione affidati in base al D.Lgs. n.
50/2016 (Codice dei contratti pubblici) possono essere sospesi ai sensi
dell’art. 107 del Codice. Tale disposizione, prevista per i lavori si
applica anche ai contratti di servizi e forniture, in quanto compatibili
(comma 7).
Ai fini dell’applicabilità della norma, devono ricorrere le ipotesi ivi
previste:
- circostanze speciali che impediscono in via temporanea che i
lavori/servizi/forniture procedano utilmente a regola d’arte e che non siano
prevedibili al momento della stipulazione del contratto (comma 1) oppure
- ragioni di necessità o di pubblico interesse (comma 2) oppure
- cause imprevedibili o di forza maggiore che impediscono
parzialmente il regolare svolgimento dei lavori/servizi/forniture (comma 4).
Nel caso dell’emergenza sanitaria da Covid-19, sono configurabili sia le
circostanze speciali che impediscono in via temporanea l’esecuzione del
contratto che le ragioni di pubblico interesse.
E’ tuttavia necessario un atto che disponga la sospensione del contratto,
come previsto espressamente dallo stesso art. 107 e dall’art. 23 del Decreto
del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti n. 49/2018.
Serve quindi un verbale del Rup o del Direttore dell’esecuzione del
contratto, qualora individuato in un soggetto diverso, nel quale siano
specificati:
- le ragioni che hanno determinato l’interruzione dei lavori,
servizi o forniture (identificabili appunto nell’emergenza epidemiologica da
COVID-19 e nei provvedimenti inerenti e conseguenti);
- lo stato di avanzamento del contratto e quindi le prestazioni già
effettuate,
- le prestazioni che possono proseguire e quelle che invece sono
sospese (in caso di sospensione parziale),
- le eventuali cautele adottate affinché alla ripresa le opere/i
servizi/le forniture possano essere continuate ed ultimate senza eccessivi
oneri,
- la consistenza della forza lavoro e dei mezzi d’opera esistenti
in cantiere al momento della sospensione (con particolare riferimento ai
lavori).
Il comma 3 dell’art. 107 prevede poi che, cessate le cause della
sospensione, il Rup disponga la ripresa dell’esecuzione e indichi “il
nuovo termine contrattuale”.
Analogamente ai sensi del art. 23, comma 3, del D.M. 49/2018 “non appena
siano venute a cessare le cause della sospensione, il direttore dei
lavori/il direttore dell’esecuzione lo comunica al RUP affinché quest’ultimo
disponga la ripresa dell’esecuzione e indichi il nuovo termine contrattuale”.
Dal combinato disposto delle norme indicate sembra emergere la possibilità,
in ogni caso, di prevedere un nuovo termine contrattuale rispetto a quello
originariamente previsto, correlato al periodo di sospensione del contratto.
Con riferimento ai contratti di appalto ad esecuzione periodica e
continuativa occorre tuttavia verificare, caso per caso, le effettive
modalità di svolgimento del servizio e l’utilità della proroga in questione.
Nel caso in esame, l’Ente ritiene di non procedere con la sospensione
parziale del servizio (relativamente alla pulizia delle palestre), ma di
convertire le prestazioni in altre al momento più utili per
l’Amministrazione.
L’art. 48 del D.L. n. 18/2020 convertito con Legge n. 27/2020 (cd. “Cura
Italia”) è una norma specificatamente dettata per servizi educativi e
scolastici e per le attività sociosanitarie e socioassistenziali svolte nei
centri diurni per anziani e per persone con disabilità, e pertanto non può
essere applicata al di fuori dei casi espressamente previsti.
Nella fattispecie in esame l’Ente può invece valutare l’applicabilità
dell’art. 106 del D.Lgs. n. 50/2016 ai sensi del quale “Le modifiche,
nonché le varianti, dei contratti di appalto in corso di validità devono
essere autorizzate dal RUP con le modalità previste dall’ordinamento della
stazione appaltante cui il RUP dipende”.
In particolare, in base al comma 1, lett. c), di tale articolo i contratti
di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere
modificati senza una nuova procedura di affidamento “ove siano
soddisfatte tutte le seguenti condizioni, fatto salvo quanto previsto per
gli appalti nei settori ordinari dal comma 7: 1) la necessità di modifica è
determinata da circostanze impreviste e imprevedibili per l'amministrazione
aggiudicatrice o per l'ente aggiudicatore. In tali casi le modifiche
all'oggetto del contratto assumono la denominazione di varianti in corso
d'opera. Tra le predette circostanze può rientrare anche la sopravvenienza
di nuove disposizioni legislative o regolamentari o provvedimenti di
autorità od enti preposti alla tutela di interessi rilevanti; 2) la modifica
non altera la natura generale del contratto”.
Ed ancora ai sensi della lettera e) dello stesso comma 1 il contratto può
essere modificato “se le modifiche non sono sostanziali ai sensi del
comma 4”. Una modifica è considerata sostanziale quando altera “considerevolmente
gli elementi essenziali del contratto originariamente pattuiti” o quando
ricorrono le condizioni di cui al comma 4 del citato art. 106.
Il comma 2 del medesimo articolo disciplina poi ulteriori ipotesi che
consentono la modifica del contratto senza necessità di una ulteriore
procedura.
L’Ente dovrà quindi valutare quali condizioni ricorrano nel caso di specie e
procedere, previa autorizzazione del Rup, a convertire le prestazioni
oggetto del contratto (con gli obblighi inerenti e conseguenti previsti
dall’art. 106 del D.Lgs. n. 50/2016).
Per quanto riguarda la fase di esecuzione del contratto, si ricorda infine
che l’Anac, con delibera n. 312 del 09.04.2020, ha precisato che il rispetto
delle misure di contenimento del contagio da “Covid-19” è sempre
valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli
1218 e 1223 Cc., della responsabilità del debitore, anche relativamente
all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o
omessi adempimenti. Questo sia con riferimento ai lavori che con riferimento
ai servizi ed alle forniture
(tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
parere in merito alla normativa da applicare alla domanda di condono
edilizio in caso di vincolo di inedificabilità assoluto sopravvenuto
all’abuso – G.d.F., Tenenza di Ponza (Regione Lazio,
nota 06.05.2020 n. 401878 di prot.). |
VARI: Il
Comando di questa forza di polizia riceve numerose richieste circa la
possibilità di spostamento, dal 04.05.2020, per incontri con familiari e
affini che si trovano per motivi di lavoro e studio fuori Regione.
Sono possibili questi spostamenti ed entro quali limiti?
Come noto l'art. 1, DPCM
26.04.2020, con decorrenza dal 4 maggio continua a mantenere forti
limitazioni per gli spostamenti personali prevedendo 3 casistiche
fondamentali:
• spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative
• spostamenti motivati da situazioni di necessità
• spostamenti motivati da salute
Tuttavia il decreto aggiunge una ulteriore precisazione per cui "si
considerano necessari gli spostamenti per incontrare congiunti purché venga
rispettato il divieto di assembramento e il distanziamento interpersonale di
almeno un metro e vengano utilizzate protezioni delle vie respiratorie".
Tale condizione rappresenta una esplicitazione della situazione di
necessità, specificamente circoscritta dal decreto anche se con una
formulazione alquanto "ambigua" quale la dizione "congiunti",
successivamente esplicitata dalle AFQ del Governo come riferita a: i
coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che
sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto
grado (come, per esempio, i figli dei cugini tra loro) e gli affini fino al
quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge).
Il DPC, sempre all'art. 1 prosegue disponendo un divieto rafforzato per gli
spostamenti fra le regioni, che possono ritenersi legittimati solo per:
• comprovate esigenze lavorative
• assoluta urgenza
• motivi di salute
Come si può notare il decreto con include in questo caso gli spostamenti per
la visita ai congiunti.
Tuttavia l'ultima parte della disposizione prevede una eccezione assoluta "è
in ogni caso consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o
residenza".
Alla luce di questo quadro normativo, in relazione al quesito formulato, si
può dire:
• non è consentito lo spostamento fuori Regione per visite a
congiunti motivate esclusivamente da esigenze di ritrovo o riunione
familiare
• è consentito lo spostamento per eventuali motivi di salute
(propri o dei congiunti)
• è consentito lo spostamento per il rientro alla propria
abitazione (es. figlio studente universitario che rientra dai genitori nella
abitazione di proprietà o residenza)
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
DPCM 26.04.2020, art. 1
(06.05.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Possibilità di attivazione di specifica polizza sanitaria per emergenza
COVID-19 a favore dei dipendenti dell'ente.
L’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, dispone che nei casi
accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro
il medico certificatore redige il certificato di infortunio e lo invia
telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni,
la relativa tutela dell’infortunato.
In forza della norma richiamata e come precisato dall’Inail (circolare n.
13/2020), le infezioni da nuovo coronavirus contratte in occasione di lavoro
sono dunque coperte dalla tutela assicurativa Inail, per tutti i lavoratori
assicurati dall'Istituto stesso, come infortuni di cui l’ente datoriale è
tenuto a rispondere.
E ciò –avuto riguardo al datore di lavoro pubblico– corrisponde al principio
generale secondo cui la pubblica amministrazione può assicurare con oneri a
carico del proprio bilancio quei rischi che rientrino nella sfera della
propria responsabilità patrimoniale, trasferendo all'assicuratore il rischio
del verificarsi di un danno patrimoniale, mentre è priva di giustificazione
e, come tale, causativa di danno erariale l'assicurazione di eventi per i
quali l'ente non deve rispondere, che non rappresentano un rischio per
l'ente medesimo.
Alla luce di detto principio, la possibilità per il Comune di stipulare una
polizza assicurativa per il rischio da nuovo coronavirus, in favore del
proprio personale dipendente, ulteriore a quella Inail prevista
espressamente dalla legge (art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020), verrebbe a
tradursi in una copertura assicurativa per ipotesi di infezioni non occorse
in occasione di lavoro e dunque al di fuori degli eventi ricadenti nella
responsabilità dell’ente, con ciò superando il limite di liceità della
copertura assicurativa per gli eventi di danno riconducibili alla sfera
della responsabilità patrimoniale della p.a..
---------------
Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di assicurare il
personale dipendente dai rischi derivanti da “Covid-19”, alla luce
del fatto che la polizza assicurativa in questione comporterebbe a suo
carico spese ulteriori rispetto a quelle relative all’assicurazione
obbligatoria per infortuni e malattie professionali e tenuto conto del fatto
che l’Ente può assicurarsi solo per eventi che rientrano nella propria
responsabilità patrimoniale.
In relazione alla questione posta, sentito il Servizio Funzione pubblica di
questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020 [1],
dispone che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2)
in occasione di lavoro il medico certificatore redige il consueto
certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura,
ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le
prestazioni Inail nei casi accertati di infezioni da coronavirus in
occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di
permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente
astensione dal lavoro […]”.
Con circolare n. 13 del 03.04.2020, l’Inail ha puntualizzato che, secondo
l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive
e parassitarie [2],
l’Istituto tutela i casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie
negli ambienti di lavoro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, i
quali sono inquadrabili nella categoria degli infortuni: in questi casi, la
causa virulenta è equiparata a quella violenta [3].
Fra tali affezioni morbose rientra anche l’infezione da nuovo coronavirus
per tutti i lavoratori assicurati dall’Inail.
In particolare, l’Inail spiega che l’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, a
conferma dell’indirizzo suddetto, chiarisce che la tutela assicurativa Inail,
spettante nei casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie negli
ambienti di lavoro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, opera anche
nei casi di infezione da nuovo coronavirus contratta in occasione di lavoro
per tutti i lavoratori assicurati all’Inail.
Per quanto concerne le circostanze in cui possa configurarsi un’infezione da
nuovo coronavirus “in occasione di lavoro” [4],
l’Inail precisa che, nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della
tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato
rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali
operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale,
considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari
vengano a contatto con il nuovo coronavirus.
A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte
anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il
pubblico/l’utenza.
In via esemplificativa, ma non esaustiva, nella circolare n. 13/2020 si
indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle
vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli
ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del
trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della
presunzione semplice valido per gli operatori sanitari.
Le predette situazioni non esauriscono, però –precisa l’Inail– l’ambito del
suo intervento, in quanto residuano quei casi, anch’essi meritevoli di
tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi
contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali
da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione
semplice.
In base alle istruzioni per la trattazione dei casi di malattie infettive e
parassitarie, la tutela assicurativa si estende, infatti, anche alle ipotesi
in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del
contagio si presenti problematica.
Ne discende –continua l’Istituto- che, ove l’episodio che ha determinato il
contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può
comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle
mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga,
l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando
essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e
circostanziale.
In forza della norma di legge di cui all’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, le
infezioni da nuovo coronavirus sono dunque coperte dalla tutela assicurativa
Inail, come infortuni in occasione di lavoro, di cui l’ente datoriale è
tenuto a rispondere.
E ciò –avuto riguardo al datore di lavoro pubblico– corrisponde al principio
generale secondo cui la pubblica amministrazione può assicurare con oneri a
carico del proprio bilancio quei rischi che rientrino nella sfera della
propria responsabilità patrimoniale, trasferendo all'assicuratore il rischio
del verificarsi di un danno patrimoniale, mentre è priva di giustificazione
e, come tale, causativa di danno erariale, l'assicurazione di eventi per i
quali l'ente non deve rispondere e che non rappresentano un rischio per
l'ente medesimo [5].
Avuto riguardo a detto limite di liceità della copertura assicurativa per
gli eventi di danno riconducibili alla sfera della responsabilità
patrimoniale della p.a., la possibilità di una polizza assicurativa per il
rischio da nuovo coronavirus, in favore del proprio personale dipendente,
ulteriore a quella Inail prevista espressamente dalla legge (art. 42, c. 2,
D.L. n. 18/2020), verrebbe a tradursi in una copertura assicurativa per
ipotesi di infezioni non occorse in occasione di lavoro e dunque al di fuori
degli eventi ricadenti nella responsabilità dell’ente.
In linea con queste considerazioni, paiono anche potersi interpretare le
affermazioni della Corte dei conti Emilia Romagna n. 895/2006, secondo cui,
poiché per i dipendenti pubblici, siano essi privatizzati od ancora retti da
norme di diritto pubblico, l'assicurazione contro i danni subiti per
infortuni avvenuti in occasione di lavoro è disciplinata dalle disposizioni
in materia di assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie
professionali (d.p.r. 20.06.1965 n. 1124), la possibilità degli enti di fare
ricorso in tale materia a forme ulteriori di assicurazione può ritenersi
lecita nei soli limiti in cui si rivolga chiaramente verso rischi non
considerati e ricompresi nelle coperture assicurative previste per legge, o
comunque siano contratte coperture in favore di soggetti non compresi nelle
categorie dei dipendenti considerate dalle norme in materia
[6].
E avuto riguardo a detti parametri, atteso che, come sopra rilevato, la
copertura assicurativa del personale dipendente in relazione alle ipotesi di
contrazione dell’infezione da Covid-19 in occasione del lavoro è
espressamente prevista dall’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, che la riconduce
alla tutela assicurativa Inail, si ritiene che non sussista la possibilità
per il Comune di stipulare ulteriori polizze assicurative.
---------------
[1] D.L. 17.03.2020, n. 18, recante: “Misure di potenziamento del
Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie,
lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”. La
disposizione di cui al comma 2 del citato art. 42 è applicabile ai datori di
lavoro pubblici e privati.
[2] L’Inail richiama in proposito le Linee-guida per la trattazione dei casi
di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare Inail 23.11.1995,
n. 74.
[3] Ai sensi dell’art. 2, D.P.R. n. 1124/1965 (Testo unico delle
disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul
lavoro e le malattie professionali), “L'assicurazione comprende tutti i casi
di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia
derivata la morte o un'inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale,
ovvero un'inabilità temporanea assoluta che importi l'astensione dal lavoro
per più di tre giorni” (comma 1).
[4] Sull’espressione “occasione di lavoro”, l’Inail richiama la Corte di
Cassazione, sentenza n. 9913 del 13.05.2016, che ha ribadito i principi che
devono essere seguiti nel determinare la riconducibilità all’“occasione di
lavoro” dell’infortunio occorso al lavoratore. In particolare, secondo la
Suprema Corte, affinché l’infortunio sia indennizzabile da parte dell’Inail,
non è necessario che sia avvenuto nell’espletamento delle mansioni tipiche
disimpegnate dal lavoratore essendo sufficiente, a tal fine, anche che lo
stesso sia avvenuto durante lo svolgimento di attività strumentali o
accessorie.
Sia la dottrina che la giurisprudenza di legittimità riconoscono il
significato normativo estensivo dell’espressione “occasione di lavoro”. Essa
comprende tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui
l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di
danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato
produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie e ineludibili del
lavoratore.
[5] Corte dei Conti-Lombardia, sez. contr., deliberazione 21.12.2011, n.
665. La deliberazione esprime l’orientamento costante della Corte dei conti
nel senso di esplicitare il limite di assicurabilità della p.a.
individuandolo nel divieto di assumere a proprio carico rischi non propri;
al riguardo, v. Corte dei conti, Sezioni Riunite, sentenza n. 707-A del
5.4.1991; Corte dei conti Abruzzo, sentenza 27.10.2011, n. 353; Corte dei
conti Emilia Romagna, sentenza 01.08.2006, n. 895.
Corollario ed espressione di detto principio è anche il fatto che l’ente
pubblico non può assicurare la responsabilità amministrativa di
amministratori e dipendenti per condotte contraddistinte da dolo e colpa
grave, di cui gli stessi possono essere chiamati a rispondere dinanzi alla
Corte dei conti, ai sensi dell’art. 1, L. n. 20/1994 (cfr. Corte dei conti
Emilia Romagna n. 895/2006 cit., che richiama l’orientamento costante della
magistratura contabile nel senso dell’illegittimità dell’assicurazione per
la responsabilità amministrativa di amministratori e dipendenti per i danni
cagionati alle pubbliche finanze con dolo o colpa grave nell'esercizio delle
loro funzioni).
[6] Corte dei conti Emilia Romagna n. 895/2006 cit., chiamata ad esprimersi,
fra l’altro, sulla legittimità di alcune polizze infortuni in favore di
amministratori, personale dipendente e soggetti non dipendenti ma
collaboranti (06.05.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
APPALTI: La
nuova procedura aperta al mercato su MEPA.
Domanda
Sulla piattaforma Mepa di Consip nel caso di utilizzo della Richiesta di
Offerta “RDO” con invito rivolto a tutti gli operatori iscritti alla
categoria merceologica può ritenersi superato il principio di rotazione con
l’eventuale aggiudicazione del contraente uscente?
Risposta
Il d.lgs. 50/2016 all’art. 36, rubricato “Contratti sotto soglia”,
prevede che l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di
importo inferiore alle soglie di cui all’art. 35 avvengano, tra gli altri,
nel rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti.
Normativa che stante la difficile applicazione ha visto numerose e
contrastanti pronunce giurisprudenziale, nonché differenti posizioni
dottrinarie.
Personalmente ritengo di pregio la definizione del principio di rotazione
dei Giudici Siciliani del 2017 (sentenza n. 188), che osservano “come la
principale ragione invocata a sostegno delle declinazioni più morbide del
principio di rotazione è quella che riguarda proprio la tutela della
concorrenza. Si afferma infatti che far derivare dal criterio della
rotazione una regola di non candidabilità per il gestore uscente entrerebbe
in rotta di collisione con i principi del Trattato”.
L’ANAC poi, con le Linee guida n. 4, al paragrafo 3.6 precisa come la
rotazione non si applichi laddove il nuovo affidamento avvenga tramite
procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, nelle quali la stazione
appaltante, in virtù di regole prestabilite dal Codice dei contratti
pubblici ovvero dalla stessa in caso di indagini di mercato o consultazione
di elenchi, non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori
economici tra i quali effettuare la selezione.
Si tratta di capire quando la Richiesta di Offerta su Mepa possa
considerarsi aperta al mercato.
Sicuramente nel caso di RDO “Aperta”, ovvero quel tipo di procedura a
cui possono partecipare tutti i fornitori abilitati allo specifico bando
collegato alla categoria merceologica, nonché coloro che entro i termini di
scadenza previsti per la presentazione dell’offerta ne ottengono
l’abilitazione.
Ma anche la RDO c.d. ad invito, qualora la Stazione appaltante in sede di
costruzione della gara estenda l’invito a tutti gli operatori abilitati alla
categoria merceologica di riferimento. Almeno secondo una recente pronuncia
del Consiglio di Stato n. 875 del 04.02.2020 n. 875, che confermando la
posizione del TAR Lazio (sentenza n. 527/2019), ha ritenuto che l’estensione
dell’invito a tutte le ditte operanti nel settore (nel caso di specie invito
a tutti gli operatori iscritti sul Mepa nella specifica categoria),
determini l’inapplicabilità delle limitazioni previste dall’art. 36 in
ordine alla rotazione delle imprese aggiudicatarie (il principio di
rotazione non trova applicazione laddove il nuovo affidamento avvenga
tramite procedure nelle quali la stazione appaltante non operi alcuna
limitazione in ordine al numero di operatori economici tra i quali
effettuare la selezione. Il principio è stato di recente confermato da
questo Consiglio (sez. V, 05.11.2019 n. 7539) sul rilievo che anche “alla
stregua delle Linee guida n. 4 A.N.A.C., nella versione adottata con
delibera 01.03.2018 n. 206 (v. in part. il punto 3.6), deve ritenersi che il
principio di rotazione sia inapplicabile nel caso in cui la stazione
appaltante decida di selezionare l’operatore economico mediante una
procedura aperta, che non preveda una preventiva limitazione dei
partecipanti attraverso inviti").
Può inoltre considerarsi procedura aperta al mercato su Mepa, la RDO ad
invito preceduta dalla pubblicazione di un avviso di indagine di mercato
senza limitazione del numero degli operatori da invitare.
Ovviamente in un’ottica di semplificazione lo strumento da preferire è
quello definito dal sistema Mepa “RDO Aperta” (06.05.2020 -
link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sospensione
dei termini in materia di accesso.
Domanda
L’amministrazione deve ancora dare riscontro ad una richiesta di accesso
civico generalizzato, pervenuta in data 12.02.2020.
È possibile applicare l’articolo 103, del decreto Cura Italia o esiste una
diversa disposizione in merito ai termini del procedimento per l’accesso?
Quale è precisamente il termine entro cui deve rispondere l’amministrazione?
Risposta
Il comma 1, dell’articolo 103, del decreto- legge 18/2020, detta una
disposizione di carattere generale, che si applica a tutti i procedimenti
amministrativi, sia ad istanza di parte che d’ufficio, pendenti alla data
del 23.02.2020 o iniziati successivamente a tale data, in relazione ai quali
dispone che, ai fini del computo dei termini, non si tiene conto del periodo
compreso tra tale data e il 15.04.2020. L’art. 37, comma 1, del decreto
legge 08.04.2020, n. 23, ha prorogato tale termine al 15.05.2020.
Le uniche eccezioni all’applicazione della sospensione dei termini sono
quelle previste dai commi 3 e 4, del medesimo articolo 103, del d.l. 18/2020
[1].
Considerato che il comma 3, esclude l’applicazione di tale disposizione nel
caso di termini stabiliti da specifiche disposizioni dello stesso
decreto-legge, occorre verificare che non vi sia una norma speciale
concernente i termini del procedimento di accesso generalizzato.
Con una interpretazione evidentemente bizzarra, qualche commentatore ha
ritenuto che il comma 3, dell’articolo 67, potesse consentire una
sospensione fino al 31.05.2020.
Tale norma prevede che “Sono, altresì, sospese, dall’8 marzo al
31.05.2020 … le risposte alle istanze formulate ai sensi dell’articolo 22
della legge 07.08.1990, n. 241, e dell’articolo 5 del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33”, ma si inserisce nella disciplina speciale
concernente la “sospensione dei termini relativi all’attività degli
uffici degli enti impositori”. Essa, dunque, si applica soltanto ai
procedimenti di accesso del settore dell’amministrazione fiscale, come
precisato dal Dipartimento della Funzione Pubblica, in apposito
Comunicato del 3 aprile.
Si richiamano anche i due Comunicati del 3 aprile e del 9 aprile pubblicati
sul sito del Centro nazionale di competenza FOIA (istituito presso il
Dipartimento della Funzione Pubblica). È certo, pertanto, che “La
sospensione dei termini, data la sua portata generale, interessa anche i
procedimenti in materia di accesso, incluso l’accesso civico generalizzato.
Pertanto, ove nel periodo compreso tra il 23 febbraio e il 15.05.2020 siano
pendenti richieste di accesso civico generalizzato (o di altro tipo), le
amministrazioni possono avvalersi della sospensione del termine di
conclusione dei relativi procedimenti per il periodo indicato (23
febbraio-15.05.2020)”.
Ad una lettura attenta, anche il Comunicato del 9 aprile dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione (ANAC) concernente “Indicazioni in merito
all’attuazione delle misure di trasparenza di cui alla legge 06.11.2012, n.
190, e al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella fase dell’emergenza
epidemiologica da Covid-19 e all’attività di vigilanza e consultiva dell’ANAC”,
nel menzionare i diversi termini di sospensione del comma 3, dell’art. 67,
ricorda che essi valgono per i soli enti impositori.
In merito al computo del nuovo termine a disposizione dell’amministrazione,
trattandosi di sospensione e non di interruzione, occorre tener conto
soltanto del tempo residuo, da aggiungere al termine della sospensione (15
maggio).
Rispondendo nello specifico al quesito, considerato che la richiesta di
accesso è pervenuta il 12 febbraio –e dunque, al momento della sospensione
(23 febbraio) erano decorsi 10 giorni,– restano da aggiungere 20 giorni,
pertanto il nuovo termine scadrà il 04.06.2020.
È auspicabile, tuttavia, che l’amministrazione, in applicazione dei principi
di buona amministrazione, proceda il più celermente possibile a dare
riscontro all’istanza. L’art. 103, opportunamente precisa che “Le
pubbliche amministrazioni adottano ogni misura organizzativa idonea ad
assicurare comunque la ragionevole durata e la celere conclusione dei
procedimenti, con priorità per quelli da considerare urgenti, anche sulla
base di motivate istanze degli interessati.”.
---------------
[1] 3. Le disposizioni di cui ai commi precedenti non si applicano ai
termini stabiliti da specifiche disposizioni del presente decreto e dei
decreti-legge 23.02.2020, n. 6, 02.03.2020, n. 9 e 08.03.2020, n. 11, nonché
dei relativi decreti di attuazione.
4. Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai pagamenti di
stipendi, pensioni, retribuzioni per lavoro autonomo, emolumenti per
prestazioni di lavoro o di opere, servizi e forniture a qualsiasi titolo,
indennità di disoccupazione e altre indennità da ammortizzatori sociali o da
prestazioni assistenziali o sociali, comunque denominate nonché di
contributi, sovvenzioni e agevolazioni alle imprese comunque denominati
(05.05.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI SERVIZI:
Rinegoziazione contratti a seguito della stipula di nuovo CCNL.
Secondo il consolidato orientamento del Consiglio di
Stato, ai fini della quantificazione della somma dovuta dalla pubblica
amministrazione a titolo di revisione prezzi deve essere applicato l’indice
ISTAT dei prezzi al consumo di famiglie di operai e impiegati (FOI).
L’utilizzo del predetto parametro non esonera la stazione appaltante
dall’obbligo di istruire il procedimento, tenendo conto di tutte le
circostanze del caso concreto, ma segna il limite massimo oltre il quale
l’amministrazione non può spingersi nella determinazione del compenso
revisionale, «salvo circostanze eccezionali, che devono essere provate
dall’impresa».
Pertanto, qualora l’appaltatore dimostri l’esistenza di circostanze
eccezionali, quali eventi straordinari e imprevedibili, che esulano dalla
normale dinamica di un rapporto contrattuale di durata, la quantificazione
del compenso revisionale potrà essere effettuata ricorrendo a differenti
parametri statistici.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto che tra tali circostanze eccezionali non
rientri l’aumento del costo del lavoro né, in particolare, la stipulazione
di un nuovo CCNL.
Il Comune riferisce di avere in essere alcuni contratti con cooperative
sociali, i quali prevedono la revisione dei prezzi ai sensi dell’art. 106
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, tenendo conto delle variazioni
rilevate dall’ISTAT.
Poiché le cooperative sociali richiedono altresì l’aggiornamento del prezzo
in base alle variazioni intervenute sul costo del lavoro, a seguito di
stipula del nuovo CCNL di categoria, il Comune chiede di conoscere se –anche
alla luce del parere legale allegato– tale ulteriore richiesta debba essere
accolta e, in caso affermativo, come debbano essere considerati gli
adeguamenti già applicati in base ai parametri stabiliti dalla legge di
gara.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza della Direzione centrale
patrimonio, demanio, servizi generali e sistemi informativi, si formulano le
seguenti considerazioni.
Occorre, anzitutto, rilevare che, qualora i contratti ai quali il Comune fa
riferimento attengano a servizi socio-sanitari ed educativi, viene
senz’altro in rilievo l’aspetto dell’elevata incidenza del costo del lavoro,
trattandosi di attività ad alta intensità di manodopera.
In un siffatto contesto, quindi, la stipulazione di un nuovo CCNL
costituisce evento che si ripercuote inevitabilmente sul margine di utile
spettante all’appaltatore.
Tuttavia, pur se nel merito parrebbe auspicabile rinvenire uno strumento
giuridico capace di ristabilire il sinallagma contrattuale, si deve indagare
sulla fattibilità di una tale operazione in termini di legittimità.
A differenza della previgente disciplina (recata dall’art. 115, comma 1
[1], del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163), che imponeva alle stazioni appaltanti di
prevedere una clausola di revisione periodica del prezzo in tutti i
contratti di servizi o forniture ad esecuzione periodica o continuativa,
dalla formulazione dell’attuale art. 106, comma 1, lett. a), del D.Lgs.
50/2016 si evince che una tale previsione è meramente facoltativa.
La norma predetta stabilisce, infatti, che «Le modifiche, nonché le
varianti, dei contratti di appalto in corso di validità devono essere
autorizzate dal RUP con le modalità previste dall’ordinamento della stazione
appaltante cui il RUP dipende. I contratti di appalto nei settori ordinari e
nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di
affidamento nei casi seguenti:
a) se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono
state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e
inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi.
Tali clausole fissano la portata e la natura di eventuali modifiche nonché
le condizioni alle quali esse possono essere impiegate, facendo riferimento
alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti. […]».
Pertanto, nell’odierno assetto normativo, la revisione dei prezzi
contrattuali è ammessa esclusivamente se è stata prevista dalla lex
specialis di gara e disciplinata con clausole chiare, precise e
inequivocabili (“in maniera tale da essere conoscibili da parte di tutti
i concorrenti nel rispetto dei princìpi di trasparenza e parità di
trattamento” [2]),
che individuino la portata, la natura e le condizioni per la loro
applicazione, considerando le fluttuazioni dei prezzi e dei costi standard.
Definendo i poteri spettanti all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC),
l’art. 213 del D.Lgs. 50/2016 stabilisce che essa, «al fine di favorire
l’economicità dei contratti pubblici e la trasparenza delle condizioni di
acquisto, provvede con apposite linee guida, fatte salve le normative di
settore, all’elaborazione dei costi standard dei lavori e dei prezzi di
riferimento di beni e servizi, avvalendosi a tal fine, sulla base di
apposite convenzioni, del supporto dell’ISTAT e degli altri enti del Sistema
statistico nazionale, alle condizioni di maggiore efficienza, tra quelli di
maggiore impatto in termini di costo a carico della pubblica
amministrazione, avvalendosi eventualmente anche delle informazioni
contenute nelle banche dati esistenti presso altre Amministrazioni pubbliche
e altri soggetti operanti nel settore dei contratti pubblici.»
[3].
Poiché i suddetti prezzi di riferimento di beni e servizi non sono mai stati
definiti [4], il
Consiglio di Stato, con orientamento costante e consolidato, afferma che ai
fini della quantificazione della somma dovuta dalla pubblica amministrazione
a titolo di revisione prezzi deve essere applicato, in via suppletiva,
l’indice ISTAT dei prezzi al consumo di famiglie di operai e impiegati
(FOI) [5],
affinché le operazioni siano conformi a criteri oggettivi anche quanto alla
soglia massima, onde scongiurare squilibri finanziari nel bilancio, alla
stregua della riconosciuta ratio dell’istituto volta a tutelare la
prosecuzione e la qualità della prestazione ma, prima ancora, l’esigenza
della pubblica amministrazione di non sconvolgere il proprio quadro
finanziario
[6].
Il Giudice amministrativo sostiene, infatti, che l’istituto della revisione
è preordinato alla tutela dell’esigenza, propria della P.A., di evitare che
il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati, nel
corso del tempo, tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è
avvenuta la stipulazione del contratto, mentre solo in via mediata esso
tutela l’interesse dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio
contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante
l’arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione
degli standards qualitativi delle prestazioni.
Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, l’utilizzo del predetto parametro
non esonera la stazione appaltante dall’obbligo di istruire il procedimento,
tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, al fine di
esprimere la propria determinazione discrezionale [7],
ma segna il limite massimo oltre il quale l’amministrazione non può
spingersi nella determinazione del compenso revisionale, «salvo
circostanze eccezionali, che devono essere provate dall’impresa».
Pertanto, qualora l’appaltatore dimostri, durante l’istruttoria, l’esistenza
di circostanze eccezionali, che giustifichino la deroga all’indice FOI, la
quantificazione del compenso revisionale potrà essere effettuata ricorrendo
a differenti parametri statistici [8].
Il Consiglio di Stato afferma, inoltre, che la periodicità della revisione «non
implica affatto che si debba azzerare o neutralizzare l’alea sottesa a tutti
i contratti di durata», rilevando che «risulterebbe ben singolare una
interpretazione che esentasse del tutto, in via eccezionale, l’appaltatore
dall’alea contrattuale, sottomettendo in via automatica ad ogni variazione
di prezzo solo le stazioni appaltanti pubbliche, pur destinate a far fronte
ai propri impegni contrattuali con le risorse finanziarie provenienti dalla
collettività» [9].
Effettuata questa necessaria premessa in termini generali, occorre ora
soffermarsi sulla specifica questione posta, ossia se risulti plausibile
ritenere che, pur essendosi visto riconoscere la revisione generale dei
prezzi in base al parametro stabilito in sede di indizione della procedura
di affidamento (indice FOI), l’appaltatore possa aspirare ad un diverso (ma
in ogni caso non ulteriore [10])
aggiornamento, corrispondente all’incremento del costo del lavoro, a seguito
dell’avvenuta stipulazione del nuovo CCNL di categoria.
Occorre, anzitutto, ribadire che, su richiesta dell’appaltatore, spetta alla
stazione appaltante effettuare, caso per caso, l’istruttoria preordinata a
verificare, alla luce delle clausole previste dalla lex specialis e
della specifica situazione di fatto, la sussistenza dei presupposti
necessari per il riconoscimento del compenso revisionale.
Ciò posto si segnala che il Consiglio di Stato, trattando della
dimostrazione, da parte di un’impresa, dell’esistenza di circostanze
eccezionali che giustificherebbero la deroga all’indice FOI
[11], afferma che non
basta richiamare l’aumento del costo dei mezzi o del costo del lavoro, nello
specifico settore, per sostenere che dovrebbe applicarsi un indice diverso,
in grado di “riequilibrare” il sinallagma funzionale del contratto, «poiché
il compenso revisionale può essere riconosciuto, in misura superiore a
quello del FOI, solo in presenza di circostanze eccezionali, quali eventi
straordinari e imprevedibili, che esulano dalla normale dinamica di un
rapporto contrattuale di durata» [12].
Infatti –precisa il Collegio– l’aumento del costo dei mezzi e del costo del
lavoro «sono eventi ordinari e ordinariamente prevedibili da un’impresa
qualificata del settore specifico […] e certo non può supplire agli effetti
economici sfavorevoli all’appaltatore, cagionati dalla loro sopravvenienza
in corso di rapporto, l’istituto della revisione che, come detto, risponde a
ben altra e principale e, comunque, precipua finalità, dovendo altrimenti
ammettersi che ogni aumento dei costi di una certa rilevanza imponga
all’Amministrazione ipso facto la revisione del compenso»
[13].
Con una più recente pronuncia, il Consiglio di Stato affronta proprio la
tematica della richiesta di riconoscimento della revisione prezzi relativa
al costo del lavoro in misura superiore all’indice ISTAT, applicato dalla
stazione appaltante, motivata dal maggior onere scaturente dall’intervenuta
stipulazione del nuovo CCNL cooperative sociali [14].
Il Giudice respinge il ricorso dell’appaltatore, avuto riguardo tanto al
pacifico orientamento circa la necessaria applicazione dell’indice ISTAT,
quanto in base alla considerazione che «il nuovo CCNL non costituisce una
circostanza eccezionale ed inoltre tale contratto collettivo è stato
stipulato nel 2008 [15],
quindi era conoscibile al momento della stipula del contratto di appalto
[16] e, come tale,
costituiva una circostanza prevedibile, essendo quindi inidoneo al fine di
giustificare una deroga dal limite dell’indice ISTAT»
[17].
Occorre, poi, segnalare al Comune che il riconoscimento della revisione
prezzi sulla base di un parametro diverso da quello originariamente
previsto, sempre che non ricorrano le “circostanze eccezionali e
specifiche” che lo consentano, oltre a confliggere con i princìpi di
trasparenza e di par condicio, configurerebbe una modifica sostanziale del
contratto, in aperta violazione delle disposizioni recate dall’art. 106,
comma 1, lett. e) [18]
e comma 4 [19],
del D.Lgs. 50/2016.
Per quanto sin qui rilevato non appare condivisibile la diversa tesi
prospettata nel parere legale trasmesso dall’Ente, posto che i richiami
normativi, giurisprudenziali [20]
ed interpretativi ivi contenuti non sembrano pertinenti.
Va, anzitutto, ribadito che la norma di riferimento in materia di revisione
dei prezzi è contenuta nel comma 1, lett. a) [21]
e non già nel comma 2 [22]
dell’art. 106 del D.Lgs. 50/2016.
Infatti, poiché il comma 2 esordisce disponendo che «I contratti possono
parimenti essere modificati, oltre a quanto previsto al comma 1, […]»
deve ritenersi che si tratti di evenienze diverse da quelle disciplinate in
precedenza.
D’altronde non appare verosimile che il legislatore, dopo aver espressamente
menzionato la revisione dei prezzi nell’ambito delle ipotesi regolamentate
al comma 1, appronti, al comma 2, una disciplina generale che possa
risultare applicabile [23]
al medesimo istituto.
La conferma del differente ambito oggettivo che i commi in argomento sono
destinati a disciplinare si rinviene nell’atto di segnalazione n. 4 del
13.02.2019 [24],
con il quale l’ANAC, dopo aver analizzato il comma 1 del predetto art. 106,
afferma che il successivo comma 2 «contempla una ulteriore modifica del
contratto».
Ciò posto si rileva che gli ulteriori richiami e le considerazioni contenuti
nel parere legale di cui trattasi riguardano la fase della scelta del
contraente, che va tenuta distinta dalla fase relativa alla conclusione ed
esecuzione del contratto, nell’ambito della quale si colloca l’istituto
della revisione dei prezzi.
Le disposizioni legislative ivi citate stabiliscono, infatti, parametri e
limiti da considerare ai fini della corretta individuazione dell’importo da
porre a base di gara (cosicché sarebbe precluso all’Ente tener conto di
futuri incrementi di costo, peraltro non quantificabili a priori) e della
valutazione di anomalia dell’offerta, la quale rileva, evidentemente, ai
soli fini dell’aggiudicazione della gara.
Ci si può dolere del fatto che il legislatore abbia approntato una serie di
tutele relative al costo del lavoro nell’ambito della fase di scelta del
contraente [25],
ma non anche in quella di esecuzione del contratto; ciò non consente,
tuttavia, all’interprete di porvi alcun rimedio.
Occorre, poi, considerare –qualora si dovesse invocare un intervento
normativo sul tema in discussione– che la disciplina di entrambe le fasi
risulta riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato,
rientrando la prima nella materia trasversale “tutela della concorrenza”
[26] e la seconda nella
materia “ordinamento civile” [27].
Quanto all’affermazione del legale secondo la quale “La stessa sentenza
del Consiglio di Stato, Sezione III, 05.11.2018, n. 6237, non pare vietare
una revisione prezzi fondata sulla modifica del contratto collettivo.”
si ritiene di dover dissentire, considerato che il Giudice sancisce che «il
nuovo CCNL non costituisce una circostanza eccezionale ed inoltre
[28] tale
contratto collettivo è stato stipulato […]». Appare, perciò, che il
Collegio abbia voluto statuire in via generale che l’approvazione di un
nuovo CCNL non rappresenta una circostanza eccezionale.
Non si ritiene condivisibile nemmeno l’opinione del legale in base alla
quale “un rinnovo contrattuale che interviene a distanza di molti anni da
quello precedente assume una certa connotazione di straordinarietà e
imprevedibilità” ritenendosi, al contrario, che il decorso del tempo,
rispetto ad un evento obbligatorio e necessario, renda sempre più probabile
il suo verificarsi a breve termine.
In conclusione, come già segnalato, spetterà comunque al Comune valutare di
volta in volta, mediante apposito procedimento, tutte le circostanze del
caso concreto, al fine di stabilire l’eventuale ricorrenza di evenienze
eccezionali (ossia impreviste ed imprevedibili), che possano essere ritenute
idonee a consentire il riconoscimento della revisione dei prezzi in misura
superiore all’indice FOI.
La presente nota viene trasmessa, per conoscenza, al Servizio politiche per
il terzo settore della Direzione centrale salute, politiche sociali e
disabilità, affinché esso possa esprimere eventuali ulteriori considerazioni
in ordine alla tematica trattata.
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[1] Il quale stabiliva che «Tutti i contratti ad esecuzione periodica o
continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di
revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una
istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e
servizi sulla base dei dati di cui all’articolo 7, comma 4, lettera c) e
comma 5.».
I dati ai quali faceva riferimento la disposizione erano costituiti dai
“costi standardizzati per tipo di servizio e fornitura in relazione a
specifiche aree territoriali”, che avrebbero dovuto essere determinati
annualmente dall’Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture, avvalendosi dei dati forniti dall’ISTAT e tenendo conto
dei parametri qualità-prezzo di cui alle convenzioni stipulate dalla CONSIP,
ai sensi dell’art. 26 della legge 23.12.1999, n. 488. A tal fine l’ISTAT
avrebbe dovuto curare la rilevazione e l’elaborazione dei prezzi di mercato
dei principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni aggiudicatrici,
provvedendo alla comparazione, su base statistica, tra questi ultimi e i
prezzi di mercato.
[2] Così P. Cartolano, Ius variandi nel d.lgs. n. 50/2016, reperibile in
www.mediappalti.it.
[3] Così il comma 3, lett. h-bis).
[4] Nemmeno nella vigenza delle precedenti disposizioni.
[5] Cfr., più recentemente, Consiglio di Stato, Sez. III, 09.01.2017, n. 25
e 25.03.2019, n. 1980.
[6] Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III n. 25/2017, cit. e
05.11.2018, n. 6237.
[7] Il Consiglio di Stato precisa che la determinazione della revisione
prezzi viene effettuata, dalla stazione appaltante, all’esito di
un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni
e servizi secondo un modello procedimentale volto al compimento di
un’attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il
riconoscimento del compenso revisionale, che sottende l’esercizio di un
potere autoritativo tecnico-discrezionale dell’amministrazione nei confronti
del privato contraente (cfr. Sez. III, 02.05.2019, n. 2841).
[8] Cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. III, 01.04.2016, n. 1309, n.
25/2017, cit., n. 1980/2019, cit.
[9] Così Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1980/2019, cit. e n. 2841/2019,
cit.
[10] Si ritiene, infatti, condivisibile la posizione dell’Ente (desumibile
dal testo del quesito posto) circa l’inammissibilità di accogliere
integralmente la richiesta avanzata dalle cooperative sociali, stante la
parziale duplicazione di beneficio che essa comporterebbe.
[11] Nella fattispecie, l’aggiudicataria di un servizio di elisoccorso, a
conclusione del procedimento revisionale avviato ai sensi dell’art. 115 del
D.Lgs. 163/2006, si vedeva applicato l’indice FOI, altro e diverso parametro
statistico rispetto all’indice NIC – Trasporto Aereo Passeggeri (sottovoce
0733), inizialmente previsto per l’adeguamento dei prezzi.
La stazione appaltante, che aveva già accordato, per alcune annualità, il
compenso revisionale in base al predetto indice NIC, aveva poi provveduto a
riformare, in autotutela, le relative deliberazioni, rideterminando il
quantum della revisione in base all’indice FOI, in considerazione del
consolidato orientamento giurisprudenziale di cui si è dato conto. Il
Consiglio di Stato, richiamando la ratio dell’istituto e il predetto
orientamento, ha ritenuto legittimo l’operato dell’amministrazione.
[12] Così Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1309/2016, cit.
[13] Così Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1309/2016, cit.
[14] Consiglio di Stato, Sez. III, n. 6237/2018, cit.
[15] Precisamente il 30.07.2008.
[16] Avvenuta il 10.03.2008.
[17] Così Consiglio di Stato, Sez. III, n. 6237/2018, cit.
[18] «Le modifiche, nonché le varianti, dei contratti di appalto in corso di
validità devono essere autorizzate dal RUP con le modalità previste
dall’ordinamento della stazione appaltante cui il RUP dipende. I contratti
di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere
modificati senza una nuova procedura di affidamento nei casi seguenti:
[…]
e) se le modifiche non sono sostanziali ai sensi del comma 4. […]».
[19] «Una modifica di un contratto o di un accordo quadro durante il periodo
della sua efficacia è considerata sostanziale ai sensi del comma 1, lettera
e), quando altera considerevolmente gli elementi essenziali del contratto
originariamente pattuiti. In ogni caso, fatti salvi i commi 1 e 2, una
modifica è considerata sostanziale se una o più delle seguenti condizioni
sono soddisfatte:
a) la modifica introduce condizioni che, se fossero state contenute
nella procedura d’appalto iniziale, avrebbero consentito l’ammissione di
candidati diversi da quelli inizialmente selezionati o l’accettazione di
un’offerta diversa da quella inizialmente accettata, oppure avrebbero
attirato ulteriori partecipanti alla procedura di aggiudicazione;
b) la modifica cambia l’equilibrio economico del contratto o
dell’accordo quadro a favore dell’aggiudicatario in modo non previsto nel
contratto iniziale;
[…]».
[20] Fatta eccezione per la pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. III, n.
6237/2018, da ultimo esaminata.
[21] In base alla quale è consentito modificare i contratti d’appalto
durante il periodo di efficacia se, a prescindere dal loro valore, le
modifiche sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole
chiare, precise e inequivocabili, «che possono comprendere clausole di
revisione dei prezzi».
[22] «I contratti possono parimenti essere modificati, oltre a quanto
previsto al comma 1, senza necessità di una nuova procedura a norma del
presente codice, se il valore della modifica è al di sotto di entrambi i
seguenti valori:
a) le soglie fissate all’articolo 35;
b) il 10 per cento del valore iniziale del contratto per i
contratti di servizi e forniture sia nei settori ordinari che speciali
ovvero il 15 per cento del valore iniziale del contratto per i contratti di
lavori sia nei settori ordinari che speciali. Tuttavia la modifica non può
alterare la natura complessiva del contratto o dell’accordo quadro. In caso
di più modifiche successive, il valore è accertato sulla base del valore
complessivo netto delle successive modifiche. Qualora la necessità di
modificare il contratto derivi da errori o da omissioni nel progetto
esecutivo, che pregiudicano in tutto o in parte la realizzazione dell’opera
o la sua utilizzazione, essa è consentita solo nei limiti quantitativi di
cui al presente comma, ferma restando la responsabilità dei progettisti
esterni.».
[23] Sempre che non venga alterata la natura complessiva del contratto.
[24] Concernente gli obblighi di comunicazione, pubblicità e controllo delle
modificazioni del contratto ai sensi dell’art. 106 del D.Lgs. 50/2016 e
approvato con delibera n. 112 del 13.02.2019.
[25] Non senza rilevare, peraltro, che l’art. 97, commi 5 e 6, del D.Lgs.
50/2016, disciplinando l’anomalia dell’offerta, stabilisce l’inderogabilità
unicamente dei “minimi salariali retributivi” o dei “trattamenti salariali
minimi”.
[26] V. l’art. 117, comma 2, lett. e), della Costituzione.
[27] V. l’art. 117, comma 2, lett. l), della Costituzione.
[28] Avverbio corrispondente a locuzioni quali: “per di più”, “oltre a ciò”,
“ulteriormente”, “come se non bastasse”, “in aggiunta” (30.04.2020
- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Qualificazione di intervento di demolizione e ricostruzione, con
mantenimento della stessa volumetria fuori terra, e contestuale costruzione
di un piano interrato adibito a superficie accessoria
(Regione Emilia Romagna,
nota 29.04.2020 n. 327081 di
prot.).
---------------
1. Si chiede come debba essere considerato un intervento di demolizione e
ricostruzione di un edificio, con mantenimento della stessa volumetria fuori
terra, e contestuale costruzione in ampliamento di un piano interrato
adibito a Superficie accessoria. In particolare, si chiede se tale
intervento complessivo e contestuale si debba configurare una nuova
costruzione (NC) oppure se è possibile considerare RE l’intervento fuori
terra e NC la costruzione del volume interrato.
Si chiede di specificare inoltre come considerare l’intervento anche se i
due volumi (quello fuori terra e quello interrato) non fossero collegati tra
loro. (...continua). |
aggiornamento al
30.04.2020 |
|
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Compenso
vice-segretario.
Domanda
Nel caso in cui un titolare di posizione organizzativa venisse nominato vice
segretario, quali sono le possibilità di remunerazione di tale funzione ed i
limiti ai quali la stessa retribuzione è sottoposta?
Risposta
Si rileva preliminarmente che l’art. 97 del d.lgs. 267/2000, al comma 5,
stabilisce che il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi
può prevedere un vice segretario per coadiuvare il segretario o sostituirlo
nei casi di vacanza, assenza o impedimento.
L’ente, quindi, nell’ambito delle proprie scelte regolamentari, mediante le
quali esercita la propria potestà auto organizzatoria individua, qualora
voglia esercitare la facoltà di prevedere la figura del vice segretario, il
posto, i requisiti e le relative funzioni.
L’art. 45 del d.lgs. 165/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego), come
modificato dal d.lgs. 150/2009 stabilisce l’importante principio che Il
trattamento economico fondamentale ed accessorio del personale del pubblico
impiego è definito dai contratti collettivi.
Tale principio è stato richiamato dall’ARAN in un parere fornito ad un ente
(SEG_047), riferito alla possibilità di estendere la maggiorazione relativa
alla segreteria convenzionata, di cui all’art. 45 del CCNL segretari
comunali e provinciali del 16/05/2001, anche al vice segretario.
L’Agenzia ha chiarito che al vice segretario, non essendo lo stesso
dirigente, non si può estendere, per analogia, la disciplina applicabile al
personale dirigenziale.
I contratti collettivi vigenti non prevedono compensi aggiuntivi per il
dipendente nominato vice segretario al di fuori delle previsioni contenute
nell’art. 11 del CCNL 09/05/2006.
Se lo stesso dipendente è titolare di posizione organizzativa allo stesso
sarà corrisposta la retribuzione di posizione e risultato con le modalità ed
i limiti di cui all’art. 15 del CCNL 21/05/2018 (30.04.2020
- link a www.publika.it). |
VARI:
All’ufficio SUAP di questo Comune giungono richieste in
merito alla riapertura di attività, dal 4 maggio, da parte di imprese che
vorrebbero prepararsi con ordini, pulizia e sanificazione dei locali.
E’ possibile autorizzare l’accesso ai locali aziendali?
Il D.P.C.M. 26.04.2020 contenente "Ulteriori disposizioni attuative del
decreto-legge 23.02.2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di
contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19,
applicabili sull'intero territorio nazionale" prevede all’art. 2 una
specifica disciplina transitoria per le attività sospese che riprenderanno
l’attività dal 4 maggio disponendo che queste possono svolgere tutte le
attività propedeutiche alla riapertura a partire dalla data del 27.04.2020.
Il comma 8 dispone inoltre che "per le attività produttive sospese è
ammesso, previa comunicazione al Prefetto, l'accesso ai locali aziendali di
personale dipendente o terzi delegati per lo svolgimento di attività di
vigilanza, attività conservative e di manutenzione, gestione dei pagamenti
nonché attività di pulizia e sanificazione. È consentita, previa
comunicazione al Prefetto, la spedizione verso terzi di merci giacenti in
magazzino nonché la ricezione in magazzino di beni e forniture".
Quindi la normativa consente, già dal 27 aprile di riavviare le operazioni
commerciali ed anche logistiche, con accesso ai locali aziendali per le
attività di pulizia, sanificazione ed ogni altra attività "propedeutica"
alla riapertura, così da poter, il 4 maggio, avviare operativamente e
concretamente l’attività senza ulteriori attese.
Non spetta all’Amministrazione comunale né al SUAP autorizzare tale attività
che potrà essere svolte sulla base delle disposizioni del DPCM e se del caso
previa comunicazione al Prefetto.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.C.M. 26.04.2020, art. 2 (29.04.2020 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).
|
APPALTI: Il
CIG e la proroga tecnica.
Domanda
In sede di richiesta del CIG, ai fini del valore dell’appalto, è necessario
considerare la proroga tecnica di cui all’art. 106, co. 11, del codice,
oppure, data l’eccezionalità della fattispecie e la difficoltà nel
determinare il valore, può prescindersi dal computo?
Risposta
Secondo l’art. 106, co. 11, del d.lgs. 50/2016, “La durata del contratto
può essere modificata esclusivamente per i contratti in corso di esecuzione
se è prevista nel bando e nei documenti di gara una opzione di proroga. La
proroga è limitata al tempo strettamente necessario alla conclusione delle
procedure necessarie per l’individuazione di un nuovo contraente. In tal
caso il contraente è tenuto all’esecuzione delle prestazioni previste nel
contratto agli stessi prezzi, patti e condizioni o più favorevoli per la
stazione appaltante”.
L’articolo disciplina la cd. proroga tecnica, ovvero uno spostamento in
avanti della scadenza contrattuale, esercitabile qualora prevista nei
documenti di gara al solo fine di garantire la continuità della prestazione
nelle more della selezione di un nuovo contraente. Dal che discende che
l’adozione della determinazione di proroga, da adottarsi prima della
scadenza del termine contrattuale, presupponga l’avvio di una procedura di
gara per la scelta di un nuovo aggiudicatario.
Con riferimento all’obbligatorietà di considerare l’importo della proroga
tecnica nel valore dell’appalto, occorre rifarsi alla posizione espressa da
ANAC.
In particolare nella Relazione AIR al bando tipo n. 1, alla proposta di
inserire il valore della proroga tecnica nella quantificazione dell’appalto,
è seguita una riposta negativa, motivata dalla circostanza che in base al
dato normativo la durata e l’importo, non sono né prevedibili, né
quantificabili alla data di pubblicazione del bando. Lasciando comunque la
possibilità alle stazioni appaltanti, ove lo ritengano possibile, di
procedere ad una stima di massima, che se determinata dovrà essere computata
ai fini delle soglie di cui all’art. 35 del codice.
Anche dalla lettura delle FAQ A46 e A31 di ANAC, sotto riportate, dove si
stabilisce di utilizzare lo stesso CIG per comunicare la parte maggiorata,
si ammette la possibilità di un aumento del valore contrattuale rispetto al
dato economico originariamente indicato in sede di acquisizione del CIG.
Ritornando al quesito si ritiene pertanto che non sia obbligatorio computare
la proroga tecnica ex art. 106, co. 11, del codice, quanto piuttosto una
scelta della stazione appaltante, qualora ritenga possibile (opportuno)
quantificare il valore della stessa (nella prassi di molte amministrazioni
stimato in un semestre).
---------------
FAQ ANAC A.46. Quali sono le corrette modalità di
adempimento degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari e
contributivi e informativi verso l’Autorità in caso di proroga c.d.
“tecnica”?
In caso di proroga c.d. “tecnica” del contratto, esercitabile nei
casi previsti dallo stesso (molto ristretti) la comunicazione dei dati deve
avvenire proseguendo con lo stesso CIG. Le schede così comunicate metteranno
in luce tramite il conto finale della scheda di “collaudo/regolare
esecuzione” la parte maggiorata rispetto all’importo di aggiudicazione.
Ai fini della tracciabilità, quindi, resta valido il CIG originario.
Proseguendo le comunicazioni con lo stesso CIG non scattano ulteriori oneri
contributivi rispetto a quelli già sostenuti in fase di bando e offerta.
FAQ ANAC A31. Nel caso di proroga (cosiddetta tecnica)
del contratto deve essere richiesto un nuovo codice CIG?
Non è prevista la richiesta di un nuovo codice CIG nei casi di proroga del
contratto ai sensi dell’art. 106, comma 11, del Codice dei contratti
pubblici, concessa per garantire la prosecuzione delle prestazioni nelle
more dell’espletamento delle procedure necessarie per l’individuazione di un
nuovo soggetto affidatario (29.04.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
I dubbi degli Enti sulla corretta applicazione delle
norme antipandemiche.
Ancora prosegue la sequenza di dubbi ed incertezze che attanagliano le
amministrazioni pubbliche dopo l’intervento dei numerosi provvedimenti di
normazione d’urgenza che il Governo ha adottato per arginare la diffusione
della pandemia da COVID-19.
I provvedimenti di normazione primaria e secondaria via via varati dal
Governo, infatti, hanno determinato una serie di prescrizioni che interessa
anche la disciplina del lavoro pubblico, finalizzata a regolare una fase,
che si auspica effettivamente transitoria, nella quale si devono conciliare
esigenze assai diversificate, che vanno dal normale funzionamento dei
servizi istituzionali ed indifferibili degli enti, all’ordinata tenuta degli
istituti correlati alla gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti del
settore pubblico, fino all’esigenza di contrastare e contenere, il più
possibile, il fenomeno diffusivo di questa pandemia.
In questo quadro di emergenza assoluta e generale le richieste di aiuto
delle amministrazioni non si placano, come dimostrano i quesiti che
continuano a pervenire. Di seguito alcuni esempi.
Egregi, vorrei sapere se, in questa fase di emergenza, è
possibile liquidare ulteriori buoni pasto (normalmente sono due a settimana)
alla polizia municipale ed anche al Comandante (Dirigente della P.L.).
Gli stessi ne hanno fatto già richiesta anche per i giorni in cui, oberati
dall'emergenza stanno svolgendo lavoro straordinario per sopperire agli
eventi eccezionali.
Con riferimento al quesito posto si ritiene ammissibile che
l’amministrazione riconosca buoni pasto agli addetti alla Polizia Municipale
impiegati nell’ambito delle attività derivanti dalle misure di contenimento
dell’estensione pandemica, ulteriori rispetto a quelli normalmente erogati.
Tale riconoscimento, tuttavia, potrà essere ammissibile esclusivamente
laddove sussistano tutte le condizioni prescritte dal vigente quadro
normativo, in particolare dall’art. 45, comma 2, del Ccnl 14.09.2000 del
comparto Regioni ed Enti Locali, il quale prescrive, in materia che “2.
Possono usufruire della mensa i dipendenti che prestino attività lavorativa
al mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane, con una pausa non
superiore a due ore e non inferiore a trenta minuti. La medesima disciplina
si applica anche nei casi di attività per prestazioni di lavoro
straordinario o per recupero. Il pasto va consumato al di fuori dell'orario
di servizio.”.
Si ricorda, altresì, per quanto attiene all’istituto in parola, la
statuizione dettata dall’art. 13 del successivo Ccnl 09.05.2006, a mente
della quale "1. Nell’ambito della complessiva disciplina degli artt. 45 e
46 del Ccnl del 14.09.2000, gli enti individuano, in sede di contrattazione
decentrata integrativa, quelle particolari e limitate figure professionali
che, in considerazione dell’esigenza di garantire il regolare svolgimento
delle attività e la continuità dell’erogazione dei servizi e anche
dell’impossibilità di introdurre modificazioni nell’organizzazione del
lavoro, con specifico riferimento a quelli connessi all’area della
protezione civile, all’area della vigilanza e all’area scolastica ed
educativa ed alla attività delle biblioteca, fermo restando l’attribuzione
del buono pasto, possono fruire di una pausa per la consumazione dei pasti
di durata determinata in sede di contrattazione decentrata integrativa, che
potrà essere collocata anche all’inizio o alla fine di ciascun turno di
lavoro.”.
Si ritiene, inoltre, che tali oneri sostenuti dalle amministrazioni
pubbliche -ferma restando, comunque, la sussistenza delle condizioni
erogative del buono-pasto- possano essere computati nell’ambito degli
appositi fondi stanziati dal Governo ai sensi dell’art. 115, commi 1 e 2, Dl
18/2020, il quale prevede che, per il corrente anno 2020, le risorse
destinate al finanziamento delle prestazioni di lavoro straordinario del
personale della polizia locale dei comuni, delle province e delle città
metropolitane direttamente impegnato per le esigenze conseguenti ai
provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico da COVID-19 e
limitatamente alla durata dell’efficacia delle relative disposizioni
attuative, siano finanziate attraverso un apposito fondo costituito presso
il Ministero dell’Interno e non siano soggette ai limiti del trattamento
accessorio previsti dall'articolo 23, comma 2, Dlgs 75/2017.
Si è dell’avviso, infatti, che, laddove l’erogazione del buono-pasto sia
strettamente collegata a prestazioni in orario straordinario rese dal
personale della polizia locale per fronteggiare le esigenze di contrasto
alla diffusione pandemica, l’onere conseguente a tale riconoscimento possa
pienamente rientrare nei previsti trasferimenti statali, trattandosi di
adempimento contrattuale strettamente strumentale all’effettuazione di
attività in orario straordinario.
Vi indico di seguito le domande che vorrei fare:
1) durante la prestazione dell'attività lavorativa in modalità
"Lavoro agile", le indennità collegate all'effettiva presenza in servizio di
cui all'art. 70-bis del Ccnl 21.05.2018 vanno riconosciute?
2) nel periodo di esenzione previsto dall'art. 87, Dl 17.03.2020 al
personale educatore dell'asilo nido comunale va riconosciuta l'indennità di
cui all'art 31 Ccnl 14.09.2000, e agli altri dipendenti vanno riconosciute
le indennità collegate all'effettiva presenza in servizio di cui all'art. 70-bis del Ccnl 21.05.2018?
3) con circolare n. 45 del 2020 Inps (messaggio n. 1516 del
07.04.2020) è stata prorogato al 13 aprile la possibilità di fruire del
congedo di cui all’articolo 23, Dl 18/2020 per la cura dei figli durante il
periodo di sospensione delle attività scolastiche Circolare 45/2020, in
favore dei lavoratori dipendenti del settore privato, dei lavoratori
iscritti alla Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge
08.08.1995, n. 335, e dei lavoratori autonomi. Detta proroga è valida anche
per i dipendenti pubblici?
In relazione ai diversi quesiti formulati si ritiene utile rappresentare
quanto segue. La prestazione lavorativa resa mediante la forma del lavoro
agile, di cui agli artt. 18-23, legge 81/2017, costituisce una specifica
modalità di assolvimento dell’obbligazione contrattuale, da parte del
lavoratore, che muta il contesto spaziale e temporale di erogazione
prestazionale, potendo incidere, altresì, in taluni casi, anche sui fattori
circostanziali di effettuazione della stessa.
Ciò sta a significare che gli emolumenti economici di natura indennitaria
riconosciuti, al lavoratore, nel contesto della normale produzione
dell’attività lavorativa potrebbero subire modificazioni a seguito della
diversa modalità di prestazione resa in lavoro agile. Si pensi, ad esempio,
per stare nell’ambito del sistema contrattuale del comparto Funzioni Locali,
all’indennità per le specifiche condizioni di lavoro disciplinata dall’art.
70-bis del Ccnl 21.05.2018, la quale, nella sua configurazione giuridica di
origine contrattuale, assorbe le “vecchie” indennità di rischio, di
disagio e di maneggio valori.
Laddove, infatti, tale emolumento venisse riconosciuto al dipendente in
ragione dell’esposizione dello stesso a particolari fattori di rischio e/o
di disagio nell’esplicazione della prestazione lavorativa a mezzo della
tradizionale forma di presenza sul posto di lavoro, potrebbe essere
plausibile, per contro, che tale esposizione, nella diversa formula di
esecuzione della stessa prestazione attraverso il lavoro agile, possa venir
meno a seguito della variata modalità di fornitura dell'attività lavorativa,
determinando, di conseguenza, la sopravvenuta elisione dei presupposti
giuridici e fattuali di riconoscimento di tale emolumento.
Per quanto attiene, poi, al periodo di eventuale esenzione dal lavoro di cui
all’art. 87, comma 3, Dl 18/2020, si è dell’avviso per il quale non possano
essere riconosciuti istituti economici di carattere effettivamente
indennitario, ovvero presupponenti l’effettiva prestazione di lavoro, in
ragione dell’assenza, nel caso di specie e per tali componenti economiche,
dei presupposti giuridici che legittimano detto riconoscimento retributivo.
I compensi che presentano concreta origine indennitaria, infatti, adducono,
quale presupposto indefettibile, la necessità della effettiva prestazione di
lavoro resa, dal dipendente interessato, in presenza fisica o in lavoro
agile, ove permangano i presupposti, in assenza della quale, a qualsiasi
motivo dovuta, come anche per l’esenzione dal servizio indicata nel quesito,
il regime indennitario non può giuridicamente funzionare per la finalità
tipica per la quale è stato normativamente congegnato, con conseguente
impossibilità riconoscitiva che, non di meno, in tal caso, solo una norma di
legge o contrattuale generale potrebbe espressamente consentire in deroga al
funzionamento ontologico di tale istituto.
Infine, per ciò che concerne l’impiego dello speciale congedo disciplinato
dall’art. 23 del richiamato Dl 18/2020, il successivo art. 25 del decreto
stesso, che ne estende l’applicazione anche ai lavoratori del settore
pubblico, prescrive espressamente che, a decorrere dal 5 marzo 2020, in
conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per
l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado,
di cui al Dpcm 04.03.2020, e per tutto il periodo della sospensione ivi
prevista, i genitori lavoratori dipendenti del settore pubblico hanno
diritto a fruire del predetto congedo e della relativa indennità.
Tale estensione legislativa è da intendersi, ad oggi, riferita alla
sospensione dei servizi educativi e scolastici di ogni ordine e grado
disposta dall’art. 1, comma 1, lett. k), del recente Dpcm 10.4.2020, con
effetti protratti sino al 3 maggio p.v., secondo le prescrizioni di vigenza
dettate dall’art. 8, comma 1, del Dpcm stesso, di talché la fruizione
dell’istituto in parola è da ritenersi operante sino a tale termine di
sospensione dei servizi in questione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
29.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Amministrazioni in difficoltà nella giungla delle
disposizioni emergenziali.
Non è ancora finita: continuano a giungere norme e disposizioni che, nel
tentativo di riordinare prescrizioni già in vigore o già superate per
disapplicazione o per spirare del termine di efficacia, aggiungono
statuizioni su statuizioni, progressivamente stratificando un insieme di
norme che, varate nel giro di pochi mesi, non ha un precedente in questo
Paese.
Questo la dice lunga sulla situazione di emergenza che stiamo vivendo, come
di emergenza oramai si parla per la ridda di previsioni normative, di legge
ed amministrative, che tutti gli operatori di sistema sono chiamati ad
applicare, non ultimi gli addetti ai servizi del Personale che, in prima
linea sull’attuazione delle previsioni legislative e delegificate che
regolano questo straordinario momento di lotta al virus COVID-19, si
dibattono tra disposizioni normative speciali ed istituti transitori di
nuovo conio in grado di mettere a dura prova competenze, preparazione,
organizzazione e pervicacia nel tenere la trincea di questa guerra senza
quartiere.
La prova di questa encomiabile tenacia e della particolare attenzione che
gli enti stanno ponendo nella pratica traduzione delle disposizioni
antipandemiche sta tutta nell’incessante flusso di questioni e di quesiti
che le amministrazioni pubbliche continuano a porre sul fronte attuativo
della normazione emergenziale, di cui offriamo, di seguito, alcuni
interessanti spunti.
Pongo un quesito (anzi due) in merito al congedo
straordinario di 15 giorni riconosciuto ai genitori dall’art. 25, comma 1,
Dl 18/2020.
Per la richiesta di tale congedo ho predisposto un modulo in cui il
dipendente dichiara anche tutte le altre condizioni rispetto al coniuge e
che non chiederà il voucher baby sitter.
In assenza di altre indicazioni, lo applicherei con le stesse modalità al
Dlgs 151/2001: se richiesto per un periodo continuativo, i 15 giorni
comprendono anche i giorni non lavorativi; se chiesti frazionatamente, si
contano i singoli giorni lavorativi, purché interrotti dalla ripresa (quindi
se chiedo il venerdì ed il lunedì, conto anche il sabato e la domenica).
Ora, una collega mi chiede il congedo dal 13 al 27 marzo, precisando però
che chiede 11 giorni: secondo me i giorni sono 15. Cosa ne pensate?
Inoltre ho un problema di questo tipo: una collega aveva chiesto congedo
parentale a ore per 4 mezze giornate, tra il 9 e il 16 marzo.
Ora l’art. 23, comma 2 del suddetto D.L. 18/2020 dice “Gli eventuali periodi
di congedo parentale di cui agli articoli 32 e 33 del citato decreto
legislativo 26.03.2001, n. 151, fruiti dai genitori durante il periodo di
sospensione di cui al presente articolo, sono convertiti nel congedo di cui
al comma 1 con diritto all’indennità e non computati né indennizzati a
titolo di congedo parentale”.
Credete che anche tali congedi ad ore siano convertibili? E ritenete quindi
possibile chiedere il congedo straordinario indennizzato al 50% ad ore?
In relazione ai quesiti posti, occorre preliminarmente delineare il quadro
normativo che regola le fattispecie.
In particolare, le disposizioni che qui interessano attengono all’art. 25,
comma 1, Dl 18 del 17.03.2020, il quale testualmente prescrive che "1. A
decorrere dal 05.03.2020, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione
dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle
scuole di ogni ordine e grado, di cui al Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 04.03.2020, e per tutto il periodo della sospensione
ivi prevista, i genitori lavoratori dipendenti del settore pubblico hanno
diritto a fruire dello specifico congedo e relativa indennità di cui
all’articolo 23, commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7. Il congedo e l’indennità di cui al
primo periodo non spetta in tutti i casi in cui uno o entrambi i lavoratori
stiano già fruendo di analoghi benefici.”, nonché, per quanto attiene al
secondo quesito posto, all’art. 23, comma 2, del ridetto Dl 18/2020, che
così statuisce: "2. Gli eventuali periodi di congedo parentale di cui
agli articoli 32 e 33 del citato Dlgs 151/2001, fruiti dai genitori durante
il periodo di sospensione di cui al presente articolo, sono convertiti nel
congedo di cui al comma 1 con diritto all’indennità e non computati né
indennizzati a titolo di congedo parentale.”.
Ciò evidenziato, pertanto, per quanto attiene alle modalità di calcolo
fruitivo del congedo straordinario e temporaneo di cui al citato art. 25,
comma 1, si ritiene che le stesse debbano essere conformi al normale sistema
di computo che, generalmente ed in assenza di specifiche disposizioni di
segno opposto, presiede tale tipologia di istituto, a differenza del metodo
di applicazione relativo al diverso istituto del “permesso”.
Tale regime attuativo del congedo, pertanto, conduce a ritenere che lo
stesso operi con riferimento alle giornate calcolate secondo il calendario
civile, ovvero ricomprendendo, nell’ambito dei periodi ininterrotti di
godimento, anche le giornate non lavorative, di riposto settimanale e di
festività infrasettimanali.
Nel caso di specie, pertanto, il periodo di fruizione richiesto attiene ad
un intervallo temporale privo di interruzione esteso, dal 13 al 27.03.2020,
per il quale, dunque, alla luce di quanto sopra rappresentato, il congedo di
che trattasi viene utilizzato per un periodo di quindici giorni e non,
invece, per gli undici giorni richiesti dalla dipendente.
Con riferimento al secondo quesito formulato, poi, si premette che, in
assenza di un’espressa previsione normativa, il congedo straordinario in
parola non possa essere utilizzato ad ore, posto che la norma prevede il
temine temporale di fruizione dello stesso calcolato a giornata, non
legittimando, pertanto, deroghe di sorta rispetto all’impiego per l’unità di
base temporale statuita dalla disposizione.
Relativamente, quindi, alla conversione del diverso regime congedale
previsto dagli art. 32 e 33, Dlgs 151/2001 nell’istituto in questione -in
disparte la circostanza per la quale tale conversione è da ritenersi
ammissibile esclusivamente laddove il regime economico applicato a seguito
di tale trasformazione sia maggiormente favorevole al lavoratore rispetto a
quello in godimento al momento di utilizzo del congedo parentale- si è
dell’avviso che la conversione prospettata nel quesito sia certamente
ammissibile, calcolando, infatti, le quattro mezze giornate già fruite a
titolo di congedo parentale in due giornate intere computate a titolo di
congedo straordinario ex cit. art. 25.
In riferimento alle disposizioni contrattuali sulla
cadenza di utilizzo delle ferie maturate al 31.12 e alle previsioni
dell’art. 87, Dl 18/2020 ritiene legittimo non assegnare le ferie relative
ad anni precedenti in questo momento di emergenza Covid-19 entro il
30.04.2020?
Si fa seguito al quesito posto per evidenziare quanto segue.
Occorre, preliminarmente, osservare, in materia di legittimo utilizzo delle
ferie annuali, che le vigenti norme contrattuali nazionali, non dissimili,
peraltro, dalle precedenti omologhe prescrizioni negoziali in materia,
fondano un principio generale e solo eccezionalmente derogabile, ovvero che
il periodo delle ferie maturate in un anno deve necessariamente essere
fruito nello stesso anno di maturazione, a tutela delle posizioni giuridiche
e di fatto dei lavoratori interessati, in funzione del recupero delle
energie psico-fisiche dagli stessi disperse nell’assolvimento annuale
dell’attività lavorativa di competenza.
L’art. 28, comma 9, del vigente Ccnl 21.05.2018 del comparto contrattuale
Funzioni Locali, infatti, scolpisce tale principio affermando, testualmente,
che “9. Le ferie sono un diritto irrinunciabile e non sono monetizzabili.
Esse sono fruite, previa autorizzazione, nel corso di ciascun anno solare,
in periodi compatibili con le esigenze di servizio, tenuto conto delle
richieste del dipendente.”.
Come si vede, dunque, il diritto-dovere del dipendente, prescritto
dall’assetto negoziale generale che regola la specifica materia, è
rappresentato dalla fruizione, normale ed ordinaria, dei giorni di ferie
maturati nell’anno di riferimento nello stesso anno solare, compatibilmente
con le esigenze di servizio. Tale principio di carattere generale, poi,
trova un tenue temperamento limitatamente a due sole fattispecie, per le
quali il termine di godimento dell’istituto può essere legittimamente
derogato mediante una proroga temporalmente contenuta del termine finale
annuale di fruizione.
E così, infatti, i commi 14 e 15 del richiamato art. 28 prescrivono che “14.
In caso di indifferibili esigenze di servizio che non abbiano reso possibile
il godimento delle ferie nel corso dell'anno, le ferie dovranno essere
fruite entro il primo semestre dell'anno successivo. 15. In caso di motivate
esigenze di carattere personale e compatibilmente con le esigenze di
servizio, il dipendente dovrà fruire delle ferie residue al 31 dicembre
entro il mese di aprile dell'anno successivo a quello di spettanza”.
Appare del tutto evidente, pertanto, come uno spostamento del limite
temporale annuale di fruizione dell’istituto in questione sia legittimamente
ammissibile esclusivamente con riferimento alle causali tassativamente
indicate dal riportato sistema contrattuale nazionale, ovvero, da un lato,
le indifferibili esigenze di servizio, per le quali il termine è, comunque,
ultimamente indicato nel semestre successivo al periodo annuale di
maturazione, e, dall’altro lato, le motivate esigenze di carattere
personale, che consentono la proroga del termine conclusivo di fruizione
delle ferie al 30 aprile dell’anno successivo a quello di maturazione.
Non vi sono altri termini di legittimo impiego di tale istituto che siano
sdoganati dal vigente ordinamento che regola la materia, tanto meno le
prescrizioni dettate dal Dlgs 66/2003 recante l'attuazione delle direttive
93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione
dell'orario di lavoro, il cui art. 10, comma 1, infatti, nel contesto della
disciplina dell’istituto, rimette ai contratti collettivi di lavoro la
facoltà, come nel caso di specie, di introdurre clausole migliorative
rispetto al generale assetto introdotto dalla norma di derivazione
comunitaria.
Alla luce, pertanto, di quanto rappresentato, si ritiene che in nessun caso
il lavoratore possa risultare titolare di ferie pregresse relative ad
annualità precedenti al 2019 e, per quanto attiene a tale annualità,
esclusivamente laddove il maturato non utilizzato consegua rigorosamente
alle ipotesi eccezionali e derogatorie sopra richiamate, per cui, con
specifico riferimento al quesito posto, si è dell’avviso che le giornate di
ferie ancora giacenti e maturate negli anni pregressi debbano
necessariamente essere fruite a tutela della posizione del lavoratore
interessato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
28.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Condanna
penale e commissione di concorso.
Domanda:
Un dipendente di categoria C, a tempo indeterminato, del nostro comune ha
subito una condanna penale, ancora in primo grado, per il reato di truffa
(art. 640 c.p.). Può svolgere il compito di segretario di una commissione di
concorso? È opportuno che lo faccia?
Risposta
Per rispondere al quesito occorre rifarsi alle disposizioni contenute
nell’articolo 35-bis, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato:
“Prevenzione del fenomeno della corruzione nella formazione di
commissioni e nelle assegnazioni agli uffici”.
Tale norma, inserita nel Testo Unico del Pubblico Impiego, dall’articolo 1,
comma 46, della legge 06.11.2012, n. 190 (cosiddetta: legge Severino, in
materia di prevenzione della corruzione), prevede che coloro che sono stati
condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati
previsti nel capo I, del titolo II, del libro secondo del codice penale non
possono fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per
l’accesso o la selezione a pubblici impieghi.
Il richiamo normativo include nel divieto gli articoli da 314, sino a
335-bis, del codice penale e concerne tutta la casistica dei delitti dei
pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, anche con sentenza di
primo o secondo grado.
Tra questi reati ostativi, quindi, NON compare il reato di truffa, per cui
il vostro dipendente potrebbe ricoprire l’incarico di segretario della
commissione di concorso, non ricorrendo la fattispecie disciplinata
nell’art. 35-bis del d.lgs. 165/2001.
Per quanto riguarda l’opportunità di tale nomina non è possibile fornire
indicazioni di sorta, trattandosi di questione rimessa alla libera
valutazione del dirigente/funzionario che sarà chiamato a nominare la
commissione giudicatrice del concorso. A mero titolo di indicazione, si
suggerisce di valutare la possibilità di evitare la nomina, in presenza,
nell’organico comunale, di altro dipendente in grado di svolgere il medesimo
compito.
A completamento informativo, si ricorda che l’articolo 87, comma 5, del
decreto-legge 17.03.2020, n. 18 e l’articolo 4 del decreto-legge 08.04.2020,
n. 22, hanno stabilito la sospensione delle prove concorsuali per sessanta
giorni dalla data del 17.03.2020. La sospensione non riguarda la procedura
di nomina della commissione che può essere disposta anche prima del
17.05.2020 (28.04.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Coronavirus:
ancora incertezze applicative sulle disposizioni emergenziali in materia di
lavoro pubblico.
I quesiti operativi posti dalle amministrazioni continuano a riguardare
quelle situazioni limite, non trattate direttamente dalla normazione
d’urgenza, che devono essere risolte tenendo conto della disciplina legale e
contrattuale dei singoli istituti di cui costituiscono estensione o con il
ricorso ai principi generali che governano il rapporto di lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
Di seguito una selezione di quesiti riguardanti i concorsi pubblici,
l’utilizzo dei congedi parentali, e le assenze per dipendenti in condizioni
di disabilità più o meno grave.
Un Ente ha bandito un concorso per il quale le domande
di partecipazione scadevano dopo l'entrata in vigore dei provvedimenti che
prevedono "la sospensione delle procedure concorsuali " a meno che
che.........etc., cosa deve fare l'Ente?
Con riferimento al quesito posto, si ribadisce che l’art. 87, comma 5, Dl
18/2020 sospende per 60 giorni, quindi fino al 16 maggio, tutte le procedure
concorsuali per l’accesso al pubblico impiego per le quali devono svolgersi
le prove in presenza fisica dei candidati. Se si rientra in questa ipotesi a
nulla rileva che l’indizione della procedura concorsuale sia avvenuta prima
dell’entrata in vigore del predetto decreto legge.
Le ipotesi in cui le procedure concorsuali possono proseguire sono quelle
per le quali si procede alla sola valutazione su basi curriculari, ovvero in
modalità telematica, ovvero ancora quelle per le quali risultava già
completata la valutazione dei candidati. In estrema sintesi, quindi, le
procedure concorsuali attivabili e, se già attivate, effettuabili non devono
determinare spostamenti dei soggetti interessati (candidati) sul territorio,
quale inibizione dettata dalla prevenzione diffusiva della pandemia in atto.
Buongiorno, chiedo come conciliare il congedo parentale
al 30% fruito a mezza giornata con il congedo genitori di cui all'art. 25,
Dl 18/2020. Caso: dal 5 marzo al 17 marzo fruizione di 8 mezze giornate di
congedo al 30%.
1) Come converto le suddette giornate pregresse di marzo nel
congedo art. 25? Si conteggiano 4 giornate intere, oppure non sono
convertibili penalizzando l'interessata?
2) Dal 18 marzo la collega è in smart working: può fruire del
congedo parentale al 30% a mezza giornata? Può fruire del congedo genitori
art. 25 a mezza giornata?
Con riferimento ai quesiti posti, si rappresenta quanto segue.
I congedi parentali usufruiti a partire dal 5 marzo devono essere convertiti
nello specifico congedo previsto dall’art. 23, comma 1, del decreto legge n.
18/2020 e fino a concorrenza delle 15 giornate ivi previste. Ovviamente tale
conversione, essendo dettata nell’interesse del lavoratore, non può operare
laddove la fruizione del congedo parentale in atto abbia dato luogo, per
espresse previsioni migliorative dettate dalle norme contrattuali di
comparto, ad un trattamento economico superiore a quello previsto dalla
norma di legge in questione, atteso che, in caso contrario, la disposizione
legislativa avrebbe introdotto una previsione pregiudizievole rispetto alla
posizione economica del lavoratore e non, invece, maggiormente favorevole a
tutela dello stesso.
La richiamata disposizione legislativa, non consente alcun impiego
frazionato inferiore alla singola giornata che compone il periodo
complessivo di fruizione dell’istituto, tenuto anche conto della specifica
ratio dell’istituto e la sua natura eccezionale, che non consente
applicazioni analogiche o assimilative di modalità fruitive applicate ad
altri diversi istituti legali o contrattuali.
Si deve ritenere, infatti, che la frazionabilità ad ore del congedo non sia
possibile in quanto l’unico riferimento contenuto nell’art. 23 prevede la
possibilità di utilizzare i 15 giorni in modo continuativo o frazionato, ma
tale ultima formulazione non sembra riferirsi alla frazionabilità ad ore del
congedo, bensì alla singola giornata che compone il periodo complessivo
previsto dalla legge; manca, altresì, un espresso riferimento al Dlgs
151/2001, come, per contro, avviene all’art. 24 per i permessi di cui alla
Legge 104/1992, per cui non sembrerebbe trattarsi di una estensione dei
congedi parentali ivi previsti, che ne avrebbe, viceversa, consentito la
fruibilità ad ore, anche per il richiamo effettuato dall’art. 43 del Ccnl
21.05.2018.
Per quanto riguarda il primo quesito e limitatamente alla fruizione del
congedo utilizzato prima dell’entrata in vigore del decreto-legge, si deve
ritenere che la conversione possa operare nel senso indicato nel quesito,
ovvero calcolando 4 intere giornate; ciò in quanto la previsione dello
stesso decreto-legge non può che far salve, ai fini della conversione
espressamente prevista, le modalità fruitive legittimamente operate prima
della sua entrata in vigore.
Relativamente al secondo quesito si ritiene che la fruizione debba essere
calcolata per giornate intere e debba riguardare, fino al raggiungimento
delle 15 giornate previste dall’art. 23, comma 1, Dl 18/2020, esclusivamente
lo specifico congedo ivi previsto. Si deve osservare, inoltre, come
generalmente e fatta salva una diversa previsione normativa, l’istituto del
congedo, a differenza di quello del permesso, produce effetti giuridici e
viene calcolato secondo il calendario civile, per cui il relativo periodo di
fruizione ricomprende, nel computo delle giornate di godimento, anche i
giorni di riposo settimanale (normalmente la domenica), i giorni festivi e
quelli non lavorativi.
Tale forma di fruizione e di corrispondente calcolo, infatti, costituisce
elemento differenziale di tale istituto dal permesso, il quale, normalmente,
produce gli effetti che gli sono propri di giustificazione dell’assenza dal
lavoro da parte del dipendente, esclusivamente in relazione ai giorni in cui
viene effettivamente prestata l’attività lavorativa, cioè alle giornate
nelle quali la prestazione deve essere resa, escludendo, quindi, dalla
portata applicativa dello stesso, le giornate in cui l’attività lavorativa
non viene legittimamente prestata a diverso titolo.
Da tale considerazione, pertanto, consegue che, laddove s'intendesse
estendere, all’istituto del congedo, la stessa efficacia giuridica propria
del permesso, trattandosi di operatività derogatoria, la norma, legale o
contrattuale, che ne dettasse la relativa disciplina dovrebbe
necessariamente disporre espressamente in tal senso. L’assenza di tale
previsione nel contesto normativo che regola lo specifico istituto,
conclusivamente, depone a favore dell’impossibilità applicativa del congedo
di che trattasi limitata alle sole giornate in cui viene prestata l’attività
lavorativa, dovendosi ritenere, pertanto, che il beneficio, in carenza di
specifiche previsioni normative al riguardo, debba essere fruito e calcolato
secondo il normale calendario civile, comprensivo, dunque, delle giornate di
riposo settimanale, dei giorni festivi e di quelli non lavorativi.
Ai sensi dell'articolo 26, Dl 18/2020, fino al 30
aprile, i dipendenti disabili gravi riconosciuti tali ai sensi dell'art. 3,
comma 3, Legge 104/1992, possono assentarsi dal lavoro e tale assenza è
equiparata al ricovero ospedaliero. La norma parla di "il periodo di assenza
prescritto dalle competenti autorità sanitarie": ciò significa che il
dipendente deve farsi redigere un certificato medico di malattia?
Con riferimento al quesito posto la disabilità con connotazioni di gravità
ai sensi dell’art. 3, comma 3, Legge 104/1992, deve essere accertata dalle
aziende sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all'art. 1,
Legge 295/1990, che sono integrate da un operatore sociale e da un esperto
dei casi da esaminare, in servizio presso le aziende sanitarie locali.
Nel caso in cui gli accertamenti riguardino persone in età evolutiva, le
commissioni mediche sono composte da un medico legale, che assume le
funzioni di presidente, e da due medici, di cui uno specialista in pediatria
o in neuropsichiatria infantile e l'altro specialista nella patologia che
connota la condizione di salute del soggetto. Tali commissioni sono
integrate da un assistente specialistico o da un operatore sociale, o da uno
psicologo in servizio presso strutture pubbliche.
Analogamente per i soggetti che presentino “una minorazione fisica,
psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà
di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da
determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione” (art.
3, comma 1, Legge 104/1992), non connotata da particolare gravità, è
possibile riconoscere lo stesso beneficio (assenza equiparata a ricovero
ospedaliero) qualora vi sia una certificazione rilasciata dai competenti
organi medico legali dell’azienda sanitaria di competenza, che attesti una
condizione di rischio derivante:
a) da immunodepressione;
b) da esiti da patologie oncologiche;
c) dallo svolgimento di relative terapie salvavita.
Occorre osservare, tuttavia, nel caso di specie, che, da un lato, la ratio
normativa sottesa alle prescrizioni dettate dal comma 2, dell’art. 26, Dl
18/2020, che appare chiaramente finalizzata a tutelare, anche negli
spostamenti lavorativi, personale svantaggiato ed in particolare situazione
di maggiore esposizione al rischio infettivo, e, dall’altro lato, la
previsione espressamente dettata dal comma 6 del ridetto art. 26 che fa
espresso riferimento al medico curante, la certificazione della condizione
di rischio di cui sopra possa essere rilasciata anche dal medico
appartenente al servizio sanitario nazionale o con questo convenzionato
(medico di base o medico di medicina generale convenzionato) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
27.04.2020). |
ENTI LOCALI: Coronavirus:
la corretta imputazione a bilancio dei contributi per sanificazione e
polizia locale.
Domanda
Come devono essere iscritti a bilancio i contributi per la sanificazione e
quelli per il lavoro straordinario della polizia locale stanziati dal
decreto ‘Cura Italia’?
Risposta
I contributi in oggetto sono previsti dagli articoli 114 e 115 del decreto
legge n. 18/2020. Si tratta in tutto di 80 milioni di euro che sono stati
così ripartiti:
a) 70 milioni (di cui 65 milioni ai comuni e 5 milioni a province e
città metropolitane) per il concorso al finanziamento delle spese di
sanificazione e disinfezione degli uffici, degli ambienti e dei mezzi, a
rischio di contagio da Covid-19;
b) 10 milioni quale contributo per l’erogazione dei compensi per le
maggiori prestazioni di lavoro straordinario del personale della polizia
locale direttamente impegnato per le esigenze di contenimento del contagio
da Covid-19 e per l’acquisto di dispositivi di protezione individuale del
medesimo personale.
Nei giorni scorsi gli enti locali hanno già ricevuto le somme loro
spettanti. I criteri di riparto sono indicati nella ‘nota metodologica’
allegata a ciascuno dei due decreti ministeriali del 16 aprile. In
particolare: i contributi per sanificazione sono ripartiti per 1/3 in base
alla popolazione residente e per i restanti 2/3 in base al numero di contagi
accertati. E’ comunque prevista per tutti i comuni una quota fissa di €
1.000,00. Gli stessi criteri sono stati applicati per i contributi per il
lavoro straordinario della polizia locale ma con percentuali di ponderazione
invertite e senza la previsione di alcuna quota fissa. Questi ultimi,
precisa l’art. 115 del decreto legge, non sono soggetti ai limiti del
trattamento accessorio previsti dall’articolo 23, comma 2, del d.lgs.
75/2017, fermo restando il rispetto dell’equilibrio di bilancio.
In merito alla loro corretta allocazione a bilancio, come da nota trasmessa
agli enti locali dalla RGS, essendo contributi correnti dallo Stato, essi
devono essere iscritti al titolo 2, tipologia 101, categoria 1 con Piano
finanziario: E.2.01.01.01.001 – Trasferimenti correnti da Ministeri. Si
ritiene opportuna l’istituzione di un capitolo ad hoc per una loro maggiore
identificabilità e visibilità a bilancio. Sul versante della spesa essi
andranno così destinati:
a) quelli per interventi di sanificazione con il seguente piano
finanziario:
• acquisto di materiale per la sanificazione:
U.1.03.01.02.999 – Altri beni e materiali di consumo n.a.c.;
• acquisto di dispositivi di protezione
individuale per il personale dell’ente addetto alla sanificazione (ad es:
mascherine): U.1.03.01.02.003 – Equipaggiamento;
• acquisto del servizio di sanificazione degli
uffici e ambienti dell’ente: U.1.03.02.13.002 – Servizi di pulizia e
lavanderia;
• trasferimento di risorse a terzi, con il
vincolo di destinazione di provvedere alla sanificazione degli ambienti
dell’ente (ad esempio biblioteche comunali, asili nido comunali, ecc.):
codice SIOPE previsto per i trasferimenti correnti, attribuito attenendosi
alla “regola del primo beneficiario” in virtù della quale il
trasferimento è classificato in considerazione del soggetto che
effettivamente riceve il trasferimento.
b) quelli per il lavoro straordinario della polizia locale con il
seguente piano finanziario:
• straordinario per il personale a tempo
indeterminato: U.1.01.01.01.003;
• contributi sociali effettivi a carico
dell’ente: U.1.01.02.01.001;
• imposta regionale sulle attività produttive (IRAP):
U.1.02.01.01.001.
L’incasso del trasferimento determina cassa vincolata.
L’iscrizione a bilancio potrà avvenire con variazione da deliberarsi da
parte della giunta con i poteri d’urgenza del consiglio ai sensi dell’art.
175, comma 4, con ratifica consiliare da adottarsi nel rispetto della
sospensione di termini di cui all’art. 103, comma 1 del d.l. n. 18/2020.
Resta fermo l’obbligo per l’ente locale di adottare ogni misura
organizzativa idonea ad assicurare comunque la ragionevole durata e la
celere conclusione del procedimento, con priorità per quelli da considerare
urgenti.
Si ritiene inoltre che i contributi per la sanificazione dei locali non
possano essere destinati alle scuole del territorio, in quanto l’art. 77 del
d.l. n. 18/2020 già stanzia 43,5 milioni di euro a favore delle istituzioni
scolastiche proprio per tali finalità. Si evidenzia infine come né gli artt.
114 e 115 del d.l. 18/2020, né i due decreti attuativi prevedano alcuna
forma di rendicontazione circa l’utilizzo dei contributi (27.04.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Disabili
e diritto precedenza.
Domanda
Come funziona il diritto di precedenza per l’assunzione dei lavoratori
disabili previsto dall’art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001?
Risposta
Il posto di ruolo riservato ai lavoratori disabili (in quota d’obbligo) può
essere coperto riconoscendo al lavoratore citato il diritto di precedenza se
sono rispettati i seguenti presupposti:
• il lavoratore è disoccupato e iscritto nelle liste dei lavoratori
con disabilità che beneficiano del collocamento obbligatorio;
• il suo precedente rapporto di lavoro con lo stesso ente
(comprensivo della proroga, che, a differenza del rinnovo, consiste nel
concordare, prima dell’originaria scadenza del rapporto, un posticipo del
termine finale del rapporto stesso) ha avuto una durata di almeno 6 mesi e
atteneva alle stesse mansioni previste per il posto che si intende coprire
in modo stabile;
• il lavoratore ha dato il suo consenso all’esercizio di questo
diritto di precedenza entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto a termine;
• il primo giorno del rapporto di ruolo non è oltre i 12 mesi
dall’ultimo giorno del rapporto a termine.
Considerato che si tratta di assunzioni che devono comunque essere svolte in
collaborazione con i servizi territoriali per l’impiego e per il
collocamento mirato, è necessario che la procedura si attenga alle
istruzioni di dettaglio fornite da tali servizi.
In generale, la procedura deve includere i seguenti passaggi.
1) Il piano triennale dei fabbisogni di personale deve prevedere il
fabbisogno stabile dell’unità lavorativa di cui si tratta a partire
dall’anno nel quale si intende procedere all’assunzione di ruolo e dare atto
che l’ente intende riservare il posto ai lavoratori con disabilità ai fini
della copertura della quota d’obbligo prevista dalla legge 68/1999.
2) È necessario segnalare ai servizi per l’impiego sia la
scopertura nelle quote assunzionali d’obbligo riservate ai lavoratori con
disabilità, sia le caratteristiche del posto che si intende coprire (in
particolare: mansioni e requisiti di accesso), sia tutte le circostanze
sopra richiamate che dimostrano la sussistenza dei presupposti per
l’esercizio del diritto di precedenza da parte del lavoratore che aveva
svolto il rapporto a termine (indicando naturalmente i dati personali di
quest’ultimo lavoratore).
3) A seguito della verifica da parte dei servizi territoriali per
l’impiego dei presupposti di cui sopra, andrà stipulata –con gli stessi
servizi– un’apposita convenzione che preveda la chiamata diretta del
lavoratore beneficiario del diritto di precedenza, ai sensi dell’art. 11
della legge 68/1999.
Per quanto riguarda gli adempimenti per la trasparenza si ricorda che:
•– il piano triennale dei fabbisogni di personale, comprendente le
informazioni sopra citate, deve essere pubblicato nell’ambito di
Amministrazione Trasparente – Personale – Dotazione Organica, ed essere
trasmesso al Dipartimento della Funzione Pubblica – Mef mediante
l’applicativo Sico, entro 30 giorni dalla sua approvazione o aggiornamento
(art. 6-ter d.lgs. 165/2001);
•– vanno pubblicate le informazioni cui fa riferimento il seguente
passaggio della stessa direttiva 1/2019:
“In ragione poi di quanto previsto dall’articolo 1 del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33, recante “Riordino della disciplina riguardante il
diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”,
secondo cui, in base al comma 1, la trasparenza è intesa come accessibilità
totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo
scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione
degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche, è plausibile ritenere che le amministrazioni
debbano pubblicare sul proprio sito istituzionale i dati relativi alla quota
d’obbligo e alle procedure attivate per la copertura della stessa, fermo
restando quanto previsto dall’articolo 39-quater, comma 2, del d.lgs.
165/2001.
In particolare, le amministrazioni dovranno indicare:
– la dotazione organica necessariamente distinta per aree o
categorie;
– il numero delle persone con disabilità da assumere in base alle
previsioni dell’articolo 3 della legge 68/1999;
– il numero delle persone con disabilità già reclutati a copertura
della quota obbligatoria;
– le procedure avviate per il collocamento obbligatorio, con
indicazione del tipo di avviamento al lavoro, comprese le eventuali
convenzioni ai sensi dell’articolo 11 della legge 68/1999, finalizzate al
completamento della quota obbligatoria”.
Naturalmente i dati personali del lavoratore non vanno pubblicati (23.04.2020
- link a www.publika.it). |
APPALTI:
La sospensione del termine del soccorso istruttorio integrativo ai sensi
dell’articolo 103 del DL 18/2020.
Domanda
Vorremmo sapere in che modo si rapporta la sospensione dei termini del
procedimento amministrativo prevista dall’articolo 103 del DL “cura
Italia” con le procedure di affidamento, in particolare in relazione al
soccorso istruttorio.
Risposta
Il momento attuale che sta vivendo il Paese (e non solo) ha portato il
legislatore, come noto, a disporre una “generale” sospensione dei
procedimenti amministrativi. In particolare, come si rammenta nel quesito,
con le disposizioni declinate nell’articolo 103 del DL 18/2020 attualmente
in fase di conversione (e si anticipa che in questa norma, non solo viene
confermata ma addirittura ampliata con previsioni ulteriori, almeno negli
schemi resi noti).
Il procedimento amministrativo contrattuale –e non solo la vera e propria
fase pubblicistica- viene, ovviamente, inciso dalla disposizione in
commento. Il procedimento di affidamento ben potrebbe essere configurato
come procedura avviata d’ufficio.
Sulle questioni specifiche poste dal quesito, ed in particolare –ma non
solo– sui tempi del soccorso istruttorio (tanto nella fattispecie
specificativa quanto in quella integrativa) ex art. 83, comma 9, ha in tempi
recentissimi fornito dei chiarimenti anche l’autorità anticorruzione con la
deliberazione n. 312/2020.
Si assiste, in generale e semplificando, ad una generale sospensione di ogni
termine. Ed in questo senso nella delibera si legge che la “sospensione
si applica a tutti i termini stabiliti dalle singole disposizioni della lex
specialis e, in particolare sia a quelli “iniziali” relativi alla
presentazione delle domande di partecipazione e/o delle offerte, nonché a
quelli previsti per l’effettuazione di sopralluoghi, sia a quelli
“endoprocedimentali” tra i quali, a titolo esemplificativo, quelli relativi
al procedimento di soccorso istruttorio e al sub-procedimento di verifica
dell’anomalia e/o congruità dell’offerta”.
Nelle nuove scadenze dei termini già assegnati vengono sostanzialmente
posposti e “riprenderanno a decorrere per il periodo residuo” dal
16.05.2020 (il congelamento riguarda il periodo intercorrente tra il 23
febbraio e il 15 maggio).
Sono possibili delle deroghe alla sospensione da parte del RUP nel caso in
cui il tipo di procedura e la fase della stessa lo consentano” ovviamente
con il consenso degli interessati nel senso che il responsabile del
procedimento non potrà “vessare” l’operatore imponendo l’adempimento.
Infatti, nella stessa deliberazione si precisa che “nel caso in cui le
amministrazioni intendano avvalersi” dell’interruzione della sospensione
dovranno “acquisire preventivamente la dichiarazione dei concorrenti in
merito alla volontà di avvalersi o meno della sospensione dei termini
disposta dal decreto-legge n. 18/2020, così come modificato dall’articolo 37
del decreto-legge n. 23 dell’08/04/2020”.
È in facoltà del RUP, poi, concedere “proroghe e/o differimenti ulteriori
rispetto a quelli previsti dal decreto-legge in esame, anche su richiesta
degli operatori economici, laddove l’impossibilità di rispettare i termini
sia dovuta all’emergenza sanitaria” (22.04.2020 - link a
www.publika.it). |
VARI:
L'ufficio SUAP di questo Comune riceve numerose
richieste di imprese che hanno codici ATECO principali non rientranti
nell'elenco dei codici ammessi (quindi sono attività sospese) e che
vorrebbero proseguire l'attività previa comunicazione al Prefetto.
E' necessario attendere la risposta dalla Prefettura o la comunicazione è
abilitante?
Una premessa. A partire dal 2008 Istat ha adottato la classificazione delle
attività economiche Ateco 2007 quale strumento di classificazione delle
attività economiche per una finalità principalmente statistica. L'Agenzia
delle Entrate e le Camere di Commercio hanno aderito a questa nuova
classificazione facendovi riferimento nella gestione delle proprie procedure
(es. attribuzione di partita IVA e iscrizione al registro imprese).
Pertanto a classificazione ATECO rappresenta la classificazione delle
attività economiche sviluppata e utilizzata dall'Istat esclusivamente per
finalità statistiche ed al fine di individuare le attività economiche da
sospendere, in applicazione delle misure indicate dalla vigente normativa
occorre precisare che si deve far riferimento a quanto dichiarato dai
soggetti interessati presso le Amministrazioni di riferimento ossia Registro
delle Imprese delle Camere di Commercio e, per i soggetti non iscritti a
tale registro, a quanto dichiarato sui modelli fiscali (Anagrafe Tributaria
dell'Agenzia delle Entrate).
Il D.P.C.M. 10.04.2020 ha dettato la disciplina attualmente applicabile alle
attività economiche nel periodo di emergenza sostituendo le disposizioni
contenute in precedenti D.P.C.M. (D.P.C.M. 08.03.2020, D.P.C.M. 09.03.2020,
D.P.C.M. 11.03.2020 e D.P.C.M. 22.03.2020) e ordinanze ministeriali e
dettando questa sintetica disciplina:
- tutte le attività sono sospese/chiuse ad eccezione di quelle
espressamente indicate nell'articolato del DPCM (es. edicole, farmacie
ecc..) o negli allegati 1, 2 e 3;
- le attività "non sospese" possono proseguire l'attività
senza necessità di adempimenti amministrativi (comunicazioni al SUAP,
Regione, ASL o Prefetto) salvi gli obblighi di sicurezza verso lavoratori ed
utenza previsti dallo stesso DPCM anche nell'allegato 5.
Qualora dunque una impresa intenda esercitare una delle attività indicate
nei citati allegati 1, 2, 3, a prescindere dal fatto che possieda un Codice
Ateco principale o secondario abilitante, occorre fare riferimento
all'oggetto specifico dell'attività a prescindere dal carattere principale o
secondario del codice.
Se l'attività è consentita (anche con codice Ateco secondario) essa potrà
essere svolta dall'impresa senza preventiva comunicazione al Prefetto.
Viceversa dovrà essere presentata comunicazione motivata al Prefetto in
presenza delle condizioni indicate nel D.P.C.M. 10.04.2020. In particolare
nella comunicazione "sono indicate specificamente le imprese e le
amministrazioni beneficiarie dei prodotti e servizi attinenti alle attività
consentite, anche le attività che sono funzionali ad assicurare la
continuità delle filiere delle attività di cui all'allegato 3, nonché delle
filiere delle attività dell'industria dell'aerospazio, della difesa e delle
altre attività di rilevanza strategica per l'economia nazionale, autorizzate
alla continuazione, e dei servizi di pubblica utilità e dei servizi
essenziali di cui al comma 4".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 25.03.2020, n. 19, art. 2 -
D.P.C.M. 10.04.2020 (22.04.2020 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ancora
incertezze applicative sulla normativa emergenziale in materia di lavoro
pubblico.
L’utilizzo delle ferie e dei congedi straordinari costituiscono ancora temi
sui quali vi sono dubbi interpretativi che, nonostante lo sforzo del
Dipartimento della Funzione pubblica con le risposte fornite sul sito
istituzionale, meritano ancora la giusta attenzione al fine di fornire un
adeguato supporto alla soluzione dei casi concreti che si presentano
all’attenzione dei dirigenti chiamati a rispondere alle richieste dei propri
collaboratori.
Di seguito vengono fornite risposte ad una ulteriore
selezione di quesiti.
Ho lavorato fino a venerdì scorso in un comune. Ho la
figlia studentessa universitaria rientrata da U.K. domenica notte, dove
hanno chiuso l'università per coronavirus. Ho comunicato all'amministrazione
lo stato di quarantena della ragazza ed il mio e della madre, in quanto
coabitiamo con la figlia, al medico di base ed al 112.
Ho proceduto a
comunicare per iscritto via mail all'amministrazione tale stato di autoquarantena per 14 giorni come da Dpcm ed ordinanze regionali Sardegna.
Dall'amministrazione mi comunicano che considereranno l'assenza come ferie.
Io credo che non potendo lasciare la residenza per motivi sanitari, non sia
così.
Potete darmi una risposta?
Il personale, impedito alla fornitura della prestazione lavorativa dalle
norme di contenimento della diffusione del coronavirus di cui ai Dpcm dell’8
marzo u.s., è soggetto alle disposizioni generali che regolano le assenze
dal lavoro dei dipendenti pubblici nel presente frangente di eccezionalità
determinato dall’emergenza pandemica di cui al COVID-19 in atto.
Ciò premesso, pertanto, la norma di riferimento, allo stato, è da ritenersi
individuabile nell’art. 87, comma 3, Dl 17.03.2020, n. 18, il quale dispone
letteralmente: "3. Qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile,
anche nella forma semplificata di cui al comma 1, lett. b), le
amministrazioni utilizzano gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo,
della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto
della contrattazione collettiva. Esperite tali possibilità le
amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal
servizio. Il periodo di esenzione dal servizio costituisce servizio prestato
a tutti gli effetti di legge e l'amministrazione non corrisponde l'indennità
sostitutiva di mensa, ove prevista.”.
Come si vede, pertanto, le amministrazioni pubbliche -ove non sia possibile
utilizzare il personale dipendente mediante l’impiego del lavoro agile o
mediante diversa adibizione di tale personale ai servizi di competenza che
sono tenute ad assicurare (diversi da quelli di ordinaria destinazione) e
compatibilmente con l’esigibilità delle prestazioni riferite alla categoria
giuridica di inquadramento- devono preventivamente utilizzare tutte le
forme di istituti, legali o contrattuali, che giustifichino l’assenza dal
lavoro con mantenimento della retribuzione, ivi comprese le ferie pregresse,
da intendersi sia quella maturate nel corso del 2019 e non ancora fruite,
sia quelle maturate nel corso del 2020 sino al momento del collocamento
d’ufficio in ferie.
Solamente laddove sia esaurito o fosse oggettivamente
impossibile l’impiego di tali istituti e non sia, altresì, possibile
destinare diversamente il personale interessato, anche mediante l’utilizzo
dello stesso in modalità remota con smart working su altri servizi da
garantire, l’amministrazione potrà, eccezionalmente ed in via residuale, con
atto adeguatamente motivato (posto che viene erogata la retribuzione in
assenza di prestazione), collocare lo stesso in esenzione lavorativa, con
mantenimento del trattamento economico in godimento, alla stregua di
servizio prestato a tutti gli effetti di legge.
L’art. 19, comma 3, Dl.
9/2020 deve, quindi, ritenersi superato.
Dovendo giustificare le assenze del personale non
coinvolto, o solo parzialmente coinvolto in attività da rendere in presenza,
né avente possibilità di smart working o permessi particolari, si chiede se,
oltre alle ferie ancora spettanti per l'anno 2019 occorra cominciare ad
attingere anche a quelle del 2020.
In questa seconda ipotesi, alcuni
dipendenti potrebbero non avere più ferie per il periodo estivo.
L’amministrazione può disporre l’utilizzo delle ferie maturate nel corso del
2020 sino al momento del collocamento d’ufficio in ferie. Solamente laddove
sia esaurito o fosse oggettivamente impossibile l’impiego di tali istituti e
non sia, altresì, possibile destinare diversamente il personale interessato,
anche mediante l’utilizzo dello stesso in modalità remota con smart working
su altri servizi da garantire, l’amministrazione potrà, eccezionalmente ed
in via residuale, con atto adeguatamente motivato (posto che viene erogata
la retribuzione in assenza di prestazione), collocare lo stesso in esenzione
lavorativa, con mantenimento del trattamento economico in godimento, alla
stregua di servizio prestato a tutti gli effetti di legge.
Infatti
l’esenzione dal servizio costituisce l’estrema possibilità offerta alle
amministrazioni quando tutte le altre possibilità previste dalla normativa
non siano utilizzabili. Va, infine, precisato che, se è vero che l’art. 87
fa riferimento alle ferie pregresse, la possibilità di disporre la
collocazione in ferie del personale costituisce potere datoriale la cui
fonte è rinvenibile nell’art. 2109 del codice civile e, pertanto, riguarda
anche le ferie maturate fino alla data in cui ne viene disposta la
fruizione.
Una dipendente in congedo di maternità facoltativa,
sarebbe intenzionata a richiedere il congedo parentale straordinario
previsto dall’art. 25 , Dl 18/2020. Si rappresenta che:
a) la figlia di mesi cinque e non ha ancora iniziato a frequentare
il servizio educativo nido;
b) l’inserimento al nido era in fase di programmazione ma è stato
rimandato,
c) in situazioni” normali” la dipendente sarebbe rientrata al
lavoro.
Richiamato l’art. 25 del decreto legge n. 18/2020 a mente del quale non
viene elencato come requisito l’iscrizione ad un istituto scolastico o
servizio educativo, si chiede se sia corretto concedere la fruizione del
congedo straordinario.
Si deve ritenere che, l’espresso richiamo effettuato dall’art. 23, comma 2,
Dl 18/2020 degli artt. 32 e 33, Dlgs 151/2001, consente la conversione del
congedo parentale in quello disciplinato in via straordinaria dal comma 1
dell’art. 23.
Per le pubbliche amministrazioni non vi sono dubbi circa
l’applicabilità ai propri dipendenti considerato il richiamo espresso
effettuato dal successivo art. 25. La formulazione del primo comma dell’art.
23 consente di affermare che i 15 giorni di congedo straordinario sono un
diritto, per il cui esercizio è sufficiente avere dei figli di età non
superiore ai 12 anni, che non ammette ulteriori condizioni.
Il Comune di … gestisce direttamente un asilo nido, un
museo e una biblioteca. Dall’inizio dell’emergenza tutti e tre i servizi
sono stati chiusi e il relativo personale è a casa. L’art. 19, c. 3, Dl 02.03.2020, n. 9, considera servizio prestato a tutti gli effetti di legge i
periodi di assenza del personale imposti dai provvedimenti di contenimento
del fenomeno epidemiologico.
Questa situazione continua a coinvolgere anche
il museo e la biblioteca?
Con riferimento al quesito posto, occorre osservare che, ai sensi dell’art.
19, comma 3, del decreto-legge 02.03.2020, n. 9, fuori dei periodi trascorsi
in malattia o in quarantena con sorveglianza attiva, o in permanenza
domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva, che sono equiparati, dal
comma 1 del medesimo art. 19, al periodo di ricovero ospedaliero, i periodi
di assenza dal servizio dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, Dlgs 165/2001, imposti dai provvedimenti di
contenimento del fenomeno epidemiologico costituiscono servizio prestato a
tutti gli effetti di legge.
In applicazione di tale previsione normativa,
pertanto, tutte le fattispecie di assenza dal lavoro di dipendenti
dell’amministrazione pubblica direttamente imposti dalla normativa
emergenziale di contrasto alla diffusione pandemica del coronavirus sono da
ritenersi equiparati a servizio effettivamente prestato.
Occorre, tuttavia, sottolineare che tale prescrizione si ritiene applicabile
ai soli casi in cui l’interdizione lavorativa sia conseguenza diretta e
prescrittiva dell’applicazione di disposizioni normative di lotta
all’emergenza epidemiologia e non, invece, alle diverse fattispecie
riconducibili alle più generali misure di contrasto affidate alle autonome
valutazioni delle singole amministrazioni nell’organizzazione e gestione dei
servizi di competenza istituzionale, per le quali valgono, viceversa le
misure dettate dall’art. 87 del recente decreto-legge 17.03.2020, n. 18.
Ai
presenti fini, poi, necessita fare riferimento alle limitazioni dettate, con
effetti sino al 3 aprile p.v., dall’art. 1, comma 1, let. l), Dpcm 08.03.2020,
estese, per effetto dell’art. 1, comma 1, Dpcm 09.03.2020, all’intero
territorio nazionale e con efficacia prodotta nel periodo dal 10.03.2020
sino, come cennato, alla data del 3 aprile p.v.. Tali statuizioni, in
particolare, prescrivono che, per il predetto periodo temporale, sono chiusi
i musei e gli altri istituti e luoghi della cultura di cui all'art. 101 del
codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui Dlgs 42/2004, il quale
annovera, nell’ambito delle proprie previsioni, quali istituti e luoghi
della cultura, i musei, le biblioteche e gli archivi, le aree e i parchi
archeologici, i complessi monumentali.
Ciò evidenziato, pertanto, atteso che l’impedimento lavorativo del personale
adibito ai predetti servizi consegue alla diretta attuazione di un'apposita
disposizione legislativa riferibile alle misure emergenziali di lotta alla
diffusione virale di che trattasi, è da ritenere che i dipendenti
dell’amministrazione pubblica adibiti alla gestione di tali servizi siano
esentati dalla prestazione lavorativa ai sensi di quanto disposto dal
ripetuto art. 19, comma 3.
A parere di chi scrive, tuttavia, tale esclusione della prestazione
lavorativa costituisce misura estrema, ancorché non soggetta ad alcuna
condizione prescritta per legge, in caso, cioè, d’impossibilità di diversa
utilizzazione dei lavoratori destinati ai servizi interessati, pur
nell’ambito del ruolo rivestito e del principio di esigibilità di tutte le
funzioni ascritte alla categoria giuridica d’inquadramento, atteso che lo
status di esentato dal lavoro implica un riconoscimento retributivo di
natura integrale a fronte della carenza di fornitura di alcuna attività di
lavoro, ciò che, infatti, se non adeguatamente giustificata
dall’impossibilità di diverso impiego del lavoratore, ben potrebbe tradursi
in un indebito patrimoniale per danno in pregiudizio degli interessi
pubblici di cui l’amministrazione è istituzionalmente portatrice (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
22.04.2020). |
APPALTI FORNITURE:
Emergenza sanitaria: erogazione contributi per Buoni Spesa Alimentari –
obblighi di pubblicazione.
Domanda
Con determinazione dirigenziale del Responsabile dell’Ufficio servizi
sociali sono stati erogati i contributi per i Buoni Spesa Alimentari, di cui
all’Ordinanza del Capo del dipartimento della Protezione civile n. 658 del
29/03/2020.
Quali obblighi di trasparenza è necessario assolvere?
Risposta
Per far fronte alla grave situazione economica determinatasi per effetto
delle conseguenza dell’emergenza COVID-19, la Presidenza del Consiglio dei
Ministri, attraverso il Capo del dipartimento della Protezione civile, ha
erogato la somma complessiva di euro 400 milioni, suddivisa tra tutti i
comuni italiani.
Sulla base del finanziamento ricevuto, ogni comune ha pubblicato un avviso,
raccolto le domande degli interessati ed erogato le somme ai beneficiari,
previste nello specifico provvedimento comunale, qualora si sia scelta la
modalità prevista nell’articolo 2, comma 4, lettera a), della citata
ordinanza n. 658/2020 (buoni spesa utilizzabili per l’acquisto di generi
alimentari).
Se l’erogazione è stata effettuata con determinazione dirigenziale, il primo
obbligo sarà quello di pubblicare l’atto su albo pretorio on-line, come
previsto da alcune sentenze del Consiglio di Stato, tra le quali si
ricordano la n. 1370 del 15.05.2006 e quella della Sezione V, del
11.05.2017.
Per quanto riguarda gli obblighi di pubblicità e trasparenza conseguenti
all’esecuzione di tale procedimento amministrativo, le disposizioni da
applicare sono quelle previste negli articoli 26 e 27 del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, che possiamo riassumere secondo i seguenti
passaggi:
a) Pubblicare nella sezione Amministrazione trasparente >
Sovvenzioni, contributi, sussidi, vantaggi economici > Criteri e modalità,
la disciplina comunale prevista per l’erogazione dei Buoni Spesa. Si
immagina che tali disposizioni propedeutiche siano state approvate con
determina dirigenziale del responsabile dei servizi sociali;
b) Pubblicare nella sezione Amministrazione trasparente >
Sovvenzioni, contributi, sussidi, vantaggi economici > Atti di concessione,
l’elenco dei vari beneficiari, sostituendo i dati personali delle persone
fisiche (cognome e nome, residenza o altri dati personali) con un codice
identificativo sostitutivo, così come dettagliatamente specificato
nell’articolo 26, comma 4, del citato d.lgs. 33/2013. In questo caso l’anonimizzazione
si rende necessaria ed indispensabile perché i beneficiari rientrato tutti
nella categoria connessa alla situazione di disagio economico-sociale,
conseguente all’epidemia sanitaria da COVID-19. Si tenga conto che l’obbligo
(art. 26, comma 2), si riferisce a contributi di importo annuo superiore a
mille euro nell’anno solare. Al riguardo, però, è bene specificare che
numerose amministrazioni hanno stabilito, nella sezione trasparenza del loro
PTPCT, di pubblicare i contributi di qualsiasi importo, interpretando –a
parere di chi scrive correttamente– il principio di accessibilità totale ai
documenti e informazioni detenuti dalle P.A.
Tali informazioni vanno pubblicate in formato tabellare aperto, con
aggiornamento tempestivo e per la durata di cinque anni, contati dal 1°
gennaio dell’anno successivo a quello di pubblicazione, per effetto
dell’art. 26, comma 3, del d.lgs. 33/2013.
A titolo di esempio la pubblicazione dei dati potrebbe essere effettuata
utilizzando la tabella che segue:
N. ORD. CODICE UTENTE
IMPORTO EROGATO
BENEFICIARIO Euro
01 Cod.
056/2020 300,00
02 Cod.
061/2020 250,00
03 Cod.
014/2020 300,00
04 Cod.
089/2020 150,00
05 Cod.
112/2020 200,00
06 Cod.
018/2020 300,00
Come ultimo adempimento, occorre ricordarsi che tutte le informazioni devono
essere organizzate, annualmente, in un unico elenco per singola
amministrazione, secondo modalità di facile consultazione, in formato
tabellare che ne consenta l’esportazione il trattamento e il riutilizzo,
così come previsto dall’articolo 27, comma 2, del d.lgs. 33/2013 (21.04.2020
- link a www.publika.it). |
APPALTI FORNITURE: Acquisti
P.A.: come può un Ente acquistare su un sito on-line e richiedere una
fatturazione in regime di “split payment”?
L’Ente scrivente chiede come può il proprio Comando dei
Vigili Urbani, in vista dell’urgenza di acquistare dei termometri a distanza
non presenti in Mepa, procedere all’acquisto on line tramite il sito Amazon.
Essendo richiesto come metodo di pagamento elettronico una carta di credito
(in questo caso una pre-pagata), come possiamo richiedere che il documento
fiscale (intestato al Comune) in regime di ‘split payment’ anche se
l’importo andrà pagato per intero?
La vendita operata da Amazon rientra nell’art. 22, comma 1, del Dpr. n.
633/1972 (esonero da fatturazione) e nell’art. 2, comma 1, lett. oo), del
Dpr. n. 696/1996 (esonero da certificazione), come confermato dalla
Risoluzione Agenzia delle Entrate n. 274/E del 2009.
Il Comune opera evidentemente detto acquisto in ambito istituzionale, alla
stregua di un privato senza Partita Iva, non potendosi quindi detrarre l’Iva
ai sensi dell’art. 19 del Dpr. n. 633/7192.
Atteso quanto sopra, laddove il Comune non necessitasse di fattura (da
richiedere al momento dell’acquisto, ai sensi del citato art. 22, comma 1),
il caso di specie, non essendo emessa fattura, rientra tra gli esoneri da “split
payment”, come disciplinati dalle Circolari Entrate n. 15/E del 2015 e
n. 27/E del 2017.
Pertanto, suggeriamo di verificare l’effettiva necessità che venga
rilasciata fattura perché, laddove tale necessità non vi sia (essendo
sufficiente una ricevuta di avvenuto pagamento, rilasciata al momento
dell’acquisto operato con la carta prepagata), è possibile evitare di
richiederla, per i motivi suesposti
(20.04.2020 - link a www.entilocali-online.it). |
ENTI LOCALI:
Coronavirus: il ministero dell’interno fissa le regole per la nomina dei
revisori dei conti.
Domanda
Sono l’assessore al bilancio di un comune di 6000 abitanti circa. Il
revisore unico dei conti è in scadenza il prossimo 27 aprile.
Come dobbiamo comportarci alla luce dell’emergenza da Covid-19?
Risposta
Sul tema posto dal lettore è di recente intervenuto il Ministero
dell’Interno con tre comunicati pubblicati sul proprio portale web,
rispettivamente in data 25 e 27 marzo e 16 aprile. L’emergenza Coronavirus
ha inevitabilmente interessato anche la procedura di estrazione e nomina dei
revisori dei conti.
A tal proposito il Ministero ha chiarito che la sospensione dei termini dei
procedimenti amministrativi, prevista per il periodo decorrente dal 23
febbraio al 15 aprile e disposta dall’art. 103 del decreto legge ‘Cura
Italia’ (d.l. 18/2020) si applica anche ai procedimenti inerenti
l’estrazione e la nomina dell’organo di revisione contabile degli enti
locali. Ciò in virtù di quanto previsto dall’articolo 235 del TUEL che, come
noto, disciplina la durata di tale organo, nonché l’eventuale applicazione
dell’istituto della prorogatio degli organi amministrativi di 45 giorni
oltre la loro scadenza naturale di cui al d.l. 293/1994.
A tal proposito, il Viminale chiarisce che, allo scadere di detto periodo di
prorogatio, ove l’ente locale, per comprovati motivi, non abbia
ancora provveduto al rinnovo del proprio organo di revisione, l’incarico del
revisore in scadenza è automaticamente prorogato fino al 15.04.2020.
Così ha infatti stabilito l’art. 103, comma 1, del decreto che afferma che:
“Ai fini del computo dei termini ordinatori o perentori, propedeutici,
endoprocedimentali, finali ed esecutivi, relativi allo svolgimento di
procedimenti amministrativi su istanza di parte o d’ufficio, pendenti alla
data del 23.02.2020 o iniziati successivamente a tale data, non si tiene
conto del periodo compreso tra la medesima data e quella del 15.04.2020 (…)”.
Nell’iter di conversione in legge del decreto, ad oggi ancora in corso, il
Parlamento non è intervenuto su questa norma. Lo ha fatto invece l’art. 37
del d.l. 23/2020 (c.d. ‘Decreto Liquidità’), che dispone che: “Il
termine del 15.04.2020 previsto dai commi 1 e 5 dell’articolo 103 del
decreto-legge 17.03.2020, n. 18, è prorogato al 15.05.2020”. Pertanto,
alla luce di tale norma (sulla quale potrà intervenire ulteriormente la
relativa legge di conversione), e come riportato anche nel comunicato del
Ministero del 16 aprile, la validità degli organi di revisione è estesa al
15.05.2020.
In merito alle procedure di estrazione dei nominativi dei revisori dei
conti, il Viminale è invece intervenuto in data 25 marzo con apposito
comunicato. Dopo aver brevemente riassunto tempi e modalità per l’estrazione
dei nominativi, ai sensi dell’art. 5 del Dm Interno del 15/02/2012 n. 23,
adottato ai sensi dell’art. 16, comma 25, del d.l. 138/2011, in esso si
prende atto che anche per la Pubblica Amministrazione il lavoro agile
costituisce la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione
lavorativa, ai sensi dell’articolo 87 del decreto legge n. 18/2020.
In considerazione di ciò il Viminale ritiene necessario ed utile delineare
la nuova procedura di estrazione per uniformare le attività delle
Prefetture, Ciò al fine di garantire, fino alla cessazione dell’emergenza,
criteri di trasparenza, pubblicità e tracciabilità anche nelle operazioni
svolte attraverso il lavoro agile. Pertanto, ciascuna Prefettura, una volta
ricevuta la richiesta dell’ente locale per l’effettuazione dell’estrazione
dei revisori, è invitata a:
• dare notizia sul proprio sito internet del giorno e orario
previsto per l’estrazione, precisando che le operazioni di sorteggio non
potranno avvenire in seduta pubblica ma che saranno effettuate da remoto
garantendo apposito collegamento video tra operatore, Prefetto o suo
delegato ed ente locale e inserimento in tempo reale dell’esito del
sorteggio nel sito della Direzione Centrale della Finanza locale;
• inviare la stessa comunicazione all’ente locale il quale potrà
richiedere di essere collegato in video fornendo, almeno il giorno prima,
apposito contatto;
• evidenziare che viene garantita la pubblicità e la trasparenza
dell’attività amministrativa attraverso il contestuale aggiornamento
dell’apposita sezione del sito internet dei Revisori degli Enti locali di
cui al
seguente link (20.04.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
dubbi delle amministrazioni nell'applicazione delle norme antipandemia.
Nella situazione emergenziale in cui ci troviamo oltre all’applicazione
delle norme straordinarie adottate dal governo con i poteri legislativi
conferitigli dalla Costituzione, in presenza dei presupposti straordinari di
necessità ed urgenza, immediatamente vigenti, in attesa della conversione in
legge, si presentano agli operatori problematiche che comunque devono essere
affrontate non essendovi alcuna moratoria degli atti di gestione del
rapporto di lavoro. Inoltre, in tema di utilizzo delle ferie permangono
ancora dubbi da parte delle amministrazioni.
Di seguito vengono affrontate
due problematiche molto diverse tra loro ma tutte riconducibili alla
gestione del rapporto di lavoro nelle amministrazioni pubbliche.
Un dipendente transitato in Camera di Commercio con
mobilità volontaria da ACI PRA (EPNE) ha diritto a mantenere con assegno
riassorbibile l'indennità di ente che percepiva presso il PRA, tenuto conto
che questa è stata definita dall'ARAN come fissa e ricorrente seppur
finanziata con le risorse decentrate?
Vale il divieto di reformatio in peius?
In relazione al quesito posto, si riscontra come segue.
Il sistema di
riferimento normativo allo stato vigente depone, inequivocabilmente, per il
definitivo superamento, con effetti dal 01.01.2014, del principio del
divieto di reformatio in pejus dettato, nell’ambito del pubblico impiego,
dal previgente ordinamento che regolava la specifica materia.
L’art. 1,
comma 458, legge 147/2013 (legge finanziari per l’anno 2014), infatti, ha
espressamente abrogato, dalla data di cui sopra, le disposizioni normative
che lo regolavano, statuendo, espressamente e lapidariamente, che l'articolo
202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10.01.1957, n. 3, e l'articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24.12.1993, n. 537, sono abrogati.
Le disposizioni che vengono così elise dall’ordinamento pubblico
prescrivevano, a loro volta, che, nel caso di passaggio di carriera presso
la stessa o diversa amministrazione, agli impiegati con stipendio superiore
a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale,
utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il
nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la
progressione di carriera, anche se semplicemente economica (cit. art. 202),
nonché che, nei casi di passaggio di carriera di cui al predetto art. 202 ed
alle altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione
pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito
un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile,
pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in
godimento all'atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione,
fermo restando che tale assegno personale non è cumulabile con indennità
fisse e continuative, anche se non pensionabili, spettanti nella nuova
posizione, salvo che per la parte eventualmente eccedente.
Come si vede, dunque, il precedente regime era volto a preservare, in capo
al dipendente trasferito da una pubblica amministrazione ad altro ente
pubblico, il maturato economico conseguito presso l’amministrazione di
provenienza, ove più favorevole, considerato in termini di componenti
quiescibili, in particolare del trattamento fondamentale (trattamento
economico contrattuale tabellare ed altri elementi di composizione del
trattamento economico fondamentale, come la R.I.A., il maturato economico
differenziale, l’I.I.S. etc.), e di altre componenti che, ancorché
riconducibili al trattamento economico accessorio, presentassero le
caratteristiche della fissità e continuità erogativa, secondo le diverse
previsioni dei sistemi contrattuali nazionali in vigore, alla stregua di
elementi retributivi strettamente correlati al ruolo ed alla posizione
giuridica ricoperta dal lavoratore interessato, nonché caratterizzanti gli
stessi.
A seguito dell’elisione del predetto principio nel lavoro pubblico
privatizzato, pertanto, è stato, nel tempo, inaugurato un nuovo e diverso
principio regolatore, trasfuso nell’ambito del testo unico sul pubblico
impiego mediante la previsione di cui all’art. 30, comma 2-quinquies, Dlgs
165/2001, il quale, introdotto dall'art. 16, comma 1, lett. c), legge
246/2005, ha esplicitamente statuito che, salvo diversa previsione, a
seguito dell'iscrizione nel ruolo dell'amministrazione di destinazione, al
dipendente trasferito per mobilità si applica esclusivamente il trattamento
giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti
collettivi vigenti nel comparto della stessa amministrazione.
Tale principio, pertanto, non pare dare adito ad alcun dubbio circa le
modalità di riconoscimento economico al dipendente transitato, per cessione
contrattuale, alle dipendente di altra amministrazione pubblica, atteso che
la norma dispone testualmente che, allo stesso, si applica esclusivamente
sia il trattamento economico fondamentale -attraverso l’applicazione delle
previsioni dettate dal Dpcm 26.06.2015 in materia di definizione delle
tabelle di equiparazione fra i livelli d’inquadramento previsti dai
contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del
personale non dirigenziale– che il trattamento economico accessorio
disciplinato dai contratti collettivi nazionali ed integrativi di lavoro
vigenti nel comparto contrattuale cui è ascritta l’amministrazione di
destinazione.
Alla luce di tale criterio applicativo, pertanto, si ritiene
che, non potendosi più invocare l’abrogato principio del divieto di reformatio in pejus, al lavoratore pubblico transitato presso altra
amministrazione pubblica non possa essere applicato che il regime economico
e giuridico prescritto dal sistema contrattuale collettivo complessivamente
operante presso l’ente cessionario, non potendosi conservare e riconoscere,
dunque, assegni personali finalizzati all’osservanza del superato principio
garantista.
Ringraziando anticipatamente, chiedo se, per poter
attivare l'esenzione dal lavoro prevista dal Governo, nel conteggio delle
ferie pregresse sono comprese anche le giornate maturate da gennaio a marzo
2020.
Con riferimento al quesito posto, la norma di riferimento, ancorché non
indicata, si ritiene sia individuabile nell’art. 87, comma 3, Dl 18/2020, il
quale testualmente recita: "3. Qualora non sia possibile ricorrere al lavoro
agile, anche nella forma semplificata di cui al comma 1, lett. b), le
amministrazioni utilizzano gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo,
della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto
della contrattazione collettiva. Esperite tali possibilità le
amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal
servizio. Il periodo di esenzione dal servizio costituisce servizio prestato
a tutti gli effetti di legge e l'amministrazione non corrisponde l'indennità
sostitutiva di mensa, ove prevista.”.
Tale prescrizione, com’è evidente, si
inserisce nell’ambito delle diverse misure d’urgenza varate dal Governo per
contrastare la diffusione pandemica, con la chiara finalità di scongiurare
spostamenti, sul territorio, di personale dipendente dell’amministrazione
pubblica, in ragione del contenimento del rischio di trasmissione virale
scatenata dal COVID-19.
Tenuto conto, pertanto, della logica dispositiva cui è orientata la norma,
si è dell’avviso per il quale il ricorso all’esenzione lavorativa dei
dipendenti del settore pubblico costituisca estrema ratio successiva
all’impossibilità di applicazione degli altri istituti indicati dalla norma,
ovvero, nell’ordine richiamato dalla predetta statuizione a titolo non
esaustivo, il ricorso al lavoro agile, l’utilizzo delle ferie pregresse,
l’applicazione di congedo, l’utilizzo della banca-ore, l’attuazione di
processi rotativi e di altri istituti aventi la stessa portata, ovvero
consentire, al dipendente, l’assenza giustificata e retribuita dal lavoro.
In tale quadro prescritto, pertanto, la qualificazione di “pregresse”
riferito alle ferie pare assumere un valore meramente ordinatorio, in
termini di priorità di fruizione dell’istituto, in modo tale che,
prioritariamente, dovranno essere goduti prima i giorni di ferie in giacenza
maturati con riferimento all’anno o, in taluni casi, agli anni precedenti,
per poi fruire, laddove non sussista la possibilità di utilizzare altri
istituti giustificativi e retribuiti di assenza dal lavoro, di eventuali
giorni maturati nel corso del corrente anno sino al momento di fruizione
degli stessi, prima di far ricorso all’esenzione lavorativa prevista, come
visto, dal citato art. 87, comma 3, alla stregua di ultima ipotesi solutiva
da impiegare, attesi gli oneri che tale situazione è in grado di generare,
posto che, in tale stato, la retribuzione continua ad essere erogata al
lavoratore pur in costanza di assenza della controprestazione lavorativa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
20.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
problemi della PA nella gestione delle norme emergenziali.
Non si ferma la pioggia di questioni e di problemi che le amministrazioni
pubbliche stanno affrontando sulla trincea dell’attuazione pratica delle
norme di emergenza che sono state adottate dal Governo dall’inizio della
pandemia.
In effetti, l’urgenza di assumere provvedimenti di contrasto alla
diffusione virale che ha investito il Paese, ha generato una normazione
affastellata su due assetti di gestione, almeno a livello centrale, ovvero i
provvedimenti d’urgenza (nella versione del decreto-legge) e le norme attuative (nella forma del Dpcm), cui si aggiungono i provvedimenti dei
Presidenti delle Regioni, le ordinanze delle Autorità locali sanitarie, i
provvedimenti della Protezione Civile e le circolari, le direttive e gli
atti di indirizzo assunte da diversi interlocutori istituzionali.
Il tutto
condito da dubbi ed incertezze, come dimostrano le richieste di aiuto che
incessantemente pervengono e di cui i seguenti esempi sono rappresentazione
emblematica.
L'art. 23 comma 1, Dl 18/2020 stabilisce che "… i
genitori lavoratori dipendenti del settore privato hanno diritto a fruire,
ai sensi dei commi 9 e 10, per i figli di età non superiore ai 12 anni,
fatto salvo quanto previsto al comma 5, di uno specifico congedo, per il
quale è riconosciuta una indennità pari al 50 per cento della retribuzione
..."; il comma 6 dello stesso articolo prevede che "... i genitori
lavoratori dipendenti del settore privato con figli minori, di età compresa
tra i 12 e i 16 anni... hanno diritto di astenersi dal lavoro per il periodo
di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività
didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, senza corresponsione di
indennità né riconoscimento di contribuzione figurativa ...”; l'art. 25 poi
estende tali provvedimenti anche ai pubblici dipendenti.
Chiedo: un genitore
con un figlio nato il 18.10.2007, quindi 12 anni e 5 mesi di età, può
presentare una richiesta di congedo ai sensi del comma 1?
Con riferimento al quesito posto, la norma di riferimento, costituita
dall’art. 23, comma 1, Dl 17.3.2020, la cui previsione è stata estesa, ai
lavoratori del settore pubblico, dal successivo art. 25, comma 1, dello
stesso Dl. La disposizione esaminata prevede, espressamente, che “1. Per
l’anno 2020 a decorrere dal 5 marzo, in conseguenza dei provvedimenti di
sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche
nelle scuole di ogni ordine e grado, di cui al Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 4 marzo 2020, e per un periodo continuativo o
frazionato comunque non superiore a quindici giorni, i genitori lavoratori
dipendenti del settore privato hanno diritto a fruire, ai sensi dei commi 9
e 10, per i figli di età non superiore ai 12 anni, fatto salvo quanto
previsto al comma 5, di uno specifico congedo, per il quale è riconosciuta
una indennità pari al 50 per cento della retribuzione, (…)”.
Ciò richiamato,
pertanto, si può osservare come la disposizione in commento, quale
condizione ai fini della legittima fruizione del beneficio in parola, faccia
espresso riferimento alla presenza di figli di età non superiore ai 12 anni,
per cui, stante il tenore letterale della norma, l’istituto non è
applicabile laddove il minore abbia già compiuto il limite di età previsto
dalla disposizione di che trattasi al momento della richiesta della relativa
fruizione. Tale affermazione discende da un principio generale elaborato
dalla giurisprudenza amministrativa, ai sensi della quale quando la legge
ricollega il verificarsi di determinati effetti al compimento di una data
età, questi effetti decorrono dal giorno successivo a quello del relativo
compleanno (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 1353/1995).
Occorre
considerare, peraltro, che il principio elaborato dalla Giurisdizione
amministrativa ha trovato pieno accoglimento nella pronuncia dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 21/2011, intervenuta dopo diversi
contrasti giurisprudenziali in materia di superamento dei limiti di età nei
concorsi pubblici.
Di diverso avviso, infatti, altra giurisprudenza dello stesso Organo
giurisdizionale che, a più riprese, ha accolto il diverso principio per il
quale, testualmente: "Nella vicenda in esame, il bando non effettua alcun
riferimento puntuale al “compimento” del trentaseiesimo anno, ma richiama il
diverso concetto dell’età “non superiore a 36 anni”. Ora, posto che non
rilevano, in questo contesto, per computare l’età, le frazioni di anni,
calcolate in giorni o in mesi, è evidente che, dopo il trentaseiesimo
compleanno, l’interessato ha ancora un’età di 36 anni e la conserva fino al
momento in cui “compie” 37 anni. Solo a partire da tale data, infatti,
l’interessato acquista un’età pari a 37 anni, superiore a quella di 36. Il
principio è affermato, fra le tante pronunce cha hanno affrontato
specificamente l’argomento, anche da Cassazione civile, sez. lav., 26.05.2004, n. 10169, secondo la quale il decreto legislativo n. 280 del 1997, che
prevede la partecipazione ad un progetto di borsa di lavoro per i giovani di
età compresa tra i 21 e i 32 anni, requisito che deve essere posseduto alla
data del 31.10.1997, non esclude dalla fruibilità del beneficio i
soggetti che, a quella data, abbiano già compiuto il trentaduesimo anno di
età, purché non abbiano ancora compiuto il trentatreesimo anno, rimanendo
trascurabili, ai fini del computo, le frazioni di anno (…)” (Consiglio di
Stato, Sez. V, 05.03.2010, n. 1284).
Accedendo all’orientamento assunto
dalla richiamata Adunanza Plenaria del Supremo consesso amministrativo,
pertanto, nel caso di specie la richiedente non potrà fruire del beneficio
concesso dalla previsione normativa in questione per carenza dei relativi
presupposti applicativi.
Con riferimento all’emergenza COVID-19, formulo il
seguente quesito. Il Comune di … non ha ancora approvato il bilancio di
previsione 2020-2022.
È stato approvato il fabbisogno del personale
2020-2022, dove sono previste le sostituzioni di due unità di personale che
durante l’anno 2020 cessano dal servizio.
In caso di conclusione positiva
delle procedure di mobilità per la copertura dei suddetti posti, anche in
assenza del bilancio approvato, è possibile procedere al trasferimento del
personale dagli enti di appartenenza, una volta acquisiti i nulla osta
definitivi?
Con riferimento al quesito posto, occorre, preliminarmente, inquadrare il
contesto giuridico nell’ambito del quale l’amministrazione sta operando.
L’ente, secondo quanto rappresentato nel quesito, intende procedere
all’acquisizione di personale mediante l’istituto della cessione
contrattuale (mobilità esterna) da parte di altra amministrazione (art. 30,
Dlgs 165/2001), trovandosi, nel contempo, in regime di esercizio
provvisorio, non avendo provveduto, nei termini di legge, all’approvazione
del bilancio previsionale.
Tale esercizio, infatti, è stato recentemente assentito con Dm 28.2.2020 del
Ministero dell’Interno che ha provveduto a differire ulteriormente il
termine di approvazione del bilancio di previsione delle amministrazioni
locali per il triennio 2020-2022 dal 31.03.2020 al 30.04.2020.
Trovandosi, pertanto, in esercizio provvisorio, l’amministrazione è tenuta
all’osservanza delle disposizioni normative che regolano l’attività della
stessa in questo particolare regime, con specifico riferimento, tra le
altre, alle prescrizioni di cui all’art. 163, comma 5, Dlgs 267/2000, il
quale vincola, espressamente, gli enti locali, nel corso dell’esercizio
provvisorio, alla possibilità d’impegno mensile delle spese correnti
relative a ciascun programma (oltre a quelle eventualmente correlate ed
urgenti), per importi non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del
secondo esercizio del bilancio di previsione deliberato l'anno precedente,
unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi precedenti,
ridotti delle somme già impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo
accantonato al fondo pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese: a)
spese tassativamente regolate dalla legge; b) spese non suscettibili di
pagamento frazionato in dodicesimi e c) spese a carattere continuativo
necessarie per garantire il mantenimento del livello qualitativo e
quantitativo dei servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei
relativi contratti.
Come si può desumere dalla chiara prescrizione legislativa, pertanto, non
pare che la spesa corrente correlata a nuove acquisizioni di personale,
anche mediante il trasferimento dello stesso da altra amministrazione
pubblica per cessione di contratto, possa rientrare nelle fattispecie
derogatorie indicate dalla richiamata statuizione di legge, non trattandosi,
infatti, di spese imposte da norme di legge, ma facoltativamente generate
dall’ente, né di spese non frazionabili in dodicesimi, in quanto, proprio
per loro natura, certamente scindibili mensilmente, né, infine, di spese
finalizzate al mantenimento dei livelli quali-quantitativi dei servizi
esistenti, in quanto non destinate all’acquisizione di servizi, bensì
impiegate per l’assunzione di personale dipendente.
Si ritiene, pertanto, che, in assenza del bilancio previsionale approvato ed
in conseguente regime di esercizio provvisorio, l’amministrazione non possa
procedere all’acquisizione di risorse umane nei termini rappresentati nel
quesito posto.
Tale posizione, peraltro, pare fatta propria dalla recente
espressione di conforme parere, nella specifica materia, reso dalla Corte
dei Conti, Sezione regionale di Controllo per La Campania, con la delibera
n. 28/2020/PAR del 19.03.2020, della quale, per la rilevanza che attiene al
quesito posto, si riportano i passaggi più rilevanti, come di seguito
riferiti: “La questione all’esame concerne, come si diceva, la possibilità
di procedere alla assunzione di unità di personale in regime di esercizio
provvisorio, autorizzato, da ultimo, con Dm 28/02/2020 del Ministero
dell'interno che ha ulteriormente differito, rispetto a quanto disposto con
il precedente decreto del 13.12.2019, il termine per la deliberazione
del bilancio di previsione 2020/2022 degli enti locali dal 31.03.2020 al
30.04.2020.
Va innanzitutto premesso che in un bilancio di tipo finanziario, quale
quello degli enti locali, gli stanziamenti di spesa del bilancio di
previsione, come è noto, hanno natura autorizzatoria, costituendo un limite
agli impegni ed ai pagamenti con la sola esclusione delle previsioni
riguardanti i rimborsi delle anticipazioni di tesoreria e i servizi per
conto terzi.
Ne discende che, laddove non risulti approvato, entro il 31.12
dell’anno precedente, il bilancio di previsione per l’anno in corso, il
legislatore, onde evitare la paralisi dell’ente, ha comunque consentito una
gestione “provvisoria” dell’esercizio, ma, proprio in quanto tale, nel
rispetto di predeterminati limiti, a garanzia degli equilibri di bilancio
dell’ente e riassunti nella disciplina dettata dall’art. 163, Dlgs 267/2000
(d’ora innanzi Tuel) e dall’art. 43 Dlgs 118/2011 e relativi principi
contabili. (…) Rileva, viceversa, l’esercizio provvisorio allorquando venga
espressamente autorizzato con legge o con decreto del Ministro dell'interno
che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 151, primo comma, Tuel,
differisce il termine di approvazione del bilancio, d'intesa con il Ministro
dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed
autonomia locale, in presenza di motivate esigenze. (…)
Nello specifico caso, infatti, dell’“esercizio provvisorio”, cui si
riferisce la richiesta di parere all’esame, gli enti possono impegnare solo
spese correnti (oltre quelle correlate a partite di giro). Per la spesa in
conto capitale, possono essere impegnate solo somme per lavori pubblici di
somma urgenza o altri interventi di somma urgenza (cfr. art. 163, comma 3,
Tuel). Il comma 5 individua, poi, ulteriori limiti, imponendo che gli enti
possano impegnare mensilmente, per ciascun programma riferito alle spese di
cui al precedente comma 3, importi non superiori ad un dodicesimo degli
stanziamenti del secondo esercizio del bilancio di previsione deliberato
l'anno precedente (unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei
mesi precedenti), ridotti delle somme già impegnate negli esercizi
precedenti e dell'importo accantonato al fondo pluriennale vincolato.
Prevede, poi, alcune eccezioni, tassativamente elencate, al suddetto limite
degli impegni per dodicesimi. (…) Nel testo, invece, novellato, in vigore
dal 1 gennaio 2015, ha mantenuto ferma la stessa limitazione, nel quadro,
però, di una più complessa regolamentazione dell’esercizio e della gestione
provvisoria, affidata anche al principio contabile applicato concernente la
contabilità finanziaria ed ha, inoltre, implementato i casi che fanno
eccezioni al suddetto limite dei dodicesimi, individuandoli nelle spese: a)
tassativamente regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento
frazionato in dodicesimi; c) a carattere continuativo necessarie per
garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi
esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti. (…)
La suddetta disciplina è sostanzialmente confermata anche dal principio
contabile applicato n. 8, di cui all’ Allegato n. 4/2 al Dlgs 118/2011, che
al punto 8.6, più in particolare, ribadisce: ”nel corso dell'esercizio
provvisorio: a) sono impegnate nel limite dei dodicesimi le spese che, per
loro natura, possono essere pagate in dodicesimi; b) sono impegnate, al di
fuori dei limiti dei dodicesimi, le spese tassativamente regolate dalla
legge, quelle che, per loro natura, non possono essere pagate frazionandole
in dodicesimi, e le spese a carattere continuativo necessarie per garantire
il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi
esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti”.
Alla
luce di tutto quanto sopra e, soprattutto, della ratio posta a fondamento
della disciplina dell’esercizio provvisorio, finalizzata a garantire, in
tale “anomala” fase della gestione dell’esercizio, il rispetto degli
equilibri finanziari, le eccezioni al prescritto limite dei dodicesimi vanno
intese in senso tassativo, con la conseguente impossibilità di estenderle
oltre la previsione di legge. (…)
Ne deriva, dunque, la impossibilità di assumere spese, in costanza di
esercizio provvisorio, al di là del più volte richiamato limite dei
dodicesimi, con la sola eccezione dei casi, tassativi, elencati dal predetto
art. 163, comma 5, tra i quali non risulta annoverabile la tipologia di spesa
di cui al parere in esame, non essendo la stessa riconducibile: alla
eccezione di cui alla lettera a) del comma in esame, spese tassativamente
regolate dalla legge, non trattandosi di una assunzione imposta ex lege, ma
programmata dall’ente medesimo; alla eccezione di cui alla lettera b), non
suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi, attesa la pacifica
frazionabilità in dodicesimi delle spese di personale; né, infine, alla
eccezione di cui alla lettera c), spese a carattere continuativo necessarie
per garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei
servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi
contratti, riferendosi, siffatta eccezione, al caso di servizi, oggetto di
contratti in scadenza, tra i quali non rileva il contratto di lavoro
subordinato.”.
A tal riguardo, poi, si precisa che la Sezione regionale di Controllo della
Corte dei Conti della Campania ha recentemente fornito un ulteriore
chiarimento sulla posizione così assunta con la riportata delibera n.
28/2020, specificando che eventuali assunzioni di personale, in pendenza di
esercizio provvisorio, potranno essere sostenute solo se rientranti nel
limite dei dodicesimi, conformemente a quanto si evince a pag. 6 della
delibera stessa. Oltre tale limite, conclude la Sezione, possono essere
sostenute le sole spese tassativamente elencate dall'art. 163, comma 5, del
Tuel, tra le quali non rientrano le spese in questione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
16.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Limite P.O. in caso di convenzione.
Domanda
Come è possibile determinare il “tetto” per le posizioni
organizzative in caso di convenzione?
Risposta
Nel caso di gestioni associate, come da orientamento ormai consolidato della
giurisprudenza contabile, la quota di retribuzione di posizione e di
risultato, “rimborsata” dai comuni, non va calcolata nel “tetto di
spesa” dell’ente “A”, mentre invece dovrà essere calcolata dai comuni “utilizzatori”
nel proprio tetto, riferito all’anno 2016, per quanto riguarda il calcolo
della spesa del salario accessorio, ai fini del rispetto dell’art. 23, comma
2, del d.lgs. 75/2017.
Si specifica, infine, che la quota rimborsata va conteggiata come aggregato
di spesa di personale e non va conteggiata come tetto per il lavoro
flessibile, ex art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
Occorre guardare quindi il caso concreto e le clausole della convenzione per
il riparto delle spese. Se nulla è stato previsto occorre verificare quanto
ricompreso dall’altro ente, partecipante alla gestione associata, prima che
la Giunta assuma deliberazione ad hoc, in modo da evitare che
entrambi gli enti ricomprendano le somme di cui si tratta, alzando in modo
fittizio i limiti di contenimento riferiti al salario accessorio, ormai
esistenti dal 2010.
In merito all’importo del salario accessorio delle posizioni organizzative
da considerare per il rispetto del limite di cui all’art. 23, comma 2, del
D.Lgs. n. 75/2017, è ormai consolidato l’orientamento dei magistrati
contabili nel ritenere che per le posizioni organizzative, in enti privi di
dirigenza, il limite di spesa del trattamento accessorio per l’anno 2016,
deve essere quello rappresentato dall’ammontare delle risorse stanziate in
bilancio nel medesimo esercizio finanziario.
Infatti, dopo la posizione iniziale assunta dalla Corte dei conti della
Sicilia con la deliberazione n. 172/2018 anche i magistrati della Corte dei
conti della Lombardia, con il parere n. 20/2019 hanno ribadito che «il
valore della spesa da considerare ai fini del rispetto del tetto per il
trattamento accessorio delle posizioni organizzative nei Comuni privi di
dirigenza e quello stanziato direttamente in bilancio sempre che il valore
della stessa corrisponda al valore complessivo contrattualmente previsto da
attribuire ai dipendenti titolari delle posizioni organizzative» (16.04.2020
- link a www.publika.it). |
APPALTI:
Emerganza COVID-19 e norme in materia di appalti.
Domanda
Quali sono le principali disposizioni che riguardano l’aggiudicazione di
appalti pubblici di interesse per gli enti locali in questo periodo di
contenimento del COVID-19?
Risposta
Sono moltissime le misure adottate nell’interesse degli enti locali, e non
solo, connesse all’emergenza epidemiologica, incidenti sui differenti
ambiti, tra i quali, per citarne alcuni, la tutela della salute, il sostegno
alle famiglie, la finanza e i tributi locali, la gestione del personale e
degli organi collegiali, la giustizia, e ovviamente anche gli appalti.
Rispetto a quest’ultimo settore è possibile ritenere che la disciplina
prevista sia a doppio binario, uno c.d. ordinario, soggetto alla disciplina
del d.l. 17.03.2020 c.d. “Decreto cura Italia”, ed in particolare
dell’art. 103, di sospensione dei termini dei procedimenti amministrativi,
nonché uno emergenziale e derogatorio di cui all’ordinanza della Presidenza
del Consiglio dei Ministri dipartimento protezione civile del 25.03.2020.
Si elencano di seguito le principali disposizioni che impattano sugli
appalti pubblici:
• Comunicato del Presidente dell’ANAC del 04.03.2020 “Qualificazione
per l’esecuzione di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 euro”,
che ammette per tutti i contratti di attestazione interessati aventi
scadenza entro il 31.03.2020 la sospensione dell’istruttoria fino ad un
massimo di 150 giorni in luogo dei 90 (novanta) previsti dall’art. 76, co.
3, del d.p.r. 207/2010;
• l’art. 103 del d.l. 17.03.2020, co. 1: “Ai fini del computo
dei termini ordinatori e perentori, propedeutici, endoprocedimentali, finali
ed esecutivi, relativo allo svolgimento di procedimenti amministrativi su
istanza di parte o d’ufficio, pendenti alla data del 23.02.2020 o iniziati
successivamente a tale data, non si tiene conto del periodo compreso tra la
medesima data e quella del 15.04.2020”.
Il MIT con la circolare del 23.03.2020, precisa che la citata previsione è
applicabile con riferimento ai termini per la presentazione delle domande
e/o offerte, ai termini per l’effettuazione di sopralluoghi e per il
soccorso istruttorio. Pertanto di fronte a gare già bandite è possibile
disporre la sospensione, oppure prorogare i termini di scadenza. Il termine
del 15.04, peraltro, è stato prorogato al 15.05.2020, con l’entrata in
vigore dell’art. 37 del d.l. 23/2020;
• l’art. 35, co. 18, del codice dei contratti, come modificato
dall’art. 91, co. 2, del decreto cura Italia, che prevede l’erogazione
dell’anticipazione, anche nel caso di consegna in via d’urgenza, ai sensi
dell’art. 32, co. 8, del d.lgs. 50/2016;
• L’acquisto di beni e servizi informatici per la diffusione del
lavoro agile e di servizi di rete ai sensi dell’art. 75 del decreto cura
Italia, mediante una procedura negoziata senza previa pubblicazione di bando
di cui all’art. 63, co. 2, lett. c), previa selezione tra almeno 4 operatori
(scelti discrezionalmente), di cui almeno una start-up innovativa o una
piccola o media impresa innovativa;
• Delibera ANAC n. 268 del 19.03.2020 di sospensione dei termini
dei procedimenti di competenza dell’Autorità, tra cui in particolare quelli
di perfezionamento del CIG, che passa dai 90 giorni ai 150 giorni;
• l’art. 4, co. 1, dell’ordinanza n. 25.03.2020 che a fronte di
appalti di forniture e servizi finalizzati all’attuazione dei provvedimenti
emergenziali e comunque volti ad assicurare la gestione di ogni situazione
connessa all’emergenza epidemiologica, consente la deroga ai tempi e alle
modalità di pubblicazione dei bandi di cui agli artt. 60, 61, 72, 73 e 74
del codice dei contratti pubblici;
• Comunicato INPS n. 1374 del 25.03.2020 che precisa che i
documenti attestanti la regolarità contributiva denominati Durc On Line che
riportano nel campo “Scadenza Validità” una data compresa tra il
31.01.2020 e il 15.04.2020 conservano la loro validità fino al 15.06.2020
come previsto dall’articolo 103, comma 2, del decreto- legge 17.03.2020, n.
18;
• Delibera ANAC n. 289 del 01.04.2020 di richiesta al Governo di
adozione di un intervento normativo che disponga l’esonero dal versamento
della contribuzione prevista per tutte le procedure di gara avviate
dall’entrata in vigore e fino al 31.12.2020 (15.04.2020 - link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ancora
quesiti dalle amministrazioni sulle norme emergenziali.
I quesiti di fronte ai quali si trovano le amministrazioni pubbliche, in
questa fase emergenziale funzionale ad impedire la proliferazione del virus
COVID-19, riguardano aspetti particolari, sia relativi all’utilizzo degli
istituti specificamente introdotti dalla normativa emergenziale, sia
attinenti alle modalità di utilizzo di istituti già presenti
nell’ordinamento legale e contrattuale, ma che dispiegano o continuano a
spiegare i loro effetti nell’attuale contesto.
Di seguito alcuni dei quesiti
posti dalle amministrazioni rispetto ai quali vengono fornite puntuali ed
argomentate risposte.
Con riferimento ai 15 giorni di congedo per i genitori
di figli fino a 12 anni introdotto dal Dl 18/2020 si chiede conferma se il
richiedente deve attestare per poterne beneficiare che il coniuge, fra le
altre cose, non è collocato il lavoro agile e che non è lavoratore autonomo.
Con riferimento al quesito posto, il sistema normativo di riferimento è dato
dalle disposizioni recate dagli artt. 23, commi 1 e 4, e 25, comma 1, Dl
17.03.2020, n. 18.
A mente di tali prescrizioni normative, infatti, per l’anno 2020, a
decorrere dal 5 marzo, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei
servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di
ogni ordine e grado, di cui al Dpcm 04.03.2020, e per un periodo
continuativo o frazionato comunque non superiore a quindici giorni, i
genitori lavoratori dipendenti del settore pubblico, per effetto
dell’estensione applicativa operata dall’art. 25, comma 1, dello stesso
decreto-legge, hanno diritto a fruire, per i figli di età non superiore ai
12 anni, di uno specifico congedo, per il quale è riconosciuta un'indennità
pari al 50 per cento della retribuzione. Per il godimento di tale istituto,
poi, il quadro giuridico sopra indicato prevede, quali condizioni di
utilizzo, che nel nucleo familiare del lavoratore interessato, non vi sia
altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito, in caso di
sospensione o cessazione dell’attività lavorativa, o altro genitore
disoccupato o non lavoratore, ovvero che uno o entrambi i lavoratori non
stiano già fruendo di analoghi benefici.
Ciò premesso, pertanto, ai sensi
dell’art. 25, comma 2, del ridetto Dl 18/2020, è rimessa alla competenza
dell’amministrazione pubblica con la quale intercorre il rapporto di lavoro
del lavoratore interessato, l’indicazione delle modalità di fruizione del
congedo di che trattasi, la quale, nell’esercizio delle proprie facoltà datoriali correlate alla gestione del rapporto di lavoro, potrà pretendere,
ai fini della concessione del beneficio, che il dipendente produca apposita
dichiarazione sostitutiva di atto notorio, ai sensi dell’articolo 47, Dpr
445/2000, attraverso la quale attestare la sussistenza delle condizioni
imposte dalla legge per il riconoscimento applicativo dell’istituto, in
particolare che:
1) nel proprio nucleo familiare non sia presente altro genitore
beneficiario di strumenti di sostegno al reddito, in caso di sospensione o
cessazione dell’attività lavorativa;
2) nel proprio nucleo familiare non sia presente altro genitore
disoccupato o non lavoratore;
3) uno o entrambi i genitori lavoratori non stiano già fruendo di
analoghi benefici.
Dalla lettura piana delle disposizioni non sembra vi siano ostacoli
all’utilizzo del congedo nell’ipotesi in cui l’altro genitore continui a
lavorare in modalità agile; in quest’ultimo caso, infatti, il lavoratore
prosegue il proprio impegno nell’attività lavorativa, sebbene da remoto, non
rientrando, quindi, nella nozione legale di “genitore beneficiario di
strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione
dell’attività lavorativa o altro genitore disoccupato o non lavoratore”,
uniche ipotesi che impedirebbero l’accesso a tale forma di congedo.
D’altra
parte tale posizione pare cogliere, al meglio, anche la ratio normativa che,
in vero, appare chiaramente finalizzata ad assicurare un adeguato ed
opportuno apporto familiare ai minori che, in conseguenza dei provvedimenti
di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività
didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, si trovano a dover
permanere, loro malgrado, presso l’abitazione ed ai quali, pertanto, il
genitore impegnato al lavoro, ancorché in regime di smart working, non
sarebbe in grado di fornire un’adeguata assistenza e cura.
Nel ringraziare della disponibilità, chiedo se il DL n.
18/2020 ha sospeso i procedimenti disciplinari attivati dalle
amministrazioni pubbliche e, in tal caso, come vanno applicate queste norme?
Cosa viene esattamente sospeso del procedimento disciplinare? Tutti i
termini o solo alcuni di essi? E, in questo caso, quali sono i termini
sospesi?
L’art. 103, comma 5, di tale strumento d’urgenza, infatti, statuisce, a
chiare lettere, che i termini dei procedimenti disciplinari del personale
delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, Dlgs
165/2001, pendenti alla data del 23.02.2020 o iniziati successivamente
a tale data, sono sospesi fino alla data del 15.04.2020.
La norma ha
un’indubbia rilevanza per l’economia procedimentale correlata alla gestione
dei procedimenti disciplinari da parte del datore di lavoro pubblico, atteso
che chiarisce, opportunamente, le modalità applicative della sospensione dei
termini dettate dall’art. 103 del decreto-legge, che regola tale sospensione
temporale per i procedimenti amministrativi, nell’ambito del procedimento
disciplinare, il quale, costituendo profilo di gestione del rapporto di
lavoro, non presenta il carattere giuridico tipico del procedimento
amministrativo, posto che costituisce esercizio di potere datoriale di
natura privatistica e non pubblicistico- amministrativa.
La norma sospende i
termini dei procedimenti disciplinari pendenti alla data del 23.02.2020 o quelli iniziati successivamente a tale data, ma non i procedimenti da
attivare nei termini di sospensione, per cui sembra lasciare immutato il
termine decadenziale di trenta giorni per la contestazione dell’addebito; si
deve, quindi, ritenere che il procedimento disciplinare, in presenza di
un’adeguata segnalazione, debba, comunque, essere avviato, per scongiurare
il rischio della decadenza, fermo restando che anche i termini di
conclusione, per i procedimenti interessati dalla norma, sono sospesi sino
alla stessa data del 15 aprile p.v... Sarebbe stato utile, viceversa,
considerata la situazione straordinaria in cui si è venuto a trovare il
Paese, prevedere anche la sospensione del temine di decadenza previsto per
la contestazione degli addebiti.
Atteso il carattere derogatorio ed eccezionale di tali disposizioni legali,
anche in ragione della particolare natura dello strumento straordinario che
ne costituisce veicolo normativo, è da ritenersi che le stesse non possano
essere estese, in applicazione, utilizzando criteri analogici o assimilativi
per attrarre nella loro orbita regolativa fattispecie che non siano
espressamente previste dalla legge, per cui è estraneo alla cornice
prescrittiva di tale dettato ogni percorso che non possa, giuridicamente,
essere ricondotto alla qualificazione di procedimento amministrativo o di
procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 103 in questione, fatte salve
le eccezioni espressamente indicate dal decreto-legge, così come configurate
dal comma del ridetto art. 103.
Non rientrano, conseguentemente, nell’orizzonte attuativo della sospensione
dei termini disciplinata dal Dl 18/2020, tutti quei processi e quelle serie
di azioni che non possano, a rigore, qualificarsi come procedimenti
amministrativi, ovvero come sequenza istantanea o fasica di atti
univocamente preordinati alla produzione di un atto avente natura
pubblicistico-amministrativa, di talché difficilmente potrebbero ricondursi
a tale categoria -in disparte le eventuali previsioni derogatorie indicate
dal ripetuto comma 4 dell’art. 103, che corrobora la portata del principio
generale– tutti gli atti gestionali del rapporto di lavoro, in quanto atti
di carattere datoriale che presentano la natura giuridica di atti di diritto
comune, non annoverabili, pertanto, nel perimetro dei provvedimenti
amministrativi.
In particolare i termini previsti, dall’ordinamento (art.
10, Dlgs 150/2009), per la gestione della filiera delle performance, come i
termini di adozione del piano delle performance e quelli di approvazione
della corrispondente relazione consuntivante, non sembrano sfiorati dalla
previsione normativa sulla sospensione dei termini, anche in ragione della
loro evidente origine ordinatoria, fermo restando che potrebbero essere
considerate attività differibili e, quindi, da far rientrare in quelle da
sospendere, laddove non sia possibile svolgerle in modalità remota.
Non è un caso, infatti, come sopra evidenziato, che correttamente il
legislatore abbia espressamente indicato una fattispecie derogatoria
nell’ambito della gestione privatistica del rapporto di lavoro, come la
disposta sospensione dei termini nell’ambito del procedimento disciplinare.
Tale sospensione, peraltro, alla luce di quanto sopra osservato, incide
esclusivamente sui termini perentori del procedimento disciplinare, come normativamente individuati, successivi al termine di contestazione degli
addebiti e su quello di conclusione del procedimento disciplinare, non
potendo, quindi, produrre effetti espansivi sui termini interni del
procedimento disciplinare (infra-procedimentali) che, infatti, presentano
dichiarato carattere ordinatorio o sollecitatorio, la cui violazione,
quindi, non determina la decadenza del potere di provvedere, ancorché
potrebbe produrre effetti di responsabilità per ritardo od omissione.
La
sospensione dei termini, poi, non determina una nuova decorrenza integrale
degli stessi, effetto proprio dell’interruzione, bensì la ripresa del
decorso del termine a conclusione del periodo temporale di sospensione.
Lavoro presso il Comune di … - Servizio "Risorse Umane".
Con ordinanza della Regione Lazio del 19.03.2020 il Comune di … è stato
dichiarato "zona rossa". Gli uffici comunali, pertanto, sono stati chiusi ed
i dipendenti lavorano in modalità smart working.
Quesito: spetta ai
dipendenti che lavorano in smart working il riconoscimento dei buoni pasto?
Con riferimento al quesito posto, si ritiene che, nella modalità di
esecuzione della prestazione lavorativa mediante il cd. "lavoro agile”, come
anche con la diversa forma del “telelavoro”, non sia ammissibile
l’erogazione di alcuna indennità sostitutiva della mensa o buono pasto, in
quanto, data la particolare forma erogativa della prestazione lavorativa,
che non impone la presenza fisica del dipendente sul posto di lavoro, non
sussistono le ragioni, né i presupposti per il legittimo riconoscimento di
tale istituto il quale, infatti, presuppone, quale condicio sine qua non,
che il lavoratore beneficiario sia presente in servizio, operando in
modalità di presenza fisica sul luogo di lavoro. Non avrebbe, infatti,
alcuna utilità l’erogazione di tale beneficio economico laddove il
dipendente, operando presso la propria sede di attività, normalmente il
luogo di residenza o di domicilio, potesse agevolmente attendere ai normali
processi fisiologici previsti dal ciclo circadiano, tra i quali l'ordinaria
consumazione dei pasti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
15.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ancora
incertezze applicative sulla normativa emergenziale per il rapporto di
lavoro pubblico.
I quesiti posti dalle amministrazioni pubbliche in materia di gestione del
rapporto di lavoro, così come influenzata dalla normativa emergenziale
adottata per impedire la diffusione pandemica del virus COVID-19, riguardano
anche la corretta perimetrazione della predetta normativa d’emergenza.
Insomma, i dubbi riguardano la possibilità che, in un contesto di difficoltà
ad assumere decisioni di riassetto organizzativo, specialmente in quelle
realtà che presentavano criticità già prima di questa fase emergenziale,
possano non essere applicate alcune disposizioni in materia di
incompatibilità o di conflitto di interessi.
Ciò sulla base dell’assunto che
non sarebbe possibile assumere decisioni diverse, attesa le situazioni di
difficoltà rese ancora più palesi dalla realtà emergenziale in atto. Altri
quesiti attengono al corretto utilizzo di alcuni istituti di gestione
ordinaria del rapporto di lavoro nell’attuale contesto emergenziale.
Di
seguito vengono fornite le risposte ad una selezione di quesiti.
In un comune ci sono 6 posizioni dirigenziali e solo due
dirigenti in servizio, tant'è che anche il Segretario è incaricato, in via
eccezionale, della responsabilità di alcuni settori. Non ci sono, al
momento, altre soluzioni organizzative.
In vista di una rimodulazione degli
incarichi, possibile ma non ora, vista la situazione di emergenza, un
dirigente può astenersi dallo svolgimento dell’incarico di direzione della
esecuzione di contratti con una società in house nei confronti della quale
svolge anche il controllo analogo sulla base di una presunta commistione tra
controllore e controllato e, comunque, di conflitto in base al DLgs 39/2013.
Preliminarmente non è chiara quale sia la norma che viene invocata per
rappresentare la presunta incompatibilità, se non il rinvio ad un generico
conflitto tra controllore e controllato e al Dlgs 39/2013. Se il riferimento
è l’art. 9, comma 1, del Dlgs 39/2013, la norma fa riferimento ad eventuali
incarichi assunti dal dirigente nell’ente di diritto privato nei confronti
del quale svolge il controllo analogo.
Nel caso specifico, sia il controllo
analogo che la direzione dell’esecuzione del contratto sono espletati
nell’interesse dell’amministrazione che conferisce l’incarico dirigenziale,
per cui non sembra sia possibile rinvenire, neanche attraverso una
interpretazione analogica, una posizione di potenziale conflitto. Qualora
fosse presente, invece, un aspetto di incompatibilità in base al quale il
dirigente invoca il diritto di astenersi, non sarebbe possibile soprassedere
rispetto all'eventuale profilo di incompatibilità; ciò anche qualora si sia
in presenza di problemi organizzativi, quali l’assenza di altre posizioni
dirigenziali, oppure in considerazione della fase di straordinaria emergenza
che stiamo attraversando.
Infatti, le norme emergenziali non introducono
deroghe espresse al quadro ordinamentale che regola la materia, per cui tali
disposizioni, avendo natura imperativa ed inderogabile, in assenza di norme
che fanno eccezione ai relativi principi, sarebbero da intendersi pienamente
operanti, non ammettendo deroghe.
Come deve essere giustificata nel portale l'attività del
dipendente in modalità agile considerato che ovviamente non può timbrare?
Ciascun dirigente, nel rispetto della disciplina normativa e contrattuale
vigente, deve adottare atti datoriali che disciplinino gli aspetti di tipo
organizzativo ed i profili attinenti al rapporto di lavoro svolto in
modalità agile.
L’esercizio del potere di controllo sulla presenza in
servizio del lavoratore agile, quindi, deve essere regolato con riguardo al
risultato della prestazione, in termini sia qualitativi, che quantitativi,
in relazione alle priorità definite dai dirigenti, i quali eserciteranno il
potere di controllo diretto sui dipendenti smart workers ad essi assegnati,
organizzando, per essi, una programmazione settimanale-quindicinale delle
priorità e, conseguentemente, degli obiettivi lavorativi di breve-medio
periodo da perseguire, esercitando, pertanto, il relativo monitoraggio
dinamico ed il conseguente controllo sullo stato di realizzazione.
Il lavoro agile determina lo svolgimento della prestazione lavorativa
secondo nuove modalità spazio-temporali che non consentono un controllo
della presenza del dipendente sul posto di lavoro, secondo le modalità
classiche previste per la presenza in ufficio.
Siamo di fronte ad un quadro
normativo che richiede, infatti, un cambio culturale e di approccio
all’organizzazione del lavoro il quale presuppone, da parte del dirigente,
una conoscenza dei processi presidiati e dei risultati che tali processi
sono in grado di restituire; solo in questo modo il nuovo paradigma può
prevedere una diversa modalità di verifica della prestazione lavorativa,
ancora fortemente condizionata dall’orario di lavoro e dalla rilevazione
della presenza secondo sistemi automatizzati.
La disciplina datoriale da
attivare deve, quindi, spingersi a dare piena legittimità a tali strumenti e
presuppone che, chi è posto alla direzione di una struttura, sia in grado di
valutare i risultati prodotti dalle risorse umane a disposizione e, per
questo, ovviamente occorre che si conoscano i processi che devono essere
presidiati. Spesso le incertezze applicative ed i ritardi rappresentano il
chiaro sintomo della difficoltà ad individuare ed affidare ai lavoratori
obiettivi lavorativi chiari.
Vi sono alcune amministrazioni, d’altronde, che
consentono l’accesso da remoto all’applicativo di rilevazione delle presenze
al lavoro, attraverso il quale il dipendente è “tenuto” a comunicare che si
trova attivo in servizio in modalità remota; questo approccio è utile ai
fini delle determinazione della posizione giuridica del lavoratore in
ciascuna giornata di lavoro (in servizio, in ferie, in permesso, in congedo,
in recupero, etc.) e dei riflessi che la stessa può presentare sotto il
profilo economico, ma non potrà spingersi a rilevare l’orario di inizio e di
conclusione della prestazione lavorativa, in quanto sarebbe una rilevazione
non controllabile come, invece, avverrebbe con la presenza fisica sul luogo
di lavoro, né, d’altra parte, coglierebbe lo spirito stesso di tale modalità
operativa, finalizzata alla migliore conciliazione dei tempi lavorativi con
quelli familiari.
La misura dei congedi parentali COVID-19 per il pubblico
impiego è di 15 gg?
L'art 25, Dl 18 del 17.03.2020 dice "...per tutto il
periodo della sospensione ivi prevista...": il riferimento è al decreto del
PCM del 4 marzo e quello sospendeva l’attività didattica fino al 15 marzo.
Comunque, da dove si desume la possibilità di fruirne fino alla riapertura
delle scuole?
I congedi possono essere fruiti anche a ore, come per la
disciplina ordinaria che ne permette la frazionabilità?
Il richiamo al Dpcm 04.03.2020 deve ritenersi quale riferimento dinamico alle
previsioni dei Dpcm che, successivamente a quello del 04.03.2020, hanno
prorogato la sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e
dell’attività didattica in presenza nelle scuole di ogni ordine e grado.
In
particolare, il Dpcm 08.03.2020 ha introdotto la sospensione per le zone
“rosse” ivi individuate e il successivo Dpcm 09.03.2020 ha esteso tale
sospensione a tutto il territorio nazionale fino al 03.04.2020. Il congedo,
cui fa riferimento l’art. 25 del Dl 18/2020, è quello previsto dall’art. 23
dello stesso decreto-legge, in quanto espressamente richiamato (“hanno
diritto a fruire dello specifico congedo e relativa indennità di cui
all’articolo 23, commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7”).
Si tratta, quindi,
dell’estensione, ai lavoratori del settore pubblico, di quanto previsto
dall’art. 23 del ripetuto Dl 17.03.2020, n. 18, per i lavoratori del settore
privato. I 15 giorni di congedo previsti dalla disposizione richiamata
possono essere fruiti nel periodo di sospensione previsto dai Dpcm citati,
fermo restando che si auspica, in sede di conversione del decreto-legge, un
allineamento sia sotto il profilo temporale che in termini del numero di
giorni di congedo che, al momento, sono prescritti nel numero massimo di 15.
Sul punto è intervenuto, in un primo momento, l’Inps con messaggio n. 1281
del 20.03.2020 precisando che “si tratta di un congedo straordinario di
massimo 15 giorni complessivi fruibili, in modalità alternativa, da uno solo
dei genitori per nucleo familiare, per periodi che decorrono dal 5 marzo al
3 aprile”, senza fornire, tuttavia, il supporto normativo alla definizione
di tale periodo.
Si deve ritenere che la frazionabilità ad ore del congedo
non sia possibile, in quanto l’unico riferimento contenuto nell’art. 23 del
ridetto decreto-legge prevede la possibilità di utilizzare i 15 giorni in
modo continuativo o frazionato, ma tale ultima formulazione non sembra
riferirsi alla frazionabilità ad ore del congedo, bensì alla divisione in
singole o plurime giornate del periodo complessivo di 15 giorni previsto
dalla norma.
Manca, altresì, un espresso riferimento al Dlgs 151/2001, come, viceversa,
avviene all’art. 24, Dl 18/2020 per i permessi di cui all’art. 33, comma 3,
legge 104/1992, per cui non sembrerebbe trattarsi di un’estensione dei
congedi parentali ivi previsti, che ne avrebbe legittimato la fruibilità ad
ore anche per il richiamo effettuato dall’art. 43 del Ccnl 21.05.2018.,
bensì è più attendibile ritenere che l’istituto presenti una propria
autonoma configurazione legale, computata, secondo la norma che lo
disciplina, a giornate e non frazionabile ad ore di utilizzo.
Relativamente al congedo parentale straordinario di 15
giorni, introdotto dall'art. 25 del Decreto Cura Italia, si chiede:
1) i 15 giorni sono fruibili per ogni figlio, oppure sono
complessivi? (ad esempio nel caso di 2 figli, il congedo è pari a 30 giorni?
oppure è pari a 15 giorni a prescindere dal numero dei figli?)
2) nel caso in cui il dipendente (che lavora su 5 giorni
settimanali - dal lunedì al venerdì) usufruisca di un periodo continuativo
di congedo parentale straordinario, senza riprendere servizio, in detto
periodo devono essere conteggiati anche il sabato e la domenica?
Relativamente al primo quesito si deve ritenere che trattasi di un periodo
complessivo di 15 giorni di congedo straordinario spettante
indipendentemente dal numero dei figli di età fino ai 12 anni o di età
superiore, se affetti da disabilità in situazione di gravità accertata
secondo le disposizioni della legge 104/1992.
Fermo restando che, per
espressa previsione dell’art. 23, è consentita la fruibilità frazionata a
giornata (e non ad ore), quindi non continuativa, si deve ritenere, in
applicazione di una regola generale applicabile a tali tipologie di congedi,
che i periodi di assenza, nel caso di fruizione continuativa, comprendono
anche gli eventuali giorni festivi o non lavorativi che ricadano all’interno
degli stessi.
Tale modalità di computo trova applicazione anche nel caso di
fruizione frazionata, ove i diversi periodi di assenza, giornalieri o plurigiornalieri,
non siano intervallati dal ritorno al lavoro del lavoratore o della
lavoratrice. Ciò si desume anche dalla particolare modalità retributiva di
tale periodo di congedo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
14.04.2020). |
CONSIGLIERI COMUNALI - LAVORI PUBBLICI:
Accesso a cantieri da parte di consiglieri comunali.
Non è configurabile un diritto in senso stretto dei
consiglieri comunali a visitare un cantiere dove si svolgono lavori affidati
dal Comune o ad effettuarvi un sopralluogo, atteso che la legge nulla
prevede per quanto riguarda tale evenienza, non potendo quindi individuarsi
un corrispondente obbligo dell'Amministrazione di accogliere una richiesta
in tal senso.
L’esercizio delle funzioni di controllo è, infatti, riconosciuto
dall’ordinamento come funzione generale al consiglio quale organo nel suo
complesso, che può avvalersi di commissioni consiliari appositamente
istituite.
Non sono invece contemplate dalla normativa vigente per i consiglieri
comunali competenze di tipo ispettivo da esercitarsi singolarmente su
attività materiali, tanto più che, trattandosi di cantieri, spetta alle
figure responsabili anche sotto il profilo delle norme in materia di
sicurezza, in relazione alle proprie competenze, valutare la richiesta di
accesso di persone comunque estranee ai lavori.
I Consiglieri comunali chiedono un parere in merito al diritto, agli stessi
negato dal Comune, di accedere a cantieri nei quali si stanno realizzando
alcune opere comunali, al fine di poter prendere visione personalmente dello
stato di attuazione delle stesse, nell’esercizio delle funzioni loro
proprie. Chiedono, altresì, che la Regione intervenga “affinché siano
rimossi gli ostacoli frapposti dal Comune […] nei confronti degli scriventi
Consiglieri Comunali”.
Preliminarmente, si osserva che non compete all’Amministrazione regionale
intervenire su questioni siffatte: lo scrivente Servizio in questa sede si
limita a fornire in via collaborativa delle considerazioni relative
all’inquadramento giuridico della problematica in oggetto.
Il diritto di accesso degli amministratori locali trova la sua fonte
normativa di riferimento nell’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, il quale attribuisce ai consiglieri il diritto di
ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle sue aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato.
Il fondamento di tale diritto risiede nel fatto che le informazioni
acquisibili dagli amministratori dell’ente devono considerare l’esercizio,
in tutte le sue potenziali esplicazioni, della funzione di cui ciascun
amministratore è individualmente investito quale membro del consiglio. Di
qui la possibilità per ognuno di essi di compiere, attraverso la visione dei
provvedimenti adottati e l’acquisizione di informazioni, una compiuta
valutazione della correttezza e dell’efficacia dell’operato
dell’amministrazione comunale, utile non solo per poter esprimere un voto
maggiormente consapevole sugli affari di competenza del consiglio, ma anche
per promuovere, nell’ambito del consiglio stesso, le varie iniziative
consentite dall’ordinamento ai membri di quel collegio
[1].
I consiglieri hanno infatti, a norma dell’articolo 43, commi 1 e 3, del
decreto legislativo n. 267/2000, diritto di iniziativa su ogni questione
sottoposta alla deliberazione del consiglio, hanno diritto di chiedere la
convocazione del consiglio e di presentare interrogazioni, mozioni e ogni
altra istanza di sindacato ispettivo, secondo la disciplina dettata dallo
statuto e dal regolamento consiliare.
L’esercizio delle funzioni di controllo è riconosciuto dall’ordinamento come
funzione generale al consiglio quale organo nel suo complesso, che può
avvalersi di commissioni consiliari appositamente istituite ai sensi
dell’articolo 44, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, con funzioni
di controllo e di garanzia. Il comma 2 consente l’istituzione all’interno
dell’organo consiliare di commissioni di indagine sull’attività
dell’amministrazione, demandando allo statuto e al regolamento consiliare la
disciplina relativa a poteri, composizione e funzionamento.
Emerge di tutta evidenza che la normativa citata non contempla per i
consiglieri comunali competenze di tipo ispettivo da esercitarsi
singolarmente su attività materiali, tanto più che, trattandosi di cantieri,
spetta alle figure responsabili anche sotto il profilo delle norme in
materia di sicurezza, in relazione alle proprie competenze, valutare la
richiesta di accesso di persone comunque estranee ai lavori
[2].
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, non è configurabile un diritto
in senso stretto dei consiglieri comunali a visitare un cantiere dove si
svolgono lavori affidati dal Comune o ad effettuarvi un sopralluogo, atteso
che la legge nulla prevede per quanto riguarda tale evenienza, non potendo
quindi individuarsi un corrispondente obbligo dell'Amministrazione di
accogliere una richiesta in tal senso.
Ferma la mancanza di tale obbligo in capo al Comune, si ribadisce che
consentire o meno l‘accesso dei consiglieri comunali ai cantieri rientra
nella responsabilità dell’Amministrazione, la quale deve operare al riguardo
un’attenta ponderazione della normativa in materia di sicurezza, tenendo
anche in debita considerazione i provvedimenti dalla stessa adottati in
attuazione del D.Lgs. 09.04.2008, n. 81.
---------------
[1] Si veda, tra le altre, TAR Campania Salerno, sez. II, sentenza del 04.04.2019, n. 545 la quale recita: “Le istanze di accesso avanzate dai
componenti dei consigli comunali presentano una loro specificità rispetto a
quella della generalità dei cittadini, essendo ai primi riconosciuti ampi
poteri ai sensi dell'art. 43 D.Lgs. n. 267/2000. In particolare, il diritto
di accesso dei consiglieri comunali, nella sua tendenziale
onnicomprensività, è strettamente funzionale all'esercizio delle funzioni di
indirizzo e controllo degli atti degli organi decisionali dell'ente locali,
consentendo loro di valutare, con piena cognizione, la correttezza e
l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione e di promuovere le iniziative
che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale, e quindi si
configura come significativa espressione del principio democratico
dell'autonomia locale e della rappresentanza responsabile della
collettività.
[2] In questo senso si è espressa anche l’ANCI in un parere del 26.10.2005 nel quale, in coerenza con quanto sopra già espresso, ha osservato che:
“Si ritiene comunque che competa ai consiglieri comunali la più ampia
facoltà ai sensi dell’art. 43 tuel di prendere visione ed estrarre copia di
atti e documentazione amministrativa che si trovi presso gli uffici
comunali. Sulla base di tali principi si può pertanto ritenere che competa
ai consiglieri comunali di visionare, chiedendone se del caso copia, gli
elaborati tecnici afferenti a lavori pubblici sussistendo, per converso, un
correlativo obbligo degli uffici di rilasciarli; - Non appare invece
ammissibile che tali stessi soggetti possano accedere, in forza della
qualifica posseduta, nei cantieri per effettuare attività di vigilanza; - Ai
consiglieri comunali l'ordinamento non assegna infatti poteri di "vigilanza"
o "controllo" di questo tipo (che semmai competono agli organi di polizia
municipale dell'ente)” (09.04.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
dubbi delle amministrazioni pubbliche sull'applicazione della normativa
emergenziale.
La situazione di emergenza nazionale generata dalla diffusione pandemica del
virus COVID-19 sta ponendo gli operatori delle amministrazioni pubbliche di
fronte a diversi quesiti, anche non strettamente legati alla normativa
d’urgenza adottata dal Governo, che, tuttavia, in questa particolare
situazione di difficoltà, presentano profili peculiari in ordine
all’applicazione degli istituti cui detti quesiti sono riconducibili.
Dalle
diverse questioni che vengono segnalate, cui di seguito viene dato
riscontro, emerge che il datore di lavoro pubblico, da un lato, si trova a
dover affrontare problematiche completamente nuove e, dall’altro lato, si
trova a dover gestire tematiche, come la costituzione e l’utilizzo del fondo
delle risorse decentrate, sempre attuali ed inalienabili, che la difficile
situazione operativa, in cui gli enti si dibattono, non consente di
accantonare proprio per la finalizzazione al finanziamento dei trattamenti
economici accessori del personale dipendete che, mai come in questa fase,
meritano un’oculata ed attenta gestione.
È possibile per il dipendente rifiutarsi di recarsi sul
luogo di lavoro in assenza della individuazione dei servizi indifferibili
che richiedono la presenza fisica sul luogo di lavoro?
L’articolo 87 del DL 17.03.2020 n. 18 introduce la previsione secondo la
quale nelle amministrazioni pubbliche la modalità ordinaria di espletamento
della prestazione lavorativa è il lavoro agile.
Da questa disposizione discende che in nessun caso le amministrazioni
pubbliche possono tenere sul luogo di lavoro un dipendente per la cui
prestazione lavorativa non sia indispensabile la presenza sul luogo di
lavoro. Il dipendente pubblico può non recarsi sul luogo di lavoro senza
temere sanzioni giacché di fronte all’inadempimento del datore di lavoro del
suo obbligo di motivare la ragione della sua presenza fisica (che
costituisce una eccezione), può opporre una eccezione di inadempimento ex
art. 1460 Cc rifiutandosi di lavorare in una situazione di pericolo
riconosciuta dalla legge.
Si ricorda che l’art. 2087 Cc, applicabile a tutti datori di lavoro,
pubblici e privati, impone l’adozione delle misure che, “secondo la
particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di
lavoro”. Nella straordinaria situazione emergenziale in corso vengono in
evidenza non tanto i rischi specifici del singolo luogo di lavoro quanto il
rischio generale di diffusione pandemica del virus COVID-19 che incombe su
tutta la comunità nazionale e nel contempo riguarda i singoli luoghi di
lavoro.
Per cui con l’articolo 87, Dl 18/2020 si è voluto fornire uno strumento per
prevenire tali rischi di propagazione, obbligando i datori di lavoro
pubblici a non richiedere la presenza fisica, tranne nei casi in cui,
motivatamente, si tratti di prestazioni indifferibili che non possono essere
svolte in modalità agile; è l’amministrazione che deve, quindi,
espressamente motivare le ragioni della presenza fisica sul luogo di lavoro,
per cui, in assenza di questo apparato motivazionale, le prestazioni
lavorative devono essere svolte in remoto.
In regime di limitazioni da coronavirus, dovendo
provvedere, comunque, alla costituzione del fondo per le risorse decentrate
per l'anno 2020 chiedevo se era più corretto integrare il fondo di parte
variabile dell’1,2% su base annua del monte salari dell’anno 1997, esclusa
la quota relativa alla dirigenza, così come richiesto dalle parti sindacali,
e successivamente operare la decurtazione di cui all’articolo 23, comma 2,
Dlgs 75/2017 per il rispetto del limite 2016, oppure se, in sede di
contrattazione, si debba già definire una percentuale inferiore al fine di
restare all'interno del tetto 2016 considerando che non è sempre facile da
quantificare?
In relazione al quesito posto, si ritiene che sia più corretto integrare il
fondo con l’entità di risorse aggiuntive di parte variabile, ai sensi
dell’articolo 67, comma 4, del Ccnl 21.05.2018, sino a concorrenza del limite
imposto dall’articolo 23, comma 2, Dlgs 75/2017.
Mentre la parte stabile,
infatti, mantiene la sua dimensione economica consolidata che viene
riportata anno per anno, la parte variabile del fondo risponde ad esigenze
di utilizzo ulteriori rispetto all’ordinario impiego delle risorse stabili,
assecondando, di fatto e giuridicamente, fabbisogni integrativi di risorse
in funzione di fronteggiare esigenze specifiche di funzionamento, anche
correlate a particolari obiettivi gestionali che possano consentire,
altresì, il mantenimento di servizi e/o di standard erogativi (articolo 67,
comma 5, lett. b), dello stesso Ccnl).
Poiché, pertanto, l’aggregazione delle
risorse variabili risponde a necessità produttive modificabili nel tempo, a
differenza delle risorse stabili, la cui composizione è consolidata ed
immutabile nel tempo, se non per le componenti a formazione dinamica (es. lett. c) del comma 2 del medesimo articolo 67), si ritiene non ammissibile
che i flussi di composizione di tale parte del fondo prescindano da
un’attenta valutazione degli effettivi fabbisogni cui corrispondere in
termini di finanziamento, determinando, in tal modo, comportamenti indebiti
o elusivi, come un ingiustificato incremento di risorse variabili, pur nel
limite massimo previsto dalle vigenti clausole contrattuali, su cui operare,
successivamente, una riduzione di livellamento imposta dal ripetuto articolo
23, comma 2, Dlgs. n. 75/2017.
Appare, pertanto, maggiormente coerente con
le norme contrattuali e con i principi ordinamentali di finanza pubblica che
regolano questi particolari profili gestionali, integrare la parte variabile
del fondo mediante l’impiego del fattore compositivo in questione
nell’entità concretamente necessaria per arginare le nuove necessità di
incremento finanziario del fondo, anche laddove tale valore risulti
inferiore al limite massimo di aumento consentito dalle vigenti clausole
contrattuali nazionali.
Quale è l'autorità competente (competenti organi medico
legali) a rilasciare la certificazione ex articolo 26, co. 2, Dl 18/2020 per i
dipendenti pubblici in possesso del riconoscimento di disabilità con
connotazione di gravità?
Inoltre l'estensione dei 12 giorni ulteriori di
permessi ex lege 104/1992 riguarda soltanto i dipendenti che assistono
persone con disabilità grave oppure anche i disabili stessi con connotazione
di gravità?
Con riferimento alle questioni poste, si esprime il seguente avviso.
In
relazione al primo quesito formulato si ritiene che l’autorità competente ai
sensi delle previsioni dettate dall’articolo 26, comma 2, del Dl 17.03.2020,
n. 18, sia da individuarsi nelle strutture legali dell’azienda sanitaria
locale competente, anche in conformità alle prescrizioni di cui all’articolo
4, Legge 104/1992, la quale, ai fini del riconoscimento della situazione di
handicap, testualmente dispone, con espresso riferimento alla connotazione
di cui all’articolo 3 della stessa legge, che gli accertamenti relativi alla
minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell'intervento assistenziale
permanente e alla capacità complessiva individuale residua sono effettuati
dall'unità sanitaria locale competente mediante l’utilizzo di apposite
commissioni mediche costituite ai sensi dell’articolo 1, comma 2, Legge 295/1990, opportunamente integrate da specialisti o esperti individuati, in
relazione alle fattispecie da esaminare, tra il personale in servizio presso
le stesse unità sanitarie locali.
Con riferimento al secondo quesito posto, inoltre, si ritiene che la
fruizione dell’estensione temporale dell’istituto di cui all’articolo 33,
comma 3, Legge 104/1992 disposto dall’articolo 24, comma 1, Dl 17.03.2020, n.
18, debba essere riconosciuta in attuazione delle medesime modalità
applicative che regolano l’impiego di tale istituto legale, come recate dal
richiamato articolo 33, comma 3.
L’intervento delle misure di urgenza
operato con il citato articolo 24, comma 1, infatti, determina una mera
estensione temporale del possibile godimento del beneficio, non mutandone,
pertanto, la configurazione giuridica e la conseguente portata applicativa
che, infatti, restano immutate in quanto connesse al medesimo istituto
legale.
Da ciò discende, pertanto, che tale ampliamento dell’entità fruibile del
permesso in questione non attenga esclusivamente all’assistenza di terzi
disabili, come indicati dal comma 3 dell’articolo 33, Legge 104/1992, bensì
afferisca anche all’ipotesi in cui il beneficiario, lavoratore dipendente,
sia esso stesso il destinatario dell’assistenza fornita, in applicazione
delle previsioni recate dal comma 6 del medesimo articolo 33 (cfr.: "6. La
persona handicappata maggiorenne in situazione di gravità può usufruire
alternativamente dei permessi di cui ai commi 2 e 3 (…)”).
Tale posizione, infatti, appare fatta propria anche dalla recente circolare
Inps n. 45 del 25 marzo u.s., con la quale l’Istituto previdenziale,
fornendo istruzioni sulla cumulabilità dell’astensione dal lavoro, riconosce
espressamente la fruibilità di tale estensione temporale del permesso anche
a beneficio dello stesso lavoratore disabile (cfr.: “(…) il lavoratore
disabile che assiste altro soggetto disabile, potrà cumulare, per i mesi di
marzo e aprile 2020, i permessi a lui complessivamente spettanti (3+3+12)
con lo stesso numero di giorni di permesso fruibili per l’assistenza
all’altro familiare disabile (3+3+12).”) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Coronavirus:
ancora dubbi ed incertezze degli Enti sull'applicazione di norme ed istituti
introdotti dalla legislazione d'urgenza.
Tra le diverse problematiche che si presentano all’attenzione degli
operatori, strettamente legate alla straordinaria situazione emergenziale
che stiamo vivendo e alle misure adottate dal Governo per farvi fronte e che
impattano sulla gestione del rapporto di lavoro, alcune riguardano le misure
di sostegno ai lavoratori pubblici per l’impatto sulla gestione e
l’organizzazione familiare delle misure di limitazione alla circolazione e
altre il comportamento dei datori di lavoro di fronte a sintomi che il
lavoratore possa presentare e che richiedono particolare attenzione, sia
sotto il profilo della salute dei singoli, che sulla diffusione
epidemiologica del COVID-19.
Di seguito vengono fornite le risposte a due
tra i più significativi quesiti:
Sono a chiedere quanto segue in merito all'art. 24
(Estensione durata permessi retribuiti ex art. 33, legge 104/1992), recante:
1. Il numero di giorni di permesso retribuito coperto da contribuzione
figurativa di cui all’articolo 33, comma 3, della legge 05.02.1992, n.
104, è incrementato di ulteriori complessive dodici giornate usufruibili nei
mesi di marzo e aprile 2020.
A tal proposito, UnionCamere ha affermato che
si tratta di permessi solo a giorni (non ad ore in mancanza di diversa
esplicita indicazione) considerato il dato letterale; sul punto l'Inps
afferma che possono essere anche permessi ad ore.
Ad avviso dello scrivente,
le ragioni che, in modo sintetico, sono a favore della tesi di UnionCamere
sono le seguenti:
a) il dato letterale del DL 18/2020;
b) la previsione ad ore non è fatta dalla legge 104/1992 ma dai
contratti collettivi nazionali di lavoro;
c) in occasione del lavoro agile (quale ordinario modo di lavoro
nelle pubbliche amministrazioni durante l'emergenza epidemiologica) non è
consentita la riduzione oraria del lavoro per chi ha senso la previsione dei
permessi a giorni;
d) anche qualora vi fosse la necessità del lavoro in
presenza, la previsione a giorni e non ad ore dell'istituto de quo risponde
alla logica di scoraggiare lo "spezzettamento" del tempo tra lavoro e casa,
ma intende agevolare l'allontanamento dalla sede di lavoro (quindi intera
giornata) favorendo l'isolamento per evitare i contatti interpersonali.
Con riguardo alla questione posta, occorre fare riferimento alla
disposizione di cui all’art. 24, Dl 17.03.2020, n. 18, che testualmente
recita: ”1. Il numero di giorni di permesso retribuito coperto da
contribuzione figurativa di cui all'articolo 33, comma 3, Legge 104/1992, è
incrementato di ulteriori complessive dodici giornate usufruibili nei mesi
di marzo e aprile 2020”.
La disposizione legislativa d’urgenza, pertanto, ha inteso estendere la
portata temporale dell’istituto di cui al richiamato art. 33, comma 3, Legge
104/1992, il quale prevede che "3. A condizione che la persona handicappata
non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o
privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge,
parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora
i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità
abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi
affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a
fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione
figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può
essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla
stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per l’assistenza allo
stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è
riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne
alternativamente. Il dipendente ha diritto di prestare assistenza nei
confronti di più persone in situazione di handicap grave, a condizione che
si tratti del coniuge o di un parente o affine entro il primo grado o entro
il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap
in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano
anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti”.
La
configurazione legale dell’istituto, pertanto, si sviluppa sul periodo
temporale giornaliero assunto a riferimento per la legittima fruizione dello
stesso.
Su tale periodo di godimento, poi, per l’area contrattuale delle Funzioni
Locali, nella quale sono annoverate anche le Camere di Commercio, è
intervenuto l’articolo 33, comma 1, del recente Ccnl 21.05.2018, il quale ne
ha facoltizzato l’impiego anche su periodo orario, frazionando le giornate
legalmente prescritte. La clausola contrattuale, infatti, dispone che "1. I
dipendenti hanno diritto, ove ne ricorrano le condizioni, a fruire dei tre
giorni di permesso di cui all' art. 33, comma 3, della Legge 104/1992. Tali
permessi sono utili ai fini delle ferie e della tredicesima mensilità e
possono essere utilizzati anche ad ore, nel limite massimo di 18 ore
mensili.”.
Definito il quadro giuridico che regola la materia, si ritiene che il
combinato delle due disposizioni riportate operi una mera estensione del
periodo temporale di fruizione dell’istituto, come legalmente previsto, con
conseguente e corrispondente ampliamento delle modalità applicative
dell’istituto come delineate nei diversi ambiti di operatività dell’istituto
stesso.
In altri termini, dunque, la disposizione d’urgenza varata dal
Governo interviene non tanto modificando l’istituto del permesso retribuito
o introducendo un nuovo e diverso istituto giuridico dallo stesso distinto e
dotato di autonoma regolazione, bensì opera ampliando il periodo temporale
di utilizzo dello stesso, integrandone la portata legale di ulteriori 12
giornate complessive per i soli mesi di marzo ed aprile 2020.
Se tant'è,
pertanto, non si ravvisa ragione alcuna per non consentirne la fruizione con
le stesse modalità che, per singolo comparto di contrattazione, la fonte
negoziale ha introdotto, nel caso di specie frazionando il periodo
giornaliero ad ore. Infatti, a ben vedere, le motivazioni che si portano a
suffragio dell’inapplicabilità frazionata dell’istituto sono così indicate
nel quesito:
a) il dato letterale recato dall’articolo 24 si limita ad estendere
la portata legale del permesso, non intervenendo, ma neppure impedendo, la
sua fruizione oraria, se consentita da altra fonte normativa;
b) la circostanza che la fruizione oraria sia stata affidata alla
fonte negoziale non vale, certamente, a smentirne l’applicazione riguardo
all’estensione temporale del medesimo istituto operata dalla legge;
c) nell’ambito della modalità di fornitura della prestazione in
smart working, la particolare modalità con la quale si sviluppa l’attività
lavorativa è compatibile sostanzialmente con tutti gli istituti di assenza
giustificata dal lavoro, anche computata ad ore, al pari del lavoro in
presenza, a meno che si tratti di un numero di ore talmente limitato da
poter essere riassorbito nell’ambito della flessibilità propria della
modalità di lavoro agile (cfr., al riguardo, il num. 3.
Aspetti organizzativi, gestione del rapporto di lavoro e relazioni
sindacali, lett. D) - Disciplina interna, num. 14, della direttiva della
Presidenza del Consiglio dei Ministri 01.06.2017, n. 3 in materia di
regolazione dello smart working e del telelavoro, il quale rimette
all’autonomo potere datoriale dell’ente la disciplina di diversi aspetti
applicativi dell’istituto, in particolare: “14. fermo restando il divieto di
discriminazione, previsione dell’eventuale esclusione, per effetto della
distribuzione flessibile del tempo di lavoro, di prestazioni eccedenti
l’orario settimanale che diano luogo a riposi compensativi, prestazioni di
lavoro straordinario, prestazioni di lavoro in turno notturno, festivo o
feriale non lavorativo che determinino maggiorazioni retributive, brevi
permessi o altri istituti che comportino la riduzione dell’orario
giornaliero di lavoro;”); d) l’estensione temporale di tale particolare
permesso retribuito risponde alla chiara ratio di consentire la
giustificazione di una maggiore entità temporale di assenza dal lavoro in
conseguenza della necessità di accudire il familiare in situazione di
gravità conseguente alle significative limitazioni di trasferimento che sono
state introdotte dalla legislazione emergenziale, per le quali, infatti, il
familiare stesso potrebbe subire una rilevante contrazione di assistenza
diretta assicurata da terzi.
In conclusione, pertanto, si ritiene che la
fruizione contrattuale ad ore dell’istituto in questione, come introdotta
dal detto articolo 33, comma 1, del Ccnl 21.05.2018, sia da estendersi anche
all’integrazione temporale dell’istituto stesso, come introdotta
dall’articolo 24, comma 1, Dl 18/2010, non risultando sussistenti elementi
ostativi alla sua applicazione.
Numerosi colleghi (nel piano in cui operiamo ben oltre
la metà) si trovano contemporaneamente in stato di malattia con sintomi
comuni quali febbre alta, mal di schiena, in alcuni casi perdita di olfatto
e gusto, mal di testa, tosse… alcuni di questi hanno avuto necessità di
prolungamento del periodo di congedo oltre le due settimane stante il
perdurare dei sintomi.
Ci chiediamo se sia il caso procedere a verifiche sul
personale “superstite” al fine di individuare o meglio di escludere la
presenza di portatori asintomatici di coronavirus, in caso affermativo a chi
e da chi deve essere fatta tale richiesta?
Con riferimento al quesito posto, si ritiene che l’amministrazione,
generalmente e fatti salvi casi del tutto eccezionali e marginali, non possa
disporre una verifica sulla diagnosi di malattia in cui versi il lavoratore
disposta dal medico curante o da altro presidio medico competente.
È, infatti, competenza e responsabilità di quest’ultimo verificare e,
conseguentemente, diagnosticare l’eventuale sussistenza di sintomi da
COVID-19 manifestati dal lavoratore, attivando, in caso di accertamento
positivo, il protocollo medico-sanitario previsto per queste particolari
circostanze.
Laddove sussista fondato timore che il dipendente presenti manifestazioni
sintomatiche da coronavirus, pertanto, per come rilevabili attraverso
l'osservazione esterna o dichiarazioni rese dallo stesso lavoratore e non
mediante esame medico, ovviamente interdetto al datore di lavoro,
l’amministrazione potrà chiedere l’immediato intervento del medico
competente per condurre una prima verifica sulla sussistenza e natura della
sintomatologia manifestata e, successivamente, sulla base dell'eventuale
positiva diagnosi medica, richiedere, allo stesso medico competente,
l’attivazione dell'apposito protocollo sanitario avanti le competenti
autorità medico-sanitarie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
06.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Coronavirus:
i dubbi delle amministrazioni sulle norme emergenziali in materia di lavoro
pubblico.
Nella pratica operativa continuano a presentarsi dubbi applicativi delle
diverse disposizioni adottate a seguito della dichiarazione, con
deliberazione del Consiglio dei ministri del 31.01.2020, dello stato di
emergenza nazionale.
Proseguono, quindi, le risposte alle innumerevoli
incertezze che devono affrontare gli operatori del settore pubblico, sorti
nell’applicazione delle diverse disposizioni che, pur presentandosi
singolarmente chiare, vanno tra di loro armonizzate e coordinate con le
norme in materia di lavoro pubblico, con le disposizioni civilistiche e con
i contratti collettivi nazionali.
Ecco alcuni dei dubbi più diffusi
manifestati dagli enti:
Il Comune dove lavoro in Sardegna ha pubblicato il 10
marzo un concorso per n. 1 posto di assistente di biblioteca con scadenza
del termine di presentazione delle domande a 30 giorni dalla pubblicazione
del bando.
Nel frattempo sono intervenute:
1) la sospensione dei termini
delle procedure concorsuali come previsto dall’art. 103, Dl n. 18 del
17.03.2020 e
2) la proroga dei termini al 31.07.2020 ai sensi
dell’articolo 2, comma 4, della Legge di Stabilità approvata dal Consiglio
Regionale della Sardegna dell'11.03.2020 che recita testualmente “a
seguito dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 e in considerazione del
blocco dell'attività amministrativa degli uffici della Regione autonoma
della Sardegna e di quelli delle amministrazioni locali, i termini di
scadenza relativi a qualsiasi bando, procedure concorsuali, avvisi pubblici,
presentazione di rendicontazioni da parte di enti pubblici e/o privati
cittadini, relativi a qualsiasi fonte di finanziamento sono prorogati al 31.07.2020”.
È stato dichiarato in Sardegna lo stato di emergenza fino al
31.07.2020.
In tale situazione prevale la norma regionale e quindi la
scadenza per la presentazione delle domande è il 31.07.2020?
Ai fini di ricostruire il quadro di riferimento giuridico che governa le
competenze in materia di adozione di misure normative di contrasto alla
pandemia in atto, occorre fare riferimento alle norme recate dal Dl
23.2.2020, n. 6, convertito in legge 05.03.2020, n. 13, con particolare
riferimento all’art. 3, commi 1 e 2, del decreto-legge stesso.
Tali
disposizioni, infatti, testualmente prescrivono che "1. Le misure di cui
agli articoli 1 e 2 sono adottate, senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei
ministri, su proposta del Ministro della salute, sentiti il Ministro
dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle
finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti
delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una
regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza
delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino il
territorio nazionale. 2. Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente
del Consiglio dei ministri di cui al comma 1, nei casi di estrema necessità
ed urgenza le misure di cui agli articoli 1 e 2 possono essere adottate ai
sensi dell'articolo 32, Legge 833/1978, dell'articolo 117, Dlgs 112/1998, e
dell'articolo 50 Tuel.
Le misure adottate ai sensi del presente comma perdono efficacia se non sono
comunicate al Ministro della salute entro ventiquattro ore dalla loro
adozione.”.
La norma, infatti, prescrive che le misure normative con
carattere di urgenza e di natura generale finalizzate al contrasto diffusivo
del coronavirus siano adottate con appositi decreti del Presidente del
Consiglio dei Ministri, affidando, ai Presidenti delle Regioni nella sola
ipotesi in cui attengano esclusivamente alla Regione di competenza o ad
alcune Regioni, nel qual caso la competenza resta, comunque, in capo ai
rispettivi orari di vertice.
La disposizione legislativa, poi, prosegue
statuendo, al comma 2, che la competenza dei Presidenti delle Regioni, in
materia di igiene e sanità pubblica, può essere esercita esclusivamente a
due condizioni, ovvero:
1) nelle more dell’adozione dei provvedimenti
d’urgenza ad opera del Presidente del Consiglio dei Ministri e
2) nelle
situazioni di estrema necessità ed urgenza che il fenomeno impone
nell’ambito regionale di competenza.
Il richiamo normativo che, infine,
viene operato dalla disposizione legislativa alle norme della legge 833/1978
e del Dlgs 112/1990 sta ad indicare, inequivocabilmente, che tali poteri
sono esercitabili, dai Presidenti delle Regioni, nei limiti e con efficacia
estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio
comprendente più comuni e al territorio comunale, nonché che l'adozione dei
provvedimenti d’urgenza in materia igienico-sanitaria spetta allo Stato o
alle regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell'eventuale
interessamento di più ambiti territoriali regionali.
Stante il quadro normativo sopra delineato, pertanto, la competenza generale
e primaria all’adozione di misure urgenti per scongiurare il rischio di
contagio diffusivo da COVID-19 spetta prioritariamente al Governo, mentre
alle Regioni è affidato un compito di assunzione di adeguate azioni locali
di contrasto che, per espressa previsione normativa e per intuibili ragioni
di coordinamento degli interventi, hanno carattere recessivo nel momento in
cui il Presidente del Consiglio dei Ministri adotti le misure nazionali
necessarie.
Tale assetto di competenze e di conseguenti azioni, infatti,
appare il più coerente anche con il perimetro definito dalla nostra Carta
costituzionale, la quale, all’articolo 117, comma 2, prevede la forma della
legislazione concorrente nella materia della salute pubblica, da
esercitarsi, da parte delle Regioni, nei limiti dei principi fondamentali
dettati dallo Stato, di cui la normazione legislativa sopra richiamata
costituisce espressione.
Ciò esaminato, pertanto, si ritiene che, avendo, il Governo, adottato le
misure d’urgenza in grado di arginare la diffusione da contagio pandemico
contenute nel Dl 17.03.2020, con particolare riferimento alla sospensione
disposta, per le procedure concorsuali, dall’articolo 87, comma 5, del
predetto Dl, il quale testualmente prescrive che "5. Lo svolgimento delle
procedure concorsuali per l'accesso al pubblico impiego, ad esclusione dei
casi in cui la valutazione dei candidati sia effettuata esclusivamente su
basi curriculari ovvero in modalità telematica, sono sospese per sessanta
giorni a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto. Resta ferma
la conclusione delle procedure per le quali risulti già ultimata la
valutazione dei candidati (…)”.
Trattandosi, pertanto, di misura avente
chiara natura di azione di contrasto alla pandemia in atto (vedi il comma 1
dell’art. 3, Dl 6/2020) ed in considerazione di quanto sopra detto in
relazione al riparto di attribuzioni tra diversi livelli di governo
competenti all’adozione di tali misure, nonché del carattere transitorio e
recessivo delle misure adottate dalle Regioni in materia di contrasto alla
diffusione del coronavirus, si ritiene che le disposizioni statali abbiano
determinato, anche con riguardo alla legislazione delle Regioni a statuto
speciale, la ritrazione delle disposizioni adottate dalla Regione Sardegna
intervenute nello specifico ambito di regolazione statale.
Il dubbio che nasce nell’utilizzo del personale dei nidi
e delle materne è legato al particolare profilo professionale delle
dipendenti, in quanto educatrici dell'asilo nido e a quanto stabilito
dall'art. 31, comma 5, del Ccnl 14.09.2000.
In relazione a quanto prescritto dall’articolo 31, comma 5, del Ccnl
14.09.2000, è da ritenere che la previsione contrattuale attenga ad una
situazione del tutto normale ed ordinaria di funzionamento dei servizi e non
ad un evento emergenziale come quello che stiamo attraversando, nell’ambito
del quale si deve ritenere che il personale possa essere utilizzato,
compatibilmente con i contenuti professionali del ruolo ricoperto, anche in
altri servizi dell’amministrazione, tenuto conto che il principio generale
accolto dal nostro sistema giuridico è rappresentato dall’equivalenza
professionale nel contesto della categoria di ascrizione, per il quale,
infatti, tutte le funzioni previste dalla categoria d'inquadramento sono
esigibili dal lavoratore.
Tutto ciò, ovviamente, laddove sussista la stretta
ed assoluta necessità di mantenere in servizio tale personale alla luce di
quanto già detto con riferimento alle prescrizioni dettate dall’articolo 87,
Dl 18/2020.
L'Amministrazione comunale può esentare motivatamente
dal servizio una dipendente che non opera in alcuno dei servizi essenziali
previsti dalle ultime disposizioni per il contenimento del Covid-19 e che
non ha ferie pregresse né altri tipi di permessi/congedi etc. essendo stata,
tra l'altro, appena assunta?
In caso affermativo tale esonero costituisce
servizio prestato a tutti gli effetti di legge?
In base al vigente ordinamento emergenziale, la circostanza che la
lavoratrice non operi nell’ambito dei servizi essenziali non appare
sufficiente al fine di escludere la prestazione lavorativa. Infatti, l’art.
87, commi 1 e 3, Dl 17.03.2020, n. 18, prescrive espressamente che "1. Fino
alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-2019, (…)
il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione
lavorativa nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, Dlgs 165/2001, che, conseguentemente: a) limitano la presenza del personale
negli uffici per assicurare esclusivamente le attività che ritengono
indifferibili e che richiedono necessariamente la presenza sul luogo di
lavoro, anche in ragione della gestione dell'emergenza; (…) 3. Qualora non
sia possibile ricorrere al lavoro agile, anche nella forma semplificata di
cui al comma 1, lett. b), le amministrazioni utilizzano gli strumenti delle
ferie pregresse, del congedo, della banca ore, della rotazione e di altri
analoghi istituti, nel rispetto della contrattazione collettiva. Esperite
tali possibilità le amministrazioni possono motivatamente esentare il
personale dipendente dal servizio. Il periodo di esenzione dal servizio
costituisce servizio prestato a tutti gli effetti di legge e
l'amministrazione non corrisponde l'indennità sostitutiva di mensa, ove
prevista. (…).”.
Come si può evincere dalla riportata norma, pertanto, la
lavoratrice, laddove vi siano le condizioni prescritte dalla legge, può
essere adibita a servizi indifferibili che richiedono la necessaria presenza
sul luogo di lavoro, anche in funzione di assicurare servizi essenziali
correlati all’emergenza da coronavirus.
Laddove non sia assolutamente
necessario mantenere il servizio la dipendente, anche mediante l’impiego
dello smart working quale modalità di fornitura della prestazione
lavorativa, e non sia oggettivamente possibile impiegare istituti retribuiti
o indennizzati, legali e contrattuali, giustificativi dell’assenza dal
lavoro, non resterà, come forma del tutto residuale ed eccezionale, che
collocare la dipendente in esonero lavorativo ai sensi della predetta
disposizione legislativa.
Si evidenzia, tuttavia, che tale collocamento
dovrà essere accompagnato dall’adozione di un apposito provvedimento datoriale (di natura civilistica) che riporti le adeguate motivazioni che
supportano l’applicazione dell’istituto esonerativo, tenuto conto che tale
esenzione determina l’obbligo, per l’amministrazione, di considerare il
periodo interessato alla stregua di servizio prestato ad ogni effetto di
legge, anche ai fini retributivi, ancorché in assenza della prestazione
lavorativa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.04.2020). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Emergenza COVID-19. Pubblicità delle sedute del consiglio comunale.
Nella situazione di emergenza da COVID -19 in atto, nel
silenzio del regolamento, spetta al sindaco, quale presidente del consiglio
comunale, stabilire le modalità che meglio possano soddisfare il rispetto
del principio di pubblicità delle sedute consiliari.
Nel confronto tra l’effettuare la diretta streaming o, invece, il procedere
alla diffusione, successivamente alla seduta, della registrazione integrale
della stessa, si ritiene che la prima modalità, qualora la strumentazione
necessaria sia nella disponibilità dell’Ente, configuri lo strumento che in
maniera più diretta ed efficace consentirebbe di dare adeguata pubblicità
alla seduta del consiglio comunale.
Il Comune chiede un parere in merito alle modalità di svolgimento delle
sedute del consiglio comunale in questo particolare momento caratterizzato
dalla situazione di emergenza da Covid-19 in atto. Più in particolare
desidera sapere se vi sia l’obbligo che le sedute consiliari si tengano in
diretta streaming o se il requisito della pubblicità possa essere
soddisfatto anche in differita, per il tramite della pubblicazione della
registrazione. Chiede, altresì, se, in caso di registrazione della seduta,
il segretario comunale debba comunque riportare nel verbale, in sintesi, i
tratti salienti della discussione.
La materia delle modalità di svolgimento delle sedute consiliari in questo
momento di emergenza sanitaria in atto è stato regolamento sia dal
legislatore regionale che statale. Il primo è intervenuto con la legge
regionale 13.03.2020, n. 3 recante “Prime misure urgenti per far fronte
all’emergenza epidemiologica da COVID–19”, la quale all’articolo 11 reca
“Modalità di svolgimento delle sedute della Giunta regionale e del Consiglio
regionale in casi di emergenza”. Tale articolo risulta di interesse anche
per gli enti locali della nostra Regione stante il disposto di cui al comma
5, secondo cui “Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 possono trovare
applicazione anche agli enti locali della regione, in quanto compatibili con
il loro ordinamento e nel rispetto della propria autonomia”.
Nell’evidenziare che la norma sopra citata pone una facoltà (“possono”) per
gli enti locali di adeguarsi a quanto disposto dalla norma stessa, si
riproduce il contenuto della disposizione recentemente emanata dal Consiglio
regionale secondo cui:
“1. In caso di situazione di particolare gravità e urgenza, riconosciuta con
provvedimento del Consiglio dei Ministri o del Presidente del Consiglio dei
Ministri, che renda temporaneamente impossibile o particolarmente difficile
al Consiglio regionale, alle Commissioni consiliari, alla Conferenza dei
Presidenti dei Gruppi consiliari o alla Giunta regionale riunirsi secondo le
ordinarie modalità stabilite dalla normativa vigente, è consentito lo
svolgimento delle sedute in modalità telematica.
2. Ai fini della presente legge, per seduta in modalità telematica si
intendono le sedute degli organi collegiali di cui al comma 1 con
partecipazione a distanza dei componenti dell’organo stesso attraverso
l’utilizzo di strumenti telematici idonei a consentire la comunicazione in
tempo reale a due vie e, quindi, il collegamento simultaneo fra tutti i
partecipanti ed idonei, per quanto riguarda il Consiglio regionale, a
permettere l’espressione del voto anche a scrutinio segreto.
3. La sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 è riconosciuta:
a) per il Consiglio regionale e per le Commissioni consiliari, dal
Presidente del Consiglio, sentita la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi
consiliari;
b) omissis;
c) omissis.
4. Con gli atti di rispettiva competenza gli organi di cui al comma 1
adottano le necessarie disposizioni attuative di quanto disposto dal
presente articolo.
5. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 possono trovare applicazione
anche agli enti locali della regione, in quanto compatibili con il loro
ordinamento e nel rispetto della propria autonomia”.
A livello di normazione statale è stato emanato in data 17.03.2020 il
decreto legge n. 18 recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario
nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese
connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19” il quale all’articolo 73,
comma 1, prevede che “Al fine di contrastare e contenere la diffusione del
virus COVID-19 e fino alla data di cessazione dello stato di emergenza
deliberato dal Consiglio dei ministri il 31.01.2020, i consigli dei
comuni, delle province e delle città metropolitane e le giunte comunali, che
non abbiano regolamentato modalità di svolgimento delle sedute in
videoconferenza, possono riunirsi secondo tali modalità, nel rispetto di
criteri di trasparenza e tracciabilità previamente fissati dal presidente
del consiglio, ove previsto, o dal sindaco, purché siano individuati sistemi
che consentano di identificare con certezza i partecipanti, sia assicurata
la regolarità dello svolgimento delle sedute e vengano garantiti lo
svolgimento delle funzioni di cui all'articolo 97 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nonché adeguata pubblicità delle sedute, ove previsto,
secondo le modalità individuate da ciascun ente”.
Il successivo comma 5 stabilisce, infine, che: “Dall'attuazione della
presente disposizione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica. Le amministrazioni pubbliche interessate provvedono
agli adempimenti di cui al presente articolo con le risorse umane,
finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente sui propri
bilanci”.
Premesso che, stante la potestà legislativa esclusiva della nostra Regione
in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative
circoscrizioni
[1], esercitata con l’emanazione della legge regionale 3/2020,
in Friuli Venezia Giulia trova applicazione la legge regionale in luogo di
quella statale, pur tuttavia dal confronto tra le due disposizioni si evince
la sostanziale conformità dei precetti dalle stesse posti.
Inoltre, quanto al requisito della pubblicità delle sedute da tenersi in
modalità telematica/videoconferenza, oggetto del presente quesito, la legge
regionale nulla dice espressamente, laddove, invece, il legislatore statale
ha unicamente disposto che debba essere data “adeguata pubblicità delle
sedute […] secondo le modalità individuate da ciascun ente”. Per tale parte
si ritiene che il legislatore statale abbia espresso un principio generale
applicabile anche nella nostra Regione.
Atteso che il regolamento dell’Ente non dispone alcunché circa tale aspetto,
si ritiene che spetti al Sindaco, quale Presidente del consiglio comunale,
stabilire le modalità che, nell’attuale situazione emergenziale, meglio
possano soddisfare il rispetto del principio di pubblicità delle sedute
consiliari. A tal fine, si ritiene che l’Ente debba avvalersi degli
strumenti a propria disposizione, attesa anche la previsione di legge
statale di cui all’articolo 73, comma 5, del DL 18/2020, secondo cui “le
amministrazioni pubbliche interessate provvedono agli adempimenti di cui al
presente articolo con le risorse umane, finanziarie e strumentali
disponibili a legislazione vigente sui propri bilanci”.
In particolare, delle due modalità proposte nel quesito, l’una consistente
nella diretta streaming e l’altra nella pubblicazione, successivamente alla
seduta, della registrazione integrale della seduta stessa, nel ribadire che
spetta al Presidente del consiglio decidere quale modalità utilizzare,
preferibilmente previo confronto con i Capigruppo
[2], si ritiene che
entrambe le modalità prefigurate siano in grado di raggiungere lo scopo per
il quale sono state predisposte e cioè consentire la pubblicità della seduta
del consiglio comunale.
Ciò premesso non può sottacersi che, qualora il
Comune abbia la strumentazione necessaria a consentire la diretta streaming,
essa pare configurare lo strumento che in maniera più diretta ed efficace
consentirebbe di dare adeguata pubblicità alla seduta del consiglio
comunale.
Con riferimento all’ultima questione posta, si ritiene che il segretario
comunale debba comunque indicare nel verbale, tra gli altri, l’argomento
trattato nella discussione, con tale espressione intendendosi far
riferimento all’indicazione dei tratti salienti della seduta stessa
[3].
---------------
[1] Ai sensi dell’articolo 4, primo comma, n. 1-bis), dello Statuto di
autonomia, introdotto dalla legge costituzionale 23.09.1993, n. 2.
[2] In mancanza di diversa previsione regolamentare, attuativa delle
disposizioni normative inerenti allo svolgimento delle sedute consiliari in
modalità telematica/videoconferenza, si ritiene infatti che, nell’ambito
della leale collaborazione tra maggioranza e minoranze consiliari, sia
opportuno che il Sindaco senta i Capigruppo.
[3] L’articolo 81 del regolamento consiliare (rubricato “Processo verbale
delle sedute”) prevede che il segretario debba redigere il processo verbale
della seduta indicando “a) la data e l’ora della seduta; b) il numero di
consiglieri presenti e le generalità degli assenti; c) l’argomento che viene
trattato; d) il risultato della discussione, con l’indicazione del numero
dei Consiglieri che hanno votato a favore della proposta, delle generalità
di quelli che hanno votato contro la proposta o che si siano astenuti”
(articolo 81, comma 2) (31.03.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Emergenza COVID-19. Sedute del consiglio comunale.
Lo svolgimento delle sedute del consiglio comunale,
nella situazione di emergenza da Covid-19 in atto, pur nell’assenza di
prescrizioni normative specifiche, impositive di particolari obblighi, deve
avvenire con modalità coerenti con le indicazioni che, a livello nazionale e
regionale, sono fornite per cercare di limitare quanto più possibile la
diffusione del virus.
Compete al presidente del consiglio comunale/sindaco stabilire tali modalità
di gestione delle sedute consiliari quali la necessità che esse si tengano a
porte chiuse, in guisa da evitare assembramenti di persone, o l’opportunità
di limitare le sedute del consiglio a quelle aventi ad oggetto questioni
urgenti e in ogni caso non differibili.
Il Comune, in considerazione della situazione di emergenza da Covid-19 in
atto, chiede un parere in merito alle modalità di svolgimento dei consigli
comunali. In particolare, desidererebbe avere delle indicazioni generali
sulle modalità di gestione delle sedute consiliari, tra cui la
necessità/opportunità di limitare le stesse ai soli casi di necessità e
indifferibilità.
In via preliminare si osserva che, ai sensi dell’articolo 38, comma 2, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 “il funzionamento dei consigli,
nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal
regolamento”.
Ai sensi dell’articolo 4 del regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale, la presidenza del consiglio spetta al sindaco (o, in caso di sua
assenza, al vicesindaco) il quale, ai sensi del successivo articolo 5,
provvede, tra l’altro, al “proficuo funzionamento dell’assemblea consiliare”
(comma 2) ed “esercita i poteri necessari per mantenere l’ordine e per
assicurare l’osservanza della legge, dello Statuto e del regolamento” (comma
3).
Spetta, pertanto, al sindaco, nella sua qualità di presidente del consiglio
comunale, assumere ogni decisione circa l’ordinato e proficuo svolgimento
delle sedute consiliari: nel particolare contesto in essere si ritiene che
il potere del sindaco comprenda ogni decisione ritenuta idonea a
fronteggiare l’emergenza esistente e, in particolare, permetta lo
svolgimento delle sedute consiliari con modalità coerenti con le indicazioni
che, a livello nazionale e regionale, sono fornite per cercare di limitare
quanto più possibile la diffusione del virus.
Con riferimento alle norme emanate, sia dal legislatore statale che
regionale, per fronteggiare l’emergenza in atto, non paiono sussistere
prescrizioni specifiche, impositive di particolari obblighi circa la tenuta
delle sedute consiliari.
In particolare, quanto alla normativa statale, i decreti del Presidente del
Consiglio dei Ministri emanati in attuazione del decreto-legge 23.02.2020, n. 6 pongono l’obbligo di rispettare una serie di condizioni generali
di tipo igienico-sanitario, la cui applicabilità è collegata all’esistenza
di più persone che si ritrovano in un unico luogo: di qui la necessità del
loro rispetto anche nel caso di sedute del consiglio comunale con la
presenza “fisica” dei consiglieri
[1].
Corollario della ratio sottesa all’emanazione di tali norme (che è quella di
evitare i contatti ravvicinati tra le persone al fine di limitare quanto più
possibile la trasmissione del virus da un individuo ad un altro) pare
essere, altresì, la necessità che, in questo momento di emergenza, le sedute
del consiglio comunale si tengano a porte chiuse, in guisa da limitare
assembramenti di persone
[2].
In linea con la ratio sopra indicata e con le prescrizioni che a livello
statale sono state adottate per gli altri settori della vita quotidiana, si
porrebbe, anche l’eventuale decisione del sindaco, quale presidente del
consiglio comunale, di limitare le sedute del consiglio a quelle aventi ad
oggetto questioni urgenti e in ogni caso non differibili. Nel ribadire
l’inesistenza di un obbligo siffatto, una decisione di tale natura
risulterebbe senz’altro coerente con l’attuale situazione emergenziale in
essere e con le indicazioni esistenti a livello nazionale che depongono nel
senso di limitare, sotto ogni profilo, gli spostamenti e i “movimenti” di
persone.
A tale riguardo, si fa presente che in data 12.03.2020 l’Assessore
regionale alle autonomie locali, funzione pubblica, sicurezza, politiche
dell'immigrazione, corregionali all'estero e lingue minoritarie ha inviato a
tutti i sindaci della nostra regione una nota nella quale, tra l’altro, si
afferma che: “E’ evidente che la situazione emergenziale che coinvolge
l’intera Nazione, comporta anche sacrifici e rallentamenti ineludibili in
numerose attività anche lavorative. Ciò significa che è dovere di tutti –soprattutto di coloro che abbiano responsabilità pubbliche– discernere con
serietà le attività veramente indifferibili da ogni altra che potrà essere
svolta o soddisfatta successivamente”.
Inoltre, si segnala anche la legge regionale 13.03.2020, n. 3 recante
“Prime misure urgenti per far fronte all’emergenza epidemiologica da COVID–19”, la quale all’articolo 11 reca “Modalità di svolgimento delle sedute
della Giunta regionale e del Consiglio regionale in casi di emergenza”. Tale
articolo risulta di interesse anche per gli enti locali della nostra Regione
stante il disposto di cui al comma 5, secondo cui “Le disposizioni di cui ai
commi da 1 a 4 possono trovare applicazione anche agli enti locali della
regione, in quanto compatibili con il loro ordinamento e nel rispetto della
propria autonomia”
[3].
Nell’evidenziare che la norma sopra citata pone una facoltà (“possono”) per
gli enti locali di adeguarsi a quanto disposto dalla stessa, si riproduce il
contenuto della disposizione recentemente emanata dal Consiglio regionale
secondo cui:
“1. In caso di situazione di particolare gravità e urgenza, riconosciuta
con provvedimento del Consiglio dei Ministri o del Presidente del Consiglio
dei Ministri, che renda temporaneamente impossibile o particolarmente
difficile al Consiglio regionale, alle Commissioni consiliari, alla
Conferenza dei Presidenti dei Gruppi consiliari o alla Giunta regionale
riunirsi secondo le ordinarie modalità stabilite dalla normativa vigente, è
consentito lo svolgimento delle sedute in modalità telematica.
2. Ai fini della presente legge, per seduta in modalità telematica si
intendono le sedute degli organi collegiali di cui al comma 1 con
partecipazione a distanza dei componenti dell’organo stesso attraverso
l’utilizzo di strumenti telematici idonei a consentire la comunicazione in
tempo reale a due vie e, quindi, il collegamento simultaneo fra tutti i
partecipanti ed idonei, per quanto riguarda il Consiglio regionale, a
permettere l’espressione del voto anche a scrutinio segreto.
3. La sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 è riconosciuta:
a) per il Consiglio regionale e per le Commissioni consiliari, dal
Presidente del Consiglio, sentita la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi
consiliari;
b) omissis;
c) omissis.
4. Con gli atti di rispettiva competenza gli organi di cui al comma 1
adottano le necessarie disposizioni attuative di quanto disposto dal
presente articolo.
5. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 possono trovare applicazione
anche agli enti locali della regione, in quanto compatibili con il loro
ordinamento e nel rispetto della propria autonomia” (16.03.2020 -
link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Gruppi consiliari.
1) La disciplina dei gruppi consiliari, ai
sensi dell’art. 38, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, è dettata dal regolamento
sul funzionamento del consiglio comunale “nel quadro dei principi stabiliti
dallo statuto”. Pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al
funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua
delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l’ente si è dotato.
2) Qualora un consigliere comunale esca dal gruppo di originaria
appartenenza e non intenda aderire ad alcun gruppo esistente, dovrebbe
essergli data la possibilità di aderire al gruppo misto, se esistente, o di
costituirlo ex novo: la possibilità che il gruppo misto sia costituito anche
da un solo componente soddisfa, infatti, il diritto di autodeterminazione
del consigliere e consentirebbe il pieno rispetto del principio
costituzionalmente garantito del divieto di mandato imperativo.
Il Consigliere comunale desidera sapere quale sia la “prassi corretta da
seguire per dimettersi dal gruppo elettorale di appartenenza mantenendo però
la posizione di consigliere comunale di minoranza indipendente”. La
questione posta attiene la più ampia tematica della disciplina dei gruppi
consiliari all’interno della compagine assembleare comunale.
In via preliminare si osserva che “il principio generale del divieto di
mandato imperativo sancito dall’articolo 67 della Costituzione, e
pacificamente applicabile ad ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni
consigliere l’esercizio del mandato ricevuto dagli elettori –pur
conservando verso gli stessi la responsabilità politica– con assoluta
libertà, ivi compresa quella di far venir meno l’appartenenza dell’eletto
alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza”
[1].
Sempre in termini generali si chiarisce che, come rilevato dal Ministero
dell’Interno, “i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e,
pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà
direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, che per
gli organi assembleari dell’ente”
[2].
Interessante, al riguardo è una
pronuncia del giudice amministrativo la quale ha precisato che “i gruppi
consiliari, in seno al Consiglio comunale […] hanno […] una duplice natura.
Essi infatti rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti
all’interno delle assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte
dell’ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo
istituzionale. È dunque possibile distinguere due piani di attività dei
gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo
gruppo con il partito politico di riferimento, l’altro, gravitante
nell’ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono
strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi
assembleari, contribuendo ad assicurare l’elaborazione di proposte e il
confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e
programmatiche”
[3].
Con riferimento alla fattispecie in esame l’intenzione del consigliere
comunale è quella di uscire dal gruppo originario di appartenenza costituito
dai consiglieri eletti nella medesima lista. A seguito di tali dimissioni si
porrebbe la questione di definire la nuova collocazione che assumerebbe
l’indicato consigliere attesa la sua volontà di mantenere “la posizione di
consigliere comunale di minoranza indipendente”.
La questione verrà nel prosieguo affrontata sotto il profilo della
disciplina dei gruppi consiliari, e non già di quello dei gruppi politici,
l’appartenenza o l’uscita dai quali è regolamentata dalle norme interne dei
diversi movimenti politici, senza influenza diretta sull’attività del
consiglio comunale.
Preliminarmente, si ricorda che la disciplina dei gruppi consiliari, ai
sensi dell’articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, è dettata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale “nel
quadro dei principi stabiliti dallo statuto”, essendo riconosciuta ai
consigli piena autonomia funzionale ed organizzativa. Pertanto, le
problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi
consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme
statutarie e regolamentari di cui l’ente si è dotato.
Tale disciplina è contenuta nell’articolo 30 dello statuto comunale e
nell’articolo 8 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
Il primo (articolo 30 dello statuto) recita: “I consiglieri possono
costituirsi in gruppi, designando il capogruppo, secondo quanto previsto nel
regolamento e ne danno comunicazione al Segretario comunale. Qualora non si
eserciti tale facoltà o nelle more della designazione, i capigruppo sono
individuati nei consiglieri che abbiano riportato il maggior numero dei voti
nella lista di appartenenza”.
Il secondo (articolo 8 del regolamento consiliare) prevede che:
“1. I Consiglieri eletti nella medesima lista formano, di
regola, un Gruppo Consiliare.
2. Ciascun Gruppo è costituito da almeno due Consiglieri. Nel caso
che una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo
Consigliere, a questi sono riconosciute le prerogative e la rappresentanza
spettanti ad un Gruppo Consiliare.
3. I singoli Gruppi devono comunicare per iscritto al Sindaco il
nome del Capo gruppo, durante la prima riunione del Consiglio neo-eletto.
[…]
4. Il Consigliere che intende appartenere ad un Gruppo diverso da
quello in cui è stato eletto deve darne comunicazione al Sindaco, allegando
la dichiarazione di accettazione del Capo del nuovo gruppo.
5. Il Consigliere che si distacca dal gruppo in cui è stato eletto
e non aderisce ad altri gruppi non acquisisce le prerogative spettanti ad un
gruppo consiliare. Qualora più Consiglieri vengano a trovarsi nella predetta
condizione, essi costituiscono un gruppo misto che elegge al suo interno il
Capo gruppo. Della costituzione del gruppo misto deve essere data
comunicazione per iscritto al Sindaco, da parte dei Consiglieri interessati.
6. Omissis”.
In via preliminare necessita ricordare che l’interpretazione delle norme
regolamentari in oggetto spetta in via esclusiva al consiglio comunale che è
l’organo competente all’adozione delle stesse. Di seguito pertanto si
forniscono delle possibili interpretazioni dell’articolo 8 del regolamento
per il funzionamento del consiglio che possano essere di ausilio per la
soluzione della questione posta.
Quanto alle modalità da porre in essere per uscire dal gruppo di
appartenenza si ritiene applicabile il disposto di cui al comma 4
dell’articolo 8 citato secondo cui “Il Consigliere che intende appartenere
ad un Gruppo diverso da quello in cui è stato eletto deve darne
comunicazione al Sindaco”. Si ritiene che tale norma possa applicarsi non
solo nel caso, espressamente disciplinato, di uscita da un gruppo e adesione
ad altro già esistente ma anche nella diversa ipotesi in cui non esista un
gruppo al quale aderire.
Peraltro, l’articolo 30 dello statuto comunale prevede che la costituzione
dei gruppi consiliari debba essere comunicata al segretario comunale. Al
fine di coordinare le due disposizioni si ritiene opportuno che la
comunicazione da parte dell’amministratore locale venga effettuata nei
confronti sia del sindaco che del segretario comunale.
Si pone, poi, la questione di individuare il gruppo di successiva
appartenenza del consigliere comunale in riferimento.
Attesa, infatti, l’impossibilità per il consigliere di costituire da solo un
gruppo autonomo, stante la previsione di cui al comma 2 dell’articolo 8 del
regolamento consiliare in base al quale “ciascun gruppo è costituito da
almeno due Consiglieri”, bisogna considerare la possibilità che lo stesso
entri a far parte del gruppo misto o lo costituisca, se non esistente. Non
pare invece sostenibile la possibilità che un amministratore locale non
faccia parte di alcun gruppo consiliare. La mancata incardinazione in un
gruppo consiliare, infatti, si tradurrebbe in un’inaccettabile
penalizzazione per il consigliere, attesa l’esistenza di diverse norme nel
nostro ordinamento che presuppongono l’appartenenza ad un gruppo
consiliare
[4].
Nel ribadire che la materia dei gruppi consiliari deve trovare la propria
disciplina nelle norme statutarie e regolamentari dell’ente locale, si
osserva che l’articolo 8, comma 5, del regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale parrebbe non consentire la possibilità di istituire il
gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente. Esso,
infatti, prevede che: “Il Consigliere che si distacca dal gruppo in cui è
stato eletto e non aderisce ad altri gruppi non acquisisce le prerogative
spettanti ad un gruppo consiliare. Qualora più Consiglieri vengano a
trovarsi nella predetta condizione, essi costituiscono un gruppo misto che
elegge al suo interno il Capo gruppo. Della costituzione del gruppo misto
deve essere data comunicazione per iscritto al Sindaco, da parte dei
Consiglieri interessati”.
Occorre, peraltro, considerare che in linea generale il gruppo misto è un
gruppo consiliare con carattere residuale, nel quale confluiscono i
consiglieri, anche di diverso orientamento, che non si riconoscono negli
altri gruppi costituiti, o che non possono costituire un proprio gruppo per
mancanza delle condizioni previste dallo statuto o dal regolamento e la cui
costituzione non dovrebbe essere subordinata alla presenza di un numero
minimo di componenti. La possibilità di consentire che il gruppo misto sia
costituito anche da un solo componente soddisfa, in altri termini, il
diritto di autodeterminazione del consigliere e consentirebbe il pieno
rispetto del principio costituzionalmente garantito del divieto di mandato
imperativo.
Si rileva, ancora, che fino a quando il gruppo misto è composto da un solo
membro, lo stesso dovrebbe assumere automaticamente la veste di capogruppo.
Il Ministero dell’Interno, in diverse occasioni, nell’affrontare la
questione in riferimento, pur premettendo che “le problematiche relative
alla costituzione e funzionamento dei gruppi consiliari devono essere
valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di
cui l’ente locale si è dotato”
[5], stante la piena autonomia funzionale e
organizzativa riconosciuta ai consigli comunali, ha affermato che
“l’esercizio del diritto di costituire il gruppo misto non dovrebbe essere
subordinato alla presenza di un numero minimo di componenti”
[6].
Concludendo, alla luce delle considerazioni suesposte le norme regolamentari
del Comune dovrebbero rispettare i principi sopra espressi per quanto
concerne la costituzione del gruppo misto. Si suggerisce, pertanto, di
richiedere all’Ente di appartenenza di valutare l'opportunità di procedere
alla modifica di quelle disposizioni che si pongano in contrasto con essi e
che costituirebbero una lesione delle prerogative riconosciute ai
consiglieri comunali.
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[1] Così TAR Trentino Alto Adige, sentenza del 09.03.2009, n. 75.
[2] Ministero dell’Interno, parere del 21.01.2020.
[3] TAR Lazio, Roma, sez. II-ter, sentenza del 15.12.2004, n. 16240.
[4] Una tale necessità si desume da diverse previsioni che presuppongono
l’esistenza dei gruppi consiliari all’interno del consiglio comunale. Si
pensi, a titolo di esempio, alla norma di cui all’art. 38, comma 3, TUEL,
ove si demanda al regolamento sul funzionamento del consiglio la disciplina,
tra l’altro, anche della gestione delle risorse attribuite per il
funzionamento dei gruppi consiliari regolarmente costituiti o all’art. 39,
comma 4, TUEL il quale prevede che il presidente del consiglio comunale
assicuri una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari sulle
questioni sottoposte al consiglio.
[5] Ministero dell’Interno, parere del 12.08.2019.
[6] Ministero dell’Interno, parere del 22.11.2019. Nello stesso senso
Ministero dell’Interno, parere del 21.07.2017 (05.03.2020 - link
a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
aggiornamento al
14.04.2020 |
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ATTI AMMINISTRATIVI:
La pubblicazione delle ordinanze del sindaco per l’emergenza sanitaria da
COVID-19.
Domanda
Nell’ambito dell’emergenza sanitaria da COVID-19, il sindaco ha emesso
numerose ordinanze di carattere contingibile e urgente.
Dove si devono pubblicare tali atti ai fini della trasparenza?
Risposta
La potestà del sindaco di emettere ordinanze contingibili ed urgenti, in
caso di emergenze sanitari o di igiene pubblica, è rinvenibile nell’art. 50,
comma 5, del Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), approvato con decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, laddove vengono elencate le competenze del
sindaco, in qualità di capo dell’amministrazione.
Analoga facoltà è contenuta anche nell’articolo 32, comma 3, della legge
23.12.1978, n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale.
In relazione alla eccessiva creatività e senso spiccatamente pirotecnico di
alcuni sindaci, sprigionato in modo irrefrenabile, soprattutto nella prima
fase di contagio, il Governo è stato costretto ad intervenire, con somma
urgenza, inserendo una specifica clausola nel decreto-legge 25.03.2020, n.
19, laddove all’articolo 3, comma 2, si specifica che: "2. I Sindaci non
possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti
dirette a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, né
eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1.".
Chiarito il percorso normativo che precede l’adozione di una ordinanza
sindacale, è possibile rispondere al quesito richiamando il contenuto
dell’articolo 42, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cosiddetto:
decreto Trasparenza), il quale prevede che le pubbliche amministrazioni che
adottano provvedimenti contingibili e urgenti e in generale provvedimenti di
carattere straordinario in caso di calamità naturali o di altre emergenze,
ivi comprese quelle relative ai compiti di Protezione civile, sono tenute a
pubblicare:
a) i provvedimenti adottati, con la indicazione espressa delle
norme di legge eventualmente derogate e dei motivi della deroga, nonché
l’indicazione di eventuali atti amministrativi o giurisdizionali
intervenuti;
b) i termini temporali eventualmente fissati per l’esercizio dei
poteri di adozione dei provvedimenti straordinari;
c) il costo previsto degli interventi e il costo effettivo
sostenuto dall’amministrazione.
Tali informazioni vanno pubblicate nella sezione Amministrazione
trasparente > Interventi straordinari e di emergenza, in formato tabellare
aperto, con aggiornamento tempestivo e per la durata di cinque anni, contati
dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello di pubblicazione, per effetto
dell’art. 8 del d.lgs. 33/2013 (14.04.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Premio
100 euro per lavoro in sede durante epidemia coronavirus.
Domanda
Come va riproporzionato il premio dei 100 euro secondo l’Agenzia delle
Entrate?
Risposta
Le indicazioni fornite dall’Agenzia delle entrate nella circolare 03.04.2020
n. n. 8/E, sono congruenti con il disposto di cui all’art. 63 del decreto
cura Italia anche se trascurano dettagli rilevanti.
La previsione di fonte legale dispone che ai titolari di redditi di lavoro
dipendente, che possiedono un reddito complessivo da lavoro dipendente
dell’anno precedente di importo non superiore a 40.000 euro spetta un
premio, per il mese di marzo 2020, pari a 100 euro da rapportare al numero
di giorni di lavoro svolti nella propria sede di lavoro nel predetto mese.
La ratio dell’istituto, come confermato dall’Agenzia, è quella di
dare ristoro ai dipendenti che hanno continuato a lavorare nel mese di
marzo, senza poter adottare, quale misura di prevenzione, quella del lavoro
agile da remoto.
È del tutto evidente che della medesima ratio va tenuto conto anche qualora
siano intervenute, nel corso del mese di marzo, assenze che di fatto abbiano
allontanato il lavoratore dal rischio di contagio.
L’agenzia delle Entrate, nel fornire la formula per il riproporzionamento
complica la comprensione con un suggerimento che rischia di essere frainteso
se non letto con molta attenzione.
Conferma che l’importo del bonus va determinato in ragione del periodo di
lavoro durante il quale il dipendente presta effettivamente l’attività
lavorativa presso la propria sede, escludendo quindi le giornate nelle
quali, ad esempio, è stato in malattia, ferie o altra aspettativa senza
corresponsione di assegni.
L’istruzione è quella di non considerare nel rapporto le giornate di assenza
di ferie o malattia, togliendole quindi sia al numeratore che al
denominatore.
Esempio
Per esemplificare, immaginiamo che un lavoratore abbia goduto di 6 giorni di
ferie nel mese di marzo:
Il rapporto iniziale da cui partire è quello tra i 100 euro mensili e le 26
giornate lavorative (divisore previsto dal CCNL degli Enti Locali). Il
rapporto, nel suo risultato, restituisce il valore giornaliero del premio,
per ciascuna giornata di servizio resa in presenza (3,85 euro).
Secondo l’Agenzia delle entrate, questo rapporto deve tenere conto di sei
giorni di ferie, escludendole, non considerandole, sia dal numeratore che
dal denominatore. Il rapporto diventa quindi:
Il risultato al quale conduce questa operazione in relazione alla
determinazione dell’importo del premio giornaliero, è uguale a quello che si
avrebbe avuto nel caso in cui si fosse moltiplicato il valore giornaliero
del premio (3,85 euro) per il numero di giorni di effettiva presenza, ad
esclusione ovviamente delle ferie, dove non c’è presenza fisica in sede.
Dove invece l’istruzione risulta essere incompleta e poco precisa è
nell’elenco delle assenze che escludono dal diritto di vedersi riconosciuto
il valore del premio. L’Agenzia invita a non considerare solo i periodi di
malattia, ferie e aspettative non retribuite, dimenticando di fare un cenno
a tutti gli istituti che di fatto, retribuiti o meno che siano, giustificano
l’assenza dal servizio reso in presenza, dei lavoratori.
Il buon senso e l’analogia interpretativa, nel rispetto della
ratio legis,
coprono il vuoto e conducono ad una soluzione facile e condivisa. Ogni
assenza fisica dal servizio non dà diritto, per quella giornata, a ricevere
il premio, sia essa di origine contrattuale che di fonte legale.
Ragione per cui si ritiene che lo smart working, così come i congedi ex art.
25 d.l. 18/2020, i permessi ex art. 24 d.l. 18/2020 e ogni altro istituto a
giustificazione di un’assenza giornaliera, non debbano essere considerati
nel rapporto, né al numeratore, né al denominatore.
Esempio
Marzo 2020: 6 gg. ferie + 3 gg. L. 104/1992 + 4 gg. smart working
Pari risultato si sarebbe ottenuto molto più semplicemente con la regola
suggerita nel n. 7/2020 di Personale News:
Posto che, come previsto dal CCNL, la retribuzione giornaliera è calcolata
su 26 giornate mensili, la quota potrà essere erogata secondo la seguente
formula:
100/26*giornate lavorate in sede nel mese di marzo 2020
Nell’esempio fatto poco sopra:
Rimangono perplessità circa l’impossibilita che ne deriva da questo calcolo,
di riconoscere per intero il premio dei 100 euro, al lavoratore il cui
orario di lavoro sia articolato in 5 giorni settimanali e non 6.
Il divisore mensile dei 26 giorni non garantisce mai il premio intero,
nemmeno laddove sia stato lavorato tutto il mese.
Si ritiene pertanto legittimo utilizzare un divisore diverso, nel caso in
cui l’articolazione dell’orario di lavoro preveda 5 giorni lavorativi, che
corrisponde a 22 giorni mensili. Questo consente di riconoscere per intero
il premio come la norma di legge prescrive (09.04.2020 - link a www.publika.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Direzione
lavori e procedura semplificata.
Domanda
In relazione ai servizi di “Direzione Lavori” per importi pari a
80mila euro è possibile ricorrere all’affidamento diretto oppure si impone
l’esigenza di invitare un numero minimo di soggetti?
Risposta
In relazione ai “servizi” di direzione lavori (diversi da quelli
richiamati nel primo periodo del comma 2 dell’articolo 23) dispongono
l’articolo 157 e le linee guida ANAC n. 1 (che confermano, evidentemente, il
dato normativo).
In particolare, nel caso che qui interessa, il comma 2 dell’articolo 157 in
cui si chiarisce che nelle fasce d’importo comprese tra i 40/100mila euro
gli incarichi devono essere affidati “a cura del responsabile del
procedimento, nel rispetto dei principi di non discriminazione, parità di
trattamento, proporzionalità e trasparenza, e secondo la procedura prevista
dall’articolo 36, comma 2, lett. b)” e “l’invito è rivolto ad almeno
cinque soggetti, se sussistono in tale numero aspiranti idonei nel rispetto
del criterio di rotazione degli inviti”.
Quindi al netto di situazioni particolari, che il RUP avrà cura di motivare
debitamente con la determinazione di affidamento, l’assegnazione diretta per
gli importi sopra pari o sopra i 40mila euro si presenta del tutto
particolare ed “eccezionale”.
Da rammentare che in tema è intervenuta la recente “deroga” prevista
con la legge 160/2019 (legge di bilancio per il 2020).
Più nel dettaglio (comma 258) si prevede che “Al fine di assicurare
l’esecuzione degli interventi di edilizia scolastica, è destinata quota
parte, pari a 10 milioni di euro, delle risorse non impegnate di cui
all’articolo 1, comma 1072, della legge 27.12.2017, n. 205, già assegnate
con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 28.11.2018, pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale n. 28 del 02.02.2019, in favore del Ministero
dell’istruzione, del l’università e della ricerca per la messa in sicurezza
degli edifici scolastici per l’annualità 2023”.
In relazione a quanto –e senza possibilità di estensione analogica– il
successivo comma 259 consente una minima competizione (interventi di
progettazione periodo 2020/2023) la possibilità di utilizzare la prerogativa
di cui alla lettera b), comma 2, articolo 36 (5 operatori) fino a tutto il
sottosoglia e non solo in relazione ad importi inferiori ai 100mila euro (08.04.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Informatizzazione
della P.A..
Questo Comune si trova ad avere personale dipendente
senza dispositivi elettronici nella propria abitazione. L'Amministrazione
dal canto suo non è in grado, per motivi finanziari e tecnici, di dotare
tutto il personale di adeguata strumentazione, almeno per il momento.
Qualora sia obbligatorio consentire lo "smart working" che tipo di attività
potrebbero essere svolte dal personale?
Il D.L. 17.03.2020, n. 18 "Misure di potenziamento del Servizio sanitario
nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese
connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19" all'art. 87
stabilisce che, fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica
(al momento il 31 luglio, salvo anticipazione o proroga) il lavoro agile è
la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle
pubbliche amministrazioni.
Tale modalità prescinde dalla tipologia di lavoro svolta dal dipendente
(tramite postazione informatica o meno).
Infatti lo stesso decreto stabilisce che la prestazione lavorativa in lavoro
agile può (non deve) essere svolta anche attraverso strumenti informatici
nella disponibilità del dipendente implicitamente ammettendo, oltre alla
ovvia opzione che sia svolta con dotazioni informatiche assegnate dall'ente,
che possa svolgersi anche senza alcuna dotazione informatica (o con
dotazioni con connesse alla rete internet).
Il Ministro per la pubblica amministrazione ha adottato la Circ. 01.04.2020
n. 2 nella quale ha precisato che "È altresì possibile -anzi è
auspicabile che le amministrazioni si attivino in tal senso- promuovere
percorsi informativi e formativi in modalità agile che non escludano i
lavoratori dal contesto lavorativo e dai processi di gestione
dell'emergenza, soprattutto con riferimento a figure professionali la cui
attività potrebbe essere difficilmente esercitata in modalità agile e per le
quali l'attuale situazione potrebbe costituire un momento utile di
qualificazione e aggiornamento professionale". Con ciò invitando a
valutare, prima di disporre un eventuale esonero dallo svolgimento di
prestazione lavorativa, l'attivazione di percorsi di formazione ed
informazione del personale dipendente.
Poi, è stato siglato il protocollo 03.04.2020 tra il ministro per la Pubblica amministrazione e Cgil, Cisl e
Uil per la "prevenzione e la sicurezza dei dipendenti pubblici in ordine
all'emergenza sanitaria da 'Covid-19'" nel quale si esplicita questo
aspetto segnalando come, "in linea con quanto recato dalla richiamata
circolare n. 2/2020, qualora non sia possibile ricorrere alle forme di
lavoro agile, le amministrazioni, fermo restando l'eventuale ricorso alle
ferie pregresse maturate fino al 31.12.2019, ai congedi o ad analoghi
istituti qualora previsti dai CCNL vigenti, nonché, ove richiesto dai
dipendenti, dei congedi parentali straordinari previsti a garanzia delle
cure genitoriali da prestare, possono ricorrere, nelle modalità previste dai
vigenti CCNL, al collocamento in attività di formazione in remoto
utilizzando pacchetti formativi individuati dal datore di lavoro".
Alla luce di tale contesto e dei chiarimenti indicati qualora la prestazione
lavorativa sia attivabile in lavoro agile (secondo una analisi oggettiva che
escluda una presenza fisica in ufficio), l'eventuale mancanza (permanente o
temporanea) di dotazione informatica non impedisce la relativa attivazione,
ma determina un onere in carico al datore di lavoro di definire le modalità
operative più idonee per svolgere altre e diverse prestazioni lavorative
(sempre proprie della mansione) a cui affiancare attività di informazione e
formazione.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.C.M. 22.03.2020, art. 1
Documenti allegati
Circ. 01.04.2020 n. 2
(08.04.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Pubblicazione
dati personali per possesso arma da fuoco.
Domanda
Un Agente della Polizia locale chiede la rimozione di un decreto del
Sindaco, adottato nell’anno 2016 e tutt’ora pubblicato nel sito web del
comune nella sezione Albo Pretorio on-line, per la disciplina
dell’assegnazione dell’arma da fuoco, ai componenti del comando di Polizia
locale.
Dobbiamo accogliere la richiesta?
Risposta
Ai sensi della disciplina in materia –articolo 4, Paragrafo 1, n. 1, del
Regolamento UE 2016/679, in materia di privacy– si considera “dato
personale” qualsiasi informazione riguardante una persona fisica
identificata o identificabile (“interessato”). Inoltre, “si
considera identificabile la persona fisica che può essere identificata,
direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un
identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi
all’ubicazione, un identificativo on-line o a uno o più elementi
caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica,
economica, culturale o sociale”.
Sulla base del su indicato enunciato, il trattamento dei dati personali deve
avvenire nel rispetto dei principi indicati nell’articolo 5, del Regolamento
UE, fra cui viene menzionato quello di “minimizzazione dei dati”,
secondo il quale i dati personali devono essere “adeguati, pertinenti e
limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono
trattati” (Paragrafo 1, lettera c).
Il regolamento UE 2016/679, in aggiunta, al Capo III, Sezione I, articoli da
15 a 21 prevede, in capo agli interessati, alcuni diritti, tra i quali
(articolo 17), il Diritto alla cancellazione, che si sostanzia
nell’ottenere, senza ingiustificato ritardo, la cancellazione dei dati
personali che lo riguardano, nei casi previsti dal Regolamento UE.
Dalla consultazione del documento comunale, effettuata direttamente nel sito
web, è emerso che:
• sono presenti i nominativi di tutti gli Agenti a cui viene
affidata un’arma da fuoco;
• viene riportato, per ciascuno di essi, la data e il luogo di
nascita, nonché l’indirizzo di residenza;
• vengono riportati i dati del decreto Prefettizio che attribuisce,
a ciascuno di loro, la qualifica di Agente di Pubblica sicurezza.
Per quanto sopra, si consiglia, di provvedere con urgenza:
a) ad accogliere la richiesta del dipendente, rimuovendo il decreto
del sindaco, che, tra l’altro, è dell’anno 2016;
b) evitare, per il futuro, di pubblicare simili decreti, dal
momento che è sufficiente la loro notifica agli interessati, indicando
l’autorità e il termine entro cui è possibile presentare ricorso (art. 3,
comma 4, legge 241/1990);
c) non si rinviene alcuna norma di legge che obbliga le P.A. a
pubblicare nel sito web, tali documenti, completi di tutti dati personali,
sopra meglio elencati;
d) verificare se esiste una norma di regolamento (Regolamento del
Corpo di Polizia Locale?) che prevede l’obbligo di pubblicazione del decreto
del sindaco ed eventualmente modificarlo, sopprimendo l’obbligo;
e) assicurarsi che dopo l’eliminazione, il documento non sia più
consultabile in rete, né con i normali motori di ricerca, né con quelli
propri del sito web dell’ente;
f) applicare, per tutti i documenti che vengono pubblicati via web,
all’albo pretorio e/o nella sezione Amministrazione trasparente, il
principio di pertinenza e non eccedenza, in applicazione delle richiamate
disposizioni del Regolamento UE 2016/679 e del documento del Garante privacy
italiano, datato 15.05.2014, recante “Linee guida in materia di
trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti
amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web
da soggetti pubblici e da altri enti obbligati” (07.04.2020 - link a www.publika.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: I
rifiuti abbandonati sulle strade.
DOMANDA:
Spesso si rinvengono rifiuti urbani sulle piazzole delle strade provinciali
senza che venga identificato il soggetto che li ha abbandonati.
Ai fini della rimozione possono nascere dei contenziosi tra Provincia e
Comune in ordine a chi dei due enti debba procedere al recupero ed allo
smaltimento di essi.
Si richiede pertanto, dal combinato disposto dell’art. 14 del vigente Codice
della Strada e dell’art. 192 del TUA, quale dei due Enti debba procedere,
con conseguente obbligo di sostenerne i costi.
RISPOSTA:
La questione posta nel quesito è stata affrontata, proprio in relazione ad
un caso analogo che vedeva contrapposti un Comune ed una Provincia in ordine
alla rimozione di rifiuti abbandonati da ignoti su una piazzola di sosta su
una strada di proprietà della Provincia, dal Consiglio di Stato, Sez. V,
nella sentenza n. 3256/2012 depositata il 31.05.2012 ed è stata risolta nel
senso che spetta alla Provincia, ai sensi dell’art. 14 del D.Lgs. n.
285/1992, rimuovere i predetti rifiuti.
I Giudici di Palazzo Spada sono pervenuti a tale conclusione in base alle
motivazioni che di seguito si ritiene opportuno riportare: «Secondo un
condivisibile indirizzo giurisprudenziale, ai sensi dell’articolo 14 del
Codice della strada, spetta agli enti proprietari (e ai concessionari delle
autostrade) provvedere alla loro manutenzione, gestione e pulizia, comprese
le loro pertinenze e arredo, nonché attrezzature, impianti e servizi e,
quindi, non limitatamente al solo nastro stradale, ma anche alle piazzole di
sosta, onde siano garantite la sicurezza e la fluidità della circolazione»
(C.d.S., sez. IV, 04.05.2011, n. 2677; 13.01.2010, n. 84).
È stato del resto puntualmente osservato (Cass. SS.UU. 25.02.2009, n. 4472)
che, seppure per un verso non può negarsi che l’articolo 14 del D.Lgs.
05.02.1997, n. 22, oggi sostituito dall’art. 192 del D.Lgs. 03.04.2006, n.
152, preveda la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare
di diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono stati
abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo
obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la
violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa (in
termini, C.d.S., sez. V, 26.01.2012, n. 333; 22.03.2011, n. 4673;
16.07.2010, n. 4614), per altro verso “esigenze di tutela
ambientale sottese alla predetta norma rendono evidente che il riferimento è
a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in
senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con
l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli
-e per ciò stessa imporgli– di esercitare una funzione di protezione e
custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a
discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente”;
è stato poi sottolineato che “…il requisito della colpa postulato da
detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e
delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare
un’efficacia custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano
essere indebitamente depositati rifiuti nocivi”.
Ciò premesso, il Consiglio di Stato, nella sentenza sopra citata, dopo aver
affermato che nel caso di specie non era stata contestata l’appartenenza
all’Amministrazione Provinciale della strada sulla cui piazzola di sosta il
Comune aveva accertato l’abbandono di rifiuti, ha precisato che «non può
negarsi che la predetta Amministrazione provinciale avrebbe dovuto adottare
tutte le misure e cautele opportune e necessarie quanto meno per eliminare
tali rifiuti, di cui peraltro non può neppure negarsi la pericolosità oltre
che per l’ambiente, anche per la stessa circolazione stradale, tale obbligo
derivando direttamente dall’obbligo di custodia connesso alla
proprietà/appartenenza della strada, oltre che dalla previsione dell’art. 14
del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, secondo cui gli enti proprietari delle strade
devono provvedere, tra l’altro, alla manutenzione, gestione e pulizia delle
strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti
e servizi. Né può invocarsi, a fondamento della pretesa illegittimità, sotto
il profilo della contraddittorietà e della perplessità, dell’impugnata
ordinanza del Comune […], la circostanza che in essa sarebbe stata
richiamata non solo la speciale normativa del Codice della strada, ma anche
quella del Codice dell’ambiente (D.Lgs. 03.04.2006, n. 152), che subordina
la legittimità dell’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati sulle aree
all’accertamento della responsabilità del proprietario di quest’ultima».
Nell’esaminare e valutare il rapporto tra le due norme sopra citate, il
Consiglio di Stato ha altresì precisato quanto segue: «È sufficiente
rilevare che, mentre con il richiamo all’articolo 14 del Codice della strada
è stata indicata la norma violata e dunque il fondamento giuridico della
contestazione oggetto dell’ordinanza impugnata, con il richiamo al Codice
dell’ambiente è stato invece individuato il fondamento del potere e la
legittimazione dell’organo che lo ha esercitato, nonché le procedure da
adottare per l’attuazione dell’ordinanza stessa, non sussistendo così tra i
due complessi normativi alcuna contraddizione e incompatibilità cui
genericamente ha fatto riferimento l’amministrazione appellata; del resto,
diversamente opinando (ovverosia aderendo alle tesi dell’amministrazione
provinciale) non solo la norma dell’art. 14 del Codice della Strada sarebbe
di fatto priva di sanzione, non essendo ivi indicata l’autorità preposta
all’accertamento della violazione degli obblighi, per quanto nel caso di
rifiuti abbandonati sulle aree stradale (e loro pertinenze) non troverebbero
tutela alcuna né gli interessi ambientali, né quelli alla sicurezza della
circolazione».
Si rileva che il suddetto indirizzo giurisprudenziale pare essersi ormai
consolidato, considerato che recentemente la II Sez. del Consiglio di Stato,
occupandosi nuovamente della medesima questione, sebbene con riferimento ad
un caso che vedeva contrapposti un Comune e l’ANAS, ed esaminando il
rapporto tra l’art. 14 del D.Lgs. n. 285/1992 e l’art. 192 del D.Lgs. n.
152/2006, è pervenuta, nella sentenza n. 3967/2019 pubblicata il 13.06.2019,
alle medesime conclusioni in base alle seguenti motivazioni: «Tra la
disciplina di ordine generale contenuta nell’art. 192 del d.lgs. 152 del
2006 e quella specifica per i soggetti proprietari e concessionari di strade
contenuta nell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 viene pertanto ad instaurarsi
un rapporto di specialità (così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 14.03.2019,
n. 1684), contraddistinto dalla sussistenza nell’ordinamento di una norma
puntuale che, al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della
circolazione stradale, impone in via diretta al soggetto proprietario o
concessionario della strada di provvedere alla sua pulizia e, quindi, di
rimuovere i rifiuti depositati sulla strada medesima e sulle sue pertinenze.
Tale obbligo può ben correlarsi anche alle concorrenti necessità
dell’incolumità pubblica, nonché all’esigenza di evitare pregiudizi
all’ambiente e a tutti coloro che sono insediati nel territorio, e deve
pertanto essere fatto rispettare -in caso di inadempienza del proprietario o
del concessionario- dall’amministrazione comunale, in quanto
istituzionalmente tenuta a esercitare tutte le funzioni amministrative che
riguardano la popolazione ed il territorio comunale, anche con precipuo
riguardo ai servizi resi alla comunità e all’assetto e all’utilizzazione del
territorio medesimo (cfr. art. 13 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267).
Se così è, condivisibilmente il Comune ha dunque emesso il provvedimento
impugnato nei confronti di Anas S.p.a., e ciò proprio in quanto quest’ultima
è istituzionalmente e inderogabilmente obbligata a mantenere la pulizia
della strada da essa gestita e delle sue pertinenze. In tal senso la
disciplina dell’art. 14 del D.Lgs. 285 del 1992 si configura quale parametro
normativo per l’individuazione del profilo della colpa presupposto in via
generale dall’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006; e la disciplina medesima,
proprio in quanto è direttamente presupposta dalla mera circostanza della
proprietà ovvero del rapporto concessorio del soggetto inderogabilmente
preposto alla sua osservanza, neppure necessita di essere direttamente
richiamata dai provvedimenti di rimozione dei rifiuti emessi dalle autorità
comunali, essendo –per l’appunto– insito ex lege nella stessa qualità
dell’ente indicato quale proprietario o concessionario della pubblica strada
la conseguente necessità di ottemperare all’obbligo di legge ad esso
comunque imposto».
Per completezza, preme rilevare che anche la V Sez. del Consiglio di Stato,
nella recente sentenza n. 1684/2019 pubblicata il 14.03.2019, ha ritenuto
legittimo l’ordine di rimozione dei rifiuti, funzionale alla manutenzione,
gestione e pulizia delle strade e pertinenze, emesso da un Comune nei
confronti dell’ANAS, stante la mancata attivazione del predetto gestore
stradale (concessionario), ma, considerato che il Comune, nella fattispecie
in esame, aveva altresì ordinato ad ANAS, oltre alla rimozione dei rifiuti,
anche la bonifica, la decontaminazione e il risanamento igienico dei siti,
ha precisato, in relazione specificatamente al predetto ordine di bonifica,
decontaminazione e risanamento igienico dei siti, che si tratta di «adempimenti
che vanno oltre la gestione e pulizia delle strade, e sono strettamente
espressione di un rimedio sanzionatorio per la violazione del divieto dei
abbandono dei rifiuti, rientrante nell’ambito di operatività dell’art. 192
del D.Lgs. n. 152 del 2006» ed ha rilevato che «la sanzione non
potrebbe comunque essere direttamente (melius, in modo automatico, secondo
il parametro della responsabilità oggettiva) irrogata all’A.N.A.S. senza un
previo accertamento ed una coerente affermazione del titolo di
responsabilità», mettendo dunque in evidenza la necessità di espletare
un accertamento in contraddittorio, in quanto «è pur vero che la
previsione dell’art. 14 del Codice della strada, incentrando nel gestore del
servizio stradale tutte le competenze relative alla corretta manutenzione,
pulizia e gestione del tratto stradale, con le annesse pertinenze, potrebbe
costituire il parametro normativo per l’individuazione del profilo della
colpa ai sensi dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, ma ciò non può
avvenire al di fuori di un accertamento in contraddittorio, non essendo
ravvisabile una responsabilità da posizione del proprietario, ovvero, nella
specie, del concessionario (Cons. Stato, IV, 07.06.2018, n. 3430)»
(tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI:
Gestione dei contratti in essere.
Domanda
A seguito dell’adozione dei provvedimenti finalizzati al contenimento del
COVID-19 e l’interruzione di molti servizi comunali, in qualità di
Responsabile quali atti dovrei (o avrei dovuto) adottare con riferimento a
quei contratti che riguardano servizi non più possibili?
Risposta
La situazione drammatica e quasi surreale che stiamo vivendo ha trovato
impreparate le istituzioni e i cittadini nella gestione del quotidiano,
tanto che, di fronte al susseguirsi dei provvedimenti finalizzati al
contenimento del virus, le stesse amministrazioni locali sono intervenute
nella gestione dell’attività amministrativa secondo un ordine di priorità,
in primis quello della salute dei cittadini. Le numerose disposizioni
governative [1] e
locali hanno introdotto importanti limitazioni allo svolgimento
dell’attività sia pubblica che lavorativa, autorizzando solo quegli appalti
di estrema urgenza e indifferibili, con l’adozione di particolari
disposizioni igienico-sanitarie.
Per quei contratti in essere per i quali l’emergenza epidemiologica non
consente il regolare svolgimento, quali ad esempio, solo per citarne alcuni,
ristorazione scolastica, assistenza ad personam scolastica,
scuolabus, ecc., occorre applicare gli artt. 107 del d.lgs. 50/2016 e art.
23, co. 1, del d.m. 07.03.2018 n. 49.
L’art. 107, comma 1, stabilisce infatti che “In tutti i casi in cui
ricorrano circostanze speciali che impediscono in via temporanea che i
lavori procedano utilmente a regola d’arte, e che non siano prevedibili al
momento della stipulazione del contratto, il Direttore dei Lavori può
disporre la sospensione dell’esecuzione del contratto, compilando, se
possibile con l’intervento dell’esecutore o di un suo legale rappresentante
il verbale di sospensione, con l’indicazione delle ragioni che hanno
determinato l’interruzione dei lavori”.
Norma estesa anche ai contratti relativi a forniture e servizi ai sensi del
successivo comma 7.
Mentre il d.m. 07.03.2018 n. 49, in specie l’art. 23, comma 1, precisa che “Il
direttore dell’esecuzione, quando ordina la sospensione dell’esecuzione nel
ricorso dei presupposti di cui all’articolo 107, comma 1, del codice,
indica, nel verbale da compilare e inoltrare al RUP ai sensi dello stesso
articolo 107, comma 1, del codice, oltre a quanto previsto da tale articolo,
anche l’imputabilità delle ragioni della sospensione e le prestazioni già
effettuate”;
Pertanto, sussistendo le condizioni citate in premessa, il Direttore
dell’esecuzione dovrà ordinare la sospensione dell’esecuzione delle
prestazioni mediante un verbale da compilare e inoltrare al RUP, nel quale
indicare:
• i riferimenti contrattuali e l’ordinaria scadenza;
• le ragioni della sospensione;
• la situazione organizzativa al momento della sospensione;
• il dispositivo di sospensione con rinvio alla ripresa a seguito
della cessazione dello stato di emergenza e le eventuali cautele da adottare
anche ai fini del successivo riavvio.
Non appena siano venute a cessare le cause della sospensione (si spera
presto) seguirà un verbale di ripresa dell’attività che riporterà il nuovo
termine contrattuale.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 103, comma 4, del cd “Decreto Cura
Italia“ n. 18/2020, le Pubbliche Amministrazioni sono tenute a
sospendere i pagamenti di opere, servizi, forniture solo relativamente alle
prestazioni contrattuali oggetto di sospensione.
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[1] I principali Decreti adottati ai fini del contenimento dell’emergenza
epidemiologica: decreto-legge 23.02.2020, n. 6; DPCM 01.03.2020; DPCM
08.03.2020; DPCM 09.03.2020; DPCM 11.03.2020; decreto-legge 17.03.2020, n.
18; DPCM 22.03.2020, decreto del 25.03.2020; decreto-legge 25.03.2020 n. 19
(01.04.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assenza servizio lavoratori a rischio per coronavirus.
Domanda
L’Ufficio Personale del mio ente ha ricevuto un certificato del medico di
famiglia per un dipendente affetto da patologia cronica, ai fini
dell’applicazione dell’art. 26, comma 2, del d.l. 18/2020 (Cura Italia). In
ogni caso, il lavoratore attualmente non gode del riconoscimento della
condizione di cui alla l. 104/1992.
E’ sufficiente la documentazione prodotta per fruire del periodo di assenza
previsto dalla norma? E’ sufficiente la certificazione del medico di
famiglia o va allegata altra documentazione?
Risposta
L’articolo 26, comma 2, del decreto stabilisce che: ”Fino al 30 aprile ai
lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso del riconoscimento di
disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3,
della legge 05.02.1992, n. 104, nonché ai lavoratori in possesso di
certificazione rilasciata dai competenti organi medico legali, attestante
una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da
patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita, ai
sensi dell’articolo 3, comma 1, della medesima legge n. 104 del 1992, il
periodo di assenza dal servizio prescritto dalle competenti autorità
sanitarie, è equiparato al ricovero ospedaliero di cui all’articolo 19,
comma 1, del decreto legge 02.03.2020, n. 9”.
Nel comma sopra riportato si equiparano le assenze dal servizio prescritte
dalle competenti autorità sanitarie al ricovero ospedaliero con contestuale
applicazione della relativa disciplina delle seguenti categorie di soggetti:
• disabile in condizione di gravità di cui al comma 3, dell’art. 3,
della Legge n. 104/1992 (riconosciuta mediante apposita commissione medico
legale);
• disabile derivante da un quadro clinico a rischio, certificato da
organi medico legali, ai sensi dell’art. 3, comma 1, della Legge n.
104/1992.
Il Ministero del Lavoro, nella circolare del 24/03/2020, a proposito
dell’articolo 26, comma 2, del D.L. n. 18, si è limitato solo a ricordarne i
contenuti senza tuttavia fornire indicazioni operative e senza chiarire
soprattutto chi siano i competenti organi medico legali che attestano le
condizioni di rischio specificate dalla norma.
Specifici chiarimenti sono stati forniti nei giorni scorsi dalla nota della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, indirizzata agli organi
istituzionalmente competenti.
La nota chiarisce che “sono organi abilitati a certificare la condizione
di cui all’art. 26, comma 2, sia i medici preposti ai servizi di medicina
generale (c.d. medici di base), che i medici convenzionati con il S.S.N. (ai
sensi dell’articolo 30 accordo collettivo nazionale per la disciplina dei
rapporti con i medici di medicina generale, ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs.
n. 502 del 1992), la cui qualificazione giuridica è largamente riconosciuta
(a titolo esemplificativo, Cassazione Penale, sentenza n. 29788/2017,
secondo cui il medico convenzionato con la ASL è pubblico ufficiale con
ambito di competenza anche oltre quella territoriale della ASL, in quanto
“svolge l’attività per mezzo i poteri pubblicistici di certificazione, che
si estrinsecano nella diagnosi e nella correlativa prescrizione di esami e
prestazioni alla cui erogazione il cittadino ha diritto presso strutture
pubbliche, ovvero presso strutture private convenzionate”.
Le certificazioni di questi medici sono a tutti gli effetti da considerarsi
il prodotto dell’esercizio di funzioni pubbliche, dunque proveniente da “organismi
pubblici”.
Di questo avviso è anche il Consiglio di Stato che, con la sentenza n.
4933/2016, ha riconosciuto che la certificazione rilasciata da
professionisti autorizzati a eseguire prestazioni nell’interesse del
Servizio sanitario nazionale, può considerarsi proveniente da “pubblico
organismo”.
A parere di chi scrive è molto interessante e sicuramente condivisibile la
spiegazione che il Capo Ufficio della Presidenza del Consiglio dei Ministri
fornisce, nel proseguo della nota, circa l’interpretazione di cui sopra: «Del
resto, non seguendo tale interpretazione della norma si avrebbero due
effetti ugualmente e gravemente negativi. La norma è diretta a tutelare
persone che, per la loro condizione fisica di estrema fragilità, sono
sottoposte ad altissimo rischio della vita stessa, in caso di contagio. E’
quindi primario interesse collettivo tutelarle e ridurne al massimo
l’esposizione, ampliando la possibilità di autoisolamento. Viceversa, una
interpretazione che restringa ai soli servizi di medicina legale delle ASL
la possibilità di certificare, complicherebbe le modalità e le tempistiche
di accesso al beneficio, paradossalmente aumentando la circolazione di
queste persone.»
Pertanto i lavoratori classificati tra le categorie a rischio potranno
astenersi dal lavoro, rimanendo all’interno della propria abitazione e
questo periodo di «isolamento cautelativo» verrà equiparato alla
condizione di ricovero ospedaliero, quindi con uno stato assimilabile alla
malattia (senza l’applicazione della decurtazione di cui all’art. 71 del
D.L. 25.06.2008, n. 112, convertito in Legge 06.08.2008, n. 133) e come tale
retribuito (01.04.2020 - link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La privacy al tempo del virus COVID-19.
Domanda
Un consigliere di minoranza, con una interpellanza urgente, ha chiesto al
sindaco di pubblicare giornalmente, nel sito web del comune, i nominativi e
gli indirizzi delle persone risultate positive ai test sul COVD-19, sulla
base dei dati trasmessi dalla Prefettura, così da consentire agli altri
cittadini si prendere le loro precauzioni.
E’ possibile farlo?
Risposta
L’emergenza sanitaria, che ha colpito così tanto duramente la nostra nazione
–e il mondo intero– ha comportato l’adozione di misure per il contenimento
del contagio molto rilevanti e inimmaginabili sino a un mese fa.
Alcune di queste limitazioni hanno toccato, persino, dei diritti
fondamentali. Si pensi, per tutti, al diritto di libera circolazione e al
diritto di riunione, sanciti rispettivamente dagli articoli 16 e 17 della
Costituzione.
È giusto chiedersi, dunque, se lo stato di emergenza nazionale dichiarato
con una delibera del Consiglio dei ministri del 31.01.2020, per la durata di
sei mesi, possa, in qualche modo, incidere anche sul diritto alla tutela dei
dati delle persone fisiche, così come disciplinati dal Regolamento (UE)
2016/679 e, per quanto compatibili, dal decreto legislativo 30.06.2003, n.
196, alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 10.08.2018, n. 101.
La domanda risulta legittima, oltre che doverosa e una prima risposta è
venuta direttamente dal Comitato Europeo per la Protezione dei Dati (EDPB)
con la “Dichiarazione sul trattamento dei dati personali nel contesto
dell’epidemia di COVID-19”, adottata il 19.03.2020.
Il massimo organismo europeo in materia di tutela della privacy afferma che:
“Le norme in materia di protezione dei dati (come il regolamento generale
sulla protezione dei dati) non ostacolano l’adozione di misure per il
contrasto della pandemia di coronavirus. La lotta contro le malattie
trasmissibili è un importante obiettivo condiviso da tutte le nazioni e,
pertanto, dovrebbe essere sostenuta nel miglior modo possibile. È
nell’interesse dell’umanità arginare la diffusione delle malattie e
utilizzare tecniche moderne nella lotta contro i flagelli che colpiscono
gran parte del mondo. Il Comitato europeo per la protezione dei dati
desidera comunque sottolineare che, anche in questi momenti eccezionali,
titolari e responsabili del trattamento devono garantire la protezione dei
dati personali degli interessati. Occorre pertanto tenere conto di una serie
di considerazioni per garantire la liceità del trattamento di dati personali
e, in ogni caso, si deve ricordare che qualsiasi misura adottata in questo
contesto deve rispettare i principi generali del diritto e non può essere
irrevocabile. L’emergenza è una condizione giuridica che può legittimare
limitazioni delle libertà, a condizione che tali limitazioni siano
proporzionate e confinate al periodo di emergenza”.
Il documento, consultabile nel sito web del Garante Privacy italiano al
seguente link, tratta argomenti importanti come:
1 .La liceità del trattamento;
2. i principi fondamentali relativi al trattamento dei dati
personali;
3. l’uso dei dati di localizzazione da dispositivi mobili;
4. l’utilizzo dei dati nel contesto lavorativo.
In buona sostanza, anche la recentissima indicazione dell’EDPB, rileva che
le esigenze di contenimento dell’epidemia (pandemia, dall’11.03.2020,
secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità) e la tutela dei dati “particolari”
–come la salute– delle persone fisiche, rappresentano esigenze contrapposte
che vanno “contemperate”. Per fare ciò è necessario eliminare gli
agganci tra il dato personale di salute e la giusta necessità di informare
la popolazione; ciò lo si può fare applicando la pseudonimizzazione o l’anonimizzazione.
Rispondendo, quindi, alla specifica domanda del quesito è possibile
osservare che il sindaco, anche nella sua veste di autorità sanitaria locale
(ex art. 32, della legge 833/1978), riceve dalle autorità sanitarie
regionali o dalla Prefettura, i dati personali, completi di nominativo e
indirizzo, sia delle persone risultate “positive” ai test, che delle
persone collocate in quarantena fiduciaria dall’autorità sanitaria. Tale
trasferimento di dati risulta indispensabile anche per poter dare modo al
sindaco –tramite gli addetti della polizia locale– di procedere ai necessari
controlli e verifiche, circa il rispetto del periodo di quarantena, da parte
dei soggetti che ne sono obbligati.
Per quanto riguarda, invece, la comunicazione dei dati personali riferiti
allo stato di salute via web in favore dei cittadini (del globo), sarà
necessario rendere anonimi i dati riferiti ai nominativi e indirizzi di
residenza delle persone sottoposte a misure, pubblicando solamente un dato
numerico complessivo che dia conto, eventualmente, delle persone risultate
positive e di quelle che sono collocate in quarantena fiduciaria.
D’altro canto, va ricordato che la “sicurezza” degli altri cittadini,
viene garantita dall’autorità sanitaria competente per territorio, la quale
è tenuta a svolgere un’accurata indagine epidemiologica e a porre in “quarantena
con sorveglianza attiva” tutte quelle persone che possono essere entrate
in contatto con il soggetto positivo. Qualsiasi altra soluzione adottata
–oltre a violare gli articolo 6 e 9 del Regolamento (UE) 2016/679– darebbe
lo spunto per avviare una iniqua e pericolosa “caccia all’untore” (29.03.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Equivalenza profili professionali e modifica mansioni.
Domanda
Come funziona l’equivalenza dei profili professionali e la possibilità di
cambiare le mansioni dei dipendenti?
Risposta
La concreta possibilità di utile reimpiego in profili professionali
equivalenti rappresenta il legittimo esercizio del potere dello jus
variandi da parte del datore di lavoro pubblico.
La disciplina delle mansioni nel pubblico impiego si rinviene, in primis,
secondo la gerarchia delle fonti, dall’art. 52 del D.Lgs. 30.03.2001, n.
165, il quale, al comma 1, prevede: «Il prestatore di lavoro deve essere
adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni
equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle
corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito
per effetto delle procedure selettive di cui all’articolo 35, comma 1,
lettera a). L’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla
qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del
lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione.»
L’art. 3 del CCNL Regioni-Autonomie Locali del 31.03.1999, non disapplicato
dal recente CCNL Funzioni Locali del 21.05.2018, prevede:
• un sistema di classificazione del personale del comparto enti
locali suddiviso in quattro categorie, collegate alle declaratorie di cui
all’allegato «A», che descrivono requisiti professionali, competenze
richieste, caratteristiche essenziali delle mansioni ascrivibili, nonché una
esemplificazione di profili (art. 3, commi 1, 4, 5, 6);
• che tutte le mansioni ascritte dal contratto all’interno delle
singole categorie, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili,
e che l’assegnazione delle mansioni equivalenti costituisce atto di
esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro.
(art. 3, comma 2).
Sulla base di quanto sopra riportato, nella fattispecie proposta, si ritiene
necessario per il datore di lavoro pubblico procedere al mutamento del
profilo professionale del dipendente, nel rispetto delle Declatorie-
Allegato A del CCNL Regioni Autonomie Locali del 31/03/1999, come confermato
da ultimo anche dall’art. 19 del CCNL delle Funzioni Locali del 21/05/2018,
che disapplicando l’art. 14 del CCNL Regioni Autonomie Locali
dell’06/07/1995, ha elencato tra gli elementi che devono essere indicati nel
contratto individuale:
a) tipologia del rapporto di lavoro;
b) data di inizio del rapporto di lavoro;
c) categoria e profilo professionale di inquadramento;
d) posizione economica iniziale;
e) durata del periodo di prova;f
f) sede di lavoro;
g) termine finale in caso di rapporto di lavoro a tempo
determinato.
A conferma di quanto sopra esposto sul legittimo esercizio del potere dello
jus variandi del datore di lavoro pubblico, nell’ambito
dell’equivalenza delle mansioni, si nota che nell’elencazione sopra
riportata non compaiono più le mansioni corrispondenti alla qualifica di
assunzione, previsti invece nel disapplicato art. 14 CCNL dell’06/07/1995.
Il rifiuto a sottoscrivere un nuovo contratto di lavoro per il mutamento del
profilo professionale comporta la violazione degli obblighi di diligenza,
obbedienza e fedeltà che gravano sul prestatore di lavoro pubblico. Gli
stessi sono richiamati nel Codice di Comportamento (D.P.R. n. 62/2013) e
comunque ricompresi nell’obbligo generico di cui agli artt. 2104 e 2105 del
codice civile.
Ciò lo possiamo ricavare dal fatto che è espressamente previsto
l’applicazione dell’articolo 2106 del Codice Civile nell’articolo 55, comma 2,
del D.Lgs. 165/2001 e tale articolo richiama proprio gli articoli 2104 e
2105 del Codice Civile (26.03.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI:
Procedura negoziata con un numero di appaltatori inferiore a quanto
stabilito dalla norma.
Domanda
Avremmo necessità di un chiarimento in ordine alla possibilità di esperire
comunque una procedura negoziata per l’aggiudicazione del servizio di (…),
per un importo pari a 125 mila euro, anche se nel caso di specie gli
appaltatori che si sono proposti (in seguito a pubblicazione dell’avviso per
manifestare interesse rimasto in pubblicazione per n. 30 giorni) sono
solamente 4 e non 5 come previsto dalla norma.
Risposta
Il quesito si riferisce alla ipotesi di procedura semplificata ora prevista
–secondo la riscrittura intervenuta con la legge 55/2019– nella lettera b)
comma 2, dell’articolo 36 del Codice dei contratti.
La norma consente –per quanto concerne gli appalti di forniture e servizi–
in relazione al range di importo pari o superiore ai 40mila euro fino a
tutto il sotto soglia (per gli enti locali importi inferiori ai 214mila
euro) di avviare una competizione con almeno 5 operatori individuati con
l’indagine di mercato o tramite scelta dall’albo dei prestatori (interno
alla stazione appaltante).
In particolare, la disposizione si esprime in termini di affidamento diretto
previo confronto/competizione di almeno n. 5 operatori economici.
Chiaramente il riferimento all’affidamento diretto non è corretto
considerato che l’assegnazione non può prescindere dall’escussione di
diversi appaltatori.
La disposizione, come in altre circostanze segnalato, non esplicita il
procedimento che il RUP deve attuare ma, secondo tradizione, è bene che il
RUP pubblichi comunque l’avviso pubblico a manifestare interesse (sui cui
poi innestare gli inviti) o l’avviso a presentare direttamente la propria
migliore offerta.
La micro competizione è sicuramente il dato sostanziale di questo
procedimento ma può anche accadere che nonostante un procedimento
trasparente ed oggettivo (pubblicazione dell’avviso a manifestare interesse
anche per un tempo congruo come nel caso di specie) non si riesca ad
ottenere il numero minimo degli appaltatori richiesti dalla norma (ovvero
5).
A sommesso parere il RUP potrebbe avere due differenti opzioni: o valutare
di integrare il numero degli operatori invitando direttamente altri
appaltatori (magari scegliendoli discrezionalmente dalle vetrine del mercato
elettronico, facendosi guidare da riferimenti tecnici sempre applicando la
rotazione visto che si tratta di scelta discrezionale). In questo caso si
potrebbe raggiungere il numero minimo richiesto dalla norma.
Potrebbe altresì, a parere di chi scrive, se sono state rispettate le
condizioni di pubblicità e trasparenza (come nel caso prospettato) procedere
con l’invito dei soli soggetti che hanno presentato la propria candidatura.
Da notare che tale possibilità è anche prevista nello schema di regolamento
attuativo del codice dei contratti per i lavori nel range di importo tra
40/150mila euro (comma 1, art. 7).
In questo caso nella determina il RUP avrà cura di specificare che,
evidentemente, il mercato –in quel contesto particolare e/o per la tipologia
dell’appalto– non è grado di esprimere realtà economiche interessate
all’appalto.
Sempre che tale disinteresse, evidentemente, non sia stato determinato da
condizioni dell’appalto non convenienti che siano anche state segnalate
formalmente all’ente (in particolare al RUP) (25.03.2020 - link a
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ENTI LOCALI:
Prevenzione della corruzione da parte di una società controllata.
Domanda
È pervenuta al nostro Comune una segnalazione concernente la mancata
applicazione della normativa sulla trasparenza e prevenzione della
corruzione da parte di una società a responsabilità limitata a totale
partecipazione pubblica, di cui il Comune detiene una quota pari al 25%.
Il Comune è tenuto ad assumere qualche iniziativa al riguardo?
Risposta
Con le disposizioni introdotte dal decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, le
società in controllo pubblico sono assimilate alle pubbliche
amministrazioni, sia ai fini degli adempimenti in materia di trasparenza,
che relativamente alle misure di prevenzione della corruzione.
L’ambito soggettivo di applicazione del decreto legislativo 14.03.2013, n.
33 è disciplinato dal nuovo art. 2-bis che, al comma 2, lettera b), prevede
che la normativa di cui al citato d.lgs. 33/2013, si applica, per quanto
compatibile, alle società in controllo pubblico, come definite dal decreto
legislativo 19.08.2016, n. 175.
L’estensione della normativa in materia di prevenzione della corruzione alle
società a controllo pubblico si deduce invece dal comma 2-bis, della legge
06.11.2012, n. 190 introdotto dall’art. 41, comma 1, del d.lgs. 97/2016, che
prevede il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) costituisce atto di
indirizzo anche per i soggetti di cui all’art. 2-bis, comma 2 del d.lgs.
33/2013.
L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ha poi adottato la determinazione
n. 1134 del 08/11/2017 contenente le “’Nuove linee guida per l’attuazione
della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da
parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e
partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici”.
Si tratta di un atto molto articolato nel quale sono descritti sia gli
adempimenti a carico delle diverse tipologie di soggetti, sia i compiti a
carico delle amministrazioni controllanti e partecipanti, sia il contenuto
dell’attività di vigilanza dell’ANAC sugli enti e sulle amministrazioni
controllanti o partecipanti.
Per quanto riguarda le società, si specifica che rientrano nella tipologia
di società in controllo pubblico anche quelle a controllo congiunto, ossia
quelle in cui il controllo, ai sensi dell’art. 2359 codice civile è
esercitato da una pluralità di amministrazioni.
La società partecipata dal Comune rientra, dunque, in tale tipologia,
essendo una società a totale partecipazione pubblica.
Nel paragrafo 4, della determinazione ANAC n. 1134/2017, si ricorda
innanzitutto che le amministrazioni controllanti (o partecipanti) sono
tenute a pubblicare sul proprio sito istituzionale i dati di cui all’art.
22, del d.lgs. 33/2013. Le amministrazioni sono, poi, chiamate a vigilare
sull’adozione di misure di prevenzione della corruzione e di trasparenza da
parte degli enti controllati o partecipati e a promuoverne l’adozione ove
risulti che gli stessi siano inadempienti.
Compito delle amministrazioni è l’impulso e la vigilanza sulla nomina del
Responsabile delle Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT) e
sull’adozione di misure di prevenzione, che possono essere anche misure
integrative del “modello 231”. Gli strumenti utilizzabili sono quelli
propri del controllo: atto di indirizzo rivolto agli amministratori,
promozione di modifiche statutarie e organizzative, altro. L’attività di
impulso e vigilanza deve essere prevista nel Piano Triennale di Prevenzione
della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) dell’amministrazione controllante o
partecipante.
Nel caso di controllo congiunto le amministrazioni sono chiamate a stipulare
apposite intese -anche mediante patti parasociali – per definire a quale di
esse competa la vigilanza sull’adozione delle misure e sulla nomina del RPCT.
Con riferimento al quesito posto è, dunque, necessario che il comune si
attivi per verificare se la segnalazione è corretta ed assumere
eventualmente le iniziative indicate nella deliberazione ANAC n. 1134/2017.
Si suggerisce di verificare preliminarmente se è disponibile sul sito della
società la sottosezione “Società trasparente” –strutturata
conformemente all’Allegato 1) della citata deliberazione– e, in caso
positivo, se sono pubblicate le informazioni richieste relativamente alla
sottosezione “Altri contenuti > Prevenzione della corruzione” (24.03.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Eccedenze
orarie P.O..
Domanda
Alla luce delle più recenti norme contrattuali vi è una qualche possibilità
di riconoscere ai dipendenti incaricati di posizione organizzativa il
riposto compensativo per le ore eccedenti alle 36?
Risposta
Per quanto riguarda la problematica della durata delle prestazioni
settimanali delle posizioni organizzative si ritiene utile precisare che
relativamente all’orario di lavoro, il personale incaricato delle posizioni
organizzative, diversamente dai dirigenti, è tenuto ad effettuare
prestazioni lavorative settimanali non inferiori a 36 ore, mentre le
eventuali prestazioni ulteriori che gli interessati potrebbero aver
effettuato, in relazione all’incarico affidato e agli obiettivi da
conseguire, non sono retribuite e neppure danno titolo o diritto ad
eventuali recuperi compensativi perché non si tratta di ore di lavoro
straordinario.
La durata massima non viene determinata dal CCNL perché sarà collegata,
genericamente e dinamicamente, alla rilevanza ed alle effettive necessità
delle funzioni da svolgere. Il maggiore impegno di tale personale trova
ristoro nel riconoscimento delle specifiche voci di trattamento accessorio
rappresentate dalla retribuzione di posizione e da quella di risultato (art.
15 c. 1 del CCNL 21/05/2018).
Le prestazioni ulteriori rese dal dipendente PO non possono considerarsi
straordinarie o comunque aggiuntive rispetto al minimo delle 36 ore, ma sono
ordinario orario di lavoro. Le regole sul riposo sostituivo dello
straordinario, che presuppongono una eccedenza rispetto al debito orario
settimanale, non sono applicabili ai responsabili di posizione organizzativa
in quanto esclusi dalla disciplina dello straordinario.
A tali regole, fa eccezione solo il caso della prestazione lavorativa resa
nel giorno del riposo settimanale, in considerazione della tutela
costituzionale, legale e contrattuale apprestata per tale riposo; in
presenza di questa particolare fattispecie, il titolare di posizione
organizzativa avrà diritto comunque a fruire di una giornata di riposo
settimanale, che potrà, dunque, essere recuperata secondo modalità da
concordare con il dirigente, in modo comunque proporzionato alla durata
delle prestazioni rese (19.03.2020 - link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
chiarimenti per l’applicazione degli obblighi relativi all’installazione di
impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili (Regione
Lombardia,
nota 16.03.2020 n. 13689 di prot.).
---------------
Con Vs. nota del 4 marzo scorso, pervenuta il 12 marzo, prot.T1.2020.0013072,
è stato chiesto se gli edifici industriali, artigianali e rurali, in quanto
espressamente esclusi dall’ambito di applicazione della disciplina per
l’efficienza energetica degli edifici (punto 3,2, lettere a) e b) del
decreto 18546/2019), siano anche esclusi dagli obblighi di cui all’allegato
3 del d.lgs. 28/2011, relativo agli obblighi di copertura di parte del
fabbisogno energetico con fonti rinnovabili. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
quesito che intendo sottoporre riguarda un ampliamento di volume in
sopraelevazione, di un edificio unifamiliare posto all'interno della fascia
di rispetto stradale, di cui al D.Lgs. 30.04.1992, n. 285.
Tale ampliamento, già realizzato, rispetta il 2% previsto dall'art. 34,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e pertanto è ammesso anche se è in zona di vincolo
paesaggistico, come riportato dal D.P.R. 13.02.2017, n. 31.
Dato che il Codice della Strada non contempla tolleranze, come invece
previsto dalle norme su citate, si chiede se il 2% in ampliamento, che non è
considerato ai fini edilizi come parziale difformità, può essere applicato,
per analogia, anche all'art. 16 del C.d.S. vigente.
L'avanzato quesito riguarda un'interessante fattispecie, coinvolgente
problematiche di natura edilizia e di disciplina delle distanze.
Precisamente, la concreta fattispecie può essere così sintetizzata:
- In un edificio unifamiliare, posto all'interno del vincolo della
fascia di rispetto stradale, come disciplinata dal Codice della strada (D.Lgs.
30.04.1992, n. 285), è stato realizzato un intervento edilizio, comportante
un ampliamento di volume, che si sviluppa in una sopraelevazione.
Siffatto ampliamento rispetta le cd. "tolleranze di cantiere",
disciplinate dall'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Conseguentemente, l'intervento, in quanto rientrante nelle predette "tolleranze",
non dà luogo ad alcuna difformità, neppure parziale, rispetto al titolo
edilizio che ha legittimato il medesimo intervento.
A questo punto, si chiede di sapere se il consentito ("tollerato")
ampliamento dei "distacchi", cioè della distanza fra due edifici
fronteggianti, trova una legittimazione anche sul versante della fascia di
rispetto stradale. In altri termini, si chiede di sapere se la prevista "tolleranza"
della costruzione edilizia, in termini di "distacchi", pari al 2%
delle misure progettuali, trova applicazione anche nei riguardi dei limiti
afferenti la fascia di rispetto stradale.
Primariamente, occorre ricordare che il richiamato art. 34, comma 2-ter,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, stabilisce quanto segue: "Ai fini
dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura
o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per
cento delle misure progettuali".
Siffatta disposizione normativa è stata aggiunta dall'art. 5, comma 2,
lettera "a", n. 5, D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito in L. 12.07.2011, n.
106. La disposizione (ricalcante la pregressa ed analoga prevista dall'art.
32, comma 1, L. 28.02.1985, n. 47) è destinata ad operare, unicamente, nei
rapporti con la Pubblica amministrazione, non potendo legittimare alcuna
lesione dei diritti dei terzi, specie in materia di distanze tra
costruzioni. In altri termini, anche se un ampliamento del 2% del fronte di
un fabbricato potrà non costituire un abuso edilizio, il vicino potrà sempre
chiedere al giudice ordinario l'arretramento del corpo di fabbrica, per
ripristinare le distanze eventualmente violate.
In buona sostanza, la disposizione normativa prende in considerazione
quattro elementi di possibile tolleranza da valutare in confronto alle
misure progettuali. Gli elementi sono:
- Distacchi: la distanza tra due edifici fronteggianti;
- Cubatura: la volumetria espressa in metri cubi;
- Superficie coperta: la proiezione orizzontale al suolo della
sagoma esterna del manufatto;
- Altezza degli edifici.
Orbene, occorre osservare che la "fascia di rispetto", ai sensi
dell’art. 3, comma 1, n. 22 del Codice della strada, costituisce una
striscia di terreno, esterna al confine stradale, sulla quale esistono
vincoli alla realizzazione, da parte dei proprietari del terreno, di
costruzioni, recinzioni, piantagioni, depositi e simili.
Le fasce di rispetto stradali, normate dal Codice della Strada e dal suo
Regolamento attuativo (D.P.R. 16.12.1992, n. 495), hanno lo scopo di
prevenire l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e la loro
potenziale pericolosità a costituire, per la prossimità alla sede stradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico ed alla incolumità delle persone.
Attraverso la fascia di rispetto, si garantisce un'area utilizzabile,
all'occorrenza, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri,
per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie,
senza limitazioni connesse alla presenza di costruzioni. Di regola, le fasce
di rispetto vengono istituite con l'approvazione del Progetto definitivo
dell'opera stradale e permangono per tutta la vita utile della strada
medesima.
All'interno delle fasce di rispetto, vige il vincolo di inedificabilità. Ed,
infatti, la giurisprudenza conferma che: "In materia edilizia il vincolo
delle fasce di rispetto stradale o viario è di inedificabilità assoluta,
traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le
aree site in fascia di rispetto stradale o autostradale, indipendentemente
dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di
accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la circolazione stradale;
detto divieto, inoltre, opera direttamente ed automaticamente, per cui una
volta attestata in concreto la violazione del vincolo di inedificabilità, il
parere dell'amministrazione sull'istanza di condono non può che essere
negativo” (TAR Campania Napoli Sez. II, 26.09.2019, n. 4584).
Dal vincolo di in edificabilità discende il conseguente corollario che non
sono previste, dalla normativa in materia, "tolleranze" o forme equivalenti.
Infatti, l'art. 16, del Codice della strada, in tema di fasce di rispetto
fuori dai centri abitati, non contempla alcuna tolleranza. Il comma 1° di
tale articolo rinvia, per la concreta tipologia dei divieti, al Regolamento
di esecuzione e di attuazione del Codice della strada (D.P.R. 16.12.1992, n.
495). Il Regolamento non prevede, agli articoli 26 e seguenti, alcuna forma
di tolleranza. Parimenti, l'art. 18 del Codice della strada, in tema di
fasce di rispetto nei centri abitati.
Pertanto, non appare possibile alcuna applicazione analogica della peculiare
disciplina delle cd. "tolleranze di cantiere". Ciò, anche per
un'altra ragione: l'indicata disciplina consacra l'irrilevanza degli
scostamenti, entro il limite del 2%, nella discrasia fra la precisione
teorica degli elaborati tecnici e la concreta esecuzione degli interventi
(Il comma 2-ter dell'art. 34, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, infatti, consente
di escludere dall'ambito delle difformità rilevanti ai fini sanzionatori
quelle che si verificano a causa di un fisiologico scarto tra la precisione
del disegno e la realizzazione, o dalla consistenza dei materiali, o dalla
necessità di modesti adeguamenti in sede esecutiva e, pertanto, non possono
che rilevare le misure effettive delle opere realizzate. Peraltro è la
stessa norma che espressamente correla la soglia del 2% alle "misure
progettuali"; TAR Veneto Venezia Sez. II, 20.09.2019, n. 1013).
In relazione alla fascia di rispetto stradale, non si pone alcun problema di
"scostamenti" fra quanto previsto e quanto effettivamente realizzato. Ragion
per cui l'analogia non può trovare spazio alcuno.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 28.02.1985, n. 47, art. 32 -
D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 3 - D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 16 -
D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 18 - D.P.R. 16.12.1992, n. 495, art. 18 -
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 34 - D.P.R. 13.02.2017, n. 31
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Campania Napoli Sez. II, 26.09.2019, n. 4584 - TAR Veneto, Sez. II,
20.09.2019, n. 1013
(20.02.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: LE
VARIE ED EVENTUALI.
D. Possiamo deliberare sulla voce "Varie ed eventuali"?
E' ancora valida o vale solo per i Dipartimenti?
R. Una delle regole più importanti della collegialità amministrativa
riguarda la convocazione con annesso ordine del giorno. Quest’ultimo è
obbligatorio a pena di nullità e deve essere chiaro e completo, mai
generico. Con queste premesse, la voce "Varie ed eventuali" è quanto
di più pericoloso e quanto di più opaco possa esistere in spregio alla
trasparenza amministrativa. Ed è attività ben diversa dalle deliberazioni cd
“fuori sacco”, che affronteremo un’altra volta.
Orbene, deve essere premesso che ogni singolo componente ha il
diritto/dovere di essere informato esaustivamente sugli argomenti in
discussione. Ciò accade anche per consentire ai componenti dell’organo di
potersi determinare adeguatamente sulle questioni oggetto di discussione e
di deliberazione.
Inoltre, in base al "principio
della immutabilità dell'ordine del giorno", nell’adunanza è
possibile trattare esclusivamente argomenti che abbiano formato oggetto di
preannuncio tramite l'avviso di convocazione. Una famosa pronuncia di
Palazzo Spada ha chiarito il significato del principio della immutabilità
dell’ordine del giorno. Infatti, non solo impedisce secondo l’accezione
consueta, che possano essere trattate questioni non iscritte ma -all’inverso-
che, in via generale, possano non essere trattate questioni iscritte (Consiglio
di Stato, sez. VI, 25.05.1993, n. 383). Ovviamente è fatto salvo
lo stralcio o il rinvio di un punto all'ordine del giorno.
Gli argomenti, quindi, debbono essere descritti in modo chiaro e
inequivocabile, senza utilizzare una terminologia ambigua, dal momento che
l'avviso di convocazione con annesso ordine del giorno costituisce un
diritto irrinunciabile di ciascun componente del collegio insieme a tutta la
pertinente documentazione a corredo (di norma, almeno 5 giorni prima della
seduta, fatte salve le trattazioni d’urgenza).
La funzione dell’avviso di convocazione, infatti, è di informare
preventivamente i singoli membri degli argomenti in discussione, affinché
ciascuno possa intervenire adeguatamente preparato e, al limite, possa
consapevolmente decidere di partecipare o meno alle singole sedute
(Consiglio di Stato, sez. IV, 11.12.1981 n. 1063).
Di conseguenza, è illegittima una deliberazione su un argomento non iscritto
all’ordine del giorno. Ovviamente, la questione vale sia per gli organi
collegiali centrali, sia per quelli delle strutture didattiche, di ricerca e
di servizio.
Come statuito in un'altra sentenza di secondo grado, "Il mancato
inserimento nell’ordine del giorno di una questione che abbia già formato
oggetto di precedente deliberazione dell’organo collegiale non può essere
sanato da una successiva deliberazione che solo a maggioranza esprima la
volontà di trattare la questione in base alla voce “Varie ed eventuali”
(Consiglio di Stato sez. VI, 27.08.1997, n. 1218). In concreto, le Varie ed
eventuali non sono una sorta di “Refugium peccatorum”.
Il suggerimento pratico di puntodelibere è di togliere dall'avviso di
convocazione la voce "Varie ed eventuali" in quanto molto pericolosa per il
regolare svolgimento dei lavori di una collegialità amministrativa. Solo in
casi eccezionali e se tutti gli aventi diritto sono presenti, è possibile
integrare l'ordine del giorno prima dell'inizio dell’adunanza e solo se ciò
avviene senza che qualcuno dei componenti eccepisca alcunché.
In conclusione, risulta evidente che l’eliminazione del punto Varie ed
eventuali possa comportare qualche ritrosia e opposizione. In questo caso,
il consiglio è di farne un uso oculato e attento, “cum grano salis”,
comunque cassando argomenti che per la loro rilevanza non possano essere
trattati senza adeguata istruzione (documentale e non). Teniamo anche
presente il fatto che questi comportamenti avvengono solo nel mondo delle
università e della ricerca. Negli enti locali, infatti, sarebbero stroncati
sul nascere senza colpo ferire.
Consiglio salvavita di puntodelibere: mai trattare le questioni spinose
fuori sacco o nelle Varie ed eventuali, semmai riconvocare il collegio
d'urgenza
(02.03.2018 - link a www.procedamus.it). |
aggiornamento al
19.03.2020 |
|
APPALTI: La
cauzione provvisoria nell’infra 40.000 euro.
Domanda
Nel caso di procedura di gara infra 40.000, stante l’art. 93, co. 1, ultimo
periodo del codice, è necessario richiedere la presentazione della cauzione
provvisoria, strumento costoso, spesso di non tempestivo reperimento per gli
operatori, e poco funzionale nelle gare di modico valore?
Risposta
L’Autorità Nazionale Anticorruzione con l’atto n. 2 del 26.02.2020 ha
segnalato al Governo e al Parlamento l’opportunità di estendere la deroga
prevista dall’art. 93, primo comma, ultimo periodo, del d.lgs. 50/2016, a
tutti gli affidamenti di importo inferiore ad una determinata soglia,
indipendentemente dalla tipologia di procedura di selezione utilizzata.
In particolare il citato articolo riconosce alla stazione appaltante la
facoltà di non richiedere la garanzia provvisoria nei casi di cui all’art.
36, co. 2, lett. a).
Appare utile per poter rispondere al quesito inquadrare esattamente
l’istituto e le ragioni che hanno portato all’introduzione, con il
correttivo al codice, dell’ultimo periodo dell’art. 93.
La cauzione provvisoria è richiesta dalla stazione appaltante a garanzia
della mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione per fatto
riconducibile all’affidatario o a seguito dell’adozione di informazione
antimafia interdittiva, come strumento a tutela della serietà e affidabilità
dell’offerta, diretto alla responsabilizzazione degli operatori mediante
l’anticipata liquidazione dei danni alla pubblica amministrazione (C.d.S.
sez. V, sent. 2181/2018).
L’ANAC con la delibera n. 140 del 27.02.2019 recante “Chiarimenti in
materia di garanzia provvisoria e garanzia definitiva”, ha precisato
che: “nei casi di contratti di importo inferiore a 40.000 euro assegnati
mediante procedure diverse dall’affidamento diretto, le stazioni appaltanti
sono tenute a richiedere la garanzia provvisoria di cui all’art. 93, co. 1,
ultimo periodo e la garanzia definitiva di cui all’art. 103, co. 11, del
codice dei contratti pubblici”.
La posizione assunta da ANAC, in linea con il parere del Consiglio di Stato
sul correttivo, si discosta dall’Atto di Governo n. 397 “Schede di
lettura alle disposizioni integrative del d.lgs. 50 del 18.04.2016”, ove
con riferimento all’art. 55 “Garanzie per la partecipazione alla
procedura di affidamento (modifiche all’art. 93 del d.lgs. 50/2016)"
evidenzia come la ratio delle principali modifiche riferite agli affidamenti
sotto i 40.000 euro (per i quali la garanzia diviene una scelta facoltativa
della stazione appaltante), è quella di perseguire la “semplificazione
dei sistemi di garanzia per l’aggiudicazione e l’esecuzione degli appalti
pubblici di lavori, servizi e forniture, al fine di renderli proporzionati e
adeguati alla natura delle prestazioni oggetto del contratto e al grado di
rischio connesso”.
La lettera a) introduce un nuovo periodo al comma 1 dell’art. 93 del codice
in base al quale nei casi di affidamenti infra 40.000 è facoltà della
stazione appaltante non richiedere le garanzie per la partecipazione alle
procedure di gara previste nell’articolo medesimo.
La norma come pubblicata in gazzetta ufficiale non sembra aver raggiunto
quell’obiettivo di semplificazione voluto dal correttivo, a meno che il
riferimento alla lettera a) non debba essere inteso come valore economico.
Fatte queste considerazioni nell’attuazione situazione è tuttavia possibile
evitare nell’infra 40.000 euro di richiedere la presentazione della cauzione
provvisoria non solo nell’affidamento diretto, c.d. puro, ma anche nel caso
di richiesta di preventivi per l’affidamento diretto ai sensi dell’art. 36,
co. 2, lett. a), procedura assolutamente consigliata negli
approvvigionamenti di importo inferiore a tale soglia.
Qualora si utilizzi la procedura procedura negoziata anche per importi
inferiori a 40.000 euro (procedura sconsigliata) si dovrà richiedere la
presentazione della citata cauzione (18.03.2020 -
link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Alcuni
dipendenti di questa amministrazione regionale hanno chiesto l'attivazione
del "lavoro agile" in base alla recente normativa emergenziale.
E' possibile concederlo in mancanza di una regolamentazione preventiva,
criteri di assegnazione ed in alcuni casi di dotazione informatica
necessaria?
Con l'approvazione del DPCM 11.03.2020 si è disposto un mutamento radicale
nella definizione delle condizioni e requisiti per lo svolgimento del c.d. "smart
working" disponendo che le amministrazioni assicurino "lo svolgimento
in via ordinaria delle prestazioni lavorative in forma agile del proprio
personale dipendente, anche in deroga agli accordi individuali e agli
obblighi informativi di cui agli articoli da 18 a 23 della L. 22.05.2017, n.
81 e individuano le attività indifferibili da rendere in presenza",
misura confermata dal D.L. 17.03.2020, n. 18, che, all’art. 87, prevede
ulteriori elementi che si possono così sintetizzare:
- la regola della prestazione lavorativa è il "lavoro agile"
per tutta la durata dell'emergenza;
- tale regola è derogabile esclusivamente per "le attività che
ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente la presenza sul
luogo di lavoro" che dovranno essere espressamente e motivatamente
individuate dall'amministrazione;
- il personale potrà utilizzare la propria dotazione informatica
per lo svolgimento della prestazione lavorativa (ricordando che il lavoro
agile potrebbe non comportare necessariamente una prestazione per cui si
necessita di collegamento telematico);
- qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile il personale
non deve comunque prestare servizio in sede e dovrà fruire di ferie
pregresse, congedo, banca ore, rotazione e altri analoghi istituti, nel
rispetto della contrattazione collettiva.
Qualora non risulti possibile alcuna delle citate soluzioni, in ogni caso il
personale non potrà prestare servizio in sede e dovrà essere esonerato dalla
prestazione lavorativa (che costituisce comunque servizio prestato a tutti
gli effetti di legge e l'amministrazione non corrisponde l'indennità
sostitutiva di mensa, ove prevista).
Ciò detto dunque l'amministrazione qualora non abbia proceduto ancora alla
attivazione delle citate misure è situazione di violazione delle misure
sanitarie del citato DPCM e potrà essere chiamato in responsabilità in caso
di contrazione del virus da parte del personale per quanto attiene alle
varie forme di responsabilità diretta.
L'attivazione del lavoro agile non presuppone alcuna preventiva
regolamentazione, valutazione delle condizioni personali e/o istanze
dell'interessato né l'esistenza di dotazione informatica idonea dell'Ente o
dell'interessato.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 22.05.2017, n. 81 - DPCM
11.03.2020
(18.03.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Adempimenti
per le griglie della trasparenza.
Domanda
Ci hanno detto che l’ANAC ha pubblicato la solita delibera annuale per la
verifica delle griglie della trasparenza, con scadenza 30.03.2020. Diteci,
per favore, che non è vero.
Risposta
Purtroppo, dobbiamo confermare la notizia. L’ANAC ha adottato la delibera n.
213 del 04.03.2020 –depositata presso la segretaria del Consiglio il
10.03.2020– composta da dodici pagine e undici allegati, per imporre ai
soggetti che vi devono provvedere, la verifica annuale in merito
all’attestazione sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione previsti
dall’articolo 14, comma 4, lettera g), del decreto legislativo 27.10.2009,
n. 150.
Le attestazioni, come di consueto, devono essere predisposte dagli Organismi
di Valutazione (OIV) o altri organismi con funzioni analoghe – negli enti
locali, di norma, si tratta dei Nuclei di Valutazione.
Tali organismi sono tenuti ad attestare le avvenute pubblicazioni entro il
31.03.2020 e l’attestazione va affissa, da parte degli enti, nella sezione “Amministrazione
trasparente” entro il 30.04.2020. Per le pubbliche amministrazioni le
sotto-sezioni da investigare (allegato 2.1 della delibera) sono:
1. Consulenti e collaboratori;
2. Bandi di concorso;
3. Attività e procedimenti;
4. Sovvenzioni, contributi, sussidi, vantaggi economici;
5. Servizi erogati;
6. Informazioni ambientali.
Il 12.03.2020, qualche misterioso informatore, deve aver avvisato i “marziani”
dell’ANAC che in Italia c’era una epidemia in corso, con un trecento morti
al giorno.
Il Presidente, facente funzioni, dell’ANAC, con un comunicato del 12 marzo,
di conseguenza, ha spostato i termini di verifica e di pubblicazione delle “griglie”
rispettivamente al 30 giugno e 31.07.2020 (17.03.2020 -
link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Delega funzioni.
Domanda
Il dirigente che ha delegato alcune funzioni alla posizione organizzativa
conserva, in ogni caso, il potere di provvedere nell’ambito della materia
oggetto della delega, in caso di assenza del delegato?
Risposta
Il ruolo di delegante (l’intrinseca perdurante piena titolarità del potere
amministrativo delegato), consente al delegante d’ingerirsi costantemente
nel concreto esercizio del potere de quo, anche attraverso la diretta
assunzione di provvedimenti esterni, anche durante la presenza in servizio
del delegato, a maggior ragione nei periodi di assenza dal servizio (per
ferie o altro).
Non è assolutamente necessario un riassetto di qualsiasi genere della
delega.
Si ribadisce: il delegante, con la delega, non si spoglia dei propri poteri;
si limita ad individuare un’ulteriore modalità di esercizio degli stessi.
Per mere ragioni illustrative e di chiarezza, questa logica può essere
esplicitata nel provvedimento di conferimento della delega (12.03.2020
- link a www.publika.it). |
PATRIMONIO: L'ufficio
tecnico di questo Comune ha in corso lavori di ristrutturazione per un
miglioramento delle prestazioni energetiche generali e specifiche di alcuni
ambientali che sono stati i finanziati nell'ambito di un progetto nazionale
(D.Dirett. 10.07.2019) ed è in attesa di conoscere eventuali disposizioni di
proroga, annunciate come imminenti.
Ci sono novità sia per questo che per altri finanziamenti eventualmente in
scadenza?
Il Ministero dello Sviluppo Economico con D.Dirett. 10.07.2019 "Modalità
di attuazione dell'intervento a sostegno delle opere di efficientamento
energetico e sviluppo territoriale sostenibile realizzate dai comuni" ha
dato attuazione al D.L. 30.04.2019, n. 34, recante: «Misure urgenti di
crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi»,
convertito, con modificazioni, dalla L. 28.06.2019, n. 58 che prevede
l'assegnazione di contributi ai comuni per interventi di efficientamento
energetico e sviluppo territoriale sostenibile, come individuati al comma 3
del medesimo articolo.
Recentemente è stata pubblicata (con entrata in vigore il 01/03/2020) la L.
28.02.2020, n. 8 "Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 30.12.2019, n. 162, recante disposizioni urgenti in materia di
proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche
amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica" (cosiddetto "Milleproroghe")
che contiene almeno 2 disposizioni di interesse nello specifico settore per
gli Enti locali:
1) L'art. 1 comma 8-ter che differisce al 30.06.2020 il termine
entro cui i comuni beneficiari di contributi per interventi di
efficientamento energetico e sviluppo territoriale sono obbligati ad
iniziare l'esecuzione dei lavori (il differimento del termine previsto si
applica ai comuni che non hanno potuto provvedere alla consegna dei lavori
entro il termine fissato al 31.10.2019, per fatti non imputabili
all'amministrazione). La norma dispone "8-ter. Il termine di cui all'art.
30, comma 5, decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito, con modificazioni,
dalla legge 28.06.2019, n. 58, è differito al 30.06.2020, per i comuni che
non hanno potuto provvedere alla consegna dei lavori entro il termine del
31.10.2019, per fatti non imputabili all'amministrazione".
2) L'art. 1 comma 10-septies che differisce dal 15.01.2020 al
15.05.2020, il termine per la richiesta del contributo da parte degli enti
locali, a copertura della spesa di progettazione definitiva ed esecutiva per
interventi di messa in sicurezza del territorio, e proroga, altresì, dal
28.02.2020 al 30.06.2020, il termine per la definizione dell'ammontare del
previsto contributo, attribuito a ciascun ente locale. La norma dispone "Per
l'anno 2020, il termine di cui all'articolo 1, comma 52, della legge
27.12.2019, n. 160, è differito dal 15 gennaio al 15 maggio e il termine di
cui all'articolo 1, comma 53, della citata legge n. 160 del 2019 è differito
dal 28 febbraio al 30 giugno. Sono fatte salve le richieste di contributo
comunicate dagli enti locali dopo il 15.01.2020 e fino alla data di entrata
in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Pertanto potrete fruire del differimento approvato con il Milleproroghe per
i lavori descritti nel quesito.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 30.04.2019, n. 34,
art. 30 - D.Dirett. 10.07.2019 del Ministero dello Sviluppo Economico - L.
27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 52 - D.L. 30.12.2019, n. 162 - L.
28.02.2020, n. 8
(11.03.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI:
La modifica del codice unico di progetto.
Domanda
Rispetto a quanto inizialmente pensato dall’Amministrazione comunale in
ordine ad interventi di manutenzione straordinaria su un immobile, si è resa
la necessità di variare sensibilmente il progetto.
È necessario modificare il codice CUP inizialmente preso, quali sono le
modalità?
Risposta
Il Codice Unico di Progetto (CUP) è un sistema di identificazione dei
progetti di investimento pubblico [1]
per finalità di monitoraggio (Sistema di Monitoraggio degli Investimenti
Pubblici – MIP), nonché strumento per garantire la trasparenza e la
tracciabilità dei flussi finanziari.
Come si legge dal sito governativo di riferimento la richiesta del CUP è
obbligatoria per gli interventi rientranti nel Quadro Strategico Nazionale (QSN),
nella programmazione dei Fondi Europei, quali ad esempio Fondi strutturali e
di investimento europei (ESIF) 2014-2020 e nel Fondo di Sviluppo e Coesione.
In generale il CUP deve essere richiesto per ciascun progetto rientrante
nella “spesa per lo sviluppo”, ovvero quegli interventi che,
indipendentemente dalla natura contabile di spese correnti o in conto
capitale, apportano miglioramenti funzionali o strutturali all’ente, o ne
aumentano il patrimonio, oppure sono finanziati con risorse comunitarie o
con fondi FAS.
Al contrario le spese propriamente gestionali che sono finalizzate
all’ordinario funzionamento dell’amministrazione non prevedono la richiesta
del CUP (es. sostituzione di alcuni arredi o computer obsoleti).
Quello che rileva quindi è il fine, l’obiettivo che con tale prestazione si
vuole conseguire. In particolare, tra i principali progetti di investimento
pubblico rientrano:
• i lavori pubblici [2];
• gli incentivi a favore di attività produttive (es. incentivo a
favore di un’azienda per la costruzione di un capannone o per
l’ammodernamento degli impianti, per progetti di formazione, per progetti di
ricerca finalizzati a migliorare la gestione, ecc.);
• i contributi a favore di soggetti privati, diversi da attività
produttive (es. aiuti ai cittadini proprietari di immobili danneggiati da
eventi catastrofali, ecc.);
• la realizzazione di servizi (es. affidamento di un servizio di
ricerca finalizzato allo studio della qualità dell’aria nel territorio di
propria competenza, realizzazione di manifestazione finalizzate allo
sviluppo turistico di una zona ecc.)
• l’acquisto di beni (es. acquisto di beni durevoli che vanno
registrati al patrimonio dell’Ente, ammodernamento della strumentazione
della PA, acquisto di arredi o materiale informatico per una scuola, ecc.).
Con riferimento alla modifica delle informazioni collegate al CUP una volta
generato, si segnala:
• che entro le 72 ore successive alla richiesta del CUP, è
possibile procedere direttamente mediante la funzione Modifica CUP presente
nel menù “Gestione”;
• trascorse le 72 ore, la correzione richiede l’intervento della
Struttura di supporto CUP (Invio Richiesta Modifica CUP” all’interno
dell’area Comunicazioni nel menù “Messaggi”).
In particolare per quanto attiene al quesito, trattandosi di una modifica
sostanziale di un progetto, il RUP dovrà procedere alla cancellazione del
codice CUP originario sulla base delle seguenti passaggi:
• richiesta di nuovo codice CUP;
• inserimento della dicitura “intervento sostitutivo del CUP
“………”” nel campo ALTRO della III maschera di richiesta del codice;
• richiesta di cancellazione del precedente CUP tramite l’apposita
funzione “Invio Richiesta Modifica CUP” presente all’interno
dell’area Comunicazioni nel menù “Messaggi” (nel testo del messaggio
dovrà essere specificato il riferimento del nuovo CUP valido che sostituisce
il precedente);
• attendere notifica di avvenuta cancellazione del vecchio codice.
---------------
[1] L’art. 11 della legge 3/2003 stabilisce che il CUP deve essere
richiesto per ogni progetto di investimento pubblico senza indicare un tetto
minimo di spesa.
[2] Cfr. Linee Guida elaborate dal Gruppo di Lavoro ITACA per la
manutenzione ordinaria si tratta di una facoltà (11.03.2020 -
link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’accesso civico generalizzato per i contributi economici.
Domanda
In una istanza di accesso civico generalizzato, un cittadino ci ha chiesto
di fornire un riepilogo di tutti i contributi erogati dal comune negli
ultimi tre anni, con la specificazione dei contributi erogati per ragioni di
salute o per disagio socio-economico.
Come ci dobbiamo comportare?
Risposta
L’accesso civico generalizzato, noto anche con l’acronico inglese di FOIA (Freedom
Of Information Act), è disciplinato dall’articolo 5, comma 2 e seguenti
del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo introdotto
dall’articolo 6, comma 1, del d.lgs. 25.05.2016, n. 97.
In pratica, con la nuova disposizione, si stabilisce che qualsiasi cittadino
ha il diritto di accedere ai dati e documenti detenuti da una pubblica
amministrazione, ulteriori a quelli che risultano già oggetto di
pubblicazione obbligatoria nel sito web dell’ente nella sezione
Amministrazione trasparente. Tale nuova forma di accesso, però, incontra
delle esclusioni e dei limiti, disciplinati nell’articolo 5-bis, del citato
d.lgs. 33/2013, nel testo inserito dall’articolo 6, comma 2, d.lgs. 97/2016.
Chiarito l’ambito applicativo in cui ci si muove è possibile affermare che:
• l’elenco dei contributi erogati dal comune, rappresenta già un
obbligo disciplinato dall’articolo 27, comma 2, del d.lgs. 33/2013, laddove
si prevede che gli enti devono organizzare annualmente, in un unico elenco,
in formato tabellare aperto, tutti i contributi erogati nell’anno
precedente, di importo superiore a 1.000 euro;
• per quanto riguarda, invece, la pubblicazione dei dati di coloro
che hanno beneficiato di un contributo pubblico, per ragioni riferite allo
stato di salute e/o per situazione di disagio economico-sociale, l’articolo
26, comma 4, del d.lgs. 33/2013, prevede un vero e proprio divieto,
escludendo la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche
interessate;
• con la richiesta di accesso generalizzato possono essere
richiesti i documenti, dati e informazioni in possesso dell’amministrazione.
Ciò significa che:
1. il comune non è tenuto a raccogliere informazioni che non sono
in suo possesso per rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato, ma
deve limitarsi a rispondere sulla base dei documenti e delle informazioni
che detiene;
2. l’amministrazione non è tenuta a rielaborare informazioni in suo
possesso, ma deve consentire l’accesso ai documenti, ai dati e dalle
informazioni, così come sono già detenuti, organizzati, gestiti e fruiti;
3. sono ammissibili, invece, le operazioni di elaborazione che
consistono nell’oscuramento dei dati personali presenti nel documento o
nell’informazione richiesta, e più in generale nella loro anonimizzazione,
qualora ciò sia funzionale a rendere possibile l’accesso;
4. la richiesta di accesso generalizzato deve identificare i
documenti e i dati richiesti. Ciò significa:
– che la richiesta deve indicare, con precisione, i documenti o i dati
richiesti, ovvero
– che la richiesta deve consentire all’amministrazione di identificare
agevolmente i documenti o i dati richiesti.
Dovranno essere ritenute inammissibili, pertanto, le richieste formulate in
modo così vago da non permettere all’amministrazione di identificare i
documenti o le informazioni richieste. In questi casi, l’amministrazione
destinataria della domanda dovrebbe chiedere di precisare l’oggetto della
richiesta.
Premesso quanto sopra, si consiglia di rispondere all’istanza chiarendo che:
• le informazioni richieste si trovano già a disposizione di tutti,
pubblicate nel sito web su Amministrazione trasparente > Sovvenzioni,
contributi, sussidi, vantaggi economici > Atti di concessione, con i dati
riferiti agli ultimi cinque anni, inserendo nella risposta il link di
accesso;
• la richiesta di accesso generalizzato, pertanto, non può essere
presa in considerazione in quanto è riferita a documenti per i quali esiste
già l’obbligo di pubblicazione (cfr. art. 5, comma 5, d.lgs. 33/2013);
• qualora i dati non siano (tutti) pubblicati, il richiedente potrà
presentare istanza, indirizzata al responsabile della trasparenza dell’ente,
ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 33/2013, attivando l’istituto
dell’accesso civico semplice;
• i dati riferiti allo stato di salute e a situazioni di disagio
socio-economico, di persone fisiche a cui il comune ha erogato un contributo
non sono ostensibili, per espressa previsione di legge (articolo 26, comma
4, d.lgs. 33/2013) e sono tutelati dal Regolamento (UE) 2016/679,
all’articolo 9, essendo annoverati tra i dati “particolari” (ex
sensibili) (10.03.2020 - link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il milleproroghe amplia i possibili utilizzi dei proventi da concessioni di
edificare, ma solo dal 1° aprile prossimo.
Domanda
Il mio Ente deve ancora approvare
il bilancio di previsione 2020-2022. Mi sapete dire quali sono le spese
finanziabili con i proventi da oneri di urbanizzazione?
Risposta
L’utilizzo degli oneri di urbanizzazione o meglio, dei proventi dei titoli
abilitativi edilizi e delle relative sanzioni, è disciplinato dall’art. 1,
comma 460 della L. 232/2016, come modificato dall’art. 1-bis, comma 1, D.L.
148/2017.
Tale comma prevede infatti che i suddetti proventi siano destinati
esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla
manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei
centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di
rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive,
all’acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso
pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l’insediamento di
attività di agricoltura nell’ambito urbano e a spese di progettazione per
opere pubbliche.
Con tale norma venivano finalmente superati –una volta per tutte– i limiti
percentuali e le differenti tipologie di spese correnti che nel tempo vari
provvedimenti normativi avevano individuato come finanziabili. Per
individuare le spese relative ad opere di urbanizzazione primaria e
secondaria è necessario fare riferimento all’art. 4 della legge 847 del
29/09/1964 che elenca in maniera univoca e puntuale sia le une che le altre.
Le prime sono rappresentate da: a) strade residenziali; b) spazi di
sosta o di parcheggio; c) fognature; d) rete idrica; e) rete di
distribuzione dell’energia elettrica e del gas; f) pubblica illuminazione;
g) spazi di verde attrezzato; g-bis) infrastrutture di reti pubbliche di
comunicazione, di cui agli articoli 87 e 88 del codice delle comunicazioni
elettroniche, di cui al decreto legislativo 01.08.2003, n. 259, e successive
modificazioni, e opere di infrastrutturazione per la realizzazione delle
reti di comunicazione elettronica ad alta velocità in fibra ottica in grado
di fornire servizi di accesso a banda ultralarga effettuate anche
all’interno degli edifici.
Le seconde sono invece costituite da: a) asili nido e scuole materne;
b) scuole dell’obbligo nonché strutture e complessi per l’istruzione
superiore all’obbligo; c) mercati di quartiere; d) delegazioni comunali; e)
chiese ed altri edifici religiosi; f) impianti sportivi di quartiere; g)
centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie; h) aree verdi di
quartiere.
Sul testo del comma 460 è tuttavia recentemente intervenuto il Legislatore
in sede di conversione del decreto legge Milleproroghe (d.l. 162/2019)
avvenuta con L. 8/2020 pubblicata sulla G.U. n. 51 del 29/02/2020 e già in
vigore dallo scorso 1° marzo. In particolare, nel corso dell’esame alla
Camera dei deputati, è stata aggiunta una nuova tipologia di spesa
finanziabile con i proventi in oggetto.
A farlo è il comma 5-quinquies dell’art. 13 del decreto che prevede
testualmente che all’articolo 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232,
sia infine aggiunto il seguente periodo: “A decorrere dal 01.04.2020 le
risorse non utilizzate ai sensi del primo periodo possono essere altresì
utilizzate per promuovere la predisposizione di programmi diretti al
completamento delle infrastrutture e delle opere di urbanizzazione primaria
e secondaria dei piani di zona esistenti, fermo restando l’obbligo dei
comuni di porre in essere tutte le iniziative necessarie per ottenere
l’adempimento, anche per equivalente delle obbligazioni assunte nelle
apposite convenzioni o atti d’obbligo da parte degli operatori”.
Che cosa sono i ‘piani di zona’? Si tratta di strumenti urbanistici previsti
dall’art. 1 della L. 167/1962 come obbligatori per i comuni con popolazione
superiore ai 50.000 abitanti o che siano capoluoghi di provincia. Sono
invece previsti come facoltativi per tutti i restanti comuni. Essi devono
individuare le zone da destinare alla costruzione di alloggi a carattere
economico o popolare nonché alle opere e servizi complementari, urbani e
sociali, ivi comprese le aree a verde pubblico.
La norma ha una data di entrata in vigore ben precisa: il 1° aprile
prossimo. Vista la nuova scadenza per l’approvazione del bilancio di
previsione 2020-2022 fissata al 30 aprile prossimo dal d.m. Interno
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 50 del 28 febbraio, c’è tutto il
tempo per avvalersene fin da quest’anno. Viceversa, per gli enti che hanno
già approvato lo schema di bilancio con deliberazione di giunta, si potrà
procedere o con un emendamento, ovvero con una variazione dopo la sua
approvazione da parte del consiglio, in modo analogo agli enti che hanno già
approvato.
Infine evidenziamo che dal tenore letterale del periodo aggiunto al comma
460 appare come questa ulteriore forma di utilizzo abbia carattere residuale
rispetto a quelle elencate al periodo precedente. Riteniamo tuttavia che,
data l’ampiezza di queste ultime, gli enti non alcuna abbiano difficoltà a
individuare spese da finanziare con i proventi da oneri di urbanizzazione,
anche in considerazione della loro ormai consolidata esiguità (09.03.2020
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PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi
giudice popolare.
Domanda
Come vanno giustificate le assenze per l’espletamento delle funzioni di
giudice popolare?
Risposta
Come evidenziato dall’Aran in alcuni suoi orientamenti, tanto in riferimento
al comparto delle Funzioni Locali quanto ad altri comparti (cfr., tra gli
altri, il RAL 1273), la contrattazione collettiva non ha in alcun modo
disciplinato le assenze per l’espletamento delle funzioni di giudice
popolare.
Esse sono regolate dall’art. 11 della legge n. 278 del 01/04/1951, come
sostituito dal D.L. n. 31 del 14/02/1978, convertito nella legge n. 74 del
24/03/1978.
La fonte legale, oltre a stabilire l’obbligatorietà dell’incarico di giudice
di popolare, lo equipara a tutti gli effetti all’esercizio delle funzioni
pubbliche elettive, il che implica, per gli enti locali, la ricorrenza delle
disposizioni in materia introdotte dal d.lgs. 267/2000 (TUEL), ed in
particolare l’art. 79 del predetto Testo Unico, che dispone, per tale tipo
di assenze, che i dipendenti hanno diritto di assentarsi dal servizio per il
tempo strettamente necessario per la partecipazione alle riunioni collegiali
o alle sedute degli organi dei quali sono partecipanti, incluso il tempo
necessario a raggiungere il luogo di svolgimento della seduta.
Si ritiene, per le ragioni di cui sopra, che analoga considerazione debba
farsi pertanto per le assenze del dipendente chiamato a rendere il proprio
servizio come giudice popolare.
Il dipendente è tenuto ad avvertire preventivamente l’amministrazione
dell’assenza producendo copia del decreto di nomina a giudice popolare; ed
al rientro, a giustificazione della stessa, dovrà produrre idonea
certificazione rilasciata dalla competente autorità giudiziaria, che varrà a
coprire l’assenza per alcune ore o anche per l’intera giornata in funzione
di quanto ivi riportato, in relazione alla durata dell’impegno sostenuto (05.03.2020
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APPALTI:
Il quinto d’obbligo e la richiesta del CIG.
Domanda
Nel caso di un servizio biennale, eventualmente rinnovabile, con previsione
nella lex specialis del quinto d’obbligo di cui all’art. 106, co. 12,
del codice, è necessario considerare il 20% nella determinazione del valore
ai fini della richiesta del CIG?
Risposta
Il TAR Milano nella sentenza n. 284 del 10.02.2020, diversamente dai giudici
campani (TAR Napoli, sentenza n. 5380/2018), da una lettura dell’art. 106,
co. 12, del codice, in linea con la posizione assunta da ANAC nella
relazione AIR al bando tipo n. 1/2017.
L’art. 106, co. 12, testualmente recita “La stazione appaltante, qualora
in corso di esecuzione si renda necessario un aumento o una diminuzione
delle prestazioni fino a concorrenza del quinto dell’importo del contratto,
può imporre all’appaltatore l’esecuzione delle stesse condizioni previste
nel contratto originario. In tal caso l’appaltatore non può far valere il
diritto alla risoluzione del contratto”.
Secondo i giudici lombardi tale noma definisce il c.d. “quinto obbligo”
come una prestazione aggiuntiva rispetto al contratto originario, che
costituisce una sopravvenienza. Essa quindi si sottrae alla previsione
dell’art. 35, co. 4 [1],
del codice dei contratti, il quale fa riferimento a clausole già previste al
momento della predisposizione degli atti di gara, ed in questa in sede
inserite per effetto di una scelta discrezionale della stazione appaltate,
ma rimesse, nella loro concreta applicazione ad una successiva valutazione
facoltativa dell’amministrazione.
Ricostruzione che, secondo i magistrati, trova conferma nella collocazione
del c.d. quinto d’obbligo nelle modifiche contrattuali, oggetto di variante,
quale diritto potestativo che ha fonte legale e non negoziale, che si
innesta ab externo nel contratto il cui valore può essere ridotto o
incrementato per effetto di scelte operate solo ex post dalla stazione
appaltante.
Proseguono affermando che nessuna norma del codice, e tanto meno l’art. 106,
co. 12, stabilisce che il “quinto d’obbligo” assuma rilevanza in
ordine alla determinazione del valore della gara. Si tratta infatti di un
meccanismo che opera ex lege, indipendentemente dal mero richiamo o meno
nella lex specialis di gara, che non presentando il carattere dell’opzione
non incide sul valore complessivo dell’appalto, e non deve necessariamente
rientrare ai fini della richiesta del CIG.
Queste considerazioni tuttavia non precludono, la possibilità di riportare
all’interno del bando il quinto come opzione, oppure una percentuale
superiore, ai sensi della lettera a) dell’art. 106 del codice, e quindi
mediante una clausola chiara, precisa e inequivocabile. Operazione che ci
permette di avere un CIG capiente ed evitare i ben noti problemi di
sforamento del valore in caso di rendicontazione.
---------------
[1] Il calcolo del valore stimato di un appalto pubblico di lavori,
servizi e forniture è basato sull’importo totale pagabile, al netto
dell’IVA, valutato dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente
aggiudicatore. Il calcolo tiene conto dell’importo massimo stimato, ivi
compresa qualsiasi forma di eventuali opzioni o rinnovi del contratto
esplicitamente stabiliti nei documenti di gara. Quando l’amministrazione
aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore prevedono premi o pagamenti per i
candidati o gli offerenti, ne tengono conto nel calcolo del valore stimato
dell’appalto (04.03.2020 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Trasparenza dei dati relativi a procedimenti disciplinari.
Domanda
Un cittadino, nonché ex dipendente dell’amministrazione, ci chiede
ripetutamente di pubblicare gli atti conclusivi dei procedimenti
disciplinari a carico di suoi ex colleghi, asserendo che sussista un obbligo
ai sensi dell’art. 23, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33,
trattandosi di provvedimenti amministrativi; in alternativa ne richiede una
copia mediante accesso generalizzato.
Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPTC),
sentito anche il Responsabile della Protezione Dati (RPD), ritiene che
entrambe le richieste non possano essere accolte.
È corretto?
Risposta
L’orientamento del RPCT del vostro ente è senz’altro condivisibile.
In primo luogo, il riferimento all’art. 23, del d. lgs. 33/2013, non è
assolutamente pertinente poiché, dopo la modifica introdotta dal decreto
legislativo 25.05.2016, n. 97 e, in particolare, dopo l’abrogazione del
comma 2, la norma richiamata prevede l’obbligo di pubblicazione del solo
elenco dei provvedimenti.
Anche ove si proceda alla pubblicazione di singoli provvedimenti, occorre
procedere all’oscuramento dei dati personali in essi contenuti. Per
pubblicare i dati personali è necessario, infatti, che ci sia una specifica
previsione di legge che rappresenti la base giuridica richiesta dal
Regolamento (UE) 2016/679 e dall’art. 2-ter del decreto legislativo
30.06.2003, n. 196, come adeguato al citato Regolamento.
Con riferimento allo specifico quesito proposto è utile anche richiamare una
recente pronuncia dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), nella quale
si sostiene che il d.lgs. 33/2013 “non dispone per le amministrazioni
pubbliche obblighi di pubblicazione di dati riferiti ai procedimenti
disciplinari nei confronti dei propri dipendenti, né in forma integrale, né
come dato aggregato”.
Ci si riferisce alla delibera n. 1237 del 18.12.2019, con la quale l’ANAC ha
fornito indicazioni di portata generale in merito alla trasparenza dei dati
relativi ai procedimenti disciplinari, ammettendo soltanto la possibilità di
pubblicare i dati relativi al numero dei procedimenti avviati, unitamente
alla casistica delle sanzioni disciplinari irrogate, al fine di far
conoscere –e dunque prevenire– le tipologie di condotte sanzionabili in cui
il dipendente può incorrere.
A ben vedere –come peraltro ricorda l’ANAC– tali dati sono già contenuti
nella Relazione annuale del RPCT di cui all’art. 1, comma 14, della legge
06.11.2012, n. 190, che deve essere pubblicata in Amministrazione
Trasparente nella sottosezione “Altri contenuti > Prevenzione della
corruzione”.
Si vedano le domande contraddistinte con ID 12 – Procedimenti disciplinari e
penali, nello schema di file Excel finora utilizzato dagli RPCT, su
indicazione dell’ANAC, ovvero la sezione 8 – Monitoraggio procedimenti
disciplinari, nella nuova versione della Relazione, generata attraverso la
Piattaforma di acquisizione dei Piani Triennali di Prevenzione della
Corruzione e Trasparenza.
In merito al diritto di accesso generalizzato (cosiddetto FOIA) il Garante
per la protezione dei dati personali, chiamato ad esprimersi dagli RPCT, ai
sensi dell’art. 5, come 7, del d.lgs. 33/2013, nell’ambito di procedimenti
di riesame per diniego, ha più volte chiarito che non è ammissibile
l’accesso generalizzato a tali documenti.
A titolo di esempio, si richiama il parere del 21.11.2018 [doc web 9065404],
nel quale, citando precedenti pronunce, il Garante ribadisce che
l’ostensione integrale del documento richiesto, unita al particolare regime
di pubblicità dei dati oggetto di accesso civico, può arrecare un
pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali ai
sensi dell’art 5-bis , comma 2, lettera a), del d.lgs. 33/2013.
Resta aperta, dunque, soltanto la possibilità di esercitare l’accesso ai
sensi della legge 07.08.1990, n. 241, qualora sussista un interesse
qualificato ossia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale
è chiesto l’accesso (03.03.2020 - link a www.publika.it). |
PATRIMONIO:
Opponibilità a terzo di servitù di veduta acquisita per usucapione.
L’acquisto della servitù può avvenire, tra l’altro, per
usucapione, ove si tratti di servitù apparenti, cioè quelle al cui esercizio
sono destinate opere visibili e permanenti (artt. 1031 e 1061 c.c.).
Per quanto riguarda la proprietà di immobili e i diritti reali immobiliari,
l’usucapione costituisce modo di acquisto a titolo originario, che avviene
ex lege, in virtù del possesso continuato per venti anni (art. 1158 c.c.).
Ai sensi dell’art. 2651 c.c., è suscettibile di trascrizione la sentenza da
cui risulti l’acquisto per usucapione di una servitù: trattasi di sentenza
dichiarativa, la cui trascrizione ha funzione di sola pubblicità-notizia,
non quella di risolvere i conflitti tra acquirenti a titolo derivativo e
acquirenti a titolo originario.
In proposito, la giurisprudenza ha affermato il principio secondo il quale
il conflitto tra l’acquisto a titolo derivativo e l’acquisto per usucapione
è sempre risolto a favore del secondo, indipendentemente dalla trascrizione
della sentenza che accerta l’usucapione e dell’anteriorità della
trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione
dell’acquisto a titolo derivativo.
Ne deriva che il Comune, che ritenga di aver acquistato un diritto di
servitù per usucapione, può far valere nei confronti del terzo acquirente
del fondo servente detto diritto reale per il fatto della sua venuta ad
esistenza, ex lege, al ricorrere dei presupposti di legge, ai sensi
dell’art. 1158 c.c., non necessitando a tal fine la trascrizione.
Il Comune riferisce che un edificio di sua proprietà (fondo dominante)
possiede una servitù di veduta di fatto su altro edificio di proprietà
privata (fondo servente) giacente a confine.
Detta servitù si è protratta per oltre venti anni pacificamente e senza
interruzioni; peraltro non è stata accertata con sentenza del Giudice e
quindi non è stata trascritta nei registri immobiliari. Posto che l’immobile
privato è stato di recente venduto ad un terzo, il Comune chiede se è
legittimato a pretendere nei suoi confronti il rispetto della servitù di cui
si tratta.
Ai sensi dell’art. 1031 c.c., la costituzione delle servitù può avvenire:
a) in attuazione di un obbligo di legge (servitù coattive);
b) per volontà dell’uomo (contratto, testamento: si tratta delle
c.d. servitù volontarie, art. 1058, c.c.);
c) per usucapione;
d) per destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.)
In particolare, poste le circostanze riferite dal Comune relative al
protrarsi pacifico della servitù per oltre venti anni, si osserva che ove si
tratti di servitù apparente, la stessa può sorgere anche per usucapione
ventennale.
L’istituto dell’usucapione riguarda infatti la proprietà e i diritti reali
di godimento, ad eccezione delle servitù non apparenti, che ricorrono quando
non si hanno opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio (art.
1061 c.c.) [1].
Specificamente, le servitù apparenti sono quelle al cui esercizio sono
destinate opere –anche formatesi naturalmente [2]–,
visibili e permanenti, obiettivamente finalizzate all’esercizio della
servitù: tali cioè da appalesare in modo non equivoco, per la loro struttura
e funzione, l’esistenza di un peso gravante sul fondo servente
[3], al proprietario di
quest’ultimo [4].
Quanto all’usucapione, l’art. 1158 c.c., in tema di beni immobili e diritti
reali immobiliari, prevede che il possesso continuato per venti anni fa
acquisire al possessore – attraverso l’istituto dell’usucapione – la
titolarità del diritto reale (proprietà, diritti reali di godimento)
corrispondente alla situazione di fatto esercitata. L’usucapione
costituisce, dunque, un modo di acquisto a titolo originario della proprietà
e dei diritti reali minori, che avviene ex lege, nel momento stesso
in cui matura il termine normativamente previsto.
Le peculiarità dell’istituto dell’usucapione si ripercuotono
sull’atteggiarsi della trascrizione degli acquisti per usucapione, atteso
che la trascrizione riguarda atti e dunque non si presta a rispecchiare
vicende di acquisto a titolo originario.
Sono, invece, suscettibili di trascrizione, ai sensi dell’art. 2651 c.c., le
sentenze da cui risulta acquistato per usucapione un diritto di proprietà o
un diritto reale di godimento di cui ai nn. 1, 2 e 4 dell’art. 2643, tra
cui, per quanto di interesse, il diritto di servitù.
Ed invero, l’usucapiente può avere interesse, per eliminare ogni incertezza
in ordine al suo acquisto ovvero per ottenere un titolo utile per la
trascrizione, a promuovere un giudizio di accertamento dell’intervenuta
usucapione [5],
che, in ogni caso, si concluderebbe con una sentenza avente valore
dichiarativo e non già costitutivo.
La trascrizione di detta sentenza dichiarativa (ove vi sia), ai sensi
dell’art. 2651 c.c. richiamato, ha funzione di sola pubblicità-notizia, cioè
di rendere noti determinati fatti o atti ai terzi, ma non quella di
risolvere i conflitti tra acquirenti a titolo derivativo e acquirenti a
titolo originario [6].
In proposito, la giurisprudenza ha affermato il principio secondo il quale
il conflitto tra l’acquisto a titolo derivativo e l’acquisto per usucapione
è sempre risolto a favore del secondo, indipendentemente dalla trascrizione
della sentenza che accerta l’usucapione e dell’anteriorità della
trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione
dell’acquisto a titolo derivativo [7].
Calando questi principi nel caso di specie, ne conseguono alcune
considerazioni per quanto riguarda l’(avvenuto) acquisto per usucapione del
diritto di servitù e relativamente ai rapporti tra il Comune e il terzo
acquirente che vorrebbe sopraelevare l’edificio di proprietà privata (fondo
servente), impedendo così l’esercizio della servitù di veduta di cui
trattasi.
Sotto il primo profilo, si osserva che il possesso ininterrotto del diritto
reale di servitù per oltre venti anni –riferito dal Comune– è astrattamente
idoneo a determinare in favore del Comune l’acquisto a titolo originario di
detto diritto reale, ai sensi dell’art 1158 c.c., ove, beninteso, si tratti
di una servitù apparente.
In proposito, con specifico riferimento all’acquisto per usucapione di una
servitù di veduta, la Corte di cassazione ha affermato che la visibilità
delle opere destinate all’esercizio della servitù deve far capo ad un punto
d’osservazione non necessariamente coincidente col fondo servente –ipotesi
normale, ma non per questo esclusiva– ma anche esterno al fondo servente,
purché il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso
in cui le opere siano visibili da una pubblica via [8].
Per converso, per giungere a ritenere la non visibilità delle finestre che
si aprono sul fondo oggetto della veduta (fondo servente), deve essere
dimostrata l’esistenza di una situazione di fatto tale che il proprietario
di detto fondo non abbia avuto possibilità alcuna di vederle dal suo fondo e
da alcun luogo viciniore [9].
L’accertamento delle circostanze che integrano l’usucapione di una servitù
di veduta è da farsi caso per caso [10]
ed in ipotesi di contestazione l’eliminazione di ogni incertezza al riguardo
può derivare da una sentenza che accerti un tanto, che il Comune riferisce
non esservi stata.
Il Comune, che ritenga di aver acquistato il diritto di servitù
sull’edificio (fondo servente) per usucapione, può lo stesso far valere
detto diritto nei confronti del terzo acquirente [11]:
ed invero –come suesposto– il conflitto tra l’acquisto a titolo derivativo e
l’acquirente per usucapione è sempre risolto a favore dell’acquirente per
usucapione, indipendentemente dalla trascrizione della sentenza che accerta
l’usucapione e della sua anteriorità rispetto alla trascrizione
dell’acquisto a titolo derivativo.
E questo poiché, come detto sopra, la trascrizione della sentenza da cui
risulti acquistato un diritto per usucapione, ex art. 2651 c.c., ove vi
fosse, avrebbe solo funzione di pubblicità - notizia, e non quella di
risolvere il conflitto tra acquirente a titolo originario e acquirente a
titolo derivativo [12].
Pertanto, a fronte della domanda del Comune se sia legittimato a pretendere
il rispetto della servitù di veduta nei confronti del terzo acquirente, si
osserva che il Comune può far valere detto diritto reale per il fatto della
sua venuta ad esistenza, ex lege, al ricorrere dei presupposti di
legge, ai sensi dell’art. 1158 c.c., non necessitando a tal fine la
trascrizione.
---------------
[1] V. Cass., sez. un., 21.11.1996, n. 10285, secondo cui il requisito
dell’apparenza è necessario per l’acquisto della servitù per usucapione.
[2] Ad es. un sentiero creatosi per effetto del calpestio, v. Cass.
27.05.2009, n. 12362.
[3] V. Cass. 31.05.2010, n. 13238.
[4] Cass. civ., sez. II, 24.09.2014, n. 24401.
[5] V. Cass. 26.04.2011, n. 9325.
[6] La sentenza avente contenuto dichiarativo non rientra, infatti, tra gli
atti costitutivi di diritti reali, di cui all’art. 2643. c.c. –che al n. 14
menziona specificamente le sentenze che operano la costituzione, il
trasferimento o la modificazione del diritto di proprietà e di diritti reali
di godimento– soggetti a trascrizione, al fine di renderli opponibili a
terzi, ai sensi dell’art. 2644 c.c.
In particolare, quest’ultima norma codicistica prevede che gli atti
(costitutivi di dritti reali) soggetti a trascrizione, di cui all’art. 2643
c.c., non hanno effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno
acquistato diritti sugli immobili in base a un atto trascritto anteriormente
alla trascrizione degli atti medesimi.
[7] Cass. civ., sez. II, 06.12.2000, n. 15503; Cass. civ., sez. II,
28.01.1985, n. 443.
[8] Cass. civ. n. 24401/2014 cit.
[9] Cass. civ. n. 24401/2014 cit.
[10] Cass. civ. n. 24401/2014 cit.
[11] Ove questi contesti il fatto dell’avvenuto verificarsi dell’usucapione,
si renderà, peraltro, necessario l’accertamento del Giudice.
[12] Come, invece, avviene per la trascrizione degli atti costitutivi di
diritti reali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2643 e 2644 c.c.
(v. nota 12) (20.02.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di un amministratore locale.
Nei confronti dell’assessore di uno dei comuni facenti
parte di un’UTI che venisse assunto alle dipendenze dell’Unione medesima,
soltanto qualora tale soggetto fosse componente degli organi di governo
della stessa sussisterebbe la causa di incompatibilità di cui al combinato
disposto degli articoli 60 comma 1, n. 7), e 63, comma 1, n. 7), TUEL,
secondo cui è ineleggibile/incompatibile l’amministratore locale che sia
dipendente del comune medesimo.
L’Unione territoriale intercomunale (UTI) chiede un parere in merito
all’esistenza di una causa di incompatibilità per l’assessore di uno dei
comuni facenti parte dell’UTI medesima qualora lo stesso venisse assunto
alle dipendenze dell’Unione.
Preliminarmente si sottolinea che l’articolo 5, comma 2, della legge
regionale 12.12.2014, n. 26 prevede che all’Unione territoriale
intercomunale si applichino “i principi previsti per l’ordinamento degli
enti locali e, in quanto compatibili, le norme di cui all’articolo 32 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali)”.
Il comma 4 del citato articolo 32 stabilisce che all’unione si applicano, in
quanto compatibili e non derogati con altre disposizioni di legge, i
principi previsti per l’ordinamento dei comuni, con particolare riguardo
allo status degli amministratori.
Pertanto, in base a tale ultimo richiamo, le norme contemplate nel D.Lgs.
267/2000, e in particolare gli articoli 60 e 63 del medesimo decreto, in
quanto compatibili e non derogate nei termini sopra indicati, devono
ritenersi applicabili anche con riferimento alle unioni di comuni.
Premesso quanto sopra, si ritiene debba essere preso in considerazione
l’articolo 60 comma 1, num. 7), TUEL, in combinato disposto con l’articolo
63, comma 1, num. 7), TUEL secondo cui è ineleggibile/incompatibile
l’amministratore locale che sia dipendente del comune medesimo.
Quanto alla fattispecie in riferimento seguirebbe l’insorgenza dell’indicata
causa di incompatibilità nel caso in cui il medesimo soggetto fosse
dipendente dell’unione di comuni e, nel contempo, componente degli organi di
governo della stessa.
A tale ultimo riguardo necessita segnalare che sono organi dell'Unione
l'Assemblea, il Presidente e, qualora istituito, l’Ufficio di presidenza
[1].
Quanto all’assemblea essa è costituita da tutti i sindaci dei comuni
aderenti a ciascuna Unione e, solo nel caso di impossibilità a partecipare
alle sedute dell'Assemblea o nel caso di incompatibilità, questi possono
delegare un assessore a rappresentarli. [2]
Con riferimento al caso in esame segue che la causa di incompatibilità sopra
citata verrebbe in rilievo solo nel caso in cui l’assessore divenisse
componente dell’assemblea dell’UTI.
Analoghe considerazioni possono compiersi avuto riguardo all’Ufficio di
presidenza: la causa di incompatibilità in esame sorgerebbe nei confronti
dell’assessore qualora lo stesso fosse componente di tale organo di governo.
Non si prende, invece, in considerazione la figura giuridica del Presidente
non potendo l’assessore ricoprire detto ruolo. [3]
Da ultimo si ricorda che, ai sensi dell’articolo 28, comma 5, della legge
regionale 29.11.2019, n. 21 “a far data dall'01.01.2021 le Unioni
territoriali intercomunali di cui al comma 1 [4]
sono trasformate di diritto nella rispettiva Comunità di montagna”.
Da tale data, pertanto, affinché non si realizzi la causa di incompatibilità
sopra esaminata, necessiterà valutare che l’indicato assessore, mantenendo
l’attività lavorativa alle dipendenze della costituita Comunità di montagna,
non entri a far parte di alcun organo di governo della stessa.
[5]
---------------
[1] Si veda l’articolo 12, commi 1 e 2, della legge regionale 26/2014 il
quale recita:
“1. Sono organi dell'Unione l'Assemblea, il Presidente e l’organo
di revisione.
2. Lo statuto delle Unioni può prevedere l'istituzione di un
Ufficio di presidenza con funzioni esecutive e, in tal caso, ne determina le
competenze e la relativa composizione”.
[2] Precisamente l’articolo 13, comma 6, della legge regionale 26/2014
recita, al riguardo: “In caso di impossibilità a partecipare alle sedute
dell'Assemblea, i Sindaci possono delegare un assessore a rappresentarli. In
caso di incompatibilità previste dalla vigente normativa statale, la delega
può essere conferita anche in via permanente.”
[3] Il Presidente, infatti, è un sindaco (articolo 14, comma 1, della legge
regionale 24/2016 secondo cui: “Il Presidente è eletto dall'Assemblea tra i
suoi componenti”).
[4] Si tratta delle Unioni che esercitano le funzioni delle soppresse
Comunità montane di cui alla legge regionale 33/2002.
[5] Circa l’applicabilità agli organi politici della Comunità delle norme
dettate dal TUEL sullo status degli amministratori locali si rileva che
l’articolo 6, comma 2, della legge regionale 21/2019 in combinato disposto
con l’articolo 7, comma 1, della legge regionale medesima prevede che alle
Comunità di montagna “si applicano i principi e, in quanto compatibili, le
norme previste per i Comuni” (05.02.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Distanze da osservare per la realizzazione di muri di
contenimento. Parere (Legali Associati per Celva,
nota 27.01.2020 - tratto da www.celva.it).
---------------
Il CELVA, per conto del Comune di Saint-Vincent, ha formulato una
richiesta di parere avente ad oggetto la verifica dell’applicabilità della
normativa in materia di distanze legali, posta dal codice civile, alla
costruzione di muri di contenimento. (...continua). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Il
revisore del Comune ha segnalato che la Società di cui il Comune è socio al
100% (gestrice della Casa di riposo) ha affidato, con atto
dell'Amministratore unico, l'incarico di tenere la contabilità della Società
pubblica ad un commercialista che risulta essere socio di una società
privata in cui è socio anche l'amministratore unico.
L'incarico è stato affidato alla persona fisica e non alla società di cui
anche l'amministratore unico è socio.
Si chiede se tale affidamento sia legittimo sia per quanto riguarda
l'eventuale conflitto di interesse sia per la eventuale necessità di
motivare la decisione di ricorrere all'esterno e non gestire la contabilità
con propri dipendenti.
Il quesito in esame attiene, primariamente, all'eventuale sussistenza di un
"conflitto di interessi" in una peculiare fattispecie, concretamente
segnalata. In secondo luogo, viene chiesto di individuare i corretti
presupposti per un legittimo affidamento all"'esterno" di attività di
competenza propria di una società pubblica.
Principiamo dal primo problema, afferente, come detto, la sussistenza di un
conflitto di interesse. In via preliminare, è necessario definire il
concetto.
Secondo attenta e pacifica dottrina (Di Carlo E., "Il conflitto di
interessi nelle organizzazioni produttive", Rivista di politica
economica, 2012), il "conflitto di interessi" (sussistente o
potenziale) individua la situazione in cui l'interesse secondario (interesse
privato, finanziario o non finanziario) di un soggetto (agente o funzionario
pubblico) tende a interferire negativamente con l'interesse primario
(interesse pubblico), che deve essere perseguito dal medesimo soggetto.
Quindi, affinché ci sia "conflitto di interessi", occorre la presenza
di tre elementi chiave:
a) Una relazione di agenzia, tra un soggetto delegante (Pubblica
Amministrazione) e uno delegato (Funzionario), in cui il secondo ha il
dovere di agire nell'interesse (primario) del primo;
b) La presenza di un interesse secondario nel soggetto delegato (di
tipo finanziario o di altra natura);
c) La tendenza dell'interesse secondario ad interferire,
negativamente, con l'interesse primario. Il termine "tende a interferire"
vuole sottolineare che l'interferenza si presenta con diversa intensità a
seconda dell'agente portatore dell'interesse secondario e della rilevanza
assunta da tale interesse.
Definito il concetto di "conflitto di interesse", veniamo alla
concreta fattispecie. Il quesito fa riferimento ad una situazione in cui
interagiscono tre soggetti (persone fisiche e/o giuridiche). Precisamente:
1) Una società pubblica,
che gestisce una Casa di riposo. Tale società è partecipata al 100% da un
Comune.
2) L'amministratore unico
di tale società pubblica.
3) Un commercialista,
che risulta essere anche socio di una società privata, nella quale è socio
anche l'amministratore unico.
I tre soggetti sono stati opportunamente grassettati al fine di porli in
giusta evidenza.
E' stata, poi, sottolineata una data situazione di fatto (sussistenza di una
società privata, che vede soci due dei tre soggetti), che dovrà essere
esaminata con attenzione.
Ora, accade che l'Amministratore unico della società pubblica conferisce
(non è dato sapere se a seguito di gara o, peggio, mediante affidamento
diretto senza alcuna preventiva selezione) al commercialista l'incarico di "tenere"
la contabilità della medesima società pubblica.
Sussiste un conflitto di interesse in siffatta fattispecie? La risposta non
può che essere duplice.
Da un punto di vista teorico generale, è ben evidente che l'amministratore
unico riveste una duplice posizione in due distinte società (una pubblica ed
una privata) tendenzialmente foriera di conflitti. In fattispecie, appare
ben evidente che l'amministratore unico, "strumentalizzando" il suo
potere all'interno della società pubblica, favorisce il proprio collega
socio della distinta società privata (ove sono entrambi soci), conferendogli
un incarico, si suppone senza gara.
La sussistenza del conflitto, quindi, da un punto di vista teorico generale,
sussiste senza ombra di dubbio l'amministratore unico si fa "dominare"
dall'interesse secondario (privato), che condiziona e pregiudica l'interesse
primario all'imparzialità ed alla trasparenza.
Da un punto di vista prettamente giuridico, i riferimenti ed i fondamenti
devono essere rinvenuti nel D.P.R. 16.04.2013, n. 62, regolamento recante il
Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
Orbene, proprio in relazione alla concreta fattispecie, occorre tener conto
dell'art. 2, comma 3, del citato D.P.R., ove viene stabilito che le
Pubbliche amministrazioni estendono, per quanto compatibili, gli obblighi di
condotta previsti dal presente codice a tutti i collaboratori o consulenti,
con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a qualsiasi titolo, ai
titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione
delle autorità politiche, nonché nei confronti dei collaboratori a qualsiasi
titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in
favore dell'amministrazione. Siffatta prescrizione normativa è importante,
in quanto soprattutto il "commercialista" non risulta essere
dipendente della società pubblica.
A questo punto, si impone un importante chiarimento. Precisamente, ai sensi
dell'art. 2, comma 1, del citato D.P.R., il Codice di comportamento si
applica, primariamente, ai pubblici dipendenti. Nei confronti di coloro che
non sono pubblici dipendenti, trova applicazione la riportata disposizione
(art. 2, comma 3, D.P.R. 16.04.2013, n. 62), in osservanza della quale le
Pubbliche amministrazioni devono estendere gli obblighi di condotta,
previsti dal Codice, ad altri soggetti, fra cui: a) il titolare di organi e
di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità
politiche; b) tutti i collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di
contratto o incarico e a qualsiasi titolo.
Ora, seppure non qualificassimo l'amministratore unico della società
pubblica quale "dipendente" della medesima (ma potremmo anche
addivenire a tale qualificazione), non vi è dubbio che il medesimo rientra
nella categoria "a". Parimenti, non vi è dubbio che il commercialista
rientra nella categoria "b".
Quindi, è ben possibile affermare che gli obblighi previsti dal D.P.R.
16.04.2013, n. 62 (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici) trovano
tendenziale e piena applicazione anche nei riguardi di "altri"
soggetti, non propriamente dipendenti pubblici.
A questo punto, occorre tener conto dell'art. 7 del Codice, disciplinante
l'obbligo di astensione, il quale stabilisce che il dipendente (o altra
figura, come prima evidenziato) "si astiene dal partecipare all'adozione
di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero
di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi,
oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale,
ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa
pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi,
ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore,
procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute,
comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o
dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi
ragioni di convenienza. Sull'astensione decide il responsabile dell'ufficio
di appartenenza".
Ora, non vi è dubbio che l'amministratore unico della società pubblica si
trova in palese situazione di conflitto di interesse, in quanto, da un lato
riveste la predetta carica in una società pubblica, dall'altro è socio di
un'altra società (privata), nella quale il beneficiato commercialista è
anche socio. Appare ben evidente che, nei riguardi dell'amministratore
unico, il conflitto di interessi si manifesta, gravemente, in una duplice
forma:
- in una forma diretta, in quanto si potrebbe ben sospettare che
l'amministratore unico, conferendo al "proprio amico" socio
dell'altra società privata, coltiva un "interesse proprio";
- in una forma indiretta, in quanto il suo affidamento (si sospetta
senza gara!) è stato effettuato in favore di un professionista, guarda caso
socio in una distinta società privata, ove anche egli è socio.
Giustamente, in sede di quesito, si pone in evidenza il fatto che l'incarico
è stato affidato al commercialista, quale persona fisica, e non alla società
privata, che conosce la nefasta (in termini di conflitti di interesse)
compresenza dei due soggetti.
Pertanto, non sembrano sussistere dubbi in merito alla sussistenza di un
chiaro conflitto di interesse, confermato anche da un ulteriore elemento di
analisi.
Precisamente, occorre tener conto che, per costante giurisprudenza, le
situazioni di conflitto di interesse non sono tassative: "Il Collegio
ritiene di poter fare applicazione, in quanto non contraddetto dalla
disciplina attualmente vigente, del costante orientamento giurisprudenziale
(ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 19.09.2006, n. 5444) per cui "le situazioni
di conflitto di interessi, nell'ambito dell'ordinamento pubblicistico non
sono tassative, ma possono essere rinvenute volta per volta, in relazione
alla violazione dei principi di imparzialità e buon andamento sanciti
dall'art. 97 Cost., quando esistano contrasto ed incompatibilità, anche solo
potenziali, fra il soggetto e le funzioni che gli vengono attribuite" (Cons.
Stato Sez. V, 11.07.2017, n. 3415).
Quindi, al di là della corretta riferibilità della concreta situazione
all'art. 7, D.P.R. 16.04.2013, n. 62, occorre tener conto delle
considerazioni generali e teoriche prima effettuate, che testimoniano la
sussistenza di un palese conflitto di interessi.
Per quanto concerne l'altra parte del quesito, cioè "la eventuale necessità
di motivare la decisione di ricorrere all'esterno e non gestire la
contabilità con propri dipendenti", è possibile solo formulare
considerazioni generali, in quanto non sono stati forniti elementi
conoscitivi. Allora, in linea generale, occorre osservare che la "cura e la
tenuta" della contabilità di una società pubblica costituisce attività
propria ed istituzionale dell'Ente. Conseguentemente, occorre, senza dubbio,
una congrua motivazione per l'affidamento "esterno" dell'attività.
Precisamente, la società pubblica avrebbe dovuto ben illustrare le puntuale
ragioni, in base alle quali la struttura interna non è in grado di
effettuare l'indicata attività. Ciò, in base ad un principio generale, ben
espresso dall'art. 7, comma 6, lett. b), D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, secondo
cui, in caso di "incarichi esterni", l'amministrazione deve avere
preliminarmente accertato l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse
umane disponibili al suo interno".
In altri termini, l'ente pubblico deve, innanzitutto, verificare se vi siano
al proprio interno dipendenti in possesso delle professionalità
specificamente richieste e, in caso affermativo, accertare se queste ultime
possano essere adibite allo svolgimento dell'incarico. La giurisprudenza
contabile, da tempo, richiede una rigorosa motivazione in merito.
Infatti, la sezione regionale di controllo per il Molise, con la
deliberazione 23.07.2009, n. 33, ha ben specificato come la rigorosa
motivazione, relativa alla necessità di ricorrere ad un apporto esterno,
debba anche dare atto dell'impossibilità di non avere potuto fare fronte
all'esigenza mediante il migliore o più produttivo impiego delle risorse
umane a disposizione dell'ente.
Ne consegue che l'ente non potrà limitarsi, nel motivare il ricorso
all'incarico, ad evidenziare l'indisponibilità del proprio personale, in
quanto "sovraimpegnato per la parte ordinaria", o "impegnato nel
perseguimento di altri obiettivi programmatici" (in tal senso: C. Conti,
Trentino-Alto Adige, sede di Trento, Sez giurisdizionale sentenza
19.02.2009, n. 6).
Pertanto, non sussiste alcun dubbio in relazione alla necessità di una
rigorosa motivazione.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 16.04.2013, n. 62, art. 2 -
D.P.R. 16.04.2013, n. 62, art. 7 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 7 - Cons.
Stato Sez. V, 11.07.2017, n. 3415
Documenti allegati
C. Conti, Molise, Sez. controllo, 23.07.2009, n. 33
(01.02.2018 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comune di Ferno (VA). Richiesta di parere in merito al
procedimento di permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate in
assenza di autorizzazione paesaggistica prima dell'apposizione del vincolo
paesaggistico. Protocollo di riferimento regionale n. T1.2016.0051211 del
10/10/2016. COMUNICAZIONE
(Regione Lombardia,
nota 01.12.2016 n. 62321 di prot.). |
aggiornamento al
29.02.2020 |
|
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze
per provvedimenti Coronavirus.
Domanda
A seguito dell’emissione delle ordinanze ministeriali/regionali recanti “Misure
urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica
da COVID-2019“, abbiamo sospeso il servizio dell’asilo nido e della
biblioteca civica.
Come devono essere trattate le assenze dal servizio dei questi dipendenti?
Risposta
Le misure urgenti adottate nelle ordinanze di cui al quesito, riguardano
interventi volti a contenere la diffusione del COVID-19 più noto come
Coronavirus. Allo scopo di evitare il diffondersi del virus è stata disposta
la chiusura dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni
ordine e grado, nonché la sospensione dei servizi di apertura al pubblico
dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura fino al 1° marzo
compreso.
Tale sospensione configura un caso di impossibilità di rendere la
prestazione lavorativa non imputabile ad alcuna delle parti del rapporto di
lavoro: né al datore di lavoro né al lavoratore.
L’autorità che è intervenuta e ha deciso la sospensione dei servizi non ha
infatti agito come datore di lavoro ma come ufficiale di governo.
Peraltro va aggiunto che esistono due diversi tipi di situazioni
riconducibili l’una alle ordinanze regionali, le altre alle ordinanze dei
sindaci dei comuni sede dei principali focolai del virus.
Le ordinanze regionali sospendono il servizio degli asili nido e delle
biblioteche nei rispettivi territori.
Le ordinanze dei sindaci vietano ai residenti nei comuni sedi dei principali
focolai, di uscire dal territorio comunale, impedendo quindi al lavoratore
di prestare il proprio servizio presso un datore di lavoro al di fuori del
territorio comunale oggetto della restrizione.
Non sono rinvenibili nei CCNL vigenti, disposizioni che trattino in modo
specifico la complessiva fattispecie e gli effetti che ne possono derivare
sul rapporto di lavoro.
Ad oggi, pertanto, possono essere fatte valere le istruzioni fornite dall’ARAN
nei casi di eventi calamitosi o eventi atmosferici avversi.
Le indicazioni dell’Agenzia sono quelle di un datore di lavoro che, pur non
essendo tenuto a corrispondere la retribuzione per i periodi oggetto di
assenza, potrà certamente applicare tutta una serie di istituti e discipline
contrattuali che consentono di tutelare la posizione del dipendente.
Le assenze possono pertanto essere giustificate ricorrendo ad istituti
contrattuali e di legge come ferie e permessi retribuiti oppure anche
concordando con il lavoratore interessato, su un più ampio arco temporale,
l’eventuale recupero delle ore non lavorate.
Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti degli asili nido e delle
biblioteche, agli stessi, potranno essere chieste mansioni da essi esigibili
in aree diverse da quelle oggetto di sospensione.
Stessa previsione non è evidentemente applicabile ai lavoratori ai quali
sono rivolte le misure restrittive di tipo territoriale.
L’eccezionalità della contingenza in continuo divenire conduce a ritenere
che verrà adottata una soluzione per colmare, nell’emergenza, il vuoto
normativo che incide negativamente sulla sfera del lavoratore e che si
colloca come elemento di differenziazione tra mondo del lavoro privato e
pubblico (27.02.2020 - link a www.publika.it). |
PATRIMONIO: L'ufficio
patrimonio di questa Regione chiede di conoscere se, relativamente a
contratti di locazione di immobili di proprietà, debba procedere ai sensi
del codice degli appalti (anche in relazione agli obblighi di tracciabilità)
o se l'ente possa procedere in autonomia applicando le norme del Codice
Civile.
L'art. 17 del Codice degli appalti (D.Lgs. 18.04.2016, n. 50) "Esclusioni
specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi" dopo le
modifiche apportate dal D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 esclude dal proprio campo
di applicazione i contratti "a) aventi ad oggetto l'acquisto o la
locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni,
fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali
beni".
Tale esclusione non determina in automatico la piena libertà di azione
dell'Amministrazione in quanto, come riconosciuto dalla giurisprudenza "Gli
artt. 4 e 17, lett. a), del codice dei contratti vanno interpretati nel
senso che per i contratti attivi e passivi della P.A., ad oggetto l'acquisto
o la locazione di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili, si
devono rispettare i principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità
di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela
dell'ambiente ed efficienza energetica previsti dall'art. 4 per tutti i
contratti pubblici esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione
oggettiva del codice, e spetta all'ANAC la relativa vigilanza e il controllo
ai sensi dell'art. 213 del D.Lgs. n. 50/2016".
In tale ottica l'ANAC con Comunicato 16.10.2019 del Presidente "Indicazioni
relative all'obbligo di acquisizione del CIG e di pagamento del contributo
in favore dell'Autorità per le fattispecie escluse dall'ambito di
applicazione del codice dei contratti pubblici" ha previsto
l'applicazione a tali contratti degli obblighi di tracciabilità mediante
acquisizione del codice identificativo gara (smart-cig) a prescindere
dall'importo.
Pertanto, allo stato attuale, pur fuori dal campo di applicazione del codice
degli appalti, la disciplina applicabile ai contratti di locazione vede
comunque l'applicazione di taluni principi e del vincolo di tracciabilità
propri della disciplina generale in materia di contratti pubblici.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 17
- D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 - Comunicato 16.10.2019 del Presidente ANAC
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 29.01.2020, n. 720 - Cons. Stato Sez. comm. spec.
Parere, 10.05.2018, n. 1241
(26.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: I
poteri del RUP non dirigente/responsabile del servizio.
Domanda
Nel nostro ente (un comune) privo di dirigenti, si sta ponendo la questione
dei poteri del RUP (normalmente una categoria D a volte non coincidente con
il responsabile del servizio con funzioni gestionali), alla luce di quanto
viene espresso in giurisprudenza secondo cui, a titolo esemplificativo, il
provvedimento di esclusione dall’appalto compete al responsabile unico del
procedimento anche se questo soggetto non coincide con il titolare dei
poteri dirigenziali (nel nostro ente assegnati con provvedimento del sindaco
ex art. 109 del TUEL).
In tale contesto, è possibile specificare nel bando di gara che i
provvedimenti di esclusione verranno adottati direttamente dal responsabile
del servizio su proposta del RUP? Oppure in che modo l’ente potrebbe
disciplinare questi aspetti nella legge di gara?
Risposta
La tematica prende spunto, evidentemente, dalla recente giurisprudenza e
dalla posizione espressa dall’ANAC (finanche nei bandi tipo oltre che nelle
linee guida n. 3) di cui si è già parlato. E sul tema, chi scrive, ha avuto
modo già di evidenziare la particolarità di un preteso potere attribuito
anche al RUP non dirigente e non responsabile del servizio di adottare atti
a valenza esterna pur non avendo la competenza esplicita e nonostante il
chiaro dettato normativo di cui all’articolo 6 della legge 241/1990 ex art.
6, comma 1, lett. e) che –testualmente– puntualizza che nel caso in cui il
responsabile del procedimento non abbia la competenza ad adottare il
provvedimento a valenza esterna deve limitarsi a predisporre la proposta per
il proprio responsabile di servizio.
Quest’ultimo, sempre in base alla norma in commento, potrà finanche
discostarsi dalla proposta ma motivando adeguatamente le ragioni anche per
un problema di responsabilità. È chiaro che la decisione di agire
diversamente rispetto a quanto proposto dal responsabile del procedimento
deve avere una adeguata “tracciatura” per evitare che quest’ultimo
risponda per una decisione (contraria alla propria proposta) assunta dal
proprio responsabile di servizio.
In tempi recentissimi sul tema dei poteri del RUP a valenza esterna a
prescindere dalla circostanza che sia o meno un responsabile di servizio e/o
dirigente si è espresso il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n.
1104/2020.
Il giudice di Palazzo Spada non manifesta alcuna perplessità nel ritenere
che i provvedimenti di esclusione debbano essere adottati dal RUP a
prescindere dalla qualifica/categoria di appartenenza. Ad esempio, nel caso
di specie il RUP era un istruttore direttivo (cat. D) neanche responsabile
del servizio visto che lo stesso è rimesso ad un dirigente.
Ciò nonostante, come da giurisprudenza costante (e, si ripete, secondo la
prassi dell’ANAC) la statuizione è stata nel senso che i provvedimenti in
parola sono di competenza del RUP.
È chiaro che, nell’ambito di una stazione appaltante priva di dirigenti e
nel caso in cui il RUP non coincida neppure con il responsabile del servizio
con poteri a valenza esterna, la questione può determinare non poche
problematiche soprattutto per la “scarsa” propensione del RUP ad
adottare provvedimenti a valenza esterna che, evidentemente, implicano
gravose responsabilità.
Fermo restando che la posizione giurisprudenziale è quella appena espressa
ovvero che il RUP è tenuto ad adottare i provvedimenti a valenza esterna
(ammissioni, esclusioni, aggiudicazioni senza impegno di spesa), si può
ritenere –a parere di chi scrive– che probabilmente la legge di gara
potrebbe chiarire questo passaggio rimettendo il potere di adottare il
provvedimento esterno direttamente in capo al responsabile del servizio
piuttosto che al RUP.
La circostanza che ciò risulti esplicitamente chiarito
potrebbe essere valutata nell’interpretazione secondo cui la responsabilità
del RUP è di tipo residuale ovvero si estende ad una serie di atti (quelli
appena sintetizzati) solo quando non sia stati espressamente attribuiti ad
altri soggetti (art. 31 del codice dei contratti).
Rimane fermo che –a fronte della giurisprudenza che rimette le incombenze
estromissive al RUP (ritenendo, ad esempio, come nel caso della sentenza
ultima citata del CdS che l’esclusione comminata dalla commissione di gara
–dal presidente– sia illegittima)– è necessario un chiaro intervento del
legislatore o dell’ANAC per chiarire il passaggio anzidetto ovvero: se il
RUP non è dirigente/responsabile del servizio può adottare atti a valenza
esterna? Soprattutto negli enti locali (26.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
tutela della privacy nei concorso riservati alle categorie protette.
Domanda
Quali accortezze occorre avere nella gestione di un concorso riservato alle
categorie protette, per la parte di pubblicazione dei dati via web?
Risposta
Gli enti che bandiscono procedure concorsuali, riservate alla categorie
protette, devono prestare la massima attenzione alla diffusione dei dati dei
partecipanti, dal momento che in ballo c’è il trattamento del dato per il
quale il legislatore europeo e nazionale hanno previsto il massimo della
tutela: lo stato di salute.
La salute, tra tutti i dati sensibili di una persona fisica (il Regolamento
UE 2016/679, all’articolo 9, li definisce “particolari”), è
certamente quello che deve essere maggiormente protetto, soprattutto nelle
comunicazioni via web che l’ente che bandisce il concorso è tenuto a
pubblicare, nello svolgimento della selezione.
Qui di seguito, per rispondere al quesito, vengono tracciati una serie di
suggerimenti legati alle singole fasi procedimentali del concorso.
Fase 1
Pubblicazione elenco degli ammessi e degli esclusi al concorso.
È possibile convocare i candidati ammessi al concorso (o alla preselezione,
se prevista) con un semplice comunicato a firma del presidente della
Commissione che recita più o meno così.
AVVISO
Tutti i candidati che hanno presentato domanda di partecipazione al concorso
riservato alle categorie protette, per la copertura del posto di ……………….
Categoria …………, come da bando pubblicato in data ………….che NON hanno ricevuto
lettera di esclusione, sono convocati il giorno……., alle ore…… presso………..
per sostenere la prima prova scritta del concorso.
Sin qui, il problema dei dati, non si pone.
Fase 2
Per la comunicazione dei candidati ammessi alla seconda prova si può
procedere con un comunicato del presidente della Commissione, in cui compare
solamente l’elenco degli ammessi, con, a fianco, il relativo punteggio. I
nominativi dei candidati dovranno essere sostituiti dall’uso delle iniziali
o, meglio ancora, da dei codici identificati sostitutivi, attribuiti dalla
commissione ad ogni candidato ammesso. Tramite e-mail o telefono, ad ogni
candidato verrà comunicato il proprio codice identificativo. Esempio:
Posizione Candidato
Punteggio prova scritta
01.
Candidato 014-2020 28/30
02.
Candidato 006-2020 27/30
03.
Candidato 003-2020 26/30
Fase 3
Approvazione graduatoria finale. Anche in questo caso il nominativo del
vincitore e dei candidati risultati idonei deve essere sostituito dall’uso
di un codice identificativo che sarà lo stesso utilizzato per la
comunicazione di ammissione alla seconda prova. Esempio:
Posizione Candidato
Punteggio prova scritta Punteggio prova orale
Punteggio totale Vincitore / idoneo
01.
Candidato 014-2020 28/30
27/30
55
Vincitore
02.
Candidato 006-2020 27/30
27/30
54
Idoneo
03.
Candidato 003-2020 26/30
26/30
52
Idoneo
Fase 4
Approvazione verbali del concorso e della graduatoria di merito, di norma,
con determinazione del responsabile del servizio personale. Anche in questo
caso, dovranno essere oscurati tutti i nominativi e sostituiti con dei
Codici identificati, già utilizzati in sede concorsuale. Prestare molta
attenzione anche al contenuto dei verbali della Commissione che verranno
allegati alla determinazione dirigenziale, provvedendo, eventualmente,
all’oscuramento di alcuni dati.
Fase 5
Determinazione di assunzione in servizio del vincitore e approvazione schema
di contratto individuale.
Nel testo della determinazione e nello schema di contratto individuale,
verrà utilizzato il Codice matricola, attribuito preventivamente alla presa
in servizio, al neo-dipendente dal servizio personale.
Ricapitolando: sull’argomento occorre prendere a riferimento le seguenti
norme:
• regolamento (UE) 2016/679, in particolare l’articolo 9, Paragrafo
4;
• decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, articolo 2-septies, nel
testo inserito dall’art. 2, comma 1, lett. f), del d.lgs. 10.08.2018, n.
101;
• indicazioni del Garante privacy contenute nel documento del
15.05.2014, recante “Linee guida in materia di trattamento di dati
personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato
per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da
altri enti obbligati”, in particolare il Paragrafo 3. rubricato:
Fattispecie esemplificative, Parte 3.b – Graduatorie, laddove si specifica
che:
Non possono quindi formare oggetto di pubblicazione dati concernenti i
recapiti degli interessati (si pensi alle utenze di telefonia fissa o
mobile, l’indirizzo di residenza o di posta elettronica, il codice fiscale,
l’indicatore ISEE, il numero di figli disabili, i risultati di test
psicoattitudinali o i titoli di studio), né quelli concernenti le condizioni
di salute degli interessati (cfr. art. 22, comma 8, del Codice), ivi
compresi i riferimenti a condizioni di invalidità, disabilità o handicap
fisici e/o psichici.
L’insieme di tali disposizioni impedisce, pertanto, agli enti di divulgare i
dati sullo stato di salute delle persone fisiche, anche se partecipano a una
procedura concorsuale, riservata a soggetti in condizioni di disabilità,
compresi i richiami alla legge 12.03.1999, n. 68, recante “Norme per il
diritto al lavoro dei disabili”.
Il divieto risulta ancora più stringente se i dati vengono pubblicati nei
siti web, sia nella sezione dedicata all’Albo pretorio on-line che sulla
sezione Amministrazione trasparente > Bandi di concorso. La violazione del
divieto comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da
parte del Garante privacy, come è possibile verificare consultando il
seguente link.
Il provvedimento sanzionatorio, nella sua parte narrativa, illustra con
precisione le motivazioni che hanno indotto l’Autorità Garante a emanare una
ordinanza-ingiunzione, datata 14.03.2019, dell’importo di euro 10mila, nei
confronti di un comune del centro Italia, per aver effettuato un trattamento
illecito di dati personali mediante la diffusione di dati idonei a rilevare
lo stato di salute.
La sanzione –per la quale è stata anche concessa una rateizzazione di 25
rate mensili, da 400 euro ciascuna– rappresenta il minimo edittale previsto,
dal momento che la misura della sanzione era stata stabilita (con il “vecchio”
Codice privacy) da un minimo di 10.000 a un massimo di 120.000 euro (25.02.2020 - link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consigli, parla lo statuto. Un consigliere non può restare senza
gruppo. Se non ci sono le condizioni per costituirne uno, deve confluire nel
misto.
Un consigliere può essere espulso dal proprio gruppo consiliare?
Un consigliere comunale è stato espulso dal gruppo consiliare di
appartenenza essendo «venuto meno il necessario rapporto di fiducia»,
e lo stesso amministratore non ha aderito ad alcun altro gruppo compreso il
gruppo misto. Nell'ambito dei consigli comunali, i gruppi non sono
configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in
capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro
del gruppo di riferimento, che per gli organi assembleari dell'ente.
Si richiama la sentenza n. 16240/2004 con la quale il Tar Lazio ha precisato
che i gruppi consiliari hanno una duplice natura; essi rappresentano, per un
verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro
verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto
articolazioni interne di un organo istituzionale. Nella citata pronuncia, si
legge che «è dunque possibile distinguere due piani di attività dei
gruppi: uno, più strettamente politico, che concerne il rapporto del singolo
gruppo con il partito politico di riferimento, l'altro, gravitante
nell'ambito pubblicistico, in relazione al quale i gruppi costituiscono
strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi
assembleari, contribuendo ad assicurare l'elaborazione di proposte e il
confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche».
L'art. 38, comma 2, del Tuel demanda al regolamento, «nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto», la disciplina del funzionamento dei
consigli; pertanto, le problematiche relative alla costituzione e al
funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua
delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è
dotato.
Dalla lettura dello statuto e del regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale, emerge che i consiglieri possono costituire gruppi
monopersonali solamente nel caso in cui sia stato eletto un solo consigliere
nell'ambito di una lista, oppure, «in corrispondenza della nascita di
nuovi movimenti politici a livello nazionale». Dall'esame delle norme
citate emerge, altresì, che, qualora i consiglieri nel corso della
consiliatura abbiano abbandonato il proprio gruppo originario, ove non
abbiano diritto a costituire un gruppo di un solo componente, «vanno
assegnati al gruppo misto».
Tali disposizioni, nel prevedere l'iscrizione d'ufficio al gruppo misto in
assenza dei presupposti previsti a giustificazione del gruppo monopersonale,
sembrerebbero escludere la possibilità che il consigliere possa decidere di
non appartenere ad alcun gruppo. Nell'ambito delle surriferite fonti di
autonomia locale non sembra potersi rinvenire una specifica normativa che
preveda l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di
appartenenza originario.
Tanto premesso, nel ribadire che la materia dei gruppi consiliari è
interamente demandata allo statuto e al regolamento sul funzionamento del
consiglio, si rappresenta che è in tale ambito che dovrebbero trovare
adeguata soluzione le relative problematiche applicative. Spetta, infatti,
alle decisioni del consiglio comunale, valutare l'opportunità di indicare,
con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento (articolo ItaliaOggi del 21.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Chiedo
chiarimenti su modalità e adempimenti necessari per ottenere le agevolazioni
previste per il bonus facciate.
I primi chiarimenti sul bonus facciate sono arrivati con la
circolare 14.02.2020 n. 2/E
dell’Agenzia delle entrate, che illustra tutte le regole e gli adempimenti
da osservare per usufruire dell’agevolazione fiscale introdotta dalla legge
di bilancio 2020.
Anzitutto, vi è l’obbligo per le persone fisiche non titolari di reddito di
impresa di effettuare il pagamento con bonifico bancario o postale,
utilizzando la stessa tipologia di bonifico predisposto da banche e Poste
Spa per il pagamento delle spese che danno diritto alla detrazione per il
recupero del patrimonio edilizio o per la riqualificazione energetica degli
edifici (ecobonus).
Tra gli altri principali adempimenti:
• l’invio all’Enea, entro 90 giorni dal termine dei lavori, di una
scheda descrittiva, solo per gli interventi influenti dal punto di vista
termico o che interessano oltre il 10% dell’intonaco della superficie
disperdente lorda complessiva dell’edificio;
• la comunicazione preventiva all’Asl di competenza, se prevista
dalla normativa sulla sicurezza dei cantieri;
• l’indicazione in dichiarazione dei redditi dei dati catastali
identificativi dell’immobile.
Occorre poi conservare una serie di documenti inerenti gli interventi
realizzati: fatture, ricevute del bonifico, abilitazioni amministrative,
delibera assembleare e tabella millesimale per i lavori condominiali,
asseverazione di un tecnico abilitato e attestazione di prestazione
energetica (Ape) per gli interventi per i quali va fatta comunicazione
all’Enea.
Per maggiori informazioni e approfondimenti si consiglia di consultare la
citata circolare dall’Agenzia delle entrate e la guida pubblicata nella
sezione l’Agenzia informa del suo sito internet
(21.02.2020 - tratto da e link a
www.fiscooggi.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Partecipazione impresa famigliare.
Domanda
È possibile per un dipendente
pubblico partecipare attivamente alla gestione di un’attività del figlio in
qualità di collaboratrice familiare?
Risposta
L’impresa familiare alla quale pare fare riferimento il quesito posto– è
disciplinata, nel nostro ordinamento, dall’art. 230 bis del codice civile
[1], ed indica –per
definizione– una tipologia di impresa caratterizzata dal lavoro dei
familiari nella gestione della stessa, le cui caratteristiche principali
sono riconducibili alle seguenti:
• la presenza di un unico imprenditore;
• la collaborazione di uno o più familiari nella gestione
dell’attività.
I familiari possono lavorare nell’impresa con un contratto di lavoro
dipendente, oppure prestare la propria opera in qualità di collaboratori
familiari, ed, in tal caso, hanno diritto al mantenimento, alla
partecipazione agli utili di impresa, alla gestione dell’attività,
limitatamente alla gestione straordinaria, alla destinazione degli utili,
alla produzione e alla cessazione dell’impresa. Si tratta, pertanto di una
collaborazione attiva alla vita dell’impresa ed anche ai guadagni della
stessa.
L’articolo 53, comma 1, del d.lgs. 165/2001, attraverso il richiamo espresso
all’articolo 60 del Testo Unico n. 3/1957, sancisce il cosiddetto dovere di
esclusività per i pubblici dipendenti, i quali “non possono esercitare il
commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle
dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di
lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la
nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione
del Ministro competente.”
Tale divieto assoluto risulta mitigato dai successivi commi del citato
articolo che prevede che:
• le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti
incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano
espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o
che non siano espressamente autorizzati (comma 2);
• il conferimento operato direttamente dall’amministrazione, nonché
l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da
amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da
società o persone fisiche, che svolgano attività d’impresa o commerciale,
sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e
predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da
escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto,
nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o
situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino
l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente (comma 5).
Al fine di supportare le amministrazioni nell’applicazione della normativa
in materia di svolgimento di incarichi da parte dei dipendenti e di
orientare le scelte in sede di elaborazione dei propri regolamenti e nella
definizione dei “criteri oggettivi e predeterminati”, il tavolo
tecnico (a cui hanno partecipato il Dipartimento della funzione pubblica, la
Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, l’ANCI e l’UPI, avviato
ad ottobre 2013, in attuazione di quanto previsto dall’intesa sancita in
Conferenza unificata il 24.07.2013) ha formalmente approvato il documento
contenente “Criteri generali in materia di incarichi vietati ai pubblici
dipendenti”.
In tale documento, è scritto che sono da considerare vietati ai dipendenti
delle amministrazioni pubbliche –con percentuale di tempo superiore al 50%–
gli incarichi, sia retribuiti che a titolo gratuito, che presentano la
caratteristica della abitualità e professionalità, e si precisa che “l’incarico
presenta i caratteri della professionalità laddove si svolga con i caratteri
della abitualità, sistematicità/non occasionalità e continuità, senza
necessariamente comportare che tale attività sia svolta in modo permanente
ed esclusivo.”
D’altra parte, già la Circolare n. 6 del 1997 del Dipartimento della
Funzione Pubblica citava il caso partecipazione del dipendente pubblico in
società agricole a conduzione familiare, ritenendo che tale attività fosse
compatibile solo se l’impegno richiesto è modesto e non abituale o
continuato durante l’anno, spettando all’amministrazione di appartenenza –in
sede di istruttoria della domanda di autorizzazione– valutare che le
modalità di svolgimento siano tali da non interferire sull’attività
ordinaria.
Alla luce di quanto sopra esposto, si esclude che la dipendente pubblica di
cui al quesito possa partecipare attivamente alla gestione dell’attività di
tabaccheria del figlio in qualità di collaboratrice familiare, non
rinvenendosi le caratteristiche di saltuarietà ed occasionalità previste per
poter legittimamente rilasciare apposita autorizzazione.
---------------
[1] Art. 230-bis Codice Civile: “Salvo che sia configurabile un diverso
rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di
lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento
secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili
dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli
incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla
quantità e qualità del lavoro prestato.
Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché
quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e
alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che
partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non
hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita
la responsabilità genitoriale su di essi.
Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo" (20.02.2020 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: A
fronte di verifiche antimafia "positive" (con riscontro di interdittive)
questa Amministrazione statale operante nella pubblica sicurezza procede a
adottare i conseguenti provvedimenti di autotutela o cautelari.
Spesso gli interessati contestano che le informazioni antimafia siano state
emesse senza contraddittorio o avvio del procedimento e ne chiedono
l’annullamento.
Vi sono margini per accogliere queste lamentele?
La disciplina delle "informazioni antimafia") è contenuta nel D.Lgs.
06.09.2011, n. 159 il quale delinea un procedimento peculiare (rispetto agli
ordinari procedimenti amministrativi), di natura cautelare e urgente che
deroga, secondo la costante e consolidata giurisprudenza, alla disciplina
della L. 07.08.1990, n. 241.
Infatti si sottolinea in modo costante come "Ai fini delle informazioni
antimafia non occorre la comunicazione di avvio del procedimento, previsto
dall'art. 7 della L. n. 241 e il preavviso di rigetto, previsto dall'art.
10-bis della stessa legge. L'informazione antimafia non richiede la
necessaria osservanza del contraddittorio procedimentale, meramente
eventuale in questa materia ai sensi dell'art. 93, comma 7, del D.Lgs. n.
159 del 2011". Ciò in quanto procedimento "intrinsecamente
caratterizzato da profili di urgenza".
Ciò detto, se non è possibile dare rilievo a eventuali osservazioni
concernenti le modalità di rilascio dell’informativa antimafia
l’amministrazione procedente deve tuttavia valutare la necessità,
nell’ambito del proprio procedimento (es. concessione di contributi, appalti
ecc..) di procedere comunque tramite le garanzie previste dalla L.
07.08.1990, n. 241 in quanto, nel caso concreto, potrebbero non sussistere
le ragioni di urgenza che legittimano l’omissione del contraddittorio.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L.
07.08.1990, n. 241, art. 7 - D.Lgs. 06.09.2011, n. 159, art. 93
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. III,
31.01.2020, n. 820 - TAR Piemonte-Torino Sez. I, 18.11.2019, n. 1152 - TAR
Campania-Napoli Sez. I, 07.11.2018, n. 6465 - TAR Sicilia-Catania Sez. I,
20.08.2018, n. 1718 - Cons. Stato Sez. III Sent., 27.03.2017, n. 1378 -
Cons. Stato Sez. III Sent., 28.10.2016, n. 4555 - Cons. Stato Sez. III Sent.,
28.10.2016, n. 4550 - Cons. Stato Sez. III, 01.09.2014, n. 4447
(19.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI FORNITURE: Nuove
categorie merceologiche soggette ad obbligo di centralizzazione.
Domanda
È possibile acquistare un’autovettura da destinare ai vari settori comunali
mediante richiesta di preventivi alle concessionarie di zona?
Risposta
Con riferimento al quesito in premessa occorre richiamare il comma 581 della
legge finanziaria 2020, che intervenire sull’art. 1, co. 7, del d.l.
95/2012, con l’obiettivo di rafforzare la centralizzazione e aggregazione di
quelle committenze che presentano caratteristiche standardizzabili e
rilevanti economicamente.
Il citato art. 1, co. 7, prevede l’obbligo di
approvvigionamento attraverso le convenzioni o gli accordi quadro messi a
disposizione da Consip S.p.A. e dalle centrali di committenza regionali di
riferimento costituite ai sensi dell’articolo 1, comma 455, della legge
27.12.2006, n. 296, ovvero mediante autonome procedure nel rispetto della
normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione messi a
disposizione dai soggetti sopra indicati.
Autonomia di acquisto che presuppone il rispetto del benchmark, ovvero i
parametri di qualità-prezzo delle convenzioni quadro come limiti massimi per
l’acquisto di beni e servizi comparabili (art. 26, l 488/1999, art. 1, co.
449-455-456, l. 296/2006).
Obbligo inizialmente previsto per alcune categorie merceologiche, quali,
energia elettrica e gas, carburanti rete ed extra rete, combustibili per
riscaldamento, telefonia fissa e mobile, buoni pasto (D.M. 22.12.2015),
viene con la finanziaria 2020 esteso alle seguenti categorie di veicoli:
• Autovetture (art. 54, co. 1, lett. a) del d.lgs. 285/1992 C.d.S.
(veicoli destinati al trasporto di persone, aventi al massimo nove posti,
compreso quello del conducente);
• Autobus (art. 54, co. 1, lett. b) del d.lgs. 285/1992, (veicoli
destinati al trasporto di persone equipaggiati con più di nove posti
compreso quello del conducente), ad eccezione di quelli per il servizio di
linea per trasporto di persone;
• Autoveicoli per trasporto promiscuo (art. 54, co. 1, lett. c) del
d.lgs. 285/1992, (veicoli aventi una massa complessiva a pieno carico non
superiore a 3,5 t. o 4,5 t. se a trazione elettrica o a batteria, destinati
al trasporto di persone e di cose e capaci di contenere al massimo nove
posti compreso quello del conducente);
• Autoveicoli e motoveicoli per le forze di polizia e autoveicoli
blindati (altre tipologie di veicoli non sono state ritenute
standardizzabili in quanto soggette a specifiche personalizzazioni da parte
delle PA).
In presenza di queste tipologie merceologiche l’Amministrazione,
indipendentemente dall’importo, potrà:
• Aderire ad una Convenzione/Accordo quadro Consip/Centrale di
committenza regionale
• Utilizzare il Mepa o altro Strumento telematico di negoziazione
della Centrale di Committenza Regionale.
Nel caso di specie qualora presente una convenzione attiva la stazione
appaltante avrà la possibilità, almeno nell’infra 40.000,00 euro, di
affidare direttamente, previa richiesta di preventivi alle concessionarie
locali, a condizione che si rispetti il benchmark della convenzione, e che
si utilizzino comunque gli strumenti telematici di negoziazione messi a
disposizione da Consip o dalla Centrale di Committenza Regionale (19.02.2020 - link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
provvedimenti organi indirizzo e dirigenti.
Domanda
Quali sono i provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo e dai
dirigenti, oggetto degli specifici obblighi di pubblicazione, di cui
all’art. 23, del d.lgs. n. 33/2013?
Risposta
L’articolo 23, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella sua versione
iniziale, prevedeva l’obbligo di pubblicare e aggiornare ogni sei mesi, in
distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente», gli
elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai
dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei
procedimenti di:
a) autorizzazione o concessione;
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e
servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi
del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture,
di cui al d.lgs. n. 163/2006;
c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e
progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 150/2009;
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o
con altre amministrazioni pubbliche.
Il successivo comma 2, stabiliva, invece, che per ciascuno dei provvedimenti
compresi negli elenchi di cui al comma 1 doveva essere pubblicato:
• il contenuto;
• l’oggetto;
• l’eventuale spesa prevista;
• gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel
fascicolo relativo al procedimento.
La pubblicazione doveva avvenire nella forma di una scheda sintetica,
prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene
l’atto.
La norma originaria –peraltro non cristallina nella sua formulazione, in
virtù della presenza della locuzione “con particolare riferimento”–
ha subito delle sostanziali modifiche da parte dell’articolo 22, comma 1,
del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha abrogato le lettere a) e
c), del comma 1 e l’intero comma 2.
Alla luce delle modifiche intervenute, il testo dell’art. 23, del d.lgs.
33/2013, risulta, oggi, così strutturato:
Art. 23 Obblighi di pubblicazione concernenti i provvedimenti
amministrativi
1. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e aggiornano ogni sei
mesi, in distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente»,
gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e
dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei
procedimenti di:
[a) autorizzazione o concessione;]
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi,
anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del
codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di
cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50, fermo restando quanto previsto
dall’articolo 9-bis;
[c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e
progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. 150/2009;]
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre
amministrazioni pubbliche, ai sensi degli artt. 11 e 15 della legge
07.08.1990, n. 241.
[2. Per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi
di cui al comma 1 sono pubblicati il contenuto, l’oggetto, la eventuale
spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel
fascicolo relativo al procedimento. La pubblicazione avviene nella forma di
una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del
documento che contiene l’atto.]
Alla luce di quanto sopra, la risposta al quesito può essere formulata
come di seguito riportato:
– ogni sei mesi e per la durata di anni cinque, occorre pubblicare
su Amministrazione trasparente > Provvedimenti, un elenco con i principali
provvedimenti degli organi di indirizzo che, nei comuni, sono il Sindaco, la
Giunta e il Consiglio comunale [1],
pertanto, andranno pubblicati i seguenti elenchi:
• deliberazioni di Consiglio comunale;
• deliberazione di Giunta comunale;
• ordinanze del sindaco, ex art. 50 del TUEL 267/2000;
• ordinanze del sindaco, ex art. 54 TUEL 267/2000;
• decreti del sindaco.
Per ciò che concerne i dirigenti (o posizioni organizzative, in enti senza
la dirigenza) occorre pubblicare degli elenchi semestrali di:
• determinazioni dirigenziali;
• ordinanze dirigenziali.
La tempistica degli obblighi di pubblicazione può essere indicata nella
sezione Trasparenza, del Piano Anticorruzione, prevedendo –ma è solo una
nostra indicazione– che gli elenchi del primo semestre dell’anno vengano
pubblicati entro il 30 settembre del medesimo anno e gli elenchi del secondo
semestre, entro il 31 marzo dell’anno successivo.
Per quanto riguarda, invece, gli atti per la scelta del contraente per
l’affidamento di lavori, forniture e servizi, si ritiene che l’obbligo possa
ritenersi già assolto, pubblicando tutti gli atti nella sottosezione Bandi
di gara e contratti, come scrupolosamente previsto dall’articolo 37, del
d.lgs. 33/2013 [2],
mentre per gli accordi con altri soggetti, stipulati ai sensi degli artt. 11
e 15 della legge 241/1990, l’obbligo sarà già assolto con la pubblicazione
degli elenchi delle deliberazioni di Giunta e di Consiglio o, in caso di
accordi di rilevante impatto sull’organizzazione e sulle funzioni dell’ente,
nella sottosezione Disposizioni generali > Atti generali.
L’elenco, in assenza di specifiche indicazioni della legge e dell’ANAC
[3], si ritiene che possa
essere formato come da tabella sotto riportata, prestando la massima
attenzione e cautela al contenuto dell’oggetto dell’atto, soprattutto alla
luce delle vigenti disposizioni in materia di tutela dei dati personali (si
pensi, a titolo di esempio per tutti, alle ordinanze sindacali di TSO e ASO
[4]).
ATTO
NUM. DATA
OGGETTO
Delibera consiliare 01
07.01.2020 Approvazione …
Contrariamente a ciò che si trova pubblicato in alcuni siti web di qualche
ente locale, chi scrive, ritiene che non sia più pubblicabile il contenuto
(cioè il testo integrale) degli atti adottati dagli amministratori e dai
dirigenti. Ciò in virtù dell’introduzione, nella legislazione italiana,
proprio dal d.lgs. 97/2016, dell’innovativo (e per certi versi
rivoluzionario) istituto dell’accesso civico generalizzato (cosiddetto: FOIA)
[5].
Istituto attraverso il quale, qualsiasi cittadino del mondo, potrà avanzare
richiesta di accesso ai dati e documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, in forma totalmente gratuita e senza necessità di
motivazione. Una volta consultati gli elenchi e avuto contezza dell’oggetto
dell’atto, sarà estremamente agevole presentare istanza di accesso con il
FOIA o con la legge 241/1990 (Titolo V, motivando la richiesta ex art. 22,
comma 1, lettera b [6]).
I relativi modelli per garantire l’accesso (FOIA o legge 241), dovranno
essere pubblicati e resi facilmente scaricabili e compilabili, dagli enti
nella sottosezione Altri contenuti > Accesso civico.
---------------
[1] Si veda articolo 36, comma 1, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267;
[2] Si veda Allegato 1, delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, sottosezione
“Provvedimenti”;
[3] Si veda Paragrafo 5.5, della delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016,
recante “Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute
nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016”;
[4] TSO = Trattamento Sanitario Obbligatorio; ASO = Assistenza Sanitaria
Obbligatoria;
[5] Si veda articolo 5, comma 2 e seguenti e articolo 5-bis, d.lgs. 33/2013;
[6] Legge 241/1990, art. 22, co. 1, lettera b): per “interessati”, tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi,
che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso (18.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI: Nuove
regole per la nomina dei revisori dei conti: già in vigore, ma solo a metà.
Domanda
Il revisore del mio Ente scadrà a
metà marzo. Si applicano già le nuove regole introdotte dal decreto fiscale
oppure no?
Risposta
Il quadro normativo che disciplina la nomina degli organi di revisione degli
enti locali è stato profondamente modificato dall’art. 57-ter del decreto
fiscale 2020 (d.l. 124/2019).
La norma ha infatti modificato il comma 25 dell’articolo 16 del decreto
legge n. 138/2011, sostituendo alle parole: “a livello regionale” le
parole: “a livello provinciale” ed inserito ex novo il comma
25-bis del medesimo articolo. Le novità principali che il Legislatore ha
introdotto sono pertanto essenzialmente due:
1) i nuovi revisori sono estratti a sorte da un elenco costituito
su base provinciale e non più su base regionale come avveniva in passato;
2) negli enti in cui l’organo di revisione non è monocratico bensì
collegiale ai sensi dell’art. 234 del TUEL, i consigli comunali, provinciali
e delle città metropolitane e le unioni di comuni che esercitano in forma
associata tutte le funzioni fondamentali eleggono, a maggioranza assoluta
dei membri, il componente dell’organo di revisione che ricoprirà il ruolo di
presidente del collegio.
Questi è scelto tra i soggetti validamente inseriti nella fascia tre formata
ai sensi del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’Interno
15/02/2012, n. 23, o comunque nella fascia di più elevata qualificazione
professionale in caso di modifiche a tale regolamento. Il comma 2 dell’art.
57-ter prevede poi che Il Governo modifichi il suddetto decreto prevedendo
che l’inserimento nell’elenco dei revisori dei conti degli enti locali
avvenga a livello provinciale e non più a livello regionale.
I dubbi emersi fra gli operatori degli enti locali è se tale nuovo quadro
normativo sia di immediata applicazione oppure sia necessario attendere
l’adeguamento del suddetto decreto ministeriale. La risposta è stata fornita
dallo stesso Ministero dell’Interno con un parere reso ad una prefettura e
pubblicato sul sito web dello stesso Ministero (il testo integrale è
reperibile al seguente link:
https://dait.interno.gov.it/pareri/98126).
In esso si afferma che il riferimento dell’articolo 57-ter, comma 2 alla
modifica del regolamento menzionato, vale esclusivamente per la formazione
dell’elenco dei revisori su base provinciale, al fine di permettere le
modifiche tecniche ed i correttivi all’attuale sistema della banca dati su
base regionale. A contrario, la disposizione di cui alla lettera b) del
medesimo art. 57-ter (ovvero il nuovo comma 25-bis del d.l. 138/2011),
esplica i suoi effetti in via diretta dall’entrata in vigore della legge di
conversione del decreto legge in oggetto e non è subordinata alla modifica
del decreto ministeriale n. 23 del 15/02/2012.
Pertanto, gli enti con organo collegiale a far data dal 25.12.2019 (data di
entrata in vigore della legge di conversione n. 157 del 19/12/2019 del
decreto fiscale), hanno la facoltà di applicare la nuova disposizione
relativa alla scelta del presidente. Ciò vale anche per quegli enti per i
quali si è proceduto ad estrazione dei nominativi prima dell’entrata in
vigore della disposizione in esame, ovvero anche dopo la sua entrata in
vigore, senza che siano ancora intervenute le relative nomine da parte del
consiglio dell’ente. Viceversa, gli enti che hanno un organo di revisione
monocratico, nelle more dell’adozione delle necessarie modifiche al d.m.
15/02/2012 n. 23, dovranno fare ancora riferimento agli elenchi su base
regionale.
Ciò trova conferma nel parere ministeriale, laddove si afferma che “(…)
il riferimento territoriale alla provincia, non sia immediatamente
applicabile. Infatti, al fine di realizzare tale modifica, il successivo
comma 2, demanda al Governo la modifica del decreto del Ministero
dell’Interno 15.02.2012, n. 23, prevedendo l’inserimento nell’elenco dei
revisori a livello provinciale”.
Siamo pertanto di fronte ad una norma che al momento è già applicabile ma
solo parzialmente, essendone una parte subordinata alla modifica prevista
dal comma 2 dell’art. 57-ter del decreto fiscale. Una norma un po’
pasticciata che se da un lato ha il vantaggio di ridurre i costi dell’organo
di revisione degli enti locali, con riguardo al rimborso spese di trasferta
dei revisori, dall’altro ripropone il tema del controllo politico
sull’organo di controllo esterno. Almeno laddove tale organo non è
monocratico.
Non a caso la norma è stata fin da subito fortemente osteggiata da Ancrel
che, con apposito emendamento al decreto milleproroghe, ne ha chiesto il
rinvio al 2021.
Infine, cogliamo l’occasione per segnalare che lo scorso 4 febbraio il
Ministero dell’Interno ha pubblicato sul proprio sito un decreto
direttoriale di modifica dell’algoritmo di estrazione dei revisori. Esso ha
lo scopo di garantire una maggiore probabilità di estrazione per i
nominativi che non sono mai stati estratti (17.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Convezione art. 14 per utilizzo P.O..
Domanda
Potreste spiegare meglio come funziona una convenzione tra enti per
l’utilizzo congiunto di un dipendente incaricato di posizione organizzativa?
Risposta
L’articolo 14 del CCNL 22/01/2004 ha introdotto la possibilità di utilizzo
congiunto di un dipendente tra più enti locali, chiarendo che esso deve
essere disciplinato da idoneo accordo tra le amministrazioni interessate,
che disponga innanzitutto in merito alla percentuale di ripartizione della
prestazione lavorativa del dipendente in favore dell’ente di appartenenza
(cui rimane organicamente legato) e in favore dell’ente utilizzatore (dal
quale dipenderà funzionalmente per la quota parte ad esso assegnata).
Già tale originaria disposizione pattizia, ripresa nella stessa direzione
dall’articolo 17, comma 6, del CCNL 21/05/2018, aveva chiarito che nulla
osta a che il dipendente in questione sia titolare di un incarico di
posizione organizzativa presso uno o tutti e due gli enti coinvolti: ciascun
ente, però, dovrà riproporzionare il valore dell’indennità di posizione
attribuita presso di sé e derivante dal processo di pesatura effettuato
secondo le proprie regole, in funzione della percentuale di attribuzione
della prestazione lavorativa spettante; e ciascun ente si farà carico della
propria quota di indennità, dovendo l’ente utilizzatore rimborsare all’ente
di provenienza solo le normali voci retributive del dipendente e non certo
la quota di indennità di posizione attribuita presso l’altra
amministrazione.
Per essere ancora più espliciti, se presso l’ente A (ente di appartenenza),
il dipendente è titolare di un incarico di posizione organizzativa cui è
attribuita una indennità di posizione di euro 10.000,00/annui, e la
convenzione per l’utilizzo congiunto del dipendente prevede una ripartizione
della prestazione lavorativa al 50% (18 h/settimanali per ciascun ente),
ecco che l’ente di appartenenza dovrà riproporzionare tale indennità al 50%,
corrispondendo al dipendente una posizione pari ad euro 5.000,00 annui.
Nulla dovrà l’ente utilizzatore, che chiameremo B, in relazione a tale
somma, che resta di esclusiva competenza e interesse dell’ente A.
Ove lo ritenga, e secondo il proprio regolamento in materia, l’ente B potrà
certamente attribuire altro incarico di posizione organizzativa allo stesso
dipendente, procedendo, quanto alla sua pesatura, esattamente come A, ovvero
seguendo il proprio disciplinare in materia e riproporzionandola al 50%.
L’art. 16, comma 6, del CCNL 21/05/2018, all’ultimo capoverso, aggiunge solo
che “al fine di compensare la maggiore gravosità della prestazione svolta
in diverse sedi di lavoro, i soggetti di cui al precedente alinea possono
altresì corrispondere con oneri a proprio carico, una maggiorazione della
retribuzione di posizione attribuita ai sensi del precedente alinea, di
importo non superiore al 30% della stessa”, intendendo che il solo ente
utilizzatore, ovvero B, può riconoscere, se lo ritiene, una maggiorazione
della posizione eventualmente attribuita presso di sé (e riproporzionata
come illustrato sopra) fino al 30% della stessa. Tale facoltà non è concessa
all’ente di provenienza.
Nell’esempio (con cifre puramente indicative) proposto, perciò:
• Ente A è posizione euro 10.000,00 – utilizzo 50% è nuovo importo
posizione euro 5.000,00 (interamente a carico di A)
• Ente B è posizione euro 9.000,00 – utilizzo 50% è nuovo importo
4.500,00 + (eventualmente) maggiorazione 30% pari a euro 1.350,00, per un
totale di euro 5.850,00 (interamente a carico di B) (13.02.2020 -
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APPALTI:
La gara nell’ambito dei 40mila euro e l’esigenza di rispettare l’evidenza
pubblica.
Domanda
Con numerosi quesiti, spesso, viene posta la questione dell’affidamento
diretto entro i 40mila euro e della necessità (o meno) di una particolare
motivazione soprattutto ora alla luce delle drastiche modifiche apportate
all’articolo 36 del codice ed alla introduzione delle fattispecie di
affidamento diretto previa consultazione di preventivi, per i servizi e per
le forniture, fino al sopra soglia comunitaria che legittimerebbero il RUP
ad agire discrezionalmente sugli inviti.
Risposta
Come si è rilevato in altre circostanze, la previsione dell’affidamento
diretto “puro” entro i 40mila euro, tanto per
forniture/servizi/lavori è una fattispecie introdotta dal legislatore che ha
cercato –in questo modo– di conciliare i principi classici della
trasparenza/oggettività con l’esigenza di assicurare l’assegnazione del
micro-appalto in modo tempestivo.
In sostanza, in relazione ad affidamenti di importo contenuto, il
legislatore ha effettuato una “prevalutazione” ritenendo preferibile
far “retrocedere” –come importanza/intensità– i principi classici
dell’evidenza pubblica (rigorosissimi) facendo prevalere il fattore “tempo
di esperimento della procedura”. In certi casi, evidentemente, la
celerità della procedura e, soprattutto, l’utilizzo di
contenuti/contingentati strumenti istruttori rappresenta un valore aggiunto.
Soprattutto, come detto, in relazione ai micro-appalti.
Non può sfuggire, anche ad un RUP inesperto, che avviare una autentica gara
(ad esempio con bando pubblico) per aggiudicare una commessa di importi
contenuti (es. 20mila) rappresenta sicuramente un aggravio di procedura. Non
si può negare che l’obiettivo dell’assegnazione della commessa verrebbe
raggiunto con un “costo” della stazione appaltante, in termini di
tempo e di risorse finanziarie, inaccettabile/spropositato.
Per contemperare, quindi, le diverse esigenze il legislatore ha ipotizzato
il c.d. affidamento diretto “puro”. Puro nel senso che –come
esplicitato con il decreto correttivo 56/2017– il RUP non ha alcuna
necessità di far competere più operatori e/o di richiedere più preventivi.
E, a ben vedere, neppure l’obbligo di effettuare una indagine di mercato
(peraltro sempre consigliabile).
Nel caso di specie, pertanto, di affidamento nell’ambito dei 40mila euro, la
motivazione può essere esplicitata, in primo luogo con riferimento al dato
normativo, in secondo luogo con le sottolineature che lo strumento
dell’affidamento diretto appare congeniale alle necessità di speditezza
dell’affidamento e che lo stesso avviene nel rigoroso rispetto della
rotazione.
Come già ampiamente ribadito, il RUP non può prescindere –soprattutto
nell’affidamento diretto– dal rispetto rigoroso della rotazione. Il riaffido
diretto dell’appalto al precedente affidatario richiede una motivazione
talmente circostanziata che, oggettivamente, il riaffido deve essere
limitato ad ipotesi realmente necessarie in assenza di ogni alternativa.
Un problema di motivazione e di strutturazione corretta del procedimento
amministrativo si impone, evidentemente, qualora il RUP decidesse –pur
nell’ambito dei 40mila euro– di utilizzare un procedimento diverso
dall’affidamento diretto valutando l’opportunità di richiedere e confrontare
più preventivi.
In questo caso, il RUP non si può esimere dal rispetto massimo dei principi
classici riconducibili all’evidenza pubblica a pena di illegittimità degli
atti compiuti.
In tema si può citare la recentissima sentenza del Tar Basilicata, Potenza,
sez. I, n. 79/2020 in cui –testualmente– si legge che “nelle gare (…)”
ovvero nel caso di utilizzo di una gara vera e propria piuttosto che
dell’affidamento diretto, “relative agli appalti di importo inferiore a €
40.000,00, devono essere garantiti i principi di non discriminazione e di
trasparenza di cui all’art. 30, comma 1, D.Lg.vo n. 50/2016, espressamente
richiamati dall’art. 36, comma 1, dello stesso D.Lg.vo n. 50/2016, che
disciplina i contratti di appalto sotto soglia (...)” (12.02.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Questa
Amministrazione (Azienda partecipata da Enti Locali) si trova a dover
bandire alcuni concorsi per l'assunzione di personale di vari profili.
Quali sono i limiti legittimi per la previsione di concorsi non solo per
esami ma anche per titoli volendo selezionare per alcuni di questi personale
particolarmente qualificato?
Le Amministrazioni pubbliche possono prevedere, nell'ambito della propria
autonomia organizzativa e discrezionalità di procedere a bandi di concorso
per soli esami o per titoli ed esami. Tale scelta non è sindacabile nel
merito dal giudice amministrativo anche se l'individuazione dei titoli
valutabili e del peso da attribuire agli stessi incontra qualche
limitazione.
Il DPR 09.05.1994, n. 487, art. 8 "Regolamento recante norme sull'accesso
agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento
dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei
pubblici impieghi" detta all'art. 8 alcuni vincoli di carattere generale
che sono:
- la valutazione dei titoli va effettuata previa individuazione dei
criteri (da inserire nel bando)
- la valutazione è effettuata dopo le prove scritte e prima che si
proceda alla correzione dei relativi elaborati
- ai titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo
superiore ad un terzo del massimo (10/30 o equivalente)
- il bando indica i titoli valutabili ed il punteggio massimo agli
stessi attribuibile singolarmente e per categorie di titoli.
- la votazione complessiva è determinata sommando il voto
conseguito nella valutazione dei titoli al voto complessivo riportato nelle
prove d'esame.
Entro questi limiti la giurisprudenza consolidata e costante (anche recente)
riconosce un ampio potere discrezionale nell'individuazione della tipologia
dei titoli richiesti per la partecipazione da esercitare tenendo conto della
professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da
ricoprire, suscettibile di sindacato giurisdizionale esclusivamente sotto i
profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà e ciò sia in fase
di predeterminazione (bando) che di valutazione.
Infatti "la Commissione esaminatrice di un pubblico concorso è titolare
di ampia discrezionalità nel catalogare i titoli valutabili in seno alle
categorie generali predeterminate dal bando, nell'attribuire rilevanza ai
titoli e nell'individuare i criteri per attribuire i punteggi ai titoli
nell'ambito del punteggio massimo stabilito, senza che l'esercizio di tale
discrezionalità possa essere oggetto di censura in sede di giudizio di
legittimità, a meno che non venga dedotto l'eccesso di potere per manifesta
irragionevolezza e arbitrarietà".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 09.05.1994, n. 487, art. 8
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. VI, 24.01.2020, n. 590 - TAR Campania-Napoli Sez. II,
07.01.2020, n. 47 - TAR Campania-Salerno Sez. I, 07.01.2020, n. 5 - TAR
Basilicata Sez. I, 05.12.2019, n. 879 - TAR Sicilia-Catania Sez. I,
15.11.2019, n. 2737 - Cons. Stato Sez. VI, 14.10.2019, n. 6971 - TAR
Lazio-Roma Sez. III-bis, 30.09.2019, n. 11420 - TAR Campania-Napoli Sez. II,
25.09.2019, n. 4571 - TAR Lazio-Roma Sez. III-ter, 24.09.2019, n. 11306 -
TAR Sardegna Sez. I, 11.12.2018, n. 1015 - TAR Lazio-Roma Sez. II-quater,
05.06.2018, n. 6227
(12.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
VARI:
Rinuncia al diritto di proprietà immobiliare. L’eventuale esperimento
dell’actio nullitatis (parere
14.03.2018 - 137948-137949, AL 37243/2017 - Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2019). |
aggiornamento al
12.02.2020 |
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CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: La
piattaforma ANAC per l’acquisizione dei piani triennali di
prevenzione della corruzione.
Domanda
Da una lettura delle disposizioni in merito alla stesura del
PTPCT 2020 e agli adempimenti da eseguire, successivamente
alla approvazione definitiva, è emersa la necessità di
compilare il questionario sul sito di ANAC secondo le
modalità indicate nella “Piattaforma di Acquisizione dei
Piani Triennali per la Prevenzione della Corruzione e per la
Trasparenza – Guida alla compilazione dei questionari per le
Pubbliche Amministrazioni”.
Si chiede se tale compilazione sia obbligatoria e se è da
effettuarsi entro il termine del 31 gennaio 2020, medesimo
termine indicato per la approvazione del PTPCT.
Risposta
L’articolo 1, comma 8, della legge 06.11.2012, n. 190,
prevede che, entro il 31 gennaio di ogni anno, l’organo di
indirizzo politico, su proposta del Responsabile della
Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), adotti il
Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT) e lo trasmetta all’Autorità Nazionale
Anticorruzione (ANAC)
Al comma 14, del medesimo articolo, si prevede che, entro il
15 dicembre di ogni anno, il RPCT trasmetta all’organo di
indirizzo politico e all’Organismo Indipendente di
Valutazione (OIV) una relazione recante i risultati
dell’attività svolta e la pubblichi sul sito web
dell’amministrazione.
I due adempimenti (PTPCT e Relazione annuale) sono
evidentemente collegati in quanto il nuovo PTPCT dovrà tener
conto dei risultati dell’annualità precedente.
Generalmente l’ANAC, prima della scadenza del 15 dicembre,
proroga il termine e lo allinea con quello previsto per
l’adozione del PTPCT. Anche quest’anno l’ANAC, con il
Comunicato del 13.11.2019, ha posticipato il termine per la
pubblicazione della relazione annuale del RPCT al
31.01.2020.
Tra i compiti dell’ANAC, vi è quello di verificare e
monitorare l’adozione, da parte delle amministrazioni, del
PTPCT e l’attuazione della normativa e delle misure di
prevenzione della corruzione.
Tale attività si è esplicata non solo attraverso la
cosiddetta vigilanza, ma anche attraverso un’attività di
monitoraggio, finalizzata a valutare la qualità dei PTPCT e
delle misure di prevenzione, la congruità di tali documenti
rispetto alle indicazioni fornite dall’Autorità nei Piani
Nazionali Anticorruzione (PNA) e l’opportunità di eventuali
correttivi.
Dal 2019 è disponibile una Piattaforma, predisposta dall’ANAC,
per l’acquisizione e il monitoraggio dei Piani
Anticorruzione e per la redazione delle relazioni annuali
dei Responsabili. Essa può essere utilizzata anche per il
monitoraggio di competenza del RPCT.
Il Presidente ANAC ne ha dato notizia con il Comunicato del
12.06.2019, consentendo di accreditarsi e di inserire i dati
relativi al PTPCT 2019-2021.
La piattaforma permette:
a) all’Autorità, di condurre analisi qualitative dei dati
grazie alla sistematica e organizzata raccolta delle
informazioni e, dunque, di poter rilevare le criticità dei
PTPCT e migliorare, di conseguenza, la sua attività di
supporto alle amministrazioni;
b) ai RPCT:
– di avere una migliore conoscenza e consapevolezza dei requisiti
metodologici più rilevanti per la costruzione del PTPCT;
– monitorare nel tempo i progressi del proprio PTPCT;
– conoscere, in caso di successione nell’incarico di RPCT, gli
sviluppi passati del PTPCT;
– effettuare il monitoraggio sull’attuazione del PTPCT;
– produrre la relazione annuale.
Il PNA 2019 (delibera ANAC n. 1064 del 13.11.2019) e il
citato Comunicato ANAC non esplicitano in maniera chiara se
sia obbligatorio procedere alla registrazione e
all’inserimento dei dati relativi al PTPCT 2020-2022.
Tuttavia, considerato che viene richiamato, quale base
giuridica della piattaforma, il comma 8, dell’art. 1, della
legge 190/2012, che prevede la trasmissione del PTPCT ad
ANAC, si può ritenere che la Piattaforma sia la modalità per
adempiere a tale previsione normativa.
A sostegno di tale interpretazione si richiama l’allegato 1,
al PNA 2019 nel quale si dice che i RPCT “sono tenuti ora
a registrarsi ed accreditarsi” sulla Piattaforma. La
precisazione che, per il 2020, la Piattaforma opera in forma
sperimentale, sembra relativa esclusivamente all’ambito di
operatività, limitato, per ora, alle sole amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2 del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165.
L’utilizzo della Piattaforma per il monitoraggio di
competenza del RPCT è, invece, facoltativo, come facoltativo
è il livello di approfondimento, non obbligando il sistema
all’inserimento di tutte le misure specifiche.
Non è, invece, previsto un termine per l’inserimento, che
potrà essere effettuato a partire dall’adozione del PTPCT,
essendo un adempimento strumentale al monitoraggio, sia
dell’ANAC che del RPCT.
La Piattaforma si compone di tre sezioni:
• Anagrafica: finalizzata all’acquisizione delle informazioni in
merito all’amministrazione, al Responsabile della
prevenzione della Corruzione e Trasparenza, alla sua
formazione e alle sue competenze;
• questionario Piano Triennale: finalizzato all’acquisizione delle
informazioni relative al Piano Triennale per la Prevenzione
della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e alla programmazione
delle misure di prevenzione della corruzione;
• questionario Monitoraggio attuazione: finalizzato
all’acquisizione delle informazioni relative alle misure di
prevenzione ed allo stato di avanzamento del PTPCT.
Per ulteriori informazioni si rinvia al box 15,
dell’Allegato 1, al PNA 2019 e alle indicazioni disponibili
al
seguente link.
A completamento informativo, si segnala che con comunicato
del 27.11.2019, il Presidente dell’ANAC precisa che
l’utilizzo e la compilazione dei dati nella Piattaforma non
può essere delegato a soggetti esterni all’Amministrazione,
in attuazione del principio secondo cui soggetti terzi non
possono predisporre il PTPCT e neppure fornire contributi
per la redazione dello stesso. Nel Comunicato si specifica,
anche, che non possono far parte della struttura di supporto
al RPCT soggetti esterni all’amministrazione.
Per la relazione annuale 2019, l’ANAC prevede che si possa,
alternativamente, utilizzare la Scheda in formato Excel,
analoga a quella in uso negli anni scorsi (con due sole
sezioni aggiuntive concernenti rispettivamente “la
rotazione straordinaria” e “il pantouflage”), o
generare in modo automatico la relazione attraverso la
Piattaforma, dopo aver completato l’inserimento dei dati
relativi ai PTPCT e alle misure di attuazione (vedi
Comunicato del 13.11.2019).
È prevedibile che, per la relazione 2020, l’ANAC richiederà
esclusivamente la seconda modalità.
Tutto ciò premesso, la risposta allo specifico quesito è la
seguente:
a) la compilazione può ritenersi obbligatoria;
b) il termine per provvedervi non è stato definito, ma non è quello
del 31.01.2020.
Per quanto sopra, l’ente interpellante ha come obbligo di
pubblicare la relazione riferita all’anno 2019 e il PTPCT
2020/2022, approvato con deliberazione della Giunta
comunale, nel proprio sito web nella sezione Amministrazione
trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della corruzione
(11.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Carri
carnevale.
Domanda
Quali sono gli atti e i provvedimenti da adottare per la
sfilata di carri allegorici in occasione del carnevale?
Risposta
Ai sensi della
circolare del Ministero dell’Interno del
01.12.2009 prot. n. 17082/114 i “carri allegorici […] devono essere conformi
alle vigenti normative in materia di sicurezza, in
particolare sotto il profilo della sicurezza statica,
elettrica ed antinfortunistica o, in assenza, a standard di
buona tecnica di riconosciuta validità. In analogia a quanto
previsto dall’articolo 141-bis del Regolamento del
T.U.L.P.S. dovrà essere presentata una relazione tecnica a
firma di un tecnico esperto, attestante la rispondenza
dell’impianto alle regole tecniche di sicurezza.”
È innanzitutto indispensabile acquisire l’attestato di “rispondenza
dell’impianto alle regole tecniche di sicurezza” (UNI EN
13814:2005) per ogni singolo carro allegorico, redatta e
firmata da un tecnico abilitato. È necessario che la
documentazione sia acquisita da parte dell’ufficio comunale
che concede l’area pubblica oppure, se previsto, da altro
ufficio incaricato anche a rilasciare eventuali altri
provvedimenti (per esempio il SUAP).
Questo aspetto è rilevante: il provvedimento di concessione
e occupazione del suolo pubblico potrebbe risultare in
definitiva essere l’unico provvedimento valido rilasciato
per lo svolgersi della manifestazione. Le conseguenti
ordinanze adottate ai sensi degli artt. 6 e 7 del Codice
della strada sono provvedimenti non discrezionali e
direttamente consecutivi al fatto che il suolo pubblico non
è classificabile quale “strada”, per quel periodo
indicato dall’autorizzazione dell’ente proprietario, ma
diventa luogo di evento.
Si rammenta che nel caso in cui la sfilata non si svolga in
“luoghi ubicati in delimitati spazi all’aperto attrezzati
con impianti appositamente destinati a spettacoli o
intrattenimenti e con strutture apposite per lo
stazionamento del pubblico”, non necessita della
preventiva valutazione, ai sensi dell’art. 141 Reg. TULPS,
da parte della C.C.V.L.P.S., prodromica al rilascio della
licenza (o SCIA) ex artt. 68 e 69 TULPS.
Circa la “safety”, salvo nei casi in cui viene
convocata la Commissione Comunale di Vigilanza sui Locali di
Pubblico Spettacolo (CCVLPS), l’acquisizione e la
valutazione del Piano “safety” è onere dell’ufficio
comunale preposto al rilascio delle autorizzazioni alla
occupazione del suolo pubblico. Il piano deve essere
necessariamente redatto da un tecnico professionista e
presentato successivamente alla compilazione della “scheda
di valutazione del rischio” di cui la Circolare “Morcone”
del 28.07.2017.
Altresì, nelle more della redazione del piano da parte del
tecnico incaricato dal responsabile della manifestazione,
l’organizzatore deve innanzitutto presentare,
contestualmente alla richiesta di occupazione/autorizzazione
del suolo pubblico, la scheda di valutazione del rischio
affinché gli uffici comunali siano resi edotti del livello
di rischio, legato principalmente alla stima del numero dei
partecipanti.
Infine circa la “security” è necessario che
l’organizzatore, in stretta collaborazione con gli uffici
comunali, informi direttamente la Questura che adotterà
eventuale ordinanza a firma del Questore per le misure atte
a garantire e assicurare, oltre all’ordine pubblico, la
sicurezza dall’esterno (come ad esempio la collocazione dei
new jersey)
(06.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi
tempo determinato e utilizzo graduatorie.
Domanda
Si possono ancora svolgere concorsi a tempo determinato o un
ente è obbligato ad utilizzare le graduatorie di altri enti?
Risposta
Riportiamo, innanzitutto, l’articolo 36, comma 2, del d.lgs.
165/2001 che così prevede: “Per prevenire fenomeni di
precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle
disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti
a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle
proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo
indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3,
comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350,
ferma restando la salvaguardia della posizione occupata
nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le
assunzioni a tempo indeterminato”.
Il tenore letterale della norma, evidentemente prevede una
possibilità di utilizzare le graduatorie di altri enti e di
certo non un obbligo. Anche il Dipartimento della Funzione
Pubblica all’interno della Circolare 5/2013 scrive
chiaramente che: “In caso di mancanza di graduatorie
proprie le amministrazioni possono attingere a graduatorie
di altre amministrazioni mediante accordo”.
È quindi evidente che si tratta di una possibilità.
In alternativa, l’ente, potrà quindi procedere con concorsi
a tempo determinato. Anche in questo caso, vengono a
supporto le parole del Dipartimento della Funzione Pubblica
contenute nel paragrafo 2 della predetta Circolare: “Inoltre,
pur mancando una disposizione di natura transitoria nel
decreto-legge, per ovvie ragioni di tutela delle posizioni
dei vincitori di concorso a tempo determinato, le relative
graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore
di tali vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli
idonei.
Resta fermo che le assunzioni a tempo determinato si
svolgono, sotto l’aspetto ordinamentale, tenendo conto della
disciplina di cui all’articolo 36 del d.lgs n. 165 del 2001
e sotto l’aspetto finanziario nei limiti di spesa
dell’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n.
78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010,
n. 122, fatte salve le deroghe previste dalla legge. Si
ricorda che il mancato rispetto dei limiti di cui al citato
comma 28 costituisce illecito disciplinare e determina
responsabilità erariale”.
Quindi, è chiarissimo che un ente può benissimo svolgere
procedure concorsuali a tempo determinato. L’unico caso in
cui non può procedere è solamente in presenza di proprie
graduatorie a tempo indeterminato per le quali l’art. 36
comma 2 prevede invece un obbligo di utilizzo
(06.02.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI: I
nuovi obblighi di controllo sulle ritenute versate in caso
di appalto.
Domanda
Il Comune ha affidato un servizio di ristorazione scolastica
che prevede la prestazione di preparazione pasti presso la
cucina, già attrezzata, della scuola di proprietà dell’ente.
Scatta l’obbligo previsto dall’art. 4 del d.l. 124/2019 in
materia di ritenute fiscali?
Risposta
L’art. 4 del d.l. n. 124/2019 dopo la conversione in legge
n. 157/2019 ha introdotto il nuovo art. 17-bis al d.lgs.
241/1997 [1],
che prevede rilevanti novità nella gestione delle ritenute
fiscali in materia di appalti, quale misura di contrasto
“all’illecita somministrazione di manodopera”. Disposizione
che appesantisce i già abbondanti adempimenti in capo sia ai
committenti pubblici che agli operatori aggiudicatari, e
rispetto alla quale si attendono chiarimenti interpretativi
ed operativi che rendano omogeneo e soprattutto funzionale
il nuovo onere, evitando che si traduca in una mera
richiesta documentale.
Per un primo approfondimento si rinvia:
• allo studio pubblicato dalla Fondazione Studio Consulenti del
Lavoro, “Nuove misure di contrasto all’illecita
somministrazione di manodopera”, di cui al
seguente link;
• alla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 108 del
23.12.2019: Oggetto: Articolo 4 del d.l. 26.10.2019 n. 124 –
Ritenute e compensazioni in appalti e subappalti –
Chiarimenti, di cui al
seguente link;
• alle risposte ai quesiti degli esperti fornite dall’Agenzia delle
Entrate il 13.01.2020 nel corso del terzo Forum sui dottori
commercialisti ed esperti contabili a Milano, pubblicato sul
sito dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili, di cui
al
seguente link.
La Stazione appaltante dovrà quindi verificare quali sono
gli operatori economici con i quali sono in corso di
esecuzione contratti che presentano contestualmente le
seguenti condizioni, come previste dalla sopra citata
normativa, ovvero:
• l’importo complessivo annuo superiore ad € 200.000 (importo annuo
delle prestazioni affidate alla stessa impresa anche con più
contratti di appalto, con estensione della verifica su tutti
i contratti);
• contratti caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera (si
può ritenere siano quelli riconducibili all’art. 50, del
d.lgs. 50/2016, ultimo periodo, ovvero quei contratti nei
quali il costo della manodopera è pari ad almeno al 50%
dell’importo totale del contratto. Informazione che è
desumibile dagli atti di gara essendo un dato da riportare
obbligatoriamente nella documentazione, ai sensi dell’art.
23, co. 16, del codice dei contratti, almeno per quegli
appalti banditi successivamente al correttivo del 2017);
• il personale impiegato presti l’attività lavorativa presso le
sedi di attività del committente;
• i beni strumentali utilizzati nell’esecuzione della prestazione
siano di proprietà del committente o ad esso riconducibili
in qualunque forma.
Con riferimento al quesito, se il servizio di ristorazione
scolastica è prestato presso la cucina della scuola
dell’ente locale e utilizza beni strumentali di proprietà
dell’Amministrazione comunale, è possibile ritenere che
sussistendo anche gli altri requisiti di importo, scattino
gli obblighi previsti dalla vigente normativa.
---------------
[1] 1. …., che affidano il compimento di una o più opere
o di uno o più servizi di importo complessivo annuo
superiore a euro 200.000 a un’impresa, tramite contratti di
appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o
rapporti negoziali comunque denominati caratterizzati da
prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività
del committente con l’utilizzo di beni strumentali di
proprietà di quest’ultimo o ad esso riconducibili in
qualunque forma, sono tenuti a richiedere all’impresa
appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici,
obbligate a rilasciarle, copia delle deleghe di pagamento
relative al versamento delle ritenute di cui agli articoli
23 e 24 del citato decreto del Presidente della Repubblica
n. 600 del 1973, 50, comma 4, del decreto legislativo
15.12.1997, n. 446, e 1, comma 5, del decreto legislativo
28.09.1998, n. 360, trattenute dall’impresa appaltatrice o
affidataria e dalle imprese subappaltatrici ai lavoratori
direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del
servizio.
Il versamento delle ritenute di cui al periodo precedente è
effettuato dall’impresa appaltatrice o affidataria e
dall’impresa subappaltatrice, con distinte deleghe per
ciascun committente, senza possibilità di compensazione
(05.02.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI SERVIZI: La
Centrale unica di committenza (CUC) di questa Unione di
comuni intende procedere all'affidamento del servizio di
raccolta rifiuti urbani ed è indeciso sulla qualificazione
quale appalto o concessione.
Quale è la disciplina applicabile?
La applicabilità dell'una (appalto) o dell'altra
(concessione) disciplina non dipende, nel quadro del D.Lgs.
18.04.2016, n. 50, dalla tipologia di servizio (raccolta di
rifiuti) ma dal regime contrattuale che sta alla base del
rapporto fra l'Ente locale che lo affida e il gestore.
Come evidenziato dalla giurisprudenza costante "assumono
rilievo i criteri discretivi tra appalto di servizi e
concessione, in considerazione del fatto che l'elemento
caratterizzante la concessione è il trasferimento del c.d.
"rischio economico" in capo al concessionario, inteso come
possibilità che la gestione dell'attività oggetto di
concessione non sia remunerativa. In difetto di detto
rischio, si verte nel campo dell'appalto di servizi"
(tale distinzione rileva anche ai fini dell'applicabilità
della tassa sull'occupazione del suolo pubblico ed altri
regimi fiscali.
Ne deriva, come sottolineato anche recentemente che "va
qualificato come appalto di servizi, e non come concessione
di servizi, il contratto di gestione dei rifiuti urbani che
preveda che l'attività svolta sia remunerata integralmente
dall'amministrazione, di modo che non gravi sull'operatore
economico il rischio d'impresa".
Dalla qualificazione ne deriva l'applicazione del distinto
regime giuridico, ad esempio in merito alla revisione dei
prezzi (possibile per l'appalto di servizi, vietato nella
concessione per la quale vige l'opposto principio della
normale invariabilità del canone concessorio, salva
esplicita clausola di deroga).
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016,
n. 50, art. 164
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 24.01.2020, n. 608 - Comm. trib. prov.
Puglia Lecce Sez. II, 26.06.2019 - TAR Toscana, Sez. II,
04.06.2019, n. 832 - Comm. trib. prov. Puglia Lecce Sez. IV,
02.04.2019 - Cass., S.U., 20.04.2017, n. 9965 - TAR Campania
Napoli Sez. VIII, 12.01.2015, n. 114 - Cons. Stato Sez. VI,
05.06.2006, n. 3335 - Cons. Stato Sez. VI, 27.02.2006, n.
841 - Cons. Stato Sez. VI, 10.02.2006, n. 553 (05.02.2020 -
tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Misure
organizzative per il rispetto del divieto di pantouflage.
Domanda
Il nuovo Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT) dell’Amministrazione prevede, tra le
misure a carico del dirigente dell’Ufficio personale,
l’introduzione della clausola di rispetto del divieto di
pantouflage nei nuovi contratti di reclutamento del
personale.
Vorrei sapere in quali tipologie di contratti va inserita.
Risposta
Il divieto di pantouflage o revolving doors
(c.d. porte girevoli) è una delle misure concernenti
l’imparzialità dei funzionari pubblici, introdotte dalla
legge 06.11.2012, n. 190 (c.d. legge Severino). Si tratta di
una sorta di “incompatibilità successiva” che viene a
determinarsi quando un dipendente, che ha esercitato poteri
autoritativi o negoziali per conto di una pubblica
amministrazione, viene successivamente assunto o inizia a
collaborare, a titolo professionale, con il soggetto privato
destinatario dei poteri autoritativi o negoziali. Il divieto
è volto ad evitare che il dipendente sfrutti la propria
posizione nell’intento di precostituirsi situazioni
lavorative vantaggiose, pregiudicando, in tal modo, il
perseguimento dell’interesse pubblico.
La norma di riferimento è l’art. 1, comma 42, lettera l),
della legge 190/2012, che ha introdotto il comma 16-ter
nell’art. 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
[1]. La
sanzione prevista dal legislatore consiste nella nullità dei
contratti conclusi e degli incarichi conferiti in violazione
di tale disposizione e nel divieto, per il soggetto privato
che ha stipulato i contratti o conferito gli incarichi con
l’ex dipendente pubblico, di contrattare con la pubblica
amministrazione per un periodo di tre anni.
In sede attuativa il divieto del pantouflage ha avuto
un particolare rilevo nell’ambito della contrattualistica
pubblica, in quanto gli operatori che partecipano alle gare
sono chiamati a rilasciare una dichiarazione di non aver
stipulato contratti di lavoro o affidato incarichi in
violazione dell’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001 e
tale dichiarazione deve essere verificata dalla stazione
appaltante. Le pronunce giurisprudenziali e la riflessione
dottrinale intorno all’ambito di applicazione di tale
divieto sono per lo più originati da fattispecie
riconducibili a gare d’appalto.
Con l’aggiornamento al Piano Nazionale Anticorruzione (PNA)
2018 si suggerisce una misura ulteriore, consistente nel far
sottoscrivere, al dipendente pubblico che cessa
dall’incarico, l’impegno al rispetto del divieto di
pantouflage.
Nel PNA 2019, si anticipa l’assunzione dell’impegno sin
dalla fase di sottoscrizione del contratto, prevedendo che
anche gli atti di assunzione del personale contemplino
l’impegno a rispettare tale divieto.
A ben vedere, già il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA)
2013 prevedeva che nei contratti di assunzione del personale
dovesse essere inserita la clausola concernente il divieto
di prestare attività lavorativa (a titolo di lavoro
subordinato o di lavoro autonomo) per i tre anni successivi
alla cessazione del rapporto nei confronti dei destinatari
di provvedimenti adottati o di contratti conclusi con
l’apporto decisionale del dipendente.
Correttamente, dunque, il PTPCT dell’amministrazione prevede
che l’ufficio personale adotti questa misura, che ha anche
l’effetto di rendere preventivamente edotti i dipendenti del
vincolo discendente dall’esercizio di poteri autoritativi o
negoziali.
È ragionevole che l’ufficio personale si ponga il problema
di individuare il corretto ambito di applicazione della
disposizione, in quanto il divieto comporta una limitazione
della libertà di iniziativa economica, costituzionalmente
tutelata, e dunque la finalità di prevenzione della
corruzione deve essere contemperata con il rispetto di tale
libertà.
Occorre esaminare, da un lato, il tipo di rapporto di lavoro
che lega il soggetto alla pubblica amministrazione e,
dall’altro, il contenuto dell’attività lavorativa, in quanto
il divieto discende dall’aver esercitato poteri autoritativi
o negoziali.
Sotto il primo profilo, la norma utilizza la definizione “dipendenti”
senza distinguere tra rapporti di lavoro a tempo determinato
e indeterminato, pertanto è pacifico che si applichi ad
entrambe le tipologie di contratti.
L’art. 21, del decreto legislativo 08.04.2016, n. 39 estende
poi il divieto di pantouflage ai soggetti titolari di
incarichi contemplati nel citato decreto, “ivi compresi”
recita la disposizione “i soggetti esterni con i quali
l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di diritto
privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di
lavoro subordinato o autonomo”.
A partire da tali previsioni normative l’ANAC estende
l’ambito di applicazione della norma anche ad altri
soggetti, legati alla pubblica amministrazione da un
rapporto di lavoro autonomo (parere ANAC AG/2 del 04.02.2015
ribadito nei ultimi PNA adottati). Questa interpretazione
desta perplessità in quanto, al contrario, proprio la
circostanza che il legislatore abbia equiparato ai
dipendenti i soggetti titolari di incarichi di cui al d.lgs.
39/2013 sembrerebbe confermare che l’ambito di applicazione
non può che essere quello previsto dalla legge.
Sotto il profilo del tipo di funzioni esercitate, con
l’espressione “poteri autoritativi o negoziali” si
intende l’attività di emanazione di provvedimenti
amministrativi e il perfezionamento di negozi giuridici,
mediante la stipula di contratti in rappresentanza giuridica
ed economica dell’ente.
L’ANAC precisa che i dirigenti e i funzionari che svolgono
incarichi dirigenziali o coloro che esercitano funzioni
apicali con deleghe di rappresentanza esterna rientrano in
tale ambito, come anche coloro che ricoprono incarichi
amministrativi di vertice, anche se non emanano direttamente
provvedimenti amministrativi e non stipulano negozi
giuridici. Essi sono, infatti, senz’altro in grado di
incidere sull’assunzione di decisioni da parte delle
strutture di riferimento.
Andando oltre, l’ANAC ritiene che il rischio di
precostituirsi situazioni lavorative favorevoli possa
sussistere anche in capo al dipendente che ha comunque avuto
il potere di incidere in maniera determinante sulla
decisione oggetto del provvedimento finale, collaborando
all’istruttoria, ad esempio attraverso l’elaborazione di
atti endoprocedimentali obbligatori (pareri, perizie,
certificazioni) che vincolano in modo significativo il
contenuto della decisione (parere ANAC AG/74 del 21.10.2015
e orientamento n. 24/2015).
Anche tale interpretazione rischia di estendere in maniera
eccessiva l’ambito di applicazione del divieto, pertanto è
importante che, in sede applicativa, si verifichino in
concreto le funzioni svolte dal dipendente.
Ad esempio, appare eccessivo che un lavoratore che venga
assunto a tempo determinato o un soggetto che stipuli un
contratto di collaborazione professionale, riconducibile ad
un rapporto di lavoro autonomo, debba vincolarsi, in sede di
stipula del contratto, al rispetto della disposizione di cui
all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001, per il solo
fatto che collaborerà in attività procedimentali finalizzate
all’adozione di un provvedimento di autorizzazione,
concessione o erogazione di sovvenzioni, sussidi o vantaggi
economici. La sola collaborazione all’elaborazione dei
provvedimenti o degli atti endoprocedimentali vincolanti non
può giustificare la limitazione alla liberà di iniziativa
economica.
Resta fermo che, se il dipendente poi, nel corso
dell’attività lavorativa, abbia in concreto effettivamente
svolto delle funzioni autoritative o negoziali, nei
confronti di un dato soggetto privato, non possa essere
assunto o collaborare con tale soggetto, per i tre anni
successivi alla cessazione del rapporto con la pubblica
amministrazione.
Di seguito una ipotesi di formulazione della clausola: “Il
sottoscritto dichiara di essere a conoscenza del divieto di
cui all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001 e si
impegna fin d’ora, nel caso eserciti in concreto poteri
autoritativi o negoziali nei confronti di soggetti privati,
a non accettare incarichi lavorativi o professionali presso
i medesimi soggetti, per i tre anni successivi alla
cessazione del rapporto di lavoro.”
---------------
[1] “16-ter. I dipendenti che, negli ultimi tre anni di
servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali
per conto delle pubbliche amministrazioni di cui
all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni
successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego,
attività lavorativa o professionale presso i soggetti
privati destinatari dell’attività della pubblica
amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I
contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione
di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto
divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o
conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni
per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei
compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi
riferiti”
(04.02.2020 - link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Chiarimenti in merito alla titolarità a richiedere o
presentare un titolo edilizio
(Regione Emilia Romagna,
nota 03.02.2020 n. 79334 di prot.). |
ENTI LOCALI: PagoPA:
dal decreto Milleproroghe ancora un rinvio (questa volta
breve) per le P.A..
Domanda
Il mio Ente non ha ancora aderito al sistema ‘PagoPa’
per l’incasso delle proprie entrate. Ma qual è il termine
ultimo per farlo?
Risposta
Come dovrebbe essere ormai noto, PagoPa è la piattaforma
informatica attraverso cui è possibile eseguire i pagamenti
dovuti nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni. Questi
possono infatti essere effettuati direttamente sul sito o
sull’applicazione mobile dell’ente creditore ovvero
attraverso i canali –sia fisici che on-line– di banche e
altri soggetti Prestatori di Servizi di Pagamento (PSP). Fra
questi vi sono le agenzie di banca, gli home banking,
gli sportelli ATM (bancomat), i punti vendita SISAL,
Lottomatica, Banca 5 e gli uffici postali.
Il quadro normativo di riferimento è contenuto nel Codice
dell’amministrazione digitale, approvato ormai quindici anni
fa con il d.lgs. 82/2005. A prevedere il sistema PagoPa è
infatti l’articolo 5, comma 1, del Codice.
Nella sua prima versione l’uso delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione per l’effettuazione
dei pagamenti era rivolto alle sole pubbliche
amministrazioni centrali. Si trattava di una semplice
facoltà e non di un obbligo. Solo in seguito ne è stata
prevista l’estensione a tutte le PA e quella che era nata
come una mera facoltà è divenuto un obbligo ineludibile.
Naturalmente, fatte salve le varie proroghe che negli anni
si sono succedute.
Da ultimo è intervenuto l’art.1, comma 8 del decreto
Milleproroghe (d.l. n. 162 del 30/12/2019). Cosa prevede
tale norma?
Essa prevede un ulteriore rinvio (sarà l’ultimo?) al termine
previsto dall’art. 65, comma 2, del d.lgs. 217/2017 (ultimo
decreto correttivo del Codice). La nuova scadenza viene ora
fissata al 30.06.2020. Entro tale data le PA sono tenute a
integrare i propri sistemi di incasso con la piattaforma di
cui all’articolo 5, comma 2, del Codice, ovvero ad
avvalersi, a tal fine, di servizi forniti da altri soggetti
di cui all’articolo 2, comma 2, del Codice stesso, ovvero da
fornitori di servizi di incasso già abilitati ad operare
sulla piattaforma PagoPa.
Questa volta il Legislatore ha però previsto sanzioni a
carico degli enti inadempienti. La norma stabilisce infatti
che il mancato adempimento dell’obbligo di avvio di PagoPa
rileva ai fini della misurazione e della valutazione della
performance individuale dei dirigenti responsabili (e
ovviamente delle posizioni organizzative negli enti privi di
dirigenza) e comporta responsabilità dirigenziale e
disciplinare ai sensi degli articoli 21 e 55 del d.lgs. n.
165/2001.
L’obbligo di avvalersi di PagoPa vige per tutte le pubbliche
amministrazioni, come individuate dall’art. 1, comma 2, di
tale ultimo decreto legislativo. Esso infatti vi annovera
tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli
istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni
educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad
ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le
comunità montane, e loro consorzi ed associazioni, le
istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case
popolari, le camere di commercio e loro associazioni, tutti
gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e
locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del
Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN)
e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30/07/1999, n.
300.
Come si vede, la platea dei soggetti obbligati ad avvalersi
di PagoPa è estremamente ampia, né è prevista alcuna
distinzione fra enti grandi o piccoli. Il decreto
Milleproroghe è ancora in fase di conversione in legge.
L’iter dovrà concludersi entro il prossimo 28 febbraio e non
si possono escludere ulteriori rinvii.
Va detto tuttavia che fra i molti emendamenti che Anci ha
presentato in Parlamento, non ve n’è nessuno che riguardi
questa scadenza. E ciò è pienamente condivisibile, perché la
piattaforma PagoPa va nella direzione di avvicinare la
Pubblica Amministrazione ai cittadini/utenti. E’ allora
forse il caso di mettervi davvero mano e di attrezzarsi al
più presto perché questa proroga potrebbe davvero essere
l’ultima. Ogni ulteriore informazione in merito alla
piattaforma PagoPa può essere reperita al sito
https://www.pagopa.gov.it/
(03.02.2020 - link a www.publika.it). |
APPALTI: Questa
stazione appaltante (ente pubblico economico) ha trovato, in
alcune procedure di gara, dichiarazioni di avvalimento di
requisiti di ordine finanziario.
In questi casi, come viene garantito dall'operatore l’avvalimento,
anche ai fini del controllo da parte della nostra stazione?
La giurisprudenza ormai consolidata (anche a livello di
Consiglio di Stato) ha chiarito la distinzione fra
avvalimento di garanzia (quello ad esempio inerente il
possesso dei requisiti di ordine finanziario) e l'avvalimento
tecnico-operativo (consistente nel supporto materiale e
organizzativo allo svolgimento della prestazione).
In entrambi i casi la stazione appaltante è tenuta a
verificare in concreto (al di là delle formule di rito e
dichiarazioni delle parti) che sussista un concreto apporto
dell'ausiliaria rispetto alle attività da svolgere a cura
dell'ausiliata e questa indagine va condotta "secondo i
canoni enunciati dal codice civile di interpretazione
complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali"
anche se "non è conseguentemente necessario, in linea di
massima, che la dichiarazione negoziale costitutiva
dell'impegno contrattuale si riferisca a specifici beni
patrimoniali o a indici materiali atti a esprimere una certa
e determinata consistenza patrimoniale, ma è sufficiente che
dalla ridetta dichiarazione emerga l'impegno contrattuale a
prestare e a mettere a disposizione dell'ausiliata la
complessiva solidità finanziaria e il patrimonio
esperienziale, così garantendo una determinata affidabilità
e un concreto supplemento di responsabilità".
Sempre con riferimento all'avvalimento di garanzia si
evidenzia come "avendo esso ad oggetto l'impegno
dell'ausiliaria a garantire con proprie risorse economiche
l'impresa ausiliata, non è necessario che nel contratto
siano specificatamente indicati i beni patrimoniali o gli
indici materiali della consistenza patrimoniale
dell'ausiliaria, essendo sufficiente che questa si impegni a
mettere a disposizione la sua complessiva solidità
finanziaria e il suo patrimonio di esperienza".
Le sentenze sottolineano inoltre come "l'unico
responsabile dal punto di vista giuridico dell'esecuzione
del contratto è il concorrente aggiudicatario e che le
prestazioni in concreto svolte dall'ausiliaria sono comunque
riconducibili all'organizzazione da esso predisposta per
l'adempimento degli obblighi assunti nei confronti della
stazione appaltante".
Quindi, alla luce del quadro normativo ma soprattutto
giurisprudenziale, per rispondere al quesito formulato, si
sottolinea come:
- la prestazione contrattuale rimane in capo all'ausiliata
- il rispetto dell'avvalimento va verificato in concreto, anche in
fase esecutiva, accertando se sia dato il supporto
necessario (garanzie, coperture assicurative ecc…) indicate
in sede di gara.
Per le modalità di esecuzione di tale controllo la stazione
appaltante potrà chiedere specifiche giustificazioni,
chiarimenti e documentazione a corredo.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 89
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. V, 16.01.2020, n. 389 - Cons. Stato Sez. V,
02.12.2019, n. 8249 - Cons. Stato Sez. V, 25.07.2019, n.
5257 - Cons. Stato Sez. V, 14.06.2019, n. 4024 - Cons. Stato
Sez. V, 07.05.2019, n. 2917 - TAR Piemonte Torino Sez. I,
23.04.2019, n. 459 - Cons. Stato Sez. V, 26.11.2018, n. 6693
- TAR Lombardia Brescia Sez. I, 10.12.2018, n. 1195 - TAR
Marche, Sez. I, 26.06.2018, n. 471 (29.01.2020 -
tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: I
criteri di aggiudicazione dopo la legge 55/2019.
Domanda
Con diversi quesiti si pone la questione della chiara
identificazione dell’ambito di utilizzo del criterio minor
prezzo dopo le modifiche apportate con la legge 55/2019 e in
che modo questo possa essere considerato “residuale”
rispetto al criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa.
Riposta
Il codice dei contratti, come noto, ha superato l’equiordinazione
tra i criteri di aggiudicazione dell’appalto. In sostanza,
il RUP non ha più discrezionalità nella scelta dei criteri
ma deve attenersi alle indicazioni della norma e non v’è
dubbio che il criterio del “prezzo più basso" (ora
del minor prezzo) abbia sicuramente uno “spazio”
applicativo realmente residuale.
Ciò emerge, in particolare, dal comma 2 dell’articolo 95
laddove si puntualizza che gli appalti devono essere
aggiudicati “sulla base del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa individuata …”. Il comma
non cita neppure il criterio dell’offerta al minor prezzo
(quasi ad evidenziarne il carattere marginale).
Le disposizioni fondamentali, in tema di criteri sono quelle
previste nei commi 3/6 dell’articolo 95 del codice.
La norma “guida” per il RUP –come anche la
giurisprudenza ha chiarito– è quella del comma 3 in cui si
precisa che il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa costituisce il criterio esclusivo per
aggiudicare:
• i contratti relativi ai servizi sociali e di ristorazione
ospedaliera, assistenziale e scolastica, nonché ai servizi
ad alta intensità di manodopera purché non riconducibili ad
affidamenti entro i 40mila euro;
• i contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria e
architettura e degli altri servizi di natura tecnica e
intellettuale di importo pari o superiore a 40.000 euro;
Infine la nuova ipotesi introdotta con la legge sblocca
cantieri (legge 55/2019) che impone l’obbligo di utilizzare
il multicriterio per aggiudicare “i contratti di servizi
e le forniture di importo pari o superiore a 40.000 euro
caratterizzati da notevole contenuto tecnologico o che hanno
un carattere innovativo”.
In sostanza, la discriminante è fissata sulla microsoglia
(entro i 40mila euro) in cui il RUP gode di un’ampia
discrezionalità.
Della norma appena citata è bene rammentare come non debba
essere sottovalutata la questione dell’intensità della
manodopera.
Spesso il RUP, anche in presenza di attività che definisce “standardizzate”,
pur in presenza di intensa manodopera tende a “forzare”
l’applicazione del criterio del minor prezzo anche nel caso
in cui si opera nell’ambito di importo pari o superiore ai
40mila euro. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle
attività di guardiania/pulizia.
Pur vero che le attività possono ritenersi standardizzate è
però altrettanto vero che ci si trova in presenza di
contratti con altissima intensità di manodopera. E tale
indice deve essere inteso nel senso prospettato dalla norma
(art. 50, comma 1).
Per la norma citata, “i servizi ad alta intensità di
manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è
pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del
contratto”.
Si sconsiglia, evidentemente, ogni forzatura che avrebbe per
effetto quello di rendere annullabile gli atti di gara per
palese illegittimità.
In ogni caso, qualora si optasse per una “libera”
interpretazione non si può prescindere dall’esigenza di
specificare, fin dalla determinazione a contrarre, la
motivazione. Motivazione, come detto, che compete al RUP che
propone o decide quale criterio applicare (se anche
responsabile del servizio).
In ordine al criterio del minor prezzo, il comma 4 è stato
completamente riscritto dalla legge sblocca cantieri e
l’unica ipotesi residua in cui un problema di criteri si
pone con minore intensità è proprio quello delle
forniture/servizi con caratteristiche standardizzate per i
quali appalti, come detto, è possibile prescindere
dall’offerta economicamente più vantaggiosa solamente se non
insiste intensità di manodopera. In particolare la norma ore
prevede il minor prezzo “per i servizi e le forniture con
caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono
definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta
intensità di manodopera di cui al comma 3, lettera a). In
ogni caso, l’utilizzo del monocriterio esige una adeguata
motivazione".
In tema appare utile richiamare la recente conferma
intervenuta con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V,
del 20.01.2020 n. 444. In sentenza si legge che “il
legittimo ricorso al criterio del minor prezzo, ai sensi
dell’art. 95, comma 4, lett. b) del Codice dei contratti
pubblici, in deroga alla generale preferenza accordata al
criterio di aggiudicazione costituito dall’offerta
economicamente più vantaggiosa, si giustifica, tra altro,
per l’affidamento di forniture o di servizi che siano, per
loro natura, strettamente vincolati a precisi e inderogabili
standard tecnici o contrattuali ovvero caratterizzati da
elevata ripetitività e per i quali non vi sia quindi alcuna
reale necessità di far luogo all’acquisizione di offerte
differenziate (Cons. Stato, III, 13.03.2018, n. 1609;
02.05.2017, n. 2014)”
(29.01.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
dati concernenti bandi di concorso.
Domanda
Stiamo avviando una procedura di reclutamento di personale e
vorremmo avere un aggiornamento sugli obblighi di
pubblicazione su Amministrazione Trasparente.
Risposta
L’articolo 19, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 è
la disposizione di riferimento per la trasparenza in tema di
bandi di concorso. Tale norma era stata già modificata dal
decreto legislativo 25.05.2016, n. 97 ed è stata
recentemente integrata dall’art. 1, comma 145, della legge
27.12.2019, n. 160 (legge di Bilancio 2020).
L’attuale formulazione dell’art. 19, comma 1 prevede che
siano pubblicati:
• bandi di concorso per il reclutamento a qualsiasi titolo di
personale;
• i criteri di valutazione stabiliti dalla Commissione;
• le tracce delle prove (da intendersi come prova teorico/pratica;
scritta e orale);
• le graduatorie finali, aggiornate con l’eventuale scorrimento
degli idonei non vincitori.
La novità, dunque, riguardano l’obbligo di pubblicare le
tracce di tutte le prove e non più soltanto delle prove
scritte e l’introduzione dell’obbligo di pubblicare le
graduatorie finali aggiornate con l’eventuale scorrimento
degli idonei, anche alla luce della disposizione che ha
ripristinato la possibilità per gli enti di scorrere le
proprie e le altrui graduatorie (legge 27.12.2019, n. 160,
art. 1, comma 148).
Considerato che si tratta di dati personali “comuni”,
occorre far attenzione a pubblicare i soli dati necessari ad
individuare i soggetti; è sufficiente, dunque, indicare
solamente in nome e cognome, evitando luogo e data di
nascita, residenza o altro. Sull’argomento si richiamano le
Linee Guida del Garante privacy del 15.05.2014, pubblicate
in Gazzetta Ufficiale n. 134 del 12.06.2014, che forniscono
una casistica di dati eccedenti da non pubblicare e alcuni
suggerimenti per coniugare adeguatamente trasparenza e
privacy. Attenzione, in particolare, alle selezioni
riservate a disabili (vedere l’ordinanza del Garante del
14.03.2019 – doc web 9116773).
L’art. 1, comma 145, della legge n. 160/2019, modifica poi
il secondo comma dell’art. 19, del d.lgs. 33/2013,
specificando meglio che i dati di cui al comma precedente
devono essere costantemente aggiornati.
La nuova formulazione sopprime il riferimento ad un elenco
dei bandi previsto dal previgente comma 2. Nella
strutturazione della pagina di Amministrazione Trasparente >
Bandi di concorso si suggerisce, per una migliore
consultazione, una articolazione che distingua i bandi in
corso e quelli scaduti.
In merito alla decorrenza e alla durata della pubblicazione
non si dice nulla, pertanto, si applicano le disposizioni
dell’art. 8, del d.lgs. 33/2013 che prevedono la
tempestività di pubblicazione e il termine di cinque anni,
decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo.
Altra novità della legge di bilancio è l’introduzione del
comma 2-bis, con il quale si prevede che le amministrazioni
debbano pubblicare il collegamento ipertestuale dei dati, ai
fini dell’inserimento nella banca dati del Dipartimento
della funzione pubblica, di cui all’art. 4, comma 5, del
decreto legge 31.08.2013, n. 101, finalizzata al
monitoraggio delle graduatorie concorsuali.
Le modalità attuative di tale ultima disposizione saranno
definite con decreto ministeriale da adottarsi entro
sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge.
Come noto, nonché espressamente precisato nell’incipit
dell’art. 19, la pubblicazione su Amministrazione
Trasparente non sostituisce la pubblicità legale; pertanto
resta fermo l’obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale e del bando di concorso o di un avviso contenente
gli estremi del bando e la scadenza dei termini di
presentazione delle domande
(28.01.2020 - link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alla possibilità di ricostruire
fabbricati non più esistenti di cui non si conoscono le
altezze originarie - Comune di Spigno Saturnia (Regione
Lazio,
nota 23.01.2020 n. 62118 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alle procedure urbanistiche
necessarie per il mutamento di destinazione d'uso di un
edificio ex scolastico a laboratorio artigianale/produttivo
per prodotti tipici locali - Comune di Borbona (Regione
Lazio,
nota 23.01.2020 n. 62032 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Programma emendabile. Parola al consiglio sulle linee del sindaco. La facoltà non è esclusa in
base all'art. 42 del decreto 267/2000.
Si possono emendare le linee programmatiche presentate dal sindaco
al consiglio comunale ai sensi dell'articolo 46, comma 3, del dlgs n.
267/2000?
L'articolo 46, comma 3, del dlgs n. 267/2000 demanda allo statuto il
termine entro il quale il sindaco, previa audizione della giunta, presenta
al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da
realizzare nel corso del mandato. Il citato articolo prescrive che lo
statuto disciplini anche i modi di partecipazione del consiglio «alla
definizione, all'adeguamento e alla verifica periodica dell'attuazione delle
linee programmatiche da parte del sindaco... e dei singoli assessori».
Il
Consiglio nella sua funzione di indirizzo e controllo come enunciata dal
decreto legislativo n. 267/2000 è chiamato, dunque, a partecipare al programma
amministrativo sia nella fase iniziale che nelle fasi intermedie, con le
modalità indicate proprio nello statuto. Lo statuto di un comune stabilisce
che il sindaco, in sede di verifica annuale dello stato di attuazione dei
programmi, presenta al Consiglio una relazione sul grado di realizzazione
delle linee programmatiche nei termini di cui all'art. 193 del Tuoel.
Alla luce della normativa sopra richiamata, si ritiene che le linee
programmatiche non possano non essere «partecipate» tramite delibere quali
atti tipici con i cui gli organi collegiali manifestano la propria volontà.
Pertanto non si ritiene esclusa la facoltà di proporre emendamenti alle
linee programmatiche presentate dal sindaco, considerato che il disposto
recato dal citato articolo 42, comma 3, del dlgs n. 267/2000 assegna al
consiglio la competenza alla definizione, all'adeguamento e alla verifica
periodica del programma di governo
(articolo ItaliaOggi del 22.11.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Profili di illegittimità di atti degli enti locali.
L’istituto del cd. annullamento straordinario governativo
(art. 138 d.lgs. 267/2000) (parere
16.11.2017-544677, AL 37632/2017 - Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2019). |
URBANISTICA:
Oggetto: Parere in merito alla applicabilità dell'art.
17, comma 3, della l. 1150/1942 per modificare Ia
destinazione d'uso di un sub-comparto di un piano attuativo,
parzialmente attuato, di un piano regolatore delle aree e
dei nuclei di sviluppo industriale (Regione Lazio,
nota 15.11.2019 n. 922652 di prot.). |
aggiornamento al
27.01.2020 |
|
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
studio art. 45 CCNL.
Domanda
Vorremmo dei chiarimenti sui permessi per diritto allo studio di cui
all’art. 45 del CCNL Funzioni Locali del 21/05/2018.
In particolare, premesso che l’ente al momento non ha provveduto a
regolamentare l’istituto con proprio atto interno, si chiede se tali congedi
possano essere concessi al personale iscritto ad università telematiche e,
in subordine, quale documentazione debba acquisire l’ente al fine di
verificare il rispetto dei requisiti previsti dalla normativa.
Infine, si chiedono chiarimenti in merito ai criteri per la concessione nel
caso in cui, in corso d’anno, il numero di domande ecceda il limite fissato
dalla disposizione contrattuale.
Risposta
L’art. 45 del CCNL 21/05/2018 prevede in merito al diritto allo studio, la
concessione di permessi straordinari retribuiti, nella misura massima di 150
ore annue, concessi per partecipare a corsi destinati al conseguimento di
titoli di studio universitari, post universitari, di scuole di istruzione
primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate
o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di
studio legali o attestati professionali riconosciuti dall’ordinamento
pubblico e per sostenere i relativi esami.
La disposizione in esame ricalca in larga parte quanto già sancito dal
precedente art. 15 del CCNL 14.09.2000, pertanto si ritengono attualmente
vigenti gli orientamenti applicativi forniti già dall’ARAN nonché dal
Dipartimento della Funzione Pubblica.
Ciò posto, per quanto attiene la possibilità di riconoscere detti permessi a
dipendenti iscritti a università telematiche, il Ministero dell’Istruzione,
Università e Ricerca con nota del 20.05.2009 n. 9/207/RET/R, aveva
interpretato in senso favorevole l’utilizzo dei permessi sostenendo che “la
ratio della norma vada nel senso di garantire il diritto allo studio e
quindi le 150 ore debbano essere concesse anche agli studenti delle
università telematiche”.
Tuttavia, al fine di evitare l’uso distorto dell’istituto, il Dipartimento
della Funzione Pubblica, con Circolare n. 12/2011, pur confermando che non
vi sono preclusioni alla fruizione dei permessi studio da parte dei
dipendenti pubblici iscritti alle università telematiche, ha precisato che “la
fruizione risulta subordinata alla presentazione della documentazione
relativa all’iscrizione e agli esami sostenuti, nonché all’attestazione
della partecipazione personale del dipendente alle lezioni. In quest’ultimo
caso i dipendenti iscritti alle università telematiche dovranno certificare
l’avvenuto collegamento all’università telematica durante l’orario di lavoro”.
L’ARAN si è attestata sul predetto orientamento, stabilendo tuttavia che
l’attestato di partecipazione o frequenza assume un rilievo prioritario in
quanto certifica sia la circostanza dell’effettiva presenza alle lezioni sia
quella che le medesime lezioni si svolgono all’interno dell’orario di
lavoro.
A tal fine, l’autocertificazione potrebbe ammettersi nei casi in cui la PA
possa procurarsi direttamente, ex se, la certificazione necessaria;
contrariamente sarà necessaria una attestazione da parte della stessa
università, che certifichi che quel determinato dipendente ha seguito
personalmente, effettivamente e direttamente le lezioni trasmesse in via
telematica.
Per quanto attiene le modalità di concessione dei permessi, posto che si
consiglia all’ente di approvare apposita regolamentazione, si osserva quanto
segue:
1. l’ARAN ritiene non vi siano preclusioni circa la sostituzione di
un dipendente in corso d’anno, purché sia rispettato il tetto delle 150 ore.
Pertanto, se un dipendente termina l’utilizzo a marzo, potrà cedere le ore
residue per l’anno solare ad altro dipendente;
2. ove non sia prevista alcuna regolamentazione, come regola
generale prescritta dall’art. 45, qualora il numero delle domande presentate
dai lavoratori superi il limite massimo del 3% del personale a tempo
indeterminato in servizio all’inizio di ogni anno, l’attribuzione dei
permessi avviene sulla base dei criteri di priorità indicati nei commi 6, 7
e 8 (23.01.2020 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
personale di questo ente pubblico economico (Settore Sanità) chiede quali
siano gli attuali obblighi di pubblicazione degli incarichi, stipendi e
redditi dei dirigenti alla luce delle recenti vicende (interventi Anac,
Corte Costituzionale ecc…)?
La questione relativa agli obblighi di pubblicazione dei dati patrimoniali e
reddituali dei dirigenti (art. 14, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33) ha visto degli
sviluppi particolari che merita riepilogare.
Il D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 all'art. 14, comma 1-ter, dispone "Ciascun
dirigente comunica all'amministrazione presso la quale presta servizio gli
emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, anche in
relazione a quanto previsto dall'articolo 13, comma 1, del decreto-legge
24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n.
89. L'amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare
complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente".
L'autorità anticorruzione (ANAC) è intervenuta a chiarire nel tempo i
contenuti prescrittivi delle disposizioni in materia con:
- Del. 28.12.2016, n. 1310
- Del. 08.03.2017, n. 241
- Del. 12.04.del 2017, n. 382
La questione, attraverso il ricordo di dirigenti del Garante privacy è poi
giunta al vaglio della Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20 "dichiara
l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1-bis, del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il
diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella
parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di
cui all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche
per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo
conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di
indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per
i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)".
A tale pronuncia, non del tutto esaustiva è seguita la Del. 26.06.2019, n.
586 dell’ANAC del la quale ha dato vita a polemiche ed a un nuovo ricorso
(questa volta da parte di dirigenti del settore sanità) che ha portato alla
sua sospensione con il provvedimento del TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent.
21.11.2019, n. 7579.
A questa ordinanza è seguito un nuovo Comunicato 04.12.2019 del Presidente
ANAC circa gli effetti della sentenza e del citato complesso di
disposizioni.
La situazione, che rischiava di creare problemi interpretativi e richieste
di risarcimento di danni ha convinto il Governo ad inserire una disposizione
nel "Decreto Milleproroghe 2020", all'art. 1, comma 7, D.L.
30.12.2019, n. 162 il quale dispone "Fino al 31.12.2020, nelle more
dell'adozione dei provvedimenti di adeguamento alla sentenza della Cort.
Cost. 21.02.2019, n. 20, ai soggetti di cui all'articolo 14, comma 1-bis,
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, non si applicano le misure di cui agli artt. 46 e
47 del medesimo decreto.
Conseguentemente, con regolamento da adottarsi entro il 31.12.2020, ai sensi
dell'articolo 17, comma 1, della legge 23.08.1988, n. 400, su proposta del
Ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro della
giustizia, il Ministro dell'interno, il Ministro dell'economia e delle
finanze, il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale
e il Ministro della difesa, sentito il Garante per la protezione dei dati
personali, sono individuati i dati di cui al comma 1 dell'articolo 14 del
decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che le pubbliche amministrazioni e i
soggetti di cui all'articolo 2-bis, comma 2, del medesimo decreto
legislativo devono pubblicare con riferimento ai titolari amministrativi di
vertice e di incarichi dirigenziali, comunque denominati, ivi comprese le
posizioni organizzative ad essi equiparate, nel rispetto dei seguenti
criteri:
a) graduazione degli obblighi di pubblicazione dei dati di cui al
comma 1, lettere a), b), c), ed e), dell'articolo 14, comma 1, del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, in relazione al rilievo esterno dell'incarico
svolto, al livello di potere gestionale e decisionale esercitato correlato
all'esercizio della funzione dirigenziale;
b) previsione che i dati di cui all'articolo 14, comma 1, lettera
f), del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, siano oggetto esclusivamente
di comunicazione all'amministrazione di appartenenza;
c) individuazione dei dirigenti dell'amministrazione dell'interno,
degli affari esteri e della cooperazione internazionale, delle forze di
polizia, delle forze armate e dell'amministrazione penitenziaria per i quali
non sono pubblicati i dati di cui all'articolo 14 del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33, in ragione del pregiudizio alla sicurezza nazionale
interna ed esterna e all'ordine e sicurezza pubblica, nonché in rapporto ai
compiti svolti per la tutela delle istituzioni democratiche e di difesa
dell'ordine e della sicurezza interna ed esterna" di fatto sospendendo
tutti gli obblighi di pubblicazione relativi.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 14
- Del. 08.03.2017, n. 241 dell’ANAC - Del. 12.04.2017, n. 382 dell’ANAC -
Del. 26.06.2019, n. 586 dell’ANAC - Comunicato 04.12.2019 - D.L. 30.12.2019,
n. 162, art. 1
Riferimenti di giurisprudenza
Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20
Documenti allegati
Del. 28.12.2016, n. 1310
dell’ANAC - TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent. 21.11.2019, n. 7579
(22.01.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI SERVIZI: Verifica
aggiudicatario affidamento servizio assicurativo.
Domanda
Siamo un ente di piccole dimensioni, ed a breve dovremmo bandire una gara
per il servizio di assicurazione obbligatoria per i veicoli del comune.
Come verificare i requisiti di idoneità e di capacità economico-finanziaria
o tecnica-professionale previsti per la partecipazione ad una procedura come
quella che verrà indetta? È possibile utilizzare il requisito del minor
prezzo?
Risposta
Data la complessità della materia assicurativa si consiglia all’ente di
affidarsi ad un broker, per la valutazione e gestione dei rischi attinenti
alla specifica realtà comunale, per l’analisi delle polizze e
predisposizione di adeguati capitolati, per l’assistenza nella redazione
della documentazione di gara, sia con riferimento ai requisiti speciali da
richiedere agli operatori, che nella scelta dei criteri di aggiudicazione.
Servizio, tra l’altro, che non comporta oneri diretti per l’ente pubblico.
Passando nello specifico al quesito, per quanto riguarda la verifica dei
requisiti di idoneità, intesa quale abilitazione all’esercizio dell’attività
assicurativa relativa al ramo di rischio oggetto della procedura, è
possibile accedere al sito dell’IVASS, ed in particolare alla sezione
dedicata agli albi
www.ivass.it/operatori/imprese/albi/index.html.
In merito ai requisiti speciali di capacità economico e/o tecnica, sono
ritenuti di regola, quali elementi significativi nella selezione di un
qualificato operatore economico:
• una data quantificazione di una raccolta premi assicurativi
complessiva nel ramo “RC Autoveicoli” nel precedente triennio finanziario;
• l’esercizio, sempre nel precedente triennio finanziario, di
servizi assicurativi analoghi a quello oggetto della procedura (rischio
appunto RC Auto).
Per accertare la regolarità della dichiarazione resa in sede di gara con
riferimento all’ammontare della raccolta premi [1]
in alternativa alla richiesta all’operatore economico è possibile accedere
al sito di ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici), e
prendere visione della pubblicazione “Premi
del lavoro diretto italiano”.
Il secondo requisito andrà verificato mediante acquisizione d’ufficio di
originale o copia conforme dei certificati rilasciati
dall’amministrazione/ente pubblico contraente, con l’indicazione del tipo di
polizza, effetto e scadenza della polizza e premio annuo lordo, o richiesta
all’operatore aggiudicatario di analoghi documenti nel caso di committente
privato.
Sulla scelta del criterio di aggiudicazione, si ritiene legittimo il minor
prezzo, sia per importi infra 40.000 che superiori, ai sensi dell’art. 36,
co. 9-bis, del codice, non rientrando, la prestazione in oggetto, tra quelle
fattispecie descritte nell’art. 95, co. 3, del d.lgs. 50/2016.
Preme sottolineare l’opportunità di non prevedere l’esclusione automatica
delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore
alla soglia di anomalia individuata ai sensi del comma 2 e ss. dell’art. 97,
del codice, stante l’interesse transfrontaliero che può presentare un
servizio assicurativo.
---------------
[1] La verifica va effettata per gruppo assicurativo di appartenenza
(22.01.2020 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI: Obblighi
di pubblicità e trasparenza in materia di enti pubblici.
Domanda
L’articolo 22, del d.lgs. 33/2013, detta gli obblighi di pubblicità e
trasparenza che hanno, anche i comuni, in materia di enti pubblici
istituiti, vigilati o finanziati dall’amministrazione medesima.
I tre requisiti citati nella norma devono intendersi in modo cumulativo o
alternativo?
Risposta
Il decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, all’articolo 22, disciplina gli “Obblighi
di pubblicazione dei dati relativi agli enti pubblici vigilati, e agli enti
di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in
società di diritto privato".
L’Albero della Trasparenza – allegato “1” alla delibera ANAC n. 1310 del
28.12.2016 – prevede una specifica sottosezione di Livello 1, nel link
Amministrazione trasparente, denominata “Enti controllati”, dove
adempiere ai seguenti obblighi:
Comma 1
Tutti gli enti devono pubblicare, in formato tabellare aperto:
a) l’elenco degli enti pubblici, comunque denominati, istituiti,
vigilati o finanziati dall’amministrazione medesima, nonché di quelli per i
quali l’amministrazione abbia il potere di nomina degli amministratori
dell’ente, con l’elencazione delle funzioni attribuite e delle attività
svolte in favore dell’amministrazione o delle attività di servizio pubblico
affidate;
b) l’elenco delle società di cui detiene direttamente quote di
partecipazione anche minoritaria indicandone l’entità, con l’indicazione
delle funzioni attribuite e delle attività svolte in favore
dell’amministrazione o delle attività di servizio pubblico affidate;
c) l’elenco degli enti di diritto privato, comunque denominati, in
controllo dell’amministrazione, con l’indicazione delle funzioni attribuite
e delle attività svolte in favore dell’amministrazione o delle attività di
servizio pubblico affidate. Ai fini delle presenti disposizioni sono enti di
diritto privato in controllo pubblico gli enti di diritto privato sottoposti
a controllo da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti
costituiti o vigilati da pubbliche amministrazioni nei quali siano a queste
riconosciuti, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di
nomina dei vertici o dei componenti degli organi;
d) una o più rappresentazioni grafiche che evidenziano i rapporti
tra l’amministrazione e gli enti;
d-bis) i provvedimenti in materia di costituzione di società a
partecipazione pubblica, acquisto di partecipazioni in società già
costituite, gestione delle partecipazioni pubbliche, alienazione di
partecipazioni sociali, quotazione di società a controllo pubblico in
mercati regolamentati e razionalizzazione periodica delle partecipazioni
pubbliche, previsti dal decreto legislativo adottato ai sensi dell’articolo
18 della legge 124/2015.
Comma 2
Per ciascuno degli enti di cui alle lettere da a) a c) del comma 1 sono
pubblicati i dati relativi a:
• ragione sociale;
• misura della eventuale partecipazione dell’amministrazione;
• durata dell’impegno;
• onere complessivo a qualsiasi titolo gravante per l’anno sul
bilancio dell’amministrazione;
• numero dei rappresentanti dell’amministrazione negli organi di
governo;
• trattamento economico complessivo a ciascuno di essi spettante;
• risultati di bilancio degli ultimi tre esercizi finanziari.
Devono essere pubblicati i dati relativi agli incarichi di amministratore
dell’ente e il relativo trattamento economico complessivo.
Comma 3
Nel sito dell’amministrazione deve essere inserito il collegamento (tramite
un apposito link) con i siti istituzionali dei soggetti di cui al comma 1.
Comma 4
Nel caso di mancata o incompleta pubblicazione dei dati relativi agli enti
di cui al comma 1, è vietata l’erogazione in loro favore di somme a
qualsivoglia titolo da parte dell’amministrazione interessata, ad esclusione
dei pagamenti che le amministrazioni sono tenute ad erogare a fronte di
obbligazioni contrattuali per prestazioni svolte in loro favore da parte di
uno degli enti e società indicati nelle categorie di cui al comma 1, lettere
da a) a c).
Comma 6
Le disposizioni dell’articolo 22 non trovano applicazione nei confronti
delle società, partecipate da amministrazioni pubbliche, con azioni quotate
in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione europea, e
loro controllate.
Per gli enti che non provvedono alla pubblicazione dei dati su indicati o li
pubblicano incompleti, l’articolo 47, comma 2, del decreto prevede una
specifica sanzione amministrativa, a carico del responsabile della
pubblicazione consistente nella decurtazione dal 30 al 60 per cento
dell’indennità di risultato ovvero nella decurtazione dal 30 al 60 per cento
dell’indennità accessoria percepita dal responsabile della trasparenza. La
stessa sanzione si applica agli amministratori societari che non comunicano
ai soci pubblici il proprio incarico ed il relativo compenso entro trenta
giorni dal conferimento ovvero, per le indennità di risultato, entro trenta
giorni dal percepimento [1];
Delineato il quadro normativo complessivo in cui ci si muove, venendo alla
questione specifica evidenziata nell’istanza, si risponde al quesito,
specificando che i tre requisiti richiesti dall’art. 22, comma 1, lettera
a), del d.lgs. n. 33/2013, ossia enti pubblici, comunque denominati, “istituiti”,
“vigilati” e “finanziati” dalla amministrazione, sono da
intendersi come alternativi e non cumulativi fra di loro. Ad esempio, i
comuni dovranno provvedere alla pubblicazione dei dati relativi agli enti
pubblici da loro vigilati, anche se gli stessi non risultino finanziati
dalle amministrazioni [2].
Per ciò che concerne, invece, gli obblighi di pubblicità e trasparenza delle
società ed enti in controllo pubblico, occorre fare riferimento all’articolo
2-bis del d.lgs. 33/2013, nel testo introdotto dall’articolo 3, comma 2, del
d.lgs. 97/2016. Con tale disposizione è stato ridisegnato l’ambito
soggettivo di applicazione della disciplina sulla trasparenza, rispetto alla
precedente indicazione normativa, contenuta nell’abrogato articolo 11 del
d.lgs. 33/2013.
I destinatari degli obblighi di trasparenza sono ora ricondotti a tre
categorie di soggetti:
1) pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2 del d.lgs.
165/2000, ivi comprese le autorità portuali nonché le autorità
amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione,
destinatarie dirette della disciplina contenuta nel decreto (art. 2-bis, co.
1);
2) enti pubblici economici, ordini professionali, società in
controllo pubblico, associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato,
sottoposti alla medesima disciplina prevista per le P.A. «in quanto
compatibile» (art. 2-bis, co. 2);
3) società a partecipazione pubblica, associazioni, fondazioni ed
enti di diritto privato soggetti alla medesima disciplina in materia di
trasparenza prevista per le P.A. «in quanto compatibile» e «limitatamente
ai dati e ai documenti inerenti all’attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o dell’Unione europea» (art. 2-bis,
co. 3) [3].
---------------
[1] Comma così sostituito dall’articolo 1, comma 163, della 27.12.2019,
n. 160 (legge di stabilità 2020);
[2] Per ulteriori approfondimento: Linee guida ANAC, delib. n. 1310/2016,
Paragrafo 5.4; FAQ Trasparenza 10.1.
[3] Per gli obblighi di pubblicità e trasparenza delle società ed enti in
controllo pubblico si rinvia alla delib. ANAC n. 1134 dell’08/11/2017,
recante: Nuove linee guida per l’attuazione della normativa in materia di
prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli
enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche
amministrazioni e degli enti pubblici economici (21.01.2020 - tratto da e link a
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ENTI LOCALI - VARI:
Lanterne volanti.
Domanda
Nell’ambito di una cerimonia privata si ha l’intenzione di lanciare le cd “lanterne
volanti”. È consentito? E se sì, sono necessarie delle autorizzazioni?
Risposta
La lanterna volante è un manufatto realizzato con un corpo di carta che
avvolge una struttura rigida al cui interno vi è una fonte di calore. L’aria
calda all’interno del corpo, avendo una densità minore rispetto all’esterno,
fa innalzare la lanterna. Le lanterne in commercio rimangono in volo libero
per circa 10 minuti dopodiché, allo spegnimento della fiamma, ritornano al
suolo.
È evidente che tali oggetti volanti sono potenzialmente pericolosi per due
motivi: possono propagare incendi e possono generare pericolo per l’ambiente
e il traffico aereo.
Per il primo motivo l’accensione di tali manufatti è soggetto alla licenza
di cui art. 57 TULPS, a prescindere dal fatto che l’evento abbia carattere
pubblico o privato.
Per il secondo motivo è necessario inoltrare un’istanza all’autorità
aeroportuale (direzione aeroportuale ENAC – Ente Nazionale Aviazione Civile)
che valuta la compatibilità dell’evento con il traffico aereo. Si rimanda
alla circolare ENAC – serie Air Traffic Management (ATM) del 16.12.2010 e in
particolare all’allegato A) che consiste nel modello da compilare completo
di note e indicazioni tecniche.
Pertanto la licenza di cui art. 57 TULPS deve richiamare il documento “validato”
dell’ENAC. La circolare del Ministero dell’Interno del 06.12.2012 e la nota
della Questura di Modena del 11.02.2013 sono esaustive in questo senso.
Infine, nel caso si debba intervenire –ci si riferisce alle forze di Polizia
locale– e si accerti l’assenza di autorizzazione di cui art. 57 TULPS
comprensiva della relativa valutazione ENAC, risulta d’obbligo, in forza
all’art. 703 del codice penale (accensioni ed esplosioni pericolose),
procedere ai sensi del codice di procedura penale con l’immediata
interruzione dei lanci ed il sequestro delle lanterne ancora a terra.
Si ritiene inoltre doveroso avvisare senza ritardo, anche tramite la locale
Stazione dei Carabinieri, gli organi di sicurezza aerea competente per
territorio (Direzione Aeroportuale/ENAC) (17.01.2020 - tratto da e
link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Aumento orario temporaneo dipendente part-time.
Domanda
È possibile aumentare il tempo del lavoro di un dipendente a part-time per
un determinato periodo?
Risposta
Il quesito pone in rilievo le disposizioni contrattuali in materia di
rapporto di lavoro a tempo parziale, oggi disciplinate dagli articoli 53, 54
e 55 del CCNL 21/05/2018. Richiede inoltre qualche breve considerazione in
merito al rispetto dei vincoli in materia di spesa di personale.
In linea generale, si ritiene possibile l’incremento dell’ampiezza
percentuale di un rapporto di lavoro costituito a part-time, a condizione,
innanzitutto, che vi sia l’accordo del dipendente. In tal caso, occorrerà
rifarsi alle regole contrattuali in materia, ovvero procedere alla stipula
di un nuovo contratto individuale di lavoro; esso dovrà contenere, ai sensi
dell’art. 53, comma 11, del CCNL anzi richiamato, l’indicazione dell’inizio
della nuova articolazione oraria del rapporto, la durata della prestazione
lavorativa, la collocazione/articolazione temporale puntuale dell’orario e,
naturalmente (ai sensi del comma 12, del tutto opportunamente a parere
nostro) la durata del contratto medesimo. Le parti si daranno reciprocamente
atto che, al raggiungimento del predetto termine contrattuale, torneranno a
osservare la disciplina del contratto individuale di lavoro a part-time
originario, costituito a tempo indeterminato.
Sotto il profilo dei vincoli alla spesa di personale, l’incremento dei costi
derivante dall’aumento delle ore lavorative sarà certamente e pienamente
rilevante ai fini del rispetto del limite di cui all’art. 1, comma 557 e
segg., della legge 296/2006 e s.m.i.
Dal punto di vista della capacità assunzionale invece si ritiene, per
giurisprudenza sufficientemente consolidata presso la Corte dei conti, che
il semplice incremento orario di un rapporto di lavoro a part-time, senza il
raggiungimento della consistenza di un rapporto a tempo pieno, non configuri
una nuova assunzione, e non debba pertanto essere accompagnato dall’utilizzo
di facoltà assunzionale, a condizione che non vengano poste in essere
fattispecie potenzialmente elusive della lettera e dello spirito della
norma, ovvero (detto in modo meno ortodosso) che l’incremento non sia tale
da mascherare un full time dietro percentuali di part-time prossime al 100%.
Varie sezioni regionali della Corte dei conti (tra le altre, si apprezzi la
Sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Campania,
deliberazione n. 338/2016/PAR) hanno rimarcato quanto la scelta
dell’individuazione di tale “limite di ragionevolezza” sia del tutto rimessa
all’autonoma valutazione, e conseguente assunzione di responsabilità, da
parte dell’ente.
In ogni caso, in ipotesi di incremento della percentuale di part-time in via
temporanea –con “rientro” del dipendente alla quota originaria
decorso qualche mese– a parere di chi scrive, difficilmente può
concretizzare un utilizzo di facoltà assunzionali, giacché è una scelta, di
fatto, a tempo determinato.
Per completezza, si segnala la possibilità dell’utilizzo di altro strumento
contrattuale, che parrebbe poter rispondere, in alternativa e in modo
probabilmente più lineare, alle esigenze di copertura di una vacanza per un
periodo piuttosto breve: trattasi del lavoro supplementare, regolato
dall’art. 55, commi da 2 a 6, del ridetto CCNL 21/05/2018.
Stabilisce il contratto che, con l’accordo del lavoratore (che potrebbe però
rifiutare la prestazione unicamente per comprovate esigenze lavorative, di
salute o familiari), l’ente possa richiedere al dipendente a part-time la
prestazione di ore di lavoro supplementari (non si tratta, si presti
attenzione, di lavoro straordinario) nel limite del 25% della durata
dell’orario di lavoro contrattualmente stabilito, con riferimento al mese.
Rilevato su base settimanale, tale previsione consentirebbe di richiedere al
dipendente, ad esempio il cui orario sia articolato su 24 ore, fino a 30 ore
complessive, dovendosi semplicemente contenere l’orario giornaliero (giorno
per giorno) entro quello previsto come orario ordinario di lavoro a tempo
pieno del giorno di riferimento (esempio: giornata con orario a tempo pieno
di 6 ore / dipendente a part-time con orario di 4 ore / lavoro supplementare
fino a ulteriori 2 ore).
Il lavoro supplementare è ammesso (comma 3) per specifiche e comprovate
esigenze organizzative o in presenza di particolari situazioni di difficoltà
derivanti da concomitanti assenze di personale non prevedibili e improvvise.
Le ore di lavoro supplementare, entro il limite massimo del 25% suddetto,
sono retribuite al dipendente con un compenso pari alla retribuzione oraria
globale di fatto individuata dall’art. 10, comma 2, lett. d), del CCNL
09/05/2006 (“importo della retribuzione individuale per 12 mensilità cui
si aggiunge il rateo della 13^ mensilità nonché l’importo annuo della
retribuzione variabile e delle indennità contrattuali percepite nel mese o
nell’anno di riferimento, ivi compresa l’indennità di comparto di cui
all’art. 33 del CCNL del 22.01.2004”), maggiorata del 15%, e tali importi
sono posti a carico del fondo per il lavoro straordinario.
Chi scrive ritiene che, attesa la brevissima durata del periodo di
assenza/difficoltà organizzativa, rispetto al quale la scelta della stipula
di un nuovo contratto a part-time incrementato potrebbe apparire forzata
anche in considerazione dell’incertezza in merito all’esatto protrarsi della
stessa, ove l’ente ravvisi compiutamente la sussistenza dei requisiti
contrattuali su richiamati, la soluzione da ultimo analizzata possa
costituire una valida alternativa (16.01.2020 - tratto da e link a
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APPALTI:
Informazioni sulle procedure in formato tabellare anno 2020.
Domanda
Sono correttamente adempiute le disposizioni di cui all’art. 1, co. 32,
legge 190/2012 qualora si proceda all’elaborazione nel solo mese di gennaio
della tabella riassuntiva in formato digitale aperto relativamente agli
appalti affidati nell’anno precedente?
Risposta
Si ritiene sia parzialmente adempiuta la disposizione richiamata nel
quesito. Per avere un quadro completo degli adempimenti occorre richiamare
oltre all’art. 1, co. 32, della legge 190/2012 [1],
l’art. 37, co. 1, lett. a), del d.lgs. 33/2013, la Delibera ANAC n. 39 del
20.01.2016 [2],
nonché la Delibera ANAC n. 1310 del 2016 completa di allegati
[3].
L’art. 3 della sopra citata delibera ANAC 39/2016 prevede la pubblicazione e
l’aggiornamento tempestivo sul proprio sito web istituzionale, nella sezione
“Amministrazione trasparente”, sotto-sezione di primo livello “Bandi
di gara e contratti”, delle informazioni indicate nell’art. 1, co. 32,
legge 190/2012, come elencate nella nota a pie di pagina, relative ai
procedimenti di scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture
e servizi, a cui deve associarsi ovviamente il codice CIG di riferimento.
Tali informazioni devono essere riportate in formato tabellare (allegato
alla Delibera ANAC n. 1310/2016).
Il comma due del sopra citato art. 3 stabilisce che entro il 31 gennaio di
ogni anno le Amministrazioni pubblicano in tabelle riassuntive rese
liberamente scaricabili in formato digitale standard aperto, le informazioni
di cui al comma precedente, riferite:
• alle procedure avviate nel corso dell’anno precedente, anche se
in pendenza di aggiudicazione (ad esempio anno 2019). In quest’ultimo caso
verranno riportate le informazioni minime essenziali, quali CIG, struttura
proponente, oggetto del bando e procedura di scelta del contraente. Nelle
successive annualità si procederà all’aggiornamento e integrazione dei dati
mancanti;
• alle procedure in corso di esecuzione nel periodo preso in
considerazione (ad esempio procedure bandite in anni precedenti ma in corso
di esecuzione nell’anno 2019);
• alle procedure i cui contratti nel periodo annuale di riferimento
hanno subito modifiche e/o aggiornamenti (ad esempio i pagamenti effettuati
nell’anno 2019 relativi a contratti derivanti da gare bandite in anni
precedenti).
Nella prassi amministrativa di molti enti, compatibilmente con gli strumenti
informatici a disposizione, si procede alla pubblicazione nella sezione
Amministrazione trasparente di due distinte tabelle. Una prima che riguarda
i dati di cui all’art. 3, co. 1, relativa ai CIG staccati nell’anno di
riferimento, ed una seconda, da trasmettersi ad ANAC, nella quale sono
indicati i CIG presi nell’anno oggetto di comunicazione, nonché riproposti
quelli relativi ai contratti derivanti da gare bandite in anni precedenti ma
in corso di esecuzione, oppure riferiti a contratti modificati o aggiornati
nell’anno di interesse.
Per quanto riguarda la scadenza del 31.01.2020 e alle modalità di
trasmissione del file relativo alle informazioni del 2019, si rinvia alle
nuove modalità pubblicate sul sito dell’ANAC al
seguente link.
---------------
[1] Con riferimento ai procedimenti di cui al comma 16, lettera b), del
presente articolo, le stazioni appaltanti sono in ogni caso tenute a
pubblicare nei propri siti web istituzionali: la struttura proponente;
l’oggetto del bando; l’elenco degli operatori invitati a presentare offerte;
l’aggiudicatario; l’importo di aggiudicazione; i tempi di completamento
dell’opera, servizio o fornitura; l’importo delle somme liquidate. Le
stazioni appaltanti sono tenute altresì a trasmettere le predette
informazioni ogni semestre alla commissione di cui al comma 2. Entro il 31
gennaio di ogni anno, tali informazioni, relativamente all’anno precedente,
sono pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un
formato digitale standard aperto che consenta di analizzare e rielaborare,
anche a fini statistici, i dati informatici. Le amministrazioni trasmettono
in formato digitale tali informazioni all’Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, che le pubblica nel
proprio sito web in una sezione liberamente consultabile da tutti i
cittadini, catalogate in base alla tipologia di stazione appaltante e per
regione.
[2]
pagina web linkata
[3]
pagina web linkata (15.01.2020 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
Personale di questo Comune chiede di conoscere il regime delle graduatorie
dei pubblici concorsi a seguito delle novità normative introdotte dalla
legge di bilancio 2020.
In particolare, esiste ancora il divieto di utilizzo per posti diversi da
quelli messi a concorso per le graduatorie dal 2019?
La legge di bilancio 2020 (L. 27.12.2019, n. 160) ha introdotto delle novità
rispetto alla disciplina limitativa introdotta con la L. 30.12.2018, n. 145.
Il comma 147 dell'art. 1 ha previsto che le amministrazioni possano "utilizzare
le graduatorie dei concorsi pubblici, fatti salvi i periodi di vigenza
inferiori previsti da leggi regionali, nel rispetto dei seguenti limiti:
a) le graduatorie approvate nell'anno 2011 sono utilizzabili fino
al 30.03.2020 previa frequenza obbligatoria, da parte dei soggetti inseriti
nelle graduatorie, di corsi di formazione e aggiornamento organizzati da
ciascuna amministrazione, nel rispetto dei princìpi di trasparenza,
pubblicità ed economicità e utilizzando le risorse disponibili a
legislazione vigente, e previo superamento di un apposito esame-colloquio
diretto a verificarne la perdurante idoneità;
b) le graduatorie approvate negli anni dal 2012 al 2017 sono
utilizzabili fino al 30.09.2020;
c) le graduatorie approvate negli anni 2018 e 2019 sono
utilizzabili entro tre anni dalla loro approvazione".
Il successivo comma ha disposto la abrogazione dei commi da 361 a 362-ter e
il comma 365 dell'art. 1, L. 30.12.2018, n. 145, sono abrogati.
Fra le disposizioni abrogate vi è quella contenente l'inciso per cui le
graduatorie "sono utilizzate esclusivamente per la copertura dei posti
messi a concorso nonché di quelli che si rendono disponibili, entro i limiti
di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando il numero
dei posti banditi e nel rispetto dell'ordine di merito, in conseguenza della
mancata costituzione o dell'avvenuta estinzione del rapporto di lavoro con i
candidati dichiarati vincitori", con cioè determinando il ripristino
delle possibilità di utilizzo delle graduatorie ante riforma.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 27.12.2019, n. 160, art.
1, comma 147 - L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 148 - L. 27.12.2019, n.
160, art. 1, comma 149 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 361 - L.
30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma
362-bis - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362-ter - L. 30.12.2018, n.
145, art. 1, comma 365
(15.01.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quote rosa nelle giunte. Anche negli enti
sotto i 3.000 abitanti. Assessori esterni al consiglio per garantire la
parità di genere
I comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti
sono tenuti al rispetto delle quote rosa nella composizione delle rispettive
giunte?
Il comma 137 della legge n. 56/2014 dispone che «nelle giunte dei comuni
con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere
rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico».
Per quanto concerne i comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti,
occorre tenere conto che ai sensi dell'art. 6, comma 3, del decreto
legislativo n. 267/2000, come modificato dalla legge n. 215/2012, è previsto
che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare
condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza
di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del
comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi
dipendenti.
L'art. 2, comma 1, lett. b), della stessa legge n. 215/2012 ha modificato
l'art. 46, comma 2, del Tuel disponendo che il sindaco ed il presidente
nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del
principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di
entrambi i sessi».
La normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come
modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità
costituzionale al principio della promozione della pari opportunità tra
donne e uomini.
Pertanto si ritiene che per i comuni con popolazione inferiore a 3.000
abitanti debbano trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati
articoli 6, comma 3 e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e
nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari
opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto
legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e
dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non
hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a
rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di
pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali.
Per quanto concerne la possibilità di pervenire alla nomina di assessori
esterni, si richiama quanto osservato dalla scrivente amministrazione con
circolare n. 6508 del 24.04.2014, nella quale gli enti locali sono stati
invitati a valutare l'opportunità di procedere alle modifiche statutarie
funzionali alla piena attuazione del principio di parità di genere
introducendo la possibilità di ricorrere alla nomina di assessori privi
dello status di consigliere comunale.
In proposito, risulta che, ai sensi dello statuto del comune che ha
prospettato la questione, è prevista la possibilità di nominare gli
assessori «anche al di fuori dei componenti del Consiglio fra i cittadini in
possesso dei requisiti di compatibilità ed eleggibilità alla carica di
Consigliere comunale». Pertanto, il sindaco dell'ente potrebbe valutare la
possibilità di applicare tale disposizione statutaria al fine di conformare
la composizione della giunta alle previsioni legislative.
Si fa presente, a tale riguardo, che il Tar Abruzzo, con sentenza n. 105 del
2019, ha ritenuto fondato il ricorso avverso un provvedimento di nomina
della giunta in quanto non sarebbe stata effettuata «la necessaria
attività istruttoria volta ad acquisire la disponibilità alla nomina di
persone di sesso femminile anche tra cittadini al di fuori dei componenti
dell'organo consiliare» (articolo ItaliaOggi del
10.01.2020). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità del sindaco.
Nei confronti del sindaco, il cui fratello risulta
appaltatore di lavori di manutenzione di un immobile comunale, si configura
la causa di incompatibilità di cui all’art. 61, comma 1-bis, del D.Lgs.
267/2000 secondo cui “non possono ricoprire la carica di sindaco o di
presidente di provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero
parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive
amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali o
provinciali o in qualunque modo loro fideiussore".
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di una causa di
incompatibilità per il sindaco atteso che suo fratello, titolare di una
ditta individuale, è risultato aggiudicatario di una gara indetta dall’Ente
per l’esecuzione di lavori di manutenzione di un fabbricato di proprietà
comunale.
Con riferimento al quesito posto viene in rilievo la norma di cui
all’articolo 61, comma 1-bis, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
ai sensi della quale: “Non possono ricoprire la carica di sindaco o di
presidente di provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero
parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle rispettive
amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali o
provinciali o in qualunque modo loro fideiussore”.
Il Ministero dell’Interno, in un proprio parere
[1], ha rilevato che: “Solo
per coloro che intendono ricoprire la carica di sindaco o di presidente
della provincia, è prevista un'ipotesi d'incompatibilità, specificamente
loro dettata dall'art. 61, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 267/2000, che
impedisce di ricoprire le due cariche a coloro che hanno ascendenti o
discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprano nelle
rispettive amministrazioni il posto di appaltatore di lavori o di servizi
comunali. La previsione si aggiunge a quella comune di cui all'art. 63,
comma 1, n. 2, del T.U.O.E.L. e colpisce i citati amministratori anche in
assenza di un vantaggio diretto o indiretto che possa essere imputato loro
personalmente, ma rimanga esclusivo del parente che gestisce l'appalto o il
servizio, a maggior salvaguardia del principio d'imparzialità dell'azione
amministrativa e per porre al riparo coloro che svolgono una pubblica
funzione dal sospetto di essere influenzati da interessi confliggenti con
quelli del comune”
[2].
Attesa la chiarezza del dettato letterale della disposizione in esame, si
ritiene che si configuri l’indicata causa di incompatibilità per il sindaco
il cui fratello (parente in linea collaterale di secondo grado) risulta
appaltatore di lavori di manutenzione di un immobile comunale. Tale
conclusione rimane ferma indipendentemente dalle modalità di svolgimento
della gara, alla quale il fratello poteva, com’è avvenuto, regolarmente
partecipare e prescinde, altresì, dalla considerazione che l’applicazione di
una norma siffatta potrebbe creare, di fatto, seri disagi e difficoltà nel
reperimento di imprese che svolgano determinati lavori o servizi in realtà
comunali dalle ridotte dimensioni demografiche e connotate da una peculiare
posizione geografica.
Per completezza espositiva si ricorda che il comma 1-bis dell’articolo 61 TUEL è stato aggiunto dall’articolo 7, comma 1, lett. b-bis), n. 3), del
decreto legge 29.03.2004, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.05.2004, n. 140, a seguito della dichiarazione di
incostituzionalità, avvenuta con sentenza 31.10.2000, n. 450,
dell’articolo 61, n. 2, TUEL nella parte in cui prevedeva la medesima
fattispecie quale causa generatrice di ineleggibilità alla carica di
sindaco
[3].
---------------
[1] Ministero dell’Interno, parere del 25.05.2010.
[2] Prosegue l’indicato parere rilevando che: “Per tutti gli altri
amministratori non è posta invece analoga disposizione, per cui la
possibilità di conflitto fra gli interessi del consigliere e quelli del
Comune non può essere presunta dall'esistenza di un rapporto di parentela
con l'amministratore di un'impresa che opera in servizi o appalti dell'Ente,
ma va accertata adeguatamente”.
[3] La Corte costituzionale, in altri termini, aveva cancellato
dall’ordinamento una previsione legislativa che aveva finito per considerare
più grave il fatto che il candidato alla carica di sindaco avesse un
rapporto di parentela o affinità con un appaltatore (e, quindi, causa di
ineleggibilità, ex articolo 61, n. 2, TUEL testo precedente) rispetto a
quello di essere egli stesso appaltatore in proprio di lavori o servizi
comunali (e, quindi, causa di incompatibilità, ex articolo 63, comma 1, num.
2, TUEL).
Nel rispetto di quanto deciso dalla Corte Costituzionale è successivamente
intervenuto il decreto legge 80/2004 che ha aggiunto, come sopra già
riportato, il comma 1-bis dopo il comma 1 dell’articolo 61 del D.Lgs.
267/2000 (09.01.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Richiesta di fatturato e obbligo di motivazione.
Domanda
Nel programma biennale delle forniture e servizi, la nostra stazione
appaltante ha previsto l’avvio di una serie di servizi nell’annualità 2020.
I RUP stanno predisponendo gli atti di gara ed in assenza di specifiche
indicazioni ci si interroga sul fatturato che può essere richiesto agli
appaltatori. E’ possibile avere una generale ricognizione in merito?
Risposta
In tema di richiesta di un fatturato specifico (al fine della dimostrazione
dei requisiti di affidabilità economica e finanziaria) dispone il comma 4
dell’articolo 83 del codice dei contratti, nel caso di specie la lettera a)
in cui si prevede che le stazioni appaltanti, nel bando di gara, possono
richiedere che “gli operatori economici abbiano un fatturato minimo
annuo, compreso un determinato fatturato minimo nel settore di attività
oggetto dell’appalto”.
La disciplina sul tema è completata dal successivo quinto comma in cui
–primo periodo (limitando l’analisi)- chiarisce che “Il fatturato minimo
annuo (…) non può comunque superare il doppio del valore stimato
dell’appalto, calcolato in relazione al periodo di riferimento dello stesso,
salvo in circostanze adeguatamente motivate relative ai rischi specifici
connessi alla natura dei servizi e forniture, oggetto di affidamento. La
stazione appaltante, ove richieda un fatturato minimo annuo, ne indica le
ragioni nei documenti di gara”.
Dalla disposizione ultima riportata emerge che sul RUP grava un doppio onere
motivazionale, il primo nel caso in cui venga indicato un fatturato minimo
annuo, il secondo –ben più intenso– nel caso in cui il fatturato richiesto
superi il doppio del valore stimato dell’appalto.
Alla luce di quanto, il primo suggerimento, ovvio, è che si rispettino le
indicazioni cogenti del dettato normativo e che il fatturato richiesto non
superi mai il doppio del valore dell’appalto salvo che insistano
oggettivamente motivazioni specifiche. Ciò appare ovvio perché, francamente,
appare anche difficile trovare motivazioni –che, si ripete, devono essere
esplicitate nel bando di gara– che giustifichino la richiesta di un
fatturato “eccessivo”.
In tema si può anche richiamare il recente intervento dell’ANAC espresso con
il parere n. 1046/2019.
Anche l’autorità anticorruzione ribadisce che in base al chiaro dettato
normativo, pur vero che le stazioni appaltanti “possono richiedere, a
dimostrazione della solidità economico-finanziaria degli operatori, un
importo di fatturato minimo annuo e di fatturato minimo specifico non
superiore al doppio dell’importo posto a base di gara” ma “va
sottolineato”, prosegue la deliberazione “che, in ogni caso, detta
richiesta deve essere sempre accompagnata da una specifica motivazione”.
Inoltre “nell’ipotesi in cui l’importo richiesto superi il doppio
dell’importo posto a base di gara", come previsto dalla norma e chiarito
dal Consiglio di Stato, è necessario che siano fornite “motivazioni
relative a rischi specifici connessi alla natura dei servizi e forniture,
oggetto di affidamento” (Cons. Stat., sez. III, 19.01.2018, n. 357).
Nel caso trattato dall’autorità anticorruzione dette motivazioni erano del
tutto generiche e sono apparse limitative della libera concorrenza,
pertanto, nel parere il procedimento avviato dalla stazione appaltante è
stato considerato non conforme al dettato normativo.
A nulla, tra l’altro, è valso il richiamo –da parte della stazione
appaltante interessata– che il fatturato richiesto facesse riferimento non a
servizi identici ma a servizi analoghi (a dimostrare la volontà di non
limitare la concorrenza). Queste “aperture” non esonerano il RUP dal
chiarire, fin dall’avvio della procedura, la motivazione che induce a
richiedere un fatturato superiore al doppio rispetto al valore della base
d’asta (08.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Misure da adottare nel caso di indagini penali a carico di propri dipendenti.
Domanda
Il dirigente dell’ufficio contratti e un dipendente dello stesso ufficio
sono indagati rispettivamente per abuso d’ufficio e corruzione. Vorrei saper
cosa deve fare l’Amministrazione e, in particolare, il Responsabile della
Prevenzione della Corruzione
Risposta
Premesso che il verificarsi di un episodio di malamministrazione
potenzialmente configurabile come fatto penalmente rilevante, impone al RPCT
una riflessione di carattere generale circa l’adeguatezza delle misure di
prevenzione della corruzione nell’area a rischio “contratti”, la
prima valutazione che l’Amministrazione si trova a compiere è quella
relativa all’opportunità/obbligo di procedere al trasferimento del
dipendente ad altro incarico.
Si tratta della misura cosiddetta della rotazione straordinaria. È bene
chiarire, innanzitutto, che si sta parlando di una misura preventiva,
cautelare e non sanzionatoria. Il dipendente su cui grava il sospetto di una
condotta di natura corruttiva viene rimosso dall’ufficio in cui presta
l’attività, al fine di prevenire il danno all’immagine di imparzialità
dell’Amministrazione.
Per capire se sussista un obbligo di provvedere in tal senso o se, invece,
si tratti di una misura facoltativa, occorre analizzare la normativa (art.
3, comma 1, della legge 27.03.2001, n. 97 e art. 16, c. 1, lettera l-quater
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165) e le indicazioni ANAC, contenute
nella delibera n. 215 del 26.03.2019.
Inoltre, occorre compiere i necessari distinguo in ragione sia del diverso
inquadramento dei dipendenti che della natura dei delitti di cui sono
indagati.
L’art. 3, comma 1, della legge 97/2001, disciplina il trasferimento del
dipendente per il quale è disposto il giudizio per alcuni dei delitti
previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater
e 320 del codice penale.
Per come è formulata la disposizione “… lo trasferisce ad ufficio
diverso…” la misura è da intendersi come obbligatoria, al momento in cui
il dipendente è rinviato a giudizio per uno dei reati indicati, tra i quali
è contemplata la corruzione ma non l’abuso d’ufficio.
L’art. 16, comma 1, lettera l-quater, del d.lgs. 165/2001, contempla, tra i
compiti e i poteri dei dirigenti generali, il monitoraggio “delle
attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte
nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la
rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o
disciplinari per condotte di natura corruttiva”.
Tale disposizione è evidentemente meno precisa, sia in ordine alla natura
del reato di cui è sospettato il dipendente che al momento del procedimento
penale in cui occorre intervenire.
Nell’aggiornamento al PNA del 2018 [1],
l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) interpretava la norma in maniera
restrittiva sul piano del momento rilevante per applicare la rotazione
straordinaria, individuandolo nella richiesta di rinvio a giudizio formulata
dal pubblico ministero al termine delle indagini preliminari.
Successivamente, con la delibera n. 215 del 26.03.2019, l’ambito di
applicazione della rotazione straordinaria si è esteso, anticipando il
momento dell’adozione della misura cautelare a quello in cui il soggetto
viene iscritto nel registro delle notizie di reato, di cui all’art. 355
c.p.p. sulla considerazione che il termine “procedimento penale”
comprende, anche, la fase delle indagini preliminari.
In merito alla nozione di “condotta di natura corruttiva” invece, l’ANAC
precisa nella citata delibera i reati per i quali la misura è obbligatoria
(esempio: corruzione), distinguendoli dagli altri delitti contro la P.A.
(abuso d’ufficio) per i quali è, evidentemente, facoltativa.
È necessario, pertanto, che non appena l’Amministrazione venga a conoscenza
di indagini penali a carico di un dipendente, acquisisca le informazioni
utili a valutare se e come applicare la rotazione straordinaria.
Nella valutazione si deve tener conto della gravità delle imputazioni e
dello stato degli accertamenti compiuti dall’autorità giudiziaria. In ogni
caso, ciò che l’ANAC raccomanda è di adottare comunque un provvedimento in
cui si dia conto dell’applicazione o meno della misura e di motivarlo
adeguatamente.
Con riferimento al caso proposto, pertanto, si potrebbero fare valutazioni
diverse in relazione alla tipologia di reato di cui sono sospettati (abuso
d’ufficio e corruzione) e tenere conto della fase del procedimento penale.
Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione (RPCT) deve, inoltre,
segnalare la questione al Responsabile dell’Ufficio Procedimenti
disciplinari (UPD), al quale spetta l’avvio del procedimento disciplinare,
con l’eventuale sospensione, in attesa della definizione del procedimento
penale, secondo le disposizioni previste, da ultimo, nell’articolo 62 del
CCNL Funzioni locale del 21.05.2018.
In ragione della prosecuzione del procedimento, dell’eventuale rinvio a
giudizio e dell’esito del processo penale, la valutazione in merito alle
misure da adottare dovrà essere ripetuta. Inoltre per il dirigente occorre
valutare, nel caso di sentenza di condanna, le conseguenze in termini di
inconferibilità, ai sensi dell’art. 3, del decreto legislativo 08.04.2013,
n. 39.
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[1] Delibera ANAC n. 1074 del 13/11/2018 (07.01.2020 - tratto
da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Paletti alle registrazioni.
Non esiste un diritto a filmare le sedute. Il presidente del consiglio
valuta caso per caso. Necessario un regolamento.
È
possibile registrare e diffondere le immagini delle sedute di consiglio
comunale pur in assenza di apposita previsione regolamentare, riconoscendo
poteri autorizzativi al presidente del consiglio?
Il vigente ordinamento conferisce al consiglio comunale autonomia funzionale
e organizzativa (art. 38, comma 3, Tuel) entro la quale si riconduce la
potestà di regolare, con apposite norme, ogni aspetto attinente al
funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del
dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici
di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale che da
parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che
assistono alla sedute pubbliche.
In questo quadro di riferimento, norme interne possono regolare, pertanto,
nell'ambito della disciplina dello svolgimento delle adunanze, anche la
registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi; ciò sia
per gli uffici di supporto alla verbalizzazione (art. 97, comma 4, lett. a)
del decreto legislativo n. 267/2000), che per i consiglieri e i cittadini che
assistono alla seduta; lo stesso regolamento può riservare
all'amministrazione il compito di registrare le sedute con mezzi audiovisivi
escludendo da tale possibilità altri soggetti.
La pubblicità delle sedute non implica, infatti, la facoltà di registrazione
ma la libera presenza di chi abbia interesse ad assistervi (v. sentenza
della Corte di cassazione, sez. I, n. 5128/2001 ove si afferma la
legittimità di un regolamento consiliare che vieta di introdurre nella sala
del consiglio apparecchi di riproduzione audiovisiva, se non previa
autorizzazione).
La giurisprudenza (in particolare, la sentenza n. 826 del 16/03/2010 del Tar
per il Veneto) afferma che in assenza di un'apposita disciplina
regolamentare adottata dall'ente, non possono essere garantiti i diritti
previsti dal codice sul trattamento dei dati personali di cui al dlgs 196
del 2003 e successive modifiche, non essendo consentito al
sindaco-presidente estemporanei assensi, alla videoregistrazione.
È stato ritenuto, invece, immediatamente concedibile da parte del presidente
del consiglio comunale, nei confronti di emittenti televisive nazionali e
locali l'autorizzazione a riprendere, in via non sistematica, gratuitamente
e senza diritti di esclusiva, talune brevi fasi delle sedute del consiglio
comunale in quanto da tale autorizzazione non conseguono obblighi di sorta
per l'amministrazione comunale quale «titolare» o «responsabile» del
trattamento dei personali.
Non sussiste, quindi, un autonomo e indiscriminato diritto a procedere alla
registrazione che consenta di superare gli eventuali divieti posti
dall'amministrazione.
Sulla materia, anche il Garante per la protezione dei dati personali con
nota del 23.04.2003 ha ritenuto che l'amministrazione comunale possa,
con apposita norma regolamentare, porre delle condizioni e dei limiti alle
riprese ed alla diffusione televisiva delle riunioni del consiglio comunale,
prevedendo, in quella sede, l'onere di informare preventivamente i presenti
nell'aula consiliare dell'esistenza delle telecamere e della successiva
diffusione delle immagini, ovvero il divieto di divulgare informazioni sullo
stato di salute, nonché le ipotesi in cui eventualmente limitare le riprese
per assicurare la riservatezza dei soggetti presenti o oggetto del
dibattito.
Con precedenti pareri, questo ministero aveva ritenuto la possibilità per il
presidente del consiglio di regolare e valutare la registrazione caso per
caso, seppur in assenza di espressa previsione regolamentare, nell'esercizio
dei già richiamati poteri di «direzione dei lavori e delle attività del
consiglio», di cui all'art. 39, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000
in stretta correlazione alle esigenze di ordinato svolgimento dell'attività
consiliare ed in relazione all'oggetto dei lavori previsti all'ordine del
giorno.
Tuttavia alla luce anche degli orientamenti giurisprudenziali e del Garante
per la protezione dei dati personali, si ritiene, invece, opportuno un
approfondimento della problematica che non può non condurre alla necessità
della previa adozione di norme regolamentari entro le quali il Presidente
può esercitare le proprie prerogative (articolo ItaliaOggi del 03.01.2020). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Pubblicazione provvedimenti attributivi vantaggi economici su
“Amministrazione trasparente”.
Il D.Lgs. n. 33/2013 prevede, per finalità di
trasparenza, l’obbligo di pubblicazione nella sezione “Amministrazione
trasparente” degli atti di concessione di vantaggi economici di qualunque
genere erogati in favore di soggetti pubblici o privati di importo superiore
a mille euro.
Sotto il profilo dei rapporti tra trasparenza e privacy, il D.Lgs. n.
33/2013 rappresenta la base giuridica per la diffusione di dati necessari
per compiti di interesse pubblico o connessi all’esercizio di pubblici
poteri, la quale, secondo la normativa in materia di tutela dei dati
personali, può essere solo la legge ovvero, nei casi previsti dalla legge,
il regolamento (art. 6, Regolamento (UE) n. 679/2016; art. 2-ter, D.Lgs. n.
196/2003, come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018).
Peraltro, la presenza di un obbligo di legge, che imponga la pubblicazione
sui siti web per finalità di trasparenza, non esime dal rispetto dei
principi generali applicabili al trattamento dei dati personali, contenuti
nell’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016, che, in particolare, esprime
il principio di minimizzazione dei dati - rilevante in ordine
all’individuazione dei dati da diffondere - secondo cui i dati personali
devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto
alle finalità per le quali sono trattati.
Il Comune chiede un parere in ordine alla pubblicità da dare ai
provvedimenti di concessione di vantaggi economici a privati, non correlati
–specifica– ad uno stato di disagio economico-sociale. In particolare, il
Comune chiede quali dati vadano pubblicati, avuto riguardo alla normativa in
tema di trasparenza e privacy, e con quali mezzi dare pubblicità.
L’art. 12, c. 1, L. n. 241/1990, prevede che “La concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati
sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni
procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e
delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”
[1].
Con riferimento a detta norma, la giurisprudenza ha più volte affermato che
qualsiasi genere di sovvenzione, contributo o sussidio a soggetti privati o
pubblici deve essere preceduto dalla predeterminazione e dalla pubblicazione
da parte delle pp.aa. procedenti dei criteri e delle modalità cui le stesse
si dovranno attenere, al fine di soddisfare le esigenze di trasparenza e di
imparzialità dell’azione amministrativa, nell’assegnare vantaggi economici
ai soggetti amministrati
[2].
Un tanto premesso e venendo agli aspetti rilevati dall’Ente, si esprimono
alcune considerazioni in relazione agli obblighi di pubblicazione previsti
dal D.Lgs. n. 33/2013 per i provvedimenti di concessione di vantaggi
economici, di cui all’art. 12, L. n. 241/1990, e a come gli stessi debbano
rapportarsi con la normativa in materia di protezione dei dati personali
delle persone fisiche, di cui al Regolamento (UE) n. 679/2016.
In particolare, l’art. 26, c. 2, del D.Lgs. n. 33/2013 stabilisce l’obbligo
di pubblicazione degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi,
sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere erogati
in favore di soggetti pubblici o privati di importo superiore a mille euro.
Il successivo art. 27 stabilisce le informazioni che devono essere
pubblicate, tra cui: il nome del soggetto beneficiario, l’importo del
vantaggio, il titolo giuridico dell’attribuzione, la modalità seguita per
l’individuazione del beneficiario (comma 1). Dette informazioni sono
riportate nell’ambito della sezione “Amministrazione trasparente” (comma 2)
[3].
Pertanto, in relazione al quesito dell’ente circa la modalità di
pubblicazione dei provvedimenti di cui si tratta, si osserva che per
espressa previsione di legge, gli obblighi di pubblicazione relativi ai
provvedimenti di attribuzione di vantaggi economici sono adempiuti
attraverso il sito istituzionale della p.a., nella sezione “Amministrazione
trasparente”
[4].
Naturalmente –in relazione alla tematica dei rapporti tra trasparenza e
privacy– per gli obblighi di pubblicazione nei siti istituzionali della p.a.
previsti dalla normativa vigente per finalità di trasparenza vale il
principio per cui la pubblicazione deve avvenire nel rispetto dei limiti
alla trasparenza posti dalle norme sulla protezione dei dati personali delle
persone fisiche, di cui al Regolamento (UE) n. 679/2016.
Per meglio chiarire, va fatta una necessaria premessa: l’art. 6 (Liceità del
trattamento), par. 3, del Regolamento comunitario, prevede che la base su
cui si fonda il trattamento dei dati necessari per l’esecuzione di un
compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri
deve essere stabilita dal diritto dell’Unione o dal diritto dello Stato
membro cui è soggetto il titolare del trattamento.
In attuazione di tale previsione, il legislatore italiano, con l’art. 2-ter
[5], c. 1, del D.Lgs. n. 196/2003 (inserito dal D.Lgs. n. 101/2018),
introducendo le “disposizioni più specifiche per adeguare l'applicazione
delle norme” del regolamento (art. 6, par. 2, Regolamento comunitario),
ha stabilito che la base giuridica prevista per il trattamento di dati
necessari per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso
all’esercizio di pubblici poteri possa essere solo la legge ovvero, nei casi
previsti dalla legge, il regolamento (c. 1).
Inoltre, il medesimo art. 2-ter, tra le modalità di trattamento, ha definito
diffusione “il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati,
in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o
consultazione”.
Il complesso delle disposizioni del D.Lgs. n. 33/2013 che impongono obblighi
di pubblicazione costituisce la base giuridica per la diffusione di dati
personali per compiti di interesse pubblico o connessi all’esercizio di
pubblici poteri.
Peraltro, la presenza di un obbligo di legge, che imponga la pubblicazione
sui siti web per finalità di trasparenza, non esime dal rispetto dei
principi generali applicabili al trattamento dei dati personali, oggi
contenuti nell’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016
[6].
In particolare, viene in considerazione il principio di minimizzazione dei
dati, di cui all’art. 5, par. 1, lett. c), secondo il quale i dati personali
devono essere “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario
rispetto alle finalità per le quali sono trattati”
[7], e che rileva in
ordine all’individuazione dei dati da diffondere
[8].
A tal proposito e in relazione alla domanda del Comune su quali dati vadano
pubblicati, il Garante della privacy ha affermato che non risulta
giustificato diffondere, tra l’altro, dati quali, ad esempio, l’indirizzo di
abitazione o la residenza, il codice fiscale di persone fisiche, le
coordinate bancarie dove sono accreditati i contributi o i benefici
economici (codici IBAN), la ripartizione degli assegnatari secondo le fasce
dell’indicatore della situazione economica equivalente-Isee, l’indicazione
di analitiche situazioni reddituali, di condizioni di bisogno o di peculiari
situazioni abitative
[9].
Con specifico riferimento all’operatività dell’obbligo di pubblicazione di
cui agli artt. 26 e 27, D.Lgs. n. 33/2013, il Garante ha affermato che detta
normativa prevede la pubblicazione obbligatoria dei soli nominativi dei
soggetti destinatari di un contributo di natura economica superiore a mille
euro
[10]. Di conseguenza, vanno oscurati i dati identificativi eccedenti,
che non è giustificato diffondere, indicati sopra.
Infine –pur preso atto della precisazione dell’Ente sulla non afferenza dei
provvedimenti di cui si tratta a situazioni di disagio economico e/o sociale
dei destinatari– si richiama comunque l’attenzione sulle indicazioni del
Garante secondo cui, qualora siano state formate graduatorie di ordine di
priorità degli aventi diritto sulla base del reddito, andranno oscurati
dagli elenchi pubblicati i dati personali dei soggetti la cui collocazione
(nei primi posti) potrebbe rivelare situazioni di disagio economico
[11].
---------------
[1] L’art. 26, c. 1, D.Lgs. n. 33/2013, impone la pubblicazione degli atti
con i quali sono determinati, ai sensi dell’art. 12, L. n. 241/1990, i
criteri e le modalità cui le amministrazioni devono attenersi per la
corresponsione di vantaggi economici.
[2] Cfr. Cons. St., sez. V, 23.03.2015, n. 1552; si veda anche: TAR Lazio
Roma, sez. II-quater, 13.01.2017, n. 622, secondo cui i principi in materia
di sovvenzioni pubbliche posti dall’art. 12, L. n. 241/1990, implicano il
rispetto della par condicio tra i possibili destinatari; TAR Liguria Genova,
sez. II, 15.02.2012, n. 293, secondo cui la pubblicazione, oltre a
soddisfare esigenze di trasparenza ed imparzialità, offre saldo appiglio
normativo per ritenere immediatamente impugnabili i criteri in forza dei
quali l’amministrazione ripartisce le risorse.
[3] Il comma 4 dell’art. 26 del D.Lgs. n. 33/2013 esclude la pubblicazione
dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti
di concessione dei benefici economici, qualora gli atti e i documenti da
pubblicare siano idonei a disvelare informazioni relative allo stato di
salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli
interessati.
Su questo aspetto –che l’Ente precisa non interessare il caso di specie– si
rinvia alla lettura della nota di questo Servizio
prot. n. 3221/2019.
[4] Ai sensi dell’art. 9, D.Lgs. n. 33/2013, ai fini della piena
accessibilità delle informazioni pubblicate, nella home page dei siti
istituzionali è collocata un’apposita sezione denominata “Amministrazione
trasparente”, al cui interno sono contenuti i dati, le informazioni e i
documenti pubblicati ai sensi della normativa vigente.
[5] Rubricato “Base giuridica per il trattamento di dati personali
effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso
all’esercizio di pubblici poteri”.
[6] Cfr. Andrea d’Agostino, Luca R. Barlassina, Vincenzo Colarocco,
Commentario al Regolamento UE 2016/679 e al Codice della privacy aggiornato,
TopLegal Academy, 2019, p. 76.
[7] Sul piano dell’ordinamento interno, è espressione del principio di
minimizzazione l’art. 7-bis del D.Lgs. n. 33/2013, il quale, in tema di
pubblicazione di dati personali nella sezione “Amministrazione trasparente”
di siti delle amministrazioni pubbliche, prevede al c. 4, che “Nei casi in
cui norme di legge o di regolamento prevedano la pubblicazione di atti o
documenti, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non
intelligibili i dati personali non pertinenti o, se sensibili o giudiziari,
non indispensabili rispetto alle specifiche finalità di trasparenza della
pubblicazione”.
In materia di tutela dei dati personali, assume altresì rilievo il principio
di limitazione della conservazione, correlato, come quello della
minimizzazione, alle finalità del trattamento (cfr. Andrea d’Agostino, Luca
R. Barlassina, Vincenzo Colarocco, op. cit., pp. 58 e 77).
In proposito, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione,
sentenza del 13.05.2014, n. 131, ha rilevato che l’illiceità del trattamento
“può derivare non soltanto dal fatto che tali dati siano inesatti, ma anche
segnatamente dal fatto che essi siano inadeguati, non pertinenti o eccessivi
in rapporto alle finalità del trattamento, che non siano aggiornati, oppure
che siano conservati per un arco di tempo superiore a quello necessario” (v.
in particolare i punti 92 e seguenti).
Questi principi sono stati ribaditi dalla Corte costituzionale, sentenza
21.02.2019, n. 20, la quale ha affermato che i principi di derivazione
europea “sanciscono l’obbligo, per la legislazione nazionale, di rispettare
i criteri di necessità, proporzionalità, finalità, pertinenza e non
eccedenza nel trattamento dei dati personali, pur al cospetto dell’esigenza
di garantire, fino al punto tollerabile, la pubblicità dei dati in possesso
della pubblica amministrazione”.
[8] Andrea d’Agostino, Luca R. Barlassina, Vincenzo Colarocco, op. cit., p.
77.
[9] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento
15.05.2014, n. 243, recante: “Linee guida in materia di trattamento di dati
personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato
per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da
altri enti obbligati”, parte I, par. 9.e.
[10] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento
18.05.2016, n. 228. In quella sede il Garante ha inoltre precisato che va
esclusa –in ogni caso– la diffusione di dati indentificativi (di tutti i
dati identificativi, compreso il nome, n.d.r.) delle persone destinatarie
dei contributi da cui è possibile ricavare informazioni relative alla
situazione di disagio economico (e allo stato di salute).
[11] Cfr. provvedimento del Garante n. 228/2016 cit. (23.12.2019 -
link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI:
Contributo ad un Comitato di Iniziative Locali.
La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed
ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere
a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione
da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai
rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni
stesse devono attenersi.
Ogni “elargizione” di denaro pubblico deve essere, infatti, ricondotta a
rigore e trasparenza procedurale e l’amministrazione agente non può
considerarsi, quindi, operante in piena e assoluta libertà dovendo
rispettare i canoni costituzionali di uguaglianza e i principi stabiliti
negli atti fondamentali dell’ente.
Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di concedere un
contributo straordinario ad un Comitato Iniziative Locali che ha
organizzato, in collaborazione con altre realtà locali, la “festa
dell’Avvento”.
Più in particolare l’Ente riferisce dell’esistenza di una mozione della
minoranza consiliare che propone all’amministrazione comunale di «concedere
un contributo straordinario al CIL (quale Capofila) di € 400,00 per
l’organizzazione della tradizionale giornata “Festa dell’Avvento” in data 08.12.2019», precisando, altresì, “che ciò avvenga
straordinariamente
[1]
(e se tecnicamente possibile) d’Ufficio in deroga alla
procedura del Regolamento sopra citato
[2]”.
Il Comune rileva che l’importo proposto coinciderebbe con la somma versata
dal Comitato per il pagamento della tassa per l’occupazione di spazi ed aree
pubbliche (TOSAP). Si precisa, al riguardo, nella mozione che “tra le voci
di spesa maggiormente impattanti per gli Organizzatori c’è il pagamento a
favore del Comune di XX della Tassa di Occupazione del Suolo Pubblico che
ammonta a € 400,00 circa”.
Da ultimo si chiede, altresì, se, atteso che il Presidente del Comitato in
riferimento è coniuge di un consigliere comunale, si configuri per quest’ultimo
un obbligo di astensione dal partecipare a eventuali sedute consiliari che
riguardassero la fattispecie in oggetto.
Quanto al fatto che l’importo proposto quale entità del contributo
“corrisponda” a quello versato dal Comitato a titolo di TOSAP si rileva come
non sia possibile collegare giuridicamente le due somme trattandosi di
importi afferenti a due titoli giuridici differenti e non “compensabili” tra
loro.
In altri termini, fermo l’avvenuto versamento della tassa per l’occupazione
di spazi ed aree pubbliche, per quanto concerne la possibilità per il Comune
di concedere un contributo per l’iniziativa in oggetto risulta necessario
valutare la normativa di riferimento.
Al riguardo si osserva che la legge 07.08.1990, n. 241
[3]
all’articolo 12
(Provvedimenti attributivi di vantaggi economici) prevede che: “1. La
concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e
l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti
pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle
amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti,
dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1
deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al
medesimo comma 1”.
Il Comune si è dotato di un proprio Regolamento per la concessione di
contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale ad
associazioni, enti, altre istituzioni
[4]
il quale, prevede un procedimento
ad istanza di parte che necessita di una domanda “sottoscritta dal
presidente o dal legale rappresentante dell’ente”
[5]: la richiesta di
contributo, pertanto, pare non poter essere concessa d’ufficio
dall’Amministrazione comunale.
Si consideri, al riguardo, che, come rilevato dalla Corte dei Conti, «il
legislatore ha circondato tale materia di particolari cautele e garanzie procedimentali: ogni “elargizione” di denaro pubblico deve esser infatti
ricondotta a rigore e trasparenza procedurale e l’amministrazione agente non
può considerarsi, quindi, operante in piena e assoluta libertà e, nel caso
specifico, deve rispettare i canoni costituzionali di uguaglianza e i
principi stabiliti negli atti fondamentali dell’Ente»
[6].
Ancora la giurisprudenza contabile ha affermato che: “Le attività di
soggetti terzi possono essere sostenute da un ente locale, laddove
rappresentino una modalità alternativa e mediata di erogazione del servizio
pubblico, siano svolte nell'interesse della comunità e siano ritenute utili
per la stessa -in attuazione, quindi, dell'art. 118 Cost.- fermo restando
lo scrupoloso rispetto delle forme di trasparenza e d'imparzialità, queste
ultime presidiate dalla disciplina ex art. 12, L. n. 241 del 1990 e all'art.
26, D.Lgs. n. 33 del 2013”
[7].
Per completezza espositiva si segnala che il Comitato potrebbe valutare se
vi sia la possibilità di ottenere in altro modo contributi o sovvenzioni a
supporto dell’attività svolta. Al riguardo si rileva che la legge regionale
03.05.2019, n. 7 recante “Misure per la valorizzazione e la promozione
delle sagre e feste locali e delle fiere tradizionali”, all’articolo 4,
prevede che: “1. Al fine di valorizzare e sostenere manifestazioni ed
eventi pubblici e/o di pubblico spettacolo, organizzati da Comuni, Enti
privati, Fondazioni e Associazioni senza fini di lucro, Pro Loco e
Parrocchie, da tenersi in luoghi chiusi o all'aperto, la Regione istituisce
un fondo per l'abbattimento delle spese sostenute dai soggetti organizzatori
per lo svolgimento dell'evento finanziato e finalizzate:
a) all'assistenza tecnica necessaria per la presentazione della
documentazione richiesta dalla legge;
b) all'acquisto di attrezzature o materiali necessari a garantire
le normative in materia di sicurezza e salute;
c) all'acquisto di allestimenti;
d) all'acquisizione di servizi o al noleggio di allestimenti
necessari a garantire le normative in materia di sicurezza e salute ovvero
la copertura di oneri assicurativi.
2. Per le finalità di cui al comma 1, la Regione riconosce in favore dei
soggetti organizzatori un contributo annuo fino ad un importo massimo di
3.000 euro, indipendentemente dal numero di eventi o manifestazioni da essi
organizzati nel corso dell'anno.
3. Il contributo di cui al presente articolo è concesso anche in favore
degli eventi e delle manifestazioni di cui all'articolo 2.
4. Per l'erogazione dei contributi di cui al presente articolo, la struttura
competente è quella in materia di Autonomie locali e sicurezza”.
Come specificato sul sito internet della Regione Friuli Venezia Giulia
[8]
“la domanda di contributo deve essere presentata a posteriori, quindi per
eventi già realizzati. La concessione del contributo è disposta secondo
l'ordine cronologico di presentazione delle domande medesime”.
Sarà cura del Comitato, nel caso intenda valutare la possibilità di
ottenimento di un contributo per l’attività svolta, assumere ogni altra
informazione necessaria ai fini della presentazione della domanda nel
rispetto delle condizioni richieste dalla legge e dall’Avviso pubblicato sul
sito istituzionale della Regione Friuli Venezia Giulia cui si rinvia
[9].
Con riferimento all’ultima questione posta, relativa alla sussistenza o meno
di un obbligo di astensione per il consigliere comunale che è coniuge del
Presidente del Comitato dal prendere parte alla discussione ed alla
votazione di delibere vertenti sulla fattispecie in riferimento, si ritiene
che, qualora il consiglio comunale si pronunciasse sulla questione in
essere, verrebbe in rilievo il disposto di cui all’articolo 78, comma 2, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale recita: “Gli
amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, devono astenersi dal
prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo
di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere
generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e
specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado”.
Come rilevato dalla giurisprudenza, «l'obbligo di astensione per
incompatibilità del consigliere comunale, [è] espressione del principio
generale di imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni
Pubblica Amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora
che la propria azione»
[10]. Ancora, si è affermato che: «L'obbligo di
astensione degli amministratori locali costituisce principio di carattere
generale ex art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti locali), che
non ammette deroghe o eccezioni, ricorrendo ogni qualvolta sussista una
correlazione diretta fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della
deliberazione, anche se la votazione potrebbe non avere altro apprezzabile
esito e la scelta fosse in concreto la più utile e opportuna per l'interesse
pubblico.»
[11]
Alla base della scelta legislativa che impone l’obbligo di astensione per le
deliberazioni riguardanti questioni per le quali potrebbe esservi un
interesse personale degli amministratori o dei loro parenti o affini sino al
quarto grado (tra cui rientrerebbe il coniuge) “non è la sfiducia sulle
capacità del singolo consigliere di saper decidere anche contro il proprio
personale interesse, ma piuttosto la convinzione che il soggetto, al quale è
affidata la cura di un interesse pubblico, deve essere posto in condizione
di operare senza condizionamenti di sorta, realizzabili evidentemente anche
attraverso la mera presenza dell’interessato nell’aula del Consiglio”
[12].
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[1] Si precisa che, secondo quanto contenuto nel Regolamento per la
concessione di contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale
ad associazioni, enti, altre istituzioni dell’Ente il concetto di
straordinarietà è riferito alla possibilità di concedere contributi per
iniziative intraprese da soggetti ulteriori rispetto alle associazioni
locali, in deroga ai requisiti di ammissibilità di cui all’articolo 4 del
regolamento medesimo oppure, in altra accezione, alle domande di contributo
“per manifestazioni e iniziative di particolare rilevanza, che hanno
carattere straordinario e non ricorrente”.
Il contributo in oggetto non rientra in nessuna delle due tipologie sopra
descritte: non nella prima atteso che il Comitato organizzatore dell’evento
possiede, a quanto risulta, i requisiti di cui all’articolo 4, primo comma,
n. 1 del regolamento comunale; non nella seconda trattandosi di un
contributo ricorrente: nella mozione si legge, infatti, che «nella giornata
dell’8 dicembre, com’è ormai consolidata tradizione da qualche anno, il CIL
[…], con la collaborazione del […] hanno organizzato la “Festa
dell’Avvento”».
[2] Trattasi, come specificato, del Regolamento per la concessione di
contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale ad
associazioni, enti, altre istituzioni.
[3] Recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi”.
[4] Sia per attività ordinarie che per singole iniziative.
[5] Articolo 7, primo comma, del Regolamento per la concessione di
contributi, sussidi, vantaggi economici, patrocinio comunale ad
associazioni, enti, altre istituzioni.
[6] Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere n.
260 del 20.04.2016.
[7] Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
deliberazione n. 146 del 17.04.2019.
[8] Si rinvia al
seguente link relativo a “Contributi per il sostentamento delle
spese di assistenza tecnica e acquisizione di servizi (art. 4 l.r. 7/2019).
[9] Si veda il link indicato in nota 8.
[10] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.09.2014, n. 4806.
[11] TAR Calabria, Reggio Calabria, sentenza del 09.01.2014, n. 18.
[12] TAR Toscana, Sez. I, sentenza del 06.06.2007, n. 830 (20.12.2019
- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
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